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1 LINEE DI INDIRIZZO PER IL CONTRASTO ALLA GRAVE EMARGINAZIONE ADULTA IN ITALIA A cura di fio.PSD (Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora) Versione bozza 19/Novembre/2014

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LINEE DI INDIRIZZO PER IL CONTRASTO ALLA

GRAVE EMARGINAZIONE ADULTA IN ITALIA

A cura di fio.PSD (Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora)

Versione bozza

19/Novembre/2014

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LINEE DI INDIRIZZO

PER IL CONTRASTO ALLA

GRAVE EMARGINAZIONE ADULTA IN ITALIA

Bozza di Indice Versione 3.0

Premessa Il presente documento è frutto del lavoro completato nella cabina di regia del 18 marzo 2014. In fase di stesura potrà subire ulteriori modifiche ed adattamenti ma è da considerarsi definitivo quanto a struttura ed impostazione.

INDICE

1. DEFINIZIONI 1.1. Contesto e Terminologia

1.1.1.La tipologia europea ETHOS e il Grave Disagio Abitativo 1.1.2.Definizioni relative al fenomeno 1.1.3.Definizioni relative alle pratiche 1.1.4.Definizioni relative ai servizi

1.2. I Diritti e le Competenze Istituzionali

1.2.1.I diritti delle persone senza dimora e la loro esigibilità 1.2.2.La competenze istituzionali sul fenomeno 1.2.3.Il ruolo del Terzo Settore, del Volontariato, della Comunità e dell’Auto-Mutuo-Aiuto

2. RICOGNIZIONE DELLO STATO ATTUALE

2.1. Le Dimensioni del Fenomeno e lo Stato Attuale dei Servizi per le Persone Senza Dimora in Italia

2.2. Le pratiche di intervento possibili 2.2.1.Le pratiche di intervento nell’emergenza 2.2.2.Le pratiche “a gradini” (staircase approach) 2.2.3.Le pratiche Housing first ed Housing Led 2.2.4.Le pratiche di comunità e l’approccio olistico 2.2.5.Il criterio di appropriatezza delle pratiche rispetto ai bisogni nell’esperienza concreta del lavoro con le persone senza dimora in Italia 2.2.6.Le strategie integrate di contrasto alla grave emarginazione adulta

2.3. Politiche Abitative, Politiche dell’Impiego, Politiche della Salute, Reddito minimo: il valore della Prevenzione rispetto alla Grave Emarginazione Adulta

2.4. Destinatari degli interventi ed adeguatezza delle misure e delle pratiche esistenti

2.4.1.Le persone senza un valido titolo di soggiorno sul territorio nazionale 2.4.2.Le persone profughe e richiedenti asilo 2.4.3.I cittadini italiani, comunitari ed extracomunitari residenti/con un valido titolo di soggiorno

2.4.3.1. Le persone senza dimora giovani 2.4.3.2. Le persone senza dimora con più di 65 anni

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2.4.3.3. Le persone senza dimora con problemi di salute fisica, psichica e di dipendenza 2.4.3.4. Le persone senza dimora che patiscono discriminazioni di genere 2.4.3.5. Le persone senza dimora che vivono in strada da lungo tempo

3. LINEE DI INDIRIZZO

3.1. La Residenza

3.2. Gli Interventi di Emergenza 3.2.1.Il ruolo dei servizi di strada 3.2.2.Il ruolo delle strutture di accoglienza 3.2.3.Il ruolo delle mense e dei servizi di distribuzione di generi di prima necessità

3.3. Programmare percorsi: dalla risposta al bisogno primario verso l’abitare

3.3.1.La fase di ingaggio e selezione della persona: strumenti e metodi 3.3.2.Superare i dormitori 3.3.3.Le strutture per le persone più lontane dall’autonomia abitativa 3.3.4.La deistituzionalizzazione e l’integrazione istituto/comunità di transito/alloggio

3.4. La presa in carico e l’organizzazione della rete territoriale dei servizi

3.4.1.La presa in carico della persona senza dimora 3.4.2.La presa in carico della comunità ove la persona senza dimora si trova ed il suo ruolo in essa 3.4.3.L’integrazione dei servizi territoriali sociali e sanitari e la costruzione di reti comunitarie

3.5. I percorsi housing first ed housing led

3.5.1.Le condizioni preliminari perché si possano adottare percorsi housing first ed housing led 3.5.2.L’Housing First approach al disagio più grave

3.5.2.1. Target specifici 3.5.2.2. Modalità di intervento

3.5.2.2.1. Sulla Persona 3.5.2.2.2. Sulla Comunità

3.5.2.3. Risorse necessarie 3.5.2.4. Risultati attesi

3.5.3.I percorsi Housing Led 3.5.3.1. Scopi, target ed obiettivi 3.5.3.2. Organizzare progetti di presa in carico personale ed efficace in una logica housing led 3.5.3.3. Allestire e sostenere alloggi per la presa in carico housing led delle persone senza dimora

3.5.3.3.1. Reperire ed allestire alloggi 3.5.3.3.2. La conversione ad alloggio di strutture di ospitalità esistenti

3.5.3.4. Ruolo delle Comunità di Transito e Comunità a Spazi Condivisi 3.5.3.5. Finanziare e mantenere progetti individualizzati di inserimento abitativo

3.6. Le competenze professionali richieste negli approcci Housing Led ed Housing First 3.6.1.Le professionalità coinvolte ed i loro ruoli 3.6.2.Il lavoro di comunità come fattore di successo 3.6.3.Volontariato e prossimità come risorsa integrativa fondamentale

4. SPERIMENTAZIONI E VALUTAZIONE 4.1. Costruire e valutare la sperimentazione di progetti housing led

4.1.1.Definire target

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4.1.2.Stabilire criteri di valutazione evidence based 4.1.3.Utilizzare e riconvertire le risorse esistenti 4.1.4.Partenariati pubblico-privati e forme di mutualità e garanzia 4.1.5.Sinergie istituzionali sovraterritoriali 4.1.6.Fondi strutturali, programmazione europea, programmazione statale e programmazione regionale: l’inclusione abitativa come infrastruttura e la social innovation 4.1.7.Trasformare le sperimentazioni in dispositivi permanenti 4.1.8.Gestire le transizioni dai sistemi attuali ad un sistema comune strategicamente orientato

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Una persona senza dimora è un soggetto in stato di povertà materiale ed immateriale, portatore di un disagio complesso, dinamico e multiforme, che non si esaurisce alla sola sfera dei bisogni primari ma che

investe l’intera sfera delle necessità e delle aspettative della persona, specie sotto il profilo relazionale, emotivo ed

affettivo (Paolo Pezzana)

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LINEE DI INDIRIZZO

PER IL CONTRASTO ALLA GRAVE EMARGINAZIONE ADULTA IN ITALIA

1. DEFINIZIONI

1.1. Contesto e Terminologia 1.1.1.La tipologia europea ETHOS e il Grave Disagio Abitativo

FEANTSA (Federazione Europea delle organizzazioni che lavorano con persone senza dimora) ha sviluppato negli ultimi anni una classificazione definita ETHOS, acronimo inglese traducibile con “Tipologia europea sulla condizione di senza dimora e sull’esclusione abitativa”. Tale classificazione, basandosi sul concetto dell’abitare come condizione imprescindibile, si pone una duplice finalità: dare una conoscenza chiara dei percorsi e dei processi che conducono all’esclusione abitativa (multi-dimensionalità e dinamicità della povertà estrema); offrire una definizione concettuale comune ai vari paesi europei che può essere aggiornata annualmente per tenere conto delle evoluzioni del fenomeno. Di seguito si riporta la griglia che raggruppa le diverse situazioni abitative in quattro macro categorie concettuali (senza tetto, senza casa, sistemazione insicura, sistemazione inadeguata) dettagliate poi attraverso le categorie operative che classificano le persone senza dimora e in grave marginalità in riferimento alla loro condizione abitativa.

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Fonte: http://www.feantsa.org/spip.php?article120&lang=en Anche l’Italia ha fatto propria questa classificazione che è stata utilizzata dall’Istat nella sua prima ricerca nazionale sulle persone senza dimora1 che ha, prima di tutto, avuto il merito di aver incluso il tema della povertà abitativa nella più ampia cornice dell’esclusione sociale e di aver costruito una base di conoscenza più puntuale articolata sul fenomeno esclusione abitativa e grave marginalità e sui principali servizi di accoglienza e assistenza dedicati a questa fascia di popolazione. 1.1.2.Definizioni relative al fenomeno Oltre alla misurazione numerica dei servizi e delle persone, è ugualmente importante, per comprendere natura, cause e processi del fenomeno grave marginalità, approfondire la conoscenza di alcuni aspetti fondamentali come il concetto di housing e la presa in carico degli utenti presso i servizi socio assistenziali preposti. In questo senso, la sopra citata ricerca Istat sulle Persone Senza Dimora, ha compiuto un passo in avanti abbracciando la classificazione ETHOS (vedi sopra) e ribadendo un presupposto concettuale-metodologico fondamentale: l’avere una casa significa avere un alloggio o uno spazio adeguato a soddisfare

1 L’indagine sulle persone senza dimora rientra nell’ambito di una ricerca sulla condizione delle persone che

vivono in povertà estrema, realizzata a seguito di una convenzione tra l’Istat, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora (fio.PSD) e la Caritas italiana. Prima edizione Anno 2011. Mentre si scrivono le Linee guida è in corso il follow up della ricerca 2013-2014.

(http://www.istat.it/it/archivio/72163)

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i bisogni dell’individuo e della sua famiglia; la casa deve garantire il mantenimento della privacy e la possibilità di godere di relazioni sociali; la persona o la famiglia che occupa la casa deve poterne disporre in modo esclusivo, avere sicurezza di occupazione e un titolo legale di godimento. L’esclusione da uno o più di questi domini configura, come descritto nella tabella sopra, le diverse forme di povertà abitativa.

Quando si parla di presa in carico si evidenzia un servizio che “si fa carico” di seguire continuativamente una persona, di non lasciarla a sé stessa, di garantire una presenza capace di offrire opportunità e sostegni, con l’obiettivo promozionale di permettere alle persone di controllare attivamente la propria vita

Il mandato “istituzionale” (de Leonardis, 2006) è un aspetto centrale: la presa in carico non è una forma di aiuto di tipo spontaneo che nasce in una relazione personale: avviene su un mandato istituito da un’organizzazione e non é riconducibile a una forma di solidarietà per appartenenza o per scambio. Ne consegue anche che, essendo la presa in carico un percorso che implica del lavoro professionale, ha una base organizzativa che richiede non solo competenze individuali ma anche una attenta programmazione che permetta di pianificare i carichi di lavoro, esigenze di formazione e aggiornamento, controlli, confronti fra pari in un gruppo di lavoro, supervisione, forme di valutazione (Abbott, 1995).

1.1.3.Definizioni relative alle pratiche 1.1.4.Definizioni relative ai servizi In Italia è presente una offerta articolata e differenziata di servizi formali e informali, pubblici e privati, rivolti alle persone senza dimora. Si va dai servizi di mensa (i più utilizzati secondo la ricerca Istat sulle PSD), ai servizi di accoglienza notturna, ai servizi di docce e di igiene personale. Esistono anche una costellazione di servizi con dotte le percentuali di utilizzo ridotte, quali i servizi di distribuzione medicinali, accoglienza diurna, unità di strada. La rete dei servizi include anche interventi non esclusivi per le PSD come i Servizi all’impiego (utilizzati comunque dal 50% delle PSD intervistate durante la ricerca Istat), i Servizi anagrafici, i Servizi sociali e i Servizi sanitari (questi ultimi utilizzati dal 54% dell’utenza rilevata durante il Censimento dei servizi alla grave marginalità condotto dall’Istat nel 2011)

1.2. I Diritti e le Competenze istituzionali

1.2.1 I diritti delle persone senza dimora e la loro esigibilità2

Il concetto giuridico di residenza trova le sue basi nell’art. 43 del Codice Civile che così dispone: “Il domicilio

di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi. La residenza

è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale”.

Questa norma assai chiara però non è l’unica, infatti esiste anche la possibilità che l’individuo – oltre al

domicilio di cui all’art. 43 – possa dichiarare altri domicili scelti per fini speciali. Un domicilio “elettivo” può

essere ad esempio quello dell’avvocato o dello studio del commercialista di fiducia ovvero si può indicare

domicilio elettivo presso parenti o conoscenti per ricevere particolari comunicazioni.

Appare evidente, anche nella pratica quotidiana, la difficoltà di trovare una netta interpretazione e

distinzione tra i concetti di domicilio generale e residenza. Nel processo di codificazione delle leggi civili il

2 Contributo di Roma Capitale.

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legislatore non ha immediatamente distinto i due istituti provvedendo il più delle volte ad identificare quale

unico luogo di relazione tra individuo e spazio quello del suo domicilio “sede dei suoi affetti”.

La perdita del domicilio e della residenza si manifesta in modo sempre più crescente in ogni angolo del

nostro paese. Tra le varie “emergenze” legate al fenomeno della crisi economica e dell’impoverimento c’è

senza dubbio quella della perdita dell’alloggio. In tutta Italia solo nel primo semestre del 2013 sono state

emesse 75.348 richieste di esecuzione di sfratto e ne sono state eseguite con supporto dell’autorità

giudiziaria 16.520. Circa l’80% - secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno- degli sfratti eseguiti è da

imputare a morosità incolpevole. I dati sulla città di Roma sono i seguenti: 7980 sentenze di sfratto

esecutivo emesse dai Tribunali della capitale mentre sempre nel 2013 sono state eseguite con l’ausilio della

forza pubblica più di 2500 ordinanze.

La perdita dell’alloggio per moltissimi di questi cittadini e nuclei familiari ha voluto dire automaticamente la

cancellazione della residenza. La cancellazione della residenza estromette la persona di fatto dallo status di

cittadino-residente uno stato che lo porta ad una moderna “morte civile”. Anche oggi la residenza

anagrafica permette alla comunità territoriale di riconoscere i suoi membri e di raggiungere i più fragili ed

esposti offrendogli tutela e protezione. All’opposto, quello che stiamo assistendo in questo frangente

epocale, la perdita della residenza anagrafica, si inserisce come punto di non ritorno nella spirale del

proprio declino. E’ di fatto da registrare un passaggio fondamentale tra l’esserci (residente) ed il non esserci

(mancanza/cancellazione della residenza) che coinvolge i diritti fondamentali del cittadini.

Per poter garantire a tutti i cittadini che dimorano presso i nostri comuni uguali diritti bisognerebbe con

coraggio eliminare la richiesta di certificazioni improprie ovvero allargare tale richiesta inserendo ed

utilizzando altro tipo di certificazioni che possano veramente aiutare l’amministrazione ad avere una

effettiva fotografia della realtà.

L’acuirsi del conflitto urbano nelle grandi città, causato principalmente dall’impoverimento di ampi settori

della società, associato dal diffondersi di danni rilevanti nel tessuto sociale hanno spesso come radice

comune la perdita dell’alloggio e di conseguenza della residenza abituale. Assistiamo spesso in maniera

incosciente al decadimento delle nostre comunità cittadine alla poca capacità inclusiva senza riflettere su

quanto questo sia legato alla esclusione di molti cittadini residenti nel territorio. L’itinerario del declino –

povero, non residente, sconosciuto, estraneo, anonimo se costituisce una

condanna chiara per il singolo rappresenta a lungo andare un pericolo evidente per tutta la comunità

cittadina.

Continuando ad occuparci dei nostri concittadini colpiti da emarginazione e povertà più o meno improvvisa

dobbiamo provare ad analizzare altre difficoltà legate alla perdita della residenza. Chi perde la propria casa

e viene cancellato dal registro anagrafico è spesso costretto dagli eventi a “scegliere” come dimora reale e

abituale alloggi non idonei secondo le consuete categorie e norme legate all’abitare: scantinati, abitazioni

fatiscenti, immobili occupati, roulotte, abitazioni abusive, baracche, camper, capanne, container.

1.2.2. Le competenze istituzionali sul fenomeno Allo stato attuale non esiste una strategia nazionale di contrasto all’homelessness, nè esistono competenze dirette del governo centrale in materia di disagio abitativo e grave marginalità. Gli stessi Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), introdotti dalla legge di riforma costituzionale (3/2001) all’art. 117, c. 2, lett. m, e pensati per definire standard minimi in tutti gli ambiti dell’assistenza, non sono stati mai stati esplicitati dallo Stato che ha lasciato alle Regioni la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali con conseguente differenziazione territoriale dei sistemi di welfare. Le competenze istituzionali in materia di grave povertà si articolano, così come per gli altri ambiti assistenziali, secondo il sistema di sussidiarietà verticale che prevede:

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● Stato: definizione di linee guida e di indirizzo da parte del governo centrale (vedi la stessa stesura del presente documento titolato Linee guida per la grave marginalità adulta), così come la definizione di linee di intervento nei documenti di programmazione ufficiali quali l’obiettivo tematico 9 “Promuovere inclusione sociale combattere la povertà ed ogni forma di esclusione”, contenuto nell’Accordo di partenariato per l’utilizzo dei fondi strutturali della programmazione 2014-2020 (approvato dalla commissione europea il 29 ottobre 2014) e in altri documenti affini (PO Inclusione sociale, PO Aree metropolitane, Fondo di aiuto per le persone indigenti, etc)

● Regioni: definizione di strumenti, dispositivi e regole, e investimento di risorse europee e nazionali per realizzare azioni incisive di lotta alla povertà (ricordiamo che proprio sull’obiettivo inclusione sociale dovrà essere allocato il 20% delle risorse disponibili con i fondi strutturali)

● Comuni: progettazione e gestione diretta di tutta la rete dei servizi per il pronto intervento sociale, servizi integrati tra strutture abitative, socio-sanitarie e misure di sostegno alle persone senza dimora di tipo residenziali, non residenziali, di segretariato sociale etc in stretta collaborazione con i soggetti del Terzo settore.

Nella cornice europea, la Strategia Europa 2020 delinea obiettivi/priorità chiari e lungimiranti in materia di lotta alla povertà quali la riduzione della povertà per 20 milioni di persone (2 milioni obiettivo italiano), l’inclusione attiva nel mercato del lavoro per le categorie svantaggiate, etc. e, per la prima volta, quest’anno si introduce il tema dell’homelessness e si esprime una chiara volontà di procedere ad una strategia di prevenzione e contrasto del fenomeno invitando stati membri, regioni ed autorità locali ad investire le risorse dei fondi strutturali (nello specifico FSE, FESR e FEAD) in azioni che favoriscano l’inclusione delle persone attraverso piani individualizzati di integrazione sociale e socio-lavorativa, recupero edilizia pubblica e alloggi per persone indigenti, investimento in servizi di supporto alla salute, fornitura di uno starter kit per persone inserite in percorsi di reinserimento abitativo innovativo, come può essere l’housing first, che aiutino la persona ad affrontare progressivamente la sua integrazione nella vita sociale della propria comunità. Si tratta di raccomandazioni inviate dalla Commissione agli Stati membri che quindi non hanno valore prescrittivo, nè attribuiscono alla Commissione competenze istituzionali o responsabilità specifiche. Tuttavia, come evidenzia un recente bollettino di FEANTSA sullo stato dell’arte dei percorsi di contrasto all’homelessness avviati nei paesi membri, inclusi l’Italia, risulta che certamente i fondi strutturali sono utilizzati per rinnovare i servizi sociali esistenti (de-istituzionalizzazione, community based approach, social economy, housing first solutions) anche se appare necessario migliorare il posizionamento delle politiche sulla grave marginalità nei documenti di programmazione invitando le amministrazioni regionali e locali, competenti per politiche collegate alla strategia Europa 2020, a rendere ancora più esplicito l’impegno in questo settore di intervento. 1.2.3. Il ruolo del Terzo settore, del Volontariato, della Comunità e dell’Auto-mutuo-Aiuto Uno degli elementi cardine del sistema di welfare italiano è rappresentato da quello speciale modello cosiddetto di welfare mix (Ascoli, Pasquinelli 1993) che si basa su un insieme di interazioni funzionali, e talvolta di interdipendenza, che si instaurano nella fornitura di servizi di tutela, cura e assistenza tra attori che, a vario titolo, si occupano di benessere sociale. Il connubio pubblico, privato e privato sociale alimenta da sempre l’offerta dei servizi alla persona, inclusi gli interventi volti a contrastare la grave marginalità. In questo specifico settore, come raccontano i dati del Censimento Istat sui Servizi alle persone senza dimora (IStat 2011) si legge una sorta di articolazione dei servizi che vede il settore pubblico come principale gestore di interventi come il Segretariato sociale; mentre il privato sociale è sempre più specializzato nella gestione di servizi bassa soglia, unità di strada, accoglienza notturna e diurna. In questo caso il privato sociale funziona come produttore di un servizio di utilità sociale alla collettività al pari di un ente pubblico in un regime di stretta collaborazione tra le parti che determina un legame praticamente ormai imprescindibile. D’altro canto, le organizzazioni di volontariato, la cooperazione sociale e le diverse entità ecclesiali presenti sul territorio nazionale nascono e si sviluppano proprio per dare risposta a bisogni sociali espressi dalla collettività che non riescono ad essere garantiti dall’attore pubblico oppure sono troppo onerosi per essere acquistati sul mercato. Molti dei servizi alla grave marginalità vengono quindi gestiti e offerti dal terzo settore ma anche dalle altre reti di solidarietà informali o reti di mutuo aiuto ispirate dai

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medesimi valori e principi di solidarietà sociale. Molti programmi di reinserimento sociale promossi dai servizi territoriali prevedono per esempio l’organizzazione di riunioni di gruppi di mutuo-aiuto o come si usa dire sempre di più di “peers group” (gruppo dei pari) durante i quali persone che condividono stesse problematiche si incontrano per darsi supporto/conforto spesso dietro il coordinamento di una persona che è riuscita ad uscire dal circuito dell’assistenza e a riacquistare un’autonomia piena. 2. RICOGNIZIONE DELLO STATO ATTUALE

2.1. Le Dimensioni del Fenomeno e lo Stato Attuale dei Servizi per le Persone Senza Dimora in

Italia

In base alla rilevazione condotta nel 2011 nell’ambito della ricerca sulla condizione delle persone che vivono in povertà estrema, realizzata da Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora (fio.PSD), la Caritas Italiana e l'Istat, le persone senza dimora che, nei mesi di novembre-dicembre 2011, hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l’indagine sono stimate in 47.6482. La stessa ricerca evidenzia come, vuoi per l'indagine di tipo campionario, vuoi per la difficoltà di censire una realtà così complessa e mutevole come quella delle persone senza dimora, la stima deve considerarsi soggetta ad un margine di errore che porterebbe il numero dei senza dimora a collocarsi nell'intervallo compreso tra le 43.425 e le 51.872 persone. Tra le persone senza dimora prevalgono gli uomini (86,9%); con riferimento all'età, la maggioranza ha meno di 45 anni (57,9%). La maggioranza è costituita da stranieri (59,4%) e tra questi le cittadinanze più diffuse sono la rumena (l’11,5% del totale delle persone senza dimora), la marocchina (9,1%) e la tunisina (5,7%). In media, le persone senza dimora riferiscono di essere in tale condizione da circa 2,5 anni. Quasi i due terzi (il 63,9%), prima di diventare senza dimora, viveva nella propria casa, mentre gli altri si suddividono pressoché equamente tra chi è passato per l’ospitalità di amici e/o parenti (15,8%) e chi ha vissuto in istituti, strutture di detenzione o case di cura (13,2%). Il 7,5% dichiara di non aver mai avuto una casa. Il 28,3% delle persone senza dimora dichiara di lavorare: si tratta per lo più di occupazioni a termine, poco sicure o saltuarie (24,5%); i lavori sono a bassa qualifica nei settori dei servizi (l’8,6% delle persone senza dimora lavora come facchino, trasportatore, addetto al carico/scarico merci o alla raccolta dei rifiuti, giardiniere, lavavetri, lavapiatti, ecc.), dell’edilizia (il 4% lavora come manovale, muratore, operaio edile, ecc.), nei diversi settori produttivi (il 3,4% come bracciante, falegname, fabbro, fornaio, ecc.) e in quello delle pulizie (il 3,8%). Le persone senza dimora che non svolgono alcuna attività lavorativa sono il 71,7% del totale; tuttavia, quelle che non hanno mai lavorato sono solo il 6,7%. Ben il 61,9% ha dichiarato di aver perso un lavoro stabile a seguito di un licenziamento e/o chiusura dell’azienda (il 22,3%), per il fallimento di una propria attività (il 14,3%) o per motivi di salute (il 7,6%). La perdita di un lavoro si configura come uno degli eventi più rilevanti del percorso di progressiva emarginazione che conduce alla condizione di senza dimora, insieme alla separazione dal coniuge e/o dai figli e, con un peso più contenuto, alle cattive condizioni di salute. Ben il 61,9% delle persone senza dimora ha perso un lavoro stabile, il 59,5% si è separato dal coniuge e/o dai figli e il 16,2% dichiara di stare male o molto male. Sono solo una minoranza coloro che non hanno vissuto questi eventi o che ne hanno vissuto uno solo, a conferma del fatto che l’essere senza dimora è il risultato di un processo multifattoriale. Facendo riferimento ancora all'indagine condotta nel 2011, la risposta alle esigenze delle persone senza dimora, viene da 727 enti che hanno erogato servizi alle persone senza dimora nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta la rilevazione. Considerando che ciascuno di essi, spesso eroga più servizi, in media, 2,6 servizi per ente, il totale dei servizi offerti alle persone senza dimora è di 3.125. Un terzo dei servizi cerca di dare risposta ai bisogni primari (cibo, vestiario, igiene personale), il 17% fornisce un alloggio notturno, mentre il 4% offre accoglienza diurna. Molto diffusi sul territorio sono i servizi di segretariato sociale (informativi, di orientamento all’uso dei servizi e di espletamento di pratiche amministrative, inclusa la residenza anagrafica fittizia) e di presa in carico e accompagnamento (rispettivamente, 24% e 21%).

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Gli enti pubblici erogano direttamente il 14% dei servizi, raggiungendo il 18% dell’utenza. Se ad essi si aggiungono i servizi erogati da organizzazioni private che godono di finanziamenti pubblici, è possibile osservare che i due terzi dei servizi, direttamente o indirettamente, sono garantiti da enti pubblici, mentre un terzo è sostenuto con mezzi privati. I servizi erogati in Lombardia e Lazio raggiungono, insieme, quasi il 40% dell’utenza nazionale (rispettivamente, 20% e 17%); i servizi milanesi riescono ad accogliere ben il 63% dell’utenza lombarda, mentre Roma serve il 91% dell’utenza del Lazio. Seguono Sicilia e Campania, regioni che raggiungono, ciascuna, il 10% dell’utenza nazionale. Servizi di risposta ai bisogni primari. Il bisogno di alimentazione viene soddisfatto tramite i servizi di distribuzione viveri e mensa. I primi rappresentano il 26,1% dei servizi in risposta ai bisogni primari, mentre i secondi il 18,9%. Tuttavia, se si considera l’utenza, le mense rappresentano il servizio con il maggior numero di utenti, pari a tre volte quelli che si rivolgono ai centri di distribuzione viveri. In ciascuna delle 277 mense individuate, in media, vengono erogati 118 pasti al giorno e ben il 34% delle mense ha più di mille utenti all’anno. La dimensione dell’utenza contattata dai servizi di distribuzione viveri è simile a quella che caratterizza i servizi di docce e igiene personale e di distribuzione indumenti, che rappresentano, rispettivamente, il 14,5% e il 18,1% dei servizi forniti; in oltre un terzo dei casi, per entrambi, si tratta di servizi con oltre 500 utenti annui. Tra i servizi di risposta ai bisogni primari, un discorso a parte meritano le unità di strada che, pur rappresentando “solo” l’8% dei servizi forniti, raggiungono un’utenza molto elevata che, in valore assoluto, è circa un quarto di quella delle mense. Servizi di accoglienza notturna Per quanto riguarda l’accoglienza notturna, i dormitori (inclusi quelli di emergenza) rappresentano il 39% dei servizi offerti, contro il 33% rappresentato dalle comunità residenziali o semiresidenziali e il 28% degli alloggi (anche autogestiti). Ancora una volta però, se si considera l’utenza, emerge che gli utenti dei dormitori sono oltre dieci volte quelli degli alloggi e cinque volte superiori a quelli presenti nelle comunità residenziali. Oltre un terzo dei servizi di accoglienza notturna è ubicato in uno dei grandi comuni e oltre la metà è situato in una zona centrale. Tale concentrazione è particolarmente evidente nel caso dei dormitori di emergenza che, nei grandi comuni, ospitano circa il 73% dell’utenza e, nelle zone centrali, ben l’82%. Gli alloggi protetti e le comunità semiresidenziali, invece, mostrano una consistente diffusione anche nei comuni medio-piccoli, dove raggiungono il 65% e l’83% dell’utenza; gli alloggi protetti e autogestiti raggiungono una consistente quota di utenza (il 37 e il 41% rispettivamente) anche attraverso le sedi ubicate nelle aree periferiche. Nel 15% dei casi i dormitori di emergenza sono erogati direttamente da enti pubblici che, più degli altri, gestiscono un’utenza decisamente elevata (circa un terzo del totale): il 22% dei dormitori di erogazione pubblica ha più di mille utenti. Gli alloggi, sia protetti sia autogestiti, sono in maggioranza erogati da organizzazioni private a finanziamento pubblico (61% e 54%) che, anche in questo caso, gestiscono strutture ad utenza elevata (raggiungono il 66% e il 74% dell’utenza). Servizi di accoglienza diurna, accompagnamento e presa in carico I servizi di accoglienza diurna rappresenta un servizio piuttosto marginale, sia rispetto al numero di servizi offerti sia rispetto all’utenza raggiunta. Decisamente più diffusi sul territorio sono, invece, i servizi di segretariato sociale: solo un terzo di tali servizi viene erogato nei grandi comuni (e si tratta di servizi quasi sempre ubicati nelle zone centrali). Anche nel caso dei servizi di presa in carico e accompagnamento un terzo si colloca nei grandi comuni - dove raggiungono il 70% dell’utenza - e sono generalmente situati in una zona centrale in oltre i tre quarti dei casi (ad eccezione di quelli di custodia di farmaci e somministrazione di terapie che, nelle zone periferiche, presentano le strutture più ampie e raggiungono ben l’86% dell’utenza).

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2.1 Le pratiche di intervento nell’emergenza Gli attuali processi di cambiamento sociale, la crescente varietà ed instabilità delle biografie lavorative tendono a moltiplicare le sindromi di rischio e a frammentare il panorama dei sostegni sociali. Le strategie di protezione, la loro assenza o l'impossibilità di poterne beneficiare generano veri e propri circuiti viziosi che portano all'esclusione sociale. Il fenomeno tende drammaticamente ad allargarsi e quanto più questo succede, tanto più sembra improprio riferirsi a questo processo definendolo semplicemente "povertà": non sono solo politiche sociali di tipo economico che potranno risolverlo, ma una nuova cultura della solidarietà (e dei servizi) capace di esprimere e di elaborare proposte diverse in grado di rendere possibili degli effettivi percorsi di reintegrazione. La nozione di "esclusione sociale" non coincide, infatti, con quella di "povertà" in quanto include in primo luogo situazioni che evidenziano la dissoluzione del legame sociale. Da questo punto di vista, la distribuzione dei redditi e delle ricchezze, pur senza essere dimenticata, non può occupare più una posizione esclusiva nella definizione e individuazione delle politiche di intervento. Per le persone senza dimora, infatti “la désaffiliation” non è principalmente una mancanza di risorse, quanto piuttosto “un’incapacità a trasformare i beni in possibilità di vita”. La Désaffiliation è il disconoscimento di paternità del sistema sociale in cui si vive che non rimanda esclusivamente alla dimensione economica, o alla densità relazionale, ma è definita dalla combinazione di due vettori: mancata integrazione occupazionale e isolamento sociale. In questo modello l’accento cade sulla rottura del legame sociale, assicurato dal lavoro e dall’appartenenza ad una comunità. Il fenomeno nuovo, quindi, non consiste solo nell’aumento del numero dei poveri o delle situazioni di povertà estrema, pur acutizzato dalle recenti crisi economiche, ma nella frattura fra l’interno e l’esterno, fra ciò che é dentro e ciò che é fuori dalla comunità sociale. Da tempo si assiste ad una transizione da una società verticale ad una società orizzontale nella quale l’importante é sapere se si é al centro o alla periferia. Oggi il problema non é più quello di essere in alto o in basso ma in o out: quelli che sono in vogliono essere al centro, il più lontano possibile dalla periferia; dal margine, quelli che sono out si ritrovano nel vuoto sociale. Sono la fragilità del legame sociale e la mancata integrazione gli elementi che caratterizzano la nuova situazione. 2.2.2 Le pratiche a gradini (staircase approach)

Lo “staircase approach” nasce in relazione ai processi di deistituzionalizzazione psichiatrica avviati a partire dalla fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ‘60 negli USA: il modello a gradini viene sviluppato per il reinserimento dei pazienti psichiatrici in percorsi di uscita accompagnata dall’ospedale verso forme di abitazione differenziate e sempre più simili all’abitare ordinario, fino al raggiungimento dell’indipendenza. Anche in Italia, la nascita dell’approccio a gradini può essere ricondotta al processo di deistituzionalizzazione psichiatrica avviato a seguito dell’esperienza basagliana e della promulgazione della Legge 180/1978: le diverse esperienze di dimissione dei pazienti dagli Ospedali Psichiatrici avviate nel nostro Paese a partire dalla fine degli anni ’70 del novecento possono essere ricondotte fondamentalmente ai due approcci oggi dominanti anche nell’intervento rivolto alle persone senza dimora. Pur accomunate dall’obiettivo generale della chiusura dell’istituzione totale e dalla necessità di riacquisizione dei diritti di cittadinanza da parte di persone private di diritti e dignità a seguito dell’inserimento manicomiale, tali esperienze si sono sviluppate attraverso approcci diversi, sia fondati sul reinserimento diretto degli ex ospiti nel territorio (esperienze delle “Case Supportate”, simili alle attuali esperienze di housing first) sia improntati ad una maggiore gradualità di rientro, per tempi e metodologie, nel contesto sociale, simili allo “staircase approach” (attraverso le cosiddette “Strutture Intermedie”, quali Comunità Alloggio, Gruppi Appartamento, ecc.). La tendenza, più o meno pervasiva nel mondo occidentale, a chiudere o a rendere residuale l’esperienza manicomiale determina da un lato l’affrancamento da un approccio di tipo sanitario al fenomeno della grave emarginazione e al contempo la diffusione di modelli di intervento di contrasto

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e controllo dell’homelessness basati sull’esigenza prioritaria di offrire a chi non ha un tetto un luogo protetto in cui “ricoverarsi” (ritorna il paradigma sanitario e istituzionalizzante): è il modello basato sul servizio/ istituzione del dormitorio (il rifugio, ovvero ”shelter”). A partire dal dormitorio, si articolano tutta una serie di servizi abitativi, a costituire lo staircase approach al fenomeno. Nello specifico italiano tale tendenza si sviluppa secondo l’articolazione del welfare nazionale che prevede una separazione istituzionale e organizzativa tra servizi sanitari in capo allo Stato e alle Regioni e il comparto socioassistenziale a cura dell’ente locale. Rispetto alla questione del contrasto all’homelessness lo staircase approach si diffonde con la tipica conformazione “a macchia di leopardo” sul territorio nazionale, a seconda della cultura locale, dell’articolazione e sviluppo dei servizi, della presenza di istituzioni caritative religiose di volontariato. L’approccio “a gradini” nasce e si sviluppa quindi come politica di intervento innovativa, tutelante soggetti fragilissimi e provenienti da percorsi di istituzionalizzazione profonda. Decenni di applicazione del modello e la sua diffusione nei principali Paesi avanzati (USA, Paesi Europei, Australia) hanno reso l’approccio a gradini il modello dominante nelle politiche istituzionali di contrasto all’homelessness. La progressiva istituzionalizzazione del modello ha tuttavia comportato lo sviluppo di modalità di intervento che per forme e applicazioni spesso si sono rilevate distanti dai fini di tutela e di sostegno delle persone beneficiarie: un approccio innovativo e teso alla deistituzionalizzaizione è andato nel corso del tempo spesso a tradursi in un insieme di pratiche standardizzate e omologanti, a scapito degli elementi improntati sul rispetto delle soggettività e dei bisogni delle persone cui è rivolto. Le difficoltà di definizione neutrale del modello a gradini Nonostante costituisca una delle pratiche maggiormente consolidate, applicate e diffuse a livello internazionale nelle politiche di intervento rivolte all’homelessness, risulta particolarmente difficile, nella letteratura specialistica e nella documentazione di settore, individuare una definizione specifica, univoca, dedicata ed approfondita dell’approccio a gradini: la riflessione degli ultimi anni rispetto agli approcci sviluppati nell’ambito degli interventi di contrasto alla grave marginalità adulta vede infatti delineare i caratteri del modello a gradini quasi esclusivamente “per differenza”, in relazione ed in contrapposizione ai tratti ed alle caratteristiche dell’approccio emergente dell’housing first. La comparazione tra i due modelli assume frequentemente i caratteri di vero e proprio scontro tra paradigmi, in cui gli elementi di contrapposizione risultano spesso sovradimensionati, non permettendo una lettura neutrale e non ideologica e rischiando di compromettere l’accuratezza dell’analisi scientifica relativa alle diverse dimensioni utili per comprendere e stabilire le caratteristiche e gli effetti dei diversi approcci. La denominazione stessa dell’approccio, fondata sulla metafora della scala, rimanda immediatamente ad un percorso connotato da fatica, lentezza, esito incerto, incentrando inoltre l’attenzione sugli aspetti strutturali (i gradini) e omettendo qualsiasi riferimento ai possibili elementi legati al soggetto o al suo agire. Il modello a gradini assume diversi significati a seconda all’enfasi che nella sua applicazione viene dedicata al focus dell’intervento: più incentrato sul “luogo” dell’intervento (“place centred approach”) o, al contrario, maggiormente focalizzato sul “percorso di sostegno” rivolto alla persona coinvolta nel percorso (“person centred approach”). Nel primo caso sono i luoghi, gli spazi di ricovero e di cura, con i propri confini fisici e normativi, a condizionare le modalità di intervento e di trattamento a favore del soggetto: è l’individuo che deve essere adeguato ai criteri predefiniti del servizio residenziale in cui dovrebbe essere ospitato e l’intervento è volto a far sì che il soggetto sia pronto per quel tipo di requisiti richiesti. Nel secondo caso al centro dell’attenzione vi sono la persona con i suoi bisogni nonché il percorso di sostegno e di accompagnamento che viene attivato dal sistema di supporto, sistema articolato in fasi e livelli diversificati ed integrati. Nelle esperienze più sviluppate a livello nazionale (quali ad esempio nella Città di Torino) l’impianto di servizi a gradini è stato sviluppato ispirandosi a questa seconda accezione di approccio, riassumibile nella seguente definizione: Lo “staircase approach” o “modello a gradini” o ancora “housing ready model”, [modello “pronto alla casa”] è un modello che prevede che le persone senza dimora vengano accompagnate verso il recupero

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della loro autonomia attraverso il passaggio progressivo e guidato da un operatore professionale a carattere educativo per un sistema di servizi che vanno gradualmente dalla prima accoglienza al reinserimento in un alloggio ed un lavoro propri, mano a mano che la persona è ritenuta nuovamente “pronta” a sostenere le relative situazioni esistenziali (P. Pezzana). In questa accezione il paradigma che sottostà all’approccio a gradini è quello proprio dell’intervento

educativo nel contesto sociale, non sostitutivo e capacitante: l’accompagnamento ed il sostegno di una persona in condizioni di disagio sociale da una stato di marginalità assoluta ad una progressiva ri-acquisizione o assunzione di abilità sociali e capacità. In questa accezione il paradigma che sottostà all’approccio a gradini è quello del sostegno educativo e del lavoro sociale l’accompagnamento ed il sostegno educativo di una persona in condizioni di disagio sociale da una condizione di marginalità assoluta ad una progressiva ri-acquisizione o assunzione di abilità sociali e capacità. E’ l’approccio dell’empowerment, del sostegno alle autonomie dei soggetti fragili. Nel momento in cui il soggetto fragile è persona senza dimora il percorso di sostegno si articola anche in diverse tipologie di strutture, dove al crescere dell’autonomia diminuisce tendenzialmente la presenza dell’intervento professionale di sostegno. E’ una visione generativa ed evolutiva del lavoro sociale, impostata sulla presunzione che l’adulto in condizione di marginalità estrema possa – se opportunamente sostenuto – raggiungere obiettivi di autonomia e di benessere. L’ approccio a gradini presenta pertanto le caratteristiche proprie degli interventi orientati al modello di housing led: l’accompagnamento graduale alla casa, con sempre maggiori livelli di indipendenza, presuppone un beneficiario che necessita di un sostegno educativo e riabilitativo per il recupero / il mantenimento delle abilità sociali e delle autonomie. Un sistema lineare. I diversi livelli dell’approccio. Perché si possa parlare di approccio a gradini occorre che un impianto di servizi rivolto alle persone homeless preveda effettivamente diversi ed articolati livelli: non solo quindi il livello della prima risposta emergenziale (il classico dormitorio o casa di ospitalità notturna) ma una rete di che contempli diverse opportunità, diversi diritti e obblighi da parte del beneficiario dell’intervento. Se il sistema dei servizi non è sviluppato su diversi livelli di opportunità, non si può parlare di approccio a gradini ma semplicemente di approccio emergenziale. I diversi livelli costituenti un Sistema a gradini, o per fasi, con linearità dell’intervento, possono essere così sintetizzati:

- Interventi di prevenzione dell’homelessness. Costituiscono la base dell’impianto dei servizi sul quale si regge lo staircase approach: il riferimento è qui ai sostegni all’abitare, quali sostegno all’affitto, interventi di sostegno del reddito a favore delle persone e dei nuclei in condizione di fragilità economica, sociale e, spesso, sanitaria, nonché interventi di assistenza domiciliare;

- Servizi educativi di strada e di prossimità (Outreach services) diurni e notturni, volti al contatto con le persone che vivono in strada, all’intervento di orientamento e di invio ai servizi, alla tutela;

- Servizi di prima accoglienza diurna ad accesso immediato o con criteri di accesso molto limitati, volti a garantire l’accessibilità quanto più ampia possibile a forme di risposta ai bisogni primari (bagni pubblici, mense …) ed ai servizi di tutela socio-sanitaria (es. ambulatorio socio-sanitario) ma anche contemporaneamente siano occasione di “aggancio” e di connessione con la rete dei servizi istituzionali e del terzo settore;

- Servizi di accoglienza notturna di bassa soglia, con tempi di ospitalità limitati (Case di ospitalità notturna, dormitori, ostelli), strutturati quanto più possibile non solo per rispondere ai bisogni primari quanto anche per offrire spazi di accoglienza e di ascolto, e di avvio e di accompagnamento verso percorsi di inclusione sociale e di recupero dei diritti di cittadinanza;

- Servizi residenziali di secondo livello (Residenze), strutture intermedie collettive con presenza costante di personale professionale (educatori, operatori sociali, ma anche medici e psicologi) per periodi prolungati di ospitalità che possono permettere la predisposizione di un percorso progettuale personalizzato;

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- Alloggi di autonomia, di piccole dimensioni, in coabitazione con un numero molto limitato di ospiti, con una presenza saltuaria di personale educativo, per periodi medio lunghi;

- Alloggi indipendenti (in ambito di edilizia residenziale pubblica, social housing, alloggi gestiti da realtà del terzo settore, ma anche alloggi di mercato privato), con la presenza di eventuali supporti sia a sostegno del reddito sia a sostegno della vita indipendente.

Il Sistema deve fondarsi su una rete di opportunità assicurate sia dall’ente pubblico sia promosse da enti del volontariato e del terzo settore, tra loro strettamente integrate e coordinate. La stretta interconnessione tra le risorse del sistema permette l’articolazione di una rete sufficientemente diffusa e flessibile, in particolare per quanto riguarda le soglie di accesso ed i tempi di permanenza.

Housing secondario dei servizi Housing primario Alloggio definitivo e regolare __________________ I I Alloggi di autonomia I ___________________________I I Servizi di primo livello I ___________________I I I I _____________I “Reception stage” (prima accoglienza bassa soglia, servizi di prossimità) Più <------------------------ supporto individuale, cura, controllo, norme- ---------------------àMeno

Meno <----------------------- spazi privati, autonomia, normalità ----------------------------------à Più (adattato da Volker Bush, 2012, HRC)

Il modello staircase: punti di forza e limiti. L’approccio a gradini costituisce il modello per fronteggiare la grave emarginazione abitativa (v. classificazione ETHOS) maggiormente diffuso nel mondo occidentale, incardinato storicamente nell’ambito delle politiche sociali che hanno caratterizzato il welfare state come lo conosciamo nelle diverse declinazioni nazionali. Il modello pertanto ha punti di forza e limiti che possono essere ricondotti allo scenario più ampio i cui aspetti critici sono tanto più evidenti nell’attuale drammatico momento di crisi. In una logica di analisi del modello in estrema sintesi ci sembra importante provare ad accennare sia ad alcuni aspetti positivi fondanti il modello staircase, imprescindibili in una logica di ripensamento degli interventi per contrastare l’homelssness, sia agli elementi involutivi e di rischio che la concreta implementazione del modello ha determinato.

· Per quanto attiene alla dimensione dei diritti di cittadinanza

Punti di forza: il modello cerca di affrancare il fronteggiamento del fenomeno della grave marginaliità da una visione caritativa paternalistica ottocentesca, ancorandolo ai diritti di cittadinanza in una logica universalistica. Il modello staircase è rivolto a tutte le tipologie di persone che si trovano nella condizione di senza dimora, siano essi soggetti con lunghe storie di emarginazione, devianza e dipendenza, sia persone che sono state costrette nella condizione di senza dimora a seguito di eventi di vita drammatici e/o in relazione a crisi economica ed occupazionale. Attraverso la sottoscrizione di un vero proprio contratto (il “negotium” giuridico) il più possibile personalizzato in base ai bisogni della persona, le parti, con pari dignità, si impegnano a concordare obiettivi e strumenti riproponendo su un piano micro il patto sociale che a livello macro fonda lo stato sociale.

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In quanto approccio lineare, da un punto di vista teorico il modello ha in questi anni fatto proprie le principali tematiche sviluppate nell’ambito delle scienze sociali rispetto alla grave emarginazione adulta: prevenzione e riduzione del danno, contrasto alle barriere e soglie di accesso ai servizi per le persone in stato di marginalità, intervento di rete sul territorio e di sviluppo di comunità. La promozione di tutti gli attori sociali (cittadinanza attiva) è alla base dei concetti chiave dell’azione; in particolare le persone senza dimora, non sono né vittime da curare né colpevoli da biasimare, ma sono attori sociali del fenomeno e come tali in grado di attivare proprie competenze sociali ed esperienziali. Questa logica di responsabilizzazione e attivazione permea il modello a diversi livelli: individuale, della rete di aiuto, della comunità locale. Limiti : Il modello staircase approach sembra “ funzionare” nella misura in cui è strettamente ancorato ad un percorso di (ri)acquisizione dei diritti di cittadinanza: ovvero si tratta di garantire alla persona che ha perso (o non ha) una propria dimora la possibilità ad accedere all’insieme di servizi, beni e prestazioni a cui accede tutta la cittadinanza in termini di social welfare. Quando non esistono le condizioni perché ciò avvenga (ad esempio la legge sulla residenza fittizia è stata applicata in maniera disomogenea per modi e tempi di attuazione, sul territorio nazionale) l’accesso ai “gradini”, ovvero l’inizio di un percorso finalizzato all’inclusione sociale, diventa sempre più difficile per la persona senza dimora che resta di fatto bloccata in tale condizione. Fenomeni quali i flussi migratori, la crisi economico finanziaria e il conseguente restringimento delle prestazioni di welfare hanno di fatto acuito il problema già reso evidente dalle diversificate modalità di attuazione delle politiche su base locale e settoriale (incrementalismo sconesso delle politiche di welfare state): la perdita, o il rischio di perdita, del bene primario casa coinvolge nuove fasce di popolazione (le cosiddette povertà grigie), i requisiti per l’accesso alle prestazioni vengono innalzati (ad esempio quelli per poter accedere ai bandi di Edilizia Residenziale Pubblica), i contributi economici per le persone indigenti vengono ridotti e/o non erogati su base universalistica portando ad un rischio di collasso del modello a gradini: la base dell’imbuto (funnel approach) si allarga come dimostra il crescente numero di utenti nei dormitori e nei servizi di bassa soglia ma aumentano anche le persone che stanno in strada; ampie categorie di persone senza dimora non hanno i titoli di accesso per poter “entrare” nei percorsi abitativi finalizzati all’inclusione sociale e i pochi che vi entrano vedono allungarsi i tempi di permanenza o dell’iter di accesso non per proprie caratteristiche o difficoltà personali quanto per limiti e vincoli burocratici posti da requisiti sempre più selettivi determinando uno spostamento del sistema dei servizi verso un orientamento place centered.

· Accenni alla dimensione metodologica

Punti di forza: aggancio leggero, vicinanza strutturata, a legame debole, attenzione alla persona nella sua globalità. La relazione che s’instaura è, dapprima, “a legame debole” poiché attivata in setting informali, in contatti occasionali, discontinui, a volte imposta da regole istituzionali, quindi non richiesta ma subìta, finalizzata a obiettivi assistenziali per fronteggiare l’emergenza. Pur in una costitutiva asimmetria di potere nel rapporto fra operatore e persona senza dimora la relazione si esplica nei termini di una vicinanza non giudicante e formale. È un legame flessibile perché si misura sulla definizione comune di obiettivi ed è conseguenza della scelta di prendersi cura senza imporre un cambiamento. La qualità della relazione non viene ad essere considerata solo un valore aggiunto dei processi di “care”, ma costituisce il centro intorno al quale costruire percorsi di sostegno e accompagnamento. I concetti di “lavoro di comunità” e “empowerment” sono costitutivamente parte del bagaglio metodologico. Gli interventi sociali di riduzione del danno cercano di “stringere un’alleanza” con le persone, nel rispetto dei tempi e della dignità personale cercando di favorire l’empowerment e cioè di “accrescerne le potenzialità”. Il criterio utilizzato si fonda sull’etica del lavoro sociale che pone al centro dell’intervento la persona che chiede un sostegno, ma amplia tale visione per giungere a uno sguardo comunitario che interroga fattori individuali e sociali all’insegna di un approccio complesso. Tale complessità si risolve con la scomposizione in livelli e tipologie dei rischi che si vogliono evitare e dei danni che si vogliono limitare comprendendo quelli di natura sanitaria, sociale ed economica e

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seguendo una metodologia attenta ai concetti di dignità, rispetto tempi personali, delle scelte di vita e delle differenze culturali, inclusione sociale e tutela della salute. L’approccio utilizzato deriva dalla fusione dei concetti di housing ready model con quelli di riduzione del danno, particolarmente efficaci nei contesti di bassa soglia. Il modello a gradini costituisce la strategia d’intervento, mentre la riduzione del danno costituisce la tattica utilizzata per far transitare il soggetto in condizione di grave marginalità sociale verso un percorso di accompagnamento socio-sanitario.

Limiti l’artificialità del modello staircase; le abilità imparate nei contesti aggregati e strutturati (servizi collettivi) spesso non sono trasferibili a situazioni di vita indipendente. Lo slittamento da un approccio person centered ad uno place centered, con una riduzione effettiva del potere di autodeterminazione della persona, portano il rischio di favorire una logica premiale di comportamenti adattivi, non di sostegno a reali autonomie. Il passaggio attraverso i diversi livelli di autonomia abitativa e di privacy diventa ricompensa, premio per aver aderito a percorsi predisposti dall’istituzione; con possibili implicazioni involutive per la persona in difficoltà (cronicizzazione di comportamenti strumentali e/o perdita delle autonomie e delle abilità a causa dei tempi lunghi e dello sviluppo solo di abilità in un ambiente protetto). Anche il tentativo di differenziazione delle risposte sia di tipo abitativo sia di tipo lavorativo sviluppate in questi anni (le Case di Prima Accoglienza, struttura intermedia semiresidenziale, struttura residenziale, alloggi di autonomia, alloggio autonomo) e le diverse situazioni lavorative/socializzanti (tirocinio socializzante, tirocinio lavorativo, voucher lavoro, cantieri lavoro, ecc) rischiano di diventare i’obiettivo degli interventi e non strumenti e risorse utili al raggiungimento dell’inclusione sociale. L’approccio staircase così come si è sviluppato sconta la separazione organizzativa e strutturale dei comparti sociale e sanitario. Sono rare e davvero minoritarie le esperienze di strutture e servizi ad alta integrazione sociosanitaria di bassa soglia rispetto al fenomeno dell’homelssness. Pertanto, in una logica organizzativa anche difensiva, l’accesso ai diversi gradini sviluppati in ambito socioassistenziale viene condizionato alla disponibilità della persona a curarsi ad accettare percorsi di avvicinamento ai servizi sanitari (treatment first) in assenza di un approccio di sostegno integrato alla persona nella sua globalità. Oltre che premiale il modello viene ridotto ad un piano strettamente individuale, dove il superamento di ogni step è legato al raggiungimento di obiettivi individualizzati, molto spesso predeterminati da parte degli operatori preposti, il cui fine ultimo (gradino finale) è rappresentato dall'ottenimento di casa e reddito; in una visione quasi taumaturgica del binomio borghese 2casa/lavoro”, che troppo spesso non coglie l'importanza del tessuto relazionale come necessità primaria dell'individuo. La lotta all’emarginazione, ridotta a fenomeno esistenziale del singolo (il quale ricostruisce se stesso in un rapporto individuale con le istituzioni) rischi di essere decontestualizzato dal territorio e dalle reti socio-affettive, la cui ricostruzione non rientra nel progetto di recupero dell'autonomia. Ciò è riscontrabile dal non irrilevante numero di cittadini che, superati con fatica i gradini dell'iter assistenziale, fuoriescono dall'imbuto del percorso sociale momentaneamente dotati di casa e reddito ma improvvisamente sprovvisti di sostegno e prospettive (se non la solitudine) ricadendo inesorabilmente nei circuiti di bassa soglia. Il rapporto con la comunità, a causa delle difficoltà organizzative e strutturali del sistema è di fatto spesso residuale nello staircase approach o per lo meno successivo, e quindi vissuto come meno importante, rispetto alla risposta ai bisogni primari impellenti.

· Accenni alla dimensione organizzazione dei servizi (efficacia/ efficienza) Punti di forza: almeno per quanto riguarda i livelli di base (servizi di prossimità e di strada diurni e notturni, case di ospitalità notturna, servizi diurni per rispondere ai bisogni essenziali) l’approccio permette di garantire un buon livello di accessibilità e raggiungere un numero di persone molto elevato, consentendo un “aggancio” anche di cittadini privi di residenza e/o di diritti di soggiorno (con possibile accompagnamento verso i luoghi di provenienza e di residenza).

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La rete dei primi livelli permette di predisporre un sistema con soglie di accesso diversificate (case di ospitalità di emergenza, per donne, per coppie, per persone con animali da compagnia ….) e con soglie diverse per accesso e durata della permanenza (presenza o meno del titolo di soggiorno). Le barriere all’accesso di tipo culturale (per assenza di privacy, per timore di subire violenze e furti, per la necessaria condivisione con persone in difficoltà estranee e potenzialmente ostili) sono spesso al centro di particolare attenzione da parte degli enti, che tendono a migliorare la qualità del livello di accoglienza garantita (stanze di piccole dimensioni e ben arredate, servizi aggiuntivi, coinvolgimento degli ospiti rispetto alla gestione e ai processi decisionali ecc.). Numerosità dell’utenza coinvolta: i numeri delle persone cui risponde con i suoi diversi livelli è estremamente elevato; sebbene sempre più in difficoltà, i servizi dello staircase system permettono di dare una prima risposta ad alcuni bisogni primari delle persone senza dimora in numero sufficientemente appropriato (es. Torino: circa 1500 persone accolte mediamente in un anno rispetto alle circa 1400 persone senza dimora stimate dalla ricerca ISTAT – FioPSD del 2011). Fruibilità dei servizi anche da parte di soggetti che non intendono impegnarsi in percorsi di lungo periodo o che hanno necessità di una dimensione di vita di tipo comunitario in quanto non vogliono o manifestano difficoltà nella scelta di una collocazione in piena autonomia. Limiti: in definitiva non è un approccio a scalini, ma è un approccio ad imbuto (“funnel approach”): tanti entrano, pochissimi escono con rischi evidenti di revolving door / gioco dell’oca (sbagli e torni alla partenza) L’homelessness può aumentare piuttosto che diminuire con questo sistema (i bassi livelli molto estesi, ma accesso a livelli superiori a collo di bottiglia). Rischio di equiparare lo staircase model ai modelli basati sulla risposta emergenziale. I costi generali sono più alti di quelli di collocazione autonoma delle persone con appoggio di operatori a domicilio. L’uso di accoglienze di emergenza e temporanea dovrebbe essere ridotto al minimo e per il tempo necessario; occorre trovare alternative: di fatto si registrano quote crescenti di persone che per anni utilizzano i servizi di bassa soglia senza alcuna effettiva prospettiva di uscita da un circuito assistenziale, quasi un’istituzione totale “a cielo aperto” capace di contenere e controllare con sempre più evidenti difficoltà il fenomeno. 2.2.3 Le pratiche Housing first e housing led A differenza dei modelli di intervento tradizionali per il contrasto alla grave marginalità basati su percorsi incrementali e progressivi che, gradino dopo gradino, conquista dopo conquista, portano l’utente a “meritare” il diritto ad una abitazione, gli approcci cosiddetti housing led e housing first partono dal concetto di “casa” come diritto umano di base e come punto di partenza dal quale la persona senza dimora deve ripartire per avviare un percorso di integrazione sociale. Tali pratiche si sono diffuse anche in Italia e prima ancora in Europa seguendo la scia delle sperimentazioni avvenute nei paesi anglosassoni. A livello europeo sono due i documenti che attribusicno all’housing led e all’housing first un riconoscimento ufficiale come pratiche di intervento innovative in materia di grave marginalità: il Joint Report e l’ —European Consensus Conference on Homelessness (ECCH) (2010) . Quest’ultimo afferma che con Housing First si identificano tutti quei servizi vicini/simili al programma Pathways to housing (modello tradizionale creato da Sam Tsembersi negli anni novanta a New York) basati su due principi fondamentali: il rapid re-housing (la casa prima di tutto come diritto umano di base) e il case management (la presa in carico della persona e l’accompagnamento dei servizi socio-sanitari verso un percorso di integrazione sociale e benessere). Mentre con Housing led si fa riferimento a servizi, finalizzati sempre all’inserimento abitativo, ma di più bassa intensità, durata e destinati a categorie non croniche (si veda anche il Commission Staff Working Document allegato al Social Investment Package su “Confronting Homelessness in the European Union” 2013)

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2.2.4 le pratiche di comunità e l’approccio olistico ll lavoro di comunità può essere attivato ed utilizzato sia dal livello tecnico che da quello politico. La sua utilizzazione in tali contesti può determinare due possibili situazioni: una nella quale il lavoro di comunità è dato come indicazione di prassi di lavoro dal livello politico (es. indicare negli atti amministrativi il lavoro di comunità come prassi di lavoro del servizio sociale territoriale), l’altra nella quale è il livello tecnico che suggerisce, di volta in volta, al livello politico un determinato tipo di intervento. In entrambe le accezioni considerate, la presenza di punto di incontro tra il livello politico e quello tecnico risulta essere una condizione fondamentale per poter realizzare un buon lavoro di comunità. In tale prospettiva si possono ritrovare sia ragioni di spinta al controllo che alla libertà, ossia il lavoro di comunità come possibilità di esercitare un controllo sul territorio oppure come possibilità di conoscere più approfonditamente il contesto locale e di avvicinare le persone anche nei casi dei comportamenti a rischio. In ogni caso il lavoro di comunità, come consuetudine di lavoro entro un servizio, può consentire di ridurre la frammentazione delle risposte ai bisogni e dell'uso delle risorse: in tal modo si può coniugare il rapporto tra esigenze dell’utenza e risorse disponibili. Per espletare questa funzione, si ribadisce la necessità di un lavoro di continuità: occorre “prendersi cura” delle azioni espletate nel territorio aderendo al principio del processo di continuità nel tempo e nella scelta dei destinatari dell’intervento stesso. All’interno di un intervento di comunità si possono realizzare diverse tipologie di azioni:

● azioni che si concentrano sul concetto di appartenenza, sullo scambio

● azioni che lavorano su una sorta di presa di possesso del territorio, intesa come presidio positivo.

● azioni di tipo educativo

● azioni che vanno a modificare la struttura simbolica della società

● azioni formative per la costruzione di una visione condivisa del problema

● momenti celebrativi delle attività svolte.

2.2.5. Il criterio di appropriatezza delle pratiche rispetto ai bisogni nell’esperienza concreta del lavoro

con le persone senza dimora in Italia

Le Persone Senza Dimora (PSD) sono tali in quanto portatrici di problematiche legate a status di povertà

(economica, abitativa, sociale ….) e/o di disagio psichico, o entrambe le cose. L’obiettivo degli interventi

deve essere quello di supporto nel recupero del benessere sia economico che psichico.

L’appropriatezza delle metodologie di intervento è quindi tema fondamentale per la riuscita. Ciò richiede

che concorrino diversi elementi contemporaneamente:

● Adeguata formazione degli operatori sociali e sanitari;

● Conoscenza e acquisizione di fiducia della PSD destinataria dell’intervento;

● Stretta collaborazione con i diversi livelli istituzionali, sanitari, del terzo settore nonché con

parenti, amici, volontari che partecipano all’azione;

● Individuazione, insieme alla PSD, del percorso più idoneo, attraverso un progetto personalizzato e

monitorato.

La fase attuale degli interventi, caratterizzata da risposte basate sull’emergenza, deve essere superata con

l’instaurazione di una attività metodica e programmata.

Il processo di inclusione di soggetti deboli chiama in causa non solo le difficoltà di trovare soluzioni

alloggiative sostenibili o l’impossibilità di governare le dinamiche del mercato del lavoro ma anche la

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capacità di sperimentare piste di lavoro nella direzione di restituire ad ognuno la possibilità di esercitare il

diritto di determinare le condizioni della propria esistenza.

Ciò é valore sociale aggiunto che va considerato un criterio di “appropriatezza” che non può essere definita

esclusivamente come valutazione sull’erogazione del servizio ma soprattutto valutazione sugli effetti sociali

che si traducono in coesione sociale.

2.2.6. Le strategie integrate di contrasto alla grave emarginazione adulta

Le strategie e le politiche di contrasto sono caratterizzate dalla multidimensionalità e dalla

interconnessione in rete con le varie realtà attive sul territorio.

Vanno pertanto attivate strategie condivise con la PSD di inclusione sociale attraverso azioni di:

● Contrasto alla povertà abitativa;

● Accompagnamento nella ricerca di un lavoro;

● Accompagnamento verso un percorso di autonomia attraverso il coinvolgimento dei servizi

territoriali;

2.2.6. Le strategie integrate di contrasto alla grave emarginazione adulta

Collegare linee parallele di attività piuttosto che risultati. Creare percorsi virtuosi di uscita dalle situazioni

di grave emarginazione attraverso interventi sociali, sanitari, abitativi. L’approccio di prossimità permette

di trovarsi su una rotta che incrocia persone che portano diverse problematicità rispetto alle quali

elaborare percorsi che non abbiano la frammentazione tipica delle risposte in emergenza permettendo a

tutti i soggetti coinvolti di non procedere in ordine sparso ma di sviluppare occasioni di confronto, in cui

questo Servizio è contenitore, per ragionare sulla costruzione di nuovi modelli strategici.

L’impianto metodologico per supportare il modello deve garantire:

● stabili relazioni intra e inter istituzionali con le varie parti sociali per mantenere flussi costanti e

aggiornati di informazioni;

● coerenti restituzioni di elaborazioni che contengano analisi quantitative e qualitative di dati relativi

alla tematica per implementazione delle attività attraverso una flessibile pianificazione;

● coeso gruppo di lavoro responsabilizzato su obiettivi comuni e capacità di governare le leve che

determinano le risposte, coniugando la necessità di ottimizzare le risorse liberate attraverso la

razionalizzazione.

2.3 Politiche abitative, Politiche dell’impiego, Politiche della salute, Reddito minimo: il valore della prevenzione rispetto alla grave marginalità3 Le condizioni di disagio vissute in particolari contesti sociali, la povertà estrema e la marginalità sociale ed esistenziale delle persone senza dimora, l’esclusione sociale di chi è sofferente psichico rendono particolarmente difficile - se non impossibile - l’accesso al lavoro. Ma proprio a partire dalla possibilità di trovare o ri-trovare una identità lavorativa e una occupazione soddisfacente possono evolvere verso percorsi effettivi di recupero, riabilitazione e inserimento sociale.

3 Contributo della città di Napoli

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L’efficacia dei percorsi di inserimento e integrazione sociale non può prescindere dall’accesso al lavoro che agisce come potente fattore di integrazione sociale e culturale. Il lavoro, dunque, da mezzo e tecnica terapeutica, diviene condizione imprescindibile per il raggiungimento di una reale autonomia e di una effettiva inclusione sociale. A partire dalla valorizzazione del lavoro come fattore di integrazione sociale e culturale, come strumento del percorso terapeutico e di formazione della personalità che assume una valenza strategica nei processi di costruzione/ricostruzione dell’identità, valorizzazione del sé, acquisizione di abilità e competenze sociali. è possibile riscoprire il “gusto del lavoro bello e ben fatto come valore prioritario rispetto all’efficientismo produttivista” (Latouche 1997) e avviare una riflessione sulla sostenibilità di un modo diverso di intendere l’economia e lo sviluppo. Diventa, dunque, indispensabile porre in essere una strategia generale orientata alla promozione di un collegamento stabile tra gli strumenti di natura sociale e di riabilitazione psico-sociale e gli interventi di politica formativa e del lavoro. In tale contesto, uno strumento efficace per l'integrazione lavorativa delle persone svantaggiate diviene la promozione di forme di impresa sociale che, operando in maniera stabile sul mercato, si fanno carico di costruire condizioni reali di reddito e di autonomia per persone con problemi e difficoltà. Il lavoro, in quest'ottica, risulta un importante fattore di collegamento tra l'individuo e la comunità laddove si caratterizza come funzionamento che definisce lo sviluppo umano e si collega allo sviluppo del territorio. In questo senso l'inserimento lavorativo dei soggetti più fragili si deve collocare in sistemi territoriali aperti, capaci di coesione sociale e di produzione di alto capitale sociale dove il “mercato”, il mondo della produzione si caratterizza come network, come bene relazionale inclusivo. Nella città di Napoli alcune esperienze particolarmente significative hanno mostrato la coerenza e l’efficacia di tale strategia, che propone un nuovo modello di sviluppo locale, che coniuga i principi di inclusione sociale con quelli di sviluppo economico, attraverso la valorizzazione delle risorse e delle potenzialità di coloro che vivono condizioni di disagio, discriminazione, marginalità, nell’ambito di processi più ampi di affermazione dei diritti di cittadinanza sociale. A partire da tali esperienze si è giunti, in alcuni casi, alla costituzione di cooperative sociali finalizzate all’inserimento lavorativo di persone in condizioni di svantaggio sociale, che coinvolgono prevalentemente soggetti in condizione di sofferenza psichica, giovani con percorsi di dipendenza da sostanze stupefacenti, persone con disabilità, minori e giovani con esperienze di tipo penale. La cooperazione, quale forma organizzativa dell’impresa sociale, diviene, in tal senso, “terreno per ‘giochi di reciprocità’ nei quali le risorse degli altri non sono più minaccia ma potenziale ricchezza complessiva (Dall'Acqua, Rotelli 2001). La produzione non è finalizzata unicamente allo scambio ma alla creazione di coesione sociale secondo un principio di sussidiarietà costituzionalmente sancito che attribuisce a modelli organizzati dell'agire sociale, uno specifico ruolo nella costruzione di spazio sociale e del Bene comune. Il sistema cooperativo consente di prendere in carico esclusivamente il gap produttivo della persona in un sistema di responsabilità condivise.

2.4. Destinatari degli interventi ed adeguatezza delle misure e delle pratiche esistenti

[…]

2.4.3.3.Le persone senza dimora con problemi di salute fisica, psichica e di dipendenza

La popolazione target, in particolare conseguentemente all’emergenza sbarchi che caratterizza il territorio

siciliano, presenta tratti di multietnicità, con una forte povertà sanitaria contrassegnata anche da alcolismo

e tossicodipendenza.

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Tale complessità impone, ancora una volta, un lavoro sistemico fra competenze sanitarie, sociali e antropologiche che, oltre all’accompagnamento sanitario verso i servizi specialistici, già sperimentato con successo, realizzi:

● un quadro sanitario del disagio di strada con analisi delle peculiarità antropologiche, culturali, etniche

e socio-sanitarie della popolazione target e la distribuzione sul territorio della città;

● rilevazione dati circa la tipologia delle prestazioni erogate e la valutazione dell’impatto che hanno

generato rispetto al benessere dei soggetti beneficiari

3.1. La Residenza

La questione della residenza della Persona senza dimora (e quindi senza una residenza stabile e certificata)

è nodale nella gestione degli interventi di contrasto alla grave marginalità. Ad essa si associa il problema

dell’accesso ai servizi assistenziali e sanitari e l’esigibilità degli stessi da parte di questo specifico target di

utenza.

Solitamente gli ordinamenti comunali e l’organizzazione dei servizi sociali privilegiano infatti il criterio

formale ovvero la residenza anagrafica per regolare l’accesso. Per questo motivo molte amministrazioni

comunali, di fronte alla necessità di intervenire a fronte di una richiesta di sostegno da parte di persone

senza dimora, hanno provveduto ad assegnare la cosiddetta residenza fittizia identificando delle vie/piazze

per riconoscere loro una domiciliazione. Tuttavia l’assegnazione di una residenza fittizia non risolve il

problema del bisogno sociale più complesso di cui la persona è portatrice. Nè si può subordinare

l’assegnazione di una residenza ad alcuni “requisiti” stringenti che una persona in uno stato di grave

deprivazione non può certamente assolvere. Lo stesso Ministero dell’Interno tuttavia ha più volte segnalato

l’illegittimità di alcune prassi comunali tendenti a condizionare l’iscrizione anagrafica alla dimostrazione di

requisiti come: lo svolgimento di attività lavorativa, la disponibilità di una abitazione od in alcuni casi (per la

verità assai limitati) l’inesistenza di precedenti penali. Piuttosto, la funzione dell’anagrafe deve esser quella

di rilevare la presenza stabile di un cittadino e non può questa essere sottomessa a considerazioni di altro

tipo.

La residenza anagrafica, in estrema sintesi, contrariamente a quello che spesso si pensa, non consiste nel

possedere un alloggio dignitoso e commisurato agli standard del tempo presente, ma nell’essere persona

abitualmente presente in un luogo dato. Questa presenza assumerà rilievo utile per l’iscrizione nei registri

anagrafici al di la delle caratteristiche del luogo in cui il cittadino dichiari di essere abitualmente presente.

Qui ci incamminiamo verso il secondo snodo disciplinare del diritto alla residenza anagrafica costituito dalle

modalità di verifica delle dichiarazioni del cittadino. Spesso, purtroppo, le amministrazioni locali richiedono

al cittadino al momento dell’iscrizione anagrafica di esibire congiuntamente certificazioni improprie quali

bollette, contratti di servizio per luce o gas ovvero moduli di cessione del fabbricato. Atteggiamenti

amministrativi sospettosi verso la buona fede del cittadino ovvero utili a facilitare o sostituire il

preaccertamento del vigile informatore. Queste prassi assolutamente illegittima di fatto impedisce a molti

cittadini stabilmente presenti nei nostri comuni di iscriversi nei registri anagrafici.

Per poter garantire a tutti i cittadini che dimorano presso i nostri comuni uguali diritti bisognerebbe con

coraggio eliminare la richiesta di certificazioni improprie ovvero allargare tale richiesta inserendo ed

utilizzando altro tipo di certificazioni che possano veramente aiutare l’amministrazione ad avere una

effettiva fotografia della realtà quali per esempio certificazioni emesse da associazioni (ONLUS, Parrocchie,

Centri d’Ascolto, ecc.…) operanti nel sociale che con buon grado di affidabilità possono confermare la

residenzialità del richiedente. Al riguardo si può ricordare che il legislatore ha già da tempo inserito le

associazioni come attori privilegiati con cui gli enti locali devono interagire per promuovere politiche di

assistenza e di residenza più inclusive. Effettivamente non da ieri ma già da molti anni alcuni tra i più grandi

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comuni (Roma, Firenze, Genova, Torino, Bologna, ecc.…) utilizzano alcune associazioni del volontariato

resesi disponibili a fungere da domicilio elettivo ai fini della richiesta di residenza da parte di persone con

difficoltà alloggiative.

Contrariamente da quanto spesso avviene nella gran parte dei Comuni d’ Italia nessun problema di

preaccertamento della effettività della residenza si dovrebbe porre all’iscrizione anagrafica sollecitata da un

senza dimora. L’ISTAT, nelle sue note illustrative della legge anagrafica e del regolamento, suggerisce

l’istituzione in ogni Comune di una sessione speciale “non territoriale” nella quale siano elencati e censiti

come residenti tutti i senza tetto ed i senza dimora che desiderano eleggere domicilio al fine di ottenere la

residenza anagrafica, individuando allo scopo una via territorialmente non esistente. Quindi se eleggere un

domicilio in un determinato Comune da parte di un senza dimora è una scelta incondizionata libera ed

esclusiva del richiedente senza tetto (come peraltro ribadito da diverse circolari del Ministero dell’Interno –

vedi Dir.Amm. Civile n.1/97 - che riprendono art. 2, co3, L.1228/1954), l’ufficiale d’anagrafe non dovrà

porsi il problema della identificazione dell’abitazione del soggetto svantaggiato e senza casa ma piuttosto

dovrà verificare l’effettiva precarietà ed assenza di protezione in cui questo si trova a vivere.

3.2.1 Il ruolo dei servizi di strada4

Gli elementi che caratterizzano il lavoro di strada risentono di un approccio di tipo comunitario, caratterizzato da alcuni punti di rottura col passato, i quali hanno dato una nuova impostazione al rapporto servizi-utenti. In particolare:

● lo spostamento dell'attenzione rivolta ai servizi, a quella centrata sulla persona, sui problemi che essa

esprime e sulle risorse che già possiede per affrontarli;

● il passaggio di un lavoro sociale per troppo tempo concentrato solo all'interno delle istituzioni e delle

strutture ad un lavoro sul territorio;

● il passaggio dalla strada percepita solo come un luogo pericoloso, a rischio, alla strada come spazio

privilegiato d'incontro e di aggregazione;

A provocare questi spostamenti dalla prassi operativa tradizionale hanno contribuito, in modo rilevante, persone e gruppi appartenenti al mondo del volontariato, la cui attività ha introdotto nel lavoro sociale una nuova sensibilità ed attenzione, facendo nascere l'esigenza di modalità diverse d'intervento, più vicine alle persone e alle loro necessità.

Il passaggio da un lavoro all'interno dell'istituzione ad interventi nel contesto di vita delle persone, ha avviato un notevole sviluppo del lavoro di strada, la cui tipologia di azioni si è progressivamente ampliata, individuando nuovi destinatari e nuove modalità di lavoro:

● dall'intervento sul singolo all'intervento sull'intera famiglia;

● dall'intervento mirato all'individuo e al suo nucleo di appartenenza a quello con i contatti sociali e

relazionali di cui dispone

● dagli spazi di vita e di relazione dei soggetti alla rete di risorse e di servizi del territorio, in cui

l'operatore svolge il ruolo del mediatore.

Nell’ambito degli interventi finalizzati al contrasto e alla prevenzione dell’homelessness e delle dipendenze

patologiche, le Unità di strada svolgono funzioni di prossimità sul territorio, con azioni di informazione,

sensibilizzazione e riduzione dei rischi legati alla vita “di strada”, oltre che interventi di riduzione del danno

rivolti a persone con dipendenza patologica.

4 Contributo della città di Bari .

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Il lavoro di strada è un'azione sociale dai confini incerti e dalle dinamiche ancora da definire, con non pochi

elementi di ambiguità. Passare infatti da una logica dei servizi ad una modalità che presuppone di muoversi

nel territorio e nelle strade alla ricerca delle tracce dei passaggi e dei percorsi di vita dei singoli individui e di

gruppi non è facile perché presuppone che l'operatore di strada abbia una disponibilità molto alta al lavoro

in situazione di incertezza (in senso metaforico al lavoro" senza protezione"), che è quindi sperimentale in

ordine al suo ruolo, alla sua professionalità, al suo stile relazionale, alle sue attese.

Sotto questo profilo il lavoro di strada nasce dalla scelta di sostare e frequentare i luoghi dove la gente vive

e dove si generano le condizioni di disagio e di sofferenza.

La strada diventa quindi il “setting” o il “contesto” del lavoro di strada perché è il luogo in cui, con tutte le

valenze affettive e cognitive che questo comporta, si vivono molte relazioni, ci si può riconoscere e

aggregare a un gruppo o a un altro, che dà identità a chi non ce l'ha e la toglie a chi non la vuole. E'

sufficiente osservare la dislocazione territoriale dei gruppi informali in una qualunque zona urbana per

rilevare come ognuno occupa il suo posto, la sua posizione, il suo angolo di strada.

Così l'operatore di strada può inserirsi come “interlocutore privilegiato” che si offre, sfruttando la sua

presenza, per favorire occasioni di aiuto ai singoli individui, ma anche ai gruppi e alla collettività in generale.

Gli obiettivi del lavoro di strada sono la conoscenza, il monitoraggio e l'informazione sui fenomeni, nonché

l'attivazione di relazioni significative per incidere su comportamenti definiti a rischio. Questo lavoro

presuppone quindi una nuova concezione della relazione d'aiuto che si trasforma da offerta di soluzioni a

promozione di consapevolezza e di responsabilità. L'operatore di strada diventa quindi un mediatore

relazionale tra i bisogni di un singolo, della comunità da un lato e gli ambiti, gli strumenti, i processi che

potrebbero interagire con loro dall'altro. E' un negoziatore che ascolta, ricerca, accoglie, ma anche informa,

fornisce gli strumenti, accompagna e sviluppa varie risposte sociali.

3.2.2. Il ruolo delle strutture di accoglienza

Adottare una pianificazione degli interventi di accoglienza che preveda metodi capaci di integrare gli

strumenti propri delle misure tradizionali già in atto nel quadro di interventi di tipo maggiormente

strutturato che mirino a un modello di tipo inclusivo capace di fornire efficace risposta alla domanda di

emergenza, sperimentando un mix sociale che eviti la categorizzazione del problema.

Si mira a mettere in campo elementi di innovazione in cui la priorità non sia incentrata

sull’implementazione dei dormitori di prima accoglienza ma piuttosto sull’affrancamento del soggetto dalla

“trappola della povertà” e dalla dipendenza della prestazione ricevuta, lavorando in ambito aperto e

flessibile per formulare ipotesi concrete rispetto al ventaglio delle opportunità attivabili.

3.2.3 Il ruolo delle mense e dei servizi di distribuzione di generi di prima necessità

Le mense e i centri di distribuzione di alimenti e servizi per le prime necessità sono ormai nel nostro paese numerosi e consolidati. L’impennata della domanda, senza precedenti, degli ultimi cinque anni ha spinto all’auto organizzazione di servizi e al consolidamento di quegli storici. Senza dubbio questi particolari servizi rientrano in quelli denominati più comunemente di “bassa soglia”. Soddisfano obiettivi emergenziali e di prima necessità. Ma la loro presenza storica ha stimolato importanti riflessioni tra gli operatori e la governance politica locale e nazionale. Questi interventi consentono spazi di opportunità per l’esercizio della discussione pubblica, in cui, per esempio, si negozia e ci si mette d’accordo (spesso faticosamente) sui reciproci criteri di attribuzione del senso e del valore di beni personali e (collettivi) quali salute, benessere, qualità della vita.

La mensa ha più rappresentazioni nel contesto sociale. E’, quindi, un sistema di cui si intercetano relazioni che producono altre relazioni, è un centro di frontiera nel territorio che interfacciandosi con la rete dei servizi pubblici - privati provoca cambiamenti nelle politiche di welfare locale, questi luoghi nei confronti

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della società civile promuovono una rilettura della complessità dei problemi con cui si confronta una comunità locale. Dal punto di vista antropologico le mense sono spesso i contesti privilegiati in cui si “aggancia il sommerso” quello che è sconosciuto agli uffici dei servizi sociali dei comuni, della ASL.

Se per le mense è importante, e opportuno, mantenere al minimo i criteri di accesso al servizio e facilitare l’attivazione e il mantenimento di relazioni di aiuto con l’utenza per evitare le trappole dell’assistenzialismo cronico ed il rischio di favorire l’invisibilità di persone e problemi è vincolante una strategia interconnessione permanente con i servizi territoriali.

3.3. Programmare percorsi: dalla risposta al bisogno primario verso l’abitare

[…]

3.4. La presa in carico e l’organizzazione della rete territoriale dei servizi

3.4.1 La presa in carico della persona senza dimora

La presa in carico della persona in difficoltà avviene attraverso un patto con la persona e per la persona (e non sulla persona) finalizzato ad un percorso di consapevolezza delle proprie potenzialità e limiti, all’attivazione delle risorse personali e al coinvolgimento delle risorse offerte dalla rete del territorio che si costruisce intorno alla persona.

L’accompagnamento è un approccio che mira a sviluppare o riscoprire le potenzialità, perse o dimenticate dal soggetto, la sua autonomia, la sua consapevolezza rispetto alla propria situazione, alle opportunità offerte dall’ambiente e alla possibilità di operare scelte “nuove”.

Accompagnare significa stabilire una relazione con la persona, ricercare insieme delle risposte, sostenendola nei tentativi di soluzione, formulando con lei un progetto che tenga conto della sua situazione e delle risorse attivabili, aiutandola a porsi degli obiettivi realistici, graduali e verificabili.

L’accompagnamento è un processo più o meno lungo a secondo delle problematiche della persona e si realizza attraverso alcune fasi:

● accogliere la persona come “unica”: non come un “caso” da risolvere, ma come una “storia” da

assumere;

● prendere coscienza del bisogno e delle possibilità reali di affrontarlo in termini di risorse personali,

territoriali, comunitarie, formali e informali;

● studiare, formulare e sperimentare risposte che partano dalla concretezza del bisogno;

● spendere tempo, energie e competenze nella ricerca di soluzioni che, prima di tutto, valorizzino la

persona;

● coinvolgere e utilizzare i servizi, la comunità e se stessi attorno ai bisogni emersi;

● attivare, creando una rete di solidarietà, le risorse disponibili, a partire da quelle della persona;

● accompagnare la persona nel percorso di ricerca delle soluzioni al suo bisogno, facendosi promotori

del riconoscimento e della tutela dei suoi diritti;

● formulare un progetto con la persona che, partendo dalla sua situazione reale, valuti le risorse

disponibili, individui le strategie operative per affrontare e risolvere il problema, definisca degli

obiettivi realistici, graduali e verificabili nel tempo;

● stimolare la presa in carico da parte dei servizi competenti, verificando che si facciano effettivamente

carico della situazione e denunciando eventuali inadempienze;

● sensibilizzare la comunità, perché stimoli e individui soluzioni e interventi.

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3.4.2. La presa in carico della comunità ove la persona senza dimora si trova ed il suo ruolo in essa

La cura dei problemi sociali che fa riferimento a un’ampia rete di partecipanti deve essere fondata sulla

comunità come contesto il più possibile autonomo e, non burocratico, nella gestione dei problemi. La

produzione di nuove solidarietà insiste nel coinvolgere tutta la popolazione nel contesto della vita

quotidiana, piuttosto che focalizzare l’attenzione sulle categorie o sugli ambienti a rischio. I problemi sono

visti come nodi e l’integrazione degli interventi avviene a partire dalla persona portatrice del problema e

non dal problema astrattamente definito Lo stile di lavoro con approccio reticolare deve dirigersi verso le

cause della marginalità mirando a rimettere in discussione le premesse e fornendo una consapevolezza dei

processi in atto per permetterne una ridefinizione, restituendo competenze sociali.

L’attenzione è spostata sulla comunità solidale, rispetto alla quale l’istituzione pubblica intende svolgere un compito di promozione e supporto all’auto-organizzazione e all’autodeterminazione, attraverso il sostegno o la rivitalizzazione delle reti “naturali” e la qualificazione degli interventi di solidarietà organizzata. Si delinea, quindi, un programma di trasformazione progressiva degli interventi: da modalità prevalentemente riparative a forme partecipate ed organiche al tessuto sociale. La centralità della persona ed il valore dei legami di comunità sono gli assunti che sostengono queste linee d’intervento. Si tratta, a partire dai luoghi cruciali per la costruzione dei legami sociali, di offrire spunti e spazi per la strutturazione di forme di partecipazione e di mutualismo tra cittadini.

[…]

3.5. I percorsi di housing first e housing led

3.5.1 Le condizioni preliminari perché si possano adottare percorsi di housing first e housing led

I percorsi Housing First e Housing Led rappresentano una innovazione nell’ambito delle politiche di

contrasto alla grave marginalità poiché introducono potenziali cambiamenti di natura politico-istituzionale,

organizzativa, culturale ed economica rispetto ai paradigmi di policy degli interventi posti già in essere in

materia di contrasto alla grave marginalità (homelessness), al disagio abitativo dei singoli o dei nuclei

familiari.

Cambiano innanzitutto i passaggi previsti dal modello di intervento tradizionale (cosiddetto a scalini), fatto

di diverse forme di accoglienza e assistenza in dormitorio, comunità-alloggio, comunità di transito, forme di

co-housing, e si prefigura invece un sistema di intervento che prevede l’ingresso immediato e

incondizionato della persona all’interno di un appartamento autonomo. Contestualmente viene offerto il

supporto di un’equipe transdisciplinare che accompagna la persona, fino a quando sarà necessario, nel suo

percorso di riconquista dell’autonomia e di benessere pisico fisico.

Dal punto di vista culturale, si riafferma con più determinazione la centralità della persona e il concetto di

“dimora” come diritto umano di base.

In questa logica, condizioni preliminari per gli enti pubblici locali, le organizzazioni del privato e del privato

sociale, affinchè possano avviare percorsi di HL e HF sul proprio territorio, sono:

- Considerare l’housing (la dimora) come diritto umano di base

- Poter gestire l’impegno a lavorare con le PSD scelte come target HF per tutto il tempo necessario

all’acquisizione dell’autonomia

- Dotarsi di appartamenti liberi e dislocati in varie parti della città (possibilmente vicino a spazi

collettivi e luoghi di vita cittadina) dove non più del 20% degli appartamenti devono essere abitati

da categorie svantaggiate

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- Separare l’eventuale trattamento (psicologico, psichiatrico o di disintossicazione da alcol e droghe)

dall’housing (inteso come diritto alla casa)

- Avvalersi di un gruppo di professionisti con profilo differente che, a seconda del target individuato

e del tipo di approccio di intervento utilizzato (intensivo o di supporto) sia capace di predisporre un

intervento di tipo integrato e transdisciplinare

- Rispettare l’auto-determinazione del soggetto

- Seguire un approccio al Recovery (ovvero sostenere la persona nel recuperare le relazione sociali

con la comunità di riferimento, riassumere un ruolo sociale, ricostruire un senso di appartenenza)

3.5.2 L’Housing first approach al disagio grave

Nel modello tradizionale ovvero quello ideato dal suo fondatore Sam Tsemperis con il Programma

Pathways to Housing (PHF) a New York nel 1992, i target prioritari sono le Persone senza dimora che

presentano ostacoli ad avere una stabilità abitativa5. La prima sperimentazione avviata proprio a New York

negli anni Novanta si rivolge ad una specifica utenza di persone senza dimora definite croniche. La scelta

per questo target si basa sulla correlazione osservata tra grave sofferenza psichica, incapacità/difficoltà di

reagire ai programmi classici di assistenza sociale passando ad uno stadio autonomo, grave marginalità che

si cronicizza nel tempo. L’approccio allora, ribaltando completamente la logica di intervento preesistente,

parte dal riconoscimento di un diritto oggettivo, di un elemento materiale dal quale ripartire per affrontare

la risalita e il recupero del benessere e della propria autonomia: la casa/dimora come diritto umano di base.

Solo l’accesso ad una abitazione stabile, sicura e confortevole può generare un benessere diffuso e

intrinseco nelle persone che hanno vissuto da tempo un grave disagio (long term homelessness). Per le

persone senza dimora la casa è il punto di accesso, il primo passo, l’intervento primario da cui partire nel

proporre percorsi di integrazione sociale. l benessere derivato da uno stato di salute migliorato,

l’accompagnamento psicologico, assistenziale e sanitario garantiti dall’equipe housing first all’utente

direttamente a casa (secondo il modello tradizionale) possono, come gli studi hanno dimostrato, essere

vettori di una stabilità abitativa.

3.5.2.1 Target specifici

Nel modello tradizionale, l’approccio Housing first è destinato a target che presentano gravi difficoltà di

accesso e mantenimento di una abitazione ma non solo:

1. Persone senza dimora con problemi di salute mentale, che a loro volta possono includere PSD espressione di altri bisogni:

I. PSD croniche II. PSD con problemi di abuso da sostanze

III. PSD con procedimenti giudiziari minori in corso IV. PSD con condizioni di salute fisica precarie V. PSD emarginate gravi (che rifiutano ogni forma di supporto o relazione con la società)

Nel corso degli ultimi vent’anni, altre forme di Housing First si sono sviluppate sia negli Stati Uniti che in Europa (Danimarca, Finlandia, Irlanda, Francia, Ungheria, Olanda, Portogallo, Austria, Regno Unito e, recentemente, anche in Italia), lasciando alla diffusione di forme ibride di housing first che sebbene sposino

5 Tsemberis, S., 2010, Housing First: The Pathways Model to End Homelessness for People with Mental Illness and

Addiction Manual, Minnesota: Hazelden

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la filosofia di fondo del modello originario (prima la casa) differiscono nei target, nelle modalità abitative offerte e nella metodologia di intervento.

Una proposta elaborata da uno studioso americano6 propone una trilogia di forme: 1. pathways to housing; 2. Communal Housing first; 3 Housing first light services. In questi ultimi due modelli altri target inclusi sono, rispettivamente:

2. Persone senza dimora croniche con problemi di salute mentale o abuso da sostanze 3. Persone a rischio senza dimora (giovani e nuclei familiari)

In questi casi, cambia anche il tipo di intervento.

3.5.2.2. Modalità di intervento

Rispetto alle diverse categorie di utenti, il modello Housing first può seguire approcci di intervento differenti.

I più diffusi, nell’ambito del modello originario Pathway to housing , sono:

a) l’approccio ACT (Assertive Community Treatment) b) e l’approccio ICM (Intensive Case Management)

In entrambi i casi, lo staff può svolgere attività di unità di strada per intercettare le PSD da inserire nel programma e seguire tutta la fase di primo insediamento abitativo e accompagnamento all’abitare e al vivere. Le differenze stanno nell’approccio e nella metodologia di intervento. L’ACT è dedicato a persone con gravi problemi d salute mentale, il team è formato da diversi profili professionali (multidisciplinarità) e lavora con la persona inserita nel programma HF direttamente a casa secondo un rapporto di 1 a 7 operatori. L’ ICM è rivolto a persone con criticità minori che non hanno bisogno di essere seguiti da un team ma il singolo operatore (dopo la visita a casa obbligatoria) può accompagnare la persona in programma HF presso i servizi di cui ha bisogno (cosiddetto service brokerage)7.

L’approccio HF prevede comunque diversi tipi di servizi8 :

● - supporto all’ abitare (lo staff può interloquire con i proprietari di casa, sostenere la persona nella gestione del proprio denaro, accompagnarlo a fare la spesa oppure a comprare i medicinali o ancora a disbrigare questioni burocratiche legate per esempio al proprio sussidio, al pagamento dell’affitto, etc)

● - servizi psichiatrici ● - intervento integrato per prevenire l’abuso di sostanze ● - supporto alla ricerca di un lavoro ● - servizi infermieristici ● - servizi di integrazione sociale ● - servizi di emergenza H24 in caso di gravi crisi di natura psichiatrica ● - servizi ospedalieri

E ancora9

● - supporto alla gestione di pratiche burocratiche ● - supporto alla risoluzione di questioni legali

6 Pleace, N, 2012, Housing Firts, DIHAL .

7 Tsemberis, S., (2010), op. cit.

8 Ibidem

9 Casas Primeiro Report - Lisbona 2012.

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● - contatto con i familiari ● - supporto per l’inserimento in percorsi di formazione e occupabilità ● - collegamento con la rete territoriale dei servizi sociali, sanitari e collettivi ● - supporto alla gestione della casa ● - contatto e intermediazione con i proprietari di casa

3.5.2.2.1 Sulla Persona

La centralità della persona, il rispetto/compassione dei potenziali utenti, l’auto-determinazione nella scelta

della cura/intervento da seguire (o non seguire), la riduzione del danno, sono alla base dell’approccio

housing first.

La persona senza dimora o in grave disagio abitativo viene intercettata sulla strada o tra i “clienti abituali e

continuativi” di dormitori. Viene avvicinata dal team dell’Unità di strada e viene proposto lei di entrare

immediatamente in un appartamento individuale e autonomo.

Alla persona non viene richiesto di interrompere l’utilizzo di eventuali sostanze per ottenere

l’appartamento ma devono accettare di ricevere almeno una visita settimanale da parte del team del

programma HF e compartecipare con il 30% del proprio reddito (o pensione, o indennità) al pagamento

dell’affitto.

3.5.2.2.2 Sulla Comunità

Per facilitare la ripresa dei legami relazionali e sociali della PSD in programma HF con la Comunità di

riferimento, gli appartamenti non devono essere periferici ma devono trovarsi in diverse zone della città

ben collegate (scattered-site private market housing) e vicine a luoghi di interesse collettivo (community

neighbourhoods), in condomini di piccole dimensioni dove non più del 20% degli alloggi sia destinato a

categorie svantaggiate.

Il team HF può prevedere tre macro azioni di integrazione sociale10:

1. facilitare l’accesso e aiutare i partecipanti al programma HF a sviluppare di nuovo una identità sociale

all’interno della comunità. Il team può per esempio accompagnare la persona presso i negozi e gli uffici

della zona per facilitare la ripresa delle relazioni sociali;

2. aiutare i partecipanti a sviluppare “competenze sociali” che possono facilitare successivamente le

relazioni sociali. Gli incontri/colloqui con gli operatori possono talvolta avvenire presso un bar, un locale o

una piazza dove la persona può piano piano riacquistare dimestichezza con “i modi di fare” in pubblico, etc;

3. rafforzare il senso di cittadinanza e la partecipazione alla vita sociale e politica del proprio contesto

sociale così come della vita spirituale. La stessa persona potrebbe iscriversi ad una associazione politica o

apolitica che si occupa per esempio di diritti umani, potrebbe iniziare a frequentare la chiesa o gruppi

religiosi, potrebbe partecipare a esperienze di interesse collettivo come i comitati di quartiere, o ancora

potrebbe entrare a far parte dei gruppi di mutuo-aiuto e realizzare l’approccio del Peer support (gruppo dei

pari) auspicato anche dal modello HF.

10

Ibidem

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3.5.2.3. Risorse necessarie

● Le risorse necessarie per avviare programmi HF sono di diversa natura: ● umane: il team HF deve essere composto da professionisti del sociale di diversa formazione ● economiche: i programmi HF prevedono dei costi di affitto, gestione e manutenzione degli

appartamenti, una qualche disponibilità di reddito dei partecipanti, ● sociali: servizi sociali, servizi sanitari, centri di supporto psicologico, counselling e orientamento al

lavoro, istituti di formazione, servizi pubblici (trasporti etc), servizi legali e di tutela dei diritti umani.

3.5.2.4 Risultati attesi

I risultati attesi guardano ad una prospettiva di intervento di medio-lungo periodo che interrompa la logica dell’intervento emergenziale, o del mero meccanismo di risposta basato su bisogno-servizio.

I risultati attesi guardano ad una prospettiva di risoluzione definitiva della condizione di senza dimora:

● stabilità abitativa ● riduzione del danno ● riduzione di comportamenti devianti ● utilizzo razionale e supportato (ove necessario) dei servizi socio-assistenziali e socio sanitari ● miglioramento del benessere psico-fisico della persona ● recupero delle relazioni sociali e/o familiari, costruzione di legami amicali e ove possibile anche

lavorativi ● impegno in attività lavorative

3.5.3 I percorsi di housing led

3.5.3.1. Scopi, target e obiettivi

3.5.3.2. Organizzare progetti di presa in carico personale ed efficace in una logica housing led

3.5.3.3. Allestire e sostenere alloggi per la presa in carico housing led delle persone senza dimora

3.5.3.3.1. Reperire e allestire alloggi

3.5.3.3.2. La conversione ad alloggio di strutture di ospitalità esistenti

3.5.3.4. Ruolo delle Comunità di transito e Comunità a Spazi Condivisi

Le Comunità di transito accolgono persone adulte in difficoltà dettata dalla mancanza di una dimora e dalla perdita – o dal forte affievolimento - dei legami e delle reti di appartenenza familiari e sociali, che hanno intrapreso o vogliono intraprendere un percorso di reinserimento sociale e lavorativo. Tale condizione, contingente o stabilizzata, può rappresentare una tappa all’interno di un progetto di vita individuale oppure il risultato di una biografia “in discesa”, ma in tutti casi comporta l’emergere di bisogni prioritari, legati alla sussistenza - come il riparo, il cibo, il vestiario, la salute – e la necessità di uno spazio per riappropriarsi della propria autonomia e ridefinire il proprio progetto di vita. Gli Obiettivi principali dell'accoglienza di secondo livello sono:

● Offrire una risposta concreta a bisogni primari, la cui soddisfazione è importante per la salute fisica e mentale (dormire, mangiare, lavarsi, vestirsi, avere un luogo dove passare il tempo e socializzare, ecc…) e dove potersi riappropriare della propria autonomia;

● la cura della persona (del proprio corpo, delle proprie emozioni, della propria storia personale);

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● il riappropriarsi di un’organizzazione di vita (consapevolezza delle proprie dinamiche relazionali, delle proprie risorse e capacità, acquisizione di nuove abilità);

● l’ attivazione di una rete di supporto (formale ed informale); ● l'opportunità di costruire un percorso di reinserimento sociale e lavorativo; ● favorire l’accesso delle persone alla rete dei servizi

In breve si ritiene necessario realizzare un programma efficace di totale reinserimento creando un progetto costruito intorno alla persona, ai suoi bisogni e fornendole la possibilità materiale di poter nuovamente prendersi cura della propria persona in maniera autonoma. L’accoglienza avrà luogo al termine di un periodo di osservazione sufficiente affinché gli operatori della struttura siano in grado di individuare le potenzialità e capacità della persona, la sua reale disponibilità a seguire il progetto. L’osservazione può avvenire in modalità diverse che possono essere ad esempio durante la permanenza presso una struttura del tipo a bassa soglia, o presso un’altra struttura o attraverso modalità individuate dagli operatori della struttura che propone il progetto. L’importanza che assume l’abitare in un luogo autonomamente gestibile e culturalmente inteso, fornisce la misura di come il non-abitare sia una forma di diseguaglianza poiché l’abitazione è un elemento primario di identità, un criterio essenziale di riconoscimento e di appartenenza sociale. Naturalmente si non si lavoro sull'espansione di una libertà legata ad un bisogno materiale (housing) quanto sulla maturazione della consapevolezza dell'abitare come libertà strumentale e dimensione legata all'affettività. In questo senso l'attivazione di soluzioni abitative protette permette agli ospiti in situazione di temporanea difficoltà sociale e abitativa di poter tornare a vivere in una dimensione familiare e creare uno spazio fisico che possa diventare anche luogo volto all'acquisizione di una propria autonomia. Gli ospiti elaboreranno e seguiranno un programma d'intervento volto alla loro emancipazione e alla partecipazione attiva alla vita comunitaria della quale si diventa partecipi in tutte le azioni quotidiane: dall'igiene della casa, alla cucina comune, passando attraverso momenti di socializzazione e di condivisione. Gli elementi caratterizzanti di tali soluzioni abitative dovranno essere:

● accesso mediato dai servizi all'interno di un piano di intervento finalizzato al raggiungimento dell'autonomia personale e/o al reinserimento lavorativo;

● rapporto tra operatori e utenti basata sul riconoscimento dei bisogni dell'utente e su una reciproca alleanza per raggiungere gli obiettivi prefissati;

● lavoro di rete tra diversi servizi per facilitare la risposta a bisogni più specifici manifestati dall'utenza.

Tipologia di prestazioni Gli utenti sono accolti in residenze collettive (case famiglia, gruppi appartamento...) nelle quali sperimentano forme accettabili di vita quotidiana in situazioni di convivenza guidata. In questi alloggi sono ospitati per un periodo limitato nel tempo (medio – lungo periodo) e l’èquipe degli operatori formula con ogni ospite un progetto individualizzato, al fine di focalizzare gli obiettivi da raggiungere a breve e medio termine. L’inserimento può consentire di aiutarli a recuperare l’autonomia anche economica che permetterà loro di trovare un’abitazione autonoma in locazione. Le prestazioni offerte possono essere sintetizzate in: Accoglienza abitativa h24 con fornitura di vitto, prodotti e materiale per l’igiene personale e della casa; Assistenza alla fruizione delle prestazioni sanitarie; Orientamento ai servizi disponibili per le persone senza dimora e/o in situazione di grave marginalità; Accompagnamento di tipo Educativo/Formativo verso l’autonomia con personale specializzato; Sostegno al reddito tramite inserimento lavorativo

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La struttura di accoglienza è autogestita a pieno regime dagli ospiti. La gestione della casa e gli interventi vengono discussi in Equipe L’organizzazione della vita quotidiana ha tempi e ritmi specifici ed è centrata sulla corresponsabilità degli ospiti nei confronti di se stessi, degli altri, dell’ambiente. Mira a ri-attivare le persone, promuovendone le capacità individuali, l’autostima e la capacità di vivere in modo responsabile. A tal fine risulta fondamentale la partecipazione attiva degli ospiti alla gestione e al funzionamento della casa: collaborazione nei lavori domestici, responsabilizzazione e coinvolgimento nelle piccole e grandi decisioni quotidiane.

3.5.3.5. Finanziare e mantenere progetti individualizzati di inserimento abitativo

[…]

3.6.2 Il lavoro di comunità come fattore di successo

Il Lavoro di Comunità si fonda su un insieme di valori che riguardano la giustizia, l’uguaglianza, democrazia e il miglioramento delle condizioni di vita di chiunque si trovi in una condizione di disagio: a tali valori si ancorano tecniche, abilità e prospettive. Tale approccio si situa in un’area di confine tra diverse discipline perché richiede l’impegno di molteplici attori, risorse, approcci e prospettive.

Il lavoro di comunità viene declinato come una tipologia di intervento specifica oppure come approccio di lavoro vero e proprio:

● In quanto tipo di intervento si utilizza quando si intende attivare le risorse della comunità locale (tipico il caso in cui l’istituzione pubblica, in un’ottica di sussidiarietà orizzontale, ‘ricerca una maggiore vicinanza ai cittadini e alle problematiche del contesto locale’)

● In quanto approccio di lavoro degli operatori sociali, richiede il coinvolgimento diretto di una rete di servizi nel contesto locale di riferimento.

Il lavoro di comunità è particolarmente appropriato laddove si intenda affrontare un disagio sociale riconducibile ad una problematica diffusa in un preciso contesto locale: in questo caso il lavoro di comunità può consentire di ampliare la corresponsabilità del contesto stesso su quel tema specifico.

Sicuramente è un intervento che parte da un substrato caratterizzato da:

● esigenze di un livello più elevato sicurezza da parte dei cittadini; ● presenza di conflittualità interculturale; ● presenza di degrado urbano e sociale.

L'Identità della comunità:

Uno dei punti di partenza dell’approccio comunitario è la definizione della comunità stessa cui ci riferiamo, quali sono le usanze e le appartenenze che la abitano. E’importante infatti partire proprio dalle percezioni che le persone hanno della propria comunità ed effettuare quindi un lavoro di conoscenza ed approfondimento delle rappresentazioni di coloro che risiedono in un certo contesto locale. Infatti il cittadino, nella sua accezione comunitaria, è in grado di portare all’attenzione una consapevolezza specifica dei bisogni che occorre acquisire e ricostruire. Centrale pertanto è l’ascolto attivo del cittadino in quanto risorsa in grado di portare nuove conoscenze ed in quanto promotore di possibili iniziative.

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La fase successiva è rappresentata dall’approfondimento del concetto di partecipazione. Esso si configura come un processo “di sviluppo della coscienza critica e di acquisizione del potere” attraverso il quale si contribuisce a mutare i comportamenti delle persone da passivi in attivi e critici. La partecipazione porta a far avvertire come proprio il processo di evoluzione sociale da parte di un singolo o di un gruppo: quando i cittadini partecipano direttamente all’ideazione e programmazione di un’attività, tendono a sentirsi maggiormente proprietari di ciò che si sta facendo e corresponsabili del suo successo o meno. Per lo start up del processo di partecipazione emerge la necessità di sostenere nel tempo la ‘spinta’ iniziale, che può condizionare l’intero processo.

Altro tassello è rappresentato dal concetto di collaborazione fra gli attori della comunità. La collaborazione può essere intesa in varie accezioni: scambio di informazioni (livello minimo), segnalazione di un problema, collaborazione su un caso, collaborazione su un problema specifico, realizzazione congiunta e partecipata di progetti (livello massimo).

A questo punto è necessario l’intervento del lavoro di comunità: infatti il soggetto che si trova ai margini può’ utilizzare diversi luoghi e a volte spostarsi sul territorio, ma la sua capacità di controllo, gestione, uso degli spazi tende a diminuire. L’attenzione deve essere posta sul concetto di senso di appartenenza e sugli spazi fisici del “quartiere” ai quali deve essere collegata la nozione di comunità.

E’ necessario quindi promuovere la costituzione di luoghi stabili che facilitino il ruolo di advocacy del volontariato, del terzo settore e delle altre risorse territoriali valorizzando i legami e le molteplici espressioni di cittadinanza attiva al servizio della comunità locale e sperimentare percorsi di responsabilizzazione competente del territorio a partire dalla comunità non più intesa come bacino di utenza caratterizzato da forme più o meno gravi di disagio, ma come attore sociale che si rende collettivamente capace di analizzare la propria situazione, ne riconosce i bisogni e si mobilita per il cambiamento favorendo il protagonismo dei cittadini.

Un sistema di welfare incentrato sul servizio, chiuso sulla prestazione alla persona, risulta poco incline alla lettura del bisogno, in particolare delle nuove vulnerabilità sociali, e alla attivazione di risorse territoriali tradizionalmente estranee o marginali rispetto alla logica dei servizi resi indipendentemente dal contesto relazionale e di comunità in cui sono inseriti.

In questo senso si rende necessario ripartire da una comunità in grado di prendersi cura, di educare, di contenere e di riparare ponendo al centro della riflessione bisogni e risorse.

Accogliere ed ascoltare significa avere chiara l’unicità della persona, essere consapevoli che la persona è qualcosa di più della somma dei suoi problemi, è portatrice di risorse anche nei momenti di difficoltà. Questa unicità, queste risorse vanno scoperte, ri-conosciute e messe in rete con tutte quelle del territorio,

spingendo a superare l’assistenzialismo; riconoscere la dignità e la responsabilità di ogni singola persona, rendendola soggetto del progetto che la riguarda, significa lavorare con lo stile della promozione.

Il lavoro di rete rappresenta dunque lo stile per una attenzione globale alla persona, alla sua dignità, non solo in termini di soddisfazione dei bisogni ma anche e soprattutto di “potere” e “libertà” nella scelta del proprio cammino di riscatto con consapevolezza.

Appare dunque evidente l’importanza della conoscenza del territorio, delle sue risorse e del coinvolgimento di esse: la presa in carico e l’accompagnamento presuppongono la disponibilità al riconoscimento e coinvolgimento reciproco, disponibilità all’incontro e alla possibilità di percorsi formativi comuni, attività di coordinamento dei servizi, sensibilizzazione della comunità a stili e atteggiamenti più attenti all’accoglienza e al rispetto delle differenze, non rinunciando alla funzione specifica e fondamentale di advocacy.

Il processo di aiuto interessa il singolo e la comunità. Il cambiamento della persona avviene soprattutto nell’ambito del gruppo, della comunità e del contesto. Ciò evidenzia che in ogni singolo va sempre curata sia la dimensione personale che comunitaria.

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3.6.3.Volontariato e prossimità come risorsa integrativa fondamentale

4. SPERIMENTAZIONI E VALUTAZIONE

[….]