premio mimosa 2017 – 12 edizione · di musica pop, jazz, rock con un box riservato ai nuovi...

22
PREMIO MIMOSA 2017 – 12 edizione La faccia della paura. Quella volta che ho sentito una minaccia alla mia esistenza e ho avuto la tentazione di correre, fuggire, dileguarmi. La paura era nelle mie gambe, negli occhi, nei polmoni e la sentivo crescere fino ad impadronirsi della mia essenza. Vincitori Categoria Adulti 1° Premio GENGIS KAHN NON SI ARRENDE Liberamente ispirato ad una storia vera di Irene Falocco In un freddo e piovoso pomeriggio d’autunno, Maria mi dà appuntamento nella sua casa di Toronto. Subito mi accoglie con un grande sorriso da cui mi lascio trasportare, trasmettendomi una forte sensazione di calore. Iniziamo a parlare. La giovane vive insieme alla sua famiglia che l’ha raggiunta soltanto un anno fa. Adagio mi accompagna in quella che definisce la sua stanza. Si tratta di uno spazio irregolare. Mi colpiscono le misure sproporzionate di un’ampia finestra senza serrande o persiane, sempre aperta, da cui entra luce con continuità anche in una giornata plumbea come questa. Nella stanza sono conservati decine di trofei, medaglie, targhe, ma anche centinaia di fotografie che la ritraggono nelle tappe della sua vita e che la legano indissolubilmente al suo passato. Articoli di giornale che parlano di lei e delle sue vittorie, in inglese e in francese ma anche tanti libri, in ordine dal più grande al più piccolo e catalogati in base al genere. E infine i CD di musica pop, jazz, rock con un box riservato ai nuovi gruppi giovanili che cantano in lingua pakistana attraverso internet da chissà quale nazione fuori dai confini delle proprie origini. Maria si avvicina ad una scrivania sulla quale si nota una fotografia in bianco e nero. E’ lei da bambina, con i capelli neri spettinati dal vento, in maglietta bianca e pantaloncini blu, davanti al mare, in braccio ad un uomo sorridente, minuto nell’aspetto fisico, ma con gli occhi che brillano della stessa luce di quelli di Maria. E’ suo padre, il suo eroe - mi dice - l’unico uomo che ha creduto in lei e che le ha trasmesso la forza di combattere e il coraggio per andare avanti, nonostante tutto, anche nei momenti in cui le uniche alternative erano fuggire o morire. Accanto a questa foto, un pc aperto su un profilo Facebook senza alcuna immagine e con un chiaro pseudonimo “Gengis Khan”. In copertina la foto di un disegno fatto a mano, dalle intense sfumature, che ritrae la bandiera del Pakistan al centro di un cerchio formato da altre bandiere e a congiungere l’elemento centrale con la sua cornice di colori due racchette da squash.

Upload: truongque

Post on 17-Feb-2019

218 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

PREMIO MIMOSA 2017 – 12 edizione

La faccia della paura. Quella volta che ho sentito una minaccia alla mia

esistenza e ho avuto la tentazione di correre, fuggire, dileguarmi. La

paura era nelle mie gambe, negli occhi, nei polmoni e la sentivo crescere

fino ad impadronirsi della mia essenza.

Vincitori

Categoria Adulti

1° Premio – GENGIS KAHN NON SI ARRENDE Liberamente ispirato ad una storia vera di Irene Falocco

In un freddo e piovoso pomeriggio d’autunno, Maria mi dà appuntamento nella sua casa di Toronto. Subito mi accoglie con un grande sorriso da cui mi lascio trasportare, trasmettendomi una forte sensazione di calore. Iniziamo a parlare. La giovane vive insieme alla sua famiglia che l’ha raggiunta soltanto un anno fa. Adagio mi accompagna in quella che definisce la sua stanza. Si tratta di uno spazio irregolare. Mi colpiscono le misure sproporzionate di un’ampia finestra senza serrande o persiane, sempre aperta, da cui entra luce con continuità anche in una giornata plumbea come questa. Nella stanza sono conservati decine di trofei, medaglie, targhe, ma anche centinaia di fotografie che la ritraggono nelle tappe della sua vita e che la legano indissolubilmente al suo passato. Articoli di giornale che parlano di lei e delle sue vittorie, in inglese e in francese ma anche tanti libri, in ordine dal più grande al più piccolo e catalogati in base al genere. E infine i CD di musica pop, jazz, rock con un box riservato ai nuovi gruppi giovanili che cantano in lingua pakistana attraverso internet da chissà quale nazione fuori dai confini delle proprie origini. Maria si avvicina ad una scrivania sulla quale si nota una fotografia in bianco e nero. E’ lei da bambina, con i capelli neri spettinati dal vento, in maglietta bianca e pantaloncini blu, davanti al mare, in braccio ad un uomo sorridente, minuto nell’aspetto fisico, ma con gli occhi che brillano della stessa luce di quelli di Maria. E’ suo padre, il suo eroe - mi dice - l’unico uomo che ha creduto in lei e che le ha trasmesso la forza di combattere e il coraggio per andare avanti, nonostante tutto, anche nei momenti in cui le uniche alternative erano fuggire o morire. Accanto a questa foto, un pc aperto su un profilo Facebook senza alcuna immagine e con un chiaro pseudonimo “Gengis Khan”. In copertina la foto di un disegno fatto a mano, dalle intense sfumature, che ritrae la bandiera del Pakistan al centro di un cerchio formato da altre bandiere e a congiungere l’elemento centrale con la sua cornice di colori due racchette da squash.

Aveva solo quattro anni, Maria, quando decise che i suoi vestiti non le piacevano. Così li mise tutti in un mucchio e li bruciò. Il padre, al rientro a casa, trovò la stanza della sua bambina devastata ed esclamò: "Ma cos'è? È passato Gengis Kahn qui?". Da allora il nome del condottiero mongolo divenne il suo soprannome di bambina pestifera e, con il passare degli anni, lo pseudonimo maschile dietro al quale celare la sua identità di ragazza per diventare, nel cuore del Pakistan conservatore, una campionessa di squash. In Pakistan, così come in Turchia, in molti Paesi Arabi e del sud del Mediterraneo, lo squash è sport nazionale, molto diffuso e praticato. Maria si avvicinò a questo sport per caso, in vacanza al mare con la sua famiglia e da quell’estate, a 12 anni, decise che sarebbe stata quella la sua strada e che un giorno sarebbe diventata una campionessa. Ma nella regione del Peshawar, dove regna sovrana le legge imposta dai Taliban, per le ragazze Pashtun è considerato un grande disonore fare sport. Così, con la complicità del padre, Maria decide di tagliarsi i capelli, vestirsi da ragazzo e proprio attraverso lo pseudonimo “Gengis Kahn” inizia a frequentare l’Accademia di squash della Pakistan Air Force. Grazie a questo inganno, per qualche tempo, Maria riesce ad allenarsi con i migliori giocatori del suo Paese e inizia a vincere tornei e competizioni. Un giorno, tuttavia, il direttore della scuola decide di iscrivere “Gengis Kahn” ai campionati juniores over 16 richiedendo alla famiglia il certificato di nascita. A quel punto non si poteva più fingere e nonostante la solidarietà e la protezione del suo direttore, Maria inizia a subire discriminazioni, vessazioni e violenze continue da parte dei suoi avversari e perfino dei suoi compagni di allenamento. Le voltano le spalle anche gli amici di infanzia, per la paura che il fango del disonore ricadesse anche su di loro e sulle loro famiglie. Maria è ormai sola contro tutti, ma la forza di volontà e la voglia di continuare a lottare e a vincere superano il dolore e l’angoscia della violenza e nel 2007, dopo essere diventata professionista, riceve un premio speciale dalle mani del Presidente Musharraf. La situazione a quel puto peggiora e la paura si trasforma ben presto in puro terrore. Maria attira l'attenzione dei Taliban. Iniziano le minacce sempre più palesi e dirette a fare del male: se avesse continuato a giocare contro i ragazzi e per di più senza velo e in calzoncini, le conseguenze per la famiglia sarebbero state terribili e lei avrebbe rischiato la pubblica lapidazione per disonore. Maria è terrorizzata, schiacciata tra la volontà di realizzare il suo sogno e l’amore per la sua famiglia. Nel sonno gli incubi la devastano, si sveglia, le manca il respiro, non riesce a smettere di piangere, e quando la stanchezza la sovrasta si riaddormenta, ma da lì a poco è già mattina. E il sole del giorno, quando sa che uscendo la potrebbero riconoscere e sottoporla a torture di ogni tipo, la spaventa ancor di più del buio che diventa suo alleato. Inizia ad allenarsi in un capannone abbandonato, di notte, da sola, mentre il padre la porta in giro su una vecchia macchina a cui cambia la targa continuamente. Di giorno va a scuola coperta da un velo blu scuro che lascia intravedere soltanto gli occhi e con la protezione del fratello, torna a casa, di corsa, con la schiena china, facendosi scudo tra i muretti degli edifici e guardandosi le spalle ad ogni angolo, mentre il cuore le sussulta per l’angoscia ad ogni passo estraneo che percepisce dietro di lei. E ogni giorno che passa è sempre più difficile andare avanti, correre, nascondersi, costringere le gambe a muoversi invece che bloccarsi inermi per la paura e restare lì sul ciglio di una strada, rischiando di essere scovata e portata via o peggio. Per sopravvivere, Maria, sa bene di dover diventare un fantasma. Così, una volta a casa, si abbassano le luci e si chiudono finestre ed imposte, mentre Maria, chiusa a chiave nella sua camera, conta le ore, i minuti, senza poter vedere

o parlare con nessuno e senza poter neanche prendere un po’ d’aria in giardino, dove ogni tanto qualcuno si diverte a lasciare messaggi di morte o a lanciare sassi, o qualsiasi cosa di putrido o marcio. Maria ricorda ogni istante di quei tre lunghissimi anni vissuti nel buio della paura. Senza arrendersi mai, continuando ad allenarsi, da sola, lontano da occhi indiscreti, a sperare e a pensare, talvolta, di fuggire da quella sua prigionia. Quante volte si è chiesta tra le lacrime cosa ci fosse di sbagliato per una ragazza nel praticare uno sport, ma soprattutto non riusciva a comprendere perché realizzare il suo sogno significasse disonorare la sua famiglia. Se era soltanto una questione di indumenti avrebbe fatto in modo di allenarsi e gareggiare completamente coperta, se le regole nelle competizioni lo avessero permesso. In fondo lei voleva soltanto fare grande il suo Paese e rendere orgogliosa la sua gente! Di notte, a volte, percepiva dei passi o dei rumori che provenivano dall’esterno del capannone in cui cercava di allenarsi in solitudine. La paura le bloccava le gambe e le braccia e iniziava a tremare. Si rannicchiava sulle sue stesse ginocchia in un angolo della struttura e rimaneva lì bianca ed impietrita, con gli occhi sbarrati e senza respirare. Infilava la sua racchetta tra le pieghe del suo lungo velo scuro come per proteggerla perché in quel momento era l’unica cosa che non le avrebbero potuto portare via. Una sera, avvertì un tonfo più violento e subito come un’ombra sparì tra le insenature delle lamiere buie. Il suono cupo di passi veloci che si avvicinavano sempre di più le bloccò il respiro in gola, ma per quanto lo desiderasse, il suo cuore non smise di battere ancora più forte per l’angoscia. Una porta laterale si aprì all’improvviso e si udirono chiaramente gli schiamazzi e le urla di un gruppo di uomini. Un istante dopo la porta si richiuse. Maria, come ipnotizzata dalla paura, prese in mano una lunga spranga di ferro, ma qualcosa di strano attirò la sua attenzione. Qualcuno era riuscito ad entrare e la stava chiamando con voce flebile chiedendo aiuto. D’istinto riconobbe quella voce e gli andò incontro. Era suo fratello. Interamente ricoperto di sangue che sgorgava da viarie ferite e tumefazioni al volto, al torace e alle braccia. Si trascinava una gamba e cadde improvvisamente a terra. Nel frattempo fuori dal capannone continuavano le urla e gli insulti e qualcuno stava iniziando a tirare sassi alla struttura di ferro. Maria ansimava dalla paura e abbracciò suo fratello chiedendo cosa stava accadendo. Il giovane, prima di perdere i sensi riuscì soltanto a dire “perdonami, scappa!”. Poi un frastuono di vetri in frantumi e un intenso fumo nero ricoprì l’intera struttura. Le lacrime le si asciugarono all’improvviso sul volto. Con tutta la forza che le rimaneva, trascinò il fratello in un locale esterno collegato al capannone. Non c’erano vie d’uscita. I due fratelli rimasero lì abbracciati e tremanti di paura, mentre le prime luci dell’alba si incuneavano tra le minuscole fessure di lamiera. Il padre li trovò così, sporchi, insanguinati e stremati dal terrore con gli occhi ancora aperti ed increduli. Li aiutò a salire in macchina e corse a casa, ma prima di partire Maria guardò per l’ultima volta il suo nascondiglio, ormai distrutto, dove restava soltanto una scritta “Maria a morte”. Dopo una settimana in cui la giovane non uscì di casa neanche per andare a scuola, arrivò una e-mail di convocazione dall’Accademia di Toronto, quella di Jonathon Power, lo stesso nome inciso sulla racchetta di Maria. “Questo è un segno” - pensò. E partì.

Al termine dell’intervista, evidentemente turbata, la guardo negli occhi che continuano a sorridermi e riesco soltanto a pronunciare un ultima domanda: “Ed ora, quali sono i tuoi progetti per il futuro?”. Maria mi risponde d’istinto con la mano poggiata sul petto: “Ne ho tanti, ma il più importante è poter, un giorno, ritornare nel mio Paese, il Pakistan, tra la

mia gente, e provare a cambiarlo, in meglio. Chissà, magari adesso non sarei più tanto sola!”. Poi il suo volto si illumina guardando oltre la finestra. Non piove più.

Oggi Maria Toorpakai Wazir a soli 23 anni è la giocatrice numero uno del ranking pachistano e la numero 54 di quello mondiale.

Motivazione della giuria Ha il registro dell’intervista questo che possiamo chiamare un racconto di formazione in cui la protagonista viene rivelata attraverso un narratore esterno. Questo taglio quasi oggettivo consente di partecipare profondamente alla vicenda. Una storia di ordinaria persecuzione quella che vivono le donne in molti paesi a cultura islamica dove la religione è l’ennesimo pretesto della storia per discriminare, escludere, rinchiudere in un guscio dominato dalla cultura della sopraffazione maschile. Una storia di straordinario riscatto che si compie, complice una famiglia dissonante rispetto alla cultura prevalente nel Pakistan, attraverso una passione sportiva, quella per lo squash. Un percorso tenace disseminato di ostacoli talvolta estremamente violenti che si chiude con una vittoria che non è individuale; infatti la realizzazione di Maria come donna e come campionessa può essere ascritta in un archivio ideale delle conquiste di genere delle donne nell’era della globalizzazione che vogliamo interpretare come generalizzazione universale dei diritti.

Categoria Adulti – 2° Premio ex aequo LA MIA PRIMAVERA di Rosella Belli

Sabato 10 aprile 2014 Mi sono alzata presto. Ho dormito poco, anzi, niente. La luce del mattino che filtrava a righe tra le persiane mi è sembrata liberatoria, un invito ad andare. Invece di mettermi a stirare come faccio spesso, ho spalancato il finestrone della finestra per ingoiare aria fresca, pulita, poi ho camminato sotto il grande porticato e per ogni piantina nuova ho avuto una carezza e un po’ di acqua. Il glicine fa solo foglie, è il terzo anno, mio marito lo vuole togliere, non lo sopporta più, dice che non solo non farà mai i fiori, ma che con le sue radici solleverà il pavimento, farà solo danni. Mi dovrò arrendere di fronte alle sue giuste argomentazioni. Lui è razionalità fatta persona, io l’idealista irriducibile. Forse è per questo contrasto che stiamo così bene insieme per oltre 30 anni anche se abbiamo coppie di amici appagate dalle loro cosiddette sovrapponibili affinità. Guardo le ortensie che sono cresciute a dismisura, si intuiscono tra le foglie, delicati germogli che tra un mese saranno fiori azzurri e invadenti poi, guardo l’ulivo che sta soffrendo nel suo vaso troppo piccolo. D’impulso lo sollevo, le radici piangono terra, sembra infreddolito. In pochi minuti si ritrova adagiato in un letto tiepido di terra nuova, in un vaso grande dalla bocca larga. Adesso è lui ad essere troppo piccolo. L’ho guardato e gli ho detto – Mi raccomando, cresci- e l’ho inondato di acqua, dopo avergli nascosto nel ventre una manciata di concime. Quando il sole ha allungato le sue braccia fino a percuoterlo mi è sembrato che stesse già bene nella sua casa e per completare l’opera, gli ho posizionato alla base una corona di viole del pensiero dai colori

superbi. Poi gli ho fatto una foto che questa sera, tirerò fuori colori e pennelli e diventerà un acquerello. All’improvviso, il rumore del caffè che stava salendo mi ha distratto, ho riempito la tazzina mentre lo stereo di mandava le note di una canzone stupenda che mi piace proprio tanto – Alla vita… che cosa di più bello esiste al mondo…e non ce ne accorgiamo quasi mai…quasi mai –. Mi stringo nel golfino rosso e mi guardo intorno con quella struggente voglia di vivere che mi accompagna da sempre. Otto e Mezzo mi guardano. Otto inclina il musetto, sembra umano, si dice sempre. Miagola con monosillabi di parole, fiuta ogni mio sbalzo di umore. Io, invece, sembro un animale raro. Fuori dalle mie abitudini, dal mio lavoro di insegnante, lontano dai miei alunni e dai miei colleghi. Fuori da quasi un anno, scaraventata da un calendario di impegni imposti che non avrei nemmeno immaginato. Quando posso e quando mi va passeggio per ore, guardo luoghi comuni con la curiosità di un’estranea, perché nella calma tutto mi appare nuovo. E poi, nel parco vicino casa, sotto una panchina posizionata da poco, è nato, in ritardo un cespuglio di violette che fa concorrenza ad un lago di margherite sotto un acero biondo. Mi siedo e divoro metà di un libro appena acquistato e poi aspetto i colori del tramonto per tornare a casa. E poi ci sono le rondini allineate lungo il filo della luce. Piccole ombre scure dentro la vita, la mia vita che prova a ripartire dopo un inverno lungo, pesante come piombo, dopo mesi di cure che si chiamano chemio e si chiamano radio. E’ la mia primavera. E’ la vita che torna, che esplode, che incanta, che commuove. Adesso il sassolino nel seno non c’è più e a luglio tornerò al mare rincorrendo con ansia quella paludosa normalità che a volte ci toglie lo stupore della vita. Ma adesso è primavera, dentro e fuori di me ed io sono così felice, di una felicità così intensa che quasi mi fa male contenerla tutta.

Categoria Adulti – 2° Premio ex aequo UN VIAGGIO CHIAMATO ADOZIONE di Alessia Maria Di Biase Il percorso dell’adozione non è solo un viaggio d’amore, è un strada in salita, una corsa ad ostacoli non solo per i genitori ma anche per i bambini; piccole che vite chiamate ad affrontare una realtà più grande di loro, che si muovono dal loro paese natale per vivere in un posto a loro sconosciuto, con persone ignote e una lingua incomprensibile. L’adozione è amore ma anche paura. Paura di intraprendere un cammino sconosciuto, paura di guardarsi dentro e accettare l’idea di diventare genitore in maniera diversa. Paura del diverso, di non essere all’altezza. Paura che un giorno quel bambino, orami adulto, possa guardarti negli occhi e dirti che non sei tu il suo genitore. L’adozione è la paura di vivere una gioia troppo grande, di essere illusi, paura di non sapere attendere, di non avere la forza di aspettare; paura di farsi osservare, di affrontare la legge, il giudizio della gente. L’adozione è un po’ come la paura di volare, spaventa il pensiero di camminare tra le nuvole senza niente sotto, ma una volta arrivati in cima… non se ne può più fare a meno. Tutte le storie di adozione raccontano, a modo loro, la paura. Eppure le storie che raccontano le adozioni sono tutte molto belle, tutte emozionanti, tutte piene di gioia e un po’ di sofferenza ma ciononostante non sono tutte uguali.

Te ne accorgi solo quando parli con i genitori e con i ragazzi, quando senti i loro racconti e vedi le foto di questi viaggi straordinari, che sono tutto un insieme di attesa, speranza, forza e amore. Tutte le storie però nella loro diversità hanno qualcosa in comune, raccontano con grande onestà e sincerità una scelta che non è stata solo l’accoglienza di un bambino, ma anche l’accoglienza di rifiuti, pregiudizi, dolori, paure appunto, che mettono alla prova le persone come coppia e come genitori. A volte, certi eventi sembrano accadere per caso, ma poi alla fine, quando la meta è stata raggiunta ci si rende conto che tutto è stato il compimento di un disegno ben preciso. Storie che raccontano senza riserva alcuna le paure, i dubbi, le esitazioni e a volte anche i sensi di colpa degli aspiranti genitori. Un percorso, quello dell’adozione, che spinge a superare limiti, pregiudizi, luoghi comuni, paura, ecco perché i viaggi delle adozioni non sono mai strade a senso unico, di sola andata. Prima di intraprendere un viaggio, solitamente, scegliamo con attenzione e pazienza la nostra meta. A volte ci ritroviamo in posti totalmente diversi da quelli che avevamo in mente altre volte ci lasciamo prendere dalla curiosità. La protagonista di questo viaggio invece, ha sempre saputo quale sarebbe stata la sua strada. Questa storia racconta, l’emozione, la speranza, i timori e qualche intoppo di due genitori che vivono con gioia e, anche un po’ di nostalgia, il lungo tempo dell’attesa fino al grande abbraccio... Lucia ha sempre saputo che sarebbe diventata mamma in un modo diverso, quello che non ricordava era il momento esatto in cui ha avvertivo per la prima volta questa sensazione. L'aiuto le è stato dato una cara amica d'infanzia (Sandra), la quale, ascoltando il percorso che stava intraprendendo con suo marito Giovanni, le dice: “OOO Lu! tu lo hai sempre detto!!”. Erano due adolescenti e, a quanto pare, Lucia confessò a Sandra che un giorno avrebbe voluto essere mamma solo così. A quel punto, tornata a casa, Lucia inizia a riflettere e di colpo ha un flash. Era la metà degli anni ‘80, in TV passano messaggi per aiuti al terzo mondo e Lucia, guardando quelle immagini con gli occhi e la mente di una ragazzina, pensò: “perché mettere al mondo dei figli quando ce ne sono così tanti che muoiono di fame o orfani??” Da li giurò che se avesse formato una famiglia lo avrebbe fatto attraverso l’adozione. Ovviamente, crescendo, si vede tutto in maniera diversa perché è tutto un pò più complicato di quello che vedeva da piccola, ma il pensiero era sempre lo stesso. Circa 10 anni fa Lucia conosce Giovanni. Dopo un breve periodo di conoscenza decidono di andare a convivere e quando la loro storia stava prendendo la giusta strada, iniziarono a pensare di allargare la famiglia, e così, un giorno Lucia gli chiede senza troppi giri di parole cosa ne pensava dell'adozione. Lì per lì Giovanni, preso dalla paura che tentava di nascondere, rispose molto brevemente che non ci trovava nulla di strano, ma che comunque avrebbe voluto anche dei figli biologici. Ma Lucia insiste, gli ripete la domanda (anche perché probabilmente la loro storia non sarebbe continuata se lui avesse dato una risposta diversa), lui continua: “Si, si, perché no! prima però proviamo ad averne naturalmente e poi faremo anche l'adozione!!

– “woaaaaaaaaaaa io ero felicissima!! Esordisce Lucia. Lucia e Giovanni si danno un tempo e dei limiti oltre i quali non sarebbero andati, decidendo di comune accordo che da lì in poi avrebbero intrapreso la strada che tanto sognavano. Ma, come spesso capita in questa vita terrena, non siamo noi a decidere come, quando e se avere dei figli, quindi, dopo diversi tentativi e qualche aiuto con tecniche varie, con serenità Lucia e Giovanni abbandonano l’idea di un figlio biologico. Lucia confessa che in quel periodo pensava che avrebbe potuto tentare all’infinito ma dentro di sé era sicura che la sua strada era un'altra, ecco perché non ebbe alcuna difficoltà ad “elaborare il lutto”, come dicono gli psicologi. Inizia così l’avventura di Lucia e Giovanni nel mondo dell'adozione. A giugno 2014 si sposano e, finalmente, con non poche difficoltà, a dicembre dello stesso anno depositano la domanda di disponibilità presso il Tribunale dei minori della loro provincia. Durante il percorso a volte c'erano dei momenti, davanti a psicologi o assistenti sociali, in cui Lucia rifletteva molto sul fatto che delle persone avrebbero dovuto giudicare il suo poter essere o no genitore e la cosa, a volte, non le piaceva affatto, ma, fortunatamente, sul loro cammino hanno incontrato nella maggior parte dei casi persone molto professionali e competenti, che hanno alleviato questo senso di disagio. “L'iter può sembrare lungo e con ostacoli, ma se si ha la determinazione e la voglia, si affronta tutto, bisogna solo armarsi di pazienza e rimanere lucidi e tutto sembrerà più bello” – racconta Lucia. Ad ottobre 2015 Lucia e Giovanni ottengono il decreto d'idoneità all'adozione Internazionale e, dopo una lunga consultazione dei vari enti, a Gennaio 2016 conferiscono il mandato ad un Ente per le adozioni internazionali e aprono ufficialmente il loro fascicolo per l’adozione. Finalmente un giorno gli viene comunicato che il paese ha approvato il loro dossier e iniziano così l’attesa per l’abbinamento di uno o più minori. Lucia e Giovanni non stanno più nella pelle, sono emozionati come non mai perché sanno che manca veramente poco e quando inizia ad avvicinarsi la fine di questo percorso, che coincide con l'inizio della loro nuova vita, Lucia ha paura, sente che gli mancherà un pò questa attesa, perché le emozioni che si provano in questi mesi crede siano pari a quelle di una gravidanza, ma con una durata maggiore. In questo anno e mezzo di vari colloqui, controlli medici, documenti da preparare, l’anima di Lucia era sempre irrequieta. Il giorno in cui il dossier, completo di Album, lettere di referenze e documenti vari, é stato spedito, la sua anima finalmente ha trovato pace! Sapeva che, finalmente, da lì a breve sarebbe diventata mamma e insieme a Giovanni anche genitore. Si, Lucia ha sempre saputo che sarebbe diventata MAMMA così! QUALCHE MESE DOPO… E’ quasi Natale quando Lucia e Giovanni partono per abbracciare i loro due bambini. La gioia e l’euforia della partenza sono incontenibili, la voglia di condividere con tutto il mondo questo loro progetto d’amore, ha fatto venire voglia a Lucia di aprire un suo blog dedicato al suo viaggio infinito, ogni giorno i neo genitori raccontano un pezzettino del loro lungo lunghissimo cammino, fino al giorno più importante, l’incontro con i bambini.

Giorni, ore, sensazioni e pensieri annotati con cura quelli di Lucia, che cerca di contenere la felicità e mimetizzare la paura: le tappe del viaggio in aereo, l’arrivo in città, l’abbraccio con i loro i figli, tutto è immortalato scrupolosamente come se fosse l’ultimo momento della loro vita. Ogni istante è importante in questo cammino, ogni cosa sarà indimenticabile tanto da volerla cristallizzare nel tempo e poi… finalmente l’incontro … da adesso comincia l'avventura e tutte le teorie e i discorsi fatti in questi anni si trasformano in realtà, toccando le loro braccia, accarezzando i loro visi e dargli tanto tanto amore. Il tempo dell’attesa, e della paura, è finito... il viaggio vero inizia adesso…benvenuti in Italia, benvenuti a casa! Categoria Adulti – 2° Premio ex aequo IL BUIO NELL’ANIMA di Laura Mechelli C’è qualcosa di romantico e struggente nei ricordi: sono parte di te, li ritrovi anche negli angoli più remoti della mente e del cuore, non puoi ignorarli. Bravi ad infrangersi come onde sugli scogli nella testa e nel cuore. Ti toccano in modo diretto, graffiante dove sanno che tu li sentirai di più. E’ questo che stava accadendo a Chiara, occhi persi verso il mare, col vento fresco del mattino a carezzargli il volto e quell’orizzonte blu disteso di fronte a lei tra acqua e cielo. Rifletteva Chiara, circondata di ciottoli e sabbia ancora umidi per la guazza della notte, domandandosi come sarebbe stata d’ora in poi la sua vita. Dove avrebbe trovato il coraggio e la forza di andare avanti senza più avere accanto il suo grande amore? Con un tuffo di tenerezza al cuore Chiara ricordò il primo incontro con Paolo. Erano proprio lì su quella spiaggia, in un tranquillo e tiepido pomeriggio di primavera. Lei era tutta presa a leggere, con aria sognante, un romanzo di Charles Martin che aveva comprato poco prima presso una piccola libreria sul lungomare. Paolo si avvicinò e riuscendo a scorgere il titolo sulla copertina ne approfittò per farle una battuta: «Dove finisce il fiume… Non saprei ma sarebbe divertente scoprirlo, non credi?». Lei alzò gli occhi con un’espressione mista tra stupore e fastidio di essere stata distratta dalla sua lettura e Paolo le sorrise. Rimase folgorata dal suo volto così solare e carino che non poté fare a meno di ricambiarlo. Il tempo di presentarsi, stringersi la mano e scambiarsi qualche battuta e si ritrovarono a chiacchierare e ridere per un tempo indefinito, complici come se fossero amici di vecchia data. Sorrise malinconicamente Chiara, guardando l’orizzonte, ripensando a quell’incontro. Erano trascorsi più di otto anni e da quel giorno lei e Paolo erano diventati inseparabili. Non molti mesi dopo erano andati a vivere insieme in una casetta un po’ vecchia e fuori dal centro formata da due appartamenti. Il loro, posto al primo piano, era modesto e piccolino ma molto grazioso e confortevole. Iniziarono così insieme una vita ricca di amore, condivisione e tanti progetti per il futuro. Un futuro che ora non ci sarebbe più stato, sradicato via, cancellato quella maledetta sera di fine settembre di due anni prima. Aveva lavorato fino a tardi Paolo quella sera. Chiara lo aveva aspettato per cenare insieme. Poi, come d’abitudine, si erano rannicchiati sul divano a guardare un film in soggiorno e a godersi quei semplici ma felici momenti di serenità. Erano quasi le una ormai e loro si erano addormentati. La televisione accesa teneva la stanza in penombra. Un rumore improvviso, cupo, fece sobbalzare Chiara che, passato un primo momento di spavento e credendo fosse il vicino che rientrava a casa, non si

preoccupò ulteriormente. Insonnolita si alzò per andare in cucina a bere, dopodiché avrebbe chiamato Paolo e sarebbero andati a letto. Appena allungò la mano sull’interruttore per accendere la luce, vide con la coda dell’occhio un’ombra muoversi dietro di sé. Neanche il tempo di rendersene conto e si ritrovò a terra tramortita da un forte colpo alla testa, con un gran frastuono nelle orecchie e la vista annebbiata. Una figura alta e robusta, col volto coperto da un passamontagna, le si avventò addosso e sentì due mani grosse, coperte da guanti ruvidi, stringersi al collo. La voce strozzata, il respiro che mancava. Cercava di divincolarsi con tutta la forza che aveva, sbattendo i piedi e tentando invano di allentare quella morsa che le impediva di prendere aria. Era terrorizzata. Il cuore le batteva così forte che poteva scoppiarle nel petto. Si sentiva persa, confusa, impotente. Pensava a Paolo nell’altra stanza. Sperava che si svegliasse e si accorgesse di quanto stava accadendo ma allo stesso tempo aveva paura di ciò che avrebbe potuto succedere se lui fosse intervenuto, o se quello sconosciuto si fosse avventato su di lui mentre ancora dormiva. L’ansia l’attanagliava più di quelle mani, sentiva brividi correrle lungo la schiena e le forze che le venivano meno. Incapace di liberarsi, pensò che non sarebbe sopravvissuta. Le lacrime cominciavano a rigarle il volto, non voleva morire, non in quel modo e in quel momento. Doveva resistere. Troppe cose ancora poteva riservarle la vita. Ma i polmoni le stavano scoppiando, si sentiva sempre più debole. All’improvviso l’uomo lasciò la presa e lei cercò di riprendere fiato come quando si riemerge dall’acqua dopo una lunga apnea. Realizzò finalmente che Paolo si era alzato ed era balzato alle spalle di quel mostro colpendolo con svariati colpi alla testa. L’uomo non tardò a reagire e cominciò una colluttazione tra pugni, calci, sedie che cadevano, vasi che s’infrangevano. Le sembrava così piccolo Paolo rispetto all’altro eppure si stava difendendo con una gran forza e agilità. Finché l’uomo non tirò fuori un coltello e lo colpì ad un fianco, con un movimento forte e deciso, sfilando poi l’arma insanguinata e lasciando il ragazzo inginocchiato a terra che le gridava di scappare via. Chiara cercò a fatica di trascinarsi verso la porta dell’appartamento, in una disperata ricerca d’aiuto. Le ginocchia le tremavano e tutto le ruotava intorno. Si sentiva come attraversata da scosse di corrente, la pressione le fischiava nelle orecchie. L’uomo la raggiunse e le si avventò contro colpendo anche lei. Sentì la lama trafiggerle la spalla sinistra per due volte, un dolore fitto, acuto e il braccio dell’uomo che di nuovo le stringeva il collo. Si agitava scalciando e fu spinta di nuovo a terra e colpita più volte con violenza al viso. La testa sbattuta ripetutamente sul pavimento e ancora due coltellate al braccio destro e all’addome. Ormai aveva così tanta adrenalina in corpo che non sentiva più neanche dolore. Eppure non riusciva a muoversi e si sentiva fredda come pietra. Quell’ultimo colpo oltre alla carne le trafisse anche l’anima. C’era la sua bambina lì. Restò così supina, immobile, fissando il soffitto bianco e premendosi il ventre come a cercare di proteggere la sua Martina. Tutto le pareva ovattato, si sentiva d’improvviso leggera ed estranea a quella mattanza come se vedesse tutta la scena fuori dal suo corpo. Quando Paolo si avvicinò di nuovo per cercare di difenderla, quel feroce balordo lo accoltellò ancora, lo spinse sul pavimento e continuò a colpirlo più volte. Con la vista offuscata lei seguiva la scena cruenta, spettatrice inerme di un orribile film. Paolo gridava a quell’assassino di smettere ma la lama continuava a colpirlo. Gesti meccanici e ripetuti del braccio di quel mostro che ritmicamente si alzava e nuovamente affondava il coltello squarciando la sua preda. L’odore del sangue, il rumore di carne lacerata, il respiro sempre più debole, la voce di Paolo che arrivava sempre più lontana…e Chiara perse i sensi.

Quando si risvegliò era sdraiata in un letto d’ospedale, attaccata a macchine che la monitoravano e piena di fasciature. Era trascorso quasi un mese dall’aggressione e aveva subito svariate operazioni. Paolo non c’era più. Era morto la sera stessa dell’aggressione a seguito delle ferite riportate. Non l’avrebbe più visto. Non avrebbe sentito più la sua voce e la sua squillante risata. Non avrebbe più potuto abbracciarlo né dirgli quanto lo amava. Se ne era andato in un modo atroce e cruento nel tentativo di difendere lei, la loro casa, la loro bambina che come lui non ce l’aveva fatta. Era rimasta sola Chiara, unica superstite di quegli attimi di violenza e follia. L’ultima immagine che aveva di Paolo era lui insanguinato, ferito e impaurito. Piangeva Chiara continuando a fissare il mare. Un piccolo gabbiano le atterrò vicino e la distolse per un momento da quei tristi e penosi ricordi. Erano buffe le sue minute impronte sulla sabbia. Di nuovo le si velarono gli occhi di lacrime quando pensò che anche la sua Martina poteva essere lì ad osservarlo. Avrebbe avuto quasi un anno e mezzo. Le pareva di vederla giocare con i sassi, stringerli tra le manine e sistemarli in file lunghissime. Avrebbe riso mostrando i buffi dentini che cominciavano a spuntarle, con quelle fossette sulle guance e gli occhi verdi come il papà. Ma era solo un bel sogno. La realtà era invece cruda e dura da sopportare. Non c’era senso nelle sue giornate, solo tanto dolore e continui attacchi di panico. La sua unica compagna era ormai l’indefinita paura del futuro, la mancanza di appigli a cui aggrapparsi per andare avanti. Ogni notte, nella penombra della sua camera si trovava a rivivere quei tragici momenti. Si svegliava di soprassalto urlando, sudata e tremante. La nausea l’assaliva e provava un terribile senso di colpa per essere sopravvissuta. Non poteva accettarlo, non riusciva a metabolizzare l’accaduto. Non trovava un senso a tutto il suo dolore. Si rannicchiava, così, abbracciando il cuscino e piangeva finché, sfinita, non riusciva a riprendere il suo sonno agitato.

Categoria Scuola Superiore

1° Premio – Giovanni di Margherita Secondi (Istituto Superiore Gandhi Narni – 2 G) GIOVANNI

Mi chiedo a volte che senso abbia ascoltare le canzoni. Mi chiedo se non siano solo un modo per riempire le rughe che circondano gli occhi. Se non siano solo una pallina di zucchero dopo il sapore aspro delle medicine. Me lo chiedo spesso quando mi guardo allo specchio. Sulla mia faccia leggo la mia storia e Dio se la odio! Mi guardo fissa dentro le pupille, non vedo niente, come se il mio viso non dica chi sono davvero. Non so chi sono, sono una stupida forse? Non lo so! Come ho fatto? come ho potuto? Sono una cretina, stupida, stupida! Come lo dirò a Giovanni ora ... tesoro devo dirti una cosa, mh...no meglio di no. Spengo la radio, il sugo borbotta lentamente, l'acqua bolle.

-Giovanni vieni a tavola! - E ora come faccio! non posso deludere mio figlio, non posso farlo di nuovo. Mangio con lo sguardo basso e affanno nell'incrociare gli occhi del mio bambino. -Ma’! Stavo pensando, visto che con Lucio al bar ora stiamo guadagnando qualche soldino in più, ti andrebbe di partire due giorni solo io e te e andare al mare? Come facevamo

dopo che tu e papà vi siete separati. Così stiamo un po’ insieme e ci facciamo delle passeggiate in riva al mare e mangiamo il gelato al pistacchio, quello che ti piace tanto. Ti va? -Giò, lo sai che non possiamo... -E perché no?! Scusa ma’ due giorni di ferie te li potrai anche prende! Buona la pasta! - Giovanni si sporca sempre quando faccio gli spaghetti, ma poi mi guarda con quegli occhi neri neri e i capelli ricci biondi che non riesco mai a sgridarlo. Lui è l'unica cosa giusta che ho fatto nella vita. Oddio mica tanto! Quando l'ho detto ai miei genitori mio padre si stava per sentire male e mia mamma rimase allibita. A pensarci fa molto ridere. Avevo solo diciannove anni e pensavo di essere pronta per la vita vera. Poi, io e Dario ci siamo sposati appena Giovanni è nato e pensavo che fosse davvero una vita perfetta... -Giò dai, lo sai non possiamo permettercelo. Mi dispiace! -Va be! Mamma, ho capito và! Stasera gioco a calcetto, alle nove penso. -Ok non fare tardi, domani hai scuola. Guardando mangiare mio figlio nella mia testa l'angoscia si fa strada. Mille problemi, mille domande. Pagare il mutuo, l'assicurazione, le bollette, la spesa. Mio marito non mi dà l'assegno di mantenimento da tre mesi e mio figlio ha solo diciassette anni. Lui si alza da tavola improvvisamente fissando l'orologio a bocca aperta -Mamma sono già le otto e tre quarti! Corre verso la camera e una serie di rumori definibili come oggetti caduti e scarpe lanciate via nel disordine irrompe nel corridoio. -Prendi il casco mi raccomando. Ah, Giovanni! ricordati che domani hai scuola non fare tardi. Vai piano! -Sì sì! Mamma dove stanno gli scarpini? E le chiavi della vespa? -Le chiavi stanno qui, gli scarpini sullo stendino in balcone. Ma mi hai sentito Giò? Comportati bene che se no sono guai. -Si mamma, non ti preoccupare- con rapidi scatti passa dal corridoio al balcone. A guardare mio figlio ci starei per ore, questi capelli d'oro che ondeggiano nell'aria fresca di inizio settembre, la sua figura avvolta dalla luce calda dei lampioni in strada. -Ah mamma… - -Si Giò? - -Ti voglio bene. - Mi bacia la fronte mi sorride ed esce di casa. Non voglio deluderlo. Lui non potrebbe mai accettare che sua madre sia stata licenziata. Non posso dargli questo dispiacere! No no, io non posso! Prima il divorzio poi ha scoperto dei tradimenti di suo padre... no! Giovanni non deve essere vittima dei miei errori. Riaccendo la radio, stanca apro la porta finestra del balcone. Un passo al di là da questa e un fresco vento mi sfiora la pelle. Mi sento come stretta in un profondo abbraccio. Mi appoggio alla ringhiera del balcone. Sembra troppo fredda per essere il tre di settembre. La musica serena di un jazzista rilassa la mia mente dai pesanti pensieri. Sul tavolino di plastica c'è un pacchetto di sigarette. Aprendolo con mia sorpresa ci sono ancora tutte le venti che ho lasciato questa mattina. Ne tiro fuori una e con il bic giallo la accendo. L'odore del fumo questa sera sembra più fastidioso, la gola è più gonfia e i respiri più corti. Un sottofondo di auto e voci dei condomini completa il paesaggio di fronte a me. Un cielo scuro con un piccolo spicchio di luna e delle strane nuvole dai contorni argentati. Mi volto e poggio i gomiti sulla ringhiera. Incrocio le gambe e tiro dopo tiro guardo il mio smunto salottino. Il divano avrà si e no dieci anni. La cucina ancora tutta in disordine avrebbe un led da sostituire. I piatti e i bicchieri in tavola aspettano di essere lavati. Le bollicine nella brocca dell'acqua tentano di scappare verso l'alto. Anche io vorrei scappare.

Improvvisamente alle mie spalle un suono stridente di freni d'auto irrompe nella serata tranquilla. L'allarme dell'auto comincia a suonare incessantemente ancor prima che io mi volti. Alla fine della strada proprio al semaforo un'automobile scura e una vespa color panna sono ammassate l'una sull'altra. Nella mia testa tutto si ferma, il mio sguardo si fissa sulla sagoma di un ragazzo con indosso una felpa verde. Giovanni! Il mio cuore si blocca. Non può essere vero. Non respiro, non mi muovo. La sigaretta nelle mie mani è consumata, il vento scioglie il suo abbraccio e si fa più forte, più violento. -Marta! Marta! - sento le grida della signora Susanna della porta qui vicino. Sono immobile la signora sta gridando e suonando al campanello senza sosta. Giovanni. Non mi batte più il cuore. Ad un tratto i miei polmoni si riempiono, i miei occhi vedono in modo chiaro il divano, la cucina, la tavola apparecchiata, la carta da parati chiara, il telecomando rotto sulla poltrona, il pavimento, ma la mia testa non li mette a fuoco. Sono immagini confuse che non riesco a definire. Il sangue che pulsa nelle vene improvvisamente mi assorda con i suoi rintocchi. In lacrime lascio cadere la sigaretta sulle mattonelle rosse del balcone e a lunghi e svelti passi arrivo alla porta, la apro e comincio a correre giù per le scale. -Marta, Giovanni ha sbattuto, corri corri! - La signora Susanna strilla tremante il nome di mio figlio. Dal portone all'incrocio sono circa cento metri. I più lunghi che abbia mai percorso. Corro e corro, mi sembra di non arrivare mai. Non respiro, non ho fiato ma, non mi fermo. Un passo, un altro. Il vento a mio favore mi fa svolazzate i capelli e sposta le lacrime sulle mie guance. Giovanni è lì, steso a terra, che trasuda sangue. Mi accascio su di lui con il volto completamente bagnato. Bacio mio figlio e grido, urlo e piango. Ho paura. Sento le braccia di un uomo robusto scansarmi ma scalcio e strillo. Ripercorrendo quei momenti mi sento di nuovo proprio come in quell'istante, come se sotto la macchina ci fossi andata io e il dolore e la paura di perdere il mio amore più grande mi stessero straziando di nuovo. La paura che provai vedendo quel sangue era simile a una coltellata sul torace che squarcia i polmoni e ti lascia senza ossigeno. Lo portarono via con l'ambulanza e lo vidi sotto al mio sguardo impietrito negli attimi di rianimazione. Quelle scosse erano nulla in confronto alla struggente paura che mi stava asfissiando. La radio, il jazzista, erano rimasti lì. La signora Susanna si preoccupò nei giorni seguenti di sistemare la mia casa. Giovanni aveva riportato gravi fratture alle costole e alla testa. Il suo sistema nervoso era stato gravemente compromesso. Rimase in coma per diversi giorni e al suo risveglio mi accarezzò i capelli e mi disse: -Mamma nel mio sogno eri bellissima in riva al mare insieme a papà!

Motivazione della giuria Le sofferenze di ordinaria quotidianità di una giovane donna alle prese con un figlio da crescere, un lavoro perduto e un marito che si è volatilizzato insieme all’assegno che le deve versare per il mantenimento si scontrano con il dolore insopportabile di un incidente capitato a Giovanni, suo figlio, l’unica ragione della sua vita sgangherata come il divano del salotto che ha più di dieci anni. Allora l’unica speranza della protagonista si concentra sulla possibilità di recupero e di risveglio di Giovanni. Quando il miracolo succede, nel finale spiazzante, la donna si rende conto che il coma di Giovanni ha percorso il suo sogno infranto di una famiglia unita e bellissima in riva al mare. Un racconto in cui si confrontano due sofferenze, quella della donna che si riscopre madre felice e quella dell’adolescente in cui gli esiti del rapporto dei suoi genitori sono entrati come una ferita non cauterizzata che ancora sanguina nel suo cielo adolescente. Una immedesimazione perfettamente riuscita in questa

narrazione che ha il pregio di assumere due punti di vista ed esplorarli con delicata sensibilità e senza giudizi.

2° Premio ex aequo LA PAURA ARRESTA IL SISTEMA di Domitilla Magherini (Istituto Superiore Gandhi Narni - 3°) Sono seduta sul tetto di un grattacielo. È l’Empire State Building o uno di quei palazzi grigi che si confondono nello skyline di qualche ridicola città dimenticata dal mondo. Non ha importanza. È notte, ma i miei occhi distinguono ogni contorno aldilà della patina bianca. Milioni di figure si muovono meccanicamente avanti e indietro, poi girano a destra trascinate dal flusso di una massa indistinta. Corrono come se non avessero tempo, come se un secondo significasse ossigeno in meno da poter inalare, come se avessero una missione. I cigolii rimbombano l’uno con l’altro mentre gli ingranaggi cercano di girare più velocemente con il solo aiuto di un caffè. Movimenti a scatti ben premeditati danno al caos un ordine vero, ma apparente. Sono cyborg, robot, computer all’ultimo aggiornamento. Voi li chiamate esseri umani. Il loro alveare è strutturato in modo che ogni ape sappia qual è il suo ruolo e ogni automa sia già stato programmato da tempo. Un sistema perfetto. Brillante, funzionale, economico, alternativo. Perfetto. Ma come ogni sistema che viene definito perfetto ha una falla, un varco enorme che risucchia energia incessantemente. Una goccia di sudore scivola lentamente lungo il collo. Un battito troppo forte rimbomba nelle orecchie tese a sentire immagini di suoni striduli nel silenzio trasparente. Mani bianche tremano come unico movimento nella paralisi. Lo amavi così tanto, eppure ti ha ricattata. Lo conoscevi così bene, eppure ti ha picchiata. Lo stimavi così tanto, eppure ti ha tratta come un oggetto. E adesso cammini sospesa sulla terra senza un pavimento sotto i piedi. E adesso i lividi bluastri che hai coperto con la sciarpa fanno male da morire riflettendo la frattura dell’organo vitale. E adesso i graffi e le contusioni bruciano sotto la pelle indelebili come firma di lui su di te. E adesso tu hai paura. Tutte le parole, tutto ciò che hai imparato, tutti i valori, tutte le emozioni, tutto, ma proprio tutto, non serve a niente. Il tutto è niente. Perché? Perché la paura arresta il sistema. Il computer è spento, lo schermo nero, surreale, la memoria di ottomila giga, quella con le ottomila indicazioni per riavviarsi è chiusa al di là di un cavo che la paura ha mandato in corto circuito. A cosa serve un computer spento? Un computer rotto? Che fine fa? Va dritto nel cestino, nella discarica perché chi ha più voglia di ripararlo quando prenderne uno nuovo costa di meno? Tu, tu però non vuoi essere buttata via, quindi non lo devono scoprire, devi fare finta che vada tutto bene o da “Strana” diventerai “inutile” e da “Amore della mia vita” diventerai “Prostituta da quattro soldi”. Allora sorridi, cammini, torni a casa. Subisci. Anche i tuoi figli subiscono. Piangi. Ti addormenti. Ti svegli. Sorridi, cammini, torni a casa. Subisci. Anche i tuoi figli subiscono. Piangi. Ti addormenti. Ti svegli. Sorridi, cammini, torni a casa. Subisci. Anche i tuoi figli subiscono. Piangi. Distolgo lo sguardo dalla falla del sistema che si è arrestato perché, maledizione, la paura arresta il sistema. Inspiro. Espiro.

Vale la pena di vivere così? Mi alzo in piedi e il vento forte lassù mi scompiglia i capelli. Vale la pena di vivere così? Pochi passi e sono sul bordo del cornicione. Basterebbe solo saltare. Vale la pena di vivere così? Chiudo gli occhi. Vale davvero la pena di vivere così? E poi mi butto. L’attrito dell’aria mi trattiene mentre il tempo rallenta il suo giro infinito, ma io cado. Cinque secondi all’impatto con il suolo. Tre, due… Spalanco le mie ali bianche che si stagliano nel cielo mentre comincio a volare sempre più in alto. Allungo una mano e sento la sensazione familiare delle piume morbide sulla pelle, ma ho come l’impressione che dovrebbero essere intrise di sangue. Vorrei piangere, ma io non posso piangere. Vorrei dimenticare, ma io non posso dimenticare. So che non dovrei farlo, ma il varco è come una calamita e io non posso ribellarmi, non posso. Dolore, rabbia, impotenza e…una stella. Il bordo, quella linea che circoscrive il buco nero, quella si è spostata di pochissimo per lasciare il posto a una stella. Involontariamente comincio a sbattere le ali sempre più forte, devo avvicinarmi a quel bagliore. “Adesso lei è al sicuro”. Mi giro d’improvviso, c’è un agente di polizia, ma non sta parlando con me. Lamenti, balbettii, lo schermo manda dei flash, il microsistema tenta di riavviarsi. Una donna e storia, una storia che io già so viene raccontata, appare al mondo dietro ad un paio di occhiali da sole. La stella non è altro che quel piccolo sistema arrugginito in funzione. Un pianto straziante nel vuoto, ma il suono viene soffocato dall’abbraccio dell’agente di polizia. L’ha aggiustata. Incredibilmente l’ha aggiustata. L’agente sembra come tutti gli altri, ma non può essere un automa, perché gli automi non sanno aggiustare le cose, loro sanno solo obbedire. Lui deve essere uno di quelli che hanno progettato il sistema, perché solo loro sanno come riavviarlo, lui deve essere un ingegnere. Da quando sono nata la mia mamma mi ha sempre detto che da grande sarei diventata l’angelo più bello di tutti, ma io da grande non voglio fare l’angelo, io voglio fare l’ingegnere.

2° Premio ex aequo NON ACCETTO CHE L’AMORE SIA COSÌ di Erika Para (Istituto Superiore Einaudi Narni – 4 A) 18/01/20…

Caro Diario, ho conosciuto un ragazzo, anzi “il ragazzo”. Ho una cotta per lui dal primo superiore e ogni volta che lo vedo sento qualcosa di strano allo stomaco. Si chiama Marco frequenta la mia stessa scuola, solo che è tre anni più grande di me. Ieri abbiamo parlato e ha detto che vorrebbe conoscermi, non sto più nella pelle, ho sognato questo momento sin dal primo giorno in cui l’ho visto. Domani usciamo insieme e so che non riuscirò a reggere il suo sguardo per più di un minuto e sicuramente lui penserà che sono una bambina, ma è così bello… Ho 16 anni ed è il primo ragazzo che mi piace, credo di dover solo mantenere la calma ed essere me stessa... il problema che appena mi arriva un suo messaggio non capisco più nulla.

E se prova a baciarmi cosa faccio? Ho mille domande che mi frullano in testa e non trovo nemmeno una risposta. Per la prima volta dopo tanto tempo sono felice e sento che per lui sarei disposta a fare di tutto. Non voglio perdere l’occasione di conoscerlo e voglio fare buona impressione su di lui. Marco è più grande quindi voglio essere alla sua altezza in tutto. Sto scrivendo su questo diario e mentre sto realizzando che manca un giorno al nostro appuntamento mi tremano persino le mani, non mi riconosco più, non sapevo che essere felici fosse così bello. È da ieri sera che la mia mente ha preso un po’ il sopravvento diciamo, ma non riesco a smettere di pensare ad altro.

Elena

26/02/20…

Caro Diario, è passato più o meno un mese dall’ultima volta che ti ho scritto. Quando si è felici il tempo sembra volare. Io e Marco ormai usciamo insieme e ogni tanto ci vediamo a ricreazione, quando non sta con gli amici. A volte ho quasi l’impressione che si vergogni a farsi vedere con me davanti alle persone che conosce. Ha detto che non gli piace stare al centro dell’attenzione e io lo capisco quindi sta bene anche a me. Ho parlato con alcuni dei miei amici e mi hanno detto di non frequentarlo, di non legarmi a Marco. Non riesco a capire il perché sinceramente, a me sembra un bravo ragazzo. Ora parliamo di cose serie, oggi mi ha invitata a casa sua e per quanto mi sembrasse un po’ affrettata come cosa ho accettato. Abbiamo guardato la tv e poi mentre scherzavamo mi ha baciata. MI HA BACIATA. Solo ora che l’ho scritto realizzo che è successo veramente… Questo è il giorno più bello della mia vita. Non pensavo fosse così facile affezionarsi ad una persona, ma con lui è stato semplice. Marco è un ragazzo misterioso, non riesco mai a capire cosa gli passi per la testa e questa cosa un po' mi spaventa perché a volte mi risponde persino male e passo le ore a capire cosa ho fatto di sbagliato. Ad esempio, l’altro giorno siamo andati al cinema e ha iniziato a dirmi che non gli piace come mi vesto, solo perché alcuni ragazzi vicino a noi mi fissavano. Possibile che sia così tanto geloso di me? Mi ripeto che ancora è presto e che prima o poi riuscirò a capirlo, per ora mi basta stare con lui. Sento sempre più che sto iniziando ad amarlo.

Elena

16/04/20…

Caro Diario, i mesi passano e al mio fianco c’è sempre lui. Le cose tra noi vanno alla grande. Passiamo quasi tutti i pomeriggi a casa sua a guardare film e ad ascoltare musica. Non mi ha più detto niente su come mi vesto, solo qualche volta lo scopro a spiarmi i messaggi sul cellulare, ma faccio sempre finta di nulla, lascio sempre che controlli tutto, tanto non ho niente da nascondere.

Il 13 è stato il mio compleanno e mi ha portato un mazzo di fiori bellissimo, mi è sembrato il regalo più bello che io abbia mai ricevuto. Sono contenta che i consigli dei miei amici sul non frequentare Marco siano infondati a quanto pare e mi sto rendendo conto che lui mi vuole bene. Per la prima volta oggi però, mentre eravamo a casa sua sul divano ha iniziato a spingersi un po’oltre… Mentre mi toccava ero agitata, non mi sembrava il solito ragazzo dolce e premuroso di prima. Era insistente e per niente dolce. Mi sono sentita usata e la cosa non mi è piaciuta. Appena sono tornata a casa ho sentito il bisogno di farmi una doccia, è come se le sue mani mi avessero sporcata. Io lo amo e sarei disposta a tutto pur di renderlo felice, ma ho capito che non sono pronta per il momento a dargli quello che vuole lui. So che se accadesse potrei pentirmene, in fondo ho 16 anni e certe cose non sono la mia priorità ancora, spero solo che lui lo capisca. Domani cercherò di spiegarglielo e so che per lui non sarà un problema perché tiene a me quanto io tengo a lui.

Elena

25/04/20…

Caro Diario, ho parlato con Marco e gli ho detto che preferirei aspettare per andare oltre, lui come speravo, mi ha risposto di non preoccuparmi e di vivere la nostra storia giorno per giorno. Negli ultimi giorni non ha nemmeno provato a sfiorarmi con un dito ed ha sempre aspettato che fossi io ad avvicinarmi. Sono solo un po’ demoralizzata, perché oggi mi ha detto che sto diventando grassa. Non nego che da quando sto con lui ho preso un paio di chili, ma non pensavo si vedesse così tanto. Ora ho intenzione di rimediare, magari se inizio a mangiare un po’ di meno, riesco a dimagrire. Voglio tornare ad essere bellissima ai suoi occhi, dato che ultimamente lo vedo un po’ freddo nei miei confronti. Nonostante queste piccole cose continuo ad amarlo e a cercare una soluzione per far tornare le cose come prima. Non esco più con le mie amiche da quando ho conosciuto Luca e mi mancano, vorrei rivederle, ma lui dice che è meglio stare insieme ogni giorno per conoscerci meglio. Se può avvicinarci ancora di più sono disposta a lasciare tutto per lui. Anche a scuola la situazione non è delle migliori… Il pomeriggio sono sempre con Marco e ogni tanto riesco a studiare la notte, ma non basta. Ho provato a dirglielo, ma ha detto di scegliere: o lui o il resto. Ci sono rimasta malissimo perché nella mia vita non mi ero mai trovata difronte ad un ultimatum come questo. Non è giusto. Perché non può semplicemente capire che se esco con gli amici non significa che uscirò meno tempo con lui?

Spero solo che valga davvero la pena sacrificare tutto per lui.

Elena

18/05/20…

Caro Diario, sono dimagrita 3 chili, ma non è bastato. Marco continua a dirmi che sono grassa e che ora non vado bene per lui. Ha ricominciato a rispondermi male e la cosa non mi piace. Ogni volta che stiamo insieme ho qualcosa di sbagliato: i capelli sono troppo corti, i miei fianchi troppo larghi e i miei vestiti sono tornati ad essere inadatti. Non riesco a capire cos’è cambiato in così poco tempo. Ieri mi ha persino urlato contro. Eravamo sul divano come sempre, e mentre lui dormiva sono andata a parlare al telefono con mia madre nella stanza accanto. Quando sono tornata era sveglio e mi fissava, all’improvviso si è alzato dal divano e mi ha spinta contro il muro. Non riuscivo a capire nemmeno cosa stesse succedendo. Diceva che io lo stavo tradendo, che approfittavo dei momenti senza di lui per portare avanti altre relazioni e cose del genere. Ma come gli è venuta in mente una cosa del genere? Sa che non lo avrei mai fatto. In quel momento avevo paura e non sapevo cosa fare, così ho cercato di tranquillizzarlo e gli ho chiesto scusa. Vedendo la situazione mi è sembrata la scelta migliore perché per la prima volta in tutta la mia vita ho avuto paura che potesse farmi del male. Marco si è scusato subito con me e mi ha promesso che è stato solo un momento di gelosia, non lo rifarà mai più. Non so cosa gli stia succedendo, ultimamente non è più il ragazzo dolce di prima, quello che è successo ieri non so cosa significhi per la nostra relazione. Forse le mie amiche avevano ragione. Forse non è questo l’amore che volevo io.

Elena

20/07/20…

Caro Diario, la scuola è finita da poco ed anche la mia storia con Marco. Tutti i miei progetti non esistono più e insieme a loro non esisto più nemmeno io. Mi ha picchiata. Non riesco ancora a credere a quello che è successo. Quel giorno aveva deciso di fare un giro in macchina, ma non ci trovavo nulla di strano fin quando non mi ha portata in un bosco a pochi chilometri da casa sua. Li è iniziato l’inferno. Mi ha fatta scendere dalla macchina e io ingenuamente gli ho risposto che non volevo, non mi ha nemmeno dato il tempo di dire che scherzavo, ha aperto lo sportello e prendendomi per i capelli mi ha gettato a terra. Prima che potessi alzarmi da terra ha iniziato a prendermi a calci, non ricordo di aver mai provato un dolore così forte. Sentivo la pelle bruciare e il sapore del sangue in bocca era l’unica cosa che mi faceva sentire ancora viva. Non ricordo più nulla di quel giorno. Mi sono svegliata in un letto di ospedale il mattino seguente senza più nulla della mia vita.

Marco mi ha portato via tutto: la speranza, l’amore e la fiducia. Non so come sia arrivato a tanto… Ho pensato anche che potesse essere un po' cola mia, ma arrivati a ciò credo che posso incolparmi solo di non aver ascoltato le mie amiche. Lui ora è sotto processo, ma so perfettamente che vedrò ancora la sua faccia in giro e non sarà per niente come prima. Niente amore, niente nodi allo stomaco, solo il disprezzo totale. Non permetterò mai più ad ud uomo di distruggermi. Ho 17 anni e non accetto che l’amore sia così.

CATEGORIA C - Scuola Media Inferiore

1° Premio – Elena Sofia Posati IN RICORDO DELLA NONNA (Istituto Umberto I- 3° G)

Caro diario, lo sai che in questi ultimi anni sono cambiata molto? Sono alquanto cresciuta, sono mutati i miei gusti, il carattere mi si è modificato (e ciò per la gioia di mamma e papà), mi sono persino accorta che sono scomparse alcune paure che mi hanno accompagnata dall'infanzia e sono giunta quindi ad una conclusione: se ho superato tanti dei miei terrori, paure e timori, lo devo ad una persona speciale. Questa signora, per me particolare al massimo, si chiamava Carla ed era mia nonna, oggi non c’è più. Aveva i capelli grigi, come il fumo che fuoriesce dal comignolo di un cammino acceso, e tanti ricci. Era una donna dal fisico snello ed anche abbastanza alta; le sue mani affusolate sembravano quelle di una strega con unghie lunghe, per niente curate, il loro dorso era così scarnito che mi permetteva di osservarne le vene cariche di linfa vitale che vi scorreva. Più volte mi torna in mente l'immagine di me seduta accanto a mia nonna sulla stessa vecchia poltrona blu, esposta nel salotto lucente della sua piccola casa. Spesso le reggevo le mani scarne con le quali giocavo movimentando la pelle abbondante che le ricopriva, molto flessibile, e che io stiravo e modellavo, e mi divertivo tanto nel vedere quella sottile cute tornare sempre alla sua forma iniziale. Nonna Carla aveva un carattere speciale, era una persona dolce, paziente e apriva il suo cuore a tutti, proprio come la Fata Turchina di Pinocchio. Non era capace di calpestare una formica, non faceva male ad un insetto, preferiva cacciarlo via ed allontanarlo. Quella dolce vecchina aveva il coraggio di affrontare qualsiasi problema che la tormentasse, ma quello che la rendeva singolare era il bisogno di aiutare qualsiasi individuo che avesse un'incertezza, un dubbio oppure paura. Caro amico mio diario, è proprio questa sua caratteristica che mi ha aiutata a vincere alcune delle paure con le quali io ho fatto fatica a convivere a tutt’oggi. Sono stata sempre perseguitata dalla paura dell'oblio e dall'oscuro terrore della morte. Diario mio caro, non ti sembra strano che una bambina avesse paura di essere dimenticata? Eppure per me è stato così: non sopportavo l'idea di vivere senza aver

lasciato traccia della mia esistenza, di non essere in grado di compiere azioni degne di essere ricordate anche dopo la mia morte. Fino a qualche anno fa, io volevo vivere una vita straordinaria ed essere ricordata. Mia nonna era al corrente di questo mio tormento tant’è che un giorno mi disse una semplice frase: “L'oblio è inevitabile ma tu sei una ragazza speciale, non devi aver paura”. Solo allora ho capito che chi ci ama non si dimenticherà mai di noi, nemmeno dopo la nostra scomparsa. Ella aveva ragione, le persone che si amano non si dimenticheranno mai, rimarranno sempre nei nostri cuori. Io, dal momento della sua scomparsa, non mi sono mai dimenticata del suo sorriso, dei suoi consigli, dei suoi abbracci, delle sue carezze sul capo, e neanche delle cose che allora mi sembravano a prima vista insignificanti, perché, è bene che si sappia, coloro che vogliono sempre vederti sorridere lasceranno in te un ricordo incancellabile. Caro amico diario, anche se sei fatto di carta, avrai avuto paura qualche volta di essere strappato e magari di finire sul fuoco, ecco, ciò che si prova al momento è pura angoscia di morire. La morte è un addio, un addio agli amici, un addio ai parenti, un addio alla Terra e alla vita. La morte è uno degli ostacoli più ardui che la vita ci impone! Devo ammettere che ancora un po' di paura della morte mi è rimasta, ma io non voglio lasciare la mia vita che amo molto, perché la ritengo un momento magico. Però all'aiuto ricevuto da mia nonna ho aggiunto la fede, per cui spero di essere una brava cristiana. Credo e spero in una vita eterna dopo la morte, mi auguro che Iddio mi perdoni e mi accolga in paradiso. Sinceramente ho qualche piccolo dubbio, non sono sicura che ci sarà una seconda vita nel regno dei cieli, forse la mia sola fede ancora non basta, spero di averne sempre più e diventare una persona migliore. Mio Caro diario, la paura è davvero una brutta cosa, ma non si può viverne senza; perché essa ci fa apprezzare di più il tesoro che è la vita. Prima o poi tutti moriremo, c'è stato un tempo prima degli esseri umani e ci sarà un tempo dopo di loro, chissà, forse fra qualche milione di anni. È un fatto naturale la paura di morire che ci prende un po' tutti, ma prima di scomparire la vita che c’è stata donata va vissuta correttamente nel modo preferito, per cui bisogna sorridere e godersela. Ora, se a 14 anni, la gioia di vivere ha preso il sopravvento sulla paura di morire lo devo proprio a mia nonna. Il ricordo di lei che qui di seguito riporto, dimostra quanto d’aiuto mi sia stata: era il giorno della mia Cresima, il 18 Aprile 2015. Ero felicissima e anche un po' emozionata. Ma la mia gioia durò per poco; la stessa sera mamma e papà, mi dissero quanto era accaduto la mattina: la nonna aveva chiuso per sempre gli occhi. A quella notizia rimasi di stucco, divenni terrea, non capivo più nulla. Nella mia mente era rimasto un unico desiderio: quello di abbracciarla. Improvvisamente mi sentii sola, abbandonata, “orfana” dei miei momenti con lei. Lo smarrimento durò poco, col passar del tempo pian piano lei è tornata a riempire le mie giornate; il ricordo del suo amore incondizionato ha riempito la mia vita ed ha dato un calcio alle mie paure: la morte non ci fa paura, se riusciamo a rimanere vivi in coloro che ci amano. Caro diario, non pensare che sarò sempre così seria, da domani si torna alle superficialità, alle frivolezze di cui è colma la vita di noi umani; per quanto mi riguarda adesso, corro a studiare l’algebra. Al momento l'unica PAURA che ho è quella di prendere un'insufficienza alla verifica! Ciao ciao, a domani amico mio!!

Motivazione della giuria «La morte non ci fa paura se riusciamo a rimanere vivi in coloro che ci amano». Con questa frase Elena Sofia ci racconta un percorso della sua breve vita in cui è riuscita a capitalizzare un momento di estremo dolore, rendendolo un monito da seguire per il resto dei suoi giorni. Con la delicata materialità di un pensiero adolescente, l’autrice penetra il significato più profondo che volevamo dare al tema di quest’anno: la paura è necessaria perché ti costringe a fare di una crepa una finestra dalla quale leggere il mondo e la vita. Una scrittura autobiografica condotta con maturità e leggerezza, con quel tocco di ottimismo infantile che è come il soffio di una piuma nella realtà così pesante e oscura che ci presentano quotidianamente le notizie del mondo.

2° Premio – La ragazza dell’orfanotrofio. Aspettando mamma e papà. Di Nicola Arcangeli, Andrea Falocco, Elisabetta Franca, Olha Potzasko, Marta Vitale Apro gli occhi di buon mattino. Solita routine, azioni e movimenti a ritmo ripetitivo, ormai consueto. Da sette anni non faccio nient’altro che alzarmi da quel sasso-giaciglio, che le suore definiscono “letto”. Come al solito si ode quella campanella dal suono subdolo, che sta a significare l’inizio di un ulteriore giorno inconsistente, inutile, alla fine del quale capisco soltanto che ventiquattro ore della mia vita sono state trascorse invano, quasi buttate via. Tutte le suore dicono che vedo il bicchiere mezzo vuoto; ma per me non è così, io sostengo che un bicchiere, quando è mezzo, è mezzo e non esiste né uno mezzo vuoto né uno mezzo pieno. Quasi ogni giorno arriva una coppia dall’apparenza felice che viene per chiedere in adozione uno dei ragazzi odiosi ospiti dell’orfanotrofio e crearsi una loro vita insieme. Non riesco mai a legare con alcuno di essi, sono tutti scorbutici e racchiusi nei loro piccoli ed egoistici ambienti: mi prendono di mira e mi scrutano solo perché ho i capelli corti e perché ho sempre al mio fianco un maialino di pezza che è l’unico oggetto che ho della mia famiglia che sfortunatamente non ho mai conosciuto. Oggi mi sono accorta che c’è un posto in più in quella triste mensa dal tavolo grigio dove viene servita quella sbobba nominata “colazione”. Siamo tutti seduti, noto però che la sedia di fronte alla mia è ancora vuota, ho la sensazione di un cambiamento, e che a momenti vi sarà un nuovo arrivo. Con passi lenti vedo varcare la porta, che mi separa dal mondo normale, due suore e una ragazza che non conosco; si fermano proprio davanti al mio posto. Tutti scostano la propria sedia più in là da lei; io sono l’unica a non muoversi, resto ferma. Anche se sembra timida subito mi chiede il nome avrei voluto non rispondere, ma spinta da non so quale movente decido comunque di aderire alla una conversazione. “Annabelle”, le dico, è il mio nome; lei mi guarda timidamente e mi dice sussurrando “Il mio nome è Consuelo”. Continuo a parlare con lei, a dialogare del più e del meno. Finalmente mi dico ecco qualcuno con cui parlare senza che mi prenda in giro per il mio aspetto e che non mi giudichi subito per quelle poche risposte che riesco a darle.

Appena finito il pasto la nuova ospite inizia a raccontarmi di una stanza in cui è stata portata prima di essere accompagnata nel locale della mensa; una stanza molto in alto, vicino al tetto, stracolma di vecchia carta piena d’inchiostro, registri dicevano le suore. Su di essi sono riportati tutti i nomi di coloro che avevano abbandonato i loro figli. Subito comprendo e penso che è la mia unica occasione per ritrovare i miei veri genitori, sperando che siano ancora vivi, ma soprattutto sapere il perché dell’abbandono. Ho un sussulto, per quanto venuto a sapere ed anche tanta paura e terrore di non trovarli mai più. Ogni volta che mi addormento ripeto queste parole: “Perché sono nata? La vita per me è inutile, le persone che vivono qui mi odiano. Temo persino che i miei genitori naturali non mi hanno accettata per quello che sono”. Ho spiegato le dinamiche di questo “orfanotrofio” che ci ospita alla mia nuova amica e ciò che intendo fare. La notte mi tormenta il pensiero di quelle carte-registri. La mattina successiva espongo a Consuelo nei dettagli il mio desiderio. Con lei pianifico come intrufolarci dentro quella stanza. Sono le undici di sera, sto aspettando Consuelo nascosta dentro una buia stanza di fianco alla sala dei registri. Sento dei passi avvicinarsi, non sono sicura sia lei. Sbircio nella serratura della porta, è una suora che sta venendo per chiudere tutte le stanze, compresa quella in cui mi trovo e la stanza dei registri. Mi prende un panico terribile, non so cosa fare, non riesco a connettere. Cerco una via d’uscita e scorgo una finestrella che si collega ad un balconcino. Corro verso di essa. Uscita da lì scopro che quel balcone si collega con la sala dei registri, prendo la palla al balzo ed entro. Una volta entrata sento odore di muffa, dalla poca luce che filtra vedo solo vermi e ragni su della vecchia carta sgualcita, calpesto persino un topo che squittisce dal dolore. Non provo paura alcuna, solo tanto terrore nel non riuscire a trovare alcunché circa il nome materno. Cerco a tentoni un interruttore, lo trovo, accendo la lampada ed inizio subito a cercare la cartella esatta. Sento la porta aprirsi, subito spengo la luce e mi nascondo dietro uno scaffale. La porta scricchiola, si apre ed appare Consuelo, per fortuna mia. Riaccendo la luce e le chiedo come avesse fatto ad entrare e lei mi dice che non è tempo, me lo avrebbe detto dopo. Continuiamo a cercare insieme: “due teste sono meglio di una” dico io. Finalmente troviamo il famigerato Fascicolo, ho paura di aprirlo: cosa mi aspetta? Ecco, ora sto per conoscere la verità, non ce la faccio, ho troppa paura. Penso e mi chiedo: e se i miei genitori fossero morti?...No, impossibile, non può essere. Consuelo mi chiede cosa stessi aspettando e se volessi restare sola. Lo apro...lentamente. Leggo tutto il contenuto. Trattengo il fiato. Sono ancora vivi. Che bello! Ho ritrovato papà e mamma. Piango, grosse lacrime mi sgorgano sul viso. Mi balenano in mente milioni di domande: perché mi hanno abbandonato? Perché le suore non me lo hanno mai detto? E così via mille altre domande si affollano nella mente. Consuelo mi abbraccia, sento un po' di invidia da parte sua perché i suoi genitori sono

morti. “Cosa è meglio fare, secondo te?” chiedo a lei: “Tengo tutto nascosto e faccio finta di niente o scappiamo da questo orribile posto e insieme andiamo a cercarli?” Si, è una domanda banale, e ogni domanda banale non può che ricevere una risposta banale: “Scappiamo”. Stiamo già programmando la fuga durante il tragitto di ritorno correndo tra i meandri del sottotetto, il balconcino e le scale. C’è una porta sul retro che non viene mai aperta se non il venerdì per scaricare la spazzatura. Finalmente è arrivato questo fatidico dì, come di consueto una suora apre la porticina e noi, una volta preparate le provviste (un po' di panini sgraffignati dalla mensa, un paio di coperte per il freddo e il fascicolo con dentro i documenti). Usciamo dall’istituto e subito sgattaioliamo lontano, fra gli alberi. Stiamo vagando da tre giorni, ma ancora niente dei miei genitori e la paura si sta impossessando nuovamente del mio cuore. “Possibile che il fascicolo sia sbagliato?”, chiede Consuelo “Che i tuoi genitori ti abbiano abbandonata questa volta definitivamente?” “Come se ci fosse un lato positivo!” rispondo io, tra le lacrime. “Vaghiamo per altri due giorni: le provviste incominciano a scarseggiare. Ci chiediamo: se finite le scorte e non li trovassimo, cosa faremo? La mia frase viene spezzata dal gridolino di gioia della mia amica che indica una persona in fondo alla via: una signora, ben vestita, di estrema somiglianza con la foto che avevamo trovato nel dossier. Capimmo subito che era mia madre, perché tra l’altro mi assomigliava persino. Le andai incontro, mi stavo preparando per abbracciarla e stringerla con forza a me per sentirne il profumo ed il calore, quando ad un tratto provo un brivido di freddo, credo di aver fatto solo un sogno. Un senso di paura mi assale. Odo in lontananza il suono di una campanella. Apro gli occhi, ancora una volta di buon mattino. È l’inizio di un altro giorno inutile, al termine del quale comprendo una volta ancora che ulteriori 24 ore della mia vita son passate invano, quasi buttate via. Quel subdolo trillo della campanella, ormai consueto, sta a ricordarmelo e a riportarmi alla realtà. Mamma e papà per il momento non li vedrò ancora. È stato solo un bel sogno. Ma io non m’arrendo di attendere, ho fede e credo nel buon Dio. Un giorno non lontano verranno a salutarmi, ne sono certa, ed io finalmente potrò chiedere loro del perché mi hanno abbandonata. Quel giorno verrà, ne sono sicura.