neretva - narrativa, libri per ragazzi e bambini, musica ... · la guardo scorrere e forse capisco...

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9 Neretva La fila di croci sembra non avere mai fine. Croci bianche tutte uguali, incolonnate a presidiare il loro metro di terra ai piedi della collina. Le vedo scorrere come dei soldati in parata. Questo è ciò che rimane, penso, mentre dal finestrino aperto dell’automobile, l’aria calda di luglio mi accarezza il volto. Non siamo indispensabili per nessuno, il vuoto che lasciamo viene sempre riempito da qualcos’altro. Estranea a ogni faccenda umana, la Neretva è un’appa- rizione luminosa. Da qualche chilometro, le anse del fiu- me ci accompagnano attraverso le colline: l’acqua è verde scura, eppure tersa, priva di detriti, gelida anche d’estate. La guardo scorrere e forse capisco cosa intendono quando raccontano storie sullo spirito del fiume, forse intuisco quale misteriosa forza si nasconda dietro questo inces- sante moto dall’alto verso il basso. Anche noi ci stiamo muovendo, nonostante le croci bianche, nonostante la no- stra inadeguatezza, andiamo avanti e più ci allontaniamo dalla costa dalmata più sappiamo che non sarà semplice tornare indietro. Cerchiamo delle risposte ma non credo che le nostre domande siano quelle giuste. Forse dovrei sparire anche io, ignorare ogni scarto e ogni possibilità di fuga per abban-

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Neretva

La fila di croci sembra non avere mai fine.

Croci bianche tutte uguali, incolonnate a presidiare il

loro metro di terra ai piedi della collina.

Le vedo scorrere come dei soldati in parata.

Questo è ciò che rimane, penso, mentre dal finestrino

aperto dell’automobile, l’aria calda di luglio mi accarezza il

volto. Non siamo indispensabili per nessuno, il vuoto che

lasciamo viene sempre riempito da qualcos’altro.

Estranea a ogni faccenda umana, la Neretva è un’appa-

rizione luminosa. Da qualche chilometro, le anse del fiu-

me ci accompagnano attraverso le colline: l’acqua è verde

scura, eppure tersa, priva di detriti, gelida anche d’estate.

La guardo scorrere e forse capisco cosa intendono quando

raccontano storie sullo spirito del fiume, forse intuisco

quale misteriosa forza si nasconda dietro questo inces-

sante moto dall’alto verso il basso. Anche noi ci stiamo

muovendo, nonostante le croci bianche, nonostante la no-

stra inadeguatezza, andiamo avanti e più ci allontaniamo

dalla costa dalmata più sappiamo che non sarà semplice

tornare indietro.

Cerchiamo delle risposte ma non credo che le nostre

domande siano quelle giuste. Forse dovrei sparire anche io,

ignorare ogni scarto e ogni possibilità di fuga per abban-

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donarmi all’acqua che scorre, lasciando il mondo durante

un’ultima estate di meraviglia.

Ma non sono un uomo così coraggioso.

Respiro profondamente, una, due, tre volte.

La ripetizione mi conforta, sapere che a una cosa ne

seguirà sempre un’altra, e poi ancora senza interruzione,

seguendo un ritmo naturale che non può ammettere spazi

vuoti.

La strada ora è più ripida, il paesaggio sta cambiando,

l’ombra dei boschi ci avvolge e il mare diventa un ricordo

lontano. Nell’automobile entra l’aria dei primi monti Balca-

nici, gli aspri dirupi carsici dove trovavano rifugio i seguaci

del bano Domagoj, pirati ferocissimi che infestavano le co-

ste della Dalmazia e dell’Istria veneziana.

Queste sono sempre state zone franche, luoghi segreti,

ultimi nascondigli, apparizioni di leggende. Ma arrivati a

questo punto non posso accontentarmi di pensieri fuggenti.

Ci fermiamo su uno spiazzo erboso per sgranchire le

gambe.

Sono le tre del pomeriggio, fa molto caldo, non c’è un

filo di vento e la vallata sembra deserta.

Viaggiamo solo noi, lungo la strada per Mostar.

Davide guida silenzioso, in bocca ha una sigaretta croata.

Durante questo viaggio parliamo poco. Siamo entram-

bi delusi, affaticati da una vita che consideriamo ingiusta.

Naturalmente ci stiamo sbagliando, a prescindere da ogni

scelta e da ogni responsabilità personale, abbiamo sempre

vissuto in un paesaggio umano scolpito dal privilegio. Per

capirlo siamo dovuti ripartire, vedere da vicino cosa signi-

fica essere vittime, essere braccati da un nemico che non

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concede quartiere. Ogni confronto è improponibile ma

adesso almeno l’orizzonte è diventato molto più semplice,

quasi ordinario.

Sebbene con un poco di ritardo, la nostra giovinezza

sta volgendo al termine, fra pochi mesi saremo entrambi

costretti a fare delle scelte importanti. Io sono a un passo

dalla laurea in Lettere, a conclusione di un percorso di studi

brillante sebbene troppo discontinuo. La discussione della

tesi certificherà la fine di ogni attesa e di ogni giustificazio-

ne. Davide invece deve decidere se intraprendere una nuova

strada che potrebbe essere rischiosa o anche solo inutile.

Per il momento abbiamo bisogno di tacere poi vedremo

cosa succede.

Le croci sono finite, non ci sono più ostacoli fra noi e la

fitta trama degli alberi. Mi piace tenere la testa fuori dal

finestrino, lo facevo anche da bambino. Annuso, osservo,

catturo il vento con le mani, creando forme tonde, imma-

gino grandi natiche generose. Ma il paesaggio è immobile,

potenzialmente ostile, resiste un’obbligata tregua che sareb-

be un errore scambiare per serenità. Non riesco a scorgere

nessun movimento, lo sguardo si perde dentro ai boschi,

uomini e bestie stanno tutti nascosti al riparo, in attesa della

frescura notturna.

L’interruzione dura pochi minuti, il tempo necessario

per attraversare il confine fra un paese e quello successivo,

quando siamo di nuovo costretti all’evidenza della guerra.

Comincia la distesa delle mezzelune.

Sono centinaia, candide, della stessa dimensione delle

croci, disposte nella stessa lingua di terra, alla stessa identica

distanza. Un altro cimitero, questo è islamico.

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E sembra non finire mai.

La guerra in Bosnia invece è finita da circa sette me-

si, quando a Dayton, una sconosciuta cittadina militare

dell’Ohio, sotto lo sguardo colpevole degli Stati Uniti, della

Russia e della Comunità Europea, i belligeranti serbi, croati

e bosgnacchi, i bosniaci di fede musulmana, hanno firmato

l’accordo di pace che divide il paese i due zone amministrate

autonomamente: una dai serbi con capitale Banja Luka e

l’altra da una federazione formata da croati e bosgnacchi

con capitale Sarajevo. Almeno così dovrebbe essere, in realtà

sulle montagne si continua a sparare e i gruppi paramilitari

di tutte le fazioni sono armati e bellicosi. Questa è zona

di guerra, superate le postazioni dell’esercito croato che

controllano il confine alla fine della pianura, non abbiamo

ancora incontrato un’automobile civile lungo la strada, so-

lo blindati militari dell’IFOR, la forza multinazionale della

NATO, schierata in Bosnia con il mandato di fare rispettare

la fragile pace e i nuovi confini.

Davide e io, a bordo di una vecchia Panda marrone con il

tettuccio apribile, viaggiamo solitari ma determinati a pro-

seguire. Dobbiamo raggiungere Sarajevo, la capitale della

Bosnia Erzegovina in fiamme.

Fino a ieri sera eravamo ancora in Croazia. Trascorre-

vamo le vacanze in un’isola chiamata Hvar, celebre per la

bellezza del mare, il vino bianco, le coltivazioni di lavan-

da e le piantagioni di marijuana clandestine. Un luogo

riparato, dove la guerra ha fatto pochi danni, riuscendo

comunque a infiammare il nazionalismo di gente che

non ne aveva mai sentito il bisogno. Alloggiavamo in un

piccolo appartamento nel centro rinascimentale di Stari

Grad, insieme a due amiche di Milano che hanno preso

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un’altra decisione e quindi un’altra strada. È bastato un incontro casuale a farci cambiare idea sul proseguimento della nostra estate. Tre ragazzi di Sarajevo hanno affittato la camera di fianco alla nostra. Li abbiamo incontrati sul terrazzo comune, erano appena tornati dalla spiaggia. Al più giovane di loro, Edin, mancava un braccio e aveva mezza faccia devastata dalle ustioni.

«È stato il proiettile di un mortaio.» Ci ha spiegato in inglese, leggendo la domanda nei no-

stri sguardi attoniti di ben cresciuti ragazzoni italiani senza una macchia sulla pelle. Un proiettile qualsiasi dei migliaia caduti durante l’interminabile assedio alla città è esploso a tre metri da lui mentre tornava a casa da scuola. I suoi amici erano fisicamente integri ma accomunati dal dolore della giovinezza violata.

«Andate a Sarajevo, non restate qua.»All’inizio non abbiano capito ma Edin ha insistito.«In questo posto non servite a niente. Questa è una va-

canza al mare, in un luogo turistico qualsiasi, ne avrete già fatte tante. Andate a Sarajevo, andate e guardate quello che è successo durante questi anni feroci, guardate quello che ci è rimasto dopo la guerra civile. Guardate le ferite delle perso-ne, i quartieri distrutti, l’ombra nera dei roghi, i crateri nelle strade, i volti dei bambini, gli orfani senza casa, ogni cosa dovete guardare. Noi dobbiamo rialzarci e abbiamo bisogno dei vostri occhi.»

In questo posto non servite a niente, «Here, you are use-less», così ha detto Edin. Non avevo mai pensato che la mia vita potesse servire a qualcosa.

Al mattino presto siamo partiti, è stata una decisione più semplice di quanto ci aspettassimo. Abbiamo percor-

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so l’isola di Hvar per tutta la sua lunghezza e al porto di

Sućuraj ci siamo imbarcati su un piccolo traghetto guarni-

to di luci colorate. Tornati sul continente, abbiamo deciso

di lasciarci a sud la bellezza perduta di Dubrovnik e le sue

anonime pizzerie seriali, per immergerci subito dentro alla

ferita aperta della Bosnia Erzegovina: la terra dei valorosi

Illiri, del Duca, dei Bogomili, dello zar Stefano Uroš IV

Dušan il conquistatore. La terra del Magnifico Sultano

Ottomano.

Trascorse due ore di viaggio, stiamo ancora guidando,

procediamo lungo la Valle della Neretva in direzione di Mo-

star. Mi vedo di nuovo viaggiare su queste strade, lontane

eppure così familiari, ripercorse lungo un tracciato dise-

gnato da altri.

I ricordi possono ingannare, l’odore dell’estate balcanica

è più forte di sempre. Ma ho molto tempo per pensare, per

tentare di riannodare i fili sparsi della memoria.

Quando è stata la prima volta?

Quando è che la storia è ripartita tumultuosa senza chie-

derci il permesso? Come siamo arrivati a questo punto? De-

ve per forza esserci stato un inizio, una scintilla scatenante.

Sono passati tanti anni, ero piccolo allora.

Mio padre guidava il pulmino Volkswagen rosso.

Mia madre e mia sorella cantavano canzoni.

Era l’estate del 1981.

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Il decennio paradossale

I miei anni Ottanta cominciarono guardando un telegior-

nale dipinto di rosa. Passata la mezzanotte del 31 dicembre

1979, Mario Pastore leggeva quelle che avrebbero dovuto

essere solo piacevoli notizie di cronaca oppure curiosità

sparse per il mondo. Mario sfoderava un sorriso entusiasta

e si sforzava di apparire divertente ma, trattandosi dello

stesso giornalista serioso che ogni sera da anni ci raccontava

le miserie del mondo, il risultato era patetico anche per un

ragazzino di dieci anni.

I suoi occhiali erano rosa, la cravatta era rosa, perfino lo

sfondo dello studio era rosa.

«Ci lasciamo alle spalle un decennio difficile,» diceva

Pastore «oggi ne comincia uno nuovo, carico di speranze.»

Non immaginava quanto. E non poteva sapere quanto il

rosa sarebbe stato un colore invadente.

Ma procediamo con ordine.

Sono nato il 14 ottobre del 1969, il decennio difficile

lo ricordo avvolto nel brumoso tepore dei primi anni di

vita. Sono immagini dolci, sospese fra attese interminabili,

incanti quotidiani e improvvise rivelazioni di significato.

La mia fu un’infanzia spensierata, i miei genitori mi

amavano molto e, siccome non erano ancora diventati dif-

fidenti nei confronti della vita, riuscirono a trasmettermi

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gran parte di quell’affetto. Sono cresciuto a Milano, in un

quartiere abbastanza tranquillo, formato da una manciata

di vie comprese fra piazzale Lotto e la Fiera Campionaria di

piazza Amendola. Un quartiere impiegatizio e piccolo-bor-

ghese (l’ultima grande fabbrica, l’Alfa Romeo del Portello,

cominciò a smobilitare nel 1974), di costruzione abbastanza

recente, senza un’identità riconosciuta e privo di evidenti

lacerazioni sociali, eppure confinante in tutte le direzioni

con periferie problematiche.

La circonvallazione era una frontiera, bastava attraversarla

per entrare in luoghi avventurosi, dalla fama sinistra e molto

spesso meritata, cosa che avrei scoperto crescendo, quando il

pericolo sarebbe diventato un’attrazione irresistibile.

Alloggiavamo all’ultimo piano di un caseggiato an-

ni Quaranta. L’appartamento era modesto e sicuramente

mal tenuto ma avevano un grande terrazzo pieno di rose

dal quale, quando il cielo era terso, si vedevano le Alpi

Occidentali.

Mio padre Ferdinando era originario di Piacenza e la-

vorava come insegnante di educazione fisica nella vicina

scuola media Eugenio Colorni. Da giovane era stato gioca-

tore di rugby in Serie A, prima nella sua città e poi a Parma,

ma di quel glorioso passato agonistico rimanevano poche

tracce, a parte i poco affidabili racconti e qualche sbiadita

fotografia di sorridenti giovanotti in tuta. Uomo buono, ge-

neroso, idealista, sebbene frenato da uno spesso sedimento

di moralismo provinciale, spiritoso, pigro e fatalmente privo

di nerbo, era troppo impegnato a rimpiangere la sua gio-

vinezza e a fumare le sigarette che l’avrebbero ucciso, e le

avrebbe fumate tutte fino alla fine. Mia madre Giuliana, in-

vece, era nata ad Alessandria, città inquieta e melanconica,

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precocemente impoverita, piuttosto lontana dai rassicuranti

canoni della provincia padana. Di quell’inquietudine Giu-

liana portava il segno quando giovane bellissima ragazza

fu costretta nel ruolo materno. Fatale fu l’incontro con mio

padre a Loano, una delle tante località turistiche meta delle

famiglie piccolo-borghesi dell’Italia Nord-occidentale che,

beneficiate dal boom economico, potevano permettersi la

villeggiatura al mare nella prudente accoglienza del Ponen-

te ligure. Frutto di quell’incontro estivo fu una gravidanza

imprevista, un matrimonio repentino e infine la nascita di

mia sorella Paola. L’anno successivo, venni al mondo anche

io e i miei genitori decisero di trasferirsi a Milano, la città

al centro della pianura dove i giovani italiani confluivano

per lavorare.

Rimasta sola nella metropoli che non conosceva e senza

nessun aiuto da parte di parenti, amici o anche solo di mio

padre, Giuliana fece il possibile per crescerci sani.

Ma la famiglia Bertante non poteva prosperare con il

solo stipendio da insegnante, dilapidato da un padre spen-

daccione che usciva a cena con gli amici quasi tutte le sere.

Allora mia madre si mise all’opera e quando avevo circa

sette anni trovò lavoro come impiegata/traduttrice in una

fabbrica metalmeccanica del gruppo Ansaldo. Grazie a un

carattere tenace unito a una notevole capacità di adatta-

mento, in pochi anni scalò tutti i gradini consentitigli dal

suo diploma, diventando segretaria dell’amministratore

delegato e presenza sempre più saltuaria nel mio orizzon-

te educativo.

I miei genitori si dicevano comunisti.

Mio padre era figlio di Giovanni Bertante, dirigente

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della Coldiretti, forte di un passato da partigiano sociali-

sta con il nome di battaglia Bruno e quindi nonno Bruno

per sempre. Mia nonna Gianna invece era una Tagliaferri,

donna elegante e austera originaria di Rivergaro, florido

paese posto sulle colline all’inizio della Val Trebbia. Nando

quindi crebbe in una famiglia laica, colta e senza problemi

economici, trascorrendo la sua giovinezza in provincia, fa-

voleggiando le affascinanti atmosfere dell’esistenzialismo

francese e condividendo le speranze ma anche il fermento

politico del secondo dopoguerra che, specie lontano dalle

grandi città, riusciva a esaltare gli animi dei ragazzi più

sensibili, promettendo loro un futuro di grandi cambia-

menti. Nella primavera del 1961, a poco più di vent’anni,

fu protagonista di una fuga ribelle a Parigi dove visse per

alcuni mesi da vagabondo, lavorò come manovale di fon-

deria alla Citroën e fu suo malgrado testimone della ten-

sione sociale successiva al tentato colpo di Stato dell’OAS

in Algeria.

Tornato a casa si limitò a bighellonare per troppi anni

all’università di Giurisprudenza di Parma, finché non co-

nobbe mia madre, durante la fatale villeggiatura a Loano.

Approdato a Milano in piena turbolenza postsessantot-

tina con una moglie e due figli da mantenere, Nando era

già troppo vecchio per diventare un vero militante, quindi

pensò bene di posizionarsi nell’ampia area di simpatizzan-

ti di Lotta Continua. Fu una scelta abbastanza indolore,

perlomeno non ebbe conseguenze legali (piuttosto diffuse

in quegli anni) che però gli permise di frequentare alcuni

ritrovi della sinistra rivoluzionaria, tra cui il RARO folk

club e la Trattoria del Teatro Officina. Locali vivaci, dove

conobbe quasi tutti i suoi amici che, più giovani di dieci

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anni, si dividevano fra i diversi gruppi politici: operaisti-

leninisti-stalinisti-maoisti.

Di questo impegno politico che fu la caratteristica

principale del decennio, nonché la più rievocata, ricordo

bene due immagini: il poster in corridoio del volto tondo

di Mao Tze Dong, con tanto di cappellino verde milita-

re, troneggiante sullo sfondo rosso della bandiera della

Repubblica Popolare Cinese, e poi, quasi riparata in un

angolo del soggiorno, una celebre fotografia in bianco e

nero di Giuseppe Pinelli.

Nel corso degli anni mi sarei affezionato di più al secon-

do uomo, imputando il culto del Grande Condottiero a una

svista collettiva generazionale. Un’idiozia oggi incompren-

sibile che non puoi sapere se nasca figlia delle illusioni che

ogni epoca porta con sé o sia un’altra traccia del conformi-

smo della borghesia italiana, facile da sedurre con slogan

demagogici quanto portata a dimenticare in fretta.

Io credo più nella seconda ipotesi.

Nella nostra luminosa casa al sesto piano, tappezzata

di carta arancione, gironzolavo felice circondato da stoffe

indiane, lampade turcomanne, fischietti neri di mio padre

sparsi ovunque, strumenti a corda che nessuno sapeva

suonare, pugnali ricurvi e oggetti pittoreschi che non ve-

devo mai a casa dei miei compagni di scuola elementare.

Alcuni erano davvero molto belli, ancora non prosperava

l’industria dell’artigianato esotico, altri appartenevano al

vasto regno delle carabattole. Poi c’erano i libri, tantissi-

mi e confusi nel disordine generale: gli Struzzi Einaudi,

i Feltrinelli e le stropicciate edizioni Bompiani di Albert

Camus (ricordo soprattutto lui perché ero affascinato dal

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nome) di fianco alla massiccia presenza delle prime rac-

colte annuali di Linus, quelle verde, blu e arancione. La

colonna sonora di ogni pomeriggio di festa era suonata

dagli Inti-Illimani, discografia completa, intervallata da

Violeta Parra, Alan Stivell, Bob Dylan, Joan Baez, Enzo

Jannacci, Ivan Della Mea (l’album Ringhera), Paolo Con-

te, Nanni Svampa che cantava Brassens, Jesus Christ Su-

perstar, Canzoni della guerra civile spagnola, gli Stormy

Six de Un biglietto del tram (quello con Stalingrado e La

fabbrica), i Beatles del doppio album antologico 1962-66

con la copertina rossa – nella quale i quattro ragazzotti

di Liverpool, ancora ben pettinati, ci guardano dall’alto

di un balcone – e dai Tecun Uman, gruppo di folk suda-

mericano formato da talentuosi giovinastri amici di mio

padre, gravitanti nella allora effervescente zona di Brera.

Ricordo anche un unico, splendido, disco di Battisti, Uma-

namente uomo: il sogno, non so come sfuggito alla censura

della militanza ortodossa che lo considerava una sorta di

occulto fiancheggiatore dei fascisti.

Per la mia sensibilità non ancora inquinata da nessuna

sovrastruttura culturale, il lunghissimo e struggente ri-

tornello de I giardini di marzo era la musica più bella che

avessi mai sentito e credo che molti adulti fossero d’ac-

cordo con me.

***

Non esiste nulla di più inaffidabile della memoria, mano a

mano che invecchiamo il passato rischia di essere idealizza-

to solo per il fatto di essere perduto, ogni gioventù diventa

unica e ogni epoca impareggiabile. Per ripensare a quegli

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anni preferisco allora concentrarmi sugli oggetti, ancora

materiale in un vasto mare di elaborazioni successive.

Il bambino sorridente ricorda il Motobécane.

A mio padre avevano regalato questo motorino francese.

Era azzurro, pesante, molto spartano e puzzolente, in

pratica una Gauloises fatta ciclomotore. Lo usava rara-

mente, per piccoli spostamenti nel quartiere, ma sem-

pre con molta gioia, come se quel libero gironzolare gli

ricordasse la sua giovinezza sui colli piacentini, gli anni

Sessanta spensierati, i juke-box, le balere, Jacques Brel e

il rock’n’roll.

A me sembrava un trabiccolo simpatico, forse perché

ce l’avevamo solo noi, o forse perché tutti i nostri mezzi

di trasporto sono sempre stati un poco buffi, perlomeno

se paragonati al gusto estetico del vicinato. Escludendo la

Cinquecento venduta quando non avevo neanche tre anni

e della quale non ho nessun ricordo, la prima automobile

in nostro possesso fu un Maggiolone verde chiaro, macchi-

na divertente ma scomoda e che consumava pressappoco

come una Ferrari. Per questo motivo decidemmo di cam-

biarla con un veicolo altrettanto bello ma più adatto a una

famiglia: comprammo usato un pulmino Volkswagen rosso

fiammante, il glorioso Transporter, che ben presto divenne

famoso in tutto il quartiere. Il pulmino aveva un enorme

bagagliaio e nove posti a sedere sempre occupati da bam-

bini urlanti ai quali non pareva vero di poter saltare dentro

all’abitacolo con il benestare degli adulti presenti, allora

non così attenti ai dispositivi di sicurezza automobilistica.

Grazie alla nota resistenza strutturale e all’abbondanza di

spazio del pulmino, ogni anno ci avventuravamo in vacanze

estive improvvisate, tipo partenza e via, all’oscuro di ogni

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meta; nel mese di luglio, quando il caldo è più intenso e le

piogge sono ancora lontane. Erano viaggi che comincia-

vano sempre alle prime ore del mattino, imboccando l’Au-

tostrada del Sole: superato il cavalcavia, il grigio disordine

di piazzale Corvetto congedava la città, lasciando spazio

alla periferia industriale, alle campagne intorno al Lambro

e infine al Po. Poi le due corsie di cemento continuavano

diritte e inesorabili, tranciando in due la Pianura Padana,

circondate dalla secolare prosperità cerealicolo-zootecnica

e dall’odore di concime che ci accompagnava fino a Bolo-

gna (in Liguria non andammo mai, forse per dimenticare

la colpa dell’amore imprevisto). Il viaggio proseguiva va-

licando gli Appennini, in un percorso tortuoso attraverso

vallate verdissime e disabitate, fino a quando, come per in-

canto, compariva il mare all’orizzonte e la prima volta che

lo vedevi era sempre bellissimo, enorme e impossibile, e io

cantavo a squarciagola questa meraviglia che si rinnovava

ogni anno con un’emozione più forte. Usciti dall’autostrada

c’infilavamo in strade minuscole, percorsi casuali caden-

zati da soste in riva al mare, menu turistici in fotocopia

e pisolini sotto gli alberi, durante i quali ci riposavamo e

cercavamo di rinfrescarci, sottraendoci per qualche ora alla

puzza di sigarette di mio padre, le temutissime Gauloises

azzurre, ricche di fetente tabacco Caporal e fumate senza

interruzione per tutto il tragitto. E i finestrini del pulmino

non potevano essere aperti perché a mia madre veniva il

mal di testa, oppure la cervicale che io immaginavo fosse

una specie di insetto o animale prensile attaccato alla base

del collo. Allora infilavo il viso nel piccolo vetro deflettore

con lo sguardo perso per ore, fantasticando di eroi e di

avventure, guerre e battaglie rocambolesche, in attesa di

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arrivare in un posto qualsiasi dove cominciare la vacanza.

La ricerca poteva essere molto lunga perché, in quanto

famiglia hippie comunista, non sopportavamo i luoghi del

turismo di massa e la meta finale del nostro viaggio era

spesso sconosciuta: potevamo finire in luoghi incantati e

ancora selvaggi – gli anni Settanta segnano il confine de-

finitivo fra un’Italia per certi versi ancora arcaica e la sua

definitiva modernizzazione – come in località improbabili,

sporche, poco divertenti, prive di accoglienza e popolate

da indigeni ostili.

Eravamo esteticamente perfetti per quel tipo di viaggi:

mia madre sembrava una zingara con i capelli neri ondula-

ti, il trucco pesante a evidenziare gli occhi scuri e i monili

d’argento sparsi per il corpo; mio padre invece esibiva un

fisico allenato, camicie a maniche corte con la tasca a si-

nistra per le sigarette e due bei baffoni ricurvi da tartaro;

mia sorella e io portavamo sempre i capelli lunghi e ci ve-

stivamo come dei piccoli figli dei fiori, indossando vestiti

colorati provenienti dal Medio Oriente. A dare un’impron-

ta ferina alla comitiva ci pensava la nostra cagna, un gros-

so esemplare bastardo di pastore tedesco, cattiva come la

peste ma fedele e protettiva come solo le cagne di pastore

possono essere. Seguendo il suggerimento di mia sorella la

chiamammo Furia, perché era tutta nera come il Cavallo

del West. Il nome fu una predestinazione e credo contribuì

ad aumentarne la ferocia.

Ne andavo molto fiero.

Il mese di agosto invece era riservato alle colline piacen-

tine. I primi anni Settanta li trascorremmo fra gli incanti

nascosti della Val Trebbia al Camping Ponte Gobbo di Bob-

bio, proprio sotto il Ponte del Diavolo, quegli undici archi

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diseguali che i romani costruirono dopo avere assoggettato

le popolazioni celtoliguri a valle degli Appennini.

Di quelle vacanze ricordo solo l’acqua gelida del fiume

in cui a quattro anni imparai a nuotare, le partite a calcio

balilla sotto al porticato del bar, i furiosi temporali visti

dall’interno della tenda, i soldatini dell’Afrikakorps sparsi

fra l’erba e le canzoni degli ABBA.

Abbandonata la passione per il campeggio, negli anni

successivi fummo avvolti dall’immobile quiete delle colline

intorno a Castell’Arquato, dove nella grande casa contadina

ristrutturata da mio zio Guido il tempo si dilatava fino qua-

si a scomparire. Erano lunghe giornate fatte di ping pong,

partite a carte (grazie a quelle estati so giocare a tutti i giochi

possibili, dallo scopone scientifico al bridge), oppure batta-

glie interminabili a Risiko. E poi c’erano i fumetti: di ogni

tipo e qualità (li leggevano anche gli adulti), da Frigidaire

e Corto Maltese ai supereroi Marvel come L’Uomo Ragno,

I Fantastici Quattro, Thor e i Vendicatori, allora pubblicati

dall’improbabile Editoriale Corno. Ma erano anche giorni

di scoperta ed esplorazione, di terra e di acqua, colori accesi

e odori intensissimi.

I capelli sporchi sulla fronte nascondono il bernoccolo,

le ginocchia sbucciate fanno male ma non importa che

c’è il ruscello da attraversare e oltre la collina un mistero

bellissimo. I muri sono di pietra, il fuoco nei camini ricor-

da tutti gli inverni trascorsi ad aspettare il risveglio della

terra, la cucina è calda, accoglie generosa i lunghi salami

appesi, i funghi secchi, lo spumeggiante vino nero. Impu-

gno il mio bastone intagliato dal coltello e vado incontro a

questo strano mondo fatto di materia che imbratta le mani,

in cerca di anfratti umidi, attimi magici, di volpi sempre

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più piccole di quanto ti aspetti, lepri secche e strafottenti,

rospi bitorzoluti, civette dagli occhi enormi e altri animali

mai visti prima, immerso nella calura che addormenta il

mondo, nei silenzi e nelle attese che non torneranno, ac-

compagnato dal mio cane bellissimo e selvaggio, amato

con la gioia fisica dei bambini che non conosce mediazioni

né rinunce.

Vado incontro a queste notti nelle rocche antiche il-

luminate dalla luna, perdendomi felice nelle grandi feste

dell’Unità di paese Emilia, le ultime di un’epoca ed era il

Novecento, quando esisteva una traccia di comunità e an-

cora si poteva credere nell’ideale e nell’appartenenza o nelle

languide illusioni di entrambe.

Vado incontro alle strade sterrate nel buio profondo del-

la campagna sotto cieli stellati che non ho più incontrato,

salutato dallo sbarlus di centinaia lucciole libere.

***

I miei risultati scolastici non erano esaltanti. Ragazzo in-

telligente e sveglio, talvolta persino ispirato, ma malato di

quell’ispirazione propria dei pazzi o dei visionari che fa te-

mere ai genitori di crescere un esaltato fra le mura di casa,

mi distraevo con troppa facilità, ero manesco e avevo un

carattere che, usando un abusato eufemismo, veniva de-

finito dalla mia maestra «un po’ troppo vivace». Maestra

anziana, ma forse aveva solo superato i cinquant’anni, poco

intelligente, cattolicissima e parecchio reazionaria.

Un mattino ebbe un malore in palestra durante l’ora

di ginnastica, noi bambini quasi non ce ne accorgemmo,

vedemmo solo i bidelli spaventati portarle un bicchiere

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d’acqua, prima dell’arrivo dell’ambulanza. Dimessa dall’o-

spedale, fu spedita in pensione anticipata, nella totale in-

differenza di alunni e genitori. Al suo posto fu nominato

un giovane maestro sardo, motivato e progressista, che

ci indicò una nuova via all’insegnamento elementare per

noi davvero sorprendente. Ci parlava di Martin Luther

King e della lotta antisegregazionista negli Stati Uniti,

della Guerra del Vietnam appena conclusa, di fabbriche,

lotte sindacali, sfruttamento e lavoro minorile ma anche

di Goldrake e Happy Days e dei fiumi sotterranei che na-

scondono leggende.

Ricordo la sua commozione quando decise di cambiare

programma della lezione e per tutta la mattina ci raccontò

la storia di Elvis Presley, il famosissimo cantante che aveva

inventato il rock e che pochi mesi prima, in estate, era morto

triste, solo e abbandonato nella sua grande casa.

La mia scuola elementare era a QT8, oltre la circonvalla-

zione esterna, a poche centinaia di metri da dove abitavamo.

QT8 (Quartiere Triennale 8) fu progettato nel 1947 da

Piero Bottoni durante l’Ottava Triennale. Allora Milano era

nel pieno della ricostruzione postbellica e, sebbene i bom-

bardamenti alleati fossero stati massici e indiscriminati, le

ferite dovevano essere rimarginate senza lasciare traccia e

bisognava agire subito, cosa che un tempo i milanesi sape-

vano fare. Ammassando i detriti in una zona di campagna

della periferia ovest, crearono il Monte Stella; ed è esaltante

l’idea di costruire una collina in città, un’idea che porta con

sé la visione di un futuro radioso. Secondo Bottoni e gli altri

architetti il nuovo quartiere doveva lasciare ampio spazio

alla visione del cielo: sorsero villette a schiera con giardino

ma anche i primi prefabbricati italiani alti al massimo tre o

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quattro piani, circondati da verde, scuole e campi sportivi,

tutti pubblici, aperti e gratuiti.

A QT8 si sentiva arrivare la primavera.

Quando negli anni Sessanta, i «Favolosi anni Sessanta»,

le virtuose idee di progresso urbano furono accantonate in

nome della speculazione edilizia, di fianco alle villette con

giardino in pochissimo tempo costruirono anonimi palazzi

popolari alti otto piani, dando vita a un curioso amalgama

sociale, formato da sottoproletari appena emigrati dal Sud e

liberi professionisti radicali. La mia scuola elementare stava

proprio nel centro del nuovo quartiere.

Osservandola oggi (credo che sia un ITIS), si riconosce

subito come il classico stabile comunale anni Sessanta,

costruito con mattoni rosso-marrone stile working class

inglese, dalla forma squadrata, disposto su due piani e

con le scale di cemento che danno direttamente su un

piccolo parco.

Mi vedo bambino scorrazzare nel rettangolo di giardi-

no che sembra enorme, giocare con le foglie in un tiepido

pomeriggio di autunno insieme a un compagno di nome

Pasquale, chissà che fine ha fatto Pasquale?

Poi ci richiamano, è un ordine secco, la voce della giova-

ne maestra del doposcuola è troppo alta, dobbiamo uscire

subito. Sento che parla con una bidella, dice spaventata che

pochi minuti prima un signore di nome Renato Vallanzasca

ha telefonato per avvisarci della bomba, dice che è nascosta

da qualche parte nell’edificio. Sono scocciato perché devo

smettere di giocare ma allo stesso tempo penso che questo

signore sia stato gentile ad avvertirci e proprio adesso stan-

no arrivando in giardino tutti gli altri bambini. Pasquale e io

vediamo uscire i nostri compagni in fila per due. La maestra

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ripete che è pericoloso, che Vallanzasca è un bandito e che

dobbiamo tornare tutti a casa. Ma a casa mia al pomeriggio

non c’è nessuno e allora aspetto che arrivino gli altri geni-

tori. La mamma di Roberta mi accompagna da mio padre

in palestra. Arriviamo mentre Nando sta allenando ai tiri

liberi la squadra di pallacanestro maschile della scuola me-

dia. Seduto sulla panchina dietro al canestro, accompagnato

dal suono della palla che rimbalza sul tabellone di legno, gli

racconto eccitato la storia della bomba; papà mi accarezza

la testa e sorride, poi soffia nel fischietto, urla il punteggio

e torna dai suoi studenti.

Quel sorriso paterno sarà per sempre legato a Renato

Vallanzasca, che, a essere onesti, durante la sua clamorosa

carriera criminale di bombe non ne mise mai nemmeno

una e che per me è rimasto una sorta di personaggio

leggendario.

Ma in quegli anni le storie cambiavano in fretta, biso-

gnava prestare molta attenzione alle notizie che si sentivano

in giro.

Dopo che questo signore non fu più nominato – è no-

to che i nomi dei fuorilegge siano volatili come le loro

imprese – le introvabili bombe scolastiche cominciarono

a metterle le Brigate Rosse, perlomeno così giuravano al

telefono le voci sconosciute.

Virata la prima curva dell’esistenza, cominciano i problemi.

Alla fine del decennio la mia infanzia si avviava verso

la conclusione e quando capisci come funzionano le cose

non puoi più tornare indietro nel caldo bozzolo dell’indif-

ferenza magica, dove all’occorrenza la realtà può diventare

inspiegabile e va bene lo stesso.

Compiuti dieci anni sapevo benissimo cosa facevano

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le Brigate Rosse. Sapevo che erano comunisti e che am-

mazzavano la gente. Avevo anche capito che fra le mura

di casa l’argomento non fosse molto popolare. Mio padre

era reticente e anche quando venivano a trovarlo i suoi

amici, di Brigate Rosse non si parlava mai se non a voce

molto bassa o, credo, approfittando della mia assenza. Ma

nonostante ogni maldestra cautela, noi famiglia Bertante

guardavamo tutte le sere il telegiornale e ogni volta era

un bollettino di guerra, con morti ammazzati, rapimenti

e rapine a mano armata che mettevano a ferro e fuoco le

città italiane.

Quando sequestrarono Moro, mi accorsi che Nando era

turbato dalla strage di via Fani e da tutti i fatti tragici che

seguirono, come se fosse combattuto fra emozioni contra-

stanti. Provava dolore per gli uomini della scorta e sincera

compassione per il vecchio politico, ma allo stesso tempo

la «geometrica potenza» delle BR evocava in lui qualcosa

di simile all’ebbrezza guerresca che si prova nei confronti

delle clamorose vittorie militari, emozione condivisa da

tutti i suoi amici e dai più temerari persino rivendicata

politicamente.

Con ogni probabilità, adesso negherebbero ogni cosa.

Per i miei genitori non fu possibile proteggermi da tutto

ciò che accadeva in quegli anni e forse non ci hanno nem-

meno provato. Ma io, in quanto bambino, della burrasca

politica ricordo solo ciò che mi avvicinò fisicamente, ob-

bligandomi a pormi delle domande che esigevano risposte

complesse.

Per forza di cose rimangono nella memoria immagini

folgoranti che saranno mie compagne per tutta la vita.

Alcune sono commoventi, altre semplicemente assurde.

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Come quella volta che, al mattino presto passando davanti

al Palalido, a metà del consueto percorso che mi conduceva

a scuola, fui costretto a dribblare bottiglie rotte, sampietrini

e decine di candelotti di lacrimogeni distribuiti sull’asfal-

to, segno tangibile della battaglia della sera prima, quando

gruppi organizzati di autonomi avevano cercato di sfondare

a un concerto qualsiasi di musica rock. E l’assurdità diventa

un vero e proprio modello interpretativo dell’esistenza se

penso a quando, avevo circa sette anni, piantai un capriccio

interminabile perché volevo a tutti costi andare in manife-

stazione insieme al mio papà.

«Non puoi,» mi disse lui con tono grave «oggi è troppo

pericoloso.»

Aveva ragione Nando, perché quella che per me doveva

essere solo una passeggiata in centro, dove avrei mangiato

con gioia infantile il panino con würstel e crauti alla Cro-

ta piemunteisa, fu invece la manifestazione del 14 maggio

1977, terminata con gli sconti in via De Amicis, durante i

quali ci fu la sparatoria che portò all’omicidio dell’agente

Antonio Custra. Sparatoria che, immortalata da una fami-

gerata fotografia, divenne il simbolo degli anni di piombo,

contribuendo a enfatizzare la mitopoiesi di un decennio

paradossale. Nella consuetudine di storielle da raccontare

durante le serate trascorse con gli amici di famiglia, quella

del piccolo Alessandro che pianta una grana perché vuole

andare in manifestazione divenne una delle più apprezzate,

da sganasciarsi dalle risate davvero, superata solo da quella

capitatami al doposcuola nello stesso anno.

Non ricordo perché quel pomeriggio in aula ci fosse

una suora visto che la mia era una scuola statale ma ciò

nonostante, subito dopo il mortificante riposino, la sorella

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cominciò una predica anticomunista così implacabile da

pormi il dubbio sulla reale affidabilità dei miei genitori.

Stavo forse vivendo con degli sciagurati sovversivi?

Non potevo sopportare il dubbio a lungo. Nervosissimo

e tutto sudato mi alzai dalla sedia pronto alla confessione.

«Mio padre è comunista.»

«Adesso cosa faccio?»

I mie compagni si misero a ridere mentre la suora ci

rimase di sasso. Il suo mondo, le sue certezze, le sue scel-

te, il suo irriducibile anticomunismo venivano messi in

discussione dalla sfrontatezza di un bambino di otto an-

ni. Fece immediata marcia indietro, dicendo con sguardo

imbarazzato che sicuramente molti comunisti italiani era-

no brave persone e non bisognava generalizzare, cosa che

peraltro aveva fatto fino a quel momento. Ma oramai era

troppo tardi.

Timidamente, si fece avanti il bambino di nome Carlo.

«Anche il mio papà è comunista.»

Disse balbettando, come se ammettesse una colpa. Su-

bito però fu seguito da una bambina sorridente di nome

Lucia, contenta di poter partecipare a questo nuovo gioco.

Il timore che c’incuteva la suora era svanito insieme alla

sua sicurezza. Si fece avanti un altro, un altro ancora e via

di questo passo.

Nel giro di pochi minuti, quasi mezza classe era passata

all’opposizione, specchio abbastanza fedele della situazione

politica italiana.

Nulla di grave e nemmeno di così sorprendente. Durante

gli anni Settanta la contrapposizione politica era in ogni luo-

go, sia geografico che ideale, e talvolta era perfino sincera,

come possono essere sinceri i bambini, animati da quello

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spontaneo entusiasmo che in un attimo può trasformarsi in

cattiveria come in una sfacciata menzogna.

Per questo motivo rimasi piuttosto sorpreso quando, al

principiare del nuovo decennio, questa straordinaria ispi-

razione partecipativa svanì e tutti si convertirono alla nuo-

va estetica garrula e disimpegnata degli anni Ottanta, anni

formidabili senza ombra di dubbio.

Gli anni della mia giovinezza.

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