parrocchia s. maria immacolata – motte di...
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Parrocchia S. Maria Immacolata – Motte di Luino
Via delle Motte, 21 – 21016 – Luino (Va) – tel. 0332 530306
Sito web: http://parrocchia‐motte‐in‐luino.webnode.it/ email: [email protected]
21 marzo: A Montecassino, anniversario della morte di san Benedetto, abate, la cui memoria si celebra l’11 luglio
Con questa frase assai frequente di Papa Francesco, vi rivolgo questi pensieri. Proprio domenica San
Paolo ci diceva nella lettera ai Romani “…se per causa di un solo uomo la morte ha regnato, molto
di più quelli che ricevono l’abbondanza della Grazia e del dono della giustizia per mezzo del solo
Gesù Cristo “.
Dobbiamo sforzarci di avere sempre fiducia in Dio per non “essere profeti di sventura“ (san Giovanni
XXIII, papa) e di saper scorgere il bene che tante volte è nascosto e non va sui mass‐media. Ecco
perché cerco di portare esempi positivi con i “santi della porta accanto“ come fa Papa Francesco in
questi giorni con don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani e tra noi (vedi forum) don Paolo di
Castelveccana che ci ha lasciato da poco e tanti altri basta leggere la “fiaccola“ del seminario.
Abbiamo appena celebrato la
Festa della presenza viva di
Gesù nell’Eucaristia con i
ragazzi della 1ª S. Comunione
e con il Papa ci siamo chiesti:
“Mi sento amato da Gesù?
L’Eucaristia è un peso, un
obbligo …o un dono?” Anche
qui vedono diverse risposte
su forum. La festa dello
Spirito Santo ci ha posti
un’altra domanda: Mi lascio
guidare dallo Spirito Santo
che è fuoco, vento che
stimola, dà forza, chiedo la
Grazia al Signore che il mio cuore sia aperto nelle 3 Lingue che ci esorta il Papa: Mente, Cuore e
Mani.
Forse questo sarà l’ultimo numero del giornalino nato oltre 30 anni fa. Ringrazio tutti quelli che
hanno collaborato e specialmente il Signor Carlo Martarelli per tantissimo lavoro, dedizione e fatica,
spero che continui ad aiutarci e che qualcuno si affianchi a collaborare, tanto più che stiamo per
entrare nella Comunità Pastorale della città di Luino.
Si avvicina la FESTA COMPATRONALE di S. Anna domenica 30 luglio e degli Anniversari di matrimonio
(1‐5‐10‐15…) Si prega di avvisare in Parrocchia. Come lo scorso anno, S. Messa solenne in Parrocchia,
incanto dei doni, aperitivo offerto dalla Cooperativa Motte e pranzo Pro Asilo dagli Amici e dal
Negozietto di Poppino.
don Ilario
Giornalino N. 217 luglio/agosto 2017
stampato in proprio per uso parrocchiale
I ragazzi del decanato a Roma per la professione di fede Domenica 16 aprile i ragazzi di terza media delle parrocchie di Luino, Creva, Voldomino, Germignaga, Motte, Dumenza e Castelveccana sono partiti per un pellegrinaggio a Roma in vista della Professione di Fede.
Il pellegrinaggio si è svolto insieme ad altri circa 7000 ragazzi della diocesi di Milano ed ai loro educatori che hanno gioiosamente invaso le strade del centro di Roma. Due i momenti forti di questo pellegrinaggio: martedì mattina la Santa Messa celebrata in San Pietro dal cardinale Angelo Comastri e mercoledì mattina l’udienza in piazza San Pietro con papa Francesco.
Per i nostri ragazzi, ma anche per noi adulti, è stato decisamente emozionante entrare nella magnificenza di San Pietro e trovare la navata centrale riservata ai ragazzi della professione di fede delle diocesi di Milano e Cremona. Molto significativa e toccante l’omelia del cardinal Angelo Comastri che, citando l’esempio del giovane Carlo Acutis ci ha invitato “a non dimenticare che alla nostra età si sceglie il modello di vita che poi realizzeremo. In tanti giovani si intravede già il disastro, in tanti altri si intravede, invece, già un modello di vita che lascerà un solco di bene.”
Mercoledì mattina dopo aver preso posto in piazza San Pietro, papa Francesco è passato proprio vicino a noi sulla sua papa-mobile che emozione!! Nell’udienza ha proposto una riflessione sulla Speranza cristiana, commentando la prima lettera di San Paolo ai Corinzi dicendo “che desiderava parlarci di Cristo Risorto... Questo è il fatto: è morto, è stato sepolto, è risorto ed è apparso. Cioè, Gesù è vivo! … Che bello pensare che il cristianesimo, essenzialmente, è questo! Non è tanto la nostra ricerca nei confronti di Dio – una ricerca, in verità, così tentennante –, ma piuttosto la ricerca di Dio nei nostri confronti. Gesù ci ha presi, ci ha afferrati, ci ha conquistati per non lasciarci più.”
Abbiamo ascoltato queste parole tradotte in molte lingue, perché tanti erano i pellegrini provenienti da tutto il mondo, ma quando il papa ha detto che salutava i ragazzi della professione di fede della diocesi di Milano c’è stata una vera e propria esplosione e ci siamo resi conto ancora una volta in quanti eravamo!
Sono stati tre giorni decisamente intensi ma ricchi di emozioni, ci hanno offerto la possibilità di visitare i luoghi del cuore della nostra religione e di vedere quanti ragazzi fanno parte della Chiesa universale. Particolare orgoglio per noi ragazzi del decanato di Luino i complimenti che abbiamo ricevuto da tutti per il nostro comportamento “molto educato e responsabile”; ci auguriamo che questa sia la base per un lungo cammino di fede e di crescita insieme.
“L’uomo può perire per effetto della tecnica che egli stesso sviluppa, non della verità che egli scopre mediante la ricerca scientifica” (Giovanni Paolo II).
Benedetto da Norcia nasce nell'anno 480 nell'omonima città umbra. Grazie al buon livello economico della sua famiglia di origine - la madre è contessa di Norcia - viene inviato a studiare a Roma quando ha solo dodici anni. L'impatto con la vita dissoluta della capitale lo induce ad abbandonare gli studi umanistici per timore di essere coinvolto nella medesima dissolutezza dei suoi compagni. L'abbandono degli studi coincide in realtà con la nascita della sua vocazione religiosa. Così a soli 17 anni si ritira ad Eufide nella
valle dell'Aniene insieme alla sua vecchia nutrice Cirilla, appoggiandosi saltuariamente ad una vicina comunità di frati.
La sua idea di vita religiosa diventa però sempre più vicina all'eremitismo ed alla meditazione solitaria. Lascia quindi la nutrice e si dirige verso Subiaco, dove, grazie al contatto con un monaco di un monastero vicino, scopre una inospitale grotta presso il Monte Teleo. Ed è proprio nella grotta che rimane in eremitaggio per tre anni.
Terminata l'esperienza di eremitaggio, nel 500 si dirige verso un monastero nei pressi di Vicovaro, ma è costretto ad abbandonarlo quasi subito a seguito di un tentativo di avvelenamento perpetrato ai suoi danni dai monaci. Ritorna così a Subiaco, che rimane la sua dimora per circa trent'anni.
Durante questo periodo Benedetto si sottopone ad una serie di prove, fondamentali secondo lui per diventare il portavoce di un nuovo ordine monastico. Tenta dunque di forgiare il suo carattere di religioso resistendo alla tentazione dell'auto-affermazione e dell'orgoglio, alla tentazione della sensualità e a quelle della rabbia e della vendetta. Superato questo difficile percorso, fonda una serie di comunità d monaci, circa tredici, formate ognuna da dodici monaci e da un abate, considerato alla stregua di una guida spirituale.
Nel 529 lascia Subiaco, secondo alcune fonti per contrasti con un ecclesiastico locale, secondo altre per un nuovo tentativo di avvelenamento subito in monastero. Si dirige quindi verso Cassino e fonda il famoso monastero. Proprio nel monastero di Montecassino elabora nel 540 la sua regola, che nasce proprio come forma di regolamentazione della vita monastica. Lui stesso la definisce: "minima, tracciata solo per l'inizio". In realtà, la regola contiene molte utili indicazioni per l'organizzazione della vita dei monasteri. Quando Benedetto la elabora i monaci non hanno una dimora stabile, ma vivono in maniera vagabonda. Nella sua regola, che poi è una sintesi del contenuto dei Vangeli, stabilisce che ciascun frate deve scegliere un unico monastero presso il quale soggiornare fino al momento della morte.
Stabilisce inoltre che la giornata all'interno dei monasteri deve essere scandita da momenti di preghiera, studio e lavoro secondo il motto "ora et labora" (prega e lavora). La preghiera è il momento più importante della vita di un monaco, e, secondo Benedetto, deve essere prima di tutto un atto di ascolto da tradurre in azioni concrete e reali. Egli teorizza, dunque, l'importanza di una salda fusione della contemplazione e dell'azione.
S. Benedetto da Norcia
La regola stabilisce poi che ciascuna comunità monastica debba essere diretta da un abate, che non è considerato un superiore, ma una sorta di padre amoroso e di guida spirituale: abate deriva infatti dal termine siriaco "abba", padre. In effetti l'abate svolge all'interno del monastero le veci di Cristo in uno scambio continuo con gli altri confratelli, come Cristo con i suoi dodici discepoli.
A Montecassino, Benedetto da Norcia trascorre gli ultimi anni della sua vita, e qui muore il 21 marzo del 547, dopo sei giorni di forti febbri. Secondo le fonti muore in piedi, sostenuto dai suoi confratelli ai quali infonde le ultime parole di coraggio.
Dopo la sua morte, il corpo e poi le reliquie diventano oggetto di culto. Come spesso accade in epoca medievale, molte diverse città si contendono il possesso delle reliquie. Per Benedetto in particolare lo scontro è tra Montecassino e la cittadina francese di Fleury sur Loire. Secondo il processo tenutosi nel 1881 la vera reliquia, tranne una mandibola e un altro osso del cranio, è quella custodita nella cittadina francese. Al di là delle dispute, il culto del santo persiste a Montecassino dove lui stesso ha vissuto ed operato e dove se ne celebra la festa ogni 11 luglio, giorno a lui dedicato dopo che il pontefice Papa Paolo IV gli ha attribuito il titolo di Santo patrono d'Europa.
Frasi di San benedetto da Norcia – Dunque il primo grado dell’umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione.
– Il secondo grado dell’umiltà è quello in cui, non amando la propria volontà, non si trova alcun piacere nella soddisfazione dei propri desideri.
– Terzo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco per amore di Dio si sottomette al superiore in assoluta obbedienza, a imitazione del Signore, del quale l’Apostolo dice: “Fatto obbediente fino alla morte”.
– Il quarto grado dell’umiltà è quello del monaco che, pur incontrando difficoltà, contrarietà e persino offese non provocate nell’esercizio dell’obbedienza, accetta in silenzio e volontariamente la sofferenza e sopporta tutto con pazienza, senza stancarsi né cedere secondo il monito della Scrittura: “Chi avrà sopportato sino alla fine questi sarà salvato”.
– Il quinto grado dell’umiltà consiste nel manifestare con un’umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell’animo o le colpe commesse in segreto.
– Il sesto grado dell’umiltà è quello in cui il monaco si contenta delle cose più misere e grossolane e si considera un operaio incapace e indegno nei riguardi di tutto quello che gli impone l’obbedienza.
Il cuore di Norcia, la statua nella Piazza intitolata a San Benedetto
I contatti sono immediati con chiunque, e così possiamo “magicamente” sapere dove si trovano gli altri e loro dove ci troviamo noi. Il che porta allo scatenarsi di ansia, addirittura di angoscia se qualcuno non risponde al cellulare: si pensa ad una disgrazia, a un abbandono, a un tradimento. Difficilmente si suppone che il tipo non abbia il cellulare con sé o che non lo senta. Anche chi monitora è monitorato, da chi conosce e da chi non conosce.
La libertà e l’autosufficienza sono minacciate e diminuite, e con esse la stima di sé e l’identità. Questo rende più fragili, più esposti a sentirsi indifesi di fronte alla vita, il che abbassa considerevolmente la soglia dell’ansia.
Quanto all’essere tolti dal gruppo degli “amici” dei social, è talora una vera tragedia, come se tutto il proprio paese non salutasse più, girando le spalle. E per restarci, nel gruppo, si fa di tutto: il timore di perdere l’amicizia può diventare un incubo. E siccome non dobbiamo più memorizzare numeri di telefono, se perdiamo i dati, mai trasferiti sull’antidiluviana rubrica di carta, siamo soli.
A proposito di solitudine, in un recente studio, di Talk Talk Mobile, il 72% dei giovani tra i 18 e i 25 anni ammette di trovare più facile esprimere i propri sentimenti tramite emojis, piuttosto che con le parole.
Instagram ha recentemente riportato che di tutto il testo utilizzato sulla piattaforma, il 48% è costituito da emojis. Che a lungo andare non sono più espressioni, ma suggeritori di emozioni. e i sentimenti veri, la solidarietà, l’amicizia, evaporano, perché noi siamo fisici, sensoriali. Perché le relazioni si fondano sulla presenza e sul ricordo della presenza, sui fatti che non sono parole, sulla simpatia che è un flusso reale tridimensionale fra persone. Le relazioni reali ci rassicurano, sono un patrimonio interiore cui attingere in qualunque momento. Quelle virtuali sono invece labilmente legate a uno schermo e la solitudine diventa uno stato da eludere continuamente. Internet è diventato un mezzo di suggestione talora tragico, come certi suicidi testimoniano.
La cosa più grave è che i ragazzi che non escono dalla propria camera, in perenne rapporto con lo smartphone, smarriscono il senso della vita, la visione del futuro che si forma solo collegando le esperienze, i tempi che il linguaggio dei social sminuzza. Sui social, pensieri e slogan fluttuano insieme ai selfie. Nell’insicurezza dell’illusorio, si ha bisogno di continue rassicurazioni. Continui WhatsApp, SMS, Messenger. I social sono un veleno per la comunicazione.
Sempre più veloci, sempre più assimilabili al bagliore di una lampadina che dice: sono qui, ci sei? Ci sono. Punto. Per la loro velocità, i messaggi non lasciano tracce significative se non immaginarie.
Socializzare e parlare richiede tempo: l’emisfero linguistico è lento. Il massimo del nulla, per ora, è rappresentato da Snapchat: i messaggi scompaiono dopo poco dallo smartphone e dal server. E con essi quell’attimo di vita.
“Non abbiamo più tempo per catturare il mondo reale e ricrearlo in linea”, spiega il fondatore Spiegel. Se non dà ansia una tale asserzione...
L’esperienza
Nel campo scolastico si registra una fondamentale differenza di metodo didattico tra chi insegna da un
anno e chi insegna da trenta anni. Il primo è fornito da una grande carica di entusiasmo, ma deve
purtroppo prendere decisioni tenendo in mano pochi dati utili. Di conseguenza, data l'inesperienza, le
sue determinazioni possono risultare poco fruttuose, talvolta addirittura errate. Il secondo usufruisce di
un notevole bagaglio di esperienze. Ragion per cui, generalmente parlando, egli tenendo conto dei vari
pro e contro, prende deliberazioni più assennate e più adatte alle circostanze.
L' Operatore Pastorale
Alla stessa stregua necessita di ragionare nelle attività pastorali. L'operatore pastorale che è alle prime
armi reca con sé un grande zelo, ma si deve adattare alle tradizioni già esistenti. Le sue prime decisioni
risentono dell'inesperienza del novello operatore. Ma voi immaginate dopo 30 anni quanti svariati casi
sono passati per le sue mani, quanta esperienza sofferta e proficua egli ha accumulato. Ormai le sue
deliberazioni sono il risultato di tanti tentativi, di tante illusioni e delusioni. Questo operatore pastorale
non può e non deve seguire le proposte di esperienze già
vissute e risultate negative, ma deve essere aperto a prove
esperienziali nuove, inedite.
Applicazione alla nostra Parrocchia.
Così pervengono in Parrocchia delle proposte: cosa buona
perché è il segno di vitalità e vivacità. Chi fa la proposta crede
sempre di dire una novità. Se è davvero una novità, in genere
mi trova d'accordo per farne la sperimentazione. Ma se la
proposta ricalca un esperimento che noi abbiamo già vissuto
per diversi anni e il risultato è stato negativo, cosa faccio? Come faccio a convincere l'interlocutore che
l'esperimento è stato già compiuto? D'altra parte, se mi riduco a ripetere le stesse sperimentazioni,
senza che me ne accorga passa tutta la vita senza approdare a un risultato positivo. É opportuno perciò
che chi vuol proporre, s'informi precedentemente presso i veterani se si è compiuta questa prova.
Indicazioni
Si offrono questi consigli ai parrocchiani che intendono collaborare:
1. Diventare inventivi nel fare proposte, che però siano sempre ben ponderate;
2. Non diventare ripetitori meccanici delle proposte altrui. I collaboratori dapprima facciano
una valutazione propria e qualora condividessero le proposte, le presentino agli organismi
competenti.
3. Di ogni proposta chiedere se sono state fatte esperienze e quale ne è stato il risultato;
4. Promuovere attività che siano rivoluzionarie nella linea del Vangelo.
5. Il Signore oltrepassa l'esperienza
Al di là e al di sopra dell'esperienza, è il Signore che opera, che dona e sparge i carismi a chi vuole, come
vuole e quando vuole. Immergiamoci nella preghiera per poter cogliere il disegno che il Signore ha per
noi e per la nostra Parrocchia. CERCHIAMO DI SEGUIRE PROFETICAMENTE E GIOIOSAMENTE IL
PROGETTO MASSIMALE, NON IL MINIMALE, SCRITTO PER NOI NEI CIELI DALL'ETERNITA'.
Lettera pastorale di don Carmine Coppola ai parrocchiani di Pomigliano d’Arco il 1 gennaio 2002
La torta è sulla tavola, ornata di candeline accese. Quante? Una, cento? Non è il numero la cosa più importante. Il fuoco, piuttosto. La piccola fiamma che splende, illumina e punta dritta al cielo.
Il segno della festa, della celebrazione condivisa. Un rito modesto ma esemplare attorno a cui si stringe la famiglia. Ecco la comunità, che si rinnova nell’affetto verso chi è nato. In lui si onorano genitori e parenti, vivi e trapassati.
Il fuoco sacro, il dolce di anniversario. Simboli che perpetuano la memoria del ceppo familiare. Come avviene da tempi immemorabili, da quando si fondò il primo focolare. È da una piccola cerimonia come questa che comincia, la costruzione della cultura: il patrimonio prezioso che si accumula nel ricordo delle generazioni. Spesso i più piccini pretendono che il rito si ripeta, continuando ad accendere e spegnere le fiammelle. Per far
durare di più il gioco. Ma nel profondo, quel soffio e quell’accensione ripetute chiedono non sia cancellata definitivamente la memoria dell’evento. Il buio non la luce incute la paura, il timore che la morte spenga la vita. Solo gli adulti ne avranno consapevolezza. I piccini lo comprenderanno più avanti, negli anni maturi. Sarà quando anche per loro si farà chiara la coscienza del tempo che non si arresta, e l’affetto di mamma e papà li avrà ormai educati a credere nel quarto Comandamento: “Onora il padre e la madre”.
Così è stato per secoli. Ma al tempo d’oggi sono sopravvenute visioni differenti: nemiche della continuità, dimentiche degli antenati, negatrici dello spirito di comunità, che hanno scardinato il confine tra ciò che è possibile e ciò che è lecito. Questo è lo scenario della società contemporanea che il grande sociologo, scomparso poco tempo fa, Zygmunt Bauman, ebbe a divulgare con il concetto di “modernità liquida”: il regno dell’instabilità, della precarietà, della fragilità, dei sentimenti e dei valori.
Il risultato è lo sprofondamento etico che si è evidenziato ahimè in molti (troppi) casi. E ha fatto buio nell’animo di alcuni adolescenti assatanati dalla tentazione dei soldi e completamente dimentichi dei doveri che conseguono a chi ha ricevuto il dono della vita. Giovani che sentono i legami familiari come insopportabili, fino a odiare mamma e papà, fino ad assassinarli. La piccola comunità familiare viene negata, soppressa, cancellata in modo atroce. Un soffio mortale spegne per sempre i lumi dell’appartenenza. Tante sono le cause di queste sciagure. Possiamo accusare il consumismo, il clima dissacrante, l’avido individualismo, il disordine morale e sociale dilagante.
E per concludere, un esempio tratto dal mondo dello spettacolo: è ancora in proiezione in qualche cinematografo un film che si consiglia di vedere. S’intitola Dopo l’amore (migliore quello originale, francese: L’économie du couple). È la storia di un divorzio, della sofferta convivenza forzata, fra due coniugi che si contendono le piccole cose e soprattutto l’affetto di due gemelline innocenti. Invano la nonna cerca di richiamare tutti alla riflessione. Ricorda alla coppia che c’è stato un tempo, in cui le cose si riparavano: i calzini bucati si rammendavano e i vecchi oggetti di casa si aggiustavano.
Con pazienza e cura. Non così ora, dice: appena si guasta qualcosa, si butta. Anche il desiderio d’amore, l’armonia familiare, il legame di comunità e memoria. Ora i sentimenti si buttano, come le scarpe vecchie, nella discarica. Forse è proprio da un’immagine di buon senso come questa che bisognerà ricominciare.
PAROLACCE IN TV, Specchio del degrado del paese Tullio De Mauro, il grande linguista scomparso a inizio gennaio, già alcuni decenni fa imputava la povertà del vocabolario e del lessico dell’italiano medio alla scarsa propensione alla lettura ed al pessimo esempio della tv, incapace di arricchire il pensiero ed il linguaggio dei telespettatori.
Le cose non sono cambiate in meglio. Pare che oggi il 30% del vocabolario più comune sia costituito da parolacce, usate sia dai giovani che dagli adulti. E se e vero che le parolacce sono un modo maldestro con cui ragazzi e adolescenti “fanno branco perché in crisi di identità”, che dire degli adulti che ricorrono quotidianamente a parole oscene e volgari? E che dire dei politici che si insultano a suon di parolacce?
A questo proposito regna la par condicio più assoluta, il turpiloquio sembra un carattere comune a tutti i partiti ed a tutte le formazioni politiche, gli insulti volgari sono ogni giorno anche in tv: nello spettacolo, nella satira, nei talk show di ogni emittente anche nelle ore cosiddette protette. E cosi, un Paese come il nostro, considerato da sempre maestro di quel formalismo verbale che proteggeva la civiltà delle relazioni tra le persone, è diventato il Paese della corruzione anche a livello di linguaggio. “Il turpiloquio è tipico degli schiavi, degli eserciti e delle burocrazie”, scriveva Émile Zola. E anche indice di pensiero debole e di incapacità di pensiero, perché la volgarità non permette lo scambio delle idee; la dimostrazione, insomma, di un vuoto di intelligenza, di dignità e di umanità, umiliante sia per chi lo pratica che per chi lo subisce. Perciò andrebbe bandito soprattutto dalle tv che si definiscono “servizio pubblico”. Magari meditando su un’altra affermazione dell’illustre De Mauro: “La distruzione del linguaggio è la premessa ad ogni futura distruzione”.
Discutere senza gridare Tra i comportamenti più maleducati c’è la brutta abitudine di non saper esprimere il proprio dissenso senza alzare il tono della voce. Cosi, anziché parlare si grida, come se questo servisse a dare maggior peso ed importanza alle proprie ragioni, con il risultato che, invece di capirsi, ognuno rimane sulle sue posizioni e i conflitti non si risolvono, anzi.
Significativo a questo proposito l’apologo del pensatore indiano che cosi parlava ai suoi discepoli: “Sapete perché si grida contro una persona quando si e arrabbiati? Perché quando le persone sono arrabbiate i loro cuori si allontanano molto e per coprire questa distanza bisogna gridare. Quando invece le persone si rispettano, non gridano, perché i loro cuori sono vicini. Perciò, quando discutete, non lasciate che i vostri cuori si allontanino, perché arriverà un giorno in cui la distanza sarà tanta che non incontreranno mai più la strada per tornare”.
Sprecare e crepare L’arcivescovo Angelo Comastri ha riassunto efficacemente la situazione alimentare attuale: “Viviamo in due stanze: in una si spreca, nell’altra si crepa”. Gli italiani gettano ogni anno nei rifiuti oltre 25 milioni di tonnellate di cibo (il 15% degli acquisti di pane e pasta e il 18% della carne) pari ad un valore di 585 euro a famiglia; allo stesso tempo 8 milioni di cittadini non possono permettersi una dieta equilibrata.
Mettendo insieme i prodotti alimentari sprecati dai consumatori e dalle aziende, si arriva ad un fatturato di 30 miliardi di euro, il 2% del PIL. Lo spreco alimentare non e certo un problema solo italiano: in altre nazioni, come per esempio gli USA, e anche più grave. Pero almeno li si cerca di combatterlo, agendo sulle giovani generazioni con programmi didattici che, fin dalle elementari, insegnano nuove abitudini alimentari, educando a consumare solo ciò che veramente serve all’organismo dei ragazzi.
Nella giornata di domenica 18 giugno è mancato mons. Gianpaolo Ferrario, da tutti affettuosamente
chiamato don Paolo, prete buono e figura importante per molto anni nell’alto varesotto. Infatti, don
Paolo nacque a Besozzo nel 1925 e fu ordinato presbitero nel 1951 dal cardinal Schuster. Fu per 39
anni parroco di Castelveccana e nel 1989, dopo un’operazione al cuore, si trasferì come rettore del
Santuario del Carmine di Luino, accolto dal prevosto di allora don Giovanni Montorfano. Nell’anno
2000 fu insignito del titolo di monsignore da parte del cardinal Martini, ma don Paolo non ci teneva
a questo titolo e infatti si scherniva dicendo che era una “carnevalata”.
Negli anni di Castelveccana fu promotore di
molte iniziative, tra cui la visita al giubileo di
Roma nell’anno santo del 1975. Fu un grande
amico della gioventù ed un infaticabile
organizzatore anche di tornei sportivi. Negli anni
luinesi fu molto amato dai parrocchiani che lo
andavano a trovare molto volentieri alla Chiesa
del Carmine, come anche molti pellegrini. Nel
2006 si trasferì nella casa di riposo per preti di via
Griffi a Varese e negli ultimi tempi in quella di
Castronno.
“Don Paolo aveva doti di vero pastore, ma viveva il suo ministero con uno stile di cordialità che
portava con sé anche un tratto di arguto realismo”. Così ricorda don Paolo Ferraio il vescovo emerito
di Pavia mons. Giovanni Giudici.
“Tra le molte occasioni che mi hanno dato occasione di incontrarlo e di stringere con lui legami di
amicizia, una in particolare ricordo sempre con sentimenti di ammirazione. Giunto il momento di
lasciare la sua amata parrocchia di Castelveccana, a tutti i costi volle che la visitassi con lui, che
ascoltassi la sua descrizione dettagliata, che ne vedessi le caratteristiche, che incontrassi alcuni
collaboratori. Ho sempre pensato che questo fosse un modo di manifestare quanto amava la
comunità per la quale aveva operato con tanta intelligenza e generosità, e che il raccontarne le
caratteristiche gli consentisse di prendere congedo con maggiore serenità quasi affidando il tesoro
per lui prezioso”.
Anche il prevosto e decano di Luino, don Sergio Zambenetti lo ricorda: “Don Paolo è stata una figura
di sacerdote molto importante per il nostro decanato, prima come parroco a Casteveccana e poi
come rettore del Santuario del Carmine. Chiunque lo abbia conosciuto me ne parla come una
persona buona, umile e sempre attenta al prossimo, in particolare agli ultimi”.
Tantissimi gli hanno voluto bene, come Alessandro Franzetti, che lo conobbe fin da piccolo quando
arrivò a Luino e che dice di lui: “don Paolo era per me un grande riferimento. Mi vide crescere e nei
primi anni della mia gioventù fu una sicura e sempre presente guida spirituale. Gli ho voluto molto
bene”.
Da tutte queste manifestazioni di affetto espresse da chi lo ha conosciuto bene si evince, e viene
esaltata la figura di questo sacerdote che tanto ha fatto e tanto ha dato a chiunque fosse venuto in
contatto con lui. Una figura che deve essere un giusto riferimento per tutti ed a cui confrontarsi per
la nostra vita.
Mons. Giampaolo Ferrario
Ieri, 18 giugno, è deceduto mons. Giampaolo Ferrario.
Nato a Besozzo (Va) l’1/10/1925.
Ordinato sacerdote nel Duomo di Milano il 19/5/1951.
Dal 2002 Cappellano di Sua Santità.
– Dal 1951 al 1956 Vicario parrocchiale a Castelveccana, poi parroco fino al 1989.
– Dal 1989 al 2006 Residente con incarichi pastorali a Luino – Santi Pietro e Paolo.
– Dal 2006 al 2016 Residente a Varese – Casa San Giuseppe.
– Dal 2016 Residente a Castronno – Residenza “La Magnolia”.
Lettera dell’Arcivescovo ai fedeli della parrocchia Santi Pietro e Paolo di Castelveccana
Carissimi,
partecipo con commozione al vostro cordoglio per la scomparsa di mons. Giampaolo Ferrario.
Il lungo ministero di don Giampaolo è strettamente legato alla vostra parrocchia di Castelveccana dove svolse il suo primo incarico dopo l’ordinazione nel 1951, assumendo poi nel 1956 la responsabilità della comunità che resse fino al 1989. Un periodo lungo, anche complesso per le trasformazioni della società e della Chiesa stessa, che vide don Giampaolo prodigarsi per il bene dei fedeli con generosità, discrezione e paterna autorevolezza. Seppe farsi amare dalla gente che apprezzava la sua assidua presenza in confessionale, l’attenzione partecipe nei confronti di chi chiedeva consiglio, una parola di conforto nei momenti difficili del cammino umano. Dopo aver rimesso il mandato fu residente a Luino presso il Santuario della Madonna del Carmine lasciando un ricordo affettuoso e riconoscente anche per il suo ministero in ospedale. Poi, per l’avanzare degli anni, si ritirò nella Casa San Giuseppe di Varese, restando vicino con la preghiera alla vita della Chiesa che tanto aveva amato.
Ora salutiamo un’ultima volta questo buon pastore, nella certezza che il suo insegnamento costituisca un fruttuoso esempio per tutti coloro che l’hanno conosciuto.
Mentre affido don Giampaolo alla materna intercessione della Madonna del Carmine e all’abbraccio misericordioso del Padre, mi unisco alla vostra preghiera e di cuore vi benedico.
Questa è una piccola “brutta” storia ma che sta dando ottimi
frutti. Arriva dalla pagina Facebook della Parrocchia san Michele
Arcangelo e santa Rita in zona Corvetto, periferia sud di Milano.
E come tutte le notizie, soprattutto quelle che girano sui social,
va verificata.
Al telefono la voce femminile che risponde al numero della
parrocchia, appena dici che sei un giornalista, si irrigidisce un po’.
E ti liquida con un “il parroco non c’è”.
Sfoderi la voce più pacata che riesci a fare e spieghi: “Volevo
soltanto sapere se la storia è vera e se la pagina Facebok della parrocchia è davvero vostra”. “Sì, è tutto
vero. Ma il parroco non c’è”.
Il parroco è don Andrea Bellò, diventato famoso nelle ultime ore, suo malgrado, per un post Facebook che
ha firmato e pubblicato sulla pagina della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita. Ottenere 3700
reazioni, 307 commenti e 1590 condivisioni, per una pagina che normalmente registra 15 mi piace, è un
record.
A colpire gli utenti è stata la reazione di don Andrea, dopo che il
muro della sua parrocchia è stato imbrattato con una scritta
offensiva: “Aborto libero (anche per Maria)”. Il parroco ha
deciso di scrivere su Facebook una lettera aperta all’anonimo
“imbrattatore”. Eccola:
«Caro scrittore anonimo di muri, Mi dispiace che tu non abbia
saputo prendere esempio da tua madre. Lei ha avuto coraggio.
Ti ha concepito, ha portato avanti la gravidanza e ti ha partorito. Poteva abortirti. Ma non l’ha fatto. Ti ha
allevato, ti ha nutrito, ti ha lavato e ti ha vestito. E ora hai una vita e una libertà. Una libertà che stai
usando per dirci che sarebbe meglio che anche persone come te non ci dovrebbero essere a questo mondo.
Mi dispiace ma non sono d’accordo. E ammiro molto tua mamma perché lei è stata coraggiosa. E lo è
tutt’ora, perché, come ogni mamma, è orgogliosa di te, anche se ti comporti male, perché sa che dentro di
te c’è del buono che deve solo riuscire a venire fuori. L’aborto è il “non senso” di ogni cosa. È la morte che
vince contro la vita. È la paura che vince su un cuore che invece vuole combattere e vivere, non morire. È
scegliere chi ha diritto di vivere e chi no, come se fosse un diritto semplice. É un’ideologia che vince su
un’umanità a cui si vuole togliere la speranza. Ogni speranza. Io ammiro tutte quelle donne che pur tra
mille difficoltà hanno il coraggio di andare avanti. Tu evidentemente di coraggio non ne hai. Visto che sei
anonimo. E già che ci siamo vorrei anche dirti che il nostro quartiere è già provato tanti problemi e non
abbiamo bisogno di gente che imbratta i muri e che rovina il poco di bello che ci è rimasto. Vuoi dimostrare
di essere coraggioso? Migliora il mondo invece di distruggerlo. Ama invece di odiare. Aiuta chi è nella
sofferenza a sopportare le sue pene. E dai la vita, invece di toglierla! Questi sono i veri coraggiosi! Per
fortuna il nostro quartiere, che tu distruggi, è pieno di gente coraggiosa! Che sa amare anche te, che non
sai neanche quello che scrivi! Io mi firmo:
don Andrea»
Che una Chiesa venga imbrattata da scritte offensive, purtroppo non è una novità. E nemmeno che un
parroco usi i social per cercare un dialogo con un aggressore. E non è una novità nemmeno che un sacco di
persone plaudano alla sua scelta.
Ciò che è nuovo, anzi rinnovato è il coraggio del gesto di don Andrea. La bellezza di questo gesto. L’esempio
di questo gesto.
Una brutta storia