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Precarietà a temPo indeterminato
ascesa delle conquiste sociali – dagli anni 50 alla fine dei 70 – e il ripristino, nelle in-tenzioni del capitalismo, della normalità storica: il lavoro come assoluta variabi-le dipendente del capitale, la precarietà come condizione strutturale del lavoro, l’aggressione ai diritti minimi (vedi Statu-to dei lavoratori) come regola.Questa ricerca e riflessione descrive un paradigma che deve servire a orientarsi nel groviglio dei nuovi equilibri del capi-talismo globale e nella crisi strutturale di quello che è stato definito movimento operaio. Una fase si è chiusa e una nuo-va è ancora tutta da inventare. In questo interstizio abbiamo cercato di ragionare sul significato di un nuovo sindacalismo, di esperienze che abbiamo chiamato di
«Precarietà a tempo indeterminato», così ab-biamo titolato il seminario che Communia Network ha tenuto a Roma il 20 e 21 giugno 2014. Un appuntamento che ha cercato in-
nanzitutto di costruire uno sguardo di insieme sull’attuale com-posizione di classe, sulla precarizzazione del lavoro, sulle scelte che si impongono per ricostruire una soggettività di classe. Par-tendo dalle tendenze statistiche e dalle dinamiche del capitale, la discussione è stata ampia eppure solo propedeutica. Il semi-nario è stato per noi solamente un inizio, nell’ottica di recupe-rare un ritardo e di dotarsi di un minimo di progettualità per intervenire nel mondo caotico e solitario segnato dall’iniziativa di classe. Questo è stato lo spirito con cui sono state approntate le relazioni introduttive, che pubblichiamo come contributo a riprendere i fili della discussione e della ricerca. Quale sia il ruolo sempre più rinunciatario e gestionale del sin-dacalismo ufficiale è ormai evidente dal mutismo che accom-
mutuo soccorso e di autorganizzazione e autogestione, con ri-ferimento agli albori della lotta di classe, per intervenire con nuove strutture, nuove modalità, nuovi intrecci tra le diverse componenti del lavoro salariato tendenzialmente unificate dal-la comune precarietà. Un seminario non solo di analisi, quindi, non solo di riflessione ma anche orientato all’azione. L’espe-rienza viva dei prossimi mesi, e anni, ci dirà quanto questa ela-borazione sarà stata utile, in particolare nell’approntare stru-menti e lotte di difesa effettiva e quotidiana del lavoro nel pieno dei conflitti scatenati dal capitale. La particolare esperienza di Eataly, di cui abbiamo dato ampia informazione su communia-net.org, offre delle indicazioni così come le lotte dei lavoratori migranti – sia sul territorio che in particolari settori economici – e di quelli pienamente inseriti nel cuore del processo produt-tivo industriale. Anche per queste sue potenzialità, il seminario è stato un bel momento di politica “comune” e come tale ve ne offriamo i materiali introduttivi e alcune riflessioni a margine. ◀
pagna Cgil, Cisl e Uil anche di fronte agli schiaffi sempre più pronunciati che Mat-teo Renzi assegna loro – e soprattutto a lavoratrici e lavoratori. E lo si vede nella gestione quotidiana delle mille vertenze in cui, spesso, il sindacato – pure così importante per la tutela di diritti mini-mi – viene visto dai lavoratori come una controparte.Il nostro seminario, però, non si è concen-trato sulle dinamiche sindacali né sui vari progetti di intervento in questa o quella si-gla. Nemmeno si è proposto di ricostruire un, ormai, mitico sindacalismo di base o parti di esso. Abbiamo voluto, invece, co-gliere la novità allarmante della precarietà che si stabilizza, della chiusura della lun-ga parentesi rappresentata dagli anni di
Questa ricercae riflessione descrive un paradigma che deve servire a orientarsi nel groviglio dei nuovi eQuilibri del capitalismo globale e nella crisi strutturale di Quello che è stato definito movimento operaio.Una fase si è chiUsae Una nUova è ancora tUtta da inventare
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Parlare di composizione di classe può divenire un esercizio conoscitivo fine a sé stesso, utile ad alimentare l’abbon-dante ricerca sociologica senza offrire avanzamenti all’ini-ziativa politica. Lo scopo del presente contributo è invece definire uno sguardo d’insieme alle tendenze della compo-
sizione di classe e alle dinamiche del capitale, con un approccio che richiederà sempre un approfondimento costante.
I numerI del lavoroLa classificazione delle forze lavoro non è difficile da farsi. I dati Istat riferiti al 2012 indicano una forza lavoro complessiva di 22,899 milio-ni di individui di cui 17,214 milioni sono lavoratori dipendenti, com-prensivi dei lavoratori pubblici: 5,1 milioni sono occupati nell’Indu-stria, poco più di un milione nelle Costruzioni, 11,6 milioni nei Servizi. La classificazione, basata sulle qualifiche contrattuali, individua 7,9 milioni di dipendenti come operai e 7,5 come impiegati. Il resto sono quadri, funzionari e altre qualifiche. Gli operai, dunque, intesi come qualifica rappresentano il 34% della forza lavoro complessiva (era-no intorno al 45% negli anni 70) ma raggiungono il 45% del lavoro dipendente in senso strettamente inteso. Da notare, però, che solo il 22% della forza lavoro e il 29% del lavoro dipendente è occupato nell’industria in senso stretto, a sua volta formata da una miriade di imprese piccole e piccolissime. Solo il 30% della manodopera, infatti, è impiegato nell’industria sopra i 50 dipendenti. Per quanto riguarda la
Dei 22,9 milioni di lavoratori oc-cupati, 13,4 milioni sono uomini e 9,5 donne a cui aggiungere, a fine 2012, 2,7 milioni di persone formalmente in cerca di occu-pazione (1,4 milioni uomini e 1,3 donne).La tendenza è chiaramente indi-cata dall’indagine Isfol già citata: “Un dato per tutti [è che] la dif-fusione del contratto per anto-nomasia, quello da dipendente a tempo indeterminato, si è dimez-zata in 10 anni”. Nel frattempo “l’occupazione si è progressiva-mente parcellizzata in forme con-trattuali meno stabili e tutelate nel tempo”. Questo significa che “i giovani sono sempre più atipici e la loro precarietà si prolunga nel
tempo”. Il fenomeno del lavoro “non standard”, cioè quello diver-so dal contratto a tempo indeter-minato, come fase iniziale e momentanea della carriera è, per un ingente numero di persone, una paren-tesi che dura molto a lungo, anche oltre il 10-15 anni.A questi numeri, però, occorre aggiun-gere quelli relativi alla forza lavoro espulsa dal sistema produttivo. Non solo 3 milioni, circa, di disoccupati ma anche 3,2 milioni di inattivi, persone che hanno smesso di cercare lavoro ma che vorrebbero lavorare. Sei milioni su 23 milioni è più del 20%, una fetta della “classe” quasi sem-pre assente dalle priorità politiche.
SI chIude una parenteSILa precarietà del lavoro, quindi, è una “parentesi che dura molto a lungo”, anche oltre i 10-15 anni, visto che per effetto della crisi ritorna anche nella fase di uscita dal mondo del lavoro, sopra i 50 anni e anche meno quando si ve-rificano le crisi aziendali.In realtà, la parentesi effettiva è la stabilizzazione. Il mondo del lavoro, infatti, torna a prima della parentesi storica nella sto-ria del capitalismo occidentale dei “trenta gloriosi” (la fase di crescita dal ‘45 al ‘‘74 - che han-no permesso l’avanzata operaia degli anni 60 e 70). I rapporti di classe tornano alla loro normali-tà storica, la precarietà diventa, tendenzialmente, la norma del rapporto di lavoro e la capacità di comando del capitale, grazie anche alla sua invisibilità glo-bale, si fa estrema. Utilizza tutti gli strumenti a propria dispo-sizione, gli stati o gli organismi sovranazionali, l’azienda globale e quella settoriale/locale, la pro-paganda e la formazione.L’esempio di questa tendenza è dato dal processo di precarizza-zione e liberalizzazione del mer-cato del lavoro che data dal 1997, anno del Pacchetto Treu, e arriva al Decreto Renzi-Poletti. Quest’ul-timo più che aggravare una situa-zione già grave sancisce l’inelut-
tabilità di una linea economica: il mercato del lavoro va de-struttu-rato e riadattato a una domanda di lavoro che si fa strutturalmente saltuaria e incostante. L’esempio macroscopico di questa ipotesi è dato dai “mini-jobs” tedeschi, contratti di lavoro progettati per costruire una massa di manovra super-flessibile e precaria che si pensa stabilmente così. Lavorare con i “mini-jobs” infatti, significa non pensare di poter accedere a un contratto di livello superiore ma impostare la propria vita sulla base di quella tipologia contrat-tuale, di quei livelli di reddito e di quei ritmi di vita (servono almeno due mini-jobs da 4-500 euro l’uno per avere un reddito di povertà).
definizione di precarietà, invece, il monitoraggio realizzato dall’I-sfol nel 2011 descrive una com-posizione della forza lavoro divi-sa in una maggioranza di 65% di contratti a tempo indeterminato e il restante terzo diviso tra:- contratti a tempo determinato (5,9%)- apprendisti (1%)- contratti a termine (inserimen-to, interinale, job sharing 2,4%)- collaboratori (5,8% tra cui i Co.co.co, i Co.co.pro. gli occasionali)- un generico 3,3% tra cui tirocini, stage e alternanza studio-lavoro- un 17,2% di lavoratori autono-mi tra cui partite-Iva, soci di co-operativa, coadiuvanti familiari e imprenditori.
la precarIetà StabIlIzzataRiepilogando, in Italia ci sono circa 15 milioni di lavoratori con contratti a tempo indeterminato e circa 3,5 milioni di lavoratori con contratti molto differenziati tra loro ma tutti abbastanza pre-cari (anche se molti collaboratori sono di alta fascia e quindi pro-tetti). Poi ci sono circa 3,9 milio-ni di lavoratori autonomi tra cui esistono ulteriori forme di lavo-ro parasubordinato (partite Iva, etc.). Dato da non trascurare in nessun modo è quello dei lavora-tori stranieri: 2,3 milioni secondo i dati di Bankitalia.
la precarietà del lavoro, Quindi, è Una “Parentesi che dUra molto a lUngo”, anche oltre i 10-15 anni, visto che per effetto della crisi ritorna anche nella fase di uscita dal mondo del lavoro, sopra i 50 anni
la moderna composizione di classe, il conflitto tra Precarizzazione e aUmento della conoscenza, la necessaria ricostruzione di un’alfabetizzazione primaria per riconoscere il rapporto di sfruttamento
Sia con il pacchetto Treu che con la legge Biagi il lavoro a tempo determinato era pensato come ipotesi che prima o poi si sareb-be interrotta per permettere l’ac-cesso a un contratto a tempo in-determinato. Oggi il lavoro pre-cario è organizzato come forma stabile della relazione di classe, i due comparti vengono sganciati l’uno dall’altro e si costruisce un serbatoio di serie B che sarà sem-pre più voluminoso e importante a scapito del lavoro garantito e sicuro. Non solo, l’esistenza del secondo contribuisce a rendere meno stabile e certo il primo ge-neralizzando la precarietà a tut-to il mondo del lavoro. Da que-sto punto di vista, anche ipotesi
la classeche crescea sua insaputa
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le pagine di questo numero di communia sono illustrate con i seguenti murales
p. 1 inti (istanbul - turchia)pp. 2-3 agostino iacUrci (lugano - svizzera)
pp. 4-5 agostino iacUrci (roma - italia)pp. 6-7 agostino iacUrci (atlanta - usa)
p. centrale natalii rak (białymstoku - poland)pp. 10-11 case maclaim & Pixel Pancho
(new York - usa)pp. 12-13 etam crU (lodz - poland)
p. 15 sainer (etam crU) (lodz - poland)p. 16 liQem (roma - italia)
come il contratto unico a tutele crescente sarebbero progressive e migliorative della situazione attuale. Non è un caso se, anche se sbandierato, viene osteggiato dagli imprenditori e, di fatto, non sarà applicato mai.
lavoratorI, conoScen-za, coScIenzaLa chiara tendenza alla precariz-zazione del lavoro si coniuga con un altro elemento, meno quanti-ficabile sociologicamente e più empirico (quindi, più discutibile): l’affermazione di uno strato di lavoratori della conoscenza. Su questo aspetto la letteratura è ormai sterminata ma soprattutto è importante l’identificazione po-
litica di alcune aree storiche del-la sinistra (ex autonomia). I fatti, finora, sembrano aver dimostra-to che uno strato, politicamente sensibile, di lavoratori della cono-scenza non si è affermato come avanguardia trainante di un mo-derno proletariato e che attorno a esso non si è verificata nessuna nuova lotta di classe né il capita-lismo è riuscito ad affermare un nuovo modo di produzione (vedi Formenti, Utupie letali). Però questa realtà esiste e ha agi-to in due direzioni: ha alimentato la catena del valore garantendo consistenti aumenti di produttivi-tà e, quindi, di sfruttamento e ha generato una funzione di traino rispetto a tutto il mondo del lavo-
la fInanzIarIzzazIone del capItaleA fronte del processo di precarizzazione abbiamo un capitale che, per effetto della crisi di sovra-produzione, ha dirottato le sue risorse verso la finanza. Se negli Usa il tasso medio della produzione si collocava negli anni 60 tra il 5 e il 6 per cento, nel 2010 era sceso al 2; nei paesi europei, invece, è passato dal 10% a zero. Dai tassi di crescita del 5-6 e anche 8 per cento degli anni 60 nei paesi occidentali si scende al 3% degli anni 70 e all’1,5% degli anni 2000. Contemporaneamente, negli Usa il tasso me-dio di profitto ha toccato il picco del 16% nel 1966 per scendere al 10% del 1975. Gli utili che scarseggiavano nell’economia produttiva sono sta-ti ricercati nella finanza. Mentre nel 1980 gli attivi finanziari mondiali erano all’incirca pari al Pil mondiale, nel 2007, alla vigilia della crisi, lo superavano di quattro volte (circa 240 trilioni di dollari contro 60). I soggetti da cui si estorce plusvalore si estendono a figure professionali fino ad allora rimaste in disparte. Il mondo finanziario, quello dei ser-vizi, l’immobiliare, tutto diventa un potente strumento di sostegno ai margini di profitto complessivi. Le filiere si allungano e si diversificano.
centralItà del debItoEmblema del moderno giogo a cui il capitale sottopone una popolazione sempre più ampia è la questione del credito, e quindi del debito, ipoteca-rio nei confronti delle banche. Se prima, per erogare un mutuo ipotecario, si cercava l’assoluta affidabilità degli individui e delle famiglie, a un certo punto le banche hanno interesse a erogare credito a chiunque, alimen-
tando i flussi di cassa anche trami-te strumenti collaterali (Cdo, Cds, e tutto quello che la finanza ha saputo inventare). Sopra la testa di un semplice mutuo si formano titoli derivati, certificati assicurati-vi, derivati con tutto il corollario di commissioni che ne discende. Allo stesso tempo, per alimentare que-sta attività forsennata, le banche si indebitano a loro volta con altre banche in un crescendo di dimen-sioni epocali. Nel 2007 il valore complessivo dei derivati a livello mondiale superava i 700 trilioni di dollari mentre il valore di mercato delle attività da loro rappresentate non superava i 50 trilioni.L’operazione ha un impatto in-negabile sul fronte della lotta di classe, sia pure al contrario. Tra il 1976 e il 2006 il rapporto tra sa-lari e Pil, in Italia, passa dal 68% al 53%. Una perdita di 15 punti che, a valori attuali, equivale a 240 miliardi di euro. Negli Stati Uniti i salari più bassi sono fermi al 1973 in termini reali: nel 2006 erano intorno ai 30 mila dollari l’anno, sotto il livello di trent’an-ni prima mentre le famiglie dell’1% più ricco percepivano 1,2 milioni di dollari, cioè 40 volte il salario medio. Scendono i sala-ri, aumenta il debito, i creditori sono gli stessi padroni che prima offrivano un lavoro e ora offrono, quando va bene, un mutuo. ▷
ro. Non esiste, cioè, solo una componente che ha realizzato l’esplosione delle grandi, e piccole, compagnie del “capitalismo informazione” ma una quantità di conoscenze, sempre più ampie, diffuse, sia pure confu-samente, che rendono la moderna classe molto diversa dall’immagine plastica che la tradizione comunista ne ha fatto. Una classe in cui, ad esempio, si accorcia la distanza tra “operai” e “quadri” anche perché si fa diffondendo lo schema di lavoro a “team” (vedi Fiat). Il moderno proletariato, quindi, ha flussi di coscienza molto più in-trecciati e complessi: forma la consapevolezza di sé sul posto di lavo-ro, fuori, sulla “rete”, mentre consuma o si informa su cosa consuma, etc. Se è vero che “la società della conoscenza” non ha innescato un nuovo “modo di produzione capitalistico”, è vero però che il capita-lismo globale, le sue relazioni di classe, le sue contraddizioni sono fortemente permeati dall’era della conoscenza. La stabilizzazione della precarietà entra in conflitto, quindi, con l’accresciuto grado di conoscenza dei lavoratori e lavoratrici di questo secolo. Le due ten-denze sono opposte e, ovviamente, generano una moltiplicazione di contraddizioni (la conoscenza può svilirsi al crescere della precarietà) ma consegnano una “classe” che appare più mutevole e dinamica di quanto possa sembrare in superficie.
la stabilizzazione della precarietà entra in conflitto, Quindi, con
l’accresciUto grado di conoscenza dei lavoratori e lavoratrici di Questo secolo
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un capItale gaSSoSoll capitale, dunque, almeno nell’occidente capitalistico, si ritira par-zialmente dalla produzione per alimentare un circuito finanziario perverso che, al tempo stesso, alimenta l’accumulazione e la crescita dei profitti. Si globalizza senza sosta, è sempre più nelle mani di azio-nisti “invisibili” invece che in quelle delle grandi famiglie proprietarie. Si pensi al ruolo dei manager, azionisti o meno. Gli Stati sembrano avere un ruolo di secondo piano che fa sì, ad esempio, che si affermi il “corteggiamento” del capitale per attirarlo in un determinato paese tramite misure di riduzione fiscale – e quindi di aumento del debito – e il consolidamento dell’assioma per cui “occorre obbedire ai mercati” oppure “ce lo chiede l’Europa”.Anche quando ritorna nella produzione, manifatturiera o di servizi, il capitale lo fa nella forma più anonima possibile, estendendo il capita-lismo manageriale e l’azionariato diffuso, riducendo la riconoscibilità dei borghesi in carne e ossa (Marchionne viene identificato con la Fiat più di quanto lo siano gli Agnelli).Il capitale si rende così sempre più inafferrabile, nascosto dietro il volto dei “manager azionisti”. La sua libertà di movimento alimenta questa condizione mentre gli Stati vengono oltremodo delegittimati. Al contempo, la “classe” è stabilmente precaria. L’impatto di questa tendenza è stato micidiale: alla gassosità del ca-pitale è corrisposto a) il sezionamento costante delle categorie del lavoro classico; b) un’estensione delle figure sottoposte alla catena di valorizzazione del capitale; c) un’estensione della soggiacenza a quest’ultimo tramite i meccanismi finanziari.
Il modello dell’alveareLa finanziarizzazione conduce a un processo di concentrazione pro-gressiva del capitale, su scala nazionale e internazionale, che procede di pari passo con la segmentazione delle funzioni e la moltiplicazione dell’indotto. In Italia, ancora negli anni 80, si contavano almeno una ventina o trentina di grandi gruppi capitalistici, pubblici e privati, dai
produttivo, con la loro espansione su aree sovranazionali ma regio-nalmente definite. La produzione globale continua a concentrarsi in tre grandi poli mondiali – l’est asiatico, l’europeo occidentale e il nord-americano – con l’Italia cerniera tra la centralità tedesca e i flussi nord-africani e mediter-ranei.La “classe” quindi, è spalmata nelle tante piccole imprese, spes-so delocalizzate in aree non mol-to distanti (Balcani, nord Africa) ma fortemente unificata nella catena di produzione del valore. Il sindacato tradizionale accen-na qui e là al problema – l’ipotesi di sindacato unico dell’industria, contrattazione di filiera, etc. –
fatturati miliardari. Oggi si arriva a circa dieci. In parte è l’effetto di una “spoliazione” straniera ma soprattutto dei processi di con-centrazione a livello bancario, industriale, finanziario. La concentrazione avviene, ov-viamente, sul lato della proprietà mentre su quello della filiera si può assistere, contemporaneamente, a una parcellizzazione produttiva che replica il modello dell’alveare: un nugolo di “api” operose lavo-rano per la stessa “regina” e sono condannate ad aumentare a di-smisura i propri livelli di produt-tività pena la sparizione. Il tessuto di piccola e media impresa che impera in Italia si presta perfetta-mente a questo schema che, lungi dall’ipotizzare una nuova realtà a capitalismo diffuso (il quarto ca-pitalismo di cui parlava Aldo Bo-nomi) serve, invece, un apparato fortemente centralizzato basato su tanti sotto-insiemi locali, regio-nali, distrettuali. È sufficiente che chiudano colossi come Lucchini o Electrolux per mandare in tilt un’intera provincia italiana (nel caso, Livorno e Pordenone: ma l’esempio può continuare con An-cona, Merloni, Bari, Natuzzi, To-rino, Fiat, etc.). L’ultimo rapporto del Centro studi Confindustria, “Scenari industriali”, sottolinea l’allungamento delle linee di forni-tura, a monte e a valle del sistema
senza però averlo mai affrontato realmente e ponendo così le basi della propria emarginazione.
manIfattura con ServIzIIl rapporto di Confindustria è utile anche per affrontare un dilemma storico e cogliere una novità rilevante ai fini del con-flitto. Il dilemma riguarda il ruolo dell’industria manifatturiera, la sua centralità e il ruolo del terzia-rio. Come abbiamo visto all’inizio, infatti, la quota di addetti del si-stema dei servizi, circa 11 milio-ni, è più che doppia degli addetti all’industria in senso stretto. Da decenni, questo dato è visto come la prova del declino del settore in-dustriale, almeno in Europa, sop-piantato dalle nuove economie, del terziario o, più recentemente, della conoscenza. Secondo Con-findustria, invece, “la manifattura emerge come centrale all’interno degli scambi tra i diversi comparti dell’economia” e dunque “costitu-isce il cuore delle interconnessio-ne nel sistema degli scambi”. Per sostenere questa affermazione il Centro studi confindustriale evi-denzia l’insieme delle relazioni reciproche tra i vari settori in cui la manifattura emerge nettamen-te come l’ambito primario. La se-guono, per importanza, i servizi legati al Commercio, quelli legati al Business e, qui la novità, la Lo-gistica. In questo schema i servizi rappresentano “una quota della produttività della manifattura”. Le imprese specializzate nel terziario, insomma, gravitano e vivono attorno all’industria tra-dizionale e, in gran parte, ne co-stituiscono una specializzazione o esternalizzazione di fasi pro-duttive. La deindustrializzazione,
quindi, è solo “apparente” perché, in sostanza, esiste ancora, anzi cresce, una forte integrazione tra manifattura e servizi i quali, rileva Confindustria, non possono, da soli, sostenere totalmente un’eco-nomia nazionale come è stato so-stenuto vigorosamente nel mon-do accademico. Il testo si riferisce all’ipotesi secondo la quale le eco-nomie occidentali starebbero de-localizzando le produzioni indu-striali verso i paesi emergenti per fondare il proprio sviluppo solo sull’economia della conoscenza e dei servizi ad alto valore aggiun-to. Solo che la “delocalizzazione fisica del processo produttivo” alla lunga si trascina dietro anche “parti di servizi a esse legate” per-ché, nonostante le nuove tecno-logie, la “contiguità fisica” tra ser-vizi e industria è ancora decisiva (da qui lo sviluppo di macro-aree regionali). La delocalizzazione, alla lunga - come avvenuto con l’emersione, nel sud-est asiatico, dell’industria delle batterie al li-tio - “tende a coinvolgere l’intera filiera, depauperando il bagaglio di know-how manifatturiero de-tenuto dal sistema ‘locale’ di pro-duzione”. Da qui, l’esempio degli Stati Uniti che hanno ripreso a “reimportare” produzione indu-striale come dimostra, del resto, il caso Chrysler e General Motors.
claSSe, la creScIta a Sua InSaputaTutto questo ha un impatto evi-dente sulle dinamiche della clas-se, le sue relazioni interne e il suo peso specifico. La produzione si centralizza e si diffonde, le scel-te vengono verticalizzate ma la produzione si allunga anche a livello sovranazionale – sia pure
con concentrazioni regionali e distrettuali – le fasi si diversifi-cano tra la produzione in senso stretto e i servizi che le ruotano attorno. Servizi “a monte” – ri-cerca e sviluppo, design, consu-lenza – e “a valle” – distribuzio-ne-logistica, commercializzazio-ne-marketing. Servizi che sono realizzati direttamente dalle im-prese manifatturiere – per il 6% del loro fatturato complessivo – oppure vengono poste fuori dal perimetro della fabbrica. L’impresa manifatturiera cresce ovunque nel mondo – tra il 2000 e il 2011 il tasso di crescita è sta-to del 36% – ma non in Italia che, nello stesso periodo, ha conosciu-to un vero e proprio “declino” con una perdita del 25% del proprio potenziale produttivo lasciando a casa un milione di addetti. Torna dunque lo schema dell’al-veare con una miriade di centri di produzione, collocati in settori diversi, che concorrono a forma-re la stessa catena del valore. Ma-nifattura, logistica, servizi per il commercio, distribuzione e così via hanno tra loro una relazione intima ma sempre più sfuggente. La classe cresce a sua insaputa. Se prima, ad esempio, la rete della distribuzione commerciale si av-valeva del classico negozio sotto casa, con la formazione di una classe intermedia di piccoli com-mercianti, oggi quel servizio viene effettuato dal conducente del fur-gone di consegna merci la cui so-cietà ha come committente Ama-zon o Ikea, che lavora a ritmi cre-scenti, con retribuzione minima, spesso con contratti precari. Tra questa figura e la fabbrica-madre ci sono poi i magazzini della logi-stica che impiegano manodopera
la “classe” Quindi, è sPalmata nelle tante Piccole imPrese, spesso delocalizzate in aree non molto distanti (balcani, nord africa) ma fortemente unificata nella catena di produzione del valore
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ne per rinominare la classe nel-la sua attuale conformazione. Il problema della moltitudine non stava nell’ipotesi di scavalcare il concetto di classe – per quanto la sua definizione appaia una sfera liscia rispetto alle incre-spature della categoria di classe – quanto la pretesa, rivelata in seguito, di incastonarvi dentro una nuova centralità, quella del “cognitariato”, incaricata di so-stituire la vecchia centralità ope-raia. Questa ipotesi si è rivelata fallimentare. Il cognitariato, pur importante e vitale nei processi di accumulazione del capitale, non ha assunto una dimensione tale da far ruotare attorno a sé l’intera classe dei lavoratori.Il problema potrebbe riproporsi anche se, estendiamo la casi-stica dei soggetti antagonisti al moderno processo di accumu-lazione. La finanziarizzazione si porta dietro, infatti, categorie come “l’uomo indebitato”, vitale e significativa a cui si possono sommare ulteriori sezioni come il “securizzato” o il “mediatizza-to” (ancora Negri). In realtà, non esiste più una com-ponente “centrale” del proletaria-to. La dinamica politica che si è sviluppata nei punti alti della sto-ria del movimento operaio non è riproducibile per inerzia o per ripetizione. Per quanto la “classe
operaia”, pur in forte diminuzio-ne, sia oggi comunque la com-ponente omogenea più rilevante, non esiste una ipotesi praticabile di centralizzazione dell’intero proletariato attorno ai suoi mo-vimenti, ai suoi ritmi e alle sue irruzioni sulla scena della lotta di classe. Questo non vuol dire sottovalutarne le potenzialità e la capacità di conflitto. In gran parte delle vertenze degli ultimi anni, sono stati proprio gli operai a condurre le iniziative più dure – Alcoa, Electrolux, Lucchini, Ilva, Fiat, Indesit, l’elenco è davvero lungo – ma spesso su lotte in dife-sa del proprio posto di lavoro con scarsa capacità di espansione.Questo non vuol dire, ovviamen-
te, che non bisogna analizzare a fondo le modificazioni struttura-li dei processi di accumulazione alla ricerca di linee di fratture, di tendenze conflittuali, di settori aggregabili e coinvolgibili in un processo di lotta. Quanto fatto con il settore della Logistica è importante e va dato atto a chi ci ha puntato di aver colto una con-traddizione esplosiva. Un settore sempre più decisivo, ad esempio, è quello dell’elettronica il cui peso nella produzione manifat-turiera globale è passato in die-ci anni dal 4 al 7,4% mettendosi direttamente alle spalle dei set-tori più rilevanti (Alimentazione, 12%, autoveicoli, 9%, metallur-gia, 8%). Un settore complesso in cui la produzione è effettivamen-te delocalizzata (Apple), in cui il ruolo dei “cervelli” è decisivo e in cui la distribuzione avviene in forme differenziate (tramite Amazon, ad esempio, ma anche con il modello-Trony).Una moderna unità “proletaria”, in ogni caso, richiede oggi un processo politico analogo e spe-culare a quello di cui si è dotato il capitale agli inizi degli anni 80.Anche sul piano della coscienza “per sé” si tratta di operare una “grande svolta” di portata analo-ga a quella compiuta dal capitale con il “compromesso neoliberi-sta” e individuare la rivendica-zione politica “tout court” che possa attrarre, come una calami-ta sospesa nel cielo, tutte le va-riabili sociali.Questa tesi non presuppone, per citare le osservazioni di Bensaïd, che la classe sia “una persona” (Proudhon), cioè un soggetto in-distinguibile da identificare nel Partito o, peggio, nello Stato. ▷
Quella che può essere definita “la grande svolta” di inizio anni 80, non è la “ritirata dello Stato” dall’economia e tanto meno un semplice “ritorno al mercato” ma un “nuovo impegno politico dello Stato”, un “disegno strate-gico” per ridurre le tasse – da qui l’esplosione del debito – ridurre la spesa pubblica, cedere ai pri-vati le imprese pubbliche. Se nei “trenta gloriosi” si era determi-nato il “compromesso social-democratico”, il “compromesso neoliberista” ha fondato una strategia in grado di ripensare i rapporti sociali a cominciare dal ruolo “disciplinare” dell’apparato statale. La “svolta” non costituisce, spie-gano ancora Dardot e Laval, un adattamento alle trasformazioni interne del sistema capitalista ma una “reazione-adattamento a una situazione di crisi”, quella degli anni 70, per rispondere al calo molto sensibile dei tassi di profitto. Mentre il capitale ha trasformato il terreno di forma-zione di margini di profitti ade-guati alle proprie aspettative, sul piano politico si è determinato un intero apparato di “servizio” in grado di supportare questa esigenza. Con le scelte politiche, vedi Thatcher-Reagan, con l’ide-ologia – “il capitalismo come fine della storia” – con la lotta di clas-se al contrario, generando, cioè, delle sconfitte durissime contro le conquiste degli anni 60 e 70. In questo processo ha giocato un ruolo decisivo la vecchia social-democrazia diventata social-li-berismo al servizio della moder-nizzazione (da Blair a Schroeder all’Ulivo italiano, compreso Ren-zi l’epigone).
l’unItà è un progettoIn questa situazione, la “ricomposizione dell’unità di classe” non può essere intesa come una giustapposizione di diverse identità, collo-cazioni, condizioni di lavoro come se si trattasse semplicemente di comporre un mosaico o un puzzle. Non si tratta di realizzare un’arit-metica della riunificazione. Così come occorre rifuggire dalla tenta-zione di scomporre e ri-definire costantemente le diverse figure socia-li nello sforzo di individuare la soggettività centrale attorno a cui “ri-comporre”. A questa tentazione è sembrato cedere anche Toni Negri quando ha ideato la categoria della moltitudine come furba definizio-
straniera, ultra-precaria, etc. Le varie figure proletarie non si rap-portano in nessun modo, spesso sono sindacalmente relazionate a categorie diverse mentre lavo-rano per l’unica catena. L’unità resta il problema di fondo della moderna lotta di classe. Ma l’uni-tà non si fa per decreto.
la polItIca del capItale ll fenomeno di finanziarizza-zione del capitale e di sbriciola-mento dell’identità della classe lavoratrice sembrano coincidere con una riduzione del controllo politico e quindi con l’inutilità dell’azione politica. Il problema si è posto già all’epoca del movi-mento antiglobalizzazione con l’ipotesi, rivelatasi poi inefficace, di una contestazione diretta agli organismi sovranazionali.L’esperienza ha dimostrato che il capitalismo globale non ha un centro mondiale di comando po-litico né, tantomeno, un fantoma-tico “Impero” che lo sovrasta. Allo stesso tempo gode di unità ideo-logica, un discorso unitario che regola i suoi diversi e molteplici centri di comando. Si presenta come una rete, con conflitti inter-ni, statuali e inter-aziendali e con mille filamenti disorganici a cui sono collegate le forze sociali.Per agire in questo contesto non può essere minimizzata la dimen-sione politica del neoliberismo, cioè la formula ideologica con cui si è accompagnata la trasforma-zione finanziaria. Come scrivono Pierre Dardot e Christiane Laval, ne La nuova ragione del mondo, il liberismo non è semplicemente l’approdo inesorabile di un’evo-luzione economica data ma una precisa scelta politica.
le varie figure proletarie non si rapportano in nessun modo, sPesso sono sindacalmente relazionate a categorie diverse mentre lavorano per l’unica catena
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La molteplicità di classe è un dato anagrafico inconfutabile ed è vero, come spiega ancora Bensaïd, che l’unità è figlia della lotta, è cioè un dato evenemenziale.Il collante di questa unità è però il senso politico, di sé e dei compiti. Non nel senso di una propaganda da portare nelle lotte con la prete-sa di una incarnata visione globale. Da questa impostazione occorre uscire definitivamente. Quando affermiamo che il movimento opera-io che abbiamo conosciuto storicamente non esiste più non diciamo che non esiste una classe e un movimento di questa che possa lottare per la propria emancipazione. Semplicemente, sosteniamo che oc-corre costruire un “nuovo movimento operaio” il quale, naturalmen-te, assumerà nomi, profili, forme oggi poco immaginabili. Il progetto politico di fondo è questo e le sue avvisaglie noi le rintracciamo, ad esempio, in quello che è avvenuto negli ultimi anni con il movimento degli Indignados in Spagna, nelle evocazioni suscitate da Occupy ne-gli Stati Uniti, soprattutto dove ha avuto impatto sulle condizioni del moderno lavoro, così come le rintracciavamo nel movimento “no-glo-bal” all’inizio degli anni 2000. Il filo conduttore di questa ricerca resta lo stesso e l’impatto di Podemos in Spagna conferma la validità di una intuizione: solo da una nuova soggettività proletaria, inedita e capace di legare soggetti diversi, può germogliare un nuovo progetto politico.
l’alfabetIzzazIone prImarIaUn tale progetto politico passa dunque per il riconoscimento che l’ele-mento “sindacale”, “economicista” di base è un passaggio ineliminabi-le di una identificazione del soggetto da parte del soggetto medesimo.Serve l’alfabetizzazione primaria per riconoscere il rapporto di sfruttamento tra salariato e capitale. Questo riconoscimento, per ri-percorrere Il Capitale di Marx, come fa Bensaïd, passa per il rappor-to con il singolo capitalista (il tempo di lavoro ne è un punto chiave), poi il rapporto con il capitale nel suo insieme e infine il rapporto di produzione. Se vuole giocare una partita efficace il moderno proletariato deve sa-per riconoscere il rapporto complessivo di produzione e quindi dotar-si di una “teoria complessiva”. Ma questo, al tempo della disfatta del movimento operaio, passa per il riconoscimento di tutti i gradi a co-minciare dalla lotta contro il singolo capitalista. Non serve una teoria generale, insomma, per riconoscere nell’Ikea o nelle Coop o, ancora in Eataly, l’avversario di classe. La propaganda, per quanto intelligente e ben fatta, rischia di rimanere muta nel contesto attuale e la stessa rappresentanza politica si presenta come un diversivo.Quello che noi oggi facciamo, quindi, è ribadire l’esistenza di una classe proletaria che nello sviluppo capitalistico odierno si è ampliata fino a lambire figure che un tempo stavano “dall’altra parte” (falso lavoro au-tonomo, quadri, distribuzione). La sua possibilità di giocare una partita “antagonista” è data dalla sua capacità di darsi un “progetto”. Una volta era il comunismo, oggi è necessario ancora partire da una lettura anali-tica delle moderne trasformazioni del capitale e una ricerca sul sogget-to medesimo in grado di fissarne la collocazione nello scontro di classe.I processi possono essere due:• innanzitutto lavorare per il riconoscimento della propria colloca-zione nel rapporto di classe. Alcune realtà lo hanno ancora chia-
e di ricostruire l’accumulazione originaria delle forze di classe.• Il nostro secondo asse di lavoro, che ha l’ambizione di collegare l’alfabetizzazione classista con la costruzione di un orizzon-te più ampio, è quanto è stato sperimentato con Ri-Maflow. L’occupazione della fabbrica di Trezzano e l’avvio di un dibatti-to, ampissimo, sull’autogestione operaia è un patrimonio da cu-rare, coltivare ed estendere, non con l’illusione di trovare una via d’uscita alla crisi o una risposta alla decomposizione del movi-mento operaia ma di far germi-nare un dibattito progettuale. Il fatto di riprendere la tematica comunista sul versante dell’au-
ro e questo rappresenta oggi il motivo dell’anomalia e del-la specificità di realtà come la Fiom o di quelle più vitali e combattive del sindacalismo di base (logistica). L’obiettivo può essere sintetizzabile nella ri-cerca dell’esperienza esemplare in grado di rappresentare, con la lotta e la vertenza, i rapporti esistenti. Quanto fatto all’Ikea o sul terreno della Logistica, va in questa direzione. La vertenza esemplare va intesa in questo senso, come occasione per rive-lare il rapporto di classe. In que-sto senso, va riconosciuto che quella della Fiom contro la Fiat ha svolto una funzione decisiva al di là degli errori, della natura del sindacato o dei risultati rag-giunti. L’attacco di Marchionne costituisce uno spartiacque per-ché determina un arretramento importante dei diritti acquisiti (contratto nazionale) e gli effet-ti della sua mossa si stanno regi-strano in molte altre categorie. Lo scontro che ha visto in cam-po la Fiom è stato paradigmati-co di una volontà di resistenza (e quindi di internità alla classe in sé).• In una fase di risorse scarse, questa strada appare quella più utile all’accumulo di esperienza, alla possibilità di giocare un ruo-lo attivo nello scontro di classe
togestione costituisce un terreno di lavoro, parziale ed embriona-le, che permette però di toccare i temi dell’alternativa di società, dell’organizzazione della produ-zione, del rapporto tra lavoro e democrazia in termini nuovi per lo meno nel contesto italiano. Questo rappresenta allo stesso tempo un atout ideologico e il filo di una tela di ricostruzione sociale.La strada dell’alternativa oggi può passare per questi vicolo, sicuramente stretto ma creativo. Una strada densa di possibilità che vanno declinate in tutte le varie forme possibili.
la rete dI mutuo Soccor-So “adotta una lotta”In questo senso acquista un va-lore politico generale il progetto del Mutuo soccorso. È questa in-fatti l’allusione alimentata da Ri-Maflow per costruire un campo della solidarietà “di classe”, del lavoro in cui ridefinire apparte-nenze e progetti in comune. Per questo il nostro progetto può es-sere quello di una vera e propria Rete di Mutuo soccorso al cui interno far vivere un embrione di attività sindacale strettamente connessa all’attività complessi-va. Non dobbiamo far nascere l’ennesimo sindacatino di classe ma un progetto, uno spazio più largo fatto di esperienze autoge-stionali, progetti di solidarietà classista, mutuo soccorso.Quello che ci proponiamo, quin-di, è di realizzare una ampia rete in cui far vivere esperienze di lavoro in comune, servizi di as-sistenza mutua (legale, migran-ti, sindacale, fiscale), scambio “equo e solidale” di prodotti (a partire dai cibi senza sfrutta-mento), attività di solidarietà primarie.Anello prezioso della Rete è un “sindacato di mutuo soccorso”. Non l’ennesima sigla da affian-care alle altre in azione ma nodo di una Rete più ampia – questa si inedita – in cui abbinare l’azione quotidiana e vertenziale sui luo-ghi di lavoro con la traduzione operativa del concetto di mutuo soccorso: adotta una lotta.Le lotte da adottare sono quelle “esemplari” che possono realiz-zarsi o scaturire da un’iniziativa soggettiva. Sostenere la sindaca-lizzazione dei lavoratori di Ea-taly o delle Coop, organizzare la vertenza dell’Istat, costruire una presenza presso grandi aziende dell’elettronica o dell’alimenta-zione, ripartendo dal lavoro di mutuo soccorso e di solidarietà.Al tempo della ‘precarietà sta-bilizzata’ la ricostruzione di un intervento organico nel mondo del lavoro passa per le dosi di “stabilità”, garanzia, supporto e assistenza che saremo in grado di dare.Sarebbe questa, del resto, la sfida anche per il movimento sindacale organizzato sempre più scredi-tato e delegittimato nei luoghi di lavoro (come dimostra il recente congresso Cgil). La sua sordità as-soluta a questa tematica ne con-ferma non solo la complicità con gli assetti dominanti ma anche la sua, ampia, irrecuperabilità a un progetto di ri-costruzione.
non esiste Più Una comPonente “centrale” del Proletariato. la dinamica politica che si è sviluppata nei punti alti della storia del movimento operaio non è riproducibile per inerzia
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un programma polItIco SIndacaleServe una visione delle cose e un’ipotesi progettuale che guardando agli obiettivi di fondo consideri con ponderazione gli attuali rapporti di forza e il dibattito attuali. Il nostro programma di lavoro può oscil-lare all’interno di coordinate date da alcune coppie: a) debito-finan-za; b) profitti-salari; c) welfare-reddito; d) diritti-mutuo soccorso; e) genere e classe; f) migranti e classe; g) democrazia-rappresentanza.Debito e finanza. Si tratta di affrontare la finanziarizzazione dell’ac-cumulazione colpendo l’anello debole. Il debito. Ma non va sottovalu-tata la proposta della patrimoniale mondiale alla Piketty.Profitti e salari. Il gigantesco ribaltamento dei rapporti di forza ha prodotto uno spostamento enorme di risorse. Il dato non può esse-re aggirato anche se la quota profitti da riconquistare non è sempre solo negli utili aziendali. La contrattazione aziendale è un passaggio importante ma la contrattazione nazionale, ed europea, va ripensata per riconquistare fette di salario, e di diritti, sul piano globale. In que-sta chiave la contrapposizione tra contratto e salario minimo legale è assurda: un salario minimo, di proporzioni significative (a Seattle, negli Usa, si propongono i 15 dollari l’ora), non può che innescare un circolo virtuoso anche a livello contrattuale.Precarietà-diritti. La stabilizzazione della precarietà è un progetto di fase. Occorre contrapporgli una risposta altrettanto netta: la stabiliz-zazione del contratto di lavoro. Il contratto unico a tutele crescente (quello vero, scimmiottato da Renzi che, non a caso, non lo realizza) in cambio del quale eliminare le differenti tipologie a tempo determi-nato, interinale, etc., va in questa direzione.Welfare-reddito. Il reddito sociale è ormai una necessità non rinviabi-le. Da retribuire con l’imposta patrimoniale. Un punto a parte merita-no le pensioni viste come tematica relativa solo al “lavoro garantito”. Una battaglia contro la precarietà, invece, è anche quella che ripri-stina il principio di solidarietà di classe a partire dalla condivisione
la classeche crescea sua insaputa
acQUista Un valore Politico generale il Progetto del mUtUo soccorso. è Questa infatti l’allusione alimentata da ri-maflow per costruire un campo della solidarietà “di classe”
delle regole per il salario differito rappresentato dalla pensione e dall’aumento della massa dei sa-lariati per garantire le pensioni future.Diritti-mutuo soccorso. La prati-ca di mutuo soccorso non è “sus-sidiaria” all’erosione del welfare. Se così fosse sarebbe un autogol. Dobbiamo chiedere diritti so-ciali, garanzie fondamentali da estendere sia a livello nazionale che europeo. Il mutuo soccorso è però una pratica “esemplare” e “organizzativa” per rivendicare quei diritti e un passaggio per ri-badire i meccanismi fondamen-tali della “solidarietà di classe”
come superiore all’idea dell’individualizzazione e della competizione senza freni. In tal senso va la rivendicazione di finanziamenti pub-blici per progetti di auto-recupero, autogestione e riappropriazione produttiva (Rimaflow per tutti, tutti per Rimaflow).Genere e classe. La sproporzione in termini di occupazione e salari tra uomini e donne resta ancora un’ingiustizia evidente. La parità sul piano del lavoro è ancora una conquista da ottenere e il recupero del gap tra i due “generi” un obiettivo significativo.Migranti e classe. L’altro divario è in relazione al lavoro migrante. La richiesta del diritto di cittadinanza, contro l’imposizione della clan-destinità serve a unificare il mondo del lavoro e a ripristinare una solidarietà di classe che non può che essere inter-nazionaleDemocrazia e rappresentanza. Le lotte più efficaci degli ultimi anni si sono fatte anche all’insegna della democrazia e del diritto di au-to-rappresentarsi. Oppure, spezzando il monopolio confederale (vedi autotrasporto a Genova). Il Testo unico di Cgil, Cisl e Uil costituisce un passaggio all’altezza della crisi perché sequestra definitivamente la rappresentanza ed espelle dalla contrattazione le esperienze alter-native. Legge sulla rappresentanza, autorganizzazione, autogestione e democrazia diretta divengono tasselli di un’unica strategia. ◀
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rettamente proporzionale all’im-passe in cui sono finite tutte le più importanti vertenze aperte, e chiuse senza alcun risultato si-gnificativo. La sinistra sindacale di Cremaschi, pur avendo conso-lidato alcune piccole strutture di militanti sindacali in opposizio-ne alla Camusso e all’opportuni-smo della gestione Landini, vive anch’essa divisioni interne e non fa intravedere prospettive con una valenza più generale.Il sindacalismo di base è avvitato dentro la propria autoreferenzia-lità, nonostante le diverse resi-stenze in atto, tra cui significativa è stata quella della logistica, an-data al di là dei meriti acquisiti sul campo dalle sigle lì presenti (Si Cobas e AdL Cobas del triveneto). Usb, Cub e Confederazione Cobas continuano a resistere nei propri “fortini” con l’Usb che si pone un po’ presuntuosamente come l’alternativa esistente a Cgil Cisl Uil, nascondendo in realtà una propria crisi di insediamento con l’emorragia di strutture dopo l’ul-timo congresso – tra cui Il Sial Co-bas di Milano, l’Orma di Brescia, l’Adl di Varese e altro – e un inde-bolimento della stessa tenuta nel lavoro pubblico, messa in discus-
con il governo Renzi la crisi delle politiche concertati-ve entra in una nuova fase, dagli esiti imprevedibili, ma nessuno positivo per il movimento dei lavoratori. La carta degli “80 euro” ha costruito consenso con le modalità bonapartiste di chi distribuisce briciole ad alcuni segmenti di lavoro dipendente scavalcando la mediazione dei “corpi intermedi”, leggi burocrazie sin-
dacali. La stessa operazione viene tentata con Confindustria, facendo leva sull’interesse padronale all’elemento “velocità” di alcune iniziati-ve finalizzate a comprimere la spesa pubblica e a sostenere l’industria italiana nella competizione con i suoi alleati-concorrenti.Il problema è comprendere quali sono i suoi margini di manovra. Ap-parentemente sono ridotti, perché la costrizione delle compatibilità europee si può allentare congiunturalmente ma non rimettere in di-scussione.Quali sono allora le conseguenze per il movimento sindacale nelle sue diverse articolazioni? La Cgil è il soggetto più in difficoltà. Sca-valcata dal bonapartismo renziano, chiede la ripresa della concer-tazione sapendo benissimo che i margini per qualche contropartita sono limitati e che il suo stesso “potere di interdizione” è messo in discussione da Renzi.Cisl e Uil si rendono conto che la “complicità” gli permette di galleg-giare, ma le nuove modalità di gestione renziana delle “relazioni sin-dacali” creano problemi anche a loro. Hanno però l’inserimento clien-telare e lo “stomaco complice” per reggere meglio della Cgil.La Fiom è in grande difficoltà. Ha ritrovato un certo protagonismo congressuale differenziandosi in conclusione dalla gestione Camusso ma non ha molte prospettive. Vuole sfidare Renzi sul terreno della rappresentanza e “andando a vedere” su alcuni tavoli, ma rischia di non raccogliere nulla. La sua crisi di insediamento nell’industria è di-
Quale sindacalismoconflittualenella crisi del sindacalismo, tanto confederale Quanto di base, riscoprire uno strumento che faccia valere la forza collettiva del lavoro vivo in tutte le sue forme
nanti, si pensa alle conseguenze della frammentarietà e dell’in-dividualizzazione delle risposte determinata dalla precarizzazio-ne dei rapporti di lavoro e dagli effetti della crisi. Si dovrebbe però ragionare un po’ di più an-che sull’accumulo di sconfitte e sul ruolo degli apparati nella loro funzione di “tappo” e mediazione perdente per i lavoratori. Il con-flitto che porterà risultati sarà quello che permetterà di liberar-si dell’escrescenza parassitaria costituita dalle burocrazie sinda-cali confederali. Le resistenze che si producono in questo contesto sono contrad-dittorie. Alcune si scontrano an-che con la presenza oppressiva delle burocrazie sindacali, altre sono da queste cavalcate perché veicolo di una possibile nuova sindacalizzazione.Tra queste segnaliamo la logisti-ca – su cui occorre una riflessione ad hoc per la valenza politico-sin-dacale di un segmento di lavoro salariato composto prevalente-mente da migranti; i trasporti, dove l’impatto conflittuale con le burocrazie sindacali è stato più forte; la sanità pubblica e privata
– che vede anche qui una compo-sizione sociale segnata dal lavoro migrante, con alcune grandi ver-tenze capaci di costruire anche consenso popolare intorno a sé (il San Raffaele di Milano, ma non solo); agroindustria, con le fiam-mate di rivolta tra strati braccian-tili nel Mezzogiorno, ecc.A partire da quest’ultima “catego-ria” le cose si fanno più mescola-te. Tra i braccianti assistiamo ad esplosioni che scavalcano le sigle sindacali – tutte – ma contempo-raneamente ad un rafforzamento del ruolo di “servizio” e supporto costituito in alcune aree dal sin-dacalismo confederale. Per arrivare alla nuova sindaca-lizzazione che passa anche attra-verso i sindacati confederali in altre vicende importanti e signi-ficative: dalle mobilitazioni in al-cune catene della grande distri-buzione ai Call Center esistenti soprattutto al sud, ai fast food/ristorazione collettiva veloce, ai lavoratori delle imprese di puli-zia. Per arrivare all’universo delle cooperative sociali, dove c’è una presenza tradizionale del sinda-calismo di base ed aggregazioni extrasindacali, come la Rete de-
oggi convivono contraddittoria-mente la crisi della sindacalizzazione, nelle forme che ha assunto fino ad oggi, e la tendenza ad Una nUova sin-dacalizzazione
11
gli operatori sociali sostenuta dai collettivi di San Precario, che si mescola ad una ripresa di attivi-tà del sindacalismo confederale che incontra l’esigenza dei la-voratori di disporre di uno stru-mento sindacale ma anche una logica di “affidamento clientela-re” per l’asse Pd-Cgil nelle ammi-nistrazioni locali che sono il loro principale committente in epoca di privatizzazione del Welfare.In generale oggi convivono con-traddittoriamente la crisi della sindacalizzazione, nelle forme che ha assunto fino ad oggi, e la tendenza ad una nuova sindaca-lizzazione, ad una riscoperta del-la necessità elementare di uno strumento che faccia valere la forza collettiva del lavoro vivo in tutte le sue forme. Peraltro non è uno scenario nuovo, né soltanto italiano od europeo. Anzi in pa-esi in cui i tassi di sindacalizza-zione sono precipitati ai minimi storici, dentro la crisi cominciata nel 2007/2008 vediamo ricompa-rire la spinta all’azione difensi-va/collettiva del lavoro salariato che, spesso, guarda con interesse a ciò che arriva dal nuovo ciclo dei movimenti sociali.
In questo quadro, non vi sono ricette miracolose. Si deve lavo-rare su una impostazione “com-binata”: a) Utilizzo delle strutture sinda-cali che “qui e ora” permettono di esprimere al meglio le esigen-ze di autorganizzazione/auto-determinazione di un segmento di lavoro salariato. In questo senso occorre tirare un bilancio del sindacalismo di base. È giu-sto valorizzarne il ruolo dove è capace di un’azione efficace, ma con la consapevolezza che non siamo più nella fase del persegui-mento della unità tra le sigle del sindacalismo di base come elemento strategico di ricomposizione/ricostruzione di un sindacalismo di classe capace di scalzare l’egemo-nia dei grandi apparati sindacali. La strada della ricostruzione di uno strumento sindacale “generale” adeguato alle esigenze, sarà assai più complessa ed articolata; b) Costruzione di organismi ad hoc, dentro vertenze concrete, che permettano di aggirare la resistenza degli apparati ed insieme l’auto-referenzialità dei gruppi dirigenti dei sindacati di base esistenti; c) Approccio intersindacale, che possa mettere insieme lavoratori di diverse sigle non necessariamente in rottura con la propria orga-nizzazione ma sufficientemente autonomi da rendersi disponibili ad iniziative concrete.Questo insieme di “criteri” può aiutare una azione sindacale che abbia l’obiettivo di portare a casa risultati e di far crescere una consapevolezza di sé fondamentale per ricostruire le condizioni elementari di qualun-que futuro movimento dei lavoratori. È inoltre determinante coltivare
con cura il protagonismo diret-to – e quindi della spinta all’au-torganizzazione – di lavoratori e lavoratrici. L’autorganizzazione non germoglia su un “prato ver-de” che fiorisce ciclicamente e spontaneamente. Richiede una soggettività politica e sindacale che agisca in questa direzione e sia capace di utilizzare ogni occa-sione favorevole. La spinta all’au-torganizzazione oggi convive con il sentimento della sconfitta, la disillusione, l’atteggiamento di delega, le difficoltà materiali de-terminate dalla crisi prolungata. Ma esiste, bisogna saperla vedere, coltivare, valorizzare.Per concludere, alcune ipotesi di lavoro possibili per il network Communia:1) Adotta una lotta, ma quale lot-ta? La lotta dei precari dell’Istat di Roma, il coordinamento mila-nese di alcune esperienze di lavo-ro precario esistenti nel Comune di Milano, i lavoratori della scuo-la, gli operatori sociali, i lavorato-ri della Feltrinelli. Un’attenzione particolare merita la situazione dei lavoratori di Etaly, sia per i tentativi di sindacalizzazione avviati in alcuni negozi, sia per la possibilità di connettere questi tentativi al percorso di mobilita-zione contro l’Expo 2015.2) Sportelli precari/migranti/lavoro nero/lavoratori domesti-ci - attivando gli spazi occupati di Roma, Milano, Bari, Mantova, Viareggio. Sulla base delle espe-rienze in corso occorre pensare ad una forma di coordinamento degli sportelli esistenti. Uno stru-mento utile potrebbe essere co-stituito da uno “sportello virtuale” aperto su Communianet.org, per far circolare informazioni sulle sperimentazioni in corso, e per fornire indicazioni e conoscenze.3) Mutuo soccorso sull’asse Ri-maflow/Roma/Bari/Rosarno.4) Sostegno all’esperienza dei lavoratori della “Ri-Maflow” di Trezzano (Milano) sia per il va-lore politico di questa lotta ed esperienza di autogestione, che propone di fatto un’alternativa al capitalismo, sia per la neces-sità di sostenerla materialmente nella fase i cui i lavoratori della cooperativa devono recuperare attività produttive che possano darle un futuro. ◀
non siamo più nella fase del perseguimento della unità tra le sigle del sindacalismo di base come elemento strategico di ricomPosizione/ricostrUzionedi un sindacalismodi classe
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marx e la dImenSIone attIva della claSSe
È inevitabile cominciare con alcune considerazioni a proposito degli interventi comparsi sul sito communianet.org. Un certo nu-mero di essi allude a un’assenza: la classe perduta, la classe che non c’è, la classe di cui cercare le tracce... A mio avviso dire che si avverte drammaticamente l’assenza di
una classe significa in primo luogo riprendere un filo rosso del pensiero di Marx, che più volte esprime la convinzione che una classe è classe, se è capace di pensare e di agire come tale: nell’Ideologia tedesca afferma che i diversi individui formano una classe, quan-do devono portare avanti una battaglia comune contro un’altra classe; in una lettera a Kugelmann parla del suo programma come un mezzo per agevolare la trasformazione degli operai in classe; nel 18 Brumaio, riferendosi ai contadini piccoli proprietari in Francia scrive che sono una classe ma non sono una classe. Formano infatti una classe perché vi-vono in condizioni economiche che distinguono i loro modi di vita, i loro interessi, la loro cultura da quelle di altre classi e si contrappongono a esse in modo ostile. Non formano invece una classe perché non costituiscono una comunità e non sono in grado di esprime-re un’unione e un’organizzazione politica.Certo Marx dice anche altre cose: distingue per esempio “classe in sé” e “classe per sé”, concetti che però a un certo punto abbandona; usa il termine classe anche quando parla dell’operaio “bestia da soma” e “anima abbrutita”, prima che la “prassi sovverti-trice” lo riscatti.Questa utilizzazione anfibia di un concetto non cancella le numerose affermazioni in cui Marx pensa la classe come qualcosa di vivo e attivo, in sintonia del resto con la sua pratica militante. Egli infatti individua nella classe operaia industriale la protagonista del conflitto contro la divisione della società in classi perché, quando decide di unirsi a essa, gli operai già sostengono da decenni durissime lotte. È possibile una lotta di classe senza classe, senza una classe capace di costituire una co-munità, un’unione e un’organizzazione politica, cioè senza una vera classe? Per Marx evi-dentemente sì, dato che considera la lotta di classe una costante della vicenda umana, anzi la forza dinamica stessa della storia. E d’altra parte pensa gli operai dell’industria come la prima classe della storia capace di agire come classe e quindi di essere compiuta-mente classe.Per questa discussione sono utili alcune distinzioni. Per esempio quella tra proletariato e classe o tra classe operaia e movimento operaio. La prova dell’utilità è nella confusione che generano talvolta le omonimie. Per esempio quando si risponde che la classe operaia e le sue lotte esistono ancora, la deindustrializzazione è un’interpretazione semplicistica della realtà e i dipendenti dei servizi sono spesso operai e operaie esternalizzati. Il problema è di tutt’altra natura: almeno a guardare all’esperienza del Novecento, la “classe in sé” ci dice ben poco della “classe per sé”, se proprio vogliamo continuare ad usare for-mule che a un certo punto Marx ha abbandonato e che per Bensaïd sono un’illusione idealistica. Insomma nessuna definizione strutturale della classe può risolvere il pro-blema della sua formazione. Le modalità con cui le classi subalterne della storia con-temporanea hanno partecipato al conflitto sociale sono state molteplici, diverse e fortemente condizionate dai contesti storici. I due modelli a cui la sinistra radi-cale si è tradizionalmente ispirata si sono rivelati la riduzione a paradigma di eventi storici irripetibili o che comunque non si sono ripetuti. Mi riferisco al modello dell’autoemancipazione di una classe secondo Marx e nell’esperien-za della Prima Internazionale e al modello di una classe capace di produrre una forte autorganizzazione con cui guidare il partito e lasciarsi guidare dal partito nella circolarità virtuosa del 1917.Questi eventi sono stati ovviamente fondamentali perché hanno creato le condizioni degli eventi successivi, ma le modalità con cui il lavoro subalterno si è fatto classe sono state sempre diverse.Lo stesso proletariato di fabbrica avrà in contesti storici diversi comportamenti radicalmente diversi. Nel 1917 la profezia di Marx sembra avverarsi, ma nel conte-sto eccezionale di un proletariato forte e di una borghesia debole, che non ha ancora costruito le condizioni del proprio dominio. Negli Stati Uniti, dove vige la gerarchizzazione razzista del lavoro salariato, potrà nello stesso tempo sostenere straordinarie lotte sinda-cali e votare per la destra razzista del partito repubblicano. In Italia aprirà alla fine degli anni Sessanta una stagione riformista sotto l’occhio preoccupato e vigile degli apparati sindacali e del Pci.Non solo la stessa classe ha comportamenti diversi, ma la stessa classe può essere sostan-zialmente diversa. Marx ne conosce non una ma due: la classe operaia di origine artigia-
la classeProbabilein un proletariato per nulla omogeneo, e nella confusione ormai insita nel concetto di classe, si tratta di ricominciare segnando Prima di tUtto Un netto confine tra il “loro” e il “noi”
le modalità con cui le classi sUbalterne della storia contemPoranea hanno ParteciPato al conflitto sociale sono state molteplici, diverse e fortemente condizionate dai contesti storici
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nale sussunta al capitale in Francia ancora solo formalmente e con maggiori capacità di autorganizzazione; la classe operaia oggetto di una sussunzione reale in Inghilterra che già aveva cominciato a produrre una robusta burocrazia sindacale. Inoltre il proletariato non ha abitato solo i luoghi della produzione industriale: tra gli eventi che hanno costruito il movimento operaio del Novecento ci sono state anche la rivoluzione cinese e cubana, in cui le classi protagoniste poco hanno a che fare con quelle che costruirono la Comune o presero il Palazzo d’Inverno.Già nel Novecento la formazione e i comportamenti della classe sono stati differen-ti e mutevoli, e ancora più lo saranno di fronte ai cambiamenti degli ultimi decenni. Tra questi la dissoluzione della costruzione storica che abbiamo chiamato “movimento operaio”. Spesso si intende la formula in analogia con altre dello stesso tipo. “Movimento studentesco” significa movimento di studenti e “movimento delle donne” significa ap-punto movimento di esseri umani di sesso femminile. Si è invece chiamato “movimento operaio” l’insieme sinergico che in Europa e nel mondo aveva costretto il capitale a cam-biare per non morire e che aveva solo in parte a che fare con una classe. Certo la classe operaia, soprattutto quella dei grandi complessi industriali, era stato il nucleo intorno al quale si era poi aggregato, ma il prodotto finale era stata una costruzione storica, socio-politica e culturale dai confini incerti, fortemente differenziata e conflittuale al proprio interno ma appunto sinergica, composta da una classe di notevole forza strutturale e capace di farsi centro del conflitto sociale; da strutture burocratiche e clientelari, che concedevano agi e poteri ai settori della piccola borghesia più ambiziosi e dinamici; da entità statali con il loro potere economico e militare; da movimenti di liberazione di paesi colonizzati, interessati a mettersi sotto l’ala protettrice dell’Unione Sovietica e che talvolta si avventuravano nella creazione di socialismi nazionali più o meno credibili; da socialdemocrazie che mantenevano aperti gli spazi in cui i rivoluzionari potevano con-tinuare ad agire e da rivoluzionari che punzecchiavano ai fianchi le socialdemocrazie e gli apparati sindacali, costringendoli a scatti per recuperare i rapporti con la propria base sociale; da intellettuali creativi attratti dai miti progressivi costruiti sulle vicende ri-voluzionarie del secolo; da mobilitazioni occasionali e da spessi sedimenti organizzativi, da elettorati fedeli, da compagni di strada e alleati…. Ora gran parte delle componenti di questo insieme o non esiste più o ha mantenuto nomi a cui non corrispondono le stesse realtà oppure ha subìto dinamiche di disaggregazione. Significa essere privi di qualsiasi criterio materialistico di giudizio credere che l’enorme distruzione di forze materiali
prodotte dalla disgregazione del movimento operaio del Novecento abbia lasciato poi intatti paradigmi, immaginari, discorsi, simboli e aspettative.
Il vaSto terrItorIo della claSSe del xxI Secolo
Se ci limitassimo a fare i conti solo con la storia e prendessimo soltanto atto della diversità dei modi in cui il proletariato ha manifestato la
propria presenza, oggi non avremmo cioè alcuna immagine dell’i-dentità della “classe probabile”, come la chiama Bourdieu. Non ci resterebbe che la pratica del tutto empirica di essere là dove sia-mo o dove c’è qualcosa già in movimento. Nella realtà la pratica empirica dovrebbe però essere accompagnata dalla consapevo-lezza che le lotte attuali e le loro logiche possono esaurirsi senza un seguito e che altri gruppi sociali, altre dinamiche di soggetti-vazione senza relazioni con le attuali possono entrare in gioco e con maggiore efficacia. Serve allora individuare Dove sono i nostri, come dal libro dei Clash City Workers. Ma chi è un proletario e che cosa è il proletariato oggi? Individuarlo non è un’operazione neutra perché la scelta dei criteri è necessa-riamente di parte. Esiste un criterio per pensare la classe, quando non è classe, non pensa e non agisce come classe? Se ancora una volta si guarda a Marx, si noterà che quando si riferisce a una concreta figura storica i proletari sono gli operai di fabbrica. Quando invece elabora concetti che possono avere la funzione di criteri, allora l’orizzonte si allarga fino al punto di rendere intellegibile l’ampiezza degli attuali processi di proletarizzazione. Il proletario infatti è un lavoratore libero ma costretto per soprav-vivere a mettersi sul mercato come una merce qualsi-asi e a vendere la propria forza lavoro, cioè l’insieme delle sue attitudini fisiche e intellettuali. Già ai tempi di Marx questa condizione non riguardava solo la classe operaia di fabbrica ma altri gruppi sociali, per esempio gli impiegati del settore privato che spes-so, come si direbbe oggi, non arrivavano alla fine del mese. A conferma della natura politica della nozione di classe in Marx, a cui interessa la par-te del lavoro subalterno più dinamica e attiva e che meno si identifica nei valori della borghesia. Nel corso del Novecento è poi cresciuto il nu-mero degli impiegati di banca e di compagnie assicurative, di operatori di questo e quel setto-re che producono direttamente ricchezza. La produttività del lavoro non è il criterio per indi-viduare “dove sono i nostri”, ma non è del tutto irrilevante nei processi di formazione che si re-alizzano prima di tutto attraverso il conflitto. ▷
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te ci sono già state ma in se stesse avrebbero ottenuto ben poco, se non avessero avuto alle spalle i rapporti di forza dei tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Rapporti che non sono stati solo il prodotto della forza strutturale dei lavoratori della grande in-dustria e del bisogno di forza lavoro del capitale, ma determinati da ragioni di carattere politico, culturale e perfino militare.La femminilizzazione del lavoro e l’immigrazione non semplificano le cose perché rendo-no anche più complessi i problemi di connessione tra le figure della produzione sociale, ma sarebbe davvero superficiale attribuire le divisioni ai pregiudizi razzisti dei lavoratori. E non perché non esistano, ma perché sessismo e razzismo in funzione del minor costo della forza lavoro hanno un’origine specifica. Essi vengono costruiti e riprodotti non solo dal complesso delle istituzioni proprie del capitale, ma anche dall’adattamento a uno stato di cose delle organizzazioni che dovrebbero difendere il lavoro salariato nel suo comples-so. Le leggi che mettono gli immigrati nell’impossibilità di difendersi dallo sfruttamento inducono il lavoratore locale a intendere la presenza dell’immigrato, disposto a vendersi a un prezzo più basso, semplicemente come crumiraggio ma, se non si mette in moto una lotta comune, l’intervento di forze politiche trasforma poi le reazioni di ostilità in adesione a discorsi e pratiche autenticamente razziste e xenofobe. Per le donne l’inclusione subalterna e precaria nel mercato del lavoro fa leva su una naturalizzazione dell’attività di riproduzione (che non è solo e soprattutto riproduzione biologica) in un contesto in cui esisterebbero tutte le condizioni materiali e culturali
I lavoratori dei settori produttivi hanno infatti avuto a disposizione nel Novecento l’arma dell’interruzione della produzione di plusvalore, che in alcuni momenti è apparsa al capi-tale particolarmente temibile. Le delocalizzazioni, la compressione dei diritti sindacali, il crumiraggio organizzato sotto l’egida del razzismo istituzionale, la precarietà ecc. devono servire anche a disinnescarla.Marx però dice anche di più e cioè che la valorizzazione del capitale non si realizza solo con il lavoro immediato, ma con la combinazione dell’attività sociale. Per comprendere gli attuali fenomeni di proletarizzazione si può utilizzare anche il concetto di sussunzione. La sussunzione reale o sostanziale o effettiva, o come si preferisce chiamarla, è il processo attraverso il quale il capitale non solo sfrutta, appropriandosi di parte del lavoro ma anche organizza, parcellizza, rende appendice della macchina, impone forme di cooperazione di cui mantiene i fili e che spesso non fanno parte dell’esperienza diretta di lavoratrici e lavo-ratori. Penetrando sempre in nuovi ambiti il capitale ha prodotto una proletarizzazione di vaste dimensioni con ragioni complementari e manifestazioni diverse.Si è sviluppata in Asia e in America Latina una forte classe operaia, che si è fatta di recente sentire nella zona meridionale della Cina, la cosiddetta Fabbrica del Mondo, con una delle numerose lotte su cui esiste una vera e propria congiura del silenzio. Fenomeni di altra natura sono visibili nei paesi a capitalismo tardivo, in cui per altro continua a esistere e spesso anche a lottare un gran numero di operai dell’industria.In questa parte del mondo la proletarizzazione si è realizzata con la riduzione alla condi-zione proletaria di compiti e funzioni che godevano in passato di una relativa indipenden-za e che hanno acquisito le caratteristiche già imposte altrove al processo lavorativo, cioè parcellizzazione, cooperazione esterna all’esperienza dei cooperanti, rapporto subalterno con una macchina e con un sistema di macchine. Anche la crisi ha contribuito a estende-re la proletarizzazione, mettendo in difficoltà l’ex-ceto medio, che spesso non solo vive e lavora in condizione proletaria ma si percepisce come proletario contrariamente al travet della prima parte del secolo scorso. Tutte e tutti proletari allora? Proprio tutti-tutti no, ma certo tantissimi, se per esigenze cognitive si accetta di distinguere tra proletariato e classe.Il problema per dirla con le/i compagne/i di Connessioni Precarie è che assistiamo a una paradossale sconnessione tra proletariato e classe e siamo di fronte a una realtà
la femminilizzazione del lavoro e l’immigrazione non semplificano le cose perché rendono anche più complessi i Problemi di connessione tra le figUre della ProdUzione sociale
che impedisce di spazializzare la classe in un’im-magine indicativa e identificativa. La decompo-sizione del movimento operaio del Novecento, la sparizione delle grandi concentrazioni operaie, la disarticolazione del processo produttivo, la nuo-va stratificazione di classe con il moltiplicarsi di inedite figure produttive, la precarizzazione del lavoro rendono oggi assai difficile la ricostruzione di identità collettive.La precarietà è figlia primogenita di questo stato di cose, l’effetto voluto e programmato degli esiti del conflitto di classe del secolo scorso. Il lavoro subalterno è stato sempre caratterizzato da un alto livello di precarietà; un vero e proprio diritto del lavoro e un welfare capace di garantire copertu-re si sono affermati in Europa solo dopo la seconda guerra mondiale. La stabilizzazione non è stata l’ef-fetto di lotte contro la precarietà, le quali ovviamen-
della condivisione e della socializzazione. In una composizione del proletariato in cui immigrati e donne hanno una così consistente presenza, la lotta politica e culturale con-tro sessismo e razzismo è semplicemente lotta di classe. L’omofobia è meno direttamen-te legata all’appropriazione di plusvalore, ma questo non vuol dire che le sia estranea. L’interesse dei possessori di capitale a mantenere in vita istituzioni conservatrici (la fa-miglia, la Chiesa, la monarchia ecc.) in funzione di controllo politico ne consente la per-manenza anche se ne differenzia lo spessore secondo le storie, le tradizioni, le influenze religiose, le egemonie politico-culturali.In questo stato di cose appare davvero problematico individuare le dinamiche capaci di trasformare questo proletariato in classe. Non è condivisibile l’obiezione secondo cui la di-sarticolazione del processo lavorativo renderebbe inattuale e inutile la ricerca di un centro e di una figura socialmente più matura. Certo non è nostro compito metterci sulle tracce del nucleo centrale della classe probabile e nulla può garantire che esso esista davvero. Tuttavia ci sono due buone ragioni per non escludere dall’indagine questa preoccupazio-ne. La prima è che non tutte le schegge del conflitto sono uguali e hanno alla base lo stesso potenziale di mobilitazione e di resistenza. La concentrazione in un luogo di lavoro per esempio rappresenta ancora oggi un elemento non trascurabile di forza, anche se si tratta di una forza in gran parte solo potenziale. La seconda ragione è che appare improbabile che una serie di schegge inneschino contemporaneamente e spontaneamente una dina-mica convergente. Il rimando alla questione dell’organizzazione politica sarebbe in questo caso improprio, salterebbe cioè un passaggio perché una forma di organizzazione con la forza necessaria a sostenere lo scontro con il capitale e con le sue istituzioni ha come con-dizione necessaria una classe capace di darsela e di riconoscerla.
le varIegate e dIfferentI dInamIche dI SoggettIvazIone
Coloro che soffrono il dominio capitalistico non hanno in realtà mai smesso di lotta-re, ma non per questo oggi formano una classe. Non si tratta solo di una mancanza di connessioni, che è prima di tutto un sintomo. Quando un intero mondo si sgretola, le conquiste di civiltà di quel mondo vengono dimenticate e tra queste appunto l’esigenza di connettersi. Ricominciare dalle lotte è il modo più coerente per continuare a svolgere quel filo rosso della ricerca di Marx, con l’evidente difficoltà che in Italia le cose in mo-vimento sono spesso reciprocamente invisibili. Alle lotte bisogna rivolgere le prime domande. Chi ne sono i protagonisti? Quali rapporti hanno con istituzioni e apparati sindacali? Quali e in quale misura tendono ad autorga-nizzarsi? Quale significato bisogna attribuire all’autorganizzazione: è un modo obbligato di reagire nel contesto di una complessiva regressione oppure è il segno di una composi-zione di classe più capace di autoemancipazione rispetto a quella che ha caratterizzato il movimento operaio del Novecento? O in misura diversa entrambe le cose? Nello ster-minato territorio del proletariato del XXI secolo emergono figure socialmente più ma-ture, a cui sarebbe giusto indirizzarsi come alla fine degli anni Sessanta agli operai della grande e media industria? Oppure la classe probabile si identifica semplicemente con la ripresa, lo sviluppo e la connessione dell’attività del lavoro salariato nei suoi luoghi di concentrazione maggiore?Dall’inizio del nuovo secolo il proletariato si è difeso in tutta o quasi la sua varietà delle sue membra, che di questo essere parti dello stesso corpo spesso non hanno affatto coscienza. C’è invece una posta politica importante nel riconoscersi o meno come proletarie e pro-letari. L’identificazione di gran parte del lavoro subalterno con un presunto ceto medio è tradizionalmente uno dei luoghi comuni dell’ideologia padronale. Noi abbiamo tutto l’interesse a rovesciare lo stereotipo in un’immagine più utile alla nostra parte e soprat-tutto assai più vicina al vero. Non si tratta di occultare o ignorare le differenze interne, invece numerose e problematiche poiché se c’è qualcosa che di questo proletariato non si può dire è che sia omogeneo. Si tratta di cominciare segnando prima di tutto un netto confine tra il loro e il noi.L’autorganizzazione è stata non di rado la forma in cui le lotte si sono manifestate negli ultimi anni per due principali ragioni: l’involuzione delle forme organizzative, sindacali e politiche, che nel secolo scorso avevano diretto le lotte, sia pure con limiti e contraddizioni, da una parte e dall’altra il fatto che questo proletariato in tutte o quasi le sue articolazioni ha una capacità di autorganizzazione maggiore di quella che ha caratterizzato il lavoro salariato del passato. E se il “cognitariato”, per dirla con Formenti è un’utopia letale, non lo è la constatazione di una crescita complessiva delle abilità e delle conoscenze delle classi subalterne. È vero che la grande quantità di sapere necessario oggi alla valorizzazione del capitale viene assorbito dalle macchine, di cui vecchie e nuove figure professionali restano appendici, condannate a compiti privi di autonomia e creatività. Ma è anche vero che la re-lazione con l’attuale sistema di macchine richiede oggi comunque livelli di cultura maggio-ri. Accade così che spesso vengano assimilati a una condizione proletaria uomini e donne
la classeProbabile
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con capacità e aspettative che l’organizzazione del lavoro poi tra-disce. Persone spesso più imbevute di stereotipi e di valori capita-listici, ma solo finché questi non entrano in palese contraddizione con una disperata condizione di esistenza. Allora possono mettersi in moto le stesse dinamiche che Marx descrive e per cui “l’anima abbrutita” e la “bestia da soma” si fa sog-getto. Insomma l’autorganizzazione è l’espressione di una perdita, di un abbandono ma anche di una capacità acquisita dal proletariato nel suo complesso, compresa la classe operaia dell’industria. E forse a questa capaci-tà si può affidare la speranza di un’autoemancipazione, che non esclude l’organizzazione politica ma la pone in termini e modalità diverse dal passato.Questo proletariato è precario anche nelle sue parti che usufruiscono di contratti a tempo indeterminato perché delocalizzazioni, crisi e debito creano uno stato di cose minaccioso e instabile. Ma si tratta di una precarietà al suo interno diversificata perché, se dal punto di vista del-la perdita di garanzie e di certezze il lavoro subalterno tende a livellarsi verso il basso, restano e si accentuano le diverse possibilità e le modalità di resistenza. Nei luoghi di lavoro l’esistenza di un’aggregazione e la presenza di lavoratrici e lavoratori con esperienze di lotta sindacale consente almeno di tentare lotte per la stabilizzazione o per la difesa del posto di lavoro. Dove invece l’aggregazio-ne manca, la lotta alla precarietà appare quasi impossibile ma può diventare anche l’inizio di qualcosa di più interessante. Esistono cioè situazioni di lavoro precario che proprio la mancanza di una concreta possibilità di contrattazione sindacale spinge alla politicizzazione.L’indagine sugli artisti intermittenti in Italia ha mostrato che individui isolati, non occupati o che lavorano in frammenti diversi di occupazione possono mettersi insieme, coinvolgendo migliaia di persone e sviluppan-do un’azione efficace attraverso l’arma della politicizzazione. Si sono mi-surati con le istituzioni, la costituzione e le antiche leggi per rivendicare il diritto all’occupazione; hanno stabilito relazioni politiche con movimenti e sindacati conflittuali per evitare l’isolamento; hanno studiato forme di comunicazione con il territorio per coinvolgerlo nella difesa di un “bene comune”; hanno cercato di produrre reddito, discusso dei contenuti e dei committenti della produzione artistica ecc.Si può obiettare che il rischio di dispersione a cui restano comunque esposti rende di fatto queste figure marginali in un conflitto in cui contano gli spostamenti di grandi masse, possibile solo a partire dai luoghi in cui l’organizzazione stessa del processo lavorativo produce fenomeni di concentrazione come determinati luoghi di lavoro o le grandi sedi universitarie. L’osser-vazione in parte anche giusta rimuove però un piccolo particolare: le figure in questione sono in gran parte giovani, sia pure in un senso assai lato del termine, e giovani non di rado con alti livelli di abilità e conoscenze. Rappresentano quindi la parte di società più coinvolta nei movimenti e nei conflitti e in grado di indirizzarli verso orizzonti di liberazione, evi-tando che vengano scagliati contro capri espia-tori o verso falsi bersagli. In casi come questo la lotta di persone in condizioni di esistenza precaria può anche essere considerata come una delle espressioni con cui si è manifesta-ta la presenza dell’intellettuale marginale nei conflitti di classe. Queste persone ov-viamente non risolvono il problema della classe perché ne rappresen-tano solo un frammento; sono avanguardie ma con un significato diverso da quello che si è cristallizzato nel Novecento. Ma qui siamo già in un’altra di-scussione, quella sulle forme di organizzazione, che affronteremo in un prossimo futuro. ◀
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delineare nell’esperienza diretta un diverso modello di società.Un modello basato sull’ugua-glianza, la democrazia, l’autoge-stione e l’ecosostenibilità.Non si tratta di ricalcare espe-rienze cooperativistiche già viste, ma di inventare l’ignoto nella pra-tica diretta.Così come non si può slegare il lavoro di rete da rivendicazioni più ampie che siano puntelli con-divisi dai vari nodi, utili a porre il conflitto anche su un piano più generale.In tempi come questi servirebbe un reddito sociale per rompere il ricatto perenne di un lavoro a condizioni sempre più misere, così come servirebbe un salario
minimo intercategoriale legato all’inflazione per frenare la co-stante erosione della quota di ricchezza destinata al Lavoro a favore del Capitale.La scommessa è quella di produr-re percorsi di comprensione della propria condizione collettiva, in cui a passività e delega si sostitu-iscano conflitto e partecipazione.Per questo abbiamo deciso di promuovere progetti come quel-lo di Netzanet di Bari, le auto-produzioni della Ri-Maflow e di SOS-Rosarno, nell’ottica di svi-luppare una rete di distribuzione alternativa di produzioni “a sfrut-tamento zero”.In quest’ottica ci proponiamo di sostenere le battaglie dei precari
dell’Istat, di Eataly, del Comune di Milano e di supportare la na-scita di nuove reti sindacali volte al conflitto, così come le lotte de-gli studenti contro il lavoro non pagato nascosto dietro stage e “garanzie giovani” o ancora quelle che si articoleranno nel prossimo anno in vista di Expo 2015.Non riusciremo a realizzare im-mediatamente tutti gli spunti e le possibili iniziative che hanno attraversato le discussioni del Se-minario.Ci mettiamo in cammino con la consapevolezza che la ricerca è aperta e non può che passare attraverso approssimazioni suc-cessive.Oggi alla retorica falsamente in-
re alcune risposte in merito: unire pratiche di riappropriazione e au-togestione, esperienze esemplari di conflittualità nei luoghi di lavo-ro e battaglie contro le oppressio-ni specifiche serve da una parte a rispondere ai bisogni economici dei soggetti concreti, dall’altra a supportare lotte altrimenti fram-mentate tra loro.Vogliamo sviluppare un’idea e un modello di solidarietà reciproca che valorizzi la scelta di porsi fuo-ri mercato e che in questa scelta abbia un primo momento di riu-nificazione. Non solo senza padroni ma diret-tamente contro i padroni.La rete che ci apprestiamo a co-stituire vuole essere una rete di servizio, ma non solo. Non si tratta di sostituirsi ad un welfare distrutto dalle politiche neoliberiste o di dar vita ad espe-rienze che si chiudono in se stes-se, se non addirittura sussunte dalle logiche del sistema capitali-sta o dalle burocrazie politiche e sindacali.Mutualismo e autogestione assu-mono valenza ai fini della nostra discussione nella misura in cui permettono di amplificare le lot-te sociali in corso, di promuovere l’autorganizzazione dei soggetti sociali e possibili processi di mol-tiplicazione e accumulazione at-traverso la loro riproducibilità, di
districarsi nella giungla del nuovo capitalismo globale e soprattutto nella riarticolazione che ha determi-nato nell’organizzazione della forza lavoro contem-poranea non è impresa facile, tanto quanto non lo è riuscire a riprendere le fila di una nuova narrazione che possa essere all’altezza di quella compiuta dal Capitale negli ultimi trent’anni.
Partire dal dato attuale significa anche assumere compiutamente le difficoltà di una classe che oggi resta “probabile”, senza un’identifica-zione convergente, e che quindi di conseguenza sul piano dell’azione si devono costruire anzitutto delle premesse, delle condizioni, affinché una nuova storia sia possibile.Per questo la discussione seguita ai contributi ha provato a concentrar-si proprio su questi aspetti. Come l’unità tra precari/e dell’Istat o di Eataly, student*, migranti piut-tosto che portuali di Gioia Tauro può essere sperimentata senza farne un’inefficace operazione aritmetica o uno sterile elenco di sigle e col-lettivi diversi?Come questa sperimentazione si adatta all’attuale composizione di classe e ne comprende le caratteristiche e i bisogni, superando ad esem-pio gerarchie che vedono sessismo o razzismo come questioni subal-terne?Quale percorso può sviluppare quel reciproco riconoscimento che ha in nuce le potenzialità di una vera e propria soggettivazione?L’idea di Mutuo Soccorso conflittuale uscita trasversalmente nelle varie discussioni e oggetto di un workshop specifico ha provato ad abbozza-
alla retorica falsamente innovatrice del governo renzi
non possiamo pensare di contrapporre un’identità residuale,
né accontentarci di dichiarare un semplice antagonismo
alle politiche di austerità. dobbiamo dotarci di strUmenti Utili
e allo stesso temPo in grado di ProdUrre Percorsi di
comPrensione della ProPria condizione collettiva
mutualismo e autogestione assumono valenza ai fini della nostra discussione nella misura in cui permettono di amPlificare le lotte sociali in corso, di promuovere l’autorganizzazionedei soggetti sociali
novatrice del governo Renzi non possiamo pensare di contrap-porre un’identità residuale, né accontentarci di dichiarare un semplice antagonismo alle politi-che di austerità, intangibile anche a quei soggetti che provano oggi a resistere, unici in grado di rappre-sentare un’opposizione credibile.Ci dotiamo quindi di strumenti che possano essere utili a questi soggetti e che troveranno tempo e modo di specificarsi nel loro stesso dispiegamento, anche sul-la base di chi parteciperà a que-sta rete.Una rete che nel suo concreto agi-re faccia dello slogan che abbia-mo scelto una cosa viva e concre-ta, in cui ogni cosa è di tutti/e. ◀