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1 STORIA DEL DIRITTO IN EUROPA Dall’età Tardo Antica all’alto Medioevo (sec. 5° - 11°) Nello studio del diritto medievale e moderno è opportuno distinguere 3 diverse fasi storiche: 5° - 11° secolo (dal 401 al 1100), fine età tardo antica e inizio alto medioevo, 12° - 15° secolo (dal 1101 al 1500), fine alto medioevo e inizio basso medioevo, 16° - 18° secolo (dal 1501 al 1800), fine basso medioevo e inizio età moderna . A cominciare dalla prima fase storica, che si estende per circa 6 secoli dal ‘401 al ‘1100 d. C., il passaggio dal mondo antico al medioevo si caratterizzava per la presenza di regni germanici nel territorio dell’impero romano d’Occidente (la cui caduta definitiva si fa appunto coincidere con le invasioni delle popolazioni germaniche), il che ha permesso di introdurre un complesso sistema di istituzioni e di consuetudini nuove, diverse e lontane dal diritto romano, che nonostante ciò continuava a sopravvivere anzi si intrecciava variamente con le consuetudini germaniche. Leggi dei Franchi, dei Longobardi, dei Visigoti, degli Anglosassoni e degli altri popoli germanici ebbero dunque una radice consuetudinaria, sono infatti questi i secoli in cui la consuetudine rappresenta la fonte del diritto per eccellenza, non rimanendo statica ma mutando nel tempo e nello spazio. Nonostante la varietà delle consuetudini tipiche di ciascun popolo, esse presentavano molti elementi comuni riguardanti la comune fede religiosa, le analoghe condizioni di vita dei popoli e delle società, prevalentemente rurali e militari, ecc. La Chiesa invece esercitava l’importante ruolo di trasmettere regole giuridiche di derivazione romanistica e il patrimonio inestimabile della cultura antica greca e latina, come vedremo a proposito del monachesimo. 1. IL DIRITTO TARDO ANTICO Le strutture pubbliche Tra l’età di Costantino (siamo ancora nell’età tardo antica perché nel 4° secolo.. succedette al padre Costanzo Cloro nel governo dell’impero romano d’Occidente, ma la sua ascesa al potere non rispettò l’allora vigente sistema tetrarchico di Diocleziano, che prevedeva la presenza di due augusti e due cesari e la conseguente successione del proprio cesare al proprio augusto, perché fu fortemente voluto dell’esercito romano, sconvolgendo così la regola di abdicazione e causando tutta una serie di lotte civili e assalti al potere che si conclusero con l’assoluta vittoria di Costantino e con la sua proclamazione ad unico augusto sia dell’impero romano d’oriente che d’occidente ) e l’età di Giustiniano (siamo già nel medioevo perché nel 6° secolo.. il suo regno ebbe un impatto mondiale sia dal punto di vista politico, militare, economico, ecc. costituendo un’epoca ineguagliabile per l’Impero romano d’Oriente o Impero bizantino, ma soprattutto dal punto di vista giuridico in quanto autore di una delle più importanti collezioni giuridiche: il Corpus Iuris Civilis, una compilazione di leggi romane tutt’oggi alla base del diritto civile, che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del diritto romano ) il diritto romano ha conosciuto una serie di profonde trasformazioni. Il vastissimo territorio dell'Impero tardo antico era ripartito in provincie, suddivise tra le due parti d’Oriente ed Occidente - bipartizione che si determinò involontariamente quando

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STORIA DEL DIRITTO IN EUROPA

Dall’età Tardo Antica all’alto Medioevo (sec. 5° - 11°)

Nello studio del diritto medievale e moderno è opportuno distinguere 3 diverse fasi storiche:

5° - 11° secolo (dal 401 al 1100), fine età tardo antica e inizio alto medioevo,

12° - 15° secolo (dal 1101 al 1500), fine alto medioevo e inizio basso medioevo,

16° - 18° secolo (dal 1501 al 1800), fine basso medioevo e inizio età moderna. A cominciare dalla prima fase storica, che si estende per circa 6 secoli dal ‘401 al ‘1100 d. C., il passaggio dal mondo antico al medioevo si caratterizzava per la presenza di regni germanici nel territorio dell’impero romano d’Occidente (la cui caduta definitiva si fa appunto coincidere con le invasioni delle popolazioni germaniche), il che ha permesso di introdurre un complesso sistema di istituzioni e di consuetudini nuove, diverse e lontane dal diritto romano, che nonostante ciò continuava a sopravvivere anzi si intrecciava variamente con le consuetudini germaniche. Leggi dei Franchi, dei Longobardi, dei Visigoti, degli Anglosassoni e degli altri popoli germanici ebbero dunque una radice consuetudinaria, sono infatti questi i secoli in cui la consuetudine rappresenta la fonte del diritto per eccellenza, non rimanendo statica ma mutando nel tempo e nello spazio. Nonostante la varietà delle consuetudini tipiche di ciascun popolo, esse presentavano molti elementi comuni riguardanti la comune fede religiosa, le analoghe condizioni di vita dei popoli e delle società, prevalentemente rurali e militari, ecc. La Chiesa invece esercitava l’importante ruolo di trasmettere regole giuridiche di derivazione romanistica e il patrimonio inestimabile della cultura antica greca e latina, come vedremo a proposito del monachesimo. 1. IL DIRITTO TARDO ANTICO Le strutture pubbliche

Tra l’età di Costantino (siamo ancora nell’età tardo antica perché nel 4° secolo.. succedette al padre

Costanzo Cloro nel governo dell’impero romano d’Occidente, ma la sua ascesa al potere non rispettò l’allora vigente sistema tetrarchico di Diocleziano, che prevedeva la presenza di due augusti e due cesari e la conseguente successione del proprio cesare al proprio augusto, perché fu fortemente voluto dell’esercito romano, sconvolgendo così la regola di abdicazione e causando tutta una serie di lotte civili e assalti al potere che si conclusero con l’assoluta vittoria di Costantino e con la sua proclamazione ad unico augusto sia dell’impero romano d’oriente che d’occidente) e l’età di Giustiniano (siamo già nel medioevo perché nel 6° secolo.. il suo regno ebbe un impatto mondiale sia dal punto di vista politico, militare, economico, ecc. costituendo un’epoca ineguagliabile per l’Impero romano d’Oriente o Impero bizantino, ma soprattutto dal punto di vista giuridico in quanto autore di una delle più importanti collezioni giuridiche: il Corpus Iuris Civilis, una compilazione di leggi romane tutt’oggi alla base del diritto civile, che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del diritto romano) il diritto romano ha conosciuto una serie di profonde trasformazioni. Il vastissimo territorio dell'Impero tardo antico era ripartito in provincie, suddivise tra le du e parti d’Oriente ed Occidente - bipartizione che si determinò involontariamente quando

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l’imperatore romano Teodosio I decise di affidare una parte del governo dell’impero, ancora unitario, al figlio maggiore e l’altra parte al figlio minore; la divisione doveva però essere so lo provvisoria e temporanea per agevolare i figli nell’amministrazione dei vasti territori. Ma non fu così, perché da quel momento in poi le due parti dell’impero intrapresero due percorsi completamente distinti e diversi con altrettanti destini diversi, visto che l’impero romano d’Occidente cadde definitivamente nel ‘476 d.C., quasi un millennio prima dell’impero romano d’Oriente o Bizantino, che rimase invece in vita fino al 1435 d. C. La successione al trono, tramite il sistema tetrarchico di Diocleziano, prevedeva 2 imperatori - gli Augusti - e 2 successori designati - i Cesari.

L’amministrazione civile era invece separata da quella militare potendo distinguersi tre diverse gerarchie:

la gerarchia militare, che faceva perno sui duces (o dux condottiero che comanda e

guida una truppa, alle dipendenze del magister militum) e sui magistri militum (generali di corpo d’armata alle dipendenze del re) dislocati nelle diverse parti dell’impero, oltre che sulle milizie mobili (militari);

la gerarchia civile con funzioni amministrative, di ordine pubblico e funzioni

giudiziarie sia civili che panali; la gerarchia di funzionari, con competenze tributarie e finanziarie dell’Impero.

Al vertice vi era comunque l’imperatore, unico e legittimo titolare di tutti i poteri: potere di nomina di ogni carica dell’amministrazione civile e giudiziaria, militare,

fiscale; potere di decisione sulle controversie che lui giungevano in ultima istanza; potere legislativo;

poteri che ovviamente non poteva esercitare da solo e che per questo si avvaleva di appositi uffici, composti da alti funzionari personalmente scelti e in qualsiasi momento revocabili. Legislazione postclassica

Tra gli uffici a disposizione e alle dipendenze del re vi erano:

il Questore del sacro palazzo, responsabile delle questioni legali, e il Maestro degli uffici, capo della cancelleria dell’impero, che elaboravano gli edicta - provvedimenti di

carattere generale per lo più riguardanti il diritto pubblico - che solo dopo l’approvazione dell’imperatore divenivano ad ogni effetto leggi vincolanti nell’impero.

La Corte Imperiale, che decideva sui casi di ultima istanza, attraverso un suo ufficio centrale:lo scrinium a libellis, ed emetteva a nome dell’imperatore un rescritto o consulto. I re scriptum – risposte su determinate questioni di diritto, principalmente di

diritto privato - ben presto acquisirono, oltre che natura formale e ufficiale anche natura normativa, entrando una buona parte di essi a far parte della compilazione giustinianea.

Gli edicta e re scriptum rappresentavano dunque la principale fonte del diritto determinando due importanti categorie:

gli iura, fonti tradizionali del diritto civile e del diritto onorario come gli editti pretori

della legislazione classica; le leges, cioè le costituzioni imperiali.

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A proposito di leges/costituzioni imperiali, nel momento in cui iniziarono a moltiplicarsi si avvertì l’esigenza di raccoglierle in appositi testi, organicamente elaborati, dando vita a dei veri e propri codici, dei quali tra i più importanti ricordiamo:

il Codice Gregoriano ed Ermoginiano;

il Codice teodosiano; il Codice giustinianeo, nonché la più eccellente raccolta giuridica riguardante tutti i

campi del diritto, penale, civile, pubblico, processuale e suddiviso in 4 opere, che nel loro insieme costituiscono appunto il Corpus Iuris Civilis, quali:

- il Codice, migliaia di rescritti dal 1° secolo fino a Giustiniano, - il Digesto, testi della giurisprudenza classica come quelli di Papiniano, Ulpiano, Modestino, ecc., - le Istituzioni, un breve racconto ispirato alle istituzioni di Gaio, - le Novelle, raccolte di costituzioni emanate dallo stesso Giustiniano. Insomma Giustiniano intese creare un’opera che sostituisse ogni altra fonte del diritto e che venisse applicata nella sua integralità da parte dei giudici dell’Impero. E nonostante la successiva caduta dell’Impero d’Oriente la compilazione restò la base del diritto bizantino, quindi la crisi dell’impero non fu anche la crisi del suo diritto.

3. IL DIRITTO DEI REGNI GERMANICI

Le origini

Per quanto riguarda ancora il sistema giuridico dell’alto medioevo, esso si contraddistinse anche per la presenza e la nascita, nella parte occidentale dell’impero, di popoli e regni germanici dotati di un proprio diritto, più grezzo, distinto e lontano dal diritto romano classico, rappresentato anch’esso da consuetudine ma altrettanto lontane da quelle romane. I Germani erano popoli nomadi e guerrieri che vivevano di caccia e di bottini di guerra e che la lotta e il coraggio in battaglia costituivano valori essenziali. L’esercito era dunque la struttura pubblica fondamentale, sia militare che civile che solo nelle fasi più delicate o in circostanze particolari nominava un re. Le caratteristiche tipiche erano:

con l’ingresso nell’esercito i maschi raggiungevano lo status di adulti e venivano sottratti alla patria potestà;

la famiglia era composta da gruppi familiari, che formavano un clan con proprietà comune dei beni;

la donna invece non era soggetto di diritto né possedeva la capacità di agire se non con l’assistenza del padre o di un fratello o del coniuge se sposata, e il matrimonio costituiva infatti una vendita della sposa alla famiglia dello sposo insieme ad una dote;

le offese si riparavano principalmente con la vendetta privata - faida – oltre che con

sanzioni calcolate in natura, per lo più in capi di bestiame. Una parte dell’ammenda era comunque destinata alla famiglia dell’offeso mentre l’altra o al re o alla comunità;

la giustizia era normalmente amministrata dai capi militari eletti dall’esercito, anche se per i processi pubblici, punibili con pena capitale per i reati più gravi come per i traditori e i disertori (militari che, durante la guerra o la pace, abbandonavano il loro posto nell’esercito senza autorizzazione), si era soliti basarsi sull’ordalia, ovvero

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affidarsi al giudizio di Dio, per stabilire torto o ragione. Le procedure ordaliche erano infatti una costante nei processi dei Germani, potendosene distinguere varie tipologie, come quelle dell’acqua e del fuoco, della bilancia, ecc.. mentre i Longobardi privilegiarono il duello giudiziario;

le regole di diritto erano senza eccezioni regole consuetudinarie non scritte, in quanto la scrittura era loro sconosciuta.

Insomma l’irruzione ripetuta e inarrestabile di popolazioni di stirpe germanica (franchi, anglosassoni, visigoti, ecc.) entro i confini dell’impero romano costituì una delle rag ioni della sua crisi e in particolare della caduta della sua parte occidentale con l’ulteriore conseguenza che questi popoli si stanziarono stabilmente creando nuove dominazioni con profondi e permanenti cambiamenti storici. La personalità della legge

I popoli germanici impadronitisi di numerosi e vasti territori dell’impero si trovarono a governare su popolazioni che sino ad allora avevano vissuto secondo le leggi di diritto romano completamente e nettamente diverse da quelle che essi praticavano, e quindi a dovere risolvere il problema di:

come mantenere il controllo sui territori occupati come far prevalere la loro tradizione giuridica germanica su quella romana.

Alla fine fu proprio la presenza di un sistema normativo articolato e complesso come quello romano che portò alla soluzione del problema, cioè l’applicazione di entrambi i diritti grazie alla cosiddetta pluralità dei diritti, ognuno applicabile alla propria etnia; infatti i nuovi conquistatori tennero vive quanto possibile le proprie tradizioni giuridiche nazionali, mentre agli altri fu consentito di continuare a regolare i propri rapporti giuridici secondo le regole romane. E’ questo il principio della ”personalità della legge”.

Il diritto visigotico

I primi a legiferare furono i Visigoti con codificazioni ispirate al diritto romano postclassico. Un esempio fu il Codice Euriciano e la Lex Romana Visigothorum, composta da costituzioni

tratte dal codice teodosiano. Solo in seguito la legislazione visigotica ebbe maggiore originalità grazie ad un testo di leggi denominato Liber Iudiciorum.

La legge salica

Clodoveo re dei Franchi, una volta convertitosi al cattolicesimo, promosse un testo di legge che per la storia fu uno dei più significativi: Legge di Salica, il cui contenuto rispecchiava le

consuetudini giuridiche dei Franchi e rappresentava una sorta di catalogo di sanzioni pecuniarie relative ai diversi possibili illeciti. Vi fu dunque l’intento di sostituire l’origina ria vendetta/faida con la nuova compositio, ovvero una sanzione computata in denaro che

variava in base alle modalità con cui il reato veniva commesso (ad es. in caso d’omicidio la sanzione variava se veniva commesso in modo occulto o palese, se la vittima era un uomo o una donna, un civile o un militare, ecc.)

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Il diritto longobardo

I Longobardi di origine scandinava, sotto la guida del Re Alboino, si stanziarono nella parte settentrionale e centrale dell’Italia, ripartendola in trenta territori facenti capo ad altrettan ti duchi (dux), un’entità completamente diversa rispetto a quella bizantina anche se di egual nome, in quanto il duca longobardo deteneva un potere militare, civile e giudiziario, nonché una forte autonomia rispetto al re.

Dal punto di vista giuridico fu però il Re Rotari a prendere l’iniziativa di far codificare le consuetudini del suo popolo, dando così vita all’Editto di Rotari. Come con la legge

di Salica, anche con tale editto si vollero individuare delle ammende da infliggere ai vari fatti illeciti commessi che andavano per metà alla famiglia dell’offeso e per metà al re, ma a differenza della legge di Salica e secondo il principio della personalità della legge, Rotari volle che l’editto si applicasse alla sola popolazione longobarda del regno e non ai romani. Inoltre accanto alle norme prettamente consuetudinarie erano in esso contenute anche disposizioni a tutela del potere monarchico volute dal re stesso, ovvero la pena capitale per chi avesse in qualunque modo attentato alla vita del re, mentre al contrario l’impunità per chi commetteva un omicidio in nome e su ordine del re.

Tra i mezzi di prova i soli inclusi erano il duello e il “giuramento di purificazione”, che consisteva nell’esecuzione di 12 “sacramentali”, ovvero culti, che dovevano essere all’unanimità eseguiti per essere l’accusato scagionato dalla pena e ottenere così la liberazione e la benedizione (purificazione appunto).

Con il Re Liutprando, convertitosi dall’arianesimo al cattolicesimo insieme al suo popolo, si poté chiaramente cogliere la forte l’influenza della Chiesa sul suo regno oltre che ricordare gli ulteriori editti emanati nonché il ricorso in appello al re per decisioni dei giudici contrari alla legge o ingiuste. A differenza di Rotari, Liutprando volle legiferare per tutti i suoi sudditi sia essi Longobardi che romani e proprio un suo editto sancì la libertà di abbandonare la propria legge nazionale per abbracciare la legge straniera, romana o longobarda, mettendo così in crisi il principio della personalità della legge.

I giudici accertavano infine i fatti della lite mediante strumenti ben lontani dalle procedure ordaliche del duello e del giuramento

Il regno longobardo cadde definitivamente con la sconfitta del re Desiderio ad opera del giovane re dei Franchi, Carlo: iniziava da questo momento in Italia l’età carolingia. Gli Anglosassoni

Anche l’Inghilterra venne conquistata da popolazioni germaniche, come gli Juti, gli Angli, i Sassoni (e per questa mescolanza Anglosassoni) che si suddivisero il territorio dando vita sino a più regni diversi.

Il cristianesimo fu portato in Inghilterra dal monaco Agostino; dal punto di vista giuridico particolare importanza ebbero le leggi di Re Alfredo con le

quali irrogò pene piuttosto severe, inclusa la pena di morte, per i reati più gravi;

in generale le istituzioni anglosassoni ebbero molti aspetti comuni con quelle di altre popolazioni germaniche;

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quando l’isola venne conquistata dai Normanni, provenienti dalla Francia, sotto la guida del Re Guglielmo il Conquistatore, non solo il regno anglosassone venne sostituito dal nuovo Regno normanno d’Inghilterra, ma con esso venne istituito un diritto nuovo, il Common law.

2.CRISTIANESIMO, CHIESA E DIRITTO La chiesa primitiva, organizzazione e gerarchia

In merito al ruolo svolto dalla Chiesa in questa fase storica di transizione dal mondo antico al medioevo, abbiamo genericamente detto che essa ha svolto un ruolo importante circa la trasmissione delle regole giuridiche di derivazione romanistica e del patrimonio culturale greco e latino. Nello specifico, invece, la posizione della Chiesa venne a delinearsi e ufficializzarsi grazie all’affermazione del Cristianesimo come unica religione dell’impero, ad

opera di Costantino con l’Editto di Milano, terminando così per essa le terribili persecuzioni a cui era stata soggetta fino a quel momento e potendo finalmente assumere la forma di un’istituzione gerarchica, solida e compatta. Al vertice di tale gerarchia venne posto il pontefice o vescovo di Roma mentre ai livelli sottostanti vi erano le varie cariche ecclesiastiche come metropoliti, vescovi, presbiteri, diaconi ecc. ognuno responsabile di una determinata comunità cristiana; più comunità cristiane di uno stesso territorio costituivano la diocesi al cui capo era posto il vescovo. Per la nomina dei vescovi l’elezione veniva compiuta dal clero locale. Il testo sacro

Un aspetto essenziale della nuova religione stava nella presenza di un testo sacro reso pubblico in forma scritta, i cui precetti erano immutabili e immodificabili: la Sacra Scrittura;

considerata la fonte per eccellenza del diritto canonico da cui tutte le altre fonti avevano origine e derivazione. Il primo diritto canonico

Le questioni religiose e teologiche più importanti venivano affidate e discusse dai vescovi raccolti in apposite riunioni, dette concili ecumenici (come quello di Nicea, di Costantinopoli,

ecc.) a cui partecipavano tutti i vescovi del mondo; o in riunioni con valenza locale, dette sinodi. Tali deliberazioni divennero una tipologia di fonte fondamentale del diritto canonico,

costituita appunto dai canoni dei concili e dei sinodi, subordinata soltanto alla fonte suprema: la Sacra Scrittura frutto della rivelazione divina. Il diritto canonico non è certamente un diritto statuale, ma comunque dotato di norme e di sanzioni. Stato e Chiesa

Ben presto però gli imperatori cristiani si ritennero legittimati ad intervenire anche nelle questioni religiose e teologiche della Chiesa, e i vescovi invece a svolgere importanti funzioni politiche e civili. Fu così che nacque il problema religioso, politico e giuridico di delineare i confini reciproci tra l’autorità dello Stato e l’autorità della Chiesa.

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Da sempre i cristiani rifiutavano, anche a costo della loro vita, di attribuire all’imperatore un culto che essi riservavano solo a Dio, in quanto il cristianesimo considerava il cittadino e il credente due entità nettamente distinte: una cosa era Dio una cosa era il re. A marcare ancora di più il confine su questo aspetto furono dapprima:

il Vescovo di Milano Ambrogio, quando osò rifiutare all’imperatore Teodosio in

persona, la riammissione in chiesa se non si fosse prima riconosciuto peccatore per aver ordinato una feroce rappresaglia a Tessalonica. Venne così chiarita la distinzione tra la sfera civile, ove l’imperatore non aveva eguali sulla terra e la sfera religiosa rispetto alla quale l’imperatore era invece tenuto a rispettare i precetti del Vangelo come tutti gli altri. Un secolo più tardi

Papa Gelasio I, che sancì che l’imperatore e il papa costituivano due entità distinte e non subordinate tra loro, volute entrambe da Dio stesso, ma l’una per sovraintendere alle cose terrene, l’altra per guidare attraverso la Chiesa la comunità dei fedeli, senza intromissioni reciproche.

Il principio della distinzione tra la sfera religiosa e la sfera civile assunse da quel momento i n poi un carattere assoluto e fondamentale della civiltà europea e del suo diritto, tramandata fino ai nostri giorni. Diversa era invece la situazione nell’oriente bizantino, visto che forme dirette di intervento e di controllo dell’Impero sulla Chiesa (cesaro -papismo) si mantennero costantemente nel corso dei secoli. La regola benedettina

Lo si deve interamente alla Chiesa se le testimonianze relative alla civiltà antica sono giunte sino a nostri giorni, in quanto furono proprio i chierici e i monaci dell’alto med ioevo a trascrivere e trasmettere i testi storici, conservati nelle biblioteche delle chiese. A spiccare nello svolgimento di questa minuziosa e precisa attività fu il monachesimo, nato in Egitto per l’impulso di monaci venuti da lontano, il cui emblematico ricordo va a San Benedetto da Norcia con la famosa regola che assunse un ruolo preminente in tutta Europa. La regola

benedettina prevedeva un’organizzazione per la vita monastica piuttosto severa fatta di

preghiera e lavoro manuale o intellettuale, i cui principi cardini erano l’obbedienza, la povertà e la castità. Il monastero veniva retto da un abate, che i monaci sceglievano con una votazione in ragione delle sue qualità personali, e la cui competenza era quella di operare al servizio della comunità e nell’interesse della comunità. Gregorio Magno

Anche Gregorio Magno fu un monaco benedettino di origine patrizia, che dopo avere

ricoperto delle cariche politiche, e in particolare essere stato funzionario imperiale, si ritirò a vita monastica e venne presto eletto Vescovo di Roma. Durante il suo pontificato svolse un’intensa opera di guida e di disciplina della chiesa e del clero, anche in un periodo particolarmente difficile come quello delle invasioni dei longobardi; rispettò la distinzione tra la sfera civile e quella religiosa osservando sia le leges che i canones e utilizzando i precetti della sacra scrittura come soluzione interpretativa di questioni dubbie e come regola di condotta perché dettata da Dio. Di lui restano parecchi scritti pastorali e morali, ma

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soprattutto il Registro di circa 800 lettere, che più tardi entrarono a far parte delle collezioni

di diritto canonico, come quella di Graziano, il Decretum. I penitenziali

Anche il monachesimo irlandese ebbe larga diffusione per avere sviluppato un particolare genere letterario - il penitenziale - ovvero una penitenza prescritta per ogni specifico peccato commesso in ragione della sua gravità (es. il digiuno, la castità, il ritiro, ecc). La penitenza fu inoltre misurata in funzione non solo del fatto commesso ma anche dell’intenzione di chi l’aveva commesso, risultando così rilevante non solo l’elemento oggettivo ma anche soggettivo del fatto illecito. Nell’età dei penitenziali si era inoltre affermata la confessione segreta avanti al sacerdote in sostituzione di quella pubblica che era ammessa una sola volta nella vita. Infine come vedremo sarà sul finire dell’alto medioevo, intorno all’11° secolo, che la Chiesa subirà importanti riforme. 4. L’ETA’ CAROLINGIA E FEUDALE

Strutture pubbliche, regno e Impero

Di particolare importanza nell’alto medioevo fu poi l’età carolingia, all’interno della quale una ulteriore importante fase storica fu quella feudale; il tutto ebbe inizio quando alla morte di Pipino il Breve, sul trono dei Franchi salì il figlio Carlo. Grazie ad esso il regno raggiunse una posizione di dominio in tutta Europa, tanto che in virtù delle numerose conquiste militari Carlo decise di affidare la gestione e il controllo dei territori a circa 400 conti, nominati a vita e titolari del cosiddetto potere di banno, ovvero del comando civile e militare. Purtroppo non

mancarono casi di giustizia amministrata scorrettamente e prepotentemente che Carlo cercò di ovviare affidando a persone di sua fiducia, sia laici che ecclesiastici, i cosiddetti missi

dominici, il compito di controllare l’operato dei conti attraverso missioni ed ispezioni

sull’intero territorio. Ma indubbiamente significativa nel regno di Carlo fu la notte di natale dell’800 quando il papa Leone III lo incoronò re dei Franchi, ridando così vita all’Impero romano d’Occidente, che in virtù del legame con la Chiesa di Roma prese il nome di Sacro

Romano Impero. Da quel momento Carlo fu detto Magno e il suo potere imperiale ebbe

carattere universale, indipendente dal consenso del popolo e derivante esclusivamente da Dio. Varò importanti riforme di diversa natura in parte con consuetudini non scritte e in parte con leggi scritte chiamati capitolari, il cui oggetto fu molto vario: norme sulla giustizia,

disposizioni penali ed amministrative, regole volte a disciplinare i rapporti tra vescovi e conti, ecc. Il feudo, vassallaggio e beneficio

Dell’età carolingia importante fu la cosiddetta Età feudale (dal 9° all’ 11° sec), caratterizzata

dalla presenza di nuove regole per la disciplina dei rapporti tra il re e i potenti del regno, e per la disciplina dei rapporti tra i potenti del regno stessi. Tale età assunse specificatamente il nome di feudale per indicare quel legame personale e particolare tra due uomini di diversa posizione:

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il soggetto inferiore garantiva aiuto e sostegno in qualunque momento e in ogni circostanza al suo superiore, in particolare nelle imprese di guerra;

il soggetto superiore garantiva al suo inferiore protezione e uno stabile mezzo di sostentamento attraverso la concessione di un feudo a titolo di beneficio, consistente non solo nella concessione dei frutti naturali ma anche in una serie di immunità fiscali e giudiziarie. Era dunque evidente come tale tipo di rapporto dovesse essere basato sulla fedeltà e sulla fiducia reciproca.

Il patto di fiducia veniva stretto con la cerimonia dell’omaggio, con cui il vassallo poneva le

sue mani tra le mani del suo signore giurandogli fedeltà, in alcuni casi ebbe anche la forma scritta; mentre la rottura della fedeltà, detta fellonia, costituiva il reato più grave perché contro tutto e tutti il vassallo avrebbe dovuto sempre e comunque aiutare il proprio signore. Non costituiva invece reato, ed era quindi ritenuta lecita, l’interruzione della fiducia per cause determinate ingiustamente dal signore, qualora l’eventuale guerra mossa fosse stata ingiusta o qualora avesse agito in modo illecito, giustificando così il vassallo. Inizialmente il patto di fiducia, strettamente personale, era destinato a durare soltanto per il periodo in cui i due soggetti che lo avevano concluso sarebbero rimasti in vita estinguendosi con la morte di uno dei due, successivamente invece venne introdotta l’ereditarietà del

beneficio feudale (beneficio che inizialmente riguardò solo i grandi feudatari del re, successivamente invece, con l’Edictum de beneficiis di Corrado II, venne esteso anche ai vassalli e feudi minori; vedi diritti feudali come diritto particolare), potendo così i vassalli vedere trasmettere ai propri figli il feudo oggetto del patto vassallatico. Il rapporto feudale divenne allora elemento centrale della struttura politica e la rete dei rapporti feudali divenne sempre più fitta tanto che a loro volta i vassalli del re legarono a sé vassalli di rango inferiore, in una maglia di rapporti di subordinazione anche di 4 o 5 livelli. Avvenne pure che il medesimo soggetto fosse contemporaneamente vassallo di due signori, il che comportava un problema di precedenza qualora contemporaneamente avrebbe dovuto prestare aiuto ad entrambi, risolvendosi con l’istituto dell’omaggio ligio, ovvero stabilendo a priori con uno

dei signori un rapporto prioritario sull’altro. Le norme che disciplinarono la genesi del rapporto feudale, la sua forma, diritti e doveri del signore e del vassallo, nacquero spontaneamente e si affermarono per via consuetudinaria. Il feudo e il diritto feudale furono per la massima parte una creazione della consuetudine. La Chiesa feudale

Anche durante l’età carolingia e feudale, il diritto della Chiesa conobbe fasi complesse per i l complesso e ambiguo rapporto con lo Stato, dove poteri religiosi e civili si mescolavano tra loro:

molti vescovi esercitavano poteri politici e di governo su alcuni territori;

le loro nomine oltre che avvenire per volontà del clero e del popolo, spesso venivano disposte dai sovrani.

si diffuse la pratica di concedere benefici ecclesiastici a chi fosse stato in grado di ricambiare, con adeguati e consistenti compensi in denaro;

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la tendenza per una gran parte del clero di vivere in condizione di concubinato anziché di celibato ecclesiastico.

Si possono insomma ben immaginare le forti crisi morali che ne derivarono e che il papato dovette affrontare e superare. La giustizia

Durante l’età carolingia in merito invece alla giustizia, coesistevano più tipologie di giudici con competenze e procedure differenti, tanto da non parlarsi proprio di giustizia ma di un pluralità di giustizie:

giudici pubblici, come i conti, i missi dominici, la corte del re, dotati di parecchia discrezionalità potendo decidere ed emanare le sentenze anche senza certezza di prove o di testimoni che non si presentavano in giudizio per timore di possibili ritorsioni;

giudici ecclesiastici, come il papa e i vescovi;

giudici feudali, con la corte dei pari, composta da vassalli, per le questioni di diritto feudale;

giustizie signorili, esercitate dal signore nei confronti del colono. 5. LE CONSUETUDINI E LA CULTURA GIURIDICA

I ceti: servi, coloni, liberi, nobili

In merito alla classificazione della vigente società altomedievale, nonché carolingia e feudale, una volta scomparsa quasi ovunque la figura della schiavitù, la principale differenza rimase tra servo e libero. Ciò che li distingueva era il loro status giuridico:

il servo non aveva la libertà di movimento ed era strettamente legato al suo padrone anche nelle scelte familiari, ma aveva il diritto di formare una famiglia non potendo però sposare una donna libera;

il libero era invece legato ad un signore non direttamente ma indirettamente in virtù

del legame con una terra da coltivare e lavorare, e che per questo prendeva il nome di colono. Tra i contratti agrari che stabilivano diritti ed obblighi del colono il più frequente fu il livello, con durata massima di 29 anni per evitare il rischio

dell’usucapione trentennale (vedi diritti rurali come diritto particolare). Le terre in riferimento a ciò si distinguevano in “pars massaricia”di proprietà di un signore laico o di un ente ecclesiastico ma lavorate dai coloni tramite locazione, e in “pars

dominica” gestite esclusivamente dal proprietario. Con il tempo il colono affittuario conquistò maggiori diritti, il cosiddetto dominio diviso, potendo così sia il nudo

proprietario che il colono stesso disporre degli stessi diritti sulla terra, venderli, donarli, lasciarli in eredità ai successori, ecc;

l’aristocrazia era infine divisa in più fasce:

la nobiltà più alta e più potente, cui il re franco soleva affidare la carica di conte e spesso anche la funzione vescovile,

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la nobiltà locale minore, legata alla nobiltà maggiore con il vincolo della fedeltà feudale, che però con il tempo acquistò maggiore autonomia e maggiori prerogative.

Le consuetudini locali

Il diritto alto medievale può essere qualificato come il diritto consuetudinario per eccellenza, dove la consuetudine non fu solo un fenomeno statico ma anche dinamico ed elastico, suscettibile di trasformazioni anche profonde e talora improvvise. Vi erano consuetudini che rispecchiavano determinati assetti sociali, interessi, valori.. altre che nascevano spontaneamente.. altre ancora che venivano imposte. Quando si presentò la crisi del sistema della personalità del diritto, che consentiva di far coesistere diritti diversi potendo le differenze tra le varie leggi essere talvolta di mera forma altre volte di mera sostanza, si presentò anche il problema di come superare l’eventuale conflitto tra leggi personali/tipiche di un popolazione rispetto ad un’altra, la soluzione fu proprio la consuetudine o meglio la formazione di consuetudini locali comuni a tutti coloro che in quel determinato luogo vivevano, più precisamente consuetudini legate al singolo villaggio che rispecchiavano in parte il diritto dell’etnia prevalente e in parte esigenze e real tà nuove. In merito alla loro formazione esse nacquero comunque sulla base di regole e istituti propri della tradizione romana, mentre in merito alla loro funzione le consuetudini operarono essenzialmente per colmare le lacune delle leggi, laddove non disponevano nulla o disponevano poco, senza però prevalere; su questo punto più volte i sovrani puntualizzarono e ribadirono la superiorità della legge con conseguente disapplicazione della consuetudine contrastante. Notai, giudici, formulari

In un’epoca giuridica come quella alto medievale, capeggiata dalla consuetudine, quale fu il ruolo della cultura giuridica? Indubbiamente un ruolo marginale o quasi assente vista la società e l’economia, prevalentemente rurali e militare, che non lasciavano spazio né allo studio né all’elaborazione di testi antichi di legge; gli unici che sapevano leggere e scrivere erano i chierici e i monaci che però poco o niente si dedicavano a ciò, quindi la cultura giuridica di quei secoli fu principalmente la cultura dei giudici e dei notai rogatari dei negozi , le cui professioni spiccarono maggiormente nel basso medioevo, durante l’età del diritto comune, diventando fondamentali per la disciplina e la certezza dei rapporti giuridici. Tali giudici e tali notai attivi nel regno e appartenenti di norma all’aristocrazia locale, furono qualificati giudici del sacro palazzo e notai del sacro palazzo, perché di nomina regia. I giudici pavesi e l’Expositio

Solo sul finire dell’11° secolo e dopo anni di silenzio, si delineò un primo approccio ad una nuova cultura giuridica, rivolta allo studio di testi di legge. In particolare fu la Scuola di Pavia la promotrice di quest’importante passo avanti, dove i

giuristi pavesi impiegarono le poche tecniche di interpretazione conosciute, ancora acerbe,

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non per lo studio dei testi romani ma per l’analisi degli editti longobardi. Un autore ignoto scrisse infatti un commentario/diario sugli editti longobardi e sui capitolari di Carlo Magno, chiamato Expositio ad Librum Papiensem, che spiegava il significato giuridico dei capitoli e

ne collegava il contenuto con altri che trattavano la stessa materia, offrendo così una testimonianza di grande valore in un periodo di scarsità culturale. Nell’Expositio si ritrovavano inoltre centinaia di rinvii ai testi della compilazione di Giustiniano: al Codice, al le Istituzioni, alle Novelle, forse anche al Digesto, e si considerava per la prima volta il diritto romano come un’autorità, oltre che la legge generale di tutti . L’autore dichiarava inoltre che la norma posteriore potesse abrogare quella anteriore e spesso ricorreva alla legge romana là dove una questione non trovava soluzione nelle leggi longobardo-franche. 6. LA RIFORMA DELLA CHIESA

Come accennato prima fu solo nel corso dell’11° secolo che la Chiesa subì delle importanti riforme con conseguenti profonde trasformazioni; in particolare 2 furono le riforme da ricordare:

- quella voluta dal Papa Nicolò II, il quale con apposito decreto sancì un importante

cambiamento circa la designazione del vescovo di Roma, da sottrarre all’aristocrazia romana ed essere riservata esclusivamente ai cardinali. Interessante fu anche la condanna della simonia (ovvero l’acquisto per mezzo di denaro di beni e funzioni spirituali, come le cariche sacerdotali e in generale le cariche ecclesiastiche, dalle funzioni del prete a quelle del papa) considerata come peccato ed eresia, perché contraria ai valori e agli insegnamenti religiosi, e punita con l’annullamento della nomina;

- quella voluta dal Papa Gregorio VII, il quale riuscì ad affermare la

preminenza/superiorità dell’autorità ecclesiastica sull’autorità suprema imperiale. Al riguardo il testo di Gregorio, il Dictatus Papae, esponeva la tesi secondo cui l’autorità

del papa era affermata non solo nei confronti dei vescovi e dell’intera Chiesa, ma anche nei confronti dello stesso imperatore, tanto che il papa l’avrebbe potuto legi ttimamente scomunicare e addirittura far dimettere. Proprio nel 1077 Gregorio VII scomunicò l’imperatore Enrico IV per avere contrastato con la Chiesa e solo il suo sincero pentimento lo convinse a revocare la scomunica. La controversia tra potere spirituale e temporale giunse a termine con il concordato di Worms, grazie al quale i rapporti si rinormalizzarono.

Una delle ragioni dell’importanza di questa fase storica e di tale riforma, fu che la Chiesa riuscì a rivendicare a sé una certa legittimazione sulle cose religiose e sulla propria organizzazione interna, e parallelamente il potere secolare dovette acquisire tale consapevolezza. Le collezioni canoniche

Queste nuove posizioni ecclesiastiche si poterono cogliere con chiarezza all’interno di Collezioni Canoniche, appositamente scritte che però solo nel basso medioevo assunsero una

maggiore e particolare importanza, come appunto vedremo a partire da Graziano. Nel frattempo da ricordare furono le collezioni del Vescovo Ivo, che ne scrisse ben 3, tutte di

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larga diffusione, con le quali individuò una serie i criteri per superare i contrasti tra canoni discordanti e allo stesso tempo conservare e valorizzare l’intera tradizione del diritto canonico. Insomma il valore della riforma della Chiesa dell’11° sec. fu di portata storica non solo sul piano religioso ma anche su quello del diritto che segnò una grandiosa vittoria sulla consuetudine.

Basso medioevo: L’età del diritto comune (sec. 12° - 15°)

La seconda fase storica che si estende per circa 3 secoli, segna il passaggio dall’alto medioevo al basso medioevo, e si caratterizza per tutta una serie di trasformazioni della società, della cultura, delle istituzioni, del diritto che assunsero tratti nuovi ed originali. In particolare s i ebbero le seguenti innovazioni:

1. la riforma della chiesa; 2. lo sviluppo demografico; 3. l’estensione delle terre coltivate e l’introduzione di nuove tecniche agrarie; 4. la rifioritura del commercio e dell’artigianato; 5. la rinascita delle città e la genesi dei comuni cittadini e rurali; 6. la trasformazione dei rapporti feudali; 7. la formazione di regni; 8. infine la nascita di una nuova scienza del diritto attraverso l’università.

La fase delle consuetudini altomedievali si era esaurito e la nuova società esigeva metodi diversi per disciplinare e regolare i nuovi rapporti giuridici sia pubblici che privati; solo una formazione superiore e adeguata avrebbe potuto soddisfare tale esigenza: quella universitaria con i cosiddetti giuristi di professione..

La nuova scienza del diritto ebbe origine in Italia, in particolare nella città di Bologna, e fu la matrice di un insieme di norme e dottrine che assunsero la denominazione di “diritto

comune”: - diritto comune civile, che assunse come sua base normativa fondamentale la

compilazione giustinianea e dunque il grande lascito del diritto romano classico e postclassico;

- diritto comune canonico, relativo alla Chiesa;

entrambi universali e comuni perché costituiti da norme generali e superiori rispetto a quelle dei tanti diritti particolari e speciali. Dall’esempio o modello bolognese nacquero numerose altre università italiane ed europee. 7. I GLOSSATORI E LA NUOVA SCIENZA DEL DIRITTO Origini della nuova cultura giuridica

Aspetto fondamentale della nuova cultura giuridica fu la rinascita del corpus iuris civilis,

quale unica risposta alle esigenze della nuova società e alla necessità di un nuovo e più adeguato tessuto normativo, rispetto alle leggi alto medievali prettamente consuetudinarie.

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La citazione, il richiamo dei testi di legge del codice giustinianeo e l’utilizzo di relative argomentazioni dotte, non costituirono mero sfoggio di dottrina ma al contrario strumenti molto funzionali per il conseguimento di negozi giuridici maggiormente garantiti e sentenze più favorevoli. Risultava infatti con chiarezza che spesso la parte in grado di avvalersi di tali strumenti guadagnava sull’avversario un vantaggio decisivo. L’unica condizione essenziale era però quella che i testi della compilazione giustinianea venissero ben interpretati e quindi applicati ed accettati in giudizio, e in ogni altra sede, come diritto positivo vigente. E in effetti molto presto la compilazione nelle sue quattro parti divenne automaticamente diritto positivo, senza che fondamentalmente alcuna legge specifica lo avesse imposto; furono le stesse circostanze del momento a volerlo (lo sviluppo demografico improvviso, la rinascita delle città e del commercio, la formazione dei primi comuni attraverso una vera rivoluzione delle autonomie, ecc..) che misero in crisi il sistema delle consuetudini e determinarono un nuovo apparato normativo fondato proprio sul corpus iuris civilis. All’ardua sfida di rendere il corpus giustinianeo comprensibile e utilizzabile in maniera corretta, seppero rispondere alcuni giuristi operanti a Bologna e futuri capostipiti della prima scuola di diritto soprannominata dei Glossatori; nasceva così nei primi anni del 12° sec. la più antica università europea. I maestri bolognesi: da Irnerio ad Accurso

La scuola che nacque a Bologna ha origini piuttosto incerte, sappiamo che il fondatore fu Irnerio, un giudice proveniente dall’ordine ecclesiastico la cui fama è legata all’attività di

interpretazione della compilazione giustinianea, dove il Digesto, il Codice, le Istituzioni e le Novelle vennero studiati nel testo originale e analizzati con la sola capacità critica senza alcuno strumento particolare preesistente, ma solo con la sua intelligenza; le glosse (note

esplicative per meglio comprendere il significato di alcuni passi e frammenti) chiarivano il significato del testo, lo ponevano in relazione con altri passi paralleli, e talora ne discutevano anche l’applicabilità a fattispecie simili ma non identiche; da qui il nome Glossatori.

- La prima generazione di glossatori fu rappresentata dagli allievi di Irnerio - Bulgaro, Martino, Iacopo e Ugo - dove a spiccare più degli altri fu Bulgaro che lasciò la traccia più duratura con due generi letterali destinati ad avere grande fortuna: gli ordines

iudiciorum e le questiones disputatae.

- Bulgaro divenne poi maestro della seconda generazione di glossatori con i suoi numerosi allievi tra i quali: - Rogerio, autore di una delle prime Somme al Codice (esposizione sistematica del

diritto civile secondo l’ordine del Codice e delle Istituzioni, considerate le parti più adeguate del corpus per svolgere questo lavoro); e - Bassiano, giurista particolarmente sensibile alle nuove realtà del suo tempo, che a

volte risultavano estranee rispetto alla disciplina del corpus iuris civilis, e che per questo chiamava “consuetudini dei moderni”.

La terza generazione di glossatori vide invece in primo piano: - Pillio da Medicina, scrittore originale di opere processuali e didattiche ma anche di

un’importante raccolta di questioni legali;

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- Piacentino, autore di un elegante Summa al Codice e professore celebre non solo a

Bologna ma anche in Francia. Così la nuova scienza giuridica metteva radici anche nel territorio francese; - Alberico, che operò in merito alle distinctio (vedi paragrafo sulle distinzioni).

- La quarta generazione di maestri bolognesi ebbe come esponente di maggiore spicco il glossatore Azzone, allievo di Giovanni Bassiano e autore di una Summa Codicis

esemplare per completezza e chiarezza e che nessuno più si cimentò a superare divenendo così la guida per eccellenza dei successivi maestri del diritto.

Il susseguirsi delle attività interpretative dei vari maestri rappresentò presto una sorta di eredità per i successori ma allo stesso tempo determinò l’esigenza di predisporre i manoscritti, che man mano venivano integrati, modificati e riempiti di proprie glosse, in maniera più leggibile e ordinata e ad occuparsi di ciò fu il professore bolognese Accursio, il

quale riuscì ad incorporare nella sua importantissima opera le interpretazioni di ben quattro generazioni di glossatori: la Glossa Ordinaria. La completezza, la chiarezza e dunque l’utilità

del testo accursiano furono tali da essere stampato e ristampato e utilizzato da chiunque avesse voluto conoscere e applicare il corpus iuris nel proprio lavoro. Per via dello straordinario successo del metodo bolognese nascevano sullo stesso modello altri centri di studio universitari in numerose città italiane ed europee come Padova, Napoli, Milano, Roma, Pisa, ecc. Il metodo didattico

La Compilazione di Giustiniano fu dunque per i maestri bolognesi legge vigente. Compito dell’interprete era quello di chiarirne e spiegarne il significato mediante gli strumenti concettuali propri del giurista; i maestri bolognesi infatti, chiarivano dapprima il significato del testo a se stessi e poi lo esponevano e spiegavano agli studenti desiderosi di imparare. Nasceva così:

- l’attività scientifica, - l’attività didattica e - l’attività letteraria dei glossatori.

Il metodo didattico si sviluppava in alcune specifiche fasi:

il maestro iniziava la lectio, ovvero la lezione, leggendo dalla cattedra il testo di un frammento, cui seguiva una prima spiegazione generale del significato della norma nel frammento contenuta tramite un esempio concreto: il casus. Seguiva poi la vera e

propria spiegazione dettagliata delle singole parole e delle singole proposizioni;

si rapportava il frammento in esame con altri passi paralleli contenuti in altre parti della compilazione perché spesso era possibile riscontrare delle discordanze tra le varie parti del corpus sulla disciplina di uno stesso istituto. Nasceva così l’esigenza di risolvere il contrasto tra le fonti: la solutio contrario rum tramite le cosiddette distinctio, ovvero distinzioni che permettevano di dimostrare come due o più regole

apparentemente contrastanti su uno stesso punto, riguardassero in realtà fattispecie differenti tali da superare la contraddizione. Esempi ne erano i brocarda, cioè coppie di

principi tra loro contrastanti utilizzati per argomentare la propria tesi davanti ai

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giudici citandone le fonti relative e le dissensiones domino rum, cioè i punti di diritto

sui quali i maestri bolognesi erano in dissenso tra loro;

il maestro poteva inoltre mettere in evidenza altre proposizioni di portata generale;

il frammento in esame veniva infine preso come spunto per proporre una o più questioni ipotetiche o concrete: le questiones de Facto, la cui soluzione richiedeva il

ricorso a tecniche di interpretazione della legge. Il maestro proponeva dunque la quaestio a lezione, ne illustrava le eventuali alternative e ne offriva dalla cattedra la solutio.

Successivamente si affermò anche la prassi di affidare direttamente agli scolari l’esame e la soluzione delle questioni di fatto ipotizzate, i quali suddividendosi in due gruppi discutevano e proponevano le proprie tesi risolutive al maestro che doveva così stabilire quale delle soluzioni proposte fosse stata la più adeguata, oppure indicarne una completamente diversa. Quindi da un lato le lezioni permettevano la conoscenza e l’interpretazione dei testi, dall’altro le esercitazioni preparavano alla risoluzione pratica dei casi. La stretta correlazione tra attività didattica e scienza del diritto fu essenzialmente legata a due ragioni:

il carattere tipico dell’università, ovvero la connessione tra insegnamento e ricerca (..motto di Irnerio..);

la corrispondenza delle nuove regole e teorie elaborate con le nuove esigenze della realtà sociale, diversa da quella dell’alto medioevo e per questo esigente metodi e discipline giuridiche nuovi/e.

Il metodo scientifico

Particolare attenzione è opportuno prestare agli strumenti di lavoro a disposizione della nuova scienza giuridica. I Glossatori possedevano una mente ben predisposta al ragionamento perché avevano assimilato a fondo la cultura delle Arti Liberali che includeva lo studio della retorica (arte del parlare e dello scrivere secondo precise regole) e della dialettica (arte del ragionare ed argomentare), rami essenziali della Logica di Aristotele. L’aspetto più rilevante del metodo giuridico adottato dai Glossatori non risiedeva però solo nel ricorso alla retorica e alla dialettica ma anche e soprattutto nelle tecniche di interpretazione e combinazione delle fonti romanistiche, costituite essenzialmente da tre operazioni:

interpretazione estensiva, con cui la legge oggetto d’esame poteva assumere un significato più ampio rispetto a quello originale. Casi del genere erano assai frequenti nella Glossa, uno tra tanti fu quello riguardante la materia d’appello penale, e il codice di Giustiniano sanciva in merito l’inappellabilità delle sentenze relative a cinque gravi reati( omicidio, adulterio, avvelenamento, violenza manifestata, incantesimo) purché il reo fosse stato condannato in primo grado sulla base di prove certe avvalorate dalla confessione. A partire da Azzone si affermò invece la tesi che il divieto d’appello dovesse estendersi a tutti i reati e ciò sulla base di due importanti principi: quello dell’equità e quello secondo cui per fondamento razionale uguale corrisponde disciplina giuridica uguale..

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interpretazione restrittiva, con cui invece la legge oggetto d’esame poteva assumere

un significato più ristretto rispetto a quello originale. Era determinata adottando una distinzione/distinctio che permetteva di far valere e applicare una specifica norma ad una certa fattispecie, negando l’applicazione della stessa ad altre fattispecie.

interpretazione travisata, con cui la legge oggetto d’esame poteva assumere un significato alterato rispetto a quello originario. Casi del genere furono altrettanto frequenti perché l’ipotesi che un glossatore potesse fraintendere un testo della compilazione era più che naturale; interpretare correttamente una norma non sempre era facile sia per l’assenza di strumenti adeguati sia perché poteva capitare che la norma antica venisse letta dal glossatore con una visione più moderna, emergendo così interpretazioni travisate e quindi vulnerabili/soggetti a cambiamenti.

5. Le distinzioni

Un aspetto fondamentale dell’attività dei Glossatori fu dunque quello di conciliare tesi contrastanti - solutio contrario rum - attraverso il procedimento logico della distinctio.

Che all’interno del corpus vi fossero delle contraddizioni era del tutto normale se si considera che in esso coesistevano sia la disciplina del diritto romano classico, contenuta principalmente nel Digesto, che la disciplina del diritto postclassico e giustinianeo contenute nel Codice e nelle Novelle. Per i Glossatori però le contraddizioni non potevano essere ammesse in virtù di un’accettazione incondizionata del Corpus iuris civilis; per cui di fronte ad un eventuale contrasto presente nelle fonti, la reazione abituale era quella di dimostrare che esso fosse solo apparente, spettando all’interprete il compito di trovare le vie per superarlo. Facciamo l’esempio della delega della giurisdizione, ovvero l’attribuzione della potestà

giurisdizionale del giudice ad un delegato, per capire meglio. Così come la sentenza del giudice-delegato era chiaramente appellabile, altrettanto appellabile doveva essere la sentenza del giudice-delegante, ma a chi si doveva rivolgere l’appello?

- Secondo la tesi di Ulpiano, accolta nel Digesto, l’appello o l’impugnazione della

sentenza doveva essere rivolto/a al giudice superiore del delegante, come se la delega non fosse avvenuta, quindi come se ad emettere la sentenza poi impugnata fosse stato lo stesso giudice delegante e non il delegato, e di conseguenza destinatario dell’appello doveva essere il giudice di 1° grado superiore al giudice-delegante;

- Secondo invece una costituzione postclassica contenuta nel Codice l’appello doveva essere rivolto direttamente al giudice-delegante, quale giudice superiore del delegato.

- Alberico, un glossatore della terza generazione, distinse invece 2 ipotesi:

se la delega riguardava una sola causa, valeva la tesi presente nel codice; se la delega riguardava invece l’intera giurisdizione, valeva la tesi di Ulpiano

presente nel Digesto. Ma fu poi Bassiano e ancora dopo Azzone a risolvere la questione;

- Bassiano ne invertì le conclusioni stabilendo che: se la delega riguardava una sola causa, valeva la tesi di Ulpiano presente nel

Digesto; se la delega riguardava l’intera giurisdizione, valeva la tesi presente nel codice.

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- Alla fine Azzone confermando questa inversione dichiarò il contrasto tra Codice e

Digesto solamente apparente, perché in realtà attraverso la distinzione/distinctio delle due ipotesi si poteva capire che si trattava di due norme applicabili a due fattispecie differenti.

Spesso però vi erano istituti per i quali il compito dell’interprete diveniva ancora più arduo, come nel caso della contumacia nel processo e le relative conseguenze; al riguardo:

- mentre il processo dell’età classica esigeva la presenza in giudizio di entrambe le parti, determinando l’automatica perdita della lite a danno del contumace (parte assente ),

- nell’età postclassica una serie di interventi imperiali resero meno drastica la posizione della parte assente potendo anche pervenire ad una decisione favorevole per esso (contumace).

Fu alla fine Irnerio, con un’apposita glossa, a trovare la giusta so luzione distinguendo l’assenza in due momenti:

l’assenza dal giudizio prima della contestazione della lite; l’assenza dal giudizio dopo la contestazione della lite, e per questa seconda eventualità

distinse poi tra: o l’assenza dell’attore, o l’assenza del convenuto; anche per quest’ultimo caso elencò altre tre diverse

distinzioni: assenza per necessità, assenza per negligenza, assenza per contumacia, facendone corrispondere tre diverse conseguenze e la

possibilità o meno di impugnare l’eventuale sentenza da parte del contumace soccombente;

il risultato a cui si pervenne fu la distinzione tra:

contumacia vera, con divieto d’appello, contumacia finta, senza divieto d’appello.

Il meccanismo della distinzione – distinctio - permise dunque ai glossatori di dare alle fonti un certo ordine con un ruolo e un significato specifico; partendo dalla lettera il glossatore poteva infatti giungere al di là della lettera stessa del testo sia nell’interpretazione che nella risoluzione di questioni controverse. Ogni passo della legge veniva insomma letto e interpretato tenendo conto della presenza e del significato dei passi paralleli. 8. IL DIRITTO CANONICO Il “Decreto” di Graziano

Nell’età in cui ha avuto origine la nuova scienza giuridica anche il diritto della Chiesa si trasformò radicalmente. Fondamentale fu la collezione canonica di Graziano, soprannominata “Decretum di Graziano”, con cui il monaco Graziano riunì in un’unica compilazione circa 4000 testi riguardanti:

- le fonti del diritto della Chiesa, - le nomine e i poteri del clero, - i reati e le sanzioni di natura religiosa,

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- la disciplina giuridica dei sacramenti come il matrimonio, ecc. - ma anche molti testi di origine pontificia, in particolare quelli di Gregorio Magno, - molti passi tratti dagli scritti dei grandi Padri della Chiesa latina, come quelli di

Sant’Agostino e infine - testi di diritto romano;

in esso convivevano dunque diritto e teologia, regole giuridiche e regole morali – religiose. Graziano accompagnò i testi con una serie di brevi commenti di chiarificazione: dicta allo

scopo di superare le contraddizioni che su tanti temi le fonti canonistiche presentavano, si comprende perciò la ragione del titolo dell’opera denominata Concordia Discordantium

Canonum. Ma è soprattutto il criterio della Disitnctio a venire utilizzato da Graziano, in quanto come sappiamo individuando un’appropriata distinzione si poteva dimostrare che due o più regole apparentemente discordanti concernano in realtà fattispecie differenti, così valorizzare l’intera tradizione del diritto canonico occidentale senza doverne sacrificare una parte in nome della coerenza. I decretisti

I Decretisti furono coloro che svolsero un’attività di critica e di interpretazione dell’opera di Graziano: il Decretum appunto.

Nonostante il Decretum non ebbe un riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa, l’influenza che esercitò fu grandissima, sia a livello pratico-di applicazione del diritto canonico che a livello teorico-dottrinale. Ciò fu possibile grazie all’impiego dello stesso metodo di studio e di analisi usato dalla scuola irneriana, tanto che in poco tempo si sviluppò un fenomeno analogo a quello dei glossatori, con i decretisti; tra quest’ultimi a spiccare fu Uguccione con la sua Somma al Decretum (vedi nella parte speciale una delle 3 tesi

individuate da Bernardo da Pavia, quella rigorista di rifiuto assoluto del duello), ma i centri di studio e di produzione in cui operano i decretisti furono molti e non solo italiani, oltre che a Bologna anche a Parigi, in Normandia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra, ecc. Le decretali e lo “ius novum”

Un altro importante filone del diritto canonico venne a determinarsi grazie all’elezione di alcuni pontefici di formazione giuridica e dunque alla formazione di norme canonistiche provenienti dalla curia romana (insieme di organi e di autorità che costituiscono l’apparato amministrativo della Santa Sede, in sostanza il governo della Chiesa), ma anche con l’introduzione del ricorso in appello al Papa. Tale appello poteva essere presentato non solo contro la sentenza definitiva emessa dai vescovi, quali giudici ordinari delle singole diocesi, ma anche contro le loro decisioni provvisorie, permettendo così che tale ricorso potesse essere presentato direttamente al papa senza necessariamente prima rivolgersi al vescovo della diocesi competente per territorio – omissio medio; tutto ciò generò un conseguente flusso di

ricorsi alla sede pontificia, che alcuni esponenti della Chiesa criticarono perché distoglievano il pontefice dai suoi compiti pastorali. Per queste ragioni, presto si cercò di ovviare al problema con l’introduzione delle cosiddette “decretali pontefice o lettere decretali” ovvero deleghe del pontefice con le quali incaricava i

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vescovi di decidere su un determinato caso e sulla base di una determinata regola di diritto esplicitamente indicata nella decretale stessa. L’analogia con il procedimento per rescritto dell’età imperiale era evidente tanto che come i rescritti, presto le decretali pontificie dall’essere risolutive per uno specifico caso, lo divennero anche per i casi simili; dunque da sola e semplice decisone giudiziaria che era, la decretale pontificia si elevava a norma generale: gran parte del diritto classico canonico è nato così. Le decretali vennero poi trascritte in numerose collezioni, tra cui:

- la Complitatio Prima di Bernardo da Pavia, - il Liber Extra di Gregorio IX, - il Liber Sextus di Bonifacio VIII, - le Clementine di Clemente V,

che accanto al Decretum di Graziano, costituirono il Corpus Iuris Canonici.

E’ importante sottolineare come spesso l’essere incluse in delle collezioni giuridiche, mutava la loro natura e la loro portata giuridica, e ciò perché la compresenza di più decretali in un’unica raccolta imponeva un’interpretazione che ne assicurasse la compatibilità e ne chiarisse il rapporto reciproco. I decretalisti

Anche sulle decretali pontificie si sviluppò un’intensa attività dottrinale di interpretazione e di elaborazione, che collegata con il Decretum di Graziano costituì il cosiddetto Ius Novum.

Fu così che i decretalisti, ovvero coloro che svolsero un’attività interpretativa e creativa delle decretali pontefice e delle varie compilazioni che ne derivarono, al fine di coniugare il diritto canonico con il diritto romano diedero vita a quello che venne denominato “Processo

romano-canonico” (vedi il processo romano-canonico nello specifico, pag. 28).

Tra i decretalisti di indiscussa importanza è necessario menzionare: - Goffredo da Trani, autore di una fortunata Summa alle decretali contenute nel Liber

Extra di Gregorio IX; - Enrico da Susa, autore della sua Summa Decretalium che per la sua chiarezza e

precisione riuscì ad avere un ruolo analogo sul terreno del diritto canonico a quello della Summa di Azzone per il diritto civile.

Ma ci furono molti altri Decretalisti che si succedettero dando ognuno un valido contributo all’interpretazione delle fonti di diritto canonico e quindi allo sviluppo dello ius novum. Principi canonistici

Il diritto canonico classico presenta caratteri assai specifici che lo contraddistinguono da altri modelli giuridici del passato:

il diritto canonico classico ebbe una considerevole componente di diritto nuovo: ius novum;

la struttura gerarchica delle sue fonti pone al vertice la rivelazione delle Scritture dell’antico e del nuovo Testamento, al di sotto vi sono i concili ecumenici, le decretali pontificie, i sinodi locali e infine le stesse fonti dottrinali;

vi era anche una compresenza di regole rigide e inderogabili da un lato e di un atteggiamento di flessibilità rispetto alle stesse dall’altro, che permetteva di superare

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ostacoli altrimenti insormontabili. Tale flessibilità trovava fondamento nel concetto di equità canonica: aequitas canonica, come ad esempio il ricorso al metodo della

metafora per giustificare il contenuto di un principio o di una regola di condotta imposta ai fedeli;

molto rilevante fu anche la dottrina canonistica sul cosiddetto patto nudo, ovvero la

semplice promessa, che per il diritto romano non aveva alcuna importanza, mentre per i decretisti o per la dottrina canonistica si, poiché davanti a Dio la promessa era vincolante indipendentemente da ogni cosa.

Il periodo più intenso di produzione normativa della Chiesa, fu quello tra il 12° e 13° secolo, denominato anche età classica del diritto canonico. Diritto naturale

Ulteriore elemento di fondamentale importanza nell’analisi del diritto canonico fu il concetto di diritto naturale, quale diritto fondamentale dell’uomo comprendente la libertà, la

proprietà, l’autodifesa e l’insieme di tutti gli altri diritti inalienabili e non sottoponibi li ad abrogazione da parte del legislatore. Nella concezione antica il diritto naturale è concepito come un insieme di regole dettate dalla natura alle quali l’uomo deve obbedienza, si tratta dunque di un diritto superiore e oggettivo; in particolare è un diritto che preesiste al diritto positivo e superiore al diritto positivo, perché lo si identifica con il diritto divino. La natura e le sue leggi avevano dunque per fonte la divinità. Il diritto naturale non era quindi una categoria nuova in quanto conosciuto già nel pensiero dei Greci. Ulpiano aveva però una differente visione di esso affermando che il diritto naturale è il diritto che la natura ha dato in comune a tutti gli esseri animati, non solo uomini ma anche animali, mentre il diritto delle genti è comune solo agli uomini. Importanti furono poi 2 diverse correnti di pensiero:

- quella di Tommaso d’Aquino che sosteneva la nozione classica di diritto naturale

oggettivo, quale diritto che è insito nelle cose per natura;

- quella dei maestri della Scuola Francescana che sostenevano invece la nozione di diritto naturale soggettivo, quale diritto che diventa razionale e soggettivo perché

fatto proprio dal soggetto umano. Guglielmo da Ockham sviluppò infine una tesi distinguendo il diritto naturale dal diritto

umano positivo (ovvero il diritto dello Stato che mai può entrare in contrasto con il diritto

naturale negandone i diritti fondamentali dell’uomo), il primo valido in via di principio ma non esigibile in concreto, il secondo suscettibile di venir attuato anche col ricorso alla forza. 9. DIRITTO E ISTITUZIONI Comuni e impero

La formazione dei comuni cittadini nell’Italia del 12° sec. rappresentò una rottura netta con il passato. Quando talune città iniziarono ad eleggere propri consoli e quando a questi vennero

affidati compiti tipicamente pubblicistici, sdoppiando le competenze civili dei conti, dei vescovi e dei giudici di nomina imperiale, questa rivoluzione determinò grandi cambiamenti. I consoli operarono all’inizio in veste di semplici arbitri piuttosto che di veri giudici, ma solo

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con la pace di Costanza si riconobbe ai comuni una vera e propria autonomia e la facoltà di vivere in base alle proprie consuetudini; rimanendo comunque subordinati all’impero in quanto, l’esigenza di un potere imperiale superiore a quello delle città e dei regni, necessitava per risolvere eventuali controversie ed evitare che queste nuove entità politiche ricorressero alla guerra. Sostanzialmente il Comune nacque per volontà dei nuovi ceti urbani, al fine di liberarsi dai rigidi vincoli feudali e in parte anche dall'autorità imperiale, creando una nuova e più autonoma realtà politica, il Comune appunto. Il governo del Comune era affidato al Consiglio generale cittadino che eleggeva dei magistrati, detti Consoli, incaricati di svolgere

funzioni tipicamente pubblicistiche. All'interno di questo organo collegiale le deliberazioni adottate erano considerate valide solo se prese nel rispetto di una specifica procedura, ovvero in presenza di un numero minimo di cittadini e con la verbalizzazione delle decisioni. Inizialmente i Comuni si posero come delle magistrature provvisorie nate per risolvere problemi di un dato momento, successivamente invece divennero delle istituzioni stabili e durature; la gran parte delle regole circa l’organizzazione, il funzionamento, i poteri, le nomine ecc. venivano adottate con decisioni collettive; nella presa dell’incarico i consoli prestavano giuramento di fedeltà davanti a tutta la cittadinanza elencando i propri obblighi e i propri impegni nell’interesse del comune andando in contro a sanzioni nel caso in cui avessero commesso illeciti nell’esercizio delle loro funzioni; tutti gli altri cittadini che godevano di determinati diritti urbani poterono riunirsi nel Parlamento, altro organo

fondamentale nella vita di un comune, e più precisamente per poter partecipare dovevano essere: maggiorenni, maschi, pagare una tassa di ammissione, possedere una casa, ne erano quindi esclusi le donne, i poveri, i servi, ecc. Con il tempo tutti i comuni acquisirono un certo controllo anche sulle campagne circostanti, legate alle città da alcuni vincoli politici ed economici dando vita al cosiddetto Contado (cioè il territorio sul quale ogni città dell'Italia medievale esercitava il proprio controllo e la cui massima estensione corrispondeva solitamente con i confini della relativa circoscrizione ecclesiastica, la diocesi) e che comprendeva il Districtus (campagne annesse) e il Comitatus (campagne che già in origine facevano capo al comune); anche le campagne precocemente imitarono le città istituendo il Comune rurale. Dinamica e innovativa fu anche la struttura

dell’economia cittadina con la formazione delle Corporazioni di mestiere, che riunivano secondo il mestiere svolto artigiani, mercanti e professionisti. Altro carattere particolare dell’appartenenza alle città fu lo Status di Libero di chi ci viveva o andava a viverci, tanto che anche i sevi e i coloni provenienti dalle campagne una volta stanziatisi entro le cerchia delle mura automaticamente divenivano liberi e valeva il detto che “..l’aria della città rendeva liberi..”. Infine da ricordare è la figura politica del Podestà che in

parte affiancò e in parte sostituì quella del console; veniva eletto dal Consiglio Generale, durava in carica da 6 mesi ad un anno e al contrario del console la persona che doveva ricoprire tale carica non doveva essere appartenere alla città da governare, così da evitare coinvolgimenti personali nelle vicende cittadine e garantire l’adeguata imparzialità nell’applicazione delle leggi. L'istituzione comunale entrò in crisi verso la fine del ‘300, le cui cause furono i nizialmente legate ai continui contrasti sociali tra le grandi famiglie aristocratiche, ma la causa principal e della scomparsa dell'istituzione comunale fu la nascita delle Signorie cittadine.

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La giustizia

Per quanto riguardava la giustizia nei comuni, i poteri dei giudici/consoli apparivano abbastanza ampi potendo decidere con parecchia libertà e discrezione sulle prove, dal cui esito dipendeva l’esito della causa. Ad esempio in tema di ammissibilità dei testimoni essi avevano mano libera potendo facilmente respingere coloro che non erano ritenuti affidabili, così come avevano mano libera nel decidere a quale delle due parti imporre il giuramento decisorio, determinante per l’esito della causa; il giuramento della parte era infatti di regola richiesto dai consoli non solo in assenza di prove ma anche in aggiunta a prove che da sole bastavano a decretarne la vittoria in giudizio. I giudici dell’età comunale esercitavano una funzione decisoria efficace:

efficace nei tempi, perché le cause cittadine venivano per lo più decise nello spazio di settimane o di mesi;

efficace nel merito,perché i consoli spesso operavano con criteri più vicini alla giustizia arbitrale che alla giurisdizione ordinaria ove gli interessi contrapposti delle parti venivano spesso conciliati dai giudici.

La giurisprudenza dei consoli e del podestà non rappresentavano però fonte di diritto. Nei regni invece la giustizia del re e dei suoi funzionari operava in modo assai diverso rispetto alle giustizie cittadine; vennero appositamente istituite le Corti superiori di ultima istanza che, oltre ad esercitare il controllo sulle giurisdizioni inferiori, avevano il potere di emanare regole e procedure nuove destinate ad affermarsi all’interno del regno. Il re aveva invece il potere di intervenire anche di persona nelle decisioni delle cause giudiziarie, svolgendo direttamente il ruolo di giudice. Regni

Un’altra ossatura politica destinata a durare fino all’età moderna fu quella dei Regni. In Italia ricordiamo il Regno di Sicilia, in Europa invece il Regno di Germania, il Regno della Penisola Iberica, il Regno della Scandinavia, ecc.. dove rilevanti furono i loro diritti particolari (vedi i diritti particolari nello specifico, pag. 32) ma più importante il Regno di

Francia, nel quale nacquero:

- il Parlamento di Parigi, come Corte di ultima istanza, dalle cui sentenze emanate non poteva appellarsi neppure il re,

- la Corte dei Conti, con lo scopo di controllare la contabilità dello Stato, - due distinte Magistrature, cui era affidato il contenzioso fiscale.

Su tutto il territorio il sovrano incaricò e inviò personaggi da lui personalmente scelti, come i balivi (ufficiali di nomina regia con poteri amministrativi e giudiziari esercitati su una

determinata circoscrizione loro affidata) per decidere in suo nome su materie amministrative, giudiziarie e di ordine interno, riservando alla giustizia regia specifiche cause. La monarchia francese si avvalse inoltre di vari strumenti di governo e di tecniche giuridiche come:

- la concorrenza istituzionale, consistente nell’affiancare ai poteri tradizionali (giustizie signorili, autorità ecclesiastiche..) degli ufficiali del re, dotati di mezzi di intervento privilegiati;

- il principio gerarchico, operante soprattutto con lo strumento dell’appello con il quale il re e le sue magistrature potevano intervenire nei casi più delicati e rilevanti, dando

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così ai sudditi la possibilità di ricorrere contro sentenze ritenute ingiuste e allo stesso tempo dando al potere centrale la possibilità di esercitare un certo controllo sulle decisioni locali;

- la specializzazione, necessaria con il moltiplicarsi delle competenze regie e consistente nella ramificazione e ripartizione delle attività giudiziarie, amministrative, fiscali, militari sia a livello locale che centrale.

La complessità sempre crescente delle funzioni e la nascita di nuove magistrature specializzate richiesero la presenza di un personale amministrativo dotato di specifiche competenze tecniche: i giuristi di professione che si affermarono quali altrettanti strumenti

di governo, di promozione sociale, di accesso privilegiato all’elite di governo. 10. UNIVERSITA’: STUDENTI E PROFESSORI

Origine e organizzazione: il modello bolognese

La formazione della classe sociale dei giuristi di professione fu strettamente conness a allo sviluppo dell’istituzione e istruzione universitaria. I giuristi di professione furono coloro che studiarono all’università secondo i metodi e le procedure del modello bolognese e che per le loro capacità e competenze giuridiche divennero sempre più presenti in ogni ambito della vita sociale. Per seguire il loro esempio un numero sempre più crescente di studenti, volenterosi di apprendere e provenienti da tutta Italia, si riunirono in raggruppamenti che presero il nome di Nationes studentesche, la cui struttura giuridica fu proprio quella delle Universitas: centri

di formazione superiore. Ciascun ateneo al suo interno eleggeva un proprio rettore, scelto tra gli studenti stessi e dotato di funzioni e di poteri sempre più crescenti. L’autorità dei rettori, a cui tutti gli studenti dovevano obbedienza, era giustificata dalla necessità di garantire un certo ordine all’interno delle comunità studentesche sempre più numerose e turbolente; stabilirono a tal proposito delle regole attraverso degli appositi statuti, al fine di disciplinare gli aspetti organizzativi e didattici nel miglior modo possibile. La presenza di centinai di giovani poneva infatti alle città parecchi problemi di ordine pubblico, anche se da un altro punto di vista comportava un flusso ingente di risorse in denaro (si pensi agli alloggi, le mense, i libri, ecc.). Si ebbero così i primi interventi regolatori del comune, talvolta per disciplinare la popolazione studentesca, talvolta per incentivarla a stabilirsi nelle città per tutti gli anni di studio universitario. Il corso degli studi giuridici

Inizialmente a Bologna tra allievi e professori vi era solo un rapporto di natura privata, in quanto concordavano con il maestro i tempi e i costi delle lezioni impegnandosi a versargli una somma pattuita denominata Collecta. Più tardi, nelle sede universitarie diverse da

Bologna fu il comune ad assicurare ai professori uno stipendio, mentre nell’alma mater il sistema delle collectae durò ancora per un po’. L’insegnamento e le lezioni iniziavano normalmente i primi di ottobre e si prolungavano fino alla metà di agosto, con un orario piuttosto pesante che impegnava gli studenti sia la mattina che il pomeriggio. Erano poi previsti due corsi ordinari, rivolti allo studio del Codice e del

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Digesto; e dei corsi straordinari dedicati alle altre parti del Digesto, alle Istituzioni, alle

Novelle e ai Libri feudorum. La preoccupazione di non potere svolgere interamente il programma nei tempi stabiliti senza ritardi ne omissioni indusse ben presto a fissare i testi specifici che dovevano essere illustrati a lezione, chiamati puncta (plurale), nonché il numero di ore e di giorni necessari da dedicare.

Nonostante ciò il corso degli studi giuridici non aveva una durata prefissata, ma soleva protrarsi per molti anni, poi si stabilì invece che il curriculum completo fino all’esame finale aveva la durata di sette o otto anni per la laurea civilistica mentre di sei per quella canonistica; in effetti lo studente che mirava d assimilare la difficile materia del Corpus non poteva certo limitarsi ad ascoltare un solo corso, dovendo invece ritornare ad ascoltare più volte le parti della compilazione negli anni successivi. Molti spesso abbandonavano dopo pochi anni, ma la formazione incompleta non andava persa ed era comunque utile per ricoprire uffici minori. Solo alla fine del ciclo di studi e delle lezioni si apriva la stagione degli esami, lo studente infatti si presentava ad un professore di sua scelta per chiedergli l’autorizzazione a sostenere le prove finali; in caso affermativo lo studente si considerava ammesso alla prova a porte chiuse davanti al Collegio dei dottori giuristi – l’attuale Consiglio di Facoltà – per discutere uno specifico testo della Compilazione estratto a sorte e dal quale doveva ottenere il voto favorevole della maggioranza dei professori per la promozione. Per concludere definitivamente il corso di studi doveva essere poi sostenuto l’esame pubblico, detto Conventus, che si svolgeva nella cattedrale e che richiedeva un

notevole esborso economico per doni ai professori, pranzi e cortei; seguiva la festosa proclamazione al titolo di doctor iuris che lo abilitava ad insegnare nelle università.

Tali studi erano la sola via per conseguire non solo un titolo ma anche le qualificazioni professionali necessarie per l’esercizio delle funzioni giuridiche di livello superiore. Questo sistema di formazione ebbe vita secolare sino all’età moderna e ai nostri giorni. Si trattava di un metodo scientifico-didattico internazionale e uniforme che nacque a Bologna ma che si trasmise in tutto il resto dell’Italia e in Europa, il cui oggetto di studio fu sempre lo stesso: il Corpus iuris per la formazioni civilistica mentre i testi di Graziano e delle Decretali per la formazione canonistica. In conclusione uno degli aspetti più significativi dell’università come sede di formazione dei giuristi fu proprio quello di aver costituito il canale privilegiato per emergere rapidamente, trovare lavoro, guadagnare soldi e potere; così anche un giovane di estrazione sociale non alta ma intelligente poteva fare molta strada nelle vesti di avvocato, o di giudice, o di esperto di problemi legali. Questo spiega l’enorme successo delle scuole universitarie. 11. PROFESSIONI LEGALI E GIUSTIZIA Il notariato

Quanto alla validità e all’efficacia dei documenti privati delle città, non furono più le dichiarazioni dei testimoni o la testimonianza del notaio rogatario a dare all’atto notarile valore probatorio, ma ciò che semplicemente necessitava, a differenza del passato, era la presenza di determinate formalità previste per l’atto, detto instrumentum, e la sottoscrizione

autografa del notaio rogatario. Dunque l’atto del notaio, quale atto pubblico redatto da un

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pubblico ufficiale, da solo e formalmente composto e sottoscritto faceva piena prova; soltanto l’impugnazione per falso poteva rimetterne in discussione il contenuto. L’atto notarile ebbe un’incalcolabile importanza pratica perché:

riuscì a dare maggiore certezza ai rapporti giuridici redatti e sottoscritti dal notaio, al procedimento probatorio e alla semplice scrittura privata;

il suo valore probatorio si prolungava nel tempo al di là della vita dei testimoni e dello stesso notaio;

poteva essere direttamente presentato al giudice, da una delle parti, per ottenere l’immediata esecuzione di quanto ivi promesso; questo suo valore esecutivo attribuiva infatti una maggiore efficacia evitando le lungaggini del processo normale.

Il notaio annotava su un registro in ordine cronologico ogni negozio redatto per poi stilare l’atto in bella copia su pergamena, da consegnare alle parti richiedenti. Tale registro, che in forma abbreviata riportava tutti gli estremi dell’atto, prese il nome di imbreviatura e l’utilità fu quella di potere controllare in qualsiasi momento la corrispondenza

di un singolo atto con i testi originali oltre che potere trarre nuove copie autenticate qualora se ne fosse perduta la documentazione originale. Si affermò allora la prassi che l’imbreviatura potesse avere di per sé un valore di prova. Artes notaries

Ben poco sappiamo invece della formazione notarile nell’età di transizione dalla charta all’instrumentum, ma è verosimile che il mestiere si apprendesse essenzialmente con la

pratica condotta per alcuni anni presso un notaio. Importanti da ricordare sono comunque i formulari di cui si avvalsero i notai per l’esercizio della loro attività. Il primo formulario di atti notarili fu quello di Irnerio, che purtroppo è andato perduto; quindi il primo a noi pervenuto fu quello di un notaio perugino Raineri, da cui fu possibile notare come i notai sapessero con chiarezza coordinare le norme di diritto romano, di diritto canonico, le consuetudini locali e gli statuti cittadini. Notai, società e poteri

Ma importante fu anche il ruolo svolto dai notai nei comuni. Essi assicuravano la certezza dei rapporti privati mediante l’instrumentum ed a loro viene attribuito il merito di avere ideato e consolidato nella prassi nuovi istituti giuridici come la genesi del diritto commerciale. Basta pensare all’importanza del documento gaurentigiato: un atto stipulato davanti al notaio, che

per questo acquistava automaticamente valore di titolo esecutivo. Anche nell’attività giudiziaria dei comuni, il ruolo dei notai divenne presto indispensabile, perché solo la firma notarile autenticava le sentenze e ne attribuiva valore di piena prova. Da ciò era dunque possibile delineare l’onnipresenza del notariato nelle società comunali italiane. In Francia invece, così come in altri regni (Sicilia, Inghilterra..) il notariato dovette fare i conti con il potere monarchico, che ne condizionò le funzioni in varie forme e vari modo: attraverso limitazioni alla validità delle sottoscrizioni degli atti, richiedendo per considerarli pubblici la presenza di un giudice regio. Indipendentemente da ciò il documento pubblico del notaio ebbe ugualmente riconoscimento e larga diffusione.

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I collegi dei giudici e avvocati

Le corporazioni di mestieri si estesero anche alle professioni legali. Fu così che nei principali comuni italiani nacque il Collegio dei giudici, composto da giuristi o esperti del diritto, scelti

fra coloro che erano ritenuti più idonei ad operare nelle città; il loro ingresso seguiva infatti delle regole ben precise stabilite nello statuto del collegio il cui scopo era appunto l’accertamento delle loro competenze e conoscenze tecniche di diritto, considerate indispensabili per l’esercizio delle professioni legali. Altro requisito fondamentale per l’ammissione al Collegio dei Giudici fu poi quello della cittadinanza, in base al quale erano a priori esclusi i forestieri e accolti solamente i cittadini. Il Collegio dei Dottori, che ricordiamo

essere l’organo principale delle università per la concessione del titolo accademico, non ritenne invece tale requisito altrettanto fondamentale per l’ammissione, accogl iendo sia docenti forestieri che cittadini. Dobbiamo inoltre sottolineare che il Collegio dei Giudici, in molte città, non fu soltanto composto da giurisperiti che applicavano la giustizia - i giudici - ma anche e soprattutto da avvocati. Come mai? La motivazione di ciò risiedeva nella formazione di un nuovo istituto: il Consilium Sapientis Iudiciale, che vedremo meglio in seguito, che consisteva nella tendenza

dei giudici ad affidare a giurisperiti, ovvero avvocati che normalmente operavano in veste di difensori, l’istruzione dell’intera causa (ovvero la raccolta di atti e di elementi necessari per preparare e avviare un processo/giudizio) e la formulazione della sentenza in forma di parere legale. I re di Francia, per difendere le ragioni della corona, istituirono i procuratori del re con funzioni di rappresentanza e successivamente gli avvocati del re con funzione difensive. La

differenza stava nel fatto che il procuratore re nell’esposizione delle sue memorie scritte, doveva necessariamente adeguarsi alle istruzioni del re, mentre l’avvocato del re poteva esprimere con libertà le sue convinzioni sulla causa in esame. Da queste due categorie di ufficiali ne derivò la moderna bipartizione tra Procura della Repubblica e l’Avvocatura dello

Stato. Il processo romano-canonico, civile e penale

Tale procedura giudiziaria si caratterizzò per essere regolato contemporaneamente da istituti giuridici di diritto romano e di diritto canonico, per questo la formula: processo romano-

canonico.

- Nel processo civile le cause civili iniziavano con la proposizione di un breve scritto, il libello, nel quale l’attore indicava:

la controparte; l’oggetto della lite, il petitum; la ragione della sua pretesa, la causa petendi.

A questo punto il giudice fissava il termine di comparizione di entrambe le parti, e nel giorno stabilito avveniva la contestazione della lite - litis contestatio, dove attore e convenuto esprimevano le rispettive ragioni e prestavano il giuramento di calunnia

come conferma della loro buona fede nell’affrontare la causa. Seguiva la formulazione delle cosiddette positiones: ovvero domande scritte che ciascuna parte rivolgeva

all’avversario, e che l’avvocato provvedeva ad allegare ai fatti. Udite tali positiones o

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allegazioni, il tribunale pronunciava la sentenza, che una volta divenuta definitiva, in primo grado o in appello, il soccombente era tenuto ad eseguire. Nel caso di inottemperanza/non ubbidienza l’esecuzione della sentenza diveniva coattiva mediante la stima e la vendita forzata di beni corrispondenti al valore della condanna; invece nel caso di contumacia del convenuto, il giudice emetteva a favore dell’attore un decreto di immissione nel possesso dei beni contestati, e solo se il convenuto si fosse presentato in giudizio entro un anno il decreto poteva essere revocato, altrimenti un secondo decreto rendeva intangibile il possesso che l’attore acquistava, dando così inizio al decorrere del termine dell’usucapione che ancora una volta solo il convenuto poteva interrompere con la prova del corrispondente titolo di proprietà. Dalla fine del Duecento in Italia si adottò un procedimento più snello: il procedimento sommario.

- Nel processo penale invece la fase iniziale del processo fu caratterizzata: dal principio accusatorio, in base al quale la vittima di un reato o i suoi familiari

poteva presentare al giudice l’accusa ma doveva provarne il fondamento, per lo più attraverso i testimoni. Se la prova non veniva infatti fornita, l’accusatore rischiava la medesima pena gravante sull’autore del reato o quanto meno una forte pena pecuniaria; fu anche per evitare ciò che presto si aggiunse lo strumento della denuncia – denuntiatio - che autorizzava il giudice a prendere iniziative per la

raccolta di prove, anche senza la prova del denunciante, comportando per quest’ultimo conseguenze meno aspre;

dal principio accusatorio, secondo cui l’iniziativa di procedere alla raccolta di

prove spettava d’ufficio al giudice, sulla base di una qualsiasi notizia di reato pervenutagli, che di lì a poco divenne la regola per i reati di sangue, per i reati politici e di eresia.

Anche il sistema delle pene subì profonde trasformazioni, ovvero per i reati più gravi come l’omicidio, fu inizialmente prevista la pena del bando, cioè la pena che espelleva il reo dalla città e autorizzava chiunque lo incontrasse ad ucciderlo, successivamente fu invece prevista la pena capitale modificando così il regime della pace privata. La pace privata permetteva la revoca o la diminuzione della pena se l’offensore avesse concluso un accordo di pace – concordia - con l’offeso o i suoi familiari, e ciò valeva

anche per l’omicidio. Per cui quando venne introdotta la pena capitale la pace privata venne sempre meno usata per i reati d’omicidio e applicata solo per i reati di minore gravità, e ciò perché un illecito che causava la morte di una persona non feriva soltanto la vittima e la sua famiglia, ma offendeva anche l’intera comunità.

Il processo romano-canonico si reggeva dunque sulla base di molteplici fonti, ordinate gerarchicamente ed era per questo un processo formalizzato e scritto, fondato su regole probatorie precise. Il Consilium Sapientis Iudiciale Consilium Pro Veritate

Durante l’età comunale era divenuta piuttosto frequente la tendenza dei giudici di affidare, a uno o più giuristi di professione/avvocati, il compito di predisporre un parere legale per una causa in discussione davanti al tribunale. Il parere così commissionato: Consilium sapientis

iudiciale veniva assunto come sentenza risolutiva del caso.

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Se originariamente la richiesta del parere poteva essere motivata da un insufficiente livello di cultura giuridica dei consoli, dopo il ricorso al consilium da parte di podestà, assessori e consoli di giustizia, certamente esperti di diritto, ebbe motivazioni ben diverse e il consilium sapientis divenne una vera e propria regola generale: e da quel momento non vi fu più processo civile senza che uno o più giurisperiti venisse incaricato non solo di redigere il consilium ma anche di interrogare le parti, raccogliere le prove e valutare le allegazioni, cioè di istruire e condurre al suo esito l’intero processo; il magistrato non doveva fare altro che trasformare letteralmente in sentenza il consilium, assicurandone quindi l’esecuzione. La giustizia era ormai nelle mani dei giuristi locali/giurisperiti/avvocati ma in fatto giudici. Solo con l’avvento delle signorie, alla giustizia cittadina si affiancherà quella signorile esercitata da giudici direttamente scelti dal signore da cui nasceranno le Corti sovrene dell’età moderna. Un ulteriore forma di parere legale fu quello chiesto dalle parti in causa: il Consilium pro

veritate. La scopo di allegare alla propria difesa il parere di un giurisperito di una certa fama,

era quello di indurre la Corte a riconoscere le proprie ragioni. E la speranza era in effetti ben riposta in quanto chi li sottoscriveva automaticamente dichiarava che, nel caso fosse stato il giudice di quella causa, la sua decisione sarebbe stata esattamente quella contenuta nel parere legale. La differenza tra giurisperito e avvocato stava dunque nella diversa modalità di difendere il cliente, visto che il primo aveva l’obbligo di coerenza rispetto alle tesi sostenute in altri processi, mentre il secondo era libero di usare qualunque mezzo di difesa. Infine i consilia richiesti dalle parti si distinsero anche dai consilia richiesti dai giudici perché in questi ultimi, la motivazione in diritto non era necessaria ai fini dell’emanazione della sentenza, che poteva essere emanata anche senza parere legale; invece la motivazione in diritto nei primi era essenziale perché il parere legale permetteva di convincere il giudice verso una decisione piuttosto che verso un’altra. Furono comunque gli esponenti di spicco della Scuola del Commento a raccogliere e diffondere maggiormente i propri consilia, soprattutto da Baldo in poi. 12. I COMMENTATORI

I postaccursiani

Con Accursio, maestro bolognese della famosa Glossa Oridinaria, si era ormai esaurita la funzione della “glossa”e iniziava a delinearsi un’ulteriore nonché diverso e più pratico filone del diritto, rappresentato appunto dalla Scuola del Commento.

I Commentatori furono dunque i giuristi che operarono successivamente ad Accursio, e per questo denominati anche Postaccursiani, la cui attività consisteva nella redazione di opere giuridiche pratiche - le procedure - destinate a coloro che concretamente volevano e dovevano applicare il diritto. Infatti accanto all’insegnamento teorico delle università si affermò una nuova tipologia di opere rivolte direttamente ai pratici del diritto, quindi opere di procedura civile e canonica che costituivano il filone delle Ordines Iudiciorum. Jacopo Baldovini fu uno

dei più importanti autori che per la prima volta con estrema chiarezza, distinse le norme ordinatorie dalle norme decisorie, separando così il piano della disciplina processuale dal piano del diritto sostanziale.

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La scuola di Orleans

Tra i vari centri di studio un ruolo importante venne rivestito dalla piccola Università d’Orleans dove alcuni maestri, tra cui Jacques de Revigny, affrontarono lo studio dei testi romani con metodo nuovo e lontano dalla glossa accursiana. La particolarità risiedeva innanzitutto nella profondità e nella sistematicità dell’analisi testuale, in quanto gli orleanes i commentavano a fondo ogni passo con analisi chiarificatrici più esaustive di quelle dei glossatori, e non di rado capitava che le loro interpretazioni potevano essere valutate e considerate errate e per questo modificate senza esitazione. Inoltre nel metodo del commento viene con precisione ricercata la ratio della norma, ovvero il principio che sta alla base di essa, così da rendere possibile la sua corretta applicazione anche a casi simili non direttamente esplicitati. Il Revigny al riguardo prospettò un’ipotesi sulla quale ragionare, ovvero l’ipotesi in cui una determinata situazione non è regolata né dalla legge né dalla consuetudine ma trova analogia sia nell’una che nell’altra; Quale fonte applicare? La legge o la consuetudine? Non disponendo nulla la legge romana il maestro affermò che la preferenza doveva andare alla fonte che con la propria disciplina si avvicinasse maggiormente al caso concreto. Dunque l’attenzione rigorosa e minuziosa ai casi concreti e al mondo delle consuetudini (diritto orleanese e diritto consuetudinario) rappresentavano i due aspetti complementari di tale indirizzo, pensiero orleanese. Da Cino a Bartolo di Sassoferrato

In Italia, il nuovo metodo orleanese ebbe come maggiore esponente il giurista e poeta Cino da

Pistoia. La sua Lectura Codicis segnò infatti l’introduzione definitiva di tale metodo la cui scuola prese il nome di Scuola del Commento.

Con tale importante opera l’intenzione dell’autore era quella di assoggettare ogni passo del Codice alle seguenti operazioni:

1. la lettura - lectio, 2. l’interpretazione testuale - expositio, 3. la formulazione di esempi - casus, 4. l’indicazione dei punti rilevanti - notabilia,

5. la discussione dei possibili contrasti tra passi paralleli - oppositiones, 6. la proposizione e la soluzione delle questioni – quaestiones.

Fondamentalmente nessuna di queste operazione era nuova in quanto già tutte praticate dai glossatori, ciò che mutava era essenzialmente il metodo di approccio al testo e il rapporto tra le predette fasi. Dando uno sguardo all’opera di Cino è infatti possibile notare quanto ristretto fosse lo spazio dedicato alle prime cinque operazioni e quanto invece fosse dilatata la sesta. Difatti la quantità di questioni teoriche, di casi tratti dalla prassi o dagli statuti cittadini, e proposti poi dalla cattedra agli allievi era piuttosto notevole. Allievo di Cino fu colui che è da considerare il massimo giurista della Scuola del Commento, Bartolo da Sassoferrato. Dopo avere ricoperto alcune cariche pubbliche venne chiamato

all’insegnamento universitario dove avviò un’intensissima attività didattica e scientifica. L’opera che di lui resta fu imponente e dedicata al commento/racconto del Digesto, al Codice, al Volumen, alla raccolta dei suoi Consilia, delle Questiones e dei Trattati.

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Ma vediamo come egli affrontò in delle repetitio celebri dapprima la tematica riguardante gli statuti cittadini e poi quella riguardante il conflitto fra leggi.

1. In merito alla prima, innanzitutto Bartolo impostò il suo ragionamento distinguendo fra tre categorie di comunità locali, assegnando ad ognuna di esse una certa capacità a legiferare : le comunità dotate di piena giurisdizione, la cui potestà legislativa è ammessa in

modo pressoché totale senza necessaria autorizzazione superiore; le comunità con giurisdizione limitata, la cui potestà è ristretta ai soli settori di cui

godono di autonomia giurisdizionale; le comunità prive di poteri giurisdizionali, la cui potestà legislativa è realizzabile

solo in seguito all’autorizzazione del superiore . Alla luce di queste distinzioni egli ritenne opportuno: sottolineare il concetto di popolo, identificandolo con ogni singola collettività

cittadina, rurale e professionale; procedere con un metodo che andava dal certo all’incerto chiarendo i confini della

potestà legislativa con quelli della potestà giurisdizionale; riconoscere ampia autonomia legislativa alle comunità cittadine e rurali; anche se al

di sopra dei regni e delle città rimaneva pur sempre il primato giuridico del potere imperiale, che da solo offriva l’unica garanzia di tutela del valore supremo della pace.

Fu così che Bartolo risolse una serie di questione relative a statuti la cui validità era stata messa in discussione.

2. il conflitto tra leggi fu una delle materie più complesse e controverse nell’età dei comuni, allorché la presenza di tante leggi statuarie creava continui problemi nei rapporti intercittadini. A questo proposito Bartolo formulò un insieme di principi che combinati tra loro consentivano di dare un certo ordine e soprattutto delle risposte a dubbi che si ponevano continuamente. La questione era: quali norme statutarie dovevano applicarsi ai forestieri presenti nel territorio del comune? E quali norme dovevano invece applicarsi ai cittadini che si trovavano fuori dal loro territorio e sul territorio di un’altra città? A tal proposito Bartolo distinse tra:

- contratti, testamenti, delitti, - statuti permissori e proibitori, - norme processuali e norme sostanziali, - statuti rivolti alle persone e statuti rivolti ai beni;

e ne individuò un’idonea soluzione per ogni tipo di conflitto tra statuti di diverse città , e tra statuti e diritto comune. Da queste trattazioni è dunque possibile cogliere i caratteri propri del pensiero della Scuola del Commento, le cui dottrine/studi furono frutto di teorie libere e autonome del giurista, alle prese con questioni nascenti dai mille casi della vita quotidiana del suo tempo. Il metodo di distinguere e suddistinguere permetteva infatti di ripartire in sottocategorie una materia complessa, inserendo le svariate questioni nascenti dalla pratica. Innumerevoli furono gli autori che si ispirarono al grande giurista tanto da essersi affermato l’obbligo di attenersi all’opinione di Bartolo in caso di discordanza tra giuristi.

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Baldo e i Commentatori fra Tre e Quattrocento

Tra gli allievi di Bartolo a spiccare fu Baldo degli Ubaldi, noto semplicemente come Baldo,

che insegnò in diverse università e divenne il professore di diritto civile più celebre d’Italia. Dalla cattedra si dedicò ad illustrare non solo il Corpus Iuris ma anche il diritto canonico e il diritto feudale, con particolare attenzione ai rapporti e agli istituti giuridici del diritto commerciale che si stava formando proprio in quel periodo per via consuetudinaria, ma si distinse anche per la sua feconda attività di consilia. La sua fama di professore gli procurò infatti innumerevoli richieste di pareri legali da parte di privati ed anche da parte di giudici. Dagli inizi del ‘300 ai primi del ‘500, la Scuola del Commento mantenne in Italia un ruolo dominate nella scienza giuridica, nell’università e nella stessa pratica del diritto; dimostrato anche dal fatto che gli studenti erano parecchio attratti dalla fama dei docenti (che permetteva loro una certa fonte di ricchezza e di prestigio) e disposti a seguire le loro lezioni. La specia le forma letteraria fu quella della Repetitio che consentiva di dedicare ad una legge del Codice

o del Digesto una trattazione approfondita e dettagliata, e che contemporaneamente rappresentava un mezzo di affermazione e di concorrenza con cui veniva misurata la capacità di un professore, in un ambiente universitario nel quale le sedi lottavano per accaparrarsi i docenti migliori. Più tardi si ebbero raccolte stampate di ripetitiones civilistiche e canoniche. I commentari e le raccolte di consilia dei maggiori Commentatori vennero a lungo utilizzate e poi trasmesse tramite pubblicazioni a stampa: svolta cruciale per la cultura giuridica europea. Tra i massimi giuristi ebbero parecchia anche Paolo di Castro, Filippo Decio, Giasone del Majno i cui pareri vennero richiesti con insistenza anche dai sovrani, dai pontefici.. e tanti altri grandi nomi della Scuola del Commento. 13. I DIRITTI PARTICOLARI

Non possiamo non richiamare, oltre il diritto romano, altri complessi normativi esistenti in Italia e in Europa da secoli; non possiamo ovvero non parlare dei diritti particolari:

- il diritto longobardo, - il diritto feudale, - il diritto agrario, - il diritto commerciale e del mare.

Il diritto longobardo

Il diritto longobardo, più precisamente longobardo–franco, aveva trovato nella compilazione detta Lombarda, una sistemazione certa e duratura, tanto che il diritto longobardo fu

considerato un vero e proprio diritto comune, integrabile dal diritto romano comune solo in caso di lacuna. Alcuni giuristi esperti che si dedicarono allo studio del diritto longoba rdo affermarono infatti che, in alcuni casi pratici presentati davanti ai giudici, l’applicazione di tale diritto potesse anche prevalere su quello romano. Fu così che i giuristi accompagnarono l’interpretazione dei testi di diritto longobardo con continui richiami e collegamenti al diritto romano comune così da delineare un sistema normativo integrato, composto sia da norme longobarde-franche che da norme romane. Le differenze tra i due diritti rimasero comunque ben delineate, ad esempio:

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- per il diritto longobardo la maggiore età si raggiungeva a 18 anni anziché a 25; - il diritto longobardo privilegiava per la successione legittima la linea degli agnati

(discendenza o parentela da uno stesso capostipite maschio: padre, figlio, nipote, pronipote..) piuttosto che quella dei cognati (discendenza o parentela femminile: madre, figlia, nipote femmina, pronipote femmina.. La differenza tra adgnatio e cognatio e la preferenza dell’adgnatio sulla cognatio, era essenzialmente rivolta a preservare il patrimonio delle famiglie che con la successione legittima poteva essere ereditato da altre famiglie. Infatti, se si seguiva la linea maschile-adgnatio il patrimonio della famiglia era assicurato perché tramandandosi il cognome si tramandava anche il patrimonio, se invece si seguiva la linea femminile-cognatio il patrimonio automaticamente passava sotto il nome della famiglia in cui entrava a far parte la figlia sposandosi con un suo componente);

- la pena prevista per il reato di furto era maggiore del doppio. Il diritto feudale Il diritto feudale di formazione prevalentemente consuetudinaria ebbe un assetto ben definito solo nel 12° secolo. Sulla base del fondamentale Edictum de beneficiis: ereditarietà del beneficio feudale (editto voluto da Corrado II allo scopo di attenuare le ribellioni dei vassalli italiani e regolare il diritto di successione per i feudi minori, con cui si sancì da un lato che il diritto del vassallo sul feudo concessogli dovesse configurarsi come un vero e proprio diritto reale, stabile e non revocabile da parte del signore se non per colpa; e dall’altro che l’ereditarietà del feudo fosse esteso anche ai vassalli minori con tutti i benefici di cui godevano i grandi feudatari del sovrano ed essere così giudicati alla pari) venne composto un testo che pe r la prima volta indicava in modo chiaro e preciso le principali consuetudini feudali vigenti, realizzato con la collaborazione di un giurista esperto di diritto romano e di diritto feudale: Oberto de Orto. Da quel momento in poi le consuetudini feudali assunsero la denominazione di Libri Feudorum ma soprattutto assunsero il carattere di un vero e proprio testo normativo. Sui libri feudorum molti giuristi bolognesi elaborarono summe, commentari e trattazioni il cui elemento comune era il legame tra norme feudali e testi romanistici, e il cui risultato era un impasto tra due diritti profondamente lontani tra loro sia nelle origini che nella disciplina. I diritti rurali

Occorre sottolineare che un carattere comune ai vari sistemi giuridici europei era proprio quello della molteplicità della discipline previste, diverse a seconda del ceto di appartenenza. Qualsiasi aspetto della vita quotidiana, quale la capacità d’agire, il regime patrimoniale e matrimoniale, le successioni, le sanzioni, ecc.. era infatti disciplinato in maniera diversa in base al ceto cui si faceva parte ma anche in base all’essere uomo, piuttosto che donna o chierico, ecc.. ad esempio per gli uomini vi erano ben otto classi diverse la cui appartenenza prevedeva discipline totalmente diverse, come nel caso della pena prevista per l’omicidio che variava in modo smisurato tra la prima e l’ultima di queste otto classi. Tale varietà di status era possibile riscontrarla anche nel diritto rurale dove vigeva la principale distinzione tra

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coloni - vincolati al padrone/dominus - e ascriptcii – vincolati ad una specifica terra, ma

anche la presenza di altre categorie giuridiche disciplinate in modo diverso e specifico da luogo a luogo. E’ dunque chiaro come nonostante la rinascita delle città gran parte della popolazione europea fosse comunque formata da contadini. La concessione di diritti sulla terra avveniva in varie forme da parte del sovrano o signore e particolare rilievo presentava la tipologia variegata dei contratti agrari che disciplinavano diritti e obblighi dei coloni – ovvero lavoratori di terre di cui non erano proprietari a pieno titolo e che rappresentavano la categoria maggiormente prevalente nel mondo rurale. Tra le varie figure contrattuali vi era:

- il contratto di livello, concluso tra le parti per iscritto con prestazione di un canone

annuo in prodotti o in danaro, per una durata in genere di 29 anni; - i contratti d’affitto di terre cedute al colono, assai più cospicui e spesso quinquennali; - il contratto di mezzadria nel quale la metà dei prodotti spettava al proprietario, l’altra

metà al fattore; - il contratto di enfiteusi, di uso frequente per le proprietà ecclesiastiche, dove la

concessione delle terre era compiuta per tre generazioni dietro versamento di una somma iniziale mentre il canone era soltanto simbolico

Ma le forme contrattuali tipiche del mondo rurale erano ben più numerose come ad esempio la cessione a tempo di capi di bestiame, con obbligo di restituzione alla scadenza, a un colono incaricato di nutrirli e trarne lana o latte; oppure i diritti e gli obblighi sulle terre

comuni: i diritti di pascolo degli abitanti del villaggio sui prati e nei boschi circostanti, i diritti

della raccolta del legname delle foreste, ecc. La misura e, i tempi e i modi di esercizio di ques ti diritti erano determinati tramite consuetudini e potevano per questo variare da luogo a luogo. L’insieme di tali consuetudini diede appunto vita al diritto rurale. Il diritto commerciale marittimo

Il diritto commerciale nacque e si diffuse in Europa per rispondere alle esigenze dei commercianti e degli artigiani attivi nell’economia urbana. Nati dalla cooperazione attiva del mercante e dell’onnipresente notaio, questo ed altri diritti si affermarono per consuetudine all’interno delle corporazioni gestiste dagli stessi mercanti. La prassi era infatti quella di affidare ad un mercante merci o capitali da trafficare oltremare dividendosi al ritorno i guadagni ottenuti; ben presto questo sistema fece però sorgere l’esigenza di garanzie contro eventuali rischi di naufragio o di deterioramento o di furto delle merci o capitali determinando la formazione di apposite assicurazioni sulle merci o capitali che ripartivano il rischio tra i soggetti interessati: il documento guarantigiato, ovvero una dichiarazione di

debito compiuta davanti ad un notaio (di cui ricordiamo l’importanza del ruolo svolot nei comuni) con atto pubblico, con valore di titolo esecutivo risparmiando così al legittimo possessore le lungaggini di un processo formale per recuperare il credito perduto. Tali istituti di diritto commerciale presto si estero anche ai rapporti legati alla navigazione marittima delineandosi così un complesso di regole per la disciplina della vita a bordo della nave, dei poteri del capitano nei confronti dei marinai, della procedura in caso di controversie, dell’eventuale ipotesi di naufragio o avaria, ecc. Con il tempo le norme di diritto

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commerciale e marittimo vennero elaborate in forma scritta e diedero vita a vari testi normativi, tra cui il Consolato del Mare, diffuso in tutta Europa. 14. I DIRITTI LOCALI

L’Europa medievale conobbe accanto ai diritti particolari una fioritura di diritti locali che costituirono la prosecuzione storica delle consuetudini altomedievali: alle consuetudini si aggiunsero infatti sia consuetudini nuove sia norme stabilite per legge. Italia comunale: gli statuti

Con la nascita dei comuni italiani e con la libera elezione dei consoli dotati di piena giurisdizione civile e penale, quest’ultimi e altre magistrature giuravano all’atto dell’assunzione in carica l’osservanza di specifiche obbligazioni relative alle proprie competenze e ai modi di esercizio del potere; appositi documenti notarili in forma di brevia

precisavano analiticamente queste funzioni (ovvero la durata della carica dei consoli, i loro poteri giudiziari, diplomatici, amministrativi, militari, ecc.) stabilite dall’assemblea cittadina. Quando poi si avvertì l’esigenza che una consuetudine locale venisse garantita nella sua applicazione da parte dei giudici, si optò per la sua redazione scritta e la si fece approvare formalmente dall’assemblea trasformandola così in legge della città. I brevia dei consoli, le consuetudini scritte, le leggi approvate dal comune vennero allora trascritti e formarono la base del diritto scritto cittadino o locale - che assunse il nome di Statuto. Si costituì allora il Liber statutorum della città, un testo diviso in più libri, che racchiudeva i

principi cardini della normazione locale; le consuetudini assunsero così il carattere proprio della legge perché generali ed astratte. L’evoluzione dello statuto cittadino si stabilizzò con il diffondersi del regime della Signoria, la quale impose la superiorità delle leggi e delle normative elaborate dal signore rispetto alla legislazione cittadina, senza però abolire gli statuti, che si mantennero in vita sino alla fine del ‘700. Una legislazione territoriale specifica si ritrovò anche nei comuni rurali, ma qui l’autonomia normativa fu ben più ridotta a causa del controllo esercitato sul contado dalla città dominante, che imponeva ad esempio di ricorrere in ogni caso ai giudici cittadini per eventuali controversie tra contadini e abitanti della città. Gli statuti rurali ebbero comunque i l merito di essere fonti di informazione per la conoscenza della gestione delle terre, dei boschi, dei pascoli, ma anche per lo studio dei rapporti interni al villaggio e di altri aspetti tipici d ella vita delle campagne. Il Regno di Sicilia

Il Regno di Sicilia conobbe la fioritura di consuetudini scritte già con Ruggero II ma la fase culminante si ebbe con Federico II che promulgò il Liber costitutionum, un testo contenente disposizioni che imponevano ai giudici del regno di osservare in primis le prescrizioni in esso contenute, poi le consuetudini locali, in seguito il diritto longobardo ed infine il diritto romano comune; affermava inoltre l’uguaglianza dei sudditi rispetto alla legge del re, senza alcuna differenza in merito all’etnia o al rango sociale di appartenenza. Il Regno di Germania

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Nel Regno di Germania l’opera sicuramente più importante fu lo Specchio sassone

contenente disposizioni specifiche in merito al processo, regolato attraverso prove ordaliche e prove testimoniali, imponeva anche il giuramento e rendeva possibile il rifiuto della sentenza con la richiesta di un nuovo giudizio. Il Regno di Francia

In Francia la sopravvivenza del diritto romano era sempre ben radicata, tuttavia esistevano consuetudini altrettanto radicate non coincidenti con le regole del diritto romano; divenne allora frequente la prassi di indicare negli atti e nei contratti conclusi davanti al notaio la rinuncia ad avvalersi delle normative romane per far prevalere quelle non romane, cosa che indusse il re Filippo il Bello a stabilire con un’apposita ordinanza che il diritto romano fos se ammesso ma a titolo di consuetudine locale e non come diritto imperiale. La Penisola Iberica

I diritti locali costituirono in Spagna la fonte di diritto maggiormente prevalente. Essi si manifestarono in varie forme, tra cui:

1. le carte di popolazione nelle quali un signore locale stabiliva diritti ed obblighi per

gruppi di coloni cui erano assegnate terre incolte per coltivarle; i coloni quindi restavano alle dipendenze del signore adottando le regole stabilite nelle carte.

2. i Fueros, una fonte scritta che indicava una concessione di privilegi da parte di un re

ad una comunità locale, in genere una città o un borgo, che accesero frequentemente contrasti con i signori locali, i quali miravano a mantenere sulla popolazione del borgo il loro controllo tradizionale. Con il tempo si formarono tipologie di fueros con contenuto sempre più esteso.

Infine il testo forse più celebre della legislazione ispanica fu il Libro delle Sette Parti di

Alfonso X di Castiglia, ripartito in sette libri, ognuno riguardante rispettivamente: - l’organizzazione ecclesiastica, - i poteri del re, - il processo, - il matrimonio, - i contratti e i feudi, - le successioni, - il diritto penale.

Il suo contenuto normativo è quasi interamente tratto dalle fonti romano-canoniche medievali, dal Corpus iuris alle Decretali. Scandinavia

Anche nei tre regni di Danimarca, Svezia e Norvegia, le consuetudine locali delle diverse provincie cominciarono ad essere redatte per iscritto. Carattere significativo ebbero i patti

giurati, con i quali i sudditi e il re promettevano attraverso un giuramento collettivo la

conservazione della pace pubblica, cosa che consentì un maggior controllo e un ruolo di garanzia nel rapporto tra i ceti.

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15. IL SISTEMA DEL DIRITTO COMUNE

..Diritto romano e diritto canonico, diritti locali, diritti particolari, statuti e consuetudini.. la compresenza in uno stesso ordinamento giuridico di fonti giuridiche tanto lontane tra loro per poneva una serie di problemi legati al coordinamento e all’interazione tra tutte queste fonti. Alla soluzione di questo problema di dedicarono i maggiori giuristi del tempo. I due temi principali furono:

1. il binomio rigore-equità, 2. il rapporto tra legge e consuetudini

esaminati con riferimento alla scuola dei Glossatori. Equità e rigore

Il 1. dibattito concerneva il ruolo dell’equità nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme di legge. L’equità per i Glossatori in quanto se perseguita dall’uomo con costanza si traduceva nella giustizia, se redatta in norme dà vita al diritto. I Glossatori qualificarono l’equità trasposta in norme di legge come constituta, ovvero stretto diritto, mentre l’equità non ancora divenuta legge fu detta rudis ovvero grezza. Dunque il dibattito nacque dal

contrasto tra due testi di Costantino, entrambi accolti nel codice di Giustiniano, dove una costituzione decretava doversi preferire sempre l’equità rispetto al rigore dello stretto diritto o ius, l’altra costituzione invece attribuiva al solo imperatore la potestà di risolvere eventual i contrasti tra aequitas e ius; sulla questione sorse un netto dissenso tra due grandi allievi di Irnerio: Bulgaro e Martino.

- Bulgaro individuò due accezioni del termine aequitas: quella scritta e quella non scritta,

dando la priorità alla prima e vietando al giudice ogni scostamento dal diritto scritto in nome dell’equità non scritta.

- Martino ritenne invece ammissibile, che il giudice, laddove fosse stato possibile o

meglio ancora necessario, potesse anteporre l’equità rude anche in contrasto con lo stretto diritto o ius. La sua tesi e quella dei suoi seguaci era infatti quella che l’imperatore aveva sì il compito di dettare l’interpretazione autentica e generale della legge ma non vietava al giudice di anteporre l’equità non scritta al rigore del diritto scritto, potendo inoltre, sempre in nome dell’equità, concedere uno strumento processuale polivalente per provvedere a situazione alle quali lo stretto diritto del Corpus iuris negava ogni tutela. Questa tesi così esposta fu aspramente criticata tanto che Rogerio la definì stolta.

Tra le due fu dunque la tesi di Bulgaro a prevalere e le specifiche soluzioni equitative suggerite da Martino vennero quasi sempre respinte. Ciò perché l’indirizzo dominante tendeva sì ad ampliare i margini della potestà dei giudici ma scegliendo una strada in parte diversa da quella di Martino, facendo cioè leva su due principi:

- il criterio interpretativo che consentiva di argomentare in base alla ratio legis;

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- il criterio di considerare regola lo ius strictum ed eccezione lo ius aequum, e pertanto prevalente il secondo sul primo in virtù del principio per il quale l’eccezione prevale sulla regola, a sua volta basato sul criterio che la specie deroga sul genere.

Là dove si poteva argomentare che il legislatore avesse fatto ricorso a parole – verba - che esprimevano qualcosa di più o qualcosa di meno rispetto alle proprie intenzioni – voluntas - o alla motivazione oggettiva – ratio -della legge stessa, si riconosceva dunque la possibilità di

fare appello all’equità anche contro le parole della legge. Inoltre in merito al rapporto tra equità e diritto canonico sorsero altrettanti dibattiti e tesi contrastanti, in quanto il tema dell’equità e dei suoi rapporti con la legge canonica assume un’importanza particolare perché toccava il rapporto tra diritto, giustizia e carità. Il ricorso all’equità era legittimo qualora la norma scritta mancasse, per altri canonisti invece l’equità costituiva un criterio operante in ogni caso. Per tali vie si affermò nel tempo un concetto peculiare di equità: l’aequitas canonica, accolta anche nel Codice Canonico del 1983.

Legge e consuetudine

Il 2. dibattito concerneva invece il rapporto tra legge e consuetudine e lo spunto alla

riflessione prese appunto l’avvio da un conflitto tra leggi. - La tesi classica, tramandata dal Digesto, considerava la volontà popolare il

fondamento comune sia della legge sia della consuetudine con l’unica differenza riguardante il modo espresso o tacito con cui il consenso popolare si manifestava; entrambe avevano dunque lo stesso livello di legittimazione e di vincolatività.

- La tesi postclassica, derivante da una celebre costituzione di Costantino, sanciva

invece la priorità della legge sulla consuetudine. Il ruolo della consuetudine nel suo rapporto con la legge, costituiva un problema enorme perché in un sistema giuridico stracolmo di consuetudini locali era necessariamente essenziale chiarire se e fino a che punto la legge potesse imporre il suo primato. Al riguardo vi fu un dibattito per il quale:

una tesi rigidamente restrittiva, optava per la posizione costantiniana, ovvero che la facoltà di legiferare sarebbe stata sottratta al popolo e la consuetudine avrebbe perduto il suo livello di parità con la legge imperiale;

una tesi diversa di Bulgaro, operò una fondamentale distinzione: le consuetudini generali, le consuetudini speciali o locali, in base alle quali distinse poi:

a) l’ipotesi di un loro contrasto, non volontario, con la legge indotto per semplice

errore, b) l’ipotesi di un contrasto consapevole, dove la legge non è abrogata ma è la

consuetudine a prevalere sulla legge;

un’altra tesi, stavolta del Piacentino, criticò con asprezza la teoria per la quale le consuetudini consapevolmente contrarie alla legge avrebbero goduto di migliore sorte rispetto alle consuetudini inconsapevolmente “contra legem”. Pillio riprendendo la tesi di quest’ultimo distingueva tra consuetudini buone o razionali e consuetudini cattive o irrazionali;

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ultima tesi operata da Alberico, stabiliva che le consuetudini prevalevano rispetto alle norme di legge derogabili, ma non rispetto alle norme imperative e inderogabili. Questa teoria come quella di Bulgaro apriva uno spazio assai considerevole alle consuetudini, ma a differenza di quella di Bulgaro fissava altresì un confine preciso laddove il legislatore avesse vietato deroghe specifiche alla regola legale.

In conclusione la tesi che prevalse su tutte fu quella di Bulgaro, ovvero che una consuetudine generale ed efficacie ovunque, poteva abrogare la legge, invece una consuetudine locale o speciale non possedeva efficacia abrogativa della legge ma era valida ed applicabile nel luogo in cui si era affermata. Anche il dibattito sul rapporto tra legge e consuetudine non si concluse con la scuola dei glossatori ma venne ripreso anche nella scuola dei commentatori e nell e altre scuole con esiti differenti. “Ius commune” e “ius proprium”

Il diritto comune civile fondato sui testi della Compilazione giustinianea e sull’opera dei Glossatori e dei Commentatori conobbe un successo straordinario. La formazione universitaria ebbe l’effetto di diffondere non solo le tecniche di interpretazione e di argomentazione ma anche i contenuti del diritto comune, precisamente l’affermazione dello Ius commune civile.

La questione del rapporto tra diritto comune e diritti particolari e locali fu ampiamente considerata sia nelle opere di dottrina che nei consilia. Per l’Italia dei comuni la regola fu la compresenza e la doppia vigenza dei diritti locali e del diritto comune: il giudice doveva anzitutto applicare lo statuto, integrandone però le lacune con il ricorso al diritto comune. Da ciò era desumibile che la normativa locale, detta Ius proprium, doveva avere la priorità su

quella del diritto comune garantendo così che le norme consuetudinarie o quelle ex novo in sede locale venissero effettivamente applicate anche se fossero state contrarie rispetto a quanto disposto da diritto comune. Anche i diritti particolari prevalevano sul diritto comune in quanto relativi a presone e a rapporti speciali: ad es. per il diritto feudale. Potrebbe sembrare con ciò che il peso specifico del diritto comune venisse drasticamente sminuito rispetto allo ius proprium locale ed anche rispetto ai diritti particolari, che su di

esso avevano la precedenza. Ma sarebbe stata una conclusione errata per diverse ragioni: - in primo luogo si deve considerare che una larga parte degli istituti dell’ordinamento,

in particolare quelli di diritto civile riguardanti i diritti della persona, i diritt di proprietà, di successione.. era assente dalla normativa statuaria perché la disciplina romanistica, integrata dalla dottrina, veniva accettata senza variazioni quale valida base normativa; sicché in tutti questi settori era direttamente il diritto comune ad essere applicato in assenza di una norma locale.

- In secondo luogo, l’interpretazione di molti termini e di molti istituti, pur menzionati nello statuto, veniva elaborata facendo ricorso alle categorie e alle disposizioni del diritto comune.

- In terzo luogo, la tesi dominante fu di considerare la normativa dello ius proprium come normativa di eccezione rispetto a quella dello ius commune e come tale, non estendibile per analogia. A questo proposito sui modi e sui limiti dell’interpretazione dello statuto, taluni giuristi ebbero opinioni spesso contrastanti; alcuni negarono l’interpretazione

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analogica dello statuto nelle ipotesi di un caso non prevedibile; altri invece consideravano estendibile per analogia lo statuto se la sua ratio sussisteva nel caso in esame.

Dalla somma di questi criteri il risultato fu quello che il diritto comune conservava uno spazio davvero molto ampio di applicazione anche in presenza di un’abbondante normazione locale in continua evoluzione. I due diritti universali: “utrumque ius”

Non dobbiamo dimenticare che il diritto comune, nato dalla nuova scienza del diritto bolognese, oltre a comprendere ed essere costituito dal diritto civile romano, comprendeva ed era costituito anche da un altro grande sistema normativo universale, il diritto canonico.

La questione dei conflitti tra diritto comune civile e diritto comune canonico fondamentalmente non esisteva, in quanto il primo regolava la sfera dei rapporti secolari, il secondo la sfera spirituale. La Glossa accursiana scolpì tale rapporto con una doppia negazione incrociata:” né il papa nelle questioni secolari, né l’imperatore nelle questioni spirituali”. Se da un lato però la distinzione tra le due sfere era piuttosto netta, dall’altro qualora l’applicazione delle leggi civili, sia nel campo temporale che a maggior ragione nel campo spirituale, avesse indotto al peccato esse dovevano essere derogate preferendo l’applicazione delle leggi canoniche e permettere così la salvezza del’anima. Ad esempio in merito alla competenza giurisdizionale, se temporale (dello Stato) o spirituale (della Chiesa) secondo alcuni giuristi, tra cui Cino da Pistoia, solo i reati direttamente legati alla religione dovevano rientrare nella giurisdizione del giudice canonico, non invece altri reati anche se frutto di un peccato. Ad ogni modo i destinatari di questi due ordinamenti universali, il civile e il canonico, erano le stesse persone, il che rendeva ancora più arduo il loro rapporto e discusso il loro sottile confine, tra ciò che era di Cesare e ciò che era di Dio.

16.LA FORMAZIONE DEL COMMON LAW L’avvento dei Normanni in Inghilterra con Guglielmo il Conquistatore, aprì una nuova era che ne caratterizzò la storia per sempre: diede origine al Common Law. Un imponente sistema di diritto comune, “comune” perché:

- di applicazione generale, cioè di più ampia portata rispetto alle norme imperiali e speciali;

- perché gestito dalle Corti secolari e non dalle Corti ecclesiastiche - perché distinto dal sistema dell’equity.

Il sistema del common law si differenziava inoltre dal civil law per tutta una serie di diverse caratteristiche, ovvero:

- la non codificazione del diritto né costituzione scritta; - la non distinzione tra diritto pubblico e privato; - la non separazione tra diritto sostanziale e diritto processuale; - il ruolo autorevole dei giudici;

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- il ruolo marginale della dottrina e dei professori di diritto; - il sistema penale accusatorio e non inquisitorio;

Il diritto inglese è frutto della creatività dei giudici regi e della giurisprudenza inglese che attraverso una serie di decisioni su casi specifici hanno costruito un vasto e co mplesso insieme di regole e principi. Allo sviluppo del Common law la tradizione romanistica del Corpus iuris rimase sostanzialmente estranea, così come la dottrina giuridica, cioè l’attività creativa di analisi, di approfondimento svolta dai giuristi dotti di estrazione universitaria, e la formazione dei giuristi con le conseguenti professioni legali ebbero un ruolo molto più circoscritto, gli avvocati e i giudici si formarono infatti nella pratica non nell’università. Un sistema dunque diverso e originale, adottato al di fuori dell’Italia e dell’Europa, come negli Stati Uniti, in India, in Canada, in Australia, ecc. Nonostante ciò il sistema del Civil law (diritto romano, diritto canonico, consuetuidini, dottrina universitaria..) ha direttamente interagito e ispirato tutta una serie di istituti entrati a far parte del diritto inglese; a sua volta il diritto inglese ha restituito il favore come per esempio con l’introduzione in Europa della separazione dei poteri. Il Regno normanno

Il Regno Normanno nacque ad opera di Guglielmo il Conquistatore, sostenitore del

principio che l’intero territorio del regno apparteneva al re, sicché ogni diritto altrui su terre e immobili era ritenuto “derivato” tramite una concessione sovrana. Molto importante fu la distinzione che il re volle introdurre tra giurisdizione regia e giurisdizione ecclesiastica, anche qui confuse e mescolate per secoli, il cui scopo fu quello di

rivendicare la sovranità del monarca e la sua autonomia dalla Chiesa. Lo strumento principale e fondamentale della monarchia inglese per acquisire tale effettiva supremazia sull’intero territorio del regno fu la progressiva estensione della giurisdizione regia; il regno era diviso in conte: shires, ciascuna delle quali aveva al vertice un conte, anche se era in concreto gestita dallo sceriffo: sheriff, in nome del re, nominato dal re e dipendente diretto

del re, in qualsiasi momento revocabile. La giustizia tradizionale era amministrata dalla Corti di Contea: Country Courts, mentre il Consiglio del re: Curia Regis, si occupava anche di affari giudiziari, tanto che sempre più spesso i sudditi inglesi presero a rivolgersi alla giustizia del re per cause che la giustizia ordinaria di contea non aveva affrontato o non aveva risolto in modo soddisfacente: così alcuni membri della curia regia furono incaricati di decidere le cause in nome del re in procedimenti che presero il nome di Assise.

I “writs”

Dunque l’affermazione della giurisdizione regia, ovvero la funzione giudiziaria del re, rappresentò uno dei capitoli più interessanti della storia del diritto inglese. I re Normanni d’Inghilterra fecero infatti leva su 3 elementi:

- sul loro compito di tutela dell’ordine, - sul potere di comando affidato agli sceriffi delle contee, - sulla possibilità di concedere strumenti procedurali più efficaci rispetto al duello o

all’ordalia,

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ma fu con Enrico II che un primo caso di giurisdizione regia si manifestò quando il re assicurò al litigante (nella controversia con il suo signore che gli negava il suo diritto sulla terra, datagli in concessione proprio dal signore) la facoltà di ricorrere alla Corte di Contea, amministrata dallo sceriffo di nomina regia, qualora dal suo signore avesse ottenuto un ulteriore rifiuto di giustizia anche dopo la sollecitazione del re. Il breve scritto della Cancelleria regia rivolto al signore prese proprio il nome di writ of right.

Per le terre che un signore aveva invece ricevuto direttamente dal re, il writ veniva inviato dal cancelliere del re direttamente allo sceriffo del luogo, nella forma di un ordine da impartire al convenuto (signore) perché accogliesse la richiesta dell’attore (contadino che si era rivolto al re per appunto richiedere il writ) e gli restituisse la terra contestata. Se il convenuto non l’avesse fatto lo sceriffo avrebbe dovuto imporgli di presentarsi ai giudici del re. Era così che veniva limitata la giurisdizione del signore del luogo in favore di quella regia. Contemporaneamente, nelle controversie relative ai diritti su una terra il convenuto (in questo caso il signore chiamato in causa dal contadino) fu abilitato dal re Enrico II a far valere le proprie ragioni, anziché attraverso il mezzo di prova del duello giudiziario, attraverso il ricorso alla testimonianza giurata di dodici vicini; un’anticipazione questa di quello che sarebbe diventato uno dei più importanti istituti del Common law: la Giuria nel Processo.

Dunque questi writs, affini in parte agli interdicta (ovvero gli strumenti del diritto romano utilizzati dal pretore per porre fine ad una controversia), realizzarono una tutela del possesso immobiliare distinta ed autonoma rispetto alla tutela del diritto di proprietà. Insomma fu grazie a questi formidabili strumenti – i writs e la testimonianza di vicini – che la giurisdizione regia riuscì a guadagnare sempre più terreno, sebbene essa comportasse per il litigante esborsi consistenti, visto che i writs venivano rilasciati dalla Cancelleria esigendo il pagamento di forti somme prestabilite. Sempre con Enrico II si determinò un ulteriore affermazione di giurisdizione regia in merito a determinati reati e comportamenti considerati eccessivamente lesivi e offensivi, sanzionabili con particolare rigore perché si riteneva infrangessero la pace del re e fossero perciò perseguibile davanti ai giudici del re; in questo modo tutti i crimini divenivano cause della corona. A tal proposito i giudici regi furono incaricati di recarsi periodicamente nelle varie parti del regno, sulla base di testimonianze e accuse presentate da giurie locali, al fine di indagare sui reati commessi e perseguire così il reo non solo come offensore della vittima ma anche come reo di fellonia: violatore del rapporto di fiducia e di pace con il re (ricordiamo il signore e il vassallo nell’età feudale). A tal proposito una delle azioni di tutela più importanti - writ of trespass - che gradualmente

divenne lo strumento principale per ottenere soddisfazione da chi avesse commesso un illecito civile, sviluppandosi poi nel tempo una forma ancora più generale di azione per illecito civile che prese il nome di trepass on the case e che, a differenza del trepass vero e

proprio (writ of trepass), non comportava l’arresto del convenuto. Il trespass presupponeva un atto di violenza contro la persona o contro cose mobili o immobili e permetteva, sulla base di prove, di ottenere un risarcimento dei danni subiti. Vi fu anche il writ of debt per la tutela processuale del contratto davanti alle corti regie.

Nel tempo si vennero comunque a creare altri nuovi writs applicabili ormai non solo ai casi usuali e correnti ma anche ai casi simili, mediante il ricorso ad un procedimento per analogia. Tuttavia la procedura era piuttosto rigida e formale, le misure di sanzione erano specifiche

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per ogni diverso writs, e quindi al di fuori dei writs riconosciuti e ammessi non si poteva comunque andare. Questa rigidità ricorda il sistema formulare del diritto romano classico. In conclusione il sistema dei writs è stato fondamentale per la genesi del Common Law. Le Corti regie e le decisioni giudiziarie

L’infittirsi dei casi sottoposti al re, lo indussero infatti ad inviare periodicamente nelle provincie del regno alcuni giudici viaggianti per amministrare in suo nome i processi civili e penali. Ciò determinò 13° secolo una suddivisione dell’unica Corte del re in tre diverse Corti centrali:

- la Corte dei processi comuni, che giudicava i casi tra privati; - la Corte dello scacchiere, che si occupava della giustizia fiscale, amministrativa e

finanziaria; - la Corte del banco del re, che si occupava invece dei casi criminali, civili e feudali e in

cui il re soleva essere presente in prima persona. L’insieme di queste decisioni, adottate dai giudici del re sulla base ovviamente dei writs concessi dalla cancelleria regia, divenne un vero e proprio sistema normativo, tanto da essere in seguito trascritte in appositi registri in lingua latina dando vita ai cosiddetti Reports, la cui

redazione si deve probabilmente a giovani aspiranti avvocati che assistevano ai dibattimenti per istruirsi nelle tecniche del Common law. Glanvill e Bracton

Due opere importanti, scritte da Glanvill e Bracton, permisero di osservare quelle che furono le fasi formative del Commow law. Quella di Glanvill descriveva il sistema dei writs ancora in via di formazione, quella di Bracton invece esponeva con limpidezza le principali regole di un Common law ormai maturo. Le professioni legali

Ai litiganti che facevano ricorso alla giurisdizione regia, si impose con il tempo la necessità d i individuare ed incaricare chi gestisse in loro nome la causa - gli attorneys - che avevano il

potere di rappresentanza processuale della parte da cui erano stati scelti. Ben distinta fu invece un’altra figura con un’altra funzione - i narratores - cui spettava il compito di esporre

in giudizio il caso controverso, che aveva indotto l’attore a rivolgersi al giudice, e che dopo assunsero la qualifica di serjeants, per indicare un rapporto di servizio con il re. Nacquero così due rami della professione legale:

- gli attorneys, rappresentanti della parte (avvocati), - i narratores-serjeants, difensori della parte.

Il narrator dell’attore aveva il compito di esporre il caso con tutti i particolari considerati rilevanti ai fini del giudizio. Il convenuto dal canto suo poteva:

- o negare il fatto esposto dal narrator, - o negarne solo una parte, - o confermarlo aggiungendo però un ulteriore fatto che ne modificava lo svolgimento, - o confermarlo in toto sostenendo però di avere agito in modo conforme alla legge.

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Solo per quest’ultima ipotesi il giudice poteva direttamente sciogliere il nodo della questione e mettere fine al contrasto, mentre per le prime tre ipotesi il contrasto tra la versione dell’attore e quella del convenuto costituiva l’oggetto specifico della pronuncia della giuria. Circa la formazione superiore dei giuristi nel Regno d’Inghilterra si affermò un diverso indirizzo: i giuristi del Common law si formavano presso le corti centrali di giustizia dove giovani giuristi erano incaricati di simulare processi e argomentazioni per imparare le tecniche del diritto, e di annotare le discussioni svolte nei processi (che come abbiamo detto hanno permesso lo sviluppo dei reports). La giuria sia nelle cause civili che penali

Come accennato un fondamentale elemento nella storia del diritto inglese è l’istituto della Giuria popolare, cioè l’affidamento a cittadini non giuristi di un ruolo centrale nella

decisione delle cause giudiziarie. Alla luce di ciò, la giustizia del re permise infatti al convenuto, in una controversia immobiliare, di potere opporsi alla pretesa dell’attore non con la prova del duello giudiziario ma ottenendo le “grandi assise”, ovvero di sottoporre la questione ai 12 cavalieri appartenenti all’esercito del re; precisiamo che i giurati svolgevano i l ruolo di testimoni e non quello di giudici. Nel capo penale la giuria ebbe una inizio differente; innanzitutto per portare davanti al giudice l’autore di un crimine vi erano due modi diversi:

- con l’accusa avanzata dalla vittima del reato o dai suoi familiari; - con la procedura per indictment, cioè attraverso l’interrogazione di un gruppo di

uomini del luogo ai quali i giudici viaggianti della corte regia chiedevano di informarli sui reati che erano stati commessi nel territorio.

Chi fosse stato accusato con l’indictment doveva difendersi mediante il ricorso al duello giudiziario, ma sempre con Enrico II l’accusato poteva chiedere e ottenere la possibilità di difendersi dal suo accusatore ricorrendo alla testimonianza di dodici vicini anziché al duello. Dunque alla fine del ‘200 la giuria era ormai divenuta il modo più diffuso di procedere sia nelle cause civili sia nelle cause penali e anche se il ruolo dei giurati nel processo ribadiamo era un ruolo di testimoni qualificati e non ancora di giudici, assunsero comunque una veste essenziale nel sistema del Common low. La Magna Carta

In un momento di crisi dell’autorità regia, i baroni colsero l’occasione per ottennere il riconoscimento di una vasta serie di diritti e di poteri che trovò espressione nella Magna

Carta. Questo celebre testo oltre a ribadire le libertà della Chiesa e della città di Londra,

riconosceva le prerogative dei Lords nei confronti dei loro sottoposti, liberi e coloni, e in particolare i loro poteri giudiziari. Una parallela evoluzione si verificò nella rappresentanza politica, nel senso che se inizialmente l’Assemblea Generale del regno aveva ancora i caratteri di un’assemblea feudale, composta dai rappresentanti delle contee e ai feudatari diretti del re si aggiunsero i rappresentati delle città e dei borghi e queste tre categorie vennero a far parte del Parlamento attraverso una procedura elettiva e non più per scelta discrezionale dello sheriff. Gli eletti non solo deliberavano congiuntamente nel Parlamento, ma la loro delibera vincolava tutti. Le

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disposizioni approvate dal Parlamento si chiamavano Statuti, mentre quelle che il re approvava nel suo Consiglio ristretto si chiamavano Ordinanze.

L’età moderna ( sec. 16° – 18°)

La transizione dal medioevo all’età moderna non incise in maniera significativa sull’ambito del diritto. L’articolazione dell’ordinamento giuridico su più livelli con il binomio tra diritto comune e diritti particolari e locali, si mantenne ancora saldo così come il vasto patrimonio di dottrine elaborate dai Glossatori e Commentatoti. Una profonda rottura si avrà in Europa solo alla fine del ‘700, con le riforme illuministiche e con le prime moderne codificazioni che segneranno il definitivo tramonto del diritto comune. Tuttavia nei primi anni dell’età moderna si presentarono degli elementi che finirono per designare quest’epoca storica come età dell’assolutismo.

Con tale termine si soleva indicare il potere assoluto del principe e quindi: - da un lato lo svincolo dei poteri sovrani del principe da ogni subordinazione esterna,

sia dalla Chiesa che dalle grandi magistrature, che dal patriziato, ecc.. - dall’altro la titolarità piena dei poteri di giurisdizione, legislazione e di governo nelle

mani del sovrano; nonostante ciò a tale nozione giuridica non corrispose mai un assolutismo effettivo del potere sovrano, perché i contrappesi istituzionali, costituiti appunto dalle grandi magistrature, dal patriziato, dalla Chiesa e dalle residue autonomie di origine medievale, temperarono sostanzialmente l’assolutismo monarchico, anche se l’incidenza di tale potere non può certo essere sottovalutata. In tal contesto infatti ad accentuarsi sempre più fu proprio l’aristocrazia che in breve tempo assunse il monopolio su molte cariche pubbliche e magistrature, divenendo così la protagonista di questa fase storica d’Europa, grazie ai privilegi di ceto riconosciuti. In merito invece al sistema delle fonti del diritto, nell’età moderna divenne molto più complesso, in quanto ai diritti locali di origine medievale e alle dottrine dei dottori di diritto comune si aggiunsero le normazioni dei sovrani e le decisioni della grandi Corti di giustizia. 17. CHIESE E STATI ASSOLUTI Riforma protestante e diritto

La Riforma protestante (movimento religioso che ha interessato la Chiesa cattolica nel 16° secolo e

che ha portato alla nascita del protestantesimo; l'origine del movimento è da attribuire a Martin Lutero ma anche ad altri protagonisti importanti come Giovanni Calvino. Lutero criticava fortemente sia l'organizzazione ecclesiastica perché piuttosto impegnata in obiettivi economici e di potere che spirituali e morali, che il disinteresse dei vescovi e abati dei monasteri verso l'aspetto religioso dell'amministrazione delle diocesi) e la Controriforma (movimento religioso, conseguito alla riforma protestante, all'interno della Chiesa cattolica il cui fine fu quello di ricomporre e migliorare sé stessa riconducendo gli ordini e le cariche ecclesiastici alle loro origini spirituali) del ‘500 ebbero innumerevoli ricadute sul mondo del diritto. Il tema fu comunque sempre riferito ai contrasti che si venivano a creare tra l’elemento temporale e quello spirituale, tra politica e religione,

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tra diritto e teologia, che risultava essere spesso incerto sia nella teoria che nella prassi, e presentava caratteristiche nuove e importanti rispetto all’età medievale. La Riforma protestante diede infatti vita a diverse posizioni teologiche, politiche e giuridiche dalle quali nacquero diverse teorie, come quella della doppia persona del principe,

considerato contemporaneamente signore temporale e religioso per concessione imperiale secondo alcuni, per concessione divina secondo altri. La Chiesa e gli Stati cattolici

La risposta più forte della Chiesa di Roma alla crisi esplosa con la Riforma venne data con il Concilio di Trento (una commissione di cardinali provenienti da tutto il mondo il compito ripudiò

molto chiaramente le posizioni protestanti e altrettanto chiaramente riaffermò i principi del Cattolicesimo medioevale) il quale riunitosi ben 3 volte giunse a definire una serie di questioni religiose che sancirono il distacco della Chiesa dalle posizioni dei protestanti, e stabilì inoltre che le decisioni adottate da quel momento potevano acquistare valore normativo per la Chiesa solo con l’approvazione del Papa. Un capitolo di particolare rilevanza per la storia dei rapporti tra stato e chiesa è ambientato in Spagna e rappresentato dall’Inquisizione spagnola. Con la caduta del regno di Granada, la

monarchia spagnola accentuò la politica di unificazione religiosa del regno tramite il mezzo giudiziario dell’inquisizione, infatti allo scopo di eliminare i residui di eresia furono identificati e condannati tutti quei sudditi che pur dichiarandosi ufficialmente cristiani, di nascosto continuavano ad essere fedeli alla religione islamica o alla religione ebraica. Ma se da un lato l’inquisizione Ssagnola costituì uno strumento religioso di conversione dei musulmani e degli ebrei al cristianesimo, dall’altro fu ancor prima uno strumento politico al servizio del re con il quale intervenire sull’intero territorio soggetto alla corona. E’ infatti certo che il ricorso alla procedura dell’inquisizione fu in alcuni casi per il re solo un pretesto per interventi di repressione giudiziaria, motivata da ragioni politiche. Alla luce di ciò le procedure inquisitorie spagnole indussero il Papa a ristrutturare l’Inquisizione Romana (l'istituzione ecclesiastica fondata dalla Chiesa cattolica per indagare e punire, i sostenitori di teorie contrarie all'ortodossia cattolica) con la costituzione del Santo

Uffizio, che divenne strumento principale per la tutela dell’ortodossia cattolica (insieme degli insegnamenti ufficiali della Chiesa cattolica romana). Chiaramente la spinta riformatrice della Chiesa del Concilio di Trento si scontrò inevitabilmente con l’espansione dei poteri delle monarchie assolute, in una fase storica nella quale gli stati miravano ad acquistare il controllo del territorio, delle funzioni pubbliche, della giustizia, ecc. In Francia invece il rapporto tra Stato e Chiesa assunse connotati particolari. Il re Carlo VII con la Prammatica Sanzione aveva limitato i diritti del Papa sulla Chiesa di Francia

affermando la superiorità del concilio ecumenico rispetto all’autorità pontificia. Anche con Luigi XIV nacquero ulteriori contrasti, in particolare quando egli confermò l’assoluta sovranità del re di Francia (quindi la sua), l’inesistenza di ogni diritto papale e la piena fedeltà del clero alla monarchia. Solo la ferma opposizione di Papa Innocenzo XI, che si rifiutò di nominare i vescovi proposti dal re lasciando temporaneamente vacanti molte diocesi, indusse Luigi XIV a ricercare un accordo con Roma e ad apportare delle modifiche alle sue convinzioni.

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Teorie della sovranità

La scelta di una forma istituzionale (come la monarchia o la repubblica) va valutata per la sua stabilità e non in base a criteri di giustizia. Tutte le istituzioni, secondo Machiavelli, seguono un ritmo ciclico tipico degli esseri umani in cui nascita, gioventù, maturità, decadenza e morte si susseguono inesorabili. Niccolò Machiavelli nella sua opera: Il Principe del 1516 (è un complesso di considerazioni su come debba essere la figura di colui che gestisce e difende uno Stato; il principe ideale doveva essere un uomo nobile, onesto, intelligente, ecc. ma anche pronto a rinnegare tutti questi principi di onestà, moralità e nobiltà, senza paura di sporcarsi le mani, di macchiarsi di atrocità e scorrettezze, affinché i programmi e gli scopi politici vengano seguiti e realizzati), sostenne che la politica fosse fondata sulle nozioni di:

- virtù, ovvero la capacità di intuire le opportunità del momento, attraverso qualità

come la razionalità, il coraggio, la prontezza, ecc. In politica chi è insicuro e indeciso finisce travolto dagli eventi, mentre chi ha qualità e pregi (virtù appunto) sa prendere decisioni tempestive, mutando gli atteggiamenti non appena le circostanze lo richiedano; occorreranno a tale scopo astuzia, agilità, prudenza e giustizia. Al principe perciò, converrà essere temuto per conservare il potere più che essere amato e giusto;

- fortuna, ovvero l'insieme degli eventi non prevedibili e non determinabili dalla nostra

volontà; - necessità, ovvero i condizionamenti imposti dalle situazioni e circostanze reali che

vanno portate a proprio favore. Secondo Machiavelli il titolo per la legittimazione del potere era il possesso di fatto dello stesso, sostenendo inoltre che qualora un sovrano avesse deciso di attenersi solamente ai supremi principi del bene, evitando ogni guerra e ogni spargimento di sangue presto la conseguenza sarebbe stata la caduta in rovina, mentre più abile era quel sovrano che avrebbe imparato a considerare vizi e virtù come semplici mezzi per perseguire uno scopo: quello di mantenere il potere più saldamente possibile anche se ciò comportava scelte crudeli, ma necessarie. Da qui l’origine del concetto di ragion di stato, ovvero il criterio per l’individuazione delle

linee d’azione necessarie o vantaggiose per il mantenimento o l’accrescimento del potere dello stato nel contesto dei rapporti interni ed internazionali. Jean Bodin definì la sovranità come un potere assoluto, nel senso che il sovrano non obbedisce ad alcuna autorità e può liberamente legiferare e abrogar le leggi, e indivisibile,

nel senso che spetta solamente ad una sola persona: il principe. Nonostante tale fermezza e convinzione anche le teorie ispirate all’idea dell’asso lutismo contemplavano una serie di limiti al potere del sovrano, potendone distinguere tre tipologie cui si richiamarono le diverse teorie:

- limiti derivanti dai precetti etici e religiosi; - limiti derivanti dalla presenza di altre funzioni e altri organi all’interno dello stato,

(teoria della separazione e dell’equilibrio dei poteri che sarà teorizzata da Locke e più tardi da Montesquieu);

- limiti derivanti dai principi democratici.

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I poteri del re

Nonostante tali limiti, i poteri del re risultavano essere comunque parecchi: - il re svolgeva la funzione di legislatore emanando norme generali, spesso senza previa

consultazione; - il re concedeva privilegi anche in deroga alle leggi e alle consuetudini; - il re nominava e revocava liberamente ministri, funzionari centrali e locali; - il re aveva il comando assoluto dell’esercito e delle operazioni militari; - il re era libero di dichiarare la guerra e concludere i trattati internazionali; - il re determinava l’entità dei prelievi fiscali; - il re avocava a sé qualsiasi decisione giudiziaria; - il re assumeva provvedimenti in tema di libertà personale, esercitava il potere di grazia

o di commutazione delle pene; - il re designava i candidati alle sedi episcopali vacanti.

Nel Regno di Germania la figura e i poteri del re avevano invece caratteri assai diversi; egli una volta scelto ed eletto se da un lato acquisiva il titolo regio e il diritto alla carica di imperatore, dall’altro doveva seriamente impegnarsi ad osservare una serie di regole e di limiti che erano il frutto di trattative con il collegio che lo nominava e con gli altri prìncipi del regno; in questo modo i poteri che il sovrano poteva effettivamente esercitare in modo autonomo si ridussero considerevolmente. Le differenze erano dunque nette rispetto al regno di Francia e il lungo regno di Luigi XIV segnò indubbiamente l’apogeo della potenza regia in Europa. Assemblee rappresentative

La tradizione medievale aveva trasmesso alla Spagna la creazione di assemblee chiamate Cortes, composte da esponenti della nobiltà, del clero, delle città e a cui spettavano le funzioni di approvare le leggi, proporre risoluzioni su questioni aperte, ecc.. Anche in Germania vi furono queste assemblee, composte da ceti, ovvero dai rappresentanti della nobiltà maggiore e minore, dei prelati, delle città.. a cui spettava il compito di cooperare con il proprio voto all’approvazione e all’interpretazione delle leggi imperiali, di deliberare sui nuovi tributi, di decidere sulla guerra, sulle alleanze e sui trattai di pace. In Inghilterra il Parlamento inglese del ‘500 ereditava dal medioevo la struttura bicamerale in cui alla Camera dei Lord, si affiancava la Camera dei Comuni. Durante la monarchia dei Tudor e in particolare durante il regno di Elisabetta il Parlamento acquistò il privilegio di libertà di parola e l’immunità dall’arresto dei propri membri, mentre la sua funzione legislativa rimaneva essenzialmente quella di votare positivamente o negativamente i progetti di legge, pur mantenendo il re il potere di introdurre emendamenti anche senza sottoporli nuovamente al voto delle due Camere e il potere di convocare e scioglierlo in qualsiasi momento, condizionandone così il ruolo e il peso. Al superamento di queste limitazioni si giunse solo alla fine del ‘600, al termine di una lunga serie di lotte e contrasti tra la monarchia degli Stuart e il Parlamento stesso, quando con voto quasi unanime riuscì ad approvare una serie di proposte di leggi che modificarono per

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sempre e in profondità il rapporto con la monarchia. Infine fu solo con la definitiva rimozione degli Stuart, che il Parlamento ottenne il riconoscimento esplicito e decisivo di alcune prerogative fondamentali, in gran parte contenute nella Carta dei diritti (Bill of Right) del 1689. Riconoscimento non solo nei confronti delle pretese legislative del re ma anche nei confronti dei giudici di Common law. Fu dunque da questo momento che si instaurò in Inghilterra il regime di effettiva distinzione tra il potere legislativo, il potere esecutivo e i l potere giudiziario, esattamente come aveva teorizzato in quegli stessi anni Locke; passaggio di particolare rilevanza che segnò il superamento dell’assolutismo e costituì la base del moderno costituzionalismo. L’ordine internazionale

La nascita dello stato moderno e la scoperta del nuovo mondo segnarono una radicale trasformazione delle relazioni internazionali e delle correlate dottrine giuridiche. La guerra tra Stati era da considerare “giusta” non già sulla base di una giusta causa, ma semplicemente in considerazione della natura del nemico, visto che una guerra tra Stati contrapponeva due giusti nemici. In questo senso la pace di Westfalia del 1648, che pose fine alle guerre di religione segnò una tappa importante per la storia del diritto internazionale. 18. LA SCUOLA CULTA

Umanesimo giuridico

Un nuovo indirizzo della dottrina giuridica dell’età moderna fu quello della Scuola Culta, un

filone della cultura dell’umanesimo, fiorita nel ‘400, che prestava attenzione alla riscoperta di testi antichi sia greci che romani, all’arte, alla cultura letteraria, alla poesia del mondo antico, con uno spirito però del tutto nuovo e lontano ma soprattutto libero delle interpretazioni e delle dottrine delle scuole medievali. Il metodo dei Culti ed Alciato

Tra i tanti Andrea Alciato è da considerare il vero fondatore della Scuola Culta in quanto un

giurista completo, sia teorico che pratico, capace di interpretare i passi più complessi della compilazione giustinianea ma anche di redigere apprezzati pareri legali. La caratteristica della sua opera (le Adnotationes), come di altre che ne succedettero, era costituita dal duplice criterio:

- metodo filologico, per ricercare la formulazione originaria dei testi studiati, senza

l’utilizzo di glosse o commenti; - metodo storico, per poi analizzarne il significato alla luce delle fonti greche e latine, nel

contesto della società e della cultura del tempo; In tal modo un passo di Ulpiano o di Papiniano non soltanto poteva essere depurato, con il metodo filologico, dalle aggiunte o dalle alterazioni apportate dai giuristi giustinianei, ma poteva essere interpretato e compreso, con il metodo storico, nel suo contesto originario. I Culti, a cominciare da Alciato, fecero ricorso alle fonti antiche, giuridiche e non giuridiche, utilizzando un latino classico per esaltare il loro gusto per l’eleganza, ben lontano dal latino scolastico medievale che disprezzavano e respinsero.

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Un altro tra i più importanti giuristi culti fu Erasmo da Rotterdam, grande filosofo e

umanista il quale affermò che la ricostruzione di un testo antico poteva realizzarsi con la comparazione delle fonti coeve e con la ricerca del significato dei testi, senza necessariamente farsi condizionare da interpretazioni autorevoli da secoli accettate. L’atteggiamento mentale e culturale degli umanisti, propensi all’indagine e all’interpretazione di prima mano delle fonti (senza cioè basarsi sulle somme precedentemente elaborate dai giuristi medievali) influenzò la cultura religiosa cattolica, ma anche la cultura religiosa delle correnti protestanti, come quella di Lutero o Calvino. L’indirizzo storico-filologico

Accanto al metodo filologico e storico si affiancarono: - un indirizzo metodologico e

- un indirizzo critico nei confronti del sistema giuridico coevo/corrente.

Il primo consistente nella ricerca di nuovi testi giuridici antichi che però fu piuttosto deludente e non portò alla riscoperta di grandi opere come quella delle Istituzioni di Gaio che riemergerà solo nell’800. Tuttavia opere come le Pauli Sententiae o l’Editto di Teodorico, furono riscoperti da Pierre Pithou e altri umanisti. Proprio Quest’ultimo fu uno degli esponenti di massimo rilievo. Inoltre fu molto significativo il fatto che l’impostazione filologica e storicistica dei Culti non rimase confinata solo allo studio critico delle fonti giuridiche dell’antichità , ma si estese ad altre fonti e ad altre fasi della storia.

L’indirizzo critico

In merito invece all’indirizzo critico, la cura con la quale i Culti vollero ricostruire il conte nuto originario e il significato autentico dei testi giuridici classici, da loro assai ammirati li condusse a considerare le fonti contenute nel Corpus iuris come dei veri e propri monumenti della cultura antica, al pari dei testi letterari, storici e poetici. Ma questo non implicava a priori alcuna convinzione sulla validità reale e universale della normativa romana né alcuna aprioristica adesione ad esse. Gli autori classici infatti non suscitavano in loro alcuna subordinazione acritica (ovvero condivisa passivamente senza esprimere alcun parere, senza discussione), tanto da svilupparsi in tal contesto orientamenti come lo scetticismo (cinismo indifferenza), lo stoicismo (freddezza, distacco), ecc.. Dunque i culti si svincolarono dal principio di autorità non solo nei confronti delle interpretazioni tradizionali, ma anche nei confronti degli stessi autori antichi, ammirati ma non per questo ritenuti indiscutibili nelle loro posizioni. Si spiega allora perché proprio alcuni degli esponenti maggiori della Scuola abbiano espressamente dichiarato inaccettabile il criterio di adottare senza discussione la normativa giustinianea perché si dichiarava assurdo ritenere universalmente valide quelle leggi romane che tante volte si erano modificate nel corso dell’età antica e non più adeguate ai nuovi tempi. Quindi nel momento stesso in cui la compilazione giustinianea veniva scomposta distinguendo la disciplina del diritto classico da quella del diritto postclassico, l’unità del sistema del Corpus iuris veniva messa in discussione, se non addirittura potenzialmente infranta.

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L’indirizzo sistematico

Nella Scuola Culta conviveva anche un indirizzo sistematico, collegato alla valorizzazione

delle scienze umane diverse dal diritto, a cominciare dalla filosofia, considerata dai Culti non solo utile ma necessaria al giurista. In riferimento al Corpus l’indirizzo sistematico adottato da alcuni esponenti della Scuola Culta intendeva rispondere essenzialmente a finalità di chiarezza analitica ed espositiva per rendere più preciso, sicuro ed agevole l’apprendimento della complessità normativa del Corpus stesso. L’indirizzo teorico

Vi fu infine un ulteriore indirizzo, quello teorico che portò chiaramente a sottolineare il legame tra la norma giuridica e la natura, sia delle cose che dell’uomo. Il filone teorizzante della Scuola Culta, come già detto, partiva dalla classificazione classica di “persone, cose e azioni”, ma si fondava su premesse teoriche diverse da quelle dei giuristi classici e se per Gaio le cose e le persone erano anzitutto fatti nell’impostazione dei teorici erano invece categorie e concetti. 19. PRATICI E PROFESSORI I giuristi del “mos italicus”

Il metodo introdotto dai giuristi della Scuola Culta non raccolse molti consensi generali nel mondo degli esperti di diritto, generando come conseguenza una serie i reciproche accuse e critiche tra culti/umanisti da un lato e tradizionalisti dall’altro. Tra i giuristi culti, che no n risparmiarono aspre critiche allo stile e alla sostanza del metodo tradizionale, il più acerbo rimprovero provenne da Cuiacio nei confronti dei Commentatori, accusati di essere ripetitivi su punti di scarso rilievo ed evasivi invece sulle questioni più delicate. Cuiacio, ricordiamo, fu autore di profonde indagini, sull’opera di giuristi classici come Papiniano, ricostruite collocando frammenti del Digesto nell’ordine originario da cui erano stati rimossi per meglio individuare e comprenderne il significato; furono così molte le alterazioni che rilevò e stesso criterio lo applicò ad altri testi tardo-antichi come il Codice Teodosiano e i Libri Feudorum medievali; l’obiettivo fondamentale dei suoi studi scientifici fu infatti quello di restituire al le fonti del diritto romano classico la loro originaria integrità, manipolata ed alterata dai compilatori giustinianei. A loro volta tra i tradizionalisti, che non furono da meno, il Mofa senza negare il fondamento delle molte rettifiche proposte dai culti, difese il metodo didattico tradizionale dei Commentatori che suddivideva in tante fasi distinte l’esame di ogni frammento della Compilazione; anche Alberico Gentili contestava l’utilità del metodo umanistico per la concretezza del diritto, nel senso che se il compito principale del giurista, teorico e pratico, consisteva nell’impostazione corretta del ragionamento, tale da consentire l’inquadramento di un caso civile o penale entro un certo tessuto normativo, allora l’approccio filologico e storico dei culti era superfluo se non addirittura dannoso perché non permetteva né di difendere né di decidere nella maniera migliore una causa, a differenza

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invece dell’aiuto che potevano offrire i commentari, i consilia, ecc. indispensabili per chi operava nel mondo del diritto. Questo profondo contrasto di metodo si tradusse nella formula che contrapponeva il mos

italicus al mos gallicus, ovvero il metodo italico tradizionale di insegnare diritto delle

maggiori università italiane (detto anche bartolistico, in quanto riferito a Bartolo, quale esponente di spicco della Scuola del Commento) al metodo didattico della Scuola dei Culti. Tuttavia, nonostante la mancanza di consensi generali e le conseguenti critiche, sarebbe erroneo ritenere che la dottrina e il metodo dei Culti siano stati ignorati in Italia, anzi ne furono presi parecchi spunti per arricchire sempre di più il bagaglio giuridico ereditato dal mondo antico. Enorme sviluppo conobbero invece nell’età moderna i Trattati, cioè le monografie (saggi,

studi specifici..) giuridiche dedicate a singole sezioni del diritto o a singoli istituti di esso. Le raccolte di decisioni e trattati costituirono poi la nascita di vere e proprie enciclopedie, infatti la più grande enciclopedia giuridica venne pubblicata a Venezia nel 1584 con il titolo di Tractatus Universi Iuris che riprodusse, in 30 grandi volumi, centinaia di trattati in grado di

comprendere ampi settori come quello del diritto pubblico, penale, processuale, civile, commerciale. Agli autori dei trattati si attribuì così la qualifica di Pratici (o Pragmatici); e tra le opere più

citate ricordiamo il trattato processualistico De Ordine Iudiciorum di Roberto Maranta, e l’opera di Domenico Toschi con le Practicae Conclusiones, largamente utilizzata. Il diritto penale

Particolare importanza ebbe anche lo sviluppo della dottrina sul diritto penale, una materia che i Glossatori e i Commentatori avevano solo occasionalmente approfondito, anche perché lo spazio ad esso riservato nella compilazione giustinianea era alquanto ridotto. Lo Stato moderno, in fase di formazione, rafforzò i poteri punitivi nelle mani dei monarchi, mentre l’applicazione e la repressione concreta venne assunta ed esercitata dalle magistrature del re, lasciando comunque al sovrano o alle grandi magistrature larghi poteri di grazia. Anche in tale ambito furono molte le opere scritte di esposizione della materia penale e processuale al fine di dare adeguata e maggiore chiarezza. Il diritto commerciale

Non meno rilevante fu in questi secoli lo sviluppo della dottrina del diritto commerciale, nato nelle città medievali in forma di consuetudine, alla fine del ‘300 aveva attirato l’attenzione di alcuni esponenti del Commento a cominciare da Baldo degli Ubaldi. Ma solo a partire dal ‘500 lo Ius Mercatorum venne affrontato in forma sistematica/organizzata/ordinata. Per primo l’avvocato Bartolomeo Stracca raccolse in un trattato un vasto insieme di questioni relative ai mercanti, al loro status, alle obbligazioni. In Francia una salda struttura legislativa sulla materia commerciale era avvenuta con le due Ordonnances di Luigi XIV sul commercio e sulla marina, di cui diremo più avanti. La scuola di Salamanca, in Spagna

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Come già era avvenuto per la città di Bologna e per Orleans anche Salamanca divenne una sede universitaria all’avanguardia e privilegiata da studiosi del diritto. Ciò che la caratterizzava era il profilo teologico, in quanto i professori che in essa insegnavano non erano di diritto ma di teologia. Essi scelsero di porre al centro dei loro insegnamenti alcuni aspetti centrali della problematica giuridica, come quelli:

- della giustizia, - del diritto naturale, - del diritto divino, - dei poteri del principe e dei suoi limiti, - specifici istituti dell’ordinamento normativo ad es. proprietà, successioni, usura.

Conoscitori ed esperti non solo della teologia ma anche del diritto romano e del diritto del loro tempo, miravano ad analizzare le corrispondenze delle norme romane con quelle del diritto divino e naturale. In ciò stava la novità della loro impostazione, in quanto i maestri di Salamanca scesero nei particolari della disciplina normativa in misura assai più esaustiva e sistematica e proposero di delineare confini precisi entro i quali le proposizioni del Corpus iuris dovevano ritenersi valide, perché conformi a principi e a valori di livello superiore naturale e divino, e dove invece non lo erano. Il teologo che forse esercitò maggiore influenza fu Suarez, il quale volle costruire una dottrina del diritto e della società che consentisse di giustificare le istituzioni e le norme del diritto naturale anche mediante il ricorso ai criteri della ragione e non solo sulla base della Rivelazione. Ciò che deve essere posto in particolare rilievo a proposito della Scuola di Salamanca è dunque il criterio di avvicinare e analizzare le questioni giuridiche, anche nei particolari relativi ai singoli istituti e contratti, sulla base sì del diritto romano che essi ben conoscevano, ma anche con l’analisi dei valori e dei principi della teologia. Per la prima volta, dopo secoli di esegesi e di indagini, le norme dei giuristi romani venivano così valutate con un metro esterno ad esse, che poteva condurre anche al loro rifiuto per l’eventuale loro discrepanza rispetto ai precetti interni e immutabili della rivelazione. La scuola elegante olandese

L’università di Leida fu celebre per un metodo di insegnamento che affiancava alle lezioni corsi ulteriori – collegia – tenuti dai docenti sino a divenire un punto di riferimento della cultura giuridica non solo per i Paesi Bassi ma per l’Europa. All’insegnamento di alcuni maestri dell’università dei Paesi Bassi si suole dare il nome di giurisprudenza elegante che ne

indica appunto lo stile preciso e conciso, tipico dei Culti. L’impostazione dei professori della scuola elegante olandese si riallacciava infatti a quella dei Culti ma il filone specifico era quello storico-filologico di Cuiacio. “Usus modernus Pandectarum”

Sempre a Leida, Arnold Vinnen fu autore di un Commentario alle Istituzioni del Corpus che ebbe vastissima diffusione in Europa. In tale opera l’impostazione culta dedicata allo studio delle Istituzioni si coniuga con l’attenzione per il diritto locale e per le consuetudini. Da qui dunque l’analisi testuale di ascendenza culta e l’attenzione per la giurisprudenza locale si intrecciarono in modo vario e questo indirizzo teorico-pratico prese il nome di Usus

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modernus Pandectarum, un approccio distinto da quello della giurisprudenza elegante, che

mirava a coniugare le fonti giustinianee con le necessità correnti della pratica e che per questo rifiutava le ricostruzioni testuali dotte dei giuristi per privilegiare invece le regole coerenti e precise, ancorate al testo legale antico. Un aspetto essenziale dell’usus modernus fu quello di valorizzare la tradizione germanica, non solo nella sua dimensione attuale ma nelle sue radici medievali e consuetudinarie. Nonostante alcuni elementi comuni, i metodi più usati dai giuristi della giurisprudenza elegante olandese e dai maestri dell’usus modernus fu dunque notevole. I primi ritenevano che senza gli strumenti della filologia e della storia non fosse possibile comprendere neppure i profili giuridici delle norme dei testi romani; invece gli autori dell’Usus modernus Pandectarum limitavano il ricorso allo studio filologico dei testi antichi perché miravano a conservare nella sua integrità il Corpus giustinianeo, che però integrarono con i diritti locali e con le consuetudini. Giovanni Battista De Luca In Italia, Giovanni Battista De Luca fu il più importante giurista italiano del ‘600. La sua opera più importante: Theatrum veritatis ac iustitiae era un complesso di migliaia di casi,

prevalentemente vertenti su questioni legate ai contratti, ai feudi, ai testamenti e ai fedecommessi, lo Stato Pontificio. Ciò che colpì di tale opera e dell’autore fu la limpidezza delle argomentazioni e la sua impostazione diretta a non assumere superficialmente una massima legale, per quanto sostenuta dalla dottrina, ma a valutare l’applicabilità dell’una o dell’altra opinione alla luce della specificità del caso singolo. Ciò perché fondamentalmente disprezzava l’inutile sfoggio di citazioni che era frequente nei pratici del su o tempo, privilegiando invece la vera natura di un rapporto giuridico in discussione. Molto importante fu infine la sua iniziativa di pubblicare una stesura della sua opera principale, in italiano, anche al di fuori dell’ambito forense, in un linguaggio più contenuto e familiare così da potersi porre anche al servizio di chi non fosse giurista di professione. 20. DOTTRINA GIURIDICA E PROFESSIONI LEGALI Ruolo della dottrina e stampa giuridica

Il diritto romano-comune, ormai da secoli oggetto di brillanti interpretazioni ed elaborazioni giuridiche rappresentato dal Corpus Iuris, continuava a rappresentare la principale fonte del diritto con il conseguente successo dei giuristi di professione formatisi sui testi del diritto romano-comune. Dalla fine del ‘400 si ebbe però una svolta decisiva grazie ad un’importante evoluzione tecnologica: la stampa, con la quale fu finalmente possibile diffondere centinaia di copie di

opere e testi giuridici riducendone notevolmente i tempi e i costi, visto che prima l’unico metodo di sopravvivenza e trasmissione delle opere e dei testi era rappresentato dall’attività degli amanuensi, che armati si sana pazienza, le trascrivevano e copiavano a mano. Se la stampa da un lato rappresentò un’importante passo avanti garantendo a tutti i giuristi, anche quelli meno facoltosi, la possibilità di avere a disposizione una vera e propria biblioteca

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giuridica da consultare e applicare nel proprio lavoro (ricordiamo che prima non tutti potevano permettersi l’acquisto del Corpus Iuris glossato e operavano solamente con i preziosi appunti presi a lezione durante la formazione universitaria), dall’altro questa accresciuta disponibilità di testi giuridici determinò conseguenze negative per la certezza del diritto. Grazie infatti alla maggiore disponibilità di testi e di interpretazioni giuridiche, l’avvocato poteva attingere ad un ventaglio di opinioni molto più ampio e spaziare così le proprie argomentazioni davanti al giudice, il quale si ritrovava a decidere proprio sulla base di quelle interpretazione più o meno estensive, più o meno lontane dalla lettera o testo originale, e quindi ad allontanarsi dal reale significato e contenuto specifico della norma. Communis opinion doctorum

Quanto detto apriva dunque ai giudici, chiamati a decidere sulle allegazioni degli avvocati, un margine altrettanto ampio di discrezionalità, facendone le spese proprio la certezza del diritto che come sappiamo è un valore essenziale e fondamentale che nessun ordinamento può trascurare e prescindere oltre una certa misura. Per ovviare al problema e ai conseguenti rischi, si individuarono due vie alternative molto diverse tra loro ma convergenti nel fine:

- la communis opinio doctorum, che permetteva di identificare determinate questioni di

diritto sulle quali una pluralità di giuristi, appositamente riuniti, doveva pronunciarsi per individuare tra le tante soluzioni quella più adeguata; qualora si fosse raggiunto o riscontrato l’accordo di tutti o della maggioranza, su quella specifica soluzione di quella determinata questione, allora si affermava che su quella soluzione esisteva un’opinione comune - communis opinio. E ad essa i giudici dovevano

conseguentemente adeguarsi . La vincolatività di queste opinioni comuni, per i giudici, inizialmente non fu imposta per legge, bensì nei fatti e nella prassi, ciò perché né gli avvocati né i giudici erano obbligati a rispettarla e ad applicarla. La tendenza fu però quella di esserlo indirettamente per il rischio di responsabilità per colpa in cui incorreva il giudice se avesse deciso di optare per un’altra decisione/soluzione e nel farlo avesse commesso un errore di diritto; responsabilità che invece era a priori esclusa se avesse rispettato la communis opinio. Tale aspetto non ne determinò però un carattere immutabile, potendo essere ad un certo momento, per eventuali cambiamenti della società, non più di opinione comune, anzi di minor rilievo.

- il peso crescente esercitato dalla giurisprudenza delle grandi magistrature.

Professioni legali: la formazione e l'accesso

La formazione universitaria, anche nell’età moderna, continuò a rappresentare il titolo essenziale per l’accesso alle professioni legali e lo studio necessario fu sempre quello concernente il diritto romano e il Corpus iuris civilis. I modi dell’insegnamento non e rano uniformi, perché vi erano alcune facoltà e professori aderenti al metodo scolastico del tardo commento - mos italicus, mentre altri aderenti alla scuola dei culti - mos gaillicus. La formazione giuridica rimaneva dunque il principale canale di ascesa sociale, non solo i termini di prestigio ma anche di redditività. Proprio riguardo all’accesso alle professioni

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legali, soprattutto in Francia, il sistema della venalità degli uffici (ovvero la vendita degli uffici a chi offriva di più), consentiva alla monarchia di acquisire ingenti risorse in denaro, anche se comunque esigeva almeno per l'accesso alle magistrature più importanti, i1 possesso di una solida formazione legale. Si realizzava così la cosiddetta ereditarietà dell’ufficio, ovvero che più generazioni di giuristi di una stessa famiglia potevano avere una comune e permanente carriera di successo (sborsando puntualmente consistenti somme di denaro) ponendo finalmente un freno all’accesso per appartenenza alle classi nobiliari e patrizie. Avvocati, procuratori; causidici

In merito alle professioni legali, fondamentale era la distinzione tra avvocati (dottori in legge

che rappresentano, assistono e difendono i propri clienti in giudizio, dinnanzi al giudice per la risoluzione di una controversia) e procuratori (rappresentanti, tramite procura, di una

persona fisica o giuridica, in un giudizio, in un contratto, ecc. che non difendono, il proprio rappresentato ma lo sostituiscono come parte attiva o passiva). In Italia l’organizzazione delle professioni legali era suddivisa per livelli al cui vertice della scala stavano:

i giureconsulti appartenenti al patriziato; poi gli avvocati non appartenenti all’elite patrizia; al di sotto ancora i causidici e i sollecitatori, operatori di minor rilievo; alla fine i turba, ovvero collaboratori e ausiliari delle categorie superiori. I notai invece ebbero e mantennero una struttura e una formazione diversa e a sé rispetto a giudici e avvocati.

- Anche in Francia era presente la bipartizione tra i due ordini principali di avvocati e procuratori. Tra gli avvocati l’ordine di Parigi fu quello che si dotò di una propria organizzazione e che si rese quasi indipendente dallo stato e aveva poteri decisivi sull’ammissione ed esclusione dall'albo. I procuratori invece erano nominati dal re.

- In Germania avvocati e procuratori avevano distinte funzioni: l'avvocatura costituiva lo stadio iniziale della professione legale, visto che portava poi a conseguire anche il titolo e le funzioni di procuratore.

- In Inghilterra invece si era soliti distinguere tra sollecitatori e difensori. Un aspetto degno di attenzione fu lo stretto intreccio tra funzione di difesa, di consulenza e di giudizio tra giudici e avvocati. Come sappiamo i giudici erano soliti scegliere dei giurisperiti a cui affidare il compito di redigere il consilium sapientis, che il magistrato poi si limitava a

trasformare semplicemente in sentenza. La prassi di richiedere un parere alle facoltà legali fu consistente soprattutto in Germania, in quanto non soltanto le corti, ma anche una delle parti in giudizio poteva richiedere un consilium, talvolta per decidere se intraprendere o meno una causa, altre volte per precostituirsi un orientamento favorevole in caso di contenzioso. Prassi questa che nell'età moderna determinò la tendenza a scegliere coloro che avrebbero ricoperto le più importanti cariche giudiziarie, attingendo ai membri del Collegio dei giureconsulti, che aveva a sua volta ereditato le funzioni dell'antico Collegio dei giudici.

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21. LA GIURISPRUDENZA

Corti sovrane e Rote

La seconda via alternativa per ovviare alle conseguenze negative della diffusione di opere a mezzo stampa, ovvero per ovviare al problema dell’incertezza del diritto, fu quella prestata dalla giurisprudenza delle grandi magistrature. Nei secoli dell’età moderna la giurisprudenza assunse infatti sempre più importanza tra le fonti del diritto; si fa riferimento alle pronunce e ai giudicati delle Tribunali Supremi di ogni Stato, che presero il nome di Corti supreme e le

cui competenze e decisioni erano di ultima istanza, cioè non erano subordinabili né rovesciabili da nessun altra magistratura, nemmeno dal monarca. Ogni Stato ebbe infatti la sua Corte o le sue Corti Supreme e ciascuna ebbe caratteri e competenze specifiche. In Italia ad esempio ci furono:

- il Sacro Real Consiglio di Napoli; - il Senato milanese; - i Senati di Piemonte e di Savoia; - la Rota romana, quale tribunale ecclesiastico per l'intera cristianità cattolica; - le Rote, nuovi tribunali superiori.

In Francia invece il Parlamento di Parigi fu ristrutturato come Corte di giustizia suprema della monarchia, col tempo si aggiunsero anche altre Corti supreme le ci decisioni erano

definitive e insindacabili. In Germania troviamo due tribunali supremi:

- il Tribunale imperiale di corte, presieduto dallo stesso imperatore. Successivamente

venne riformato e strutturato da giudici formati nelle università e dunque sui testi del diritto romano;

- il Tribunale camerale, competente quale corte di ultima istanza per gli appelli

presentati contro le sentenze civili dei giudici locali. Nei Paesi Bassi vi fu infine l'istituzione del Gran Consiglio di Malines.

Giudici, competenze e procedure delle Corti

Tra le diverse Corti supreme menzionate non vi era alcuna uniformità di disciplina, né di poteri né di procedure. Tuttavia vi erano degli elementi comuni:

- l’accrescimento dei poteri sovrani, realizzato in gran parte attraverso lo strumento

delle giurisdizioni regie; - le competenze delle Corti, che non conoscevano la moderna tripartizione dei poteri,

per cui esse esercitavano anche funzioni di natura legislativa. In diversi Stati, come in Francia, le leggi volute dal re non entravano in vigore se non dopo essere state registrate dal Parlamento o dal Senato;

- il valore di legge degli ordini emanati direttamente dalle Corti, aveva efficacia

generale e non limitata al caso singolo; - le funzioni anche esecutive delle Corti supreme, in quanto ai giudici della Corte

erano spesso affidati compiti di governo di città o di comunità locali.

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Tuttavia il compito primario e ovviamente comune a tutte le Corti supreme risiedeva nell’esercizio della giurisdizione. Tale giurisdizione delle Corti poteva talvolta essere:

- esclusiva, quando bisognava giudicare su materie di particolare rilevanza politica; - di ultima istanza per le cause civili di maggior rilievo; - dotata del potere di avocazione, cioè decidere la Corte a sua discrezione di prendere

direttamente in carico una causa sottraendola al tribunale competente di primo o di secondo grado.

Ad ogni modo, al di là degli aspetti comuni o diversi, la composizione delle Corti era normalmente scelta dal sovrano, che sceglieva i magistrati secondo procedure differenziate, o in via esclusiva e personale o entro una rosa di nomi proposti dalla Corte stessa. Il sistema della venalità delle cariche consentiva a candidati appartenenti a famiglie provviste di risorse in denaro di competere per le prestigiose cariche nelle massime magistrature e l’ereditarietà riconosciuta permise spesso la trasmissione dell’ufficio all’interno della stessa famiglia. Inoltre i componenti delle Corti sovrane erano per lo più nominati vita, cosa che consentiva ai membri del collegio un'autonomia sostanziale persino di fronte al potere monarchico, che a questo punto espressione di un potere assoluto lo era solo in teoria. Anche in merito ai modi di procedere delle Corti, vi erano diverse alternative:

- la Rota romana praticò un metodo che prevedeva la redazione scritta di uno schema di decisione: decisio con argomentazioni in fatto e in diritto, fondata sulle allegazioni di parte e basata sull’esplicazione dei punti controversi della questione: dubia. Dopo aver

sottoposto al collegio degli uditori il caso e averne raccolto disgiuntamente il voto,il testo della decisio veniva sottoposto alle parti in causa per possibil i controdeduzioni ed eventualmente riformulato. Solo a questo punto veniva emessa la vera e propria sentenza, limitata al dispositivo;

- le Rote, sulla scia del modello della Rota romana, applicarono il requisito della motivazione non allo schema di decisione preliminare-decisio ma direttamente alla sentenza;

- il Senato milanese e altre Corti sovrane di alto prestigio giudicavano senza dover motivare.

In ogni caso in riferimento alle decisioni da adottare, la discrezionalità delle Corti fu maggiore o minore a seconda dei casi; ad esempio il Parlamento di Parigi e le altre corti sovrane del regno di Francia nell’emanare i loro giudizi potevano ampiamente discostarsi dal rigore della legge in quanto si consideravano, come il sovrano, sciolti dall'osservanza della legge. Anche il Senato milanese era abilitato dalla legge a giudicare secondo coscienza, secondo equità e considerando soltanto la verità dei fatti , potendo addirittura contrastare con il diritto comune o con gli statuti. Insomma tutto ciò stava a significare che sostanzialmente la Corte suprema poteva decidere anche al di là di ciò che le parti avevano richiesto nella domanda di giudizio, prescindendo persino dal diritto positivo e decidendo la qualità e la quantità della pena in base ad una propria libera valutazione dei fatti addotti in giudizio. Dunque un potere e un sistema penale definito arbitrium/arbitrale differente da quello

tradizionale dell’antico regime, dove i giudici erano tenuti a giudicare su prove legali; seguire regole predeterminate, in parte fissate nelle leggi romane, in parte in quelle canoniche e in

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parte messe a punto dalla dottrina. Erano in sostanza modi di giudicare completamente diversi. Raccolte di decisioni

In Francia ma anche in Italia, giudici e giuristi di spicco iniziarono a selezionare e talvolta ad integrare decisioni giurisprudenziali su determinati casi e questioni, in apposite raccolte dette appunto Raccolte di decisioni. In Francia venne principalmente trascritta la giurisprudenza

del Parlamento di Parigi, mentre in Italia quella delle Rote e in particolare la giurisprudenza della Rota romana. Le raccolte di decisiones erano generalmente opera di un giurista attivo nella Corte, che selezionava una serie di decisioni alle quali aveva preso parte in veste di relatore, e che in tale veste aveva scritto l'argomentazione/motivazione sulla quale il collegio aveva fondato la decisione della controversia. Con il tempo sui precedenti giurisprudenziali contenuti nelle raccolte si affermò il principio del cosiddetto precedente vincolante: due o tre pronunce conformi, emanate dalla Corte

superiore su casi giudiziari distinti, costituivano un precedente che poteva vincolare anche la Corte stessa e a cui si doveva aderire senza obiezioni. Ciò rappresentava un mezzo per dare certezza al diritto, applicato dai Tribunali supremi dell'età moderna. 22.DIRITTI LOCALI E LEGISLAZIONE REGIA Diritti locali

Nei primi 3 secoli dell'età moderna una componente fondamentale rimasta tra le fonti del diritto era rappresentata dai diritti particolari e locali.

- Dei diritti particolari, come già detto, la caratteristica principale era quella di prevedere una specifica disciplina per ciascun ordine o ceto vigente: nobiltà, militari, contadini, mercanti, artigiani, marinai, ecc..

- Dei diritti locali invece ricordiamo gli statuti delle città: i brevia dei consoli, le consuetudini trascritte, le leggi approvate dall’assemblea cittadina, ecc.. che nell’età moderna sopravvissero accanto al diritto comune, ma solo in quelle città non soggette all’autorità dell’impero, e quindi in quelle città “libere”. Nelle altre invece furono redatti nuovi statuti.

In particolare in Francia con Carlo VII fu dato il via alla codificazione scritta delle consuetudini del luogo. E tra le tante centinaia di consuetudini locali scritte e redatte, la Coutume di Parigi acquistò una priorità netta; venne commentata da Charles Du Moulin, il

quale ne sottolineò anche lacune e incongruenze e ne propose una redazione riveduta, che si realizzo incorporando regole derivanti da decisioni del Parlamento parigino. Da allora essa divenne il testo di riferimento più autorevole, cui si faceva per colmare lacune o ambiguità delle altre consuetudini. Con la redazione scritta la coesistenza tra diritti locali e diritto romano-comune si mantenne ma cessò l'evoluzione per così dire spontanea dei sistemi consuetudinari che per molti secoli avevano modellato il diritto civile e penale. La presenza di un così ampio ventaglio di consuetudini scritte, se da un lato rese più sicuro il loro accertamento, dall'altro lato creò problemi non facili di interpretazione per norme spesso simili, ma formulate diversamente.

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Assolutismo e potere legislativo

Sempre tra le fonti dei diritti locali, rilievo assunsero i provvedimenti di natura legislativa decisi, con valore vincolante, dalle Corti sovrane, le cui competenze non erano soltanto giudiziarie ma anche normative, anche gli statuti cittadini e rurali, gli statuti corporativi, le consuetudini scritte mantennero il loro peso con la condizione però di ricevere dal sovrano o dal principe locale un'approvazione espressa, condizione che li riconduceva sotto l'autorità dello stato. Il diritto comune era invece sempre al di sopra delle fonti normative. Tra i vari regni d’Europa quello di Francia spiccò più degli altri. Francia

Nella Francia dell'età moderna valeva il principio secondo cui “ciò che il re vuole, lo vuole la legge”. Si trattava di una prerogativa propria del re che venne rappresentata dalle cosiddette Ordonnances, ovvero leggi che disciplinavano in via generale uno o più istituti giuridici e

utilizzate dalla monarchia francese, fino alla Rivoluzione del 1789, come mezzo di unificazione legislativa dello Stato assoluto. La forma giuridica che poneva in essere le Ordonnances era quella delle lettere patenti, sottoscritte dal re e munite del sigillo regio, che però entravano in vigore solo dopo essere state registrate dalla Corte sovrana, competente sul territorio entro il quale dovevano applicarsi. Tale verifica oltre che formale era anche sostanziale per ché in presenza di eventuali motivi di opposizione, la Corte poteva modificare o addirittura ritirare l’ordinanza. Casi di mancata registrazione delle Ordonnances non furono poi così rari, tanto che per ovviare a tale ostacolo i sovrani ricorsero ad altre forme e procedure meno vincolanti, così che la loro volontà poteva esercitarsi senza ostacoli. Fu proprio in questo ordine di idee che presto vennero emanate anche norme di natura legislativa sottoforma di ordinanze, sprovviste ovviamente di sigillo, potendosi così manifestare l’incondizionata e incontestata volontà del re ed esaltarne l’assolutismo legislativo. Molte di tali ordinanze furono piuttosto significative in quanto introdussero delle vere e proprie regole in materia di prescrizione, di donazioni, ecc. . tanto che presto si presentò la necessità di sistemarle in apposite raccolte e proprio il re Enrico III incaricò un magistrato e colto giurista Brisson di svolgere tale lavoro. L’opera però non ricevette valore

ufficiale, né la ricevette un ventennio più tardi con una rielaborazione di Enrico IV; neppure il re Luigi XIII riuscì a vincere l’accanita opposizione del Parlamento di Parigi all’approvazione di un testo che raccogliesse le principali disposizioni di diritto pubblico, il cui scopo fondamentalmente era solo quello di accentuare i poteri legislativi del re. L'impulso decisivo per la realizzazione di un testo codificatore si affermò in riferimento ad alcune importanti ordinanze di Luigi XIV, e grazie al lavoro svolto dal ministro Colbert, convinto del fatto che solo un’opera sistematica di natura legislativa potesse attribuire alla monarchia quel controllo normativo che le Corti di giustizia di fatto si arrogavano. Da tale pensiero e lavoro vide la luce l’Ordonnance civile, con la quale fu finalmente possibile tracciare l'intera disciplina del

processo civile in modo organico e vietare ai Parlamenti di pronunciare decisioni discrezionali contrastanti con le norme positive. Il processo civile così disciplinato era essenzialmente scritto, più semplice e snello. Tre anni più tardi altrettanto importante fu l’introduzione dell 'Ordonnance criminelle, la

quale stabilì con chiarezza le regole del processo penale fondato sul principio inquisitorio, al

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cui magistrato attribuiva il compito di istruire la causa con pieni poteri e ricercare le prove, in particolare la confessione del reo ottenibile anche ricorrendo alla tortura; nel caso poi di condanna alla pena capitale introdusse l’appello obbligatorio al Parlamento. Sostanzialmente fu un processo fondato sul sistema delle prove legali con poche concessioni ai diritti della difesa. Altrettanto rilevante fu poi l'Ordonnance de Commerce, su iniziativa sempre di Colbert in

collaborazione con un colto mercante parigino, contenente norme sulle società commerciali, sulla cambiale, sui libri di commercio, sul fallimento e con la quale per la prima volta lo Stato operava direttamente sul campo dell’economia attraverso appunto o struemnto della legislazione regia. Infine da ricordare è l’Ordonnance de la Marine, la quale raccoglieva le

regole giuridiche del commercio marittimo. La sistematicità di queste opere, la chiarezza dei contenuti nella lingua corrente del Paese, la cura nell'evitare contraddizioni, l'incorporazione di regole tradizionali e di alcune regole nuove, ecc. rappresentano quei caratteri per tentare un approccio ad un codice di stampo moderno. A tal proposito importanti furono anche le tre Ordonnances di Luigi XV, elaborate dal cancelliere D’Aguesseau, in tema di donazioni, testamenti e fedecommessi, e che a differenza delle Ordonnances Colbertiane non disciplinavano interi settori del diritto, ma singoli istituti di diritto privato; i testi furono attentamente meditati e preparati in modo chiaro e sintetico con l’obbiettivo di impiantare sia la tradizione romanistica che quella consuetudinaria. Fu così che il complesso delle Ordonnances costituì il tentativo di

uniformare settori giuridici fino ad allora basati sul diritto consuetudinario e che troverà piena realizzazione solo nel processo di codificazione dei secoli successivi. 23. GIUSNATURALISMO Giusnaturalismo moderno

Con il termine giusnaturalismo moderno intendiamo l’insieme delle dottrine del diritto naturale che assunsero un’importanza particolare. La concezione del diritto naturale era fondata sull’uomo, considerato un essere che all’istinto coniugava la ragione, considerata parte essenziale della sua “natura”. Dunque una concezione che si distaccava nettamente da quella medievale (divina). Sulla base di ciò, l'attenzione posta sui diritti dell'individuo, cioè sui diritti soggettivi inalienabili della persona umana, costituisce un profilo centrale delle nuove dottrine giusnaturalistiche, che sta alla base della dichiarazione dei diritti di libertà delle moderne costituzioni. Quanto ai contenuti del diritto naturale fu possibile notare un identico riferimento ad una serie di fonti, quali:

- il diritto romano, - i precetti fondamentali della Scrittura e del cristianesimo, - i testi letterari, poetici, storici e filosofici greci e romani.

I contorni e i contenuti del diritto naturale nascevano dalla presenza di problemi nuovi entro una realtà nuova: :

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- il venir meno di una concezione unitaria della comunità sotto la duplice e suprema autorità dell'Impero e della chiesa,

- la presenza di stati sovrani in conflitto tra loro per il dominio dei mari e delle terre, - i contrasti scaturiti dalla scissione religiosa conseguente alla Riforma protestante.

Comune a molti di essi, come Grozio, Hobbes, è la teoria del cosiddetto contratto sociale, un

accordo stretto tra gli uomini per raggiungere una condizione di pace e di sicurezza affidandone la tutela ad un sovrano. Un altro profilo comune alla scuola giusnaturalistica fu anche la convinzione nonché la necessità di identificare un complesso di principi e di regole di diri tto naturale oggettivamente valido (conforme alla ragione e alla natura umana) efficacie in ogni tempo e in ogni luogo, in virtù del fatto che la natura umana era ritenuta immutabile nel tempo. Grozio

L’importanza di cui godette il pensiero di Ugo Grozio è legata all'opera De iure belli ac pacis, scritta in Francia dopo che l'autore si era sottratto con la fuga al carcere a vita

irrogatogli per avere voluto identificare una serie di principi generali e di regole fondate sull a ragione, in grado di essere condivise da tutti gli uomini. Da qui l’affermazione del principio, secondo Grozio ritenuto fondamentale, che imponeva di osservare i patti: pacta sunt servanda, dalla cui inosservanza ne fa derivare ogni altra regola,

a cominciare da quelle che impongono di risarcire i danni arrecati ad altri, di restituire ciò che si è fraudolentemente sottratto, di pagare con la pena le conseguenze dei propri atti delittuosi dannosi per il prossimo e per la società, ecc.. Nel De iure belli ac pacis veniva espressa l’idea che il fondamento dei diritto naturale risiedesse nella natura razionale dell'uomo e non nel comando diretto di Dio, la quale si contrapponeva al pensiero protestante che al contrario riteneva la radice del diritto naturale essere nel comando di Dio e non nella ragione. Il pensiero di Grozio esercitò un certo influsso soprattutto nella dottrina del diritto internazionale pubblico, con il suggerimento di individuare una legge comune tra le nazioni che potesse porre un limite alla violenza delle

guerre senza freno, come se la guerra fosse quasi autorizzata da una legge universale per risolvere crimini di ogni specie. Dunque sulla base di queste idee i temi del diritto di guerra e del concetto di guerra giusta assumevano una nuova veste che proponeva temperamenti agli scontri facili rendendoli meno arbitrari e aspri. Grozio fondava questo suo pensiero sempre e comunque sulla ragione e sulle regole del diritto delle genti/ius gentium, contenenti i comportamenti creati dalla consuetudine, e dalla storia. Ad ogni modo le sue teorie sembrarono essere ispirate dal pensiero della Scolastica spagnola, in particolare di Suarez, perciò ritenerlo fondatore del moderno giusnaturalismo e del moderno diritto internazionale sembra un po’ eccessivo; tuttavia il contenuto de lle sue opere fu originale. Hobbes

Lontano dal pensiero di Grozio fu l’inglese Thomas Hobbes. Le sue opere principali furono

scritte in Francia, per sottrarsi anch’egli ai rischi ai quali lo avevano esposto le posizioni

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assunte negli anni in cui il Parlamento inglese andava conquistando, attraverso aspre lotte, nei confronti del potere monarchico un ruolo primario nella legislazione. Nell’opera De cive e soprattutto nel Leviatano, Hobbes evidenziò i fondamenti

dell'assolutismo; precisamente partendo da uno “status naturale” dell’uomo, in cui si trova a lottare con altri uomini per soddisfare i propri bisogni vitali e conquistarsi spazio e potere, è possibile uscirne soltanto rinunciando unilateralmente ad ogni diritto autonomo e affidando la somma di tutti i poteri ad un unico soggetto, il sovrano, che è per ciò assoluto. Tutto ciò

per assicurare la pace che altrimenti porterebbe alla guerra di tutti contro tutti. Una teoria dunque che contrasta in maniera netta ed evidente con quella del contratto sociale, in quanto

il sovrano non si assumeva alcun obbligo e i sudditi non mantenevano per sé alcun diritto; il margine di autonomia dell'individuo era in sostanza limitato a quei rapporti entro i quali l'autorità non poteva penetrare, ma non perché non poteva quanto perché non lo voleva vista l’irrilevanza per l'ordine interno dello stato e per il mantenimento del potere sovrano. Posizioni coerenti con l’assolutismo monarchico. Locke

Alle tesi assolutistiche di Hobbes si contrapposero qualche decennio più tardi, le idee di John

Locke, il quale ebbe una concezione razionalistica del diritto naturale, definito come una regola di condotta fissa ed eterna, dettata dalla ragione stessa. Secondo tale concezione gli

uomini si accordavano allo scopo di evitare e di correggere gli abusi di potere e le iniquità, e di affidare ad un’autorità riconosciuta i poteri di governo e di giudizio, il già nominato contratto sociale. Potere fondamentale era dunque il potere legislativo che Locke riteneva

doversi conferire ad un organo rappresentativo, distinto dal potere di governo, che spettava invece al sovrano; una sorta di approccio alla teoria sulla separazione dei poteri. Secondo Locke l’essenza del potere legislativo risiedeva nella sovranità del popolo, che bensì l'affidasse all'organo rappresentativo da loro scelto ne conservavano per così dire la chiave; una fondamentale affermazione questa, che sta alla base del moderno concetto di sovranità popolare. Locke inoltre ne faceva derivare l'importante conseguenza che il popolo avrebbe potuto legittimamente revocare la delega qualora il legislatore avesse infranto i limiti che la “legge naturale” gli imponeva. Infatti il patto fiduciario col popolo si doveva ritenere infranto quando il potere legislativo tentasse di rendere se stesso, o una parte della comunità, padrone o arbitro delle vite, delle libertà e dei beni del popolo; anche la proprietà privata costituiva per Locke, a differenza che per Grozio e per Hobbes, un diritto innato e inviolabile, fondato sul lavoro dell'uomo. In conclusione si comprende come le idee di Locke sulla sovranità popolare, sui limiti del potere legislativo, sulla sua distinzione dal potere esecutivo, sulla libertà, sui diritti dell’uomo, sulla proprietà, ecc. eserciteranno un ruolo determinante nelle dottrine giuridiche successive fino ai nostri giorni. Pufendorf

Altro esponente della scuola del diritto naturale fu Pufendorf. Uno scritto nel quale criticava

l'organizzazione del Sacro Romano Impero lo costrinse a trasferirsi in Svezia, dove pubblicò due importanti opere: il De iure naturae ac gentium e il De officio homiis et civis.

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Anche per Pufendorf, come per Grozio, il diritto naturale era comune a tutti gli uomini perché fondato sulla ragione; ciò che lo distingue da Grozio è invece l’idea che l'essenza della legge consista in un comando di un superiore

- come Dio per le norme di diritto naturale: perché, nonostante sia considerato come fondato sulla ragione, è sempre e comunque radicato nella volontà divina, che da all’uomo la razionalità di cui necessita;

- come il principe per le leggi positive: perché ciò che rende operanti i principi del diritto naturale e la coattività attraverso il potere regio supremo e indiviso proprio dell'assolutismo.

Ne consegue una netta distinzione tra diritto e teologia: l'uno avendo per oggetto i rapporti e i doveri dell'uomo con altri uomini, l'altra il rapporto dell'uomo con Dio. Tra i contributi di Pufendorf si deve menzionare anche l'opera realizzata sui rapporti tra Stato e Chiesa, nella quale egli distinse:

- la disciplina giuridica delle chiese nel contesto del diritto pubblico, ius circa sacra,

risevata allo Stato; - le norme di organizzazione interna delle chiese stesse, ius in sacra, affidate alle singole

chiese. Infine i caratteri enunciati da Pufendorf, nel definire i necessari requisiti della legge, come la generalità, l'irretroattività, l'applicazione delle medesime regole giuridiche a tutti i sudditi senza distinzione di status, ecc.. anticipano alcune delle posizioni di fondo dell'illuminismo giuridico,che vennero ampiamente recepite da Rousseau. Leibniz

Una concezione del diritto naturale assai lontana da quella di Pufendorf fu espressa da Leibniz, grandissimo matematico, filosofo, storico e anche giurista. La sua aspirazione fu

quella di dimostrare come sulla base di pochi principi, attraverso un metodo scientifico e matematico, fosse possibile concepire un sistema di norme applicabili ad ogni caso concreto, con la collaborazione dei giuristi di professione. Dunque molto chiara era la sua posizione di favore al razionalismo giuridico (ovvero che il diritto naturale si fonda sulla ragione) visto che i precetti della giustizia avevano per lui la medesima base razionale di quelli dell'aritmetica . Domat

Anche Domat, importante esponente francese del giusnaturalismo, esercitò una certa influenza nella sfera del diritto, grazie soprattutto al trattato Le leggi civili nel loro ordine naturale, con il quale volle esporre le regole del diritto della Francia sulla base di alcuni

principi fondamentali: - la natura imperfetta dell'uomo, derivante dal peccato originale, lo condanna al lavoro e

alla fatica vincolandone le attività entro le regole “naturali” che sono comuni a tutti i popoli.

- l'ordine sociale, con la sua ripartizione di oneri e di status tra i diversi ceti, deve essere accettato senza obiezioni.

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- l'ordine pubblico e il buon costume, con cui i privati possono disciplinare liberamente i loro rapporti contrattuali nel rispetto della buona fede e delle regole conformi al diritto naturale.

Insomma una visione complessa quella di Domat, dove la tradizione romanististica veniva valorizzata alla luce del diritto naturale. Thomasius

Il contributo di Thomasius detrminò per il giusnaturalismo un indirizzo in parte nuovo. Egli

adottò un'impostazione ben differente da quella del maestro Pufendorf, con la quale sostenne che occorreva distinguere con chiarezza l'ambito del diritto da quello della morale individuale e sociale; i qui la distinzione da lui formulata, divenuta classica, tra:

- ciò che è giusto, appartiene al mondo del diritto perché riguarda i rapporti tra soggetti

e le regole di tutela da eventuali lesioni di diritti altrui; - ciò che è onesto, appartiene all’etica e non ha rilevanza per il diritto; - ciò che è decoroso, insieme dei comportamenti raccomandabili nei rapporti reciproci,

la cui inosservanza non comporta però l’applicazione di sanzioni. In questo modo non solo si delineava il confine tra “ciò che è diritto naturale e ciò che non è diritto”, ma si determinava anche una sorta di limite del diritto stesso. E’ infatti da queste distinzioni che è possibile dedurre come Thomasius avesse un temperamento anticonformista, criticando da un lato la tortura giudiziaria, i reati di eresia, di stregoneria, ecc.. e sostenendo dall’altro la convivenza al di fuori del matrimonio, o il rapporto sessuale tra adulti consenzienti e non coniugati, da valutare ed eventualmente sanzionare non con il diritto ma con la morale. Il pensiero di Thomasius, come quelli degli altri giusnaturalisti, poterono considerarsi come transitori tra le dottine del giusnaturalismo e la fase successiva dell'illuminismo giuridico che fiorirà nel secondo ‘700. 24. GIUSTIZIA DEL SETTECENTO Italia: Gravina, Averani

Tra i giuristi del ‘700, in Italia, ricordiamo: - Francesco D’Andrea; - Gian Vincenzo Gravina, la cui fama è legata all'opera Origines Juris civilis, con la

quale, basandosi sulla scienza giuridica dei glossatori, commentatori e culti, individua una nuova e diversa formazione del giurista, non più basata su vane citazioni di dottrina ma su una salda base razionale;

- Giuseppe Averani, la cui fama è invece legata alle Interpretationes iuris, contenenti

una serie di trattazioni e passi della compilazione di Giustiniano, in particolare del Digesto. Su ciascuna questione l’autore discuteva approfonditamente le tesi degli interpreti precedenti, compresi i maggiori esponenti della scuola culta, per poi procedere esprimere un pensiero personale con suggerimenti originali. Era proprio in questo lavoro di analisi che risiedeva, per Averani, il compito del professore universitario nella formazione del futuro giurista.

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- Luigi Cremani, professore di diritto penale, la cui opera, suddivisa in tre volumi, sul

diritto criminale ebbe risonanza notevole.

Germania: Bohmer, Heinecke, Wolff

In Germania tra le scuole universitarie, particolare vigore per la qualità dei maestri, ebbe l'Università di Halle - ove insegnarono tra i tanti Thomasius e Wolff. Ma l’autore maggiormente conosciuto fu Heinecke (si pronuncia Eineccio), che pubblicò Elementa iuris civilis secundum ordinem, il cui successo fu dovuto all'impostazione chiara e

sintetica, fondata su altrettanto chiare definizioni di ciascun istituto giuridico civile. Il tes to costituiva una sorta di introduzione al sistema del diritto privato romano “moderno”. Nell’ambito del diritto naturale pubblicò un’altra opera con la quale traccia i doveri dell’uomo verso Dio, verso se stesso e verso gli altri; quindi tratta dell’uomo in quanto essere sociale, dei suoi doveri verso la famiglia e verso lo Stato. Ritornando a Wolff, filosofo, teologo, matematico, professore di fama alla Halle nonché autore di una serie di scritti fu anche studioso di diritto. Egli istituì un parallelismo tra le obbligazioni naturali alle quali ogni individuo è tenuto in quanto uomo e i diritti natural i, che ne sono la diretta derivazione: al dovere di osservare le obbligazioni corrisponde il diritto a che esse siano adempiute. Dovere e diritto sono comuni a tutti e configurano perciò un fascio di regole valide universalmente, senza distinzione di status. La società civile fu sostanzialmente per Wolff la prosecuzione nel tempo del contratto sociale originario da cui il sovrano traeva la legittimazione del suo potere sui sudditi, finalizzato a far conseguire la sicurezza e il benessere di tutti, attraverso una serie di leggi e di disposizioni. Una concezione in parte derivata da Hobbes, in parte da Leibnz che ebbe molte attenzioni e fu ripresa da altri giuristi. Francia: Pothier

Tra i giuristi francesi del ‘700 un ruolo di spicco fu svolto da Pothier, magistrato di Orleans e autore di un celebre Commentario alla Coutume di Orleans, col quale evidenziò le affinità

con le altre consuetudini nell'intento di delineare il “diritto comune consuetudinario” francese. La fama di Pothier è però legata ai numerosi trattati di diritto privato: sulla proprietà, sui diritti reali, sulle successioni, sulle obbligazioni, sulla vendita, sulla locazio ne, ecc.. nei quali seppe coniugare la disciplina del diritto comune di radice romanistica con la tradizione consuetudinaria francese. Le sue opere ebbero molta fortuna e furono presi come riferimento da coloro che elaborarono poi il codice napoleonico. 25. IL SISTEMA DELLE FONTI

Diritti locali e diritto comune

Legislazione degli Stati, consuetudini locali, statuti cittadini , diritto feudale, diritto cromano comune, diritto canonico, giurisprudenza dei grandi tribunali , dal ‘400 al ‘700 sino alle codificazioni moderne tali fonti coesistettero in un intreccio piuttosto complesso. Intreccio che

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fu possibile tracciare partendo dal dualismo tra diritti locali e particolari da un lato e diritto comune dall'altro,

1. nella prima parte tutto ciò che è locale: statuti, consuetudini, o particolare: diritti di ceto, norme feudali

2. nella seconda parte invece, non solo le leggi romane e le leggi della Chiesa: il Corpus iuris civilis e il Corpus iuris canonici, ma anche le dottrine dei dottori che direttamente o indirettamente si richiamano al diritto romano.

La novità più rilevante nel sistema delle fonti moderne fu l'ingresso di un terzo elemento: 3. la normazione dello stato, con la quale i sovrani legiferavano ormai con autorità piena

in molti campi del diritto e impongono che la loro normazione abbia la priorità rispetto a qualsiasi altra fonte del diritto.

Il binomio si tramutò così in un trinomio: - leggi regie e norme dello stato, - diritti locali e particolari, - diritto comune.

una sorta di gerarchia molto spesso accettata e rispettata nei singoli ordinamenti, tanto che i giudici dovevano prima applicare le norme emanate dal sovrano, poi quelle locali o particolari ed infine il diritto comune se le prime due tipologie di norme necessitavano di integrazioni o interpretazioni per risolvere quella determinata questione pratica. Sulla base di tale criterio gerarchico si considerò dunque la legislazione regia (leggi emanate dal sovrano) come diritto speciale, attingendo solo in caso di lacuna al diritto comune, quale diritto generale. Le supreme magistrature assunsero così un ruolo importantissimo nel sistema delle fonti e delle regole giuridiche. All'interno dell'ordinamento in cui la Corte aveva la funzione di giudice di ultima istanza, le sue pronunce pesavano in misura determinante anche sulle pronunce dei giudici inferiori; quanto al rapporto tra decisioni delle Corti e normativa, una parte della dottrina ritenne che la Corte sovrana, in quanto titolare del potere del re in materia di giustizia, potesse anche decidere in deroga rispetto alla legge, ovvero contra ius, altra parte ritenne invece che un tale potere non spettasse alle Corti se non in presenza di una specifica autorizzazione concessa dal sovrano nel singolo caso. De Luca sostenne che neppure la Rota romana poteva giudicare contro il diritto, in virtù del principio che il giudice non è il legislatore. Su questo punto i testi romanistici non si trovavano concordi, perché:

- da un lato il Codice sottolineava il ruolo inderogabile della legge, non aggirabile con il ricorso a precedenti giurisprudenziali,

- dall'altro il Digesto ammetteva che le ambiguità della legge potessero venir risolte adeguandosi o alla consuetudine o alla giurisprudenza consolidata.

In ogni caso l’aspetto sicuramente certo era la superiorità del Corpus civilis, rispetto alle fonti locali e particolari, nonché alle leggi del sovrano assoluto, arricchito ed integrato d alla dottrina dei glossatori, dei commentatori, dei culti, ecc.. Italia

Negli Stati italiani l'applicabilità del diritto comune, quale norma sussidiaria per colmare eventuali lacune e ambiguità dei diritti locali, era indiscussa e generale. Il diritto co mune

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costituiva la normativa di riferimento per gli statuti ad esso conformi secundum legem e per quelli ad esso estranei praeter legem, ma non per gli statuti contrari al diritto comune stesso contra legem. Ma ad ogni modo la crescente importanza del diritto regio in ogni campo del

diritto (civile, commerciale, penale, processuale..) avanzava sempre di più tanto che per l'applicazione della norma consuetudinaria fu necessario il potere di valutazione del giudice, secondo il suo arbitrium. Quanto agli statuti, se era pacifico che essi fossero ancora in vigore

e altrettanto pacifico era che il diritto regio avesse la priorità su di essi. Francia.

Anche in Francia le Corti sovrane diedero al diritto comune un peso sempre maggiore. Si affermò inoltre la prassi di chiedere al re, in taluni casi, delle lettere di rescissione che avevano l'effetto di annullare specifiche clausole contrattuali con cui le parti avevano rinunciato ad avvalersi di norme del diritto romano, meglio dette renunciationes. In tali casi

il diritto romano, ormai sempre più residuale, tornava ad applicarsi. Le consuetudini ebbero invece piena vigenza, e alle eventuali lacune si poneva rimedio ricorrendo alle consuetudini delle provincie vicine e in ultima istanza a quella di Parigi, alla quale si rapportava la giurisprudenza del Parlamento parigino. Charles Du Moulin, dopo avere dapprima riconosciuto il ruolo del diritto romano come ius commune cambiò posizione, affermando che non il diritto romano, bensì il diritto consuetudinario delle grandi regioni di Francia costituisse il diritto comune francese. La relazione tra le consuetudini particolari e locali e la consuetudine generale della regione francese era dunque una relazione di sussidiarietà, nel senso che a quest'ultima si ricorreva per supplire alle lacune di quelle particolari e locali. Addirittura secondo una parte della dottrina, neppure la legislazione del re poteva di norma contravvenire alle consuetudini se non per cause della massima importanza. Un ulteriore limite al potere legislativo del re fu costituito da un nucleo ristretto di principi, qualificati dalla dottrina come leggi fondamentali

del regno, che si ritennero inderogabili in quanto tramandati senza possibilità di interruzioni,

quali: - la successione al trono dei soli maschi primogeniti secondo la linea di successione, - l'inalienabilità dei beni del demanio regio.

Alla luce di ciò il diritto romano venne tenuto costantemente presente ma come normativa residuale alla quale potere ricorrere in caso di bisogno come completamento e integrazione delle norme consuetudinarie, perché comunque conforme alla ragione, alla giustizia e al diritto naturale. Germania

Anche in Germania il diritto romano civile o privato e il diritto canonico, quali componenti

del diritto comune continuarono ad essere sempre importanti. Il Tribunale Camerale dell'Impero sia stato assegnato il compito di giudicare secondo il diritto comune, integrato con la dottrina dei glossatori e dei commentatori. La posizione di superiorità del Tribunale camerale rispetto ai tribunali locali inferiori potenziò enormemente il ruolo del diritto comune come diritto effettivamente vigente applicato nei territori germanici, tanto che le altre Corti minori di giustizia, consapevoli che un ricorso in appello al Tribunale dell' Imp ero

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sarebbe stato deciso secondo il diritto comune, iniziare a regolarsi di conseguenza al fine di evitare frequenti revisioni delle loro decisioni. Ciò però non significò affatto che ogni altra fonte normativa fosse stata accantonata, ne che il diritto comune avesse ricevuto una priorità nella suddivisione delle fonti, anzi al primo posto vi era:

- il diritto delle città, poi - il diritto del principato territoriale, - il diritto comune.

Le consuetudini locali germaniche non furono dunque totalmente respinte anche se, in caso di lacuna o ove occorresse interpretarle, era nuovamente il diritto comune a prevalere. Crisi del diritto comune e diritto patrio

La molteplicità delle fonti e il difficile coordinamento tra i tanti piani normativi portò alla crisi del sistema del diritto comune, crisi aggravata anche dal fatto che la compresenza di fonti consentivano alle Corti un’ampia discrezionalità di decisione. Ciò infatti determinò, alla fine del ‘700, la grande volta delle codificazioni. Un fenomeno di grande importanza fu a tal proposito rappresentato dal diritto patrio, ovvero

che all'interno di ciascun ordinamento: - permasero i diritti locali e particolari di origine medievale, statuti, consuetudini, regol e

feudali; - vigevano norme di legge regie, le sentenze dei grandi tribunali, e le principali raccolte

di decisiones; - il diritto romano comune venne sempre applicato per integrare, interpretare e

coordinare le normative specifiche. Il risultato di questo complesso di fonti fu differente da paese a paese, non solo perché in ogni ordinamento le norme locali e leggi del sovrano furono diverse ma anche perché lo stesso diritto comune fu coordinato con fonti diverse. In merito alla crisi del diritto comune in Italia si poté evidenziare che:

- da un lato la compresenza di un insieme di fonti molto vasto e variegato, rendeva difficile se non impossibile l'identificazione di una disciplina univoca per questioni e casi controversi, pur se in presenza di una gerarchia di fonti;

- dall'altro lato l’evidente latitudine che questa condizione delle fonti lasciava aperta non solo all'interprete ma anche al giudice.

Si criticavano ormai le procedure di nomina dei giudici delle Corti sovrane, la loro durata vitalizia, ecc.. Le riforme e gli eventi successivi fino alla Rivoluzione francese porteranno all'affermazione del principio di legalità, della pubblicità dei giudizi, della motivazione delle sentenze, ecc. 26. IL DIRITTO INGLESE (SEC. 16°- 18°) da collegare al paragrafo 16° del basso medioevo.

Come abbiamo detto alla fine del medioevo il Common law formava un nuovo e articolato

sistema di diritto.

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La giustizia

Un'evoluzione molto significativa si ebbe poi nelle funzioni della giuria civile e penale, da testimoni che erano, i giurati divennero veri e propri giudici, autori di un verdetto, sulla base di prove e documenti, che riguardava però la sola questione di fatto portata in giudizio, mentre l’applicazione delle regole di diritto al verdetto spettavano al giudice togato. Quest’ultimo poteva però anche mettere in discussione il verdetto eventualmente ritenuto ingiusto e chiedere la nomina di una seconda giuria. Sempre di questo periodo è anche l'istituzione di una speciale corte di giustizia penale, la Star

Chamber, costituita dal Consiglio del re (a sua volta costituito dal cancelliere, dal tesoriere,

da ministri, giudici e un vescovo) che perseguiva una vasta serie di crimini con un procedimento piuttosto sommario, rapido ed efficace senza l'intervento della giuria, senza il potere di condanna capitale, ma con ricorso alla tortura giudiziaria, che invece le altre corti di giustizia inglesi non praticavano. Il ridimensionamento del potere sovrano e il riequilibrio delle funzioni di governo, che segnarono la fine della’assolutismo in Inghilterra, portarono all'abolizione della Star Chamber. Equity

Un elemento essenziale del diritto inglese era costituito dalla giurisdizione della Corte di cancelleria, il cancelliere infatti era titolare di poteri giudiziari, poiché a lui spettava l'emissione dei nuovi writs che costituivano la base della giurisdizione del re; per i ricorsi dei sudditi al sovrano, era sempre il cancelliere a pronunciarsi in nome del re accogliendo o respingendo le richieste presentate. Il criterio generale adottato dal cancelliere fu di giudicare “secondo coscienza”, con un esame connesso del fatto e del diritto e con un notevole margine di discrezionalità, e uno dei campi in cui la Cancelleria opero più creativamente fu quello dei rapporti fiduciari. A tal proposito poteva accadere che un soggetto A, per proprie ragioni, dovesse spogliarsi dei beni di sua proprietà e cederli ad un altro soggetto B, con l’accordo che però B li gestisse fiduciariamente nel suo interesse; questo negozio fiduciario per il common law non era possibile perché così facendo A trasferiva a B il pieno diritto di disporre e di godere dei beni come propri, senza alcun obbligo nei confronti di nessuno né nell’interesse di nessuno. Secondo invece la corte di cancelleria ciò fu possibile in nome dell’equità. Il re favorì la giurisdizione della Corte di cancelleria, che divenne così una giurisdizione complementare rispetto a quella delle corti di common law e che prese il nome di Equity,

dotata di una procedura del tutto distinta da quella delle altre corti regie. Il cancelliere poté ampliare notevolmente i suoi interventi giurisdizionali attraverso lo strumento dell'intimazione, se convinto che il giudizio di una Corte di Common law portasse ad esiti contro la coscienza, ovvero contro l’equità, potendo così intimare alle parti di presentarsi al suo giudizio per ottenere giustizia. Importante cancelliere e sostenitore dell’equity fu Tommaso Moro, allievo di Erasmo da

Rotterdam, umanista e giurista di common law. Con il tempo però la giurisdizione della corte di cancelleria divenne più lenta, anche perché responsabile di ogni decisione era solo il cancelliere.

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Tuttavia il ruolo e l’importanza di questa corte non è da sottovalutare , perché proprio ad essa e alla giurisdizione di Equity si deve l'affermazione di importanti istituti e di regole innovative, come la disciplina dell'errore, della frode, della rescissione del contratto. Edward Coke

Il contrasto tra Common law ed Equity sfociò in una crisi piuttosto acuta dove un ruolo di protagonista lo ebbe Edward Coke, famoso ed esemplare conoscitore del common law, noto

per le sue due opere: - i Reports in 13 volumi, che ricostruivano il sistema di common law attraverso il

richiamo a migliaia di casi decisi dal medioevo fino agli inizi del ‘600; - gli Institutes, ovvero una ricostruzione del diritto immobiliare, del diritto criminale,

del sistema delle Corti di giustizia, ecc.. attraverso le quali mostrò la sua personale concezione sul Common law quale legge fondamentale del regno, in grado di imporsi e di prevalere nei confronti della corona e dello stesso Parlamento; per questo sosteneva la sovranità delle Corti di Common Law, quali garanti delle libertà dei cittadini, e criticava invece le interferenze della legislazione regia, considerandole addirittura illecite. Ma questo suo forte accanimento a favore del common law e a sfavore della legge regia lo condusse ad un contrasto con la Corte di cancelleria, nel momento in cui negò che una commissione speciale di nomina regia potesse decretare la pena del carcere per un determinato caso concreto. Cancelliere in carica della Corte era Lord Ellesmere (normalmente abituato ad interferire e con le Corti di common law tramite ingiunzioni ed a riaprire casi già giudicati) il quale si oppose nettamente a Coke grazie anche ad un provvedimento del re Giacomo I, che legittimava la prevalenza della decisione d'Equity su quella del common law, ovvero che il cancelliere poteva legittimamente intervenire con un proprio giudizio in un caso già deciso in base al common law. Fu così che Coke venne sconfitto, se così possiamo dire, e poco dopo fu costretto a fuggire. Il Bill of Rights

Il Bill of Rights fu uno strumento formale per impedire arresti illegali da parte del potere

esecutivo, attribuendo per questo a ciascun suddito un writ al fine di potere essere sottoposto ad un regolare processo con giurati. Con esso inoltre si considerava e dichiarava “illegale”:

- ogni ordine del re che sospendesse, senza autorizzazione del Parlamento, l'applicazione di una legge;

- ogni imposizione di tributi non votata dal Parlamento; - il mantenimento di un esercito in tempo di pace senza l'autorizzazione del Parlamento.

disposizioni che da un lato riducevano sostanzialmente le prerogative del re e del governo e dall’altro rafforzavano il ruolo del Parlamento e l'indipendenza del potere giudiziario; in particolare con il Bill of rights si stabiliva:

- la libera elezione dei membri del Parlamento, - la loro libertà di parola, - la convocazione regolare delle assemblee parlamentari.

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Venivano così posti i fondamenti del moderno stato costituzionale europeo basato sull'equilibrio dei tre poteri. II contratto:”Assumpsit”

Sul terreno del diritto privato è da segnalare l'evoluzione della disciplina del contratto. In particolare si stabiliva che un contratto che imponesse prestazioni imposse un cosiddetto Assumpsit: chi si accorda di pagare una somma di denaro o consegnare una cosa, automaticamente si assume l’impegno di pagare o consegnare; quindi se si provava l’esistenza dell’accordo, non era necessario provare l’assumpsit, in quanto consequenziale. I “Reports”

La trascrizione dei dibattimenti processuali, chiamati Reports, con l'avvento della stampa raggiunsero larga diffusione. Lord Mansfield

Un settore che nell'età moderna conobbe sviluppi importanti è quello del diritto commerciale, dove decisiva fu l'opera di William Murray/Lord Mansfield. Fondamentali furono inoltre le

sentenze che configurarono il diritto commerciale, in particolare in tema di contratti, navigazione, assicurazione, società, cambiali, ecc.. con l'accento posto sul valore dei patti e sulla buona fede. Era sua abitudine poi, sottoporre i casi controversi in materia di commercio a giurati scelti tra i migliori mercanti e di ascoltare con attenzione le loro valutazioni prima di affrontare le questioni di diritto legate al caso in esame. Inoltre soleva prendere appunti durante le udienze per poi istruire la giuria. Anche su altri temi cruciali le sue decisione ebbero grande peso. “Stare decisis”: il precedente giudiziario

Uno dei cardini del diritto inglese fu il principio della vincolatività del precedente

giudiziario, per il quale si usò la formula di Stare decisis.

Inizialmente il richiamo dei precedenti giudiziari da parte degli avvocati, durante il giudizio, o dei giudici nelle loro sentenze aveva un peso non vincolante, basato non sul p recedente in sé ma piuttosto sulla consuetudine, e il richiamo di più giudicati conformi ad essa serviva solo a dimostrare che proprio alla consuetudine era bene adeguarsi per il nuovo processo. Non vi era invece la regola secondo la quale una sola decisione costituiva un precedente vincolante, in quanto si riteneva addirittura irrazionale rimettere la risoluzione di un caso ad un precedente giudiziario magari erroneo. Solo tra ‘500 e ‘600 si fece strada il criterio di ritenere vincolanti per il futuro quelle decisioni che fossero state assunte dalla Exchequer

Chamber: una Corte Suprema che per casi giudiziari di particolare rilievo riuniva i giudici

regi delle tre corti centrali: - la Corte dello Scachiere, - il Banco del re, - la corte delle/sentenze/opinioni comuni,

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la cui vincolatività delle loro decisioni alla fine del ‘600 era ormai considerata pacifica. Solo più tardi, nell’800, si affermerà la regola per la quale anche un solo precedente giudiziario di livello superiore ha valore vincolante inderogabile per il giudice di livello inferiore, come un precedente della Corte d’appello lo era per la Corte di giustizia, o un precedente della Camera dei Lords lo era per la Corte d’appello e della Corte di giustizia, ecc. William Blackstone

Insieme a Coke, William Blackstone fu uno degli autori più letto e conosciuto nella storia del

diritto inglese. La sua fama si deve ad un commentario sulle leggi inglesi, ovvero un trattato in quattro volumi concepito quale testo da adottare per l'insegnamento universitario. Il quadro che emerge dalle pagine di Blackstone, scritte sia per essere apprezzate dai giuristi più qualificati sia per essere comprese da non giuristi di professione spiega il successo e la fortuna dell’opera. Il diritto della Scozia

Una storia ben distinta da quella del diritto inglese, fu quella del diritto scozzese. La Scozia, parte settentrionale dell'Isola britannica, sin dall’alto medioevo fu invasa ed occupata da Celti, Angli e Normanni, i quali poco per volta formarono un regno che elaborò un proprio diritto con proprie norme consuetudinarie. Nella formazione del diritto scozzese anche la Chiesa ebbe un certo peso, la quale oltre che inserire in tali consuetudini locali il diritto canonico, fece in modo di inserire anche il dirit to romano a complemento delle stesse, acquisendo così un notevole spazio. E anche al diritto scozzese si dedicarono molti; nonostante con il Trattato di Unione, la Scozia venne inclusa nel regno d’ Inghilterra e la sua autonomia costituzionale venne meno, il diritto scozzese mantenne comunque la propria fisionomia distinta dal common law. Il Trattato infatti riconosceva che nessuna decisione giudiziaria assunta dalle Corti locali scozzesi e quindi sulla base delle consuetudini, potesse essere riesaminata dai giudici di common law.

L’ ETA’ DELLE RIFORME (dal 1750 al 1800)

Nella seconda metà del ‘700 europeo il sistema del diritto comune continuò ad esistere anche se segni

di crisi divenivano sempre più palesi:

- crisi di certezza, determinata dall’intreccio di fonti e dottrine accumulate nei secoli;

- crisi di contenuti, derivante dalle nuove correnti di pensiero, nuove esigenze del potere e della

società maturate nel corso dell'età moderna.

Da qui l’affermarsi di un nuovo indirizzo culturale che venne designato come l’Età dei Lumi o

Illuminismo, dal quale scaturirono varie conseguenze (n° 7):

- un nuovo modo di operare del potere;

- un nuovo modo di concepire la legge, che per la prima volta diviene la fonte primaria e

dominante del diritto;

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- i sovrani mantennero tutti i poteri conquistati nel corso dell'età moderna, rafforzando anzi il

monopolio legislativo, quale strumento principale del loro operare;

- lo Stato cessò di costituire il “braccio secolare” della Chiesa e cessò anche la tendenza degli

Stati di servirsi della religione per perseguire scopi di dominio;

- il tramonto del patriziato come ceto dominante della società europea;

- l’attuazione del principio della sovranità popolare;

- il definitivo superamento del sistema del diritto comune e la nascita dei primi codici, come in

Austria e in Francia dove si avviò la codificazione del diritto privato, del diritto penale, delle

due procedure, ecc. quali fonti non più integrabili con altre fonti del diritto.

27. ILLUMINISMO GIURIDICO

Montesquieu

Come momento iniziale della nuova cultura illuministica si suole designare l’opera l'Esprit des lois di

Montesquieu. Con l'Esprit des lois riprende e riformula infatti la tripartizione dei regimi politici,

considerando tre forme di governo:

- il governo repubblicano, a sua volta distinto in:

democrazia, se il potere risiede nel popolo,

aristocrazia, se il potere risiede nella sola componente aristocratica,

il cui principio cardine è la virtù e con essa la ricerca dell'eguaglianza.

- il governo monarchico, in cui il sovrano governa attraverso le leggi, il cui principio cardine è

invece l'onore. Anche se vi sono monarchie strutturate al perseguimento della gloria, come la

Francia, ed altre imperniate sul valore della libertà, come l’Inghilterra ;

- il governo dispotico, in cui il despota governa con libero e proprio arbitrio, come nel caso della

Turchia.

Sulla base di ciò Montesquieu teorizzò quella che è da considerare uno dei più importanti principi alla

base dei moderni ordinamenti, ovvero la teoria della separazione dei tre poteri – legislativo,

esecutivo e giudiziario, destinato a diventare appunto un caposaldo del moderno costituzionalismo

(complesso dei principi su cui si fonda un regime costituzionale) e capace di difendere la libertà dei

singoli. Al riguardo Montesquieu pronunciava la celebre formula secondo cui la libertà cresce quando

il potere viene limitato e ciò che consente di limitare un potere è la separazione dei poteri. Infine in

merito al potere giudiziario, secondo Montesquieu al giudice doveva spettare il solo compito di

applicare la legge e non di crearla, più precisamente nel regime repubblicano il giudice doveva

limitarsi ad una applicazione automatica e meccanica della legge, mentre nelle monarchie al giudice

era riconosciuto un ruolo maggiore.

Gli Enciclopedisti e Rousseau

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Una fase significativa della nuova cultura illuministica fu segnata dalla grande impresa

dell'Enciclopedia, una vasta opera che raccoglieva in maniera sistematica (ordinata con un certo

metodo) tutto il sapere umano su un determinato argomento, elaborata e pubblicata in lingua

francese da un gruppo di intellettuali sotto la direzione di Diderot e D'Alembert (ricordiamo che

anche nell’età moderna le accolte di decisiones e i trattati costituirono un primo approccio all’avvento

delle enciclopedie). Tra essi a spiccare fu Jean Jacques Rousseau, il quale una volta trasferitosi in

Francia, divenne celebre grazie a numerosi suoi scritti di economia, di letteratura, ma in particolar

modo per il breve trattato intitolato “Il contratto sociale”.

La vita in società, il contratto sociale, la sovranità appartengono a chi al contratto ha dato vita, ovvero

al popolo nella sua totalità e non al sovrano; una sovranità unica e indivisibile che è espressione della

volontà collettiva, le cui deliberazioni si manifestano attraverso la legge, che ha carattere generale ed

astratto e che deve provenire da tutto il popolo, non da corpi particolari e intermedi curanti solo

interessi settoriali. Le decisioni inoltre debbono essere assunte sempre a maggioranza, a seconda

dell'importanza della materia ma senza mai esigere la regola dell'unanimità e il patto sociale stabilisce

tra i cittadini una uguaglianza tale da essere tutti sottoposti alle medesime condizioni e godere tutti

degli stessi diritti. Il Contratto di Rousseau introduce nella storia dei pensiero politico giuridico

europeo una concezione del potere politico basato sul principio della democrazia diretta e sul

suffragio universale, dunque sulla sovranità popolare nel suo significato pieno e rigoroso.

Voltaire

Altro importante esponente dell'illuminismo fu il francese Voltaire che pose al centro della sua

attività di scrittore la denuncia delle ingiustizie, generate dall'ordinamento giuridico di quel tempo,

rispetto all’imposizione ai sudditi di un'unica fede religiosa e al rispetto della stessa anche attraverso il

potere cogente dello Stato: le sanzioni penali previste nei confronti degli atei, la disciplina

esclusivamente canonistica del matrimonio, il divieto del divorzio, i privilegi riconosciuti al clero e la

loro sottrazione alla coazione dello Stato, l’intolleranza religiosa e le sue terribili conseguenze

formarono insomma l’oggetto di numerosi scritti di Voltaire. Più in generale, Voltaire criticava la

varietà e molteplicità delle consuetudini e l’incertezza e l’arbitrarietà che generavano, criticandone

anche la diversità per classi sociali. Il suo rimedio contro le norme obsolete e contraddittorie era molto

semplice: occorreva abrogarle per sostituirle con altre, migliori, tanto che celebre fu la sua

esclamazione: “Volete avere buone leggi? Bruciate le vostre e fatene di nuove”.

Ma nonostante queste battaglie ideologiche finalizzate alla libertà dell’uomo, la sua era e rimase

sempre una posizione pro-assolutistica, tanto che fu per decenni consigliere di uno dei più potenti e

coerenti sovrani dell'assolutismo illuminato, Federico di Prussia, così come fu ammiratore di un'altra

sovrana del dispotismo illuminato, l'imperatrice Caterina di Russia.

Illuministi francesi

Tra le personalità dell’illuminismo francese dobbiamo anche menzionare Helvetius, sostenitore del

principio utilitaristico, ovvero del principio che pone a fondamento della morale l'utilità, affermando

che l'azione buona è quella che procura la massima felicità al maggior numero di uomini, un

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76

obbiettivo che si poteva a suo avviso perseguire solo attraverso lo strumento della legislazione,

obbligando gli individui a comportarsi secondo il rispetto delle leggi e in modo onesto.

Beccaria, Verri e “Il Caffè”: un quotidiano di quel tempo

A Milano, come in altre parti d’Italia, sia al nord che al sud, le reazioni contro le istituzioni e le idee di

riforma furono animate essenzialmente da rappresentanti del ceto patrizi. E proprio un piccolo

gruppo di patrizi lombardi, riuniti intorno alla figura di Pietro Verri e del fratello Alessandro (figli di

un senatore patrizio) che avevano maturato un'aspra ostilità per l’intramontabile/durevole

compilazione giustinianea e per l’eccessivo potere discrezionale dei giuristi, in particolare Pietro,

discutevano temi di economia, di diritto, ecc. in un libero dibattito ispirato alla nuova cultura

illuministica; tra essi presente c’era anche Cesare Beccaria, il quale sviluppò riflessioni sul sistema

penale del tempo e di lì a poco elaborò l’opera Dei delitti e delle pene, pubblicato nel 1764, che

riscosse fin da subito clamore/interesse e successo, tanto che due anni dopo Voltaire la fece stampare

anche in francese scrivendo un commento elogiativo.

- Beccaria muove da una concezione utilitaristica/vantaggiosa del diritto penale, secondo cui la

pena deve mirare alla difesa della società mediante la prevenzione e la repressione dei

comportamenti criminosi che rechino danno alla comunità: “il fine è quello di impedire che il

reo causi nuovi danni agli altri e rimuovere gli altri dal farne uguali”. Non è dunque una

concezione “retributiva o punitiva”del diritto penale, idonea a punire il reo per il male che ha

arrecato; ma è invece “preventiva”, intesa come lo strumento per evitare che il malfattore

ponga in atto ulteriori comportamenti criminosi distogliendo chi volesse imitarlo.

- In questa prospettiva la pena doveva essere proporzionata alla gravità del reato, perché un

eccesso di severità poteva addirittura produrre l'effetto contrario, ovvero indurre il criminale

ad eccedere nella violenza per tentare di nascondere le prove del reato: la soluzione era

insomma mettere in atto pene miti ma certe. E’ l'enunciazione del moderno principio della

legalità del reato e della pena: nullum crimen, nulla poena sine lege/non ci può essere reato se

la legge non vieta quel comportamento, un principio fondamentale, affermato in contrasto con

il sistema di diritto comune che lasciava invece al giudice un ampio margine di discrezionalità.

- I reati venivano classificati in ordine di gravità e del pericolo che ciascun atto delittuoso

causava alla società, per questo al primo posto c’erano i reati che compromettevano l’esistenza

stessa della società come la lesa maestà, ai posti inferiori invece i reati contro i privati, contro la

pubblica tranquillità, ecc.

- Quanto alle prove, Beccaria elogiava la giuria popolare perché equa nelle sue valutazioni e più

vicina al sentire comune, mentre criticava la tortura giudiziaria, perché fonte di condanne

ingiuste ed ingiuste assoluzioni, dovute non all’assenza di prove ma alla resistenza fisica

dell’imputato.

- Quanto ai modi della pena, Beccaria da un lato enumerava una serie di sanzioni di asprezza

crescente, che dalla semplice detenzione temporanea giungevano sino al bando, alle pene

corporali e ai lavori forzati sia temporanei che a vita; dall’altro favoriva poco le pene

pecuniarie e criticava molto la pena di morte, perché assolutamente contraria ai comandamenti

etici e religiosi che vietavano appunto di uccidere.

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In conclusione il suo libro ebbe uno straordinario successo grazie anche al suo modo umano, preciso e

chiaro di argomentare le sue tesi.

L'illuminismo napoletano e Filangieri

In Italia, accanto a Milano, il centro in cui si sviluppò una cultura espirata alle idee illuministiche fu

Napoli. Significativa fu la figura di Pagano che criticò i difetti gravi del sistema penale del suo tempo

e che nel momento della rivoluzione partenopea del 1799 assunse un ruolo centrale, progettando

audaci riforme, tra le quali l'abolizione della pena capitale; ma la dura repressione ne falciò l'esistenza

condannandolo a morte.

Più notorietà e influenza ebbe poi l'opera di Gaetano Filangieri - Scienza della legislazione – con la

quale delineò delle riforme piuttosto incisive riguardanti le leggi civili e penali, la disciplina del

processo, l'istituzione della giuria penale, ecc. mostrandosi favorevole alla crescita della ricchezza e al

libero esercizio della proprietà.

Bentham

Un ruolo di spicco fu svolto da Bentham, l’esponente più significativo dell'illuminismo giuridico

inglese. Anch’egli sostenitore della filosofia dell'utilitarismo, della quale Bentham è il fondatore,

criticò l'intera struttura del Common law condannando il cosiddetto diritto fatto dai giudici, l'assenza

di codici sistematici, il sistema penale, la stessa giuria e difendendo l'idea della codificazione. In

Inghilterra molte tra le maggiori riforme della legislazione civile e penale, furono direttamente o

indirettamente ispirate da Bentham.

Kant

Un contributo altrettanto significativo sul diritto fu quello di Kant.

Partendo dalla distinzione tra diritto e morale, già esplicitata da Thomasius, per Kant l’unico diritto

era quello che rendeva possibile la libertà di ogni uomo facendola coesistere con la libertà di ogni altro

uomo; ecco che allora fine dell'autorità dello stato non è tanto il raggiungimento della massima felicità

(secondo il principio utilitaristico) bensì la garanzia che assicura a ciascuno la sua libertà mediante la

legge. Questa impostazione, che identifica nella libertà umana l’unico fondamento del diritto, spiega

la distanza che separa Kant dalle dottrine giusnaturalistiche e illuministiche. Infine Kant, in alcuni

scritti, va oltre il rapporto tra libertà individuale, legge e stato, fino ad argomentare il valore della

pace; egli infatti sosteneva che così come il diritto è in grado di garantire la libertà degli individui,

altrettanto il diritto potrebbe sostituirsi alla forza nei rapporti internazionali, piegando così gli stati

all'osservanza di apposite leggi e impedendo di risolvere le loro controversie con il mezzo brutale e

primitivo della guerra. Da qui, quindi, l’idea di un ordinamento sovranazionale cha abbracci l'intera

umanità, garantendo così la possibilità della pace perpetua.

28. LE RIFORME

Nella prima metà del ‘700 diversi Stati avevano promosso iniziative di revisione del proprio

ordinamento legislativo, e due Stati in particolare spiccarono per l’incisività delle riforme: la Prussia e

l’Austria.

- La Prussia di Federico II,

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78

egli introdusse delle importanti innovazioni, annunciò di voler sostituire il diritto romano

comune con una normativa ispirata alla tradizione del territorio prussiano, avvertendo

l’esigenza di leggi ragionevoli, chiare, precise e dirette alla felicità pubblica. Valutò

drasticamente i maltrattamenti inflitti dai giudici ai ricorrenti di bassa estrazione sociale,

attestando la sua volontà di instaurare una giustizia egualitaria per i sudditi di ogni

condizione. Il compito di tradurre in atto il suo programma di riforma giudiziaria fu affidato a

Cocceius che predispose due progetti di regolamento giudiziario molto innovativi nei quali si

richiedeva un reclutamento dei giudici per esame, una regolare carriera, la loro

subordinazione alla legge ed esortandoli a giudicare con coscienza chiunque, motivando le

sentenze. In questo modo si sancì il principio di eguaglianza dei sudditi di fronte alla giustizia.

Per quanto riguardava invece il progetto di codificazione civile, esso non ebbe successo, poiché

Cocceius introdusse molte regole di tradizione romanistica, che Federico II non condivideva e

voleva suerare creando un apparato chiaro, ispirato ai dettami della ragione, ma basato sulle

consuetudini tradizionali del territorio.

-Landrecht prussiano

L’iniziativa della codificazione riprese quando il re incaricò una commissione di stilare un

nuovo progetto di codice generale per la Prussia e ad un primo progetto ne seguì un secondo

che entrò in vigore nel 1794: il nuovo codice sostituiva il diritto comune, ma non sostituiva i

diritti particolari e locali che rimanevano dunque in vigore. I caratteri erano complessi ed

eterogenei:

nell’introduzione si fissarono i principi generali tra i quali l’enunciazione che i diritti del

singolo derivano dalla nascita, dal ceto di appartenenza, ecc.;

il 1° libro trattava il diritto civile;

il 2° libro trattava il diritto di famiglia, di ceto, le successioni, il diritto pubblico e penale.

Lo status cetuale si acquisiva alla nascita, comprendente: la nobiltà, la borghesia, il ceto rurale

(composto a sua volta dagli schiavi, contadini e liberi). Parte del diritto privato era

diversamente disciplinata a seconda del ceto di appartenenza, la nobiltà godeva di privilegi

giurisdizionali ed erano gli unici ad aver accesso alle cariche pubbliche, ai contadini non era

permesso un mestiere diverso dall’agricoltura, gli schiavi non potevano mutare status e il loro

matrimonio era subordinato al consenso del padrone che poteva infliggere loro anche pene

fisiche. Un codice per molti aspetti ancora di antico regime sia con riguardo al sistema delle

fonti, sia con riguardo alla differenziazione per ceti, sia per la compresenza di diritto pubblico

e privato nello stesso testo.

- Domini asburgici di Maria Teresa (prima),

la sovrana favorì interventi legislativi per creare un ordinamento pubblico differente da quello

di antico regime: si realizzò la separazione tra amministrazione e giurisdizione che vennero

affidate ad organi diversi. Venne poi istituito un Consiglio di Stato chiamato a giudicare nei

casi più delicati con imparzialità. Le crescenti spese causate dalla guerra dei 7 anni con

Federico II, spinsero per una riforma fiscale prescrivendo che i tributi dell’imposta fondiaria

venissero corrisposti in denaro sulla base di una valutazione del reddito delle terre. Si avviò

così un minuzioso riconoscimento della ricchezza fondiaria e nonostante l’opposizione di clero

e nobiltà, per la prima volta il criterio di proporzionalità funzionò, e alcuni dei loro privilegi

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79

nobiliari vennero contrastati; si affermava dunque l’importante principio dell’equiparazione

giuridica, rispetto sia allo Stato che alle funzioni pubbliche. Se ognuno doveva contribuire per

la propria rendita, cadeva lo status particolare della nobiltà (figura del proprietario-

contribuente). Lo stato si occupò anche di formazione superiore e cercò di innalzare la qualità

dei professori per creare e preparare futuri buoni funzionari per l’amministrazione pubblica.

La sovrana avviò anche una revisione approfondita del diritto privato e nel 1766 venne

presentato un progetto in 3 libri (persone, cose, obbligazioni), che doveva diventare la fonte

esclusiva per le materie civilistiche. Ma il cancelliere si oppose considerandolo troppo lungo,

ripetitivo e dipendente dal diritto comune. Invece le idee di riforma del sistema penale fecero

la loro strada, con l’abolizione della tortura giudiziaria e con l’abbassamento dei reati puniti

con pena capitale.

- Domini asburgici di Giuseppe II (poi),

succeduto alla madre Maria Teresa, condusse una politica più radicale rispetto ad essa ed

elaborò un dettagliato programma di governo.

Promulgò l’Editto di tolleranza col quale veniva riconosciuta l’eguaglianza dei sudditi

delle diverse confessioni religiose cristiane sia in merito all’accesso alle cariche pubbliche

che ai diritti privati, il culto dominante rimaneva però sempre quello cattolico.

Sancì la natura di contratto del matrimonio, disciplinabile dal diritto civile dello Stato ed

equiparò figli maschi e femmine nella successione.

Promosse la codificazione in quasi tutti i settori: civile, penale, processuale, escludendo

qualsiasi altra fonte compreso il diritto comune.

Importante fu anche la riforma sul processo civile che prevedeva la procedura scritta; ampi

poteri al giudice nella raccolta delle prove, benché le parti avessero ampia facoltà nella

produzione e presentazione delle prove; che le cause venissero decise in 3 gradi di giudizio

differenti: Tribunale di prima istanza, Tribunale d’appello e il Tribunale di revisione .

Il codice penale giuseppino fu invece emanato nel 1787 con la netta affermazione del

principio di legalità e del divieto al ricorso dell’analogia, vietando dunque il ricorso al

diritto comune e a qualunque etero integrazione. Il destinatario della sanzione era unico,

senza distinzione di ceto, la pena era imprescrittibile, la tortura giudiziaria era abolita e la

pena di morte ridotta (per quanto rimanessero vigenti le pene corporali). Al codice penale

seguì nel 1788

il codice di procedura penale: il sistema delle prove legali venne mantenuto rigorosamente

in mancanza dei quali l’imputato era allora assolto per insufficienza di prove (la presenza

delle sole circostanze determina la riduzione della pena). Era anche venuta meno la

discrezionalità del giudice in presenza di indizi, inoltre il giudice doveva raccogliere le

prove per l’accusa, provvedere alla difesa ed emettere la sentenza.

Meno fortunata fu la codificazione civilistica.

Pietro Leopoldo

Alla morte del fratello maggiore Giuseppe II, Pietro Leopoldo ricevette la corona imperiale col nome

di Leopoldo II. Già granduca di Toscana e soprattutto promotore di importanti riforme in tutti i campi

che fecero della Toscana uno degli Stati italiani più evoluti; infatti grazie alla collaborazione di

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eccellenti ministri e tecnici riorganizzò l’amministrazione, riformò il sistema tributario, rendendo tutti

i cittadini uguali di fronte alle imposte, rese pubblico il bilancio dello Stato, migliorò le condizioni

dell’erario.. in campo legislativo invece procedette all’abolizione della tortura e della pena di morte e

all’affermazione dell’uguaglianza di tutti i figli rispetto alla successione paterna.. Diede notevole

impulso all’agricoltura, all’industria e al commercio.. promosse la cultura fondando scuole,

accademie, musei e rinnovando le università di Pisa e Siena. Premesso ciò nel 1786 però riuscì a

varare una legge di importanza storica: la Leopoldina con la quale il sistema penale venne ridisegnato

in modo nuovo:

- l’abolizione della tortura giudiziaria,

- la depenalizzazione dei reati di opinione e religione,

- l’eliminazione della pena di morte (che però reintrodusse il suo successore).

Leopoldo salvò infine l’essenziale delle riforme giuseppine (come l’ordinamento giudiziario, la

disciplina del matrimonio, la limitazione dei privilegi del patriziato e a separazione tra giurisdizione e

amministrazione). Anche la codificazione civile fece con Leopoldo dei passi avanti e nacque infatti il

Codice civile Galiziano che abrogava fonti sussidiarie e mantenendo solo le consuetudini secundum

legem. Le riforme non mancarono anche in Francia ma la crisi economica e la monarchica portarono

alla rivoluzione nel 1789 e la svolta riformista si ebbe solo con l’assemblea costituente

L’indipendenza americana

In America le colonie avevano intrapreso un cammino di indipendenza che le portò a stringere e ad

allearsi in un patto di alleanza che diede vita agli Stati Uniti d’America, una svolta destinata a

segnare la loro storia e quella del pianeta seguita poi dall’Indipendenza americana (1775-1783).

Nell’introduzione alla Dichiarazione di Indipendenza del 1776 possiamo trovare alcuni dei diritti

fondamentali che la guerra d’indipendenza sancì, primo fra tutti il diritto a ribellarsi ad una

occupazione ingiusta che violasse i diritti fondamentali dell’uomo e poi il principio di uguaglianza

giuridica tra i cittadini conquistati e i conquistatori.

Tra i principi principali sanciti dalla dichiarazione vi troviamo (n° 5):

- gli uomini sono tutti uguali, senza alcuna distinzione;

- gli uomini sono stati dotati di diritti inalienabili tra i quali quelli alla vita, alla libertà e alla

ricerca della felicità;

- i governi sono istituiti per garantire il raggiungimento di questi fini;

- i governi derivano il loro potere dal consenso dei governati;

- i popoli hanno diritto di modificare o abolire qualsiasi governo che non garantisce il

perseguimento di questi scopi e di istituire un nuovo governo.

Ritornando al patto di alleanza, l’unione che crearono prevedeva che i 13 Stati rimanessero sovrani,

mentre un’assemblea confederale, il Congresso (un’assemblea composta da delegati di ciascuno

Stato), dovesse decidere sulle questioni di comune interesse (economia, difesa, rapporti internazionali,

ecc.), e sulle controversie sorte tra i singoli Stati della Confederazione. Ma la debole struttura

istituzionale non consentì di raggiungere gli obiettivi desiderati e si istituì una nuova Convenzione

che a Filadelfia avviò una nuova procedura che richiedeva per l’approvazione delle delibere il voto

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favorevole della maggioranza degli Stati. Nel breve tempo la Convenzione riuscì a discutere ed ad

approvare il testo che divenne poi la Costituzione degli Stati Uniti.

La convenzione di Filadelfia e la Costituzione

La scelta fondamentale fu compiuta con l’approvazione del principio secondo cui istituire un Governo

Nazionale con i 3 rami del potere legislativo, esecutivo e giudiziario, chiaramente distinte sulla base

delle teorie di Montesquieu. La questione più dibattuta riguardò però la composizione delle 2 camere

legislative:

- la Camera dei Rappresentanti,

- il Senato,

costituenti il Congresso, per le quali si decise per il bicameralismo che consentiva la rappresentanza

sia popolare che degli Stati, infatti il Senato avrebbe avuto un ugual numero di senatori per ogni Stato,

mentre la Camera dei Rappresentanti un numero di membri proporzionale alla popolazione dei

singoli Stati.

Un’altra scelta fondamentale riguardò il governo/potere esecutivo, per il quale si decise venisse

invece affidato ad un solo individuo per la durata di 4 anni, eletto a maggioranza assoluta dagli

elettori e rieleggibile per 2 volte. Egli aveva ampi poteri, dalla nomina dei giudici della Corte suprema,

alla firma dei trattati internazionali, al potere di veto per le leggi votate dal Congresso, ecc. e si disse

che tale ampiezza fu riconosciuta perché si sperava che la presidenza venisse affidata a George

Washington, e così fu. Risolte tali 2 importanti questioni, la procedura di approvazione della

Costituzione prevedeva il voto favorevole delle 2 camere e la successiva ratifica della maggior parte

degli Stati. E così fu, il voto favorevole di essi portò all’entrata in vigore nel 1788, cui si affiancò anche

la Carta dei diritti nella quale vennero sancite importanti garanzie, come la libertà di espressione, di

religione, di stampa, di associazione, di un rapido e regolare processo, ecc.

In conclusione la formula federalista permise il mantenimento dell’autonomia legislativa, esecutiva e

giudiziaria degli stati, ma allo stesso tempo garantiva un controllo centrale del congresso composto

dalle due camere.

29. RIVOLUZIONE FRANCESE E DIRITTO

L’altra grande rivoluzione che modificò il corso della storia è senza dubbio la Rivoluzione Francese.

La fase storicamente più ricca e importante è quella che va dal 1789, con l’istituzione dell’Assemblea

costituente al 1791, con la Costituzione francese e la Dichiarazione dei diritti fondamentali

dell’uomo. Qualcuno l’ha definita una ”rivoluzione senza regista” per via degli eventi imprevedibili;

si trattò di un susseguirsi di rivoluzioni, ognuna innescata dalla precedente, fino all’esito

normalizzatore di Napoleone.

Dopo la guerra dei 7 anni, la Francia conobbe una grave crisi di finanziaria che culminò, dopo diversi

tentativi di soluzione falliti, nella convocazione degli Stati generali. La sessione fu preceduta da

un’enorme inchiesta/indagine sullo stato del paese, sui malcontenti e sulle aspirazioni di riforma

espresse dai rappresentanti della nobiltà, clero e terzo stato, i cosiddetti Cahiers de Doléances

(tradotti quaderni delle lamentele, ovvero registri nei quali si annotavano le critiche della popolazione

e suddivisi in 1°, 2°, 3° stato in base alla diversità cetuale del clero, nobiltà e borghesia) dai quali

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emersero aspre critiche per il sistema giudiziario, ostacoli al commercio e alle libertà individuali.

L’evento decisivo si ebbe quando l’assemblea del terzo stato si proclamò rappresentativa dell’intera

nazione. Le altre 2 assemblee, del clero e della nobiltà, furono unite ad essa con decreto regio,

formando così la famosa Assemblea costituente, incaricata di deliberare ed approvare la costituzione

e che già nella prima fase (1789) approvò l’abolizione del sistema feudale e signorile, segnando la fine

di un’era durata 1000 anni.

La Costituente

Risultato del lavoro dell’assemblea costituente fu, come doveva essere, l’approvazione della

Costituzione nel 1791 e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.

Tale dichiarazione divenne così lo strumento per l’affermazione di diritti fondamentali, quali (n°11):

- gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali di fronte alla legge;

- i diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo, quali la vita, la libertà, la proprietà, la sicurezza, la

difesa, ecc.;

- tutto ciò che la legge non vieta non può essere impedito;

- la sovranità risiede nella nazione e non nel sovrano;

- la legge è espressione della volontà generale e deve dunque essere uguale per tutti e tutti

devono poter concorrere alla sua formazione, così come poter accedere agli incarichi pubblici

si afferma il principio meritocratico, secondo capacità, negando ogni sbarramento di ceto;

- il principio di legalità e di irretroattività della pena;

- la presunzione di innocenza sino a condanna;

- la libera manifestazione di pensiero, di parola, di scrittura, di stampa, ecc. purché la

manifestazione non turbi l’ordine pubblico;

- i tributi determinati da tutti i cittadini in ragione delle loro sostanze, accogliendo il principio

della proporzionalità delle imposte;

- la necessità di separare le autorità deputate a legiferare, governare e giudicare;

- la proprietà privata è inviolabile, salvo espropriazione per evidente necessità pubblica e previa

giusta indennità.

Non sempre però tali importanti principi e valori furono rispettati e concretamente applicati, e

l’occasione si presentò in riferimento ai diritti politici. Al riguardo la dichiarazione sanciva il principio

democratico o di democrazia diretta in senso pieno e coerente, inclusivo del suffragio universale e

dunque il diritto di voto a tutti i cittadini senza alcuna distinzione tra essi; eppure la discussione sui

requisiti necessari per l’esercizio del voto portò ad una sorta di divorzio dei lavori dell’assemblea

costituente:

- da un lato il diritto di voto venne riconosciuto solo ai cittadini attivi, sulla base del censo

(questa impostazione rompeva col precedente requisito del ceto), il che contrastava nettamente

con il principio di uguaglianza secondo cui tutti gli uomini nascono uguali e come tali tutti,

senza distinzione, hanno il diritto di partecipare alla formazione della legge; con il principio

della sovranità popolare che necessita e richiede la volontà di tutto il popolo e non di una sola

parte di esso; con il principio della democrazia diretta secondo cui il governo e il potere spetta

direttamente al popolo;

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- dall’altro lato si superò invece la plurisecolare distinzione tra città e campagna, essendo ormai

il cittadino il soggetto unico.

La riforma amministrativa

Contestualmente venne avviata una completa riforma

- dell’ordinamento amministrativo,

la Francia venne suddivisa in 83 dipartimenti;

i dipartimenti suddivisi poi in distretti;

fu abolita la venalità delle cariche e la trasmissione ereditaria.

Il processo si completerà quando Napoleone porrà a capo di ogni dipartimento un prefetto

direttamente dipendente dal governo centrale.

- Dell’ordinamento militare con un vero esercito per la difesa del territorio contro le minacce

dall’estero.

- Dell’ordinamento della giustizia,

furono abolite le corti sovrane;

in ogni dipartimento venne istituito un tribunale, con giudici elettivi, scelti dai cittadini tra

quelli con almeno 5 anni di attività (con Napoleone i giudici torneranno ad essere di

nomina regia) e la cui durata della carica era di 2 anni;

le sentenze del tribunale potevano essere impugnate;

si aggiunse un’unica Corte di cassazione, dinanzi alla quale si poteva impugnare solo

facendo valere un errore di diritto e cioè se i giudici avevano disapplicato la legge o

l’avevano interpretata in modo erroneo. Si limitava così la discrezionalità ampia dei giudici

e si assicurava l’uniformità dell’interpretazione della legge entro l’intero Stato.

- Del processo penale,

con l’istituzione della giuria popolare, scelta su liste votate dai cittadini;

una giuria di accusa valutava la causa, che poi veniva discussa dinanzi una seconda giuria

di giudizio composta da 12 giurati, ai quali spettava il giudizio di colpevolezza o

innocenza;

ai giudici spettava invece la determinazione della pena, la cui sentenza era inappellabile,

poiché i giurati rappresentavano la società nel suo insieme.

- Del sistema penale,

si stabilì la tripartizione dei fatti illeciti in contravvenzioni (ammende della polizia

municipale), delitti (reati minori di competenza dei tribunali correzionali) e crimini (reati

gravi di competenza del tribunale criminale con l’intervento della giuria);

si stabilì la immutabilità della pena già previste e sanzionate senza lasciare ai giudici alcun

margine di flessibilità;

si mantenne la pena di morte.

- Del sistema civile,

in merito al diritto di proprietà, furono abolite le istituzioni feudali con la conseguente

eliminazione della distinzione tra dominio diretto del signore o del clero e dominio utile di

chi lavorava. Si stabilirono norme per permettere all’utilista di divenire proprietario

pagando 20 annualità di censo, ma poiché i coloni lamentarono l’eccessiva onerosità, ogni

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proprietà fondiaria venne dichiarata franca e libera. Scopo di questa legge era di frazionare

la proprietà fondiaria tra tanti piccoli proprietari terrieri;

in merito alla famiglia, fu sancito il matrimonio civile e di conseguenza la possibilità di

divorzio per cui si istituì il Tribunale di famiglia;

alla donna però permasero lo stato di soggezione rispetto al marito nei rapporti familiari e

nella’amministrazione dei beni, l’incapacità di agire che richiedeva sempre la presenza di

marito o familiare maschio per adempiere a negozi giuridici;

in merito alle successioni si stabilì l’equiparazione dei figli naturali e legittimi e fu abolito

l’istituto della diseredazione;

in merito alle persone, venne abolita la schiavitù, anche se continuò ad essere mantenuta

nelle colonie, fu stabilito che la maggiore età fosse raggiunta con il compimento dei 21anni,

le discriminazioni religiose verso protestanti ed ebrei vennero rimosse;

in merito al lavoro, si abolirono le corporazione e le associazioni professionali, si soppresse

l’ordine degli avvocati, si introdusse il principio della libertà di difesa in giudizio.

Chiesa e Stato

Anche nei confronti della Chiesa la rivoluzione francese ebbe delle notevoli ricadute, tanto che il

rapporto tra esse fu piuttosto complesso ed ambiguo.

L’abbandono dei privilegi precedentemente votato (nell’89) aveva comportato l’abolizione delle

decime (tributo che il lavoratore doveva pagare, il cui ammontare era un decimo del reddito), dei

benefici ecclesiastici e degli altri cespiti a favore del clero; ne seguì la confisca delle immense proprietà

immobiliari della Chiesa che divennero proprietà dello Stato destinate alla vendita al pubblico. Venne

riformata anche l’organizzazione interna del clero con un apposita legge denominata Costituzione

civile del clero, che poneva l’ordinamento clericale sotto il controllo statale, ma la mancata

approvazione di Papa Pio VI provocò uno scisma dando il via alla divisione del clero francese e

scatenando atteggiamenti anticlericali che portarono agli anni del Terrore, durante i quali, dal 1794 al

1795, l’assemblea costituente divenne una vera e propria dittatura, con la condanna sommaria e

l’esecuzione immediata di tutti coloro che erano sgraditi ad essa stessa.

Il Regime del Terrore, o semplicemente il Terrore, comprende un periodo della storia della

Rivoluzione francese caratterizzato da una brutale repressione, da parte dei rivoluzionari,

mediante il ricorso al terrorismo di Stato (ovvero l’uso di strategie e metodi terroristici da parte

dell’autorità statale contro i suoi stessi cittadini per fini repressivi, dunque per eliminare direttamente

un gruppo politico, per togliergli credibilità davanti all’opinione pubblica incolpandolo di atti

commessi da terzi, o per intimidire e far emigrare una popolazione che non si desidera - pulizia

etnica, ecc..).

Il Regime del Terrore si sviluppò con la direzione della Convenzione Nazionale che votò in favore

delle azioni di terrore per reprimere le attività controrivoluzionarie, e in particolar modo per la

volontà di Robespierre, il quale battutosi inizialmente per le libertà fondamentali, appoggiò poi una

legge sui sospetti, che disponeva l’immediata esecuzione della condanna senza processo di chiunque

fosse stato sospettato di tradire gli interessi nazionali; meccanismo del quale fu però alla fine vittima

lo stesso ideatore. I tribunali rivoluzionari condannarono sommariamente a morte migliaia di civili,

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che vennero giustiziati con la ghigliottina; altri furono incolpati di turbativa, a volte per le loro

opinioni o atti politici, ma spesso senza altra giustificazione che il sospetto. Robespierre fu

sicuramente uno dei noti e controversi protagonisti della Rivoluzione Francese e del Terrore. Gli

storici e i contemporanei si sono divisi tra chi lo considerava e lo considera un estremista che causò le

numerose esecuzioni di coloro che erano considerati nemici della Rivoluzione, e chi lo ritiene un

idealista, cresciuto nelle idee dell’Illuminismo, considerando le leggi speciali del Terrore come una

misura necessaria per combattere la guerra civile che lacerava ormai la Francia. Il consenso della

maggioranza della Convenzione nazionale al Terrore venne meno quando vennero meno i motivi

per i quali si era cercato di giustificare tali misure dittatoriali ed infatti al primo errore di Robespierre i

vari membri della Convenzione ne approfittarono per arrestarlo insieme a vari suoi seguaci e per

condannarlo a morte. La sua esecuzione, avvenuta il giorno dopo, segnò praticamente la fine del

Regime del Terrore.

30. L’ETA’ NAPOLEONICA

Il direttorio e l’età giacobina

Come già detto la Rivoluzione Francese venne definita una rivoluzione senza regista perché gli

eventi che si susseguirono furono imprevedibili/impensabili e imprevisti/improvvisi anche per i

protagonisti stessi; essa fu infatti il risultato di più rivoluzioni, di segno anche opposto tra loro,

ognuna innescata dalla precedente, fino all’esito normalizzatore di Napoleone.

La reazione alla dittatura dell’assemblea costituente e agli anni del terrore di Robespierre portò ad una

riforma costituzionale che diede vita al cosiddetto Direttorio e alla Costituzione del 1795. Il Direttorio

fu l’organo posto al vertice delle istituzioni francesi nell’ultima parte della rivoluzione francese, il

cui obiettivo fu quello di porre fine agli anni del Terrore evitando in qualsiasi modo che il potere si

riconcentrasse nelle mani di un’unica persona e non produrre più esiti sanguinosi come quelli che si

realizzarono durante il governo di Robespierre. La costituzione del 1795 prescriveva infatti una

struttura del corpo legislativo comprendente 2 camere:

il Consiglio dei 500, competente a proporre, discutere e votare le leggi; e

il Consiglio degli anziani, abilitato ad approvare o respingere quanto deliberato dall’altra.

Il corpo elettorale era suddiviso su due livelli:

quelli di 1° grado, eleggevano a suffragio universale maschile quelli di 2° grado;

quelli di 2°, erano i soli a potere esercitare il diritto di voto per il corpo legislativo.

Si mantenne il criterio censitario (fondato sul reddito) con una soglia reddituale più elevata.

Il potere di governo spettava ad un direttorio di 5 membri, designati dal corpo legislativo.

Tra le innovazioni legislative di questa fase si ricorda il nuovo codice dei delitti e delle pene del 1795,

note come Code Merlin, caratterizzato da una struttura diversa perché:

la fase istruttoria venne resa segreta,

si autorizzò l’utilizzo dei verbali istruttori in dibattimento e

si mantenne la doppia giuria, di accusa e di giudizio.

La medesima struttura si ritrovò anche nell’Italia settentrionale, tanto che nella cosiddetta Età

Giacobina (1796 – 1799), videro la luce in Italia alcuni testi ispirati alla costituzione francese:

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bicameralismo,

principio censitario per i diritti di voto,

giuria penale,

riconoscimento della religione cattolica, ma con tolleranza per quella ebraica, ecc.

Il regime napoleonico

Ma veniamo all’avvento di Napoleone Bonaparte.

Il colpo di stato del 1799 modificava di nuovo le fondamenta dell’ordinamento costituzionale francese,

istituendo un triumvirato nel quale Bonaparte era primo console (che poteva decidere anche da solo

senza il necessario consenso degli altri 2) con poteri enormi:

funzioni di comando e di governo,

comando dell’esercito,

potere regolamentare,

iniziativa legislativa, alla cui formazione delle leggi partecipava il riformato Consiglio di Stato;

al Senato invece spettò il compito di verificare la costituzionalità delle leggi e deliberare

eventuali modifiche.

Ma non finì qui. Successivamente Napoleone, dapprima si fece nominare console a vita e poi si fece

nominare imperatore, iniziando così un regime dittatoriale di ben 15 anni, caratterizzato da tutta una

serie di importanti riforme e trionfanti conquiste. Tra le riforme varate, significativa fu quella che

revocò i membri del ramo legislativo, esecutivo e giudiziario e dunque del Tribunale, del Senato e il

Corpo legislativo, che vennero da quel momento vennero nominati con assoluta discrezionalità da

Napoleone stesso. Anche le innovazioni legislative ed amministrative furono di grande rilievo:

i prefetti, se prima a nomina elettiva, vennero scelti dal governo ed in qualunque momento

erano revocabili, così come i membri del consiglio di ciascun dipartimento;

anche i giudici, se prima di nomina elettiva, vennero scelti direttamente dal primo console

(solo quelli di pace rimasero elettivi);

l’ordine degli avvocati venne nuovamente istituito, prevedendo la formazione universitaria in

diritto ed un’esperienza di 2 anni di avvocatura per l’accesso in magistratura;

Nei rapporti con la chiesa si tentò un accordo con Roma, che dichiarò pubblico e libero il culto

cattolico, impose al clero un giuramento di fedeltà e obbedienza al governo, il quale ebbe l’obbligo di

scegliere i sacerdoti tra le persone ad esso gradite. Non garantendo un’effettiva separazione tra stato e

chiesa, il rapporto degenerò con l’opposizione di papa Pio VII alle pretese imperiali che gli costarono

il carcere; Napoleone dichiarò poi decaduto lo stato pontificio e unì i territori e la città di Roma

all’Impero francese. La resistenza della chiesa fu totale e fu una delle ragioni di crisi del regime. Il

governo di Napoleone segnò così la fine del periodo rivoluzionario e l’inizio anzi la continuazione di

nuove conquiste e riforme.

31. LE CODIFICAZIONI

Francia

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Il risultato più grande degli anni napoleonici fu la codificazione di diritto privato, penale e

processuale, la cui impresa fu fortemente voluta da Napoleone, con cui si coprirono in modo esclusivo

tutti i principali settori tradizionalmente disciplinati da diritto comune e locali.

Il codice civile, tra tutti, rappresentò uno dei massimi monumenti della Francia e dell’Europa

moderna. L’iniziativa per la composizione del codice civile prese avvio nel 1793, per poi terminare sul

finire dell’età giacobina con l’approvazione del Code Napoleon del 1804. I progetti furono numerosi

ed elaborati dal console dell’impero francese Cambacérès:

il 1° Progetto Cambacérès (console e arcicancelliere dell’impero francese) del 1793, fu

comprensivo di 719 articoli con tripartizione della materia in persone e famiglia, beni, contratti.

Le scelte erano:

coerenti con quelle liberali della rivoluzione,

abolitive di patria potestà e della potestà maritale,

agevolanti per il divorzio,

limitative della quota disponibile in tema di successione con equiparazione dei figli

legittimi e naturali.

Il progetto cadde perché considerato troppo giuridico.

Il 2° Progetto Cambacérès del 1794, apportò una semplificazione con la riduzione degli articoli

a 297 e l’enunciazione dei principi in forma di brevi sentenze. Al centro del disegno stava il

singolo individuo, cioè la persona padrona di se stessa (libertà), dei propri beni (proprietà), di

disporne nel proprio interesse (contratto). Questa volta le critiche riguardarono l’eccessiva

sinteticità.

Il 3° Progetto Cambacérès del 1796, fu comprensivo questa volta di 1104 articoli, nei quali:

il divorzio veniva circoscritto/limitato/contenuto,

la patria potestà veniva ripristinata e con essa il potere di amministrare i beni della moglie,

i diritti successori dei figli naturali rispetto ai legittimi, se prima vennero equiparati,

tornarono invece a ridursi.

Ma anche questo progetto non venne approvato, passando il testimone a Jacqueminot .

il Progetto Jacqueminot del 1799, fu comprensivo 900 articoli, limitati però al diritto di

famiglia, alle successioni e alle donazioni. Benché non raggiunse l’approvazione, il codice

elaborato 4 anni successivi accolse diversi articoli invariati da questo progetto.

il Progetto Napoleonico del 1800, fu finalmente quello destinato al successo. Esso rispecchiò

alcuni elementi dei progetti precedenti e giorno dopo giorno mise in discussione tutti gli

aspetti rilevanti del diritto civile.

Il progetto seguì l’iter tipico per approvare i codici 800eschi, fu cioè sottoposto al vaglio del Tribuna le,

trasmesso in versione riveduta al Consiglio di stato, e poi votato dal corpo legislativo. Il codice civile

era finalmente nato: Code Napoleon.

Il nuovo codice richiamò l’attenzione di 2 elementi in particolare:

escludeva ogni altra fonte sussidiaria anteriormente in vigore, cancellando così l’immenso

patrimonio del diritto comune, le consuetudini, i diritti locali e divenendo fonte esclusiva non

integrabile con altre fonti da parte dei giudici.

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vietava ai giudici di potersi rifiutare di giudicare con il pretesto del silenzio o del difetto della

legge, dovendo ricorrere in tali casi all’equità.

Esso fu composto da 2281 articoli e diviso in 3 parti:

1° libro, delle persone (matrimonio, filiazione, adozione, ecc.);

2° libro, dei beni e modifiche della proprietà (diritto reali);

3° libro, dei diversi modi di acquisto della proprietà (successioni, obbligazioni, contratti, ecc.).

La proprietà fu dunque al centro della disciplina civilistica, tanto da essere spesso definito come

codice della proprietà, e celebre del codice fu la definizione data alla proprietà quale diritto di godere

e disporre delle cose nel modo più assoluto, purché non se ne faccia un uso proibito da leggi o

regolamenti. Con tale formula il legislatore volle definitivamente respingere la nozione medievale del

doppio dominio tra proprietario e utilista. Il trasferimento della proprietà si distacca dalla tradizione

romana, nel senso che essa non si trasferisce con la consegna della cosa (traditio) ma con il consenso

validamente manifestato.

Ad ogni modo anche sulla famiglia e sulle successioni, il codice ripose vasta importanza ed

attenzione:

la patria potestà (viene meno con il raggiungimento della maggiore età, comprende però il

consenso per il matrimonio e il formale consiglio fino a 30 anni) e la potestà maritale

(l’amministrazione dei beni della moglie spetta al marito; la moglie è priva della capacità di

agire ed è per questo equiparata al minore o all’incapace; l’adulterio della moglie è considerata

causa di divorzio, mentre quello del marito lo è se porta in casa la concubina) vennero

ripristinati;

il divorzio venne vietato per incompatibilità di carattere;

l’adozione fu fortemente limitata;

il testamento fu invece favorito, riconoscendo ai figli naturali al massimo un terzo di ciò

che andava ai figli legittimi (quindi non equiparati del tutto), ma non le donazioni a loro

favore.

Ad indurre Napoleone, a disegnare questa dura disciplina della famiglia, definita come

monarchia della famiglia, fu un preciso intento politico: riconoscere alla figura del padre un

forte centro di autorità, quale presupposto e garanzia dell’ordine - dall’autorità paterna si

diceva infatti dipendesse la tranquillità pubblica.

Per i contratti fondamentale fu la norma che elevava la volontà dei contraenti, espressione

dell’autonomia contrattuale privata, al livello della legge, vincolante anche per il giudice.

Non si trattava ovviamente di un’autonomia arbitraria ma di un’autonomia limitata alla

conformità, al rispetto della legge, dell’ordine pubblico e del buon costume, il cui scopo era

quello di indurre i privati contraenti a comportarsi secondo le regole della buona fede e

della correttezza

In conclusione il codice deve la sua straordinaria fortuna a 3 profili, alla qualità formale e sostanziale

raggiunta:

nei contenuti ha permesso un duplice equilibrio:

l’unificazione dei due rami della tradizione francese, quello romanistico e quello

consuetudinario,

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89

l’unione della tradizione francese, sia romanistica che consuetudinaria, con alcune

innovazioni della rivoluzione.

Nel metodo, ha elaborato un’unica disciplina dell’intero diritto civile, in sostituzione di ogni

altra fonte secolare.

Nella forma, ha raggiunto un’eccellente livello grazie ad un linguaggio chiaro ed asciutto,

capace di fissare in brevi formule il precetto della legge.

Gli altri codici napoleonici

Il codice civile napoleonico, come abbiamo detto, ha rappresentato il monumento legislativo per

eccellenza, ma anche gli latri codici voluti ed emanati da Napoleone ha rivestito grande importanza.

Il codice di procedura civile.

Il progetto definitivo prevedeva un procedimento orale davanti al giudice di pace, mentre in

tribunale il processo era incentrato su prove scritte, lasciando spazio all’oralità solo nelle

arringhe conclusive. L’iter così disciplinato segnava il ritorno all’Ordonnance civile.

Il codice di commercio.

Il progetto fu riveduto e migliorato in seno al Consiglio di stato, dopo le critiche delle Corti e

delle Camere di commercio, nel quale erano ravvisabili 2 distinte correnti:

una decisa a limitare gli allontanamenti tra disciplina commercialistica e diritto civile

comune,

l’altra incline invece a favorirne le specificità e dunque le differenze.

Il codice fu suddiviso in 4 libri:

del commercio via terra,

del commercio marittimo,

del fallimento, il cui regime fu molto duro per evitare i fallimenti dolosi, su volontà dello

stesso Napoleone),

della giurisdizione commerciale, affidata ai tribunali di commercio, composti da mercanti,

che potevano anche decidere l’arresto per debiti.

Esso disciplinava inoltre, per la prima volta, le società per azioni, disponendo che dovevano

però ottenere autorizzazione governative.

Il codice di procedura penale.

Anche il processo penale venne ristrutturato e la questione più dibattuta fu quella della giuria

penale cui Napoleone era profondamente avverso, ma cui dovette piegarsi. Nella disciplina

della fase istruttoria si riaffermò il principio della segretezza già caratteristico dell’Ordonnance

criminille e del Code Marlin, le notizie di reato venivano raccolte dal giudice istruttore su spinta

del procuratore del re, senza che l’imputato potesse difendersi ne che fosse informato dei fatti

accusatori. Nel dibattimento valeva invece il criterio della pubblicità, alla presenza di un

difensore che poteva controinterrogare l’imputato in presenza della giuria. Rimaneva il criterio

dell’inappellabilità del verdetto dei giurati e del libero convincimento.

Il codice penale.

Il codice penale fu l’ultimo dei 5 ad essere approvato e si discostò molto da quello del 1791. Il

contenuto del codice prevedeva:

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la già conosciuta tripartizione tra crimini, delitti e contravvenzioni;

le pene includono la condanna capitale, la deportazione, lavori forzati, la reclusione, ecc.;

la confisca dei beni viene reintrodotta;

tra i reati un peso importante venne dato a quelli contro la sicurezza dello stato;

la recidiva venne severamente colpita;

il concorso è sanzionato con la medesima pena dell’autore;

il principio della legalità del reato venne disatteso con una speciale disposizione che

ammetteva l’incarcerazione fino ad un anno di soggetti ritenuti pericolosi.

Viene riformato poi il sistema delle pene fisse e si stabilisce un minimo e un massimo per le

singole pene stabilite dal codice, consentendo ai giudici un congruo spazio di flessibilità.

Austria

Anche a Vienna negli stessi anni maturarono nuovi codici.

Il codice penale di Francesco I (figlio di Leopoldo), il cui fondamento fu costituito dai 2 codici

giuseppini, penale e processuale penale pur con alcune innovazioni, comprendeva il diritto

penale e il diritto processuale penale.

In merito al diritto penale, rimase immutata la distinzione tra delitti (reati classici) e gravi

trasgressioni politiche (illeciti e contravvenzioni di minore gravità). Si affermò il principio

di legalità del reato e della pena, e la precisazione che solo il dolo intenzionale

presupponeva la repressione penale. Il sistema delle pene fu severo, con la pena di morte

ampliata, e anche i reati religiosi vennero perseguiti.

In merito alla procedura rimase intatto il sistema delle prove legali, occorrendo 2 testimoni

o la confessione, e nel quale solo la piena prova consentiva la condanna. Restava fermo

però che pur di ottenere la confessione spesso i mezzi brutali si avvicinano di molto alla

tortura. Non essendo prevista la presenza del difensore, il giudice assolveva alla triplice

funzione di accusare, difendere e pronunciare la sentenza, cosiddetto procedimento

inquisitorio puro.

Il codice civile (ABGB)

I precedenti codici civile e galiziano furono la base per il nuovo codice civile e per la

ristrutturazione dell’intera materia del diritto civile. I lavori preparatori si conclusero con

l’approvazione del testo che prese il nome di Codice Civile Generale (ABGB). Esso è generale

nel duplice senso di estendersi a tutti i domini asburgici di applicarsi a tutti gli uomini, in virtù

del principio dell’unificazione del soggetto giuridico.

Il codice in questione se da un alto si differenziava da quello napoleonico sia nei contenuti che

nella forma, visto che il legislatore francese si esprimeva per precetti e comandi mentre quello

austriaco prediligeva le formulazioni per principi. Dall’altro come il codice francese trovò un

equilibro tra tradizione e rinnovamento, infatti quanto ai diritti reali e alle obbligazioni

prevalse rispettivamente la tradizione del diritto comune e della regola romana che richiedeva

la consegna della cosa per il trasferimento di proprietà; per quanto riguarda invece il diritto di

famiglia e delle persone, fu il settore maggiormente influenzato dalla nuova cultura

illuministica e che finalmente seppe migliorare la posizione della donna, potendo così

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91

amministrare il proprio patrimonio senza alcuna autorizzazione maritale, rivendicare

l’educazione e la potestà genitoriale insieme al marito non più autoritari, ecc.; e ancora i figli

naturali andavano curati e alimentati in proporzione alle sostanze della famiglia, gli illegittimi

erano invece esclusi dalla successione; il matrimonio civile venne mantenuto, mentre il

divorzio venne riconosciuto dagli ebrei e protestanti ma non dai cattolici che sostenevano al

contrario l’indissolubilità del vincolo matrimoniale, ecc.

Sul codice civile austriaco (ABGB) si formò poi una dottrina che ne analizzò i caratteri ed i

contenuti, dove a spiccare fu Zeiller scrivendone un commento che ebbe grande diffusione,

anche se di commenti ne furono scritti molti altri. La fortuna del codice è che da allora ad oggi

esso è ancora vigente in Austria.

L’ ETA’ DELLE NAZIONI (1815-1914)

Nel secolo che intercorre tra la caduta del regime di Napoleone e la prima guerra mondiale, ovvero

nel corso del 19° secolo o ‘800

la codificazione del diritto privato, penale, processuale.. si era ormai affermata ovunque,

spesso rifacendosi al modello francese;

l’economia si fondava su nuove tecniche di produzione industriale e sullo sviluppo degli

scambi commerciali;

la borghesia era ormai divenuta il ceto dominante sia nella società che nella politica che

nell’economia, dotata di ampi privilegi, in sostituzione del patriziato;

in merito all’arte e alla cultura è sicuramente stato il secolo del romanticismo e del

nazionalismo. Nasce infatti l’ideologia della Nazione quale comunità ideale politica che lega la

storia, la cultura, la religione, il diritto, la lingua, ecc. di un popolo;

in merito alla dottrina giuridica è invece stato il secolo della Germania con la scuola Storica del

Diritto;

in merito al diritto, la legge diviene la fonte primaria quale espressione della sovranità

popolare, sovranità che nell’antico regime spettava al re e che da questo momento si rispecchia

invece nella legge.

i Paesi europei consolidarono gli ordinamenti giuridici che le riforme settecentesche avevano

creato, seppur con qualche modifica e accorgimenti.

32. IL DIRITTO DELLA RESTAURAZIONE

Per Restaurazione intendiamo quel processo con cui venne ristabilito il potere assoluto dei Sovrani

d’Europa, all’indomani della definitiva sconfitta di Napoleone, e che ebbe fondamentalmente inizio

con il Congresso di Vienna del 1815, al quale parteciparono le principali potenze europee allo scopo di

ridisegnare l’assetto politico dell’Europa, contrastare definitivamente le ideologie della Rivoluzione

francese e ripristinare l’antico regime.

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La Santa Alleanza

Con il Congresso di Vienna del 1815 i sovrani d’Europa strinsero un patto solenne di restaurazione,

chiamato appunto Santa Alleanza, caratterizzato da 2 aspetti:

da un lato il cosiddetto principio di legittimità, ovvero il ritorno al passato e dunque il ritorno

del potere sovrano nelle mani dei sovrani, sui rispettivi Stati governati;

dall’altro il rifiuto della separazione dei poteri e in generale delle ideologie illuministiche che

altro non avevano portato se non alla rivoluzione francese, agli anni del terrore, alla

tirannide/dittatura napoleonica, ecc.

Ma l’ordine così restaurato grazie al Congresso di Vienna suscitò presto reazioni forti e diffuse in tutta

Europa, che spesso si coagularono nella forma di società segrete, tra le quali ebbe un ruolo importante

la Carboneria. La Carboneria fu una società segreta italiana, fondata a Napoli, che come in ogni

società segreta, chi si iscriveva non ne doveva e non poteva conoscere tutte le sua finalità fin dal

momento della adesione e aspirava soprattutto alla libertà politica e ad un governo costituzionale. Tra

i carbonari più accaniti, nonché famoso personaggio dell’Italia risorgimentale, ricordiamo Giuseppe

Mazzini da giovane, il quale quando la Carboneria venne definitivamente sconfitta, se ne distaccò e

fondò una nuova società segreta chiamata Giovine Italia col proposito dell’Unità nazionale. Egli

sosteneva che le organizzazioni carbonare avessero fallito principalmente per la contraddittorietà dei

loro programmi e per la diversità delle classi, ma anche per il carattere della segretezza che le

contraddistingueva, tanto che sosteneva che per la liberazione italiana necessitava una grande

mobilitazione popolare e che la Giovane Italia perdesse il più possibile il carattere di segretezza,

conservando quanto necessario a difendersi dalle polizie, ed acquistasse quello di società di

propaganda.

Un diverso indirizzo fu invece espresso da Vincenzo Gioberti. Anche egli aveva conosciuto la

Giovine Italia, ne aveva fatto parte e aveva meditato a lungo sull’esperienza mazziniana

convincendosi che lo sbaglio più grande di Mazzini fosse stato quello di volere a tutti i costi incitare

un’insurrezione popolare per unificare il paese. Ma secondo il Gioberti bastava invece che i Principi

dei vari Stati italiani costituissero una Confederazione presieduta dal Pontefice, in modo da rimuovere

i pericoli delle rivoluzioni o sommosse popolari prettamente mazziniane. Il disegno del Gioberti,

confrontato con quello del Mazzini, appariva dunque più lucido e realistico e la via dell’indipendenza

italiana più facile, tanto che con Papa Pio IX al pontificato, in un primo momento sembrò che il

disegno di Gioberti potesse davvero realizzarsi. Ma l’unico punto debole era proprio rappresentato

dalla Chiesa stessa in quanto non tutti concordavano nel ritenerla all’altezza di un progetto

importante come quello dell’unificazione italiana, ed infatti gravi vicissitudini successive portarono lo

stesso Gioberti a ricredersi e a riconoscere nel Piemonte il solo potere in grado di portare avanti

l’unificazione italiana. In seguito al Congresso di Vienna, l’Italia venne divisa in una decina di Stati o

Regni che furono autori di significative codificazioni o codici o legislazioni preunitarie.

Legislazioni preunitarie italiane: Regno delle Due Sicilie

A differenza di quanto avvenne in altri Stati italiani, il ritorno dei Borboni a Napoli non fu

inizialmente connesso alla volontà di una radicale restaurazione.

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Il Regno delle Due Sicilie fu però il primo a dotarsi di cinque codici propri, il cui contenuto fu

esemplato sul modello napoleonico; nonostante ciò non mancarono regole differenti rispetto alla

matrice francese, come ad esempio netto fu il distacco nel diritto di famiglia, dove il matrimonio civile

venne cancellato, ritornando al matrimonio canonico, così come abolito fu il divorzio; il regime

patrimoniale tra coniugi fu quello della separazione anziché quello della comunione e in tema di

successioni la posizione delle figlie femmine si equiparò a quella dei figli maschi; i diritti reali e le

obbligazioni furono invece modellati quasi integralmente sul codice napoleonico, anche se si

introdusse il contratto di enfiteusi che i francesi non avevano ancora ammesso. Anche il codice penale

e il codice di procedura segnano delle differenze rispetto al codice napoleonico, nel primo le pene per i

reati più gravi diventano infatti più aspre, nel secondo vengono previsti dei regimi di pubblicità e di

oralità.

Ducato di Parma

Fra i codici italiani approvati nel corso della Restaurazione, si ritenne il Codice civile di Parma del

1820 “superiore ad ogni altro codice italiano”. Elaborato con la partecipazione di ben 4 commissioni di

lavoro, il risultato che con esso alla fine si raggiunse fu notevole perché riuscì a raggiungere un

equilibrio tra tendenze difficilmente conciliabili. Anche il codice di Parma, per alcuni aspetti, riprende

le nozioni del codice napoleonico.

Regno di Sardegna

Le codificazioni piemontesi furono raccolte di leggi volute e pubblicate dal re sabaudo Vittorio

Emanuele II, il cui principale scopo fu quello di vietare a giudici ed avvocati di sfoggiare nei processi

citazioni dottrinali. Nonostante, però, le importanti innovazioni che esse apportarono nel regno

sabaudo- piemontese, non costituirono mai un vero e proprio codice dovendosi per quest’ultimo

attendere il codice civile Albertino del 1837; nell’attesa costituirono comunque il nucleo principale del

diritto piemontese. La prima codificazione sabauda o piemontese autonoma venne dunque promossa

con l’ascesa al trono di Carlo Alberto nel 1831, il cui primo e più importante frutto del suo operato fu

il Codice civile Albertino del 1837.

Se da un lato il modello principale a cui fu ispirato fu il codice napoleonico, dall’altro rilevanti sono gli

scostamenti e le innovazioni rispetto ad esso:

la religione cattolica venne designata come la religione del regno;

il matrimonio fu quello di diritto canonico e il divorzio venne negato;

la patria potestà tornò ad essere vitalizia;

le figlie, nelle successioni, erano equiparate ai figli.

Nel caso di lacune il codice rinviava poi all’analogia e in mancanza ai principi generali del diritto, una

formulazione nuova rispetto agli altri codici coevi/correnti, che sarà poi ripresa nel codice del 1865. Il

codice restò in vigore sino all’unità italiana. Ad esso seguirono il codice penale, il codice di

commercio, il codice di procedura criminale, il codice di procedura civile.

Granducato di Toscana

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Nel settore del diritto civile la Toscana mantenne la tradizione del diritto comune sino all’unità. Nel

settore del diritto penale, venne invece emanato il Codice penale del 1853, che fu considerato il

migliore tra quelli penalistici di quel tempo. Alcune importanti caratteristiche, che contribuirono a

renderlo uno dei migliori, furono:

il principio di legalità, secondo cui gli organi dello Stato agiscano in base alla legge;

il principio di tassatività e tipicità dei reati;

il dolo come la regola e la colpa come l’eccezione;

l’attenuazione della pena in caso di tentativo e concorso; ecc.

Regno Lombardo - Veneto e altri stati italiani

Il ritorno degli austriaci determinò in Lombardia e nel Veneto un netto distacco rispetto al periodo

napoleonico, infatti nel nuovo regno solo il codice di commercio francese venne mantenuto, mentre i

codici civile e penale estesi furono quelli austriaci. Nel restaurato Stato pontificio il papa Pio VII

programmò una codificazione che venne solo in parte realizzata; fu poi papa Gregorio XVI a condurre

a buon fine la codificazione processualistica.

Il codice civile olandese

Nel 1838 vide la luce in Olanda un nuovo Codice civile (Burgerlijk Wetboek) che, se pure creato in

larga misura sul modello del codice francese, se ne distaccava tuttavia sotto diversi profili.

La dottrina giuridica italiana (in generale)

Quanto alla dottrina giuridica in Italia, tra i giuristi italiani del primo ‘800 a spiccare fu Romagnosi,

autore di un importante saggio sul diritto penale, nel quale sviluppò la tesi secondo cui lo scopo

primario del diritto penale doveva essere la difesa della società dal pericolo causato da chi

commettesse o potesse commettere un reato; dunque la funzione vera della sanzione non era tanto

quella della punibilità ma della prevenzione, al fine di distogliere il delinquente dall’intenzione di

compiere atti illeciti (con questo suo pensiero si ricollega a quello di Cesare Beccaria).

Dottrina

In questo contesto di restaurazione e codificazione, il metodo adottato dai giuristi, che lavoravano sui

codici ai fini della loro applicazione, prese il nome di Scuola dell’esegesi. Essa consisteva dunque

nello studio del diritto attraverso il commento del codice, articolo per articolo, in quanto il codice

letteralmente e correttamente interpretato avrebbe fornito la risposta a qualunque problema. Dunque

è dalla codificazione che prende vita tale metodo e tale scuola, mettendo davanti al giurista un

insieme di norme sistemate con ordine logico, inducendolo a non andare oltre la costruzione razionale

dei concetti con considerazioni di teoria generale. Tale attività dottrinale si svolse prevalentemente sul

codice civile, che divenne a sua volta materia principale negli insegnamenti universitari e oggetto di

importanti trattazioni. Tutti gli autori, nonostante le loro diverse personalità, erano accomunati dal

fatto di aderire ed accettare le scelte del legislatore napoleonico, basandosi su di esso per la

formazione dei futuri giuristi; alcuni di loro dicevano addirittura: non conosco il diritto civile, insegno

il codice napoleonico. Ma atteggiamenti, al contrario, critici non mancarono, espressi in alcune riviste

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giuridiche di ampio successo, che pretendevano che invece che il codice andasse rivisto al fine di

rispondere meglio alle esigenze destinate a mutar nel tempo.

Giurisprudenza (in generale)

In merito invece alla giurisprudenza, l’ideologia affermata dall’illuminismo e dalla rivoluzione

francese che limitava la discrezionalità e l’autonomia dei giudici alla semplice applicazione della

norma, al di là della quale non era possibile andare, dominò in tutti i paesi europei dotatisi di codici

fino alla fine dell’800. Anche la Cassazione in tale ottica ebbe il compito di interpretare correttamente

la legge, nell’esclusivo interesse della stessa; da lì in poi infatti iniziò ad avere sempre più maggiore

influenza sulla giurisprudenza, sulle sentenze delle Corti, stabilendosi la regola che in caso di conflitto

tra le Corti di merito e la Cassazione, a prevalere dovesse essere la decisione di quest’ultima.

33. LA SCUOLA STORICA E LA DOTTRINA GERMANICA

Durante l’età della restaurazione, mentre a Parigi e a Vienna vedevano la luce i primi codici moderni,

in Germania nasceva un indirizzo giuridico nuovo, che metteva in discussione sia le tesi

giusnaturalistiche che illuministiche. Alle origini della Scuola storica stava la duplice convinzione che

innanzitutto il diritto doveva essere disegnato tenendo conto anche della tradizione storica e che la

definizione delle norme non dovesse essere esclusivamente affidata al legislatore.

Savigny

Il fondatore della Scuola Storica, nonché il più importante giurista tedesco del 19° secolo, fu Savigny.

Egli sosteneva il diritto non positivo, che vive nella vita di tutti i giorni e non tocca allo Stato

codificare, e nello specifico l’usus modernus Pandectarum, basato sullo studio del ius commune

ancora vigente in Germania. Il suo intento fu infatti quello di ricostruire i contenuti del diritto

germanico antico avvalendosi di un metodo storico e di un metodo scientifico, che applicò

nell’insegnamento universitario al fine di garantire una formazione rigorosa e ben salda per la futura

elite tedesca. Il pensiero e la scuola del Savigny si rifaceva dunque allo storicismo, in quanto:

riteneva che il passato non andasse ne sminuito né rinnegato, perché prescindere dalla storia

sarebbe stato un grave errore vista la palese relazione tra passato, presente e futuro;

chiedeva al giurista di essere egli stesso l’interprete del diritto senza alcun intervento da parte

del legislatore;

sosteneva che fosse ancora prematura l’idea di adottare dei codici. In un breve scritto ribadì

infatti che per la Germania i tempi per una codificazione non erano ancora maturi, che

occorreva prima sviluppare gli strumenti concettuale/teorici appropriati, che avrebbero

consentito poi di elaborare un codice civile.

Savigny si oppose, poi, nettamente tanto al giusnaturalismo quanto all’illuminismo perché l’idea di

un diritto universalmente valido era per lui solo un’utopia né reale né concreta, in quanto il vero

diritto naturale altro non era che il diritto consuetudinario, creato spontaneamente dalla natura del

popolo germanico e dei popoli in generale. Il suo auspicio, esposto nel breve scritto, fu infatti seguito

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alla lettera, e solo alla fine del secolo, ad unificazione politica ormai conclusa, la Germania diede

forma al suo Codice civile.

Savigny, nell’ultima opera intitolata il Sistema del diritto romano attuale, evidenziò il metodo che

adottava consistente nel costruisce un “edificio concettuale” utilizzando alcune categorie generali

come quelle di diritto soggettivo, rapporto giuridico, atto giuridico, negozio giuridico ecc. che

costituiscono per così dire i mattoni dell’edificio. Insomma concepiva il diritto come una sorta di

perimetro di regole entro il quale si sviluppava la libertà umana, la legalità, la moralità. Savigny riuscì

ad incorporare in un unico disegno filoni culturali molto lontani tra loro, ed è per questo considerato

un classico del diritto.

La scuola storica: romanisti e germanisti

All’intero della Scuola storica fu possibile identificare due filoni:

uno storico, che si realizzava attraverso studi sulle fonti antiche per riportare alla luce

conoscenze del passato;

uno giuridico, che ebbe per protagonista Puchta, sostenitore delle fonti consuetudinarie, il

quale condivideva con il Savigny la funzione fondamentale della dottrina giuridica, mentre lo

divideva la diversa concezione che aveva della stessa. Più precisamente per il Puchta la

dottrina aveva il compito di evidenziare il rapporto gerarchico tra le varie categorie giuridiche,

tanto che tipica e fondamentale del suo pensiero fu l’immagine della cosiddetta “piramide

concettuale” quale struttura gerarchica in grado di ordinare logicamente i concetti giuridici.

Grazie ad essa il giurista doveva infatti essere in grado di partire dall’origine/base della

piramide di ciascun diritto soggettivo e risalire verso l’alto fino al concetto di diritto in

assoluto, per poi ridiscendere da questo concetto supremo fino ad arrivare di nuovo ai singoli

concetti di diritti soggettivi. Insomma il giurista poteva percorrere la scala della piramide in

maniera discendente (ovvero dal basso verso l’alto) dal concetto giuridico più generale (ad es.

negozio giuridico) per dedurre il concetto più particolare (ad es. contratto, testamento, ecc.)

oppure poteva percorrere la scala ascendente (dall’alto verso il basso) partendo da concetti più

specifici o particolari fino a quello più generale. Il tutto basato su un sistema gerarchico. Con

tale nuova impostazione il Puchta non solo influenzò lo stesso Savigny ma diede inizio a

quella che più tardi fu giurisprudenza dei concetti.

Il diritto pubblico: von Mohl, von Stein, Gneist

-Von Mohl fu uno dei fondatori del moderno giuspubblicismo (che si occupa delle norme di diritto

pubblico), nonché uno dei più importanti teorici della nozione di “stato di diritto”, che lui stesso

identificava in due elementi complementari: la separazione dei poteri e i diritti dell’uomo.

- Von Stein dedicò un’importante opera al regime costituzionale moderno, che avrebbe dovuto

conferire alla monarchia il potere di governo e al Parlamento le funzioni normative e di controllo.

- Von Gneist formulò il principio dell’autogoverno, fondato sulla separazione dei poteri, quale

criterio fondamentale per rendere efficacie il regime costituzionale moderno.

34. CODICI E LEGGI DEL SECONDO ‘800

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Il Quarantotto

Le ribellioni che si diffusero in Europa a partire dal 1848 avevano un elemento di fondo comune,

ovvero l’insofferenza verso regimi costituzionali nei quali la rappresentanza politica era ristretta ad

una minima percentuale della popolazione, corrispondente alla fascia censitaria superiore, con

esclusione della borghesia agraria e commerciale che pur rappresentava ormai la principale fonte di

ricchezza delle nazioni.

In Italia, a tutto ciò, si aggiungeva l’aspirazione all’unificazione nazionale, che anche in Germania

costituiva il principale obiettivo, e la rivoluzione industriale che provocò patologie allarmanti nella

classe operaia, come sfruttamento, disoccupazione, malattie ecc.

Da qui la nascita della cosiddetta Questione sociale.

Quest’ultima venne generata dai controversi rapporti tra la classe del proletariato/operai e quella dei

capitalisti/imprenditori, i cui scontri nascevano essenzialmente dal fatto che la borghesia capitalista

esercitava un comando e un controllo economico e politico sul proletariato tale da permetterle di

rafforzare la sua posizione di potere e danneggiare quella dei lavoratori, costretti ad orari durissimi e

salari bassissimi. Tale situazione di lì a poco li avrebbe portati a richiedere una legislazione

appropriata, capace di migliorare il penoso tenore di vita in cui versavano attraverso un’adeguata

regolarizzazione degli orari e salari di lavoro ed una previsione di pensioni e assistenza sanitaria.

Insomma l’Italia aveva conosciuto per prima l’onda del malcontento sociale, tanto che il re Ferdinando

dovette presto concedere una costituzione simile al modello francese; in Piemonte invece il re Carlo

Alberto firmò lo Statuto che prese il nome di Statuto Albertino: la carta costituzione inizialmente del

Regno di Sardegna e poi del Regno d’Italia, concessa spontaneamente dal sovrano e caratterizzata

dall’essere una costituzione flessibile, cioè di pari grado alla legge ordinaria e quindi modificabile con

il procedimento ordinario utilizzato per qualunque altra legge, in contrapposizione alla rigidità della

nostra attuale Costituzione del 1948. In tale statuto l’assetto costituzionale era basato sul

bicameralismo: ad una camera elettiva di deputati si affiancava il senato di nomina regia; entrambe le

camere esercitavano il potere legislativo, conferito peraltro anche al re, titolare già del potere

esecutivo, anche se la vita del governo venne fatto dipendere dalla fiducia delle camere, tanto che se

tale fiducia fosse venuta meno il governo avrebbe dovuto dimettersi. In tal modo si costituiva quel

legame che rappresenta oggi il fulcro del regime parlamentare. Uno dei campi in cui il Quarantotto

portò innovazioni di rilievo fu poi quello della libertà di stampa, ma una serie di leggi interveniva

anche sul terreno dei rapporti sociali, disciplinando in particolare i rapporti di lavoro, dichiarando il

lavoro un “diritto” e consentendo la libertà di associazione. Il 1848 fu anche l’anno in cui uscì il

Manifesto del partito comunista scritto da Marx, allievo di Hegel, che fondò una delle ideologie

fondamentali del mondo contemporaneo: Marx invocava una lotta di classe che sostituisse la classe

operaia alla borghesia istituendo una “dittatura del proletariato” rivendicando allo Stato l’esclusività

dei mezzi di produzione e dei diritti di proprietà, quale strategia politica e giuridica che avrebbe

dovuto portare alla “società senza classi”, così che il libero sviluppo di ciascuno diventasse condizione

per il libero sviluppo di tutti; nasceva il cosiddetto social-comunismo marxista. Fondamentalmente i

socialisti la pensavano esattamente al contrario dei liberali (quest’ultimi, e in generale il liberalismo,

prevedeva infatti precisi limiti al potere e all’intervento dello Stato nell’economia, in quanto

ritenevano che solo tenendolo fuori il più possibile dalle attività dei privati, i diritti di libertà e

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l’autonomia dell’individuo potevano essere maggiormente essere favoriti e tutelati) in quanto

sostenevano che lo Stato dovesse avere un ampio potere di intervento nell’economia ed il controllo dei

mezzi di produzione al fine di assicurare l’uguaglianza economica tra tutti i cittadini e risolvere i

problemi sociali ed umani dei lavoratori esposti allo sfruttamento e alla miseria. Insomma lo Stato

avrebbe dovuto essere l’unico proprietario, pensando addirittura di favorirlo in tal senso, abolendo la

proprietà privata, così da essere tutti i cittadini uguali. Tali teorie comunque ebbero maggiore

espressione nel 1848 quando venne pubblicato il Manifesto del partito comunista di Karl Marx, come

prima abbiamo già detto.

In Francia con Luigi Filippo venne proclamata la Repubblica, accompagnata dalla caduta del regime

aristocratico; la Costituzione del 1848 che ne derivò istituì il suffragio universale maschile e conferì il

potere esecutivo ad un presidente della repubblica eleggibile a suffragio universale; era un regime

costituzionale radicalmente nuovo. Ma presto la situazione mutò con Luigi Napoleone, che approvò

una nuova costituzione e che per i successivi 10 anni gli concesse la guida del governo della

Repubblica oltre che in via esclusiva l’iniziativa legislativa. Un anno più tardi Napoleone venne

proclamato imperatore.

Solo l’Inghilterra restò immune al vortice del 1848, poiché già da tempo aveva risposto a delle

necessità che nel resto d'Europa la Restaurazione aveva invece compresso, e aveva inoltre messo a

punto strategie efficaci per i problemi sociali suscitati dalla rivoluzione industriale. Quanto alla

Chiesa, nel 1864 papa Pio IX pubblicò il Sillabo, in cui formulava una condanna alle pretese dello

Stato di immischiarsi nelle questioni religiose, ed esprimeva allo stesso tempo la pretesa della Chiesa

di influire conseguentemente sulle scelte legislative dello stato; conflitti che saranno superati con

futuro concilio vaticano.

Ad ogni modo la svolta del 1848 fu determinante per l’affermazione dei principi del moderno

costituzionalismo, gli Stati che mantennero aspetti dell’antico regime furono destinati alla decadenza,

mentre chi seppe resistere alle pressioni che auspicavano ad un ritorno al passato ebbe successo, come

lo Statuto albertino, che divenne la costituzione dell’Italia unita.

L'unificazione legislativa italiana

L’unificazione politica dell’Italia pose subito il problema del regime giuridico che il nuovo Stato

avrebbe dovuto avere. La scelta fu quella dell’accentramento: l’esercito e l'amministrazione centrale

vennero strutturati adottando il modello piemontese, a sua volta ispirato a quello francese-

napoleonico; il governo impose sull’intero territorio la sua linea politica e amministrativa attraverso

l’istituto del prefetto, organo sia politico che amministrativo. Questa scelta fu adottata al fine di

disporre di un ordinamento nazionale saldo e compatto. La questione dell'unificazione legislativa fu

affrontata con una serie di leggi messe a punto dal ministro della giustizia Urbano Rattazzi, che

prevedevano una revisione dei codici civile e penale, e delle rispettive procedure. Con la conquista di

Roma del 1870 veniva meno lo Stato pontificio e i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa vennero

disciplinati con la Legge delle guarentigie del 1871, con la quale si assicurava al papa il libero esercizio

del magistero ecclesiale, sulla base del principio enunciato da Cavour “libera Chiesa in libero Stato” ;

la Santa Sede però respinse questa disciplina e vietò ai cattolici la partecipazione alla vita politica.

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Il codice civile

Nel 1865 furono approvati i primi quattro codici dell’Italia Unita, tra i quali il più importante fu

sicuramente il Codice civile. Fin da subito venne scartata l’ipotesi di estendere uno dei codici

preunitari, derivandone anzi l’idea di un rifacimento del testo legislativo, insomma un codice civile ex

novo e del tutto diverso dai precedenti, capace di potere cogliere e contenere, per quanto possibile, le

varie esigenze nei vari territori della Penisola.

Un primo progetto venne messo a punto da Cassinis nel 1860, cui ne seguì un secondo, con il quale

furono compiute alcune importanti scelte di fondo, come l’adozione del matrimonio civile,

l’esclusione del divorzio e la concessione agli stranieri dei diritti civili. Due anni dopo il ministro

Miglietti presentò un nuovo progetto, che Giuseppe Pisanelli (divenuto nel frattempo ministro della

giustizia) fece a sua volta sottoporre all’esame di 5 commissioni presenti in più parti d’Italia; anche se

in realtà, da tale verifica, ne derivò un progetto del tutto nuovo, predisposto dallo stesso Pisanelli.

Quanto ai contenuti, il codice civile approvato nel 1865, restò fondamentalmente ancorato alle scelte

napoleoniche, seppur con numerose innovazioni, soprattutto in materia di famiglia; di patria potestà,

che venne estesa anche alla madre; di successioni; ecc. Importanti, sul terreno dei diritti reali, furono la

distinzione dei beni dello Stato in demaniali e patrimoniali, il riconoscimento della proprietà

intellettuale, la minuziosa disciplina delle servitù prediali.

Gli altri codici

Il codice di procedura civile del 1865 fu opera pressoché esclusiva del Pisanelli, che si rifece

prevalentemente al modello francese del 1806; carattere dominante del processo civile era la rigorosa

forma scritta ed il formalismo che intorno ad essa girava. Più ancorati al modello piemontese

preunitario furono invece il Codice di procedura penale e quello di commercio del 1865.

Il codice penale

In merito invece il Codice penale, ben otto progetti dovettero essere elaborati prima di pervenire

all’approvazione del testo definitivo; la questione maggiormente dibattuta riguardava la permanenza

o l’abolizione della pena di morte, fino a quando il nodo non venne sciolto nel 1877 dalla Camera che

ne votò l’abolizione. Negli stessi anni Luigi Lucchini, figura centrale nella scienza penalistica,

attraverso la “Rivista penale” da lui fondata, aveva assunto una posizione di critica costruttiva del

codice emanato piuttosto determinante, tanto da indurre all’elaborazione di un ulteriore progetto, e

poi di un altro ancora, fino all’ultimo che fu lo Zanardelli del 1887, dallo stesso Lucchini redatto e per

questo considerato il vero padre del nuovo Codice che entrò finalmente in vigore nel 1890. Il Codice

Zanardelli , suddiviso in 3 libri, trattava rispettivamente:

dei reati e delle pene,

dei delitti,

delle contravvenzioni.

Le pene per i delitti comprendevano l’ergastolo, la reclusione, la detenzione, la multa, l'interdizione

dai pubblici uffici, mentre le pene per le contravvenzioni comprendevano l'arresto e l'ammenda. Il

codice prevedeva inoltre la distinzione tra reato tentato e mancato, con diversa graduazione della

sanzione tra le due ipotesi, una nuova disciplina per la recidiva e per il concorso nel reato.

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Il codice di procedura penale del 1913

La disciplina del processo penale, rimasta ferma al codice del 1865, divenne oggetto di critiche

crescenti dal momento in cui il Codice Zanardelli ne sollecitò la riforma integrale. Ci furono diversi

progetti e tentativi fino a quando il nuovo codice venne approvato nel 1913; questo modificava in

misura rilevante la disciplina precedente, soprattutto nel senso di introdurre maggiori diritti di difesa

nella fase istruttoria, suscitando però aspre critiche al riguardo.

La Costituzione, i Codici della Germania unita e il BGB

L’assetto costituzionale della Germania mutò profondamente negli anni dell’unificazione per opera

diretta di Bismarck. Nel 1866 vennero definiti i profili di una nuova costituzione di stampo federale

che nel sarebbe di lì a poco diventata la costituzione della Germania unita. Accanto al Consiglio ove

erano rappresentati gli Stati, un Parlamento elettivo (eleggibile a suffragio universale maschile)

esercitava il potere legislativo in una serie di materie delle quali si decise che la disciplina giuridica

dovesse esser decisa a livello federale.

Il codice di commercio del 1861 della Germania

Prima ancora di raggiungere l'unificazione politica, la Germania aveva conseguito l'unificazione

legislativa sul terreno del diritto dell'economia, prima con l'unione doganale e poi con l'approvazione

del Codice di commercio del 1861. Questo era un codice più in linea con l'economia del tempo

rispetto al modello napoleonico, in quanto si adeguava ai progressi dell'industrializzazione ed alle

nuove esigenze. La disciplina commercialistica germanica sarà riveduta a fine secolo, seguita

dall'approvazione del nuovo Codice di commercio del 1896 (che entrerà in vigore nel 1900) costituito

da mutamenti significativi.

Il codice civile (BGB) della Germania

Complessa fu invece la preparazione del Codice civile tedesco (BGB). In un primo momento una

commissione preliminare sottopose al Bunderstrat (organo costituzionale legislativo della repubblica

federale tedesca), ottenendone l'approvazione, un parere nel quale si elencavano alcuni capisaldi

destinati a rimanere invariati: il nuovo Codice doveva esser fondato sul diritto privato vigente nei

territori tedeschi, escludendo una serie di istituti ormai obsoleti ovvero legati alle tradizioni locali, da

disciplinare con leggi speciali. Il Codice civile venne approvato nel 1900, ed era organizzato nel modo

seguente:

era introdotto da una parte generale, che trattava istituti del diritto privato, come la capacità

giuridica, il negozio giuridico, la prescrizione ecc.;

seguivano in ordine i libri relativi alle obbligazioni, ai diritti reali, al diritto di famiglia, alle

successioni. I contenuti erano prevalentemente tratti dalla disciplina del “diritto romano

attuale”, dunque dalla tradizione germanica dell'800, a sua volta fondata sul modello del

diritto comune (“Usus modernus pandectarum”).

il BGB fu inoltre un Codice caratterizzato da un linguaggio tecnico scritto per essere compreso

da giuristi.

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La tradizione del diritto comune continuava comunque ad essere avvertita in molte disposizioni,

come nel caso della consegna della cosa necessaria per il passaggio della proprietà nella

compravendita.

Al di là delle possibili critiche rivoltegli, fu in ogni caso uno dei grandi monumenti legislativi dell'800

europeo, per le importanti innovazioni che apportò, come l'azione generale per arricchimento ingiusto

e le clausole generali che richiamavano principi quali la correttezza, la buona fede, il principio di

ragionevolezza e di proporzionalità ecc.

Legislazione e società

Il secondo ‘800 conobbe trasformazioni sociali ed economiche che ricaddero automaticamente sul

diritto, e la legislazione nata nell’ultimo periodo del secolo ne contieneva la traccia.

Un primo settore d’innovazioni legislative riguardò la famiglia. In Francia, la crescente

consapevolezza di conseguenze spesso drammatiche all’interno delle famiglie, soprattutto per la

donna, derivanti da unioni viziate, condusse alla reintroduzione del divorzio ed ad una forma di

tutela della donna; alla moglie venne infatti riconosciuta una modesta capacità di agire, mentre alla

donna lavoratrice fu concesso di disporre liberamente del proprio salario, la posizione rispetto ai figli

legittimi, sacrificata nel Codice napoleonico, venne migliorata riconoscendo loro una modesta quota

di diritti di successione. Ma anche l’economia, il lavoro e i rapporti tra cittadini e P.A.

35. LE PROFESSIONI LEGALI

Magistratura

L’Italia dopo l’unità adottò per la magistratura un criterio piuttosto rigido: l’ingresso in magistratura

avveniva per tappe con un primo concorso, da un secondo esame per la nomina di pretore e da un

terzo per divenire aggiunto giudiziario (chi coadiuva o sostituisce il capo ufficio). La commissione

esaminatrice era designata dal ministro per la giustizia; si poté tuttavia valutare che metà delle

nomine sia avvenuta con scelta diretta del ministro. Questa centralizzazione nella carriera si

richiamava a Statuto Albertino che aveva disposto l’importante principio dell’inamovibilità dei

giudici. In Germania, per diventare giudici occorreva aver studiato per 3 anni presso un’università e

dopo un primo esame di stato si diventava referendario/giudice. Dopo altri 3 anni di tirocinio presso i

tribunali vi era un secondo esame (ben 9 prove scritte) e al superamento si poteva ottenere la qualifica

di giurista completo nonché aspirare a ricoprirne la carica; l’assunzione avveniva però sulla base dei

posti disponibili, seguendo una graduatoria di merito. In Inghilterra i giudici delle corti centrali erano

ed hanno continuato ad essere scelti dal re.

Avvocatura

Nell’Italia della restaurazione avvocati e procuratori continuarono nella maggior parte dei casi a d

essere due corpi distinti, ad eccezione di alcune regioni che ne permisero la cumulazione. Dopo

l’unificazione si decise per la distinzione, attribuendo ai procuratori il compito della rappresentanza in

giudizio e agli avvocati quello della difesa, benché talvolta fosse consentito cumularli e fosse ammessa

l’iscrizione contestuale in ambedue gli ordini. Le deliberazioni erano però impugnabili davanti la

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Corte di appello, il che presupponeva da un lato l’autonomia dell’avvocatura ma dall’altro il controllo

della magistratura.

Notariato

La terza figura di professione legale, accanto a quella dei giudici e avvocati, fu quella dei notai.

Per accedere alla professione si richiedevano 6 anni di apprendistato, mentre la disciplina interna era

affidata all’autogoverno delle camere notarili (ad eccezione delle sanzioni più gravi di competenza del

tribunale). La Germania mantenne invece una pluralità di figure professionali che risaliva al dualismo

medievale tra notai imperiali ed ecclesiastici. L’Italia seguì invece il modello della Francia.

36. LA DOTTRINA GIURIDICA TRA I DUE SECOLI

La pandettistica: Windscheid

La Pandettistica, o Scuola delle pandette, è la naturale continuazione della Scuola Storica del diritto e

pertanto il suo fondatore è considerato il Savigny.

Essa prese questo nome dallo studio critico fatto dai suoi membri, delle disposizioni del Corpus iuris

civilis di Giustiniano ed in particolare delle norme contenute nel Digesto, detto anche Pandette.

L’obiettivo dei pandettisti fu quello di costruire un sistema di diritto compatto e privo di lacune; le

eventuali lacune infatti dovevano potersi colmare facendo ricorso al criterio della piramide di Puchta.

Il diritto veniva così concepito come un corpo coerente di regole, scientificamente fondate perché

elaborate da tecnici del diritto, svincolati nel loro lavoro da qualunque condizionamento normativo,

da presupposti ideologici o politici, da interessi pratici, ecc. per questo tale indirizzo si definì

positivismo scientifico, da non confondere con il positivismo legislativo, in quanto quest’ultimo

assumeva come dato indiscutibile la legge positiva mentre il primo presupponeva come dato

indiscutibile l’esistenza di una scienza del diritto oggettivamente fondata. In ciò si poté cogliere un

eco kantiano, e così pure nella concezione del giurista come tale, che non deve esprimere preferenze

nel suo lavoro di interprete e di operatore, ma solo ispirarsi alla logica rigorosa e severa dei concetti

(pandettisti come esponenti di una giurisprudenza dei concetti). Tra i maggiori esponenti di questo

movimento va poi ricordato Bernhard Windscheid, che scrisse molte ed importanti opere si diritto

privato, tra cui un trattato Manuale di diritto delle Pandette, destinato a divenire il testo classico e

rappresentativo della Scuola Pandettistica tedesca. Il metodo seguito dall’autore coniugava il rigore

filologico e storico (ricordiamo Alciato) con l’intento interpretativo/esplicativo ai fini

dell’applicazione pratica. Il successo di tale scuola fu davvero imponente, in particolare tra i giovani

che provenivano anche da lontano per imparare e approfondire la conoscenza dei suoi insegnamenti.

Jhering

Tra i giuristi dell’800 Jhering fu uno maggiori esponenti. Sostenitore delle idee del Savigny e

soprattutto del Puchta, riteneva funzione essenziale della giurisprudenza la “costruzione giuridica”

(ricordiamo il criterio della piramide di Puchta), da compiersi con un procedimento di analisi e di

successiva sintesi, che avrebbe così permesso non solo di mettere in luce i principi dell’ordinamento

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giuridico, ma di ricavare da essi nuove norme giuridiche. A distanza di alcuni anni Jhering adottò

però un’impostazione nuova, perché si rese conto che il metodo dei pandettisti trascurava un aspetto

essenziale e cioè che il diritto non era solo un intreccio di categorie e concetti, bensì uno strumento in

grado di raggiungere risultati concreti nell’ambito della società, intesa come un’unione di più persone

vincolate per il perseguimento di uno scopo comune; ed a queste necessità doveva guardare il giurista

se voleva comprendere la vera essenza del diritto, e non ad astratti concetti.

Diritto pubblico

Le basi per l’elaborazione delle moderne dottrine di diritto pubblico, sono state poste nel secondo ‘800

principalmente da tre professori tedeschi: Gerber, Laband e Jellinek.

Gerber

Gerber mise in rilievo il ruolo dell’individuo e del popolo nella formazione della volontà dello Stato,

partendo dalla considerazione che essendo lo Stato una persona giuridica o meglio una collettività di

persone, altro non poteva essere che un’unità di volontà. Però, mentre nel diritto privato la gestione

dei rapporti dei singoli individui erano liberamente rimessi alle loro volontà, nel diritto pubblico i

diritti dei singoli non spettavano loro altrettanto liberamente ma solo in quanto membri di una

collettività, sottoposta al “dominio” statale. Nasceva così la concezione statalistica del diritto pubblico.

Gerber definisce i diritti civili come effetti, cioè fatti o risultati, del potere pubblico statale e come tali,

la loro titolarità è conseguenza delle decisioni dell’autorità pubblica nell’esercizio delle sue

competenze..

Laband e Jellinek

Gli stessi concetti sono stati seguiti da Paul Laband e Jellinek.

L’innovazione che però Jellinek portò rispetto alle altre teorie consisteva nell’affermare che la

qualificazione giuridica dello Stato stava nel dualismo tra Stato – persona: titolare della sovranità e del

potere politico supremo, e Stato – comunità:è soggetto esponenziale della comunità da lui stesso

riconosciuta).

Orlando

In Italia la dottrina del diritto pubblico venne fondata da Vittorio Emanuele Orlando, attraverso

un’attenta analisi delle istituzioni. Proprio in un periodo di forti critiche al sistema parlamentare,

accusato di indebolire l’autorità del governo, Orlando ne sosteneva invece la compatibilità tra sistema

parlamentare e stato di diritto, poiché i membri del parlamento rappresentavano non solo gli elettori,

ma l’intera comunità nazionale, inclusi i ceti non votanti.

Inoltre, in più occasioni, ribadì la supremazia del diritto rispetto alla legge, affermando che era la

legge a dovere essere inquadrata nel sistema e nelle categorie del diritto e non viceversa; per questo

era convinto che fosse il diritto a risiedere nel popolo, quale depositario della sovranità nazionale, e

che compito del Capo dello Stato dovesse essere quello di garantire che la sovranità rimanesse nelle

mani del popolo anche se ad avere la funzione di esercitarla era pur sempre il Parlamento chiamato a

controllare e giudicare l’attività del governo, denunciandone gli eventuali arbitri pregiudizievoli della

popolare libertà; in tali casi Orlando ammetteva il diritto alla resistenza, fino alla rivoluzione, quale

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strumento per manifestare i malcontenti della coscienza popolare, non prima però di avere tentato con

forme di resistenza più civili, come i diritti civili di opinione, di stampa, di associazione, di riunione e

di protesta. Orlando infine negò che il diritto di voto fosse un diritto naturale, si oppose pertanto al

suffragio universale e non ritenne che i tempi erano ancora maturi per concederlo anche alle donne;

tuttavia ribadì che le minoranze avessero pieno diritto di rappresentanza parlamentare

Santi Romano

Allievo di Orlando, Santi Romano fu uno degli studiosi più importanti di diritto costituzionale e

amministrativo, nonché il principale promotore, in Italia, della teoria istituzionalistica del diritto. Nel

suo saggio più celebre “l’ordinamento giuridico”, affrontò la questione centrale della natura del

diritto, contrastando la tesi classica che ne lo inquadrava come complesso di norme legislative o

consuetudinarie esistenti entro un dato ordinamento, e configurandolo invece come l’elemento

giuridico tipico ed essenziale di ogni istituzione, di ogni struttura organizzata (ogni ente o corpo

sociale), non necessariamente disciplinato da norme. Il diritto per Santi Romano ancor prima di essere

norma era insomma organizzazione e struttura della società stessa in cui si applicava, ecco che l’idea

che Santi Romano ebbe del diritto andava oltre l’essere solo una semplice somma delle norme.

Successivamente a tale concezione, Romano ne affiancò un’altra, secondo la quale se lo Stato era la

massima tra le istituzioni, non era però la sola, essendolo anche tutte le altre organizzazioni

strutturate (come le chiese, le associazioni private, la comunità internazionale ecc.) che imponevano ai

propri membri determinati comportamenti. Il diritto dello Stato non escludeva dunque il diritto di

altre istituzioni, dando così vita ad una serie di diritti distinti, a volte perfino contrastanti, ma non per

questo privi di giuridicità.

Diritto amministrativo

Del diritto amministrativo, fondatore della moderna dottrina giuridica fu Otto Mayer, che individuò

le diverse categorie delle attività e funzioni svolte dalla P.A. In Italia invece fondatore del diritto

amministrativo fu Orlando.

Diritto penale

In Italia alla scuola classica si contrappose un orientamento che prese il nome di Scuola positiva, il cui

fondatore fu Cesare Lombroso, medico ed esperto di diritto. La sua teoria criminologica si fondava

sulla tesi, secondo cui gli autori dei reati più gravi erano individui predisposti al delitto perché affetti

da difetti fisici congeniti, per i quali si riteneva necessaria la creazione di apposite cliniche nelle quali

recluderli. Le due scuole si confrontarono per anni e nonostante la scuola classica ebbe la meglio,

quella positiva ebbe tuttavia un certo eco ovunque nel tempo e nello spazio.

Civilisti, commercialisti, processualisti

In Italia il pensiero giuridico civilistico nacque dal ricco patrimonio di concetti giuridici elaborato dai

pandettisti tedeschi e tra i massimi civilisti italiani ricordiamo Vittorio Scialoja.

Positivismo giuridico: apogeo e crisi.

Di tutte queste dottrine, sia di diritto pubblico che di diritto privato, elemento comune consistette

nella pretesa di costruire concetti e sistemi giuridici dotati di validità scientifica. Con tale indirizz o

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detto positivismo, e largamente diffuso in Germania, si intendeva portare la scienza giuridica al

livello della vera scienza, basandola, come la scienza della natura, sui fatti. Come le scienze naturali e

fisiche, il metodo utilizzato per tale scienza positivistica, fu quello scientifico, fondato su dati

sperimentali elaborati secondo categorie e leggi dotate di coerenza.

Nei confronti del positivismo scientifico si manifestò una forte reazione che nacque dalla convinzione

che nel diritto intervengono come componenti ineliminabili non solo i dati positivi (come la norma o i

fatti sociali), ma anche elementi diversi che appartengono al pensiero e alla volontà; quest’idea che

riprese il pensiero di Kant, concepiva il diritto come scienza dei fini.

IL NOVECENTO

Nell’ambito del diritto, l’Europa del ‘900 conobbe profonde trasformazioni.

Nei 3 Paesi europei: Italia, Germania e Spagna si instaurarono i regimi autoritari del fascismo,

del nazismo e del franchismo (regime dittatoriale spagnolo ispirato al fascismo italiano), che in

forme diverse abolirono le libertà politiche e segnarono il passaggio dalla democrazia alla

dittatura.

Tuttavia non mancarono leggi di qualità e codificazioni innovative, con il tentativo, però

fallito, di creare un organismo sovranazionale, la Società delle Nazioni, per regolare i rapporti

tra Stati.

Nella seconda metà del ‘900 tramonta in Europa la concezione della legge come fonte primaria

del diritto, i diritti fondamentali della persona vengono ancorati ad una fonte superiore alla

legge, la costituzione, alla quale viene inoltre affidato il compito di enunciare alcuni principi

generali cui sia la legislazione che la giurisprudenza devono ispirarsi; la tutela della

costituzione e dei valori da questa espressi sono affidati ad apposite Corti costituzionali.

Viene parzialmente superato il principio della sovranità illimitata dello Stato con la formazione

di un ordinamento rivolto a istituire un mercato unico, che poi diventerà una unione più

generale e che prenderà prima il nome di Comunità Europea e poi di Unione europea.

A livello internazionale-mondiale nascerà l’ONU con lo scopo di assicurare un ordine

internazionale pacifico. Cominciò dunque a svilupparsi progressivamente la trasformazione

del mondo in un unico “villaggio globale”.

37. DIRITTO E LEGISLAZIONE TRA LE DUE GUERRE

La rottura della prima guerra mondiale fu profonda anche sul terreno del diritto; una serie di

questioni di particolare rilevanza pratica venne posta all’attenzione dei governi in guerra,

determinando l’approvazione di numerose leggi speciali. Anche la Chiesa diede l’avvio ad

un’iniziativa di codificazione che portò all’approvazione del Codex iuris canonici del 1917; i contenuti

del Codex erano in gran parte conformi alla normazione precedente, con innovazioni molto marginali,

e riprendevano sostanzialmente la forma dele codificazioni secolari.

Le costituzioni di Weimar e di Vienna

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In Germania, la sconfitta militare e le inique condizioni imposte dalle potenze vincitrici nei trattati di

pace, avevano causato la crisi e la successiva svolta costituzionale, con il passaggio dalla monarchia

imperiale alla repubblica presidenziale: la Repubblica di Weimar, della quale fondamento giuridico

fu la costituzione che porta lo stesso nome. La Costituzione di Weimar del 1919 è infatti un

documento di grande rilievo, la cui redazione fu guidata dal giurista Ugo Preuss, che in luogo dello

stato autoritario auspicava l’avvento di uno stato democratico, fondato sulla volontà popolare. Il

regime di Weimar era un regime parlamentare-presidenziale, in cui la sovranità era affidata dalla

costituzione al Parlamento e al presidente della repubblica, entrambi eletti a suffragio universale. La

costituzione dedicava poi la seconda parte alla definizione dei diritti fondamentali, e per la prima

volta menzionava anche principi diversi da quelli di libertà e proprietà, ovvero i principi di equità e

giustizia sociale; e la dottrina tedesca si interrogò sulla natura giuridica di tali disposizioni di

principio e sul rapporto della costituzione con la legge ordinaria. Da tali dubbi vi fu poi chi sostenne

che la funzione di arbitro nei conflitti tra legge e costituzione doveva essere affidata alla Corte di

Giustizia dello Stato, e chi invece era propenso a riconoscere ai giudici il ruolo di “custodi della

costituzione”,.

E' importante ricordare anche la Costituzione austriaca di Vienna del 1920, che realizzata con il

contributo di Kelsen, presentava due caratteristiche di spicco:

innanzitutto dichiarava le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, come

parte integrante del diritto costituzionale del paese;

istituiva, per la prima volta in Europa, una Corte di Giustizia costituzionale abilitata a decidere

su ciò che contrasti con la costituzione.

Il diritto del fascismo e i nuovi codici

In Italia l’avvento del fascismo (che arrivò con la presa di potere da parte di un partito e che presto

divenne partito unico e dominante) portò alla trasformazione dell’ordinamento costituzionale italiano,

anche se lo statuto Albertino rimaneva formalmente in vigore.

Benito Mussolini aveva proposto un regime corporativo, che prevedeva il riconoscendo a ciascuna

categoria di mestiere di un solo sindacato, aderente al regime, e che aboliva sia lo sciopero che la

serrata; al capo del governo veniva nel frattempo attribuito un vasto potere sia in termini di nomina

che di emanazione delle leggi, e si instaurava così un regime dispotico atto a cancellare il pluralismo

politico e ad imporre la volontà dello Stato su tutte le altre. Le libertà di stampa e di associazione

vennero infatti duramente represse; venne istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato volto

alla repressione del dissenso politico; venne istituito il Gran Consiglio del fascismo, e infine venne

sostituita la camera dei deputati con la Camera dei fasci e delle corporazioni, completando in questo

modo il cosiddetto ordinamento corporativo. In questa cornice maturò inoltre l’idea di rinnovare i

codici e la prima codificazione del fascismo raggiunse il primo risultato nel 1930, con l’approvazione

codice penale del 1930 di Alfredo Rocco – tuttora vigente in Italia pur con le dovute modifiche – che si

caratterizzò, rispetto al precedente Zanardelli, per un’impostazione prettamente repressiva, venne

infatti reintrodotta la pena di morte per i più gravi reati politici (oggi naturalmente inesistente), si

sancì la criminalizzazione dello sciopero e si introdussero i delitti contro l’economia pubblica, restò

fermo il principio di legalità delle pene (“nullum crimen, nulla ppoena sine lege”), che nazismo e

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comunismo invece negarono, e il principio di colpevolezza (elemento soggettivo del dolo e della

colpa). Tutto ciò corrispondeva alle idee che Alfredo Rocco, assieme ad altri giuristi, andava

esponendo nell’ottica di un rafforzamento dello Stato in senso autoritario; le stesse libertà individuali

dovevano concepirsi come il risultato di una autolimitazione dello Stato.

Anche il Codice di procedura penale del 1930 fu promosso da Alfredo Rocco e venne sostanzialmente

impostato lungo la stessa direttrice.

Il Codice di procedura civile del 1940 invece introdusse una serie di innovazioni notevoli rispetto alla

disciplina del 1865, tra cui l’istituzione della figura del giudice istruttore, così da rendere il processo

più snello, evitando di affidare la decisione ad un giudice unico.

Il Codice civile italiano del 1942

La vicenda della preparazione del Codice civile fu più complessa, si susseguirono, infatti, una serie di

progetti.

La prima fase ebbe come protagonista lo Scialoja che intendeva mantenere la formazione base del

codice civile del 1865, seppur con le dovute innovazioni, con una impostazione unitaria tra diritto

civile italiano e diritto civile francese; il progetto però non ebbe seguito.

Le parti di cui si compose il nostro attuale codice furono:

libro I, delle persone e della famiglia;

libro II, delle successioni;

libro III, della proprietà e dei diritto reali;

libo IV, delle obbligazioni;

libro V, del lavoro comprendente la parte delle società e del diritto commerciale in generale,

prima ricompreso invece nel libro IV.

Il Codice del 1942 è in gran parte il risultato dell'opera di giuristi di matrice universitaria, ma notevoli

furono anche gli apporti della dottrina tedesca e soprattutto della normazione del Codice germanico

(BGB). Fu Filippo Vassalli, inoltre, ad individuare una linea che incorporasse nella legislazione

privatistica gli indirizzi della società di massa, allo stesso tempo salvando il ruolo centrale del Codice,

che alcuni giuristi di spicco del regime fascista, avrebbero voluto addirittura abolire in nome dei

principi corporativi. Il Codice fu tuttavia indirizzato ad accentuare il ruolo dello Stato:

lo Stato come fonte dell’autonomia patrimoniale;

lo Stato come imprenditore dell’attività economia nazionale;

lo Stato come regolatore dei conflitti tra privati;

lo Stato come promotore della tutela dei più deboli.

In questa prospettiva, le innovazioni del Codice non sono tanto una manifestazione della linea politica

e ideologica del fascismo, quanto la traduzione normativa di tendenze emergenti dall’evoluzione della

società occidentale del ‘900.

Nazismo e diritto

Con l’ascesa al potere di Hitler iniziò la fase più tragica della storia europea del ‘900. La sconfitta della

guerra, le inique condizioni imposte alla Germania nei trattati di pace del 1919, con le durissime

sanzioni inflitte in particolar modo dalla Francia, e la crisi economica dei prima anni ‘30, innescarono

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le ambizioni di rivincita che il nazismo seppe sfruttare per il conseguimento del suo disegno di

dominio. Dopo aver sospeso i diritti fondamentali contenuti nella costituzione di Weimar, applicando

un articolo della stessa costituzione che attribuiva al Presidente della repubblica poteri eccezionali in

caso di emergenza, e dopo la conquista da parte dei nazionalsocialisti della maggioranza assoluta al

Parlamento, in un clima di totale minaccia, fu votata una legge modificativa della costituzione che

conferiva pieni poteri al cancelliere - Hitler, capaci addirittura di cambiare la costituzione stessa. Da

quel momento Hitler portò avanti un disegno di trasformazione dello Stato che si fondava

interamente su un uomo e su una dottrina, senza alcun contrappeso istituzionale che gli imponesse

dei limiti, tanto che una volta ricoperta la carica di presidente della repubblica il suo potere divenne

assoluto. L’ideologia posta alla base del nuovo regime si fondava sulla convinzione della superiorità

degli ariani (l’arianesimo è il nome di una dottrina religiosa elaborata dal monaco e teologo cristiano

Ario, condannata però dal primo concilio di Nicea) di stirpe germanica rispetto alle altre etnie del

pianeta, superiorità che legittimava i tedeschi ad sottomettere gli altri popoli. Un ramo ulteriore di

questa cultura addebitava agli ebrei la responsabilità di gran parte dei mali della Germania. Sul

terreno del diritto videro così la luce disposizioni autoritarie, che impedivano il dissenso politico

imponendo di adeguarsi all’ideologia del regime; e leggi che vietavano agli ebrei tutta una serie di

diritti; la cittadinanza era negata a chi non fosse di sangue germanico; vennero abolite le autonomie

locali; solo il diritto civile e commerciale non subirono sostanziali modificazioni, anche se i tentativi ci

furono; nel diritto penale fu espressamente negato il principio di legalità, e con un ordine Il disegno

razzista del nazismo raggiunse il culmine con la «soluzione finale», che prevedeva lo sterminio degli

ebrei. Solo la sconfitta militare del 1945 pose fine al nazismo.

Il diritto dell’unione sovietica

Il regime instaurato da Lenin fu di derivazione marxista. La grave crisi economica e sociale indotta

dalla prima guerra mondiale portò nel 1917 alla presa del potere da parte dei socialisti rivoluzionari

(bolscevichi) sotto la guida di Lenin, e il comunismo sovietico fu il tentativo più grandioso di tutti i

tempi, nonostante la tragicità dei suoi eventi, di realizzare una società interamente pianificata dall’alto

sotto la guida di un partito elitario/classe dirigente.

Il diritto fu uno strumento essenziale del regime comunista, infatti i due principi fondamentali che il

regime volle perseguire:

la dittatura del proletariato/classe operaia, dei lavoratori che si tradusse nel monopolio del

potere da parte dei bolscevichi (comunisti rivoluzionari);

l’abolizione della proprietà privata, che avvenne nel 1918, senza alcuna indennità di

espropriazione per i possidenti, divenendo lo Stato proprietario del suolo e concedendo ai

contadini il solo usufrutto

sono di natura essenzialmente giuridica. Le imprese vennero nazionalizzate ed anche la distribuzione

a consumo fu organizzata centralisticamente.

Con l’avvento di Stalin al potere si accentuò ulteriormente il controllo dello Stato sull’economia,

attraverso i kolkoz: aziende agricole gestite collettivamente, con l'obbligo di versare i prodotti ottenuti

allo Stato in cambio di un compenso di molto inferiore al loro valore reale; in questo modo,

nonostante l’opposizione dei contadini, l'economia veniva collettivizzata.

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Lo strumento principale del governo era poi la politica criminalistica; il codice penale negava il

principio di legalità, qualificando come reato tutto ciò che fosse ritenuto offensivo nei confronti del

regime sovietico e le infrazioni di natura economica erano colpite da gravi pene. Infine il sistema dei

campi di lavoro si estese sino a formare veri e propri luoghi di costrizione, nei quali furono confinati

tutti coloro che fossero sospettati d’essere oppositori politici. Da essi fino ai campi di concentramento

e l’olocausto di Hitler il volto demoniaco del XX secolo iniziava a prendere forma.

La dottrina giuridica

La dottrina giuridica anche nel ‘900, come nel secolo precedente, fu fiorente ma spesso influenzata dai

regimi autoritari del tempo. Tra gli studiosi di rilievo della Germania occorre menzionare Weber, il

cui pensiero si rivolse essenzialmente a comprendere i comportamenti sociali, politici, religiosi,

economici e giuridici. Da ciò egli sosteneva che la sociologia del diritto dovesse distinguersi dal

diritto, in quanto la prima studia i comportamenti giuridici reali: il diritto nel suo essere, mentre la

seconda studia la corretta applicazione delle norme legislative: il diritto nel suo dover essere. Anche

Vienna conobbe una vasta fioritura culturale che si manifestò anche nel diritto, soprattutto con Kelsen

che elaborò la teoria della struttura a gradini delle norme giuridiche, secondo cui la validità di una

norma giuridica che vieta o regola un determinato comportamento dipendeva da una norma

superiore che autorizzava il giudice ad intervenire, e il potere del giudice era a sua volta stabilito da

una norma di livello ancora più superiore.

Tale teoria condusse il Kelsen a ipotizzare l’esistenza di una «norma fondamentale» dalla quale tutte

le altre dovessero discendere a catena, una norma di principio che non è “posta” ma “presupposta”

(immaginata, ipotizzata). In Italia la dottrina giuridica fu fiorente nonostante il periodo delle guerre. Il

diritto civile conobbe ad esempio l’opera di Antonio Cicu, incentrata sul diritto di famiglia, che

considerava la famiglia come nucleo istituzionale di base della società civile e politica.

Patti di pace e venti di guerra

La consapevolezza dei disastri causati dalle guerre e la necessità di prevenire futuri conflitti tra Stati,

fu la base che indusse all’istituzione delle Nazioni Unite, patto deliberato nel 1919 come integrazione

del trattato di Versailles. Gli Stati che lo sottoscrissero ripudiavano la guerra come mezzo di

risoluzione delle controversie internazionale impegnandosi a sottoporle ad arbitri internazionali e a

sostenersi reciprocamente in caso di aggressioni ad uno di essi; ma l'assenza di un potere coattivo

diverso dalla collaborazione volontaria rivelò ben presto il carattere illusorio della nuova istituzione.

Per questo, al fine di creare le condizioni per un rapporto pacifico tra gli Stati ed evitare il rischio di

una nuova guerra, ci furono vari tentativi andati a male; Luigi Enaudi, professore di economia aveva

in merito scritto che sino a quando non si fosse deciso di dotare della forza militare un’istituzione

sovranazionale in grado di imporsi agli Stati, la speranza di debellare la guerra sarebbe stata

inevitabilmente frustrata. Philip Kerr dichiarava invece che occorreva privare gli Stati della loro

sovranità militare, come nel secolo prima le colonie americane avevano saputo fare con la costituzione

di Filadelfia. Ma né la speranza degli intellettuali né gli sforzi dei diplomatici poterono fermare lo

scoppio della seconda guerra mondiale.

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IL DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA

1. Genesi Nella seconda metà del Novecento si è sviluppato in Europa un processo di unione economica e

politica che costituisce l'elemento più significativo della storia recente del nostro continete. Questo processo si è realizzato in larga misura con gli strumenti del diritto: sia con regole tradizionali, sia con strumenti originali e con regole nuove. L'idea di una confederazione europea è enunciata a più riprese: - nel Cinquecento con i progetti politici di Enrico IV;

- nel Settecento nell'opera di Bernardin de Saint Pierre; - nel 1787 attraverso il modello della Federazione americana; - attraverso gli scritti di Victor Hugo; - nell'Ottocento attraverso alcuni protagonisti del Risorgimento italiano. La Santa Alleanza, operò in tale contesto a partire dal 1815 sino al 1848.

E più tardi il "concerto" delle grandi potenze suggerì appunto l'immagine di una confederazione di stati in divenire. Lo scoppio della prima guerra mondiale e gli eventi successivi mostrarono ad evidenza la stridente disarmonia del "concerto" e la sua fragilità. Tra le due guerre il tentativo più ambizioso di creare un nuovo ordine internazionale fu quello della

Società delle Nazioni. Negli anni della seconda guerra vide la luce il primo disegno coerente di una futura federazione europea. Esso venne formulato con rigore concettuale nel Manifesto di Ventotene del 1941, redatto da Altiero Spinelli. Egli ricollegò le cause che avevano condotto l'Europa ad una cronica instabilità, provocata dalla struttura dello stato moderno come sovrano, cioè nella concezione che ogni stato

possa disporre in totale autonomia di un proprio esercito atto a condurre la guerra contro gli altri stati. Il rimedio strutturale a questo stato di cose è allora uno solo: trasferire la sovranità ad un livello superiore a quello degli altri stati. Negli anni immediatamente seguenti alla conclusione della seconda guerra mondiale un complesso di

elementi operò sinergicamente in favore dell'integrazione politica europea. La svolta che condusse il disegno dal mondo delle idee a quello della realtà effettiva avvenne nel 1950, quando il ministro francese Robert Schumann propose che la gestione del carbone e dell'acciaio venisse affidata ad un'autorità sovranazionale, indipendente da Francia e Germania. L'idea di base era venuta da un altro francese Jean Monnet, il quale si era convinto che alla federazione europea non si

sarebbe giunti se non attraverso un processo graduale che creasse dei modelli di unione incentrati su singoli obiettivi concreti (ovviamente anche il cancelliere Konrad Adenauer era d'accordo). Vide la luce così la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA), approvata con il trattato dell'8 aprile 1951 al quale aderirono Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo: nasceva l'Europa dei Sei.

L'Alta Autorità è nominata dai governi nazionali, ma opera in modo totalmente indipendente da questi. Un'assemblea svolge compiti di controllo. La Corte di giustizia risolve le controversie legate alla materia del trattato. Frattanto la situazione internazionale ed il rischio incombente di dominio rappresentato dall'Impero

sovietico imponevano di includere la Repubblica federale tedesca nell'organizzazione della difesa euro-americana. Fu allora che nacque in Francia, per iniziativa di Réné Pleven, l'idea di dar vita ad una difesa europea, che consettisse il riarmo della Germania occidentale, da realizzarsi però entro una struttura militare e politica non più nazionale ma comune. Il progetto di una "Comunità europea di difesa" i tradusse nel 1952 in un trattato che includeva il mandato conferito ad una futura Assembla

parlamentare europea di elaborare un progetto "a struttura federale o confederale" per i paesi della

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CED.

2. La formazione della Comunità europea Un gruppo di riflessione, nominato dai governi dei Sei a Messina nel 1955, prospettò qualche mese più

tardi un doppio obiettivo: la creazione di un'autorità europea per l'energia atomica e l'avvio di un mercato comune europeo. I governi accettarono queste indicazioni e promossero la redazione di un progetto organico. Si giunse così alla firma dei due Trattati di Roma del 25 marzo 1957, che istituivano l'Euratom e la Comunità economica europea (Cee). L'impalcatura della Cee è fondata su quattro istituzioni:

- la Commissione, con funzione di iniziativa legislativa, di strumento di governo e di guardiano dei trattati; - consiglio dei menistri, con funzione legislativa; - assemblea parlamentare con funzione di approvazione delle leggi comunitarie e deliberazione a maggioranza qualificata della censura nei confronti della commissione;

- Corte di Giustizia, che esercita la funzione di giurisdizione nell'ambito delle competenze comunitarie quando venga imputato ad uno Stato di avere mancato ad un obbligo imposto dal trattato o agli organi comunitari di aver asunto nei loro confronti decisioni viziate da incompetenza, illegittimità, eccesso di potere.

L'attività legislativa della Cee venne ripartita in due categorie: - regolamenti, immediatamente esecutivi ed applicabili entro l'intera comunità; - direttive, vincola gli stati quanto al risultato da raggiungere, ma ne affidano la forma e gli strumenti necessari alle legislazioni nazionali; - vi sono poi le decisioni di competenza sia del Consiglio che della Commissione, che hanno il

carattere di provvedimenti immediatamente obbligatori per i destinatari, da loro impugnabili davanti alla Corte di giustizia. Con questi strumenti si è sviluppato un imponete complesso di norme comuni, che hanno progressivamente portato all'abbattimento delle barriere doganali interne e all'instaurazione di una

vera concorrenza tra Paesi della Cee. Un sostegno fondamentale è venuto inoltre dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, in quanto alcune sentenze hanno in effetti costituito vere pietre miliari nella formazione del diritto europeo della Cee. 3. L'evoluzione istituzionale dell'Unione europea

Una fase nuova si aprì con l'iniziativa di attuare la norma del trattato di Roma che prevedeva di arrivare alla elezione a suffragio universale della Assemblea parlamentare europea. Ciò fu deliberato nel 1976 e condusse tre anni più tardi alla prima elezione di quello che da allora si chiama Parlamento europeo.

I primi risultati si videro a partire dal 1979 nel più incisivo controllo effettuato dal neoeletto Parlamento europeo sul bilancio comunitario, ma si ebbero soprattutto con l'approvazione di un ambizioso progetto di riforma delle istituzioni comunitarie che venne votato a larga maggioranza dal Parlamento europeo nel febbraio 1984. Il Progetto disegnava una riforma che avrebbe attribuito alla

Commissione le funzioni di governo comunitario quanto all'unione economica ed al Parlamento ed al Consiglio le funzioni legislative secondo un chiaro schema bicamerale; ma la maggioranza dei governi nazionali non ritenne di dar corso al progetto. Due anni più tardi venne approvato l'Atto unico del 29 dicembre 1986. L'Atto estendeva le competenze della Cee alla coesione economica e sociale tra le regioni, alla ricerca e allo sviluppo

tecnologico, all'ambiente e alla cooperazione nella politica estera. L'obiettivo fondamentale del nuovo

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trattato era però un altro: con esso fu deciso di portare a compimento l'integrazione economica

europea iniziata nel 1957, realizzando in forma compiuta le quattro libertà che ne costituiscono l'essenza, cioè la libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali, dei servizi. A questo scopo l'Atto introduceva importanti innovazioni istituzionali: - regolare convocazione del Consiglio europeo;

- deliberava che ai pareri richiesti al Parlamento europeo si sostituisse una ben più impegnativa procedura di "cooperazione"; - l'armonizzazione delle legislazioni nazionali. Se nella prima fase del mercato comune il modello dell'armonizzazione e dell'uniformità legislativa era stato ben presente, in questa seconda fase si affermò il diverso modello della "concorrenza tra

norme" dei diversi Paesi, un modello concepito come strumento di crescita economica. A loro volta, le forze economiche dei dodici paesi della Comunità diedero un impulso decisivo orientando le proprie scelte nella direzione del mercato unico. Tuttavia, un ostacolo, non ancora affrontato, si frapponeva. Occorreva questo fine, completare l'unione economica con l'unione monetaria a livello europeo. Da queste premesse nacque, nel 1992, il

Trattato di Maastricht, che ha creato l'Unione europea. Al centro di esso stava il progetto di creare una moneta unica, istituendo una Banca centrale europea. Si stabilì che la moneta europea, battezzata euro, sarebbe decollata sette anni più tardi, alla fine del 1999.

Il Trattato di Maastricht ha innovato anche su altre fonti: - il capitolo sulla "coesione" assicura interventi e investimenti dell'Unione a sostegno delle regioni meno sviluppate; - vengono garantiti requisiti comuni sulle condizioni di lavoro e di tutela dei lavoratori; - la solidarietà promuove forme di protezione e di tutela dei territori poveri e delle collettività

economicamente arretrate dell'Unione; - tutela del paesaggio contro i pericoli dell'inquinamento e della devastazione del territorio; - tecnologie e ricerca; - sanità pubblica;

- industria. Si tratta di competenze concorrenti, le sole competenze esclusive dell'Unione riguardano la politica sulla concorrenza per il mercato unico e la politica monetaria. Inoltre il Trattato ha esteso le competenze dell'Unione europea alla politica estera e di sicurezza ed agli affari internin e di giustizia.

Tra i principi generali accolti nel trattato, due in particolare sono da sottolineare: il concetto di cittadinanza europea ed il principio di sussidiarietà, diritto che ìnon intende sostituire i diritti nazionali o locali, se non dove ciò risulti necessario alle finalità dell'unione. Infine il trattato di Maastricht ha introdotto una serie di riforme istituzionali: - vengono accresciuti i poteri del Pasrlamento;

- aumentano le materie per le quali è possibile decidere a maggioranza qualificata in seno al Consiglio dei ministri. Nel decennio seguito al trattato di Maastricht si sono succedute a breve distanza diversi interventi di modifica dei trattati europei.

Nel 1994 sono entrati a far parte dell'Unione europea anche l'Austria, la Finlandia e al Svezia: era ormai l'Europa dei Quindici. Il Trattato di Amsterdam del 1997 ha innovato su più fronti: - il ruolo del Parlamento europeo è stato ulteriormente potenziato; - la procedura legislativa si è resa meno farraginosa;

- il presidente della Commissione acquista maggior peso, diventa una sorta di primo ministro;

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- le materie per le quali si è ammessa la decisione a maggioranza qualificata soono aumentate (per

quanto riguarda il Consiglio dei ministri); - viene introdotta la clausola di salvaguardia per bloccare una decisione; - viene introdotta la cooperazione forzata, che permette di portare avanti iniziative non condivise da tutti;

- si precisa in modo più analitico il principio di sussidiarietà; - viene sancito l'impegno a promuovere il rispetto dei diritti fondamentali. Nel dicembre 2000 con l'approvazione del trattato di Nizza: - si predispongono le condizioni istituzionali per l'ingresso nell'Unione di dieci nuovi Paesi; - viene abbandonata la regola dell'unanimità del Consiglio, sostituita con la decisione a maggoranza

qualificata, sia per la designazione che per la nomina finale dei commissari susseguente al voto del Parlamento europeo (scelta dei membri della Commissione); - anche per la designazione e la nomina del presidente della Commissione da parte del Consiglio si è richiesta la maggioranza qualificata e non più l'unanimità; - si dispone inoltre che ogni proposta da decidersi a maggioranza qualificata che non raccolga il voto

di un numero di Stati la cui popolazione complessiva raggiunga almeno il 62% di quella complessiva dell'Unione possa venire bloccata su richiesta anche di un solo Stato: principio di minoranza di blocco. 4. Verso la Costituzione europea?

Dal 2005 l'Unione comprende ormai venticinque Stati membri con una popolazione complessiva di oltre 450 milioni di cittadini, ai quali si sono ormai aggiunte anche la Romania e la Bulgaria. Il Consiglio europeo di Nizza ha inoltre varato la Carta dei diritti dell'Unione, un documento che enuncia una serie di diritti fondamentali, comuni all'intera Unione.

Scopo della Carta è di definire con chiarezza il perimetro dei valori e dei principi fondamentali nei quali l'Unione riconosce la sua identità ed ai quali ispira la sua azione. Tali principi sono raggruppati in 54 articoli e sono: il principio di dignità, di libertà, di uguaglianza, di solidarietà, di cittadinanza, di giustizia.

La presenza di una Carta dei diritti, congiunta con la disciplina della cittadinanza europea, attribuisce di per sè all'Unione alcuni caratteri propri di una moderna costituzione. Nel corso del ventennio dal 1984 in poi, una serie ininterrotta di riforme realizza delle modifiche incisive dei trattati comunitari. Queste riforme hanno dilatato le competenze e le funzioni dell'Unione

e modificato le regole istituzionali. Con il vertice di Laeken del 2001, il Consiglio stabilì di affifare ad una Convenzione il compito di ridisegnare nel loro complesso le funzioni e le istituzioni dell'Unione in un quadro finalmente organico ed adeguato. Dopo un anno e mezzo di lavoro della Convenzione, venne approvato nel 2003 un progetto di

"Trattato che costituisce la Costituzione dell'Unione europea". Il progetto venne sottoscritto all'unanimità dal Consiglio europeo di Roma il 29 ottobre 2004 e sottoposto alle ratifiche nazionali. Il Trattato costituzionale ha l'ambizione di dare un assetto istituzionale e funzionale adeguato ad una realtà tuttora in divenire, quale è quella dell'Unione. Innovazioni contenute:

- nuovo modo di voto entro il consiglio; - creazione di un ministro degli esteri dell'Unione; - avvio di una politica di sicurezza comune e di una difesa europea; - maggiore tutela del principio di sussidiarietà. Nonostante queste innovazioni, il Trattato costituzionale non ha corrisposto se non in misura limitata

alle attese. 18 Paesi su 27 hanno ratificato il Trattato costituzionale. Ma il no dei referendum di Francia

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e di Olanda ha reso poco probabile che il testo possa entrare in vigore nella forma in cui è stato

sottoscritto dai governi. Vivo è stato negli ultimi anni il dibattito sull'opportunità che l'Unione Europea si doti di un Codice civile unico. Ma prevalente è stata la tesi che debba essere mantenuto un ampio margine di autonomia, mantenendo le diverse tradizioni nazionali.

Pur con questi limiti, l'Unione europea costituisce l'evento storico più importante ed innovativo che l'Europa abbia conosciuto nel corso del Novecento, suscitando concreti propositi di imitazione da parte di Africa, America ed Asia. VERSO UN DIRITTO GLOBALE?

1. Nascita e struttura dell'ONU La tragedia della prima guerra mondiale aveva suscitato l'iniziativa della creazione della Società delle Nazioni, per proteggere in avvenire gli stati da aggressioni reciproche e tutelare la nazione

eventualmente aggredita. Il fallimento di questo tentativo è sfociato nella nuova tragedia della seconda guerra mondiale. Ma l'esigenza di dar vita ad uno strumento nuovo per la gestione delle crisi tra stati si impose molto presto.

Nel 1941 Roosevelt e Churchill sottoscrissero la Carta atlantica, con la quale si proclamava il diritto dei popoli a non subire mutamenti territoriali senza il loro consenso, alla libera scelta della forma di governo, alla libertà di commercio. Le violazioni di questi diritti avrebbero dovuto essere contrastate anche con la forza dagli stati che si fossero dichiarati pronti a sostenere tali principi, dando vita ad un sistema di sicurezza collettiva. Poco più tardi 26 stati approvarono una dichiarazione predisposta da

Roosevelt e da Churchill a nome delle "Nazioni Unite". Nel 1943 un direttorio costituito da Stati Uniti, Inghilterra, Unione Soivietica e Cina istituirono un'organizzazione internazionale generale garante della pace, fondata sul principio dell'uguaglianza sovrana tra gli Stati che vi aderissero.

Nel 1944 a Washington venne messo a punto un Progetto di Carta delle Nazioni Unite prefigurante molto da vicino quella che diventerà poco dopo la Carta dell'ONU. Nel 1945 al termine della conferenza tenuta a San Francisco il prigetto venne approvato da ben 50 Stati. Era nata l'Organizzazione delle Nazioni Unite. La finalità dell'ONU è di mantenere la pace e la sicurezza internazionale, sviluppando tra le nazioni

relazioni amichevoli. Le controversie internazionali devono essere risolte con mezzi pacifici. L'ONU è un'organizzazione di Stati, che oggi conta 192 membri; gli Stati membri dell'ONU hanno parità giuridica, indipendentemente dalle dimensioni, dalla popolazione e dalla potenza. L'organo deliberante principale è il Consiglio di Sicurezza, composto da 15 membri, dei quali 5 permanenti e 10 non permanenti, eletti ogni 2 anni dall'Assemblea generale (l'eguaglianza dunque

non vale per i 5 membri permanenti i quali hanno inoltre il privilegio esclusivo di esercitare il potere di veto). Di grande rilievo è il principio del "dominio riservato": l'ONU non è autorizzata ad intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato; solo grazie a questa

condizione è stato possibile includere nell'ONU Stati così profondamente diversi. Un aspetto della Carta che va sottolineato è l'attenta considerazione della realtà dei rapporti internazionali, allorchè vi erano ancora vasti territori coloniali o semicoloniali. La prospettiva era che venisse superata la condizione di dipendenza di Stati da altri Stati. Via via che la decolonizzazione è stata realizzata, i popoli soggetti ad altri stati hanno fatto il loro ingresso nell'ONU.

Un ulteriore profilo della Carta riguarda gli accordi regionali, cioè la compatibilità, entro l'ONU, di

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organizzazioni tra gruppi di Stati per il mantenimento della pace e della sicurezza a livello regionale

(ad es. l'Alleanza atlantica). Come garantire il rispetto della pace e la risposta alle aggressioni compiute da stati, dunque con la guerra, se non si dispone della forza? Tutti i membri dell'ONU si devono impegnare a mettere a disposizione del Consiglio di sicurezza le forze armate necessarie.

Si prefigura la creazione di una forza armata sovranazionale per il mantenimento della pace. Questa parte della Carta sinora non è mai stata applicata. L'Assemblea generale dell'ONU, oltre ad avere un compito di valutazione entro il perimetro delle competenze proprie dell'ONU, assolve ad una serie di specifiche funzioni adottando le delibere più importanti con una maggioranza di 2/3. Ma le decisioni fondamentali sono di pertinenza esclusiva del

Consiglio di sicurezza. Organo delle Nazioni Unite è il Segretario generale, che svolge le funzioni amministrative. Il Consiglio economico e sociale ha tra i suoi compiti l'elaborazione di proposte e di raccomandazioni riguardanti questioni internazionali. E' infine organo delle Nazioni Unite la Corte Internazionale di Giustizia, competente a dirimere le

controversie tra Stati ed a redigere pareri su questioni giuridiche ad esse sottoposte dall'ONU. 2. Diritto dell'economia e globalizzazione

Gli sviluppi dell'economia di scambio, nel corso degli ultimi decenni, mostrano l'emersione di un mercato ormai senza confini. Un primo spetto della globalizzazione del diritto dell'economia è dunque costituito dai modelli contrattuali di stampo americano. La fonte essenziale di questi modelli è la consuetudine: sono nate e si sono sviluppate forme

contrattuali affermate anche in Europa, come il franchising, il leasing, il factoring, ecc. Le differenze di normazione tra i diversi stati del mondo hanno una forte rilevanza nelle decisioni di investimento del mercato. Le esigenze imposte dall'economia degli scambi e della produzione hanno promosso la creazione di

strumenti atti a risolvere in modo celere ed efficace le controversie economiche di natura internazionale. 3. La tutela internazionale dei diritti umani

Sul fronte del diritto internazionale, le interrelazioni tra gli stati, comprendono ormai l'intero pianeta. Nella vicenda storica della decolonizzazione, l'ONU ha svolto un ruolo primario. Nel 1960 la "Dichiarazione sull'indipendenza ai paesi e popoli coloniali" ha chiaramente affermato che la subordinazione di un popolo ad una potenza straniera costituisce violazione dei diritti fondamentali della persona umana.

Un aspetto fondamentale dell'evoluzione del diritto dopo la seconda guerra mondiale è costituito dalla tutela dei diritti umani a livello internazionale. Si è visto come la categoria dei diritti fondamentali si sia progressivamente dilatata e sia tuttora in forte evoluzione. Il punto di avvio si è

avuto nell'immediato dopoguerra. La Dichiarazione enuncia in 30 brevi articoli una serie di diritti fondamentali: libertà, dignità, eguaglianza, nazionalità, privacy, libertà di culto, diritto all'informazione, al lavoro, alla sicurezza sociale, all'asilo politico, ecc. La Dichiarazione è annessa alla Carta dell'Onu.

Va sottolineata soprattutto l'importanza della dichiarazione nel contesto delle relazioni internazionali:

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ognuno degli Stati che nel tempo sono entrati nell'ONU ha con ciò stesso accettato l'idea che i diritti

dell'uomo fanno parte del patto stipulato con l'ingresso nelle Nazioni Unite. La Convenzione europea sui diritti dell'uomo firmata a Roma il 4 novembre 1950 designava un sistema di istituzioni per la tutela di questi diritti, in un seguito completato con diversi protocolli aggiuntivi.

Nel 1959 nasceva così la Corte europea dei diritti dell'uomo, con sede a Strasburgo. Molto significativi sono i due patti delle Nazioni Unite sui diritti umani del 1966. Essi riguardano i diritti economici, sociali, culturali, civili, politici e sono ormai parte del diritto internazionale. Infine si è andata affermando l'idea che tra i diritti fondamentali dell'uomo alla pace.

In anni a noi molto vicini hanno visto la luce alcune Corti internazionali dirette a fare giustizia laddove i crimini compiuti entro uno Stato siano di tale entità da configurarsi come crimini contro l'umanità (2002: entra in funzione la Corte penale internazionale per i reati gravissimi come il genocidio, i crimini contro l'umanità, i crimini di guerra). Queste Corti di recente istituzione sono nate dall'esigenza di offrire una risposta all'orrore che suscita

la visione della sofferenza di popoli lontani.