primavera gioia 2014 - n.20

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OTT/NOV ‘14 Pubblicazione periodica d’informazione indipendente | free press un tornado vola sul giardino gli abusi militari a gioia del colle Federico Fiumani il lato confidenziale agricoltura e metereologia due facce della stessa medaglia strutture sportive i fondi ci sarebbero Crisi occupazionale ansaldo e capurso al bivio la prima di Étranger Da Albert Camus alla narrazione cinematografica

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Numero 20 del periodico PrimaVera Gioia.

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Page 1: PrimaVera Gioia 2014 - N.20

OTT/NOV ‘14

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un tornado vola sul giardinogli abusi militari a gioia del colle

Federico Fiumaniil lato confidenziale

agricoltura e metereologiadue facce della stessa medaglia

strutture sportivei fondi ci sarebbero

Crisi occupazionaleansaldo e capurso al bivio

la prima di ÉtrangerDa Albert Camus alla narrazione cinematografica

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Direttore responsabile ed editoriale:Vito Stano

Progetto grafico:Giuseppe Resta ValeriaSpada AntonioLosito Pierluca Capurso

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Redazione:MariaCastellano PierlucaCapurso LauraCastellaneta LyubaCentrone AlessandraColapietro MarioD’Alessandro AlessandroDeRosa AlessandroDigregorio LinoDigregorio EmanueleDonvito VanniLaGuardia FilippoLinzalata EmmaLomonte AntonioLosito DarioMagistro MariaMarmontelli GianlucaMartucci FiammaMastrapasqua RosarioMilano MarcoOrfino GiuseppePugliese GiuseppeResta RaffaeleSassone ValeriaSpada.

Stampa:IGM di Masiello Antonio | Cassano d. Murge | Bari

Editore:Associazione La PrimaVera Gioia | via Pio XII 6 Gioia del Colle | Bari

SedeVia De Deo 14, Gioia del Colle | Bari

©PrimaVera Gioia, 2012 Tutti i diritti sono riservati

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Questo foglio è stampato su carta freelife ecologica certificata FSC, impiega fibre riciclate e sbiancanti non derivanti dal cloro. Nonostante ciò ricordati di riusarlo o gettarlo nel contenitore specifico della carta.

Copertina: Potranno tagliare i fiori ma non fermeranno la primavera.

Copertina ispirata dalle grafiche di Tilman.

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PrimaVera Gioia 3

OuvertureLeggere e migrare aLL’incontrarioLesson number one

Vito Stano / DirettoreFB/ vito.stano1

INDICE

3 ouverture4 mozzarella. analisi dei costi6 Popolo di migranti in lotta con l’oblio8 agricoltura e meteorologia10 crisi occupazionale12 Un tornado sta volando sul mio giardino14 Fumo sulla città15 Strutture sportive 16 Federico Fiumani17 La prima di Étranger19 alla scoperta del primitivo20 Basket di strada22 La riforma dell’Università23 intervista al sarto Paradiso

Innanzitutto non posso esimermi da spendere due righe sulla nuova veste che indosseremo da questo mese: non ci troverete più nelle edi-

cole, ma (per il momento) on line sulla piattaforma di pubblicazioni issuu. Naturalmente proveremo a rimbalzare sui social networks sia i singoli articoli e che il periodico per intero. A Voi lettori il compito arduo di diffondere il nostro modesto la-voro sulla rete e tra le piazze di Gioia del Colle.

Per entrare subito in tema, mi rivolgo a chi di Voi usualmente inizia (come me) a leggere dall’ultima pagina anziché dalla pri-ma: a Voi porgo l’invito a fare un’eccezione per questa volta e restare su queste righe perché voglio anticipare un tema trattato da Rosario Milano nella sua invettiva finale. Migrazioni, questo il tema nel quel voglio imbattermi cercando di rispondere con un palleggio degno della peggior partita di ping-pong della storia.

La storia che vado a raccontarvi è una storia triste e alquanto paradossale di un migrante italiano, il quale accompagnato da perdurante rammarico ha lasciato la sua amata Bari per un lavo-ro in fabbrica nella noiosa Portsmouth, città marina a sud della Gran Bretagna. Il giovane (trentenne), dopo due mesi o poco più di vita inglese, riceve una e-mail da una società italiana (pugliese), che, probabilmente confidando nella voglia di tornare in patria del migrante, offre lui l’agognata possibilità di un lavoro degno della laurea specialistica conseguita dal giovane trentenne. E fin qui sembrerebbe una storia a lieto fine, se non fosse che c’è il colpo di scena dopo che il nostro eroe contemporaneo preso da domande esistenziali ha abbandonato la casa che l’aveva accolto nella calda estate inglese, lasciando il lavoro che l’avevo reso in-dipendente, per far ritorno a casa in Puglia.

L’epilogo, ahimè, è triste, come accennavo qualche rigo sopra. Il nostro amato dopo il primo mese di lavoro scopre che non c’è uno stipendio mensile fisso, come promesso; non ci sono le ga-ranzie contrattuali promesse. Ci sono soltanto delusioni e mol-to, troppo lavoro non rispondente a quello promesso nell’e-mail. Insomma le aspettative del nostro migrante di ritorno vengono tradite con un cinismo da manuale.

Per comprendere appieno la tragicità di questa piccola storia è bene che condivida con Voi l’amarezza provata dal sottoscritto quando ho incontrato il nostro per le viuzze dell’amatissima Pu-glia immaginando la sua gioia per la sua nuova-vecchia vita. Ma inchiodato alla sedia metallica di un bar qualsiasi ho ascolta-to inorridito i dettagli della sua disavventura ricevendo (saggia-mente) consigli da condividere con coloro i quali hanno voglia di tornare in Italia dopo aver iniziato una vita all’estero. «Non tornate, raccontale la mia storia».¿

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4 PrimaVera Gioia

Eco

no

mia

Continuando l’analisi del mercato della mozzarella avviata sul numero precedente di PrimaVera Gioia, questa volta focalizziamo l’attenzione su una delle tre figure principali che

intervengono nel processo produttivo: gli allevatori (le altre due sono i commessi e i trasformatori).Facendo una ricognizione non esaustiva delle aziende agricole del territorio della Murgia, abbiamo raccolto alcuni dati relativi a costi e ricavi per fare un vero e proprio bilancio.

I costiI costi diretti sono tutti quelli collegati al bestiame. In media il numero di vacche per azienda (la maggior parte di razza Brunalpina) è di 25/30 unità, ciascuna delle quali produce circa 9mila kg di latte all’anno; i costi maggiori sono quelli legati all’alimentazione, che può essere naturale, se esclusivamente a base di foraggio e altre erbe, o spinta, se integrata con mangimi e concentrati, nel caso in cui le superfici foraggere destinate alla produzione degli alimenti zootecnici, mediamente di 20-25 ettari per azienda, risultino insufficienti a soddisfare il fabbisogno nutrizionale del bestiame (la proporzione ideale, anche per un allevamento biologico, sarebbe infatti quella di due vacche per ettaro e non sempre si riesce a rispettarla).

L’allevamento condotto in queste condizioni provoca maggiore stress per la bovina, che risente dello stato di cattività rispetto al pascolo, vivendo 8/10 di tempo in meno e producendo latte di qualità più scadente. A ciò si aggiunge, sotto il profilo economico, un continuo aumento del prezzo dei mangimi (circa del 120% in dieci anni) che ha permesso alle principali aziende produttrici (Specialmangimi, Galtieri, Veronesi) di realizzare i propri ìmperi, consapevoli che gli allevatori sono costretti a subire i prezzi da loro imposti.Altri costi sono quelli delle quote latte in affitto, dei macchinari, del carburante, delle spese mediche e delle varie autorizzazioni (in continuo aggiornamento).

MOZZARELLAl’analisi dei costi e il caso dell’azienda Paradiso

Fabio D’Aprile | /fabio.daprile.9

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Fattori di produzioneDa considerare infine i costi dei fattori di produzione: capitale, terra e lavoro. I principali motivi che spingono gli allevatori a richiedere un finanziamento è l’acquisto di macchinari; il fattore terra non rappresenta un costo rilevante, in quanto le masserie sono circondate da estensioni fondiarie di proprietà (chi invece ha necessità di qualche ettaro in più deve sostenere un canone di fitto in media di 500,00 euro per ettaro). Anche la manodopera non rappresenta un costo notevole, visto il carattere familiare delle aziende prese in considerazione: il margine tra ricavi e costi, infatti, è talmente minimo che difficilmente riuscirebbe a coprire anche i costi della manodopera. Dal lato dei ricavi, come detto nel numero precedente, il prezzo del latte non si discosta da 0,41 euro/litro (negli ultimi 10 anni ha avuto un incremento del solo 10%). Analizzando gli indicatori di reddito (come da tabella) derivanti soltanto dalla produzione e dalla vendita di latte, i dati sono tali da giustificare la chiusura di molti allevamenti e la vendita di quote ad aziende del nord Italia. Ecco perché, da qualche anno a questa parte, molte aziende agricole hanno affiancato alla vendita del latte quella di carne e dei prodotti derivanti dalla trasformazione del latte, dedicandosi anche (nel caso delle sole aziende pugliesi) ad attività agricole in grado di fornire altri redditi (produzione di olio e vino) o all’avviamento di veri e propri agriturismi.

Il casoParlando di allevatori, significativa ed emblematica è la storia del signor Nicola Paradiso di 85 anni, figlio di agricoltore, e allevatore principalmente di ovini e cavalli nella zona di Marzagaglia. Nel 1954 conosce l’attuale moglie e il matrimonio, che segna la separazione dal nucleo familiare di origine e la costituzione di uno nuovo, è accompagnato, come spesso accade, da un dono, in questo caso una mucca.Trasferitosi a Matera, incrementa il suo allevamento, ma non avendo un terreno di proprietà dove impiantare un’azienda agricola, si dedica alla semplice vendita del latte da lui prodotto. Ritornato a Gioia del Colle, all’inizio degli anni Sessanta, trova un’estensione fondiaria con annessa una masseria della famiglia Petrera. Incrementa così il pascolo, arrivando a 7 mucche e 70

pecore. Accende un mutuo per comprare 10 ettari di terreno (attuale residenza) dove, dal 1972, inizia la costruzione della sua azienda (la prima stalla è ultimata nel 1976) fino alle dimensioni attuali, con grande orgoglio del signor Nicola, che lascia la sua attività nel 2004 passandola al figlio.

Produttività e posizione nel mercatoL’elevata produttività delle sue mucche, fino a 6 litri in più delle altre, gli ha permesso di stringere una partnership duratura con il caseificio Ferrante di Gioia del Colle.La maggiore produttività è stata possibile grazie a tecniche di stabulazione all’avanguardia (le bovine cioè entravano in stalla solo per mangiare e per la mungitura), alla selezione personale dei capi che l’allevatore ha appreso grazie allo sviluppo di rapporti professionali e di amicizia con altri addetti ai lavori (come il commerciante trentino Balzarini) e anche grazie ad un’alimentazione equilibrata del bestiame con l’impiego notevole di mangimi, causa però di un eccessivo sfruttamento delle mucche nel tempo. «Questo è un aspetto che ancora oggi crea contrasti tra allevatori e casari: i primi ovviamente vorrebbero spuntare un prezzo più alto dai caseifici per un latte di alta qualità ottenuto senza uno stress eccessivo della bovina; i secondi invece vorrebbero più latte ad un prezzo inferiore», commenta il signor Nicola, per 24 anni vice presidente dell’Assoallevatori. Il suo racconto si conclude con l’invito ai giovani allevatori ad avere tanto coraggio e buona volontà, soprattutto per la selezione morfologica dell’animale che «trattavo meglio di me, arrivando a fare 60 litri di latte da una Brunalpina che normalmente ne produce 30». ¿

il margine tra ricavi e costi è talmente minimo che difficilmente riuscirebbe a coprire i costi della manodopera.

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6 PrimaVera Gioia

Qualche giorno fa a Corato un uomo originario del Gambia è stato preso a sassate. Questo il fatto. Uno dei tanti, potremmo aggiungere. Il pe-ricoloso accanimento che stiamo registrando nei

confronti dei migranti e l’ancor più pericolosa superficialità della maggior parte dei mezzi d’informazione, ci spinge ad assumerci la responsabilità di ripulire da strati e strati d’ignoranza un argo-mento bistrattato dalle strumentalizzazioni. Abbiamo dunque deciso di analizzare tre affermazioni abusate per riportarle sui binari del realismo:

1) Gli immigrati pesano sull’economia italiana.Non è vero. Secondo le recenti indagini dell’OCSE (Organizzazio-

ne per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), gli immigrati pagano più tasse rispetto ai servizi di cui usufruiscono, sono in età più favorevole e finanziano il sistema pensionistico. In Italia, includendo nel calcolo le pensioni, l’impatto è positivo per lo 0,9%.Questo studio ricorda, inoltre, che in assenza di migranti, entro il 2020, il numero di quanti entreranno nel mercato del lavoro sarà inferiore del 30% rispetto agli anziani che usufruiranno della pensione, quindi ancora una volta, la presenza dei migranti risulta essere utile al nostro Paese.

2) L’Italia è invasa dai migranti.Altro assioma non vero. L’ultimo outlook sulle migrazioni in-

Lyuba Centrone | / lyuba.centrone

Popolo di migranti in lotta con l’oblio

l’Italia che accoglie poco e male

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PrimaVera Gioia 7

ternazionali pubblicato sempre dall’OCSE individua una nuova geopolitica in fatto di migrazione. La grande recessione che ha colpito l’Europa ha avuto un impatto anche sulle tratte migra-torie: rispetto al 2007 l’Italia registra un meno 44%. La meta che registra un incremento maggiore è il Belgio con un +52%. Non dimentichiamo però le radici culturali dell’Italia e di noi Italiani: qualcuno ci ha definiti la razza meno pura di tutte, una multi-forme mescolanza di diversità, il prodotto di centinaia di anni di dominazioni. Il Mediterraneo n’è il maggiore complice. Il fatto che un Paese come la Svezia, nell’estremo nord dell’emisfero terrestre, abbia concesso permessi temporanei di tre anni ai pri-gionieri politici siriani, deve necessariamente portarci a riflette-re: non abbiamo ancora imparato a fare i conti non la diversità. Se la Svezia non ha avuto paura delle grandi cifre, è perché gli

svedesi sono un popolo che vive quasi con ossessività il rispetto delle regole. Sarebbe petulante intraprendere il solito sermone sulla tendenza alla piccola illegalità quotidiana che passa anche attraverso il gettare un mozzicone di sigaretta sul marciapie-de. Ve lo risparmiamo. Abbiamo il dovere però di riportare che laddove superficialità e sciatteria sono il biglietto da visita degli stessi nativi, diventa ontologica la tendenza anarchica anche nel migrante, il quale, per di più, proviene da una cultura totalmente diversa dalla nostra e ha tutto da imparare. Se insegniamo loro l’indecenza, l’indecenza impareranno.Un altro dato su cui riflettere riguarda il livello d’istruzione dei migranti che scelgono il nostro Paese: tra i più bassi d’Europa. L’Italia non è in grado di attrarre forza lavoro specializzata che potenzialmente potrebbe avere un impatto molto positivo sul PIL come avviene in Lussemburgo (+2%).

3) L’Europa ci lascia soli.Non è così.Il programma Solidarietà e Gestione dei flussi migratori predispone quattro fondi per la gestione degli oneri più gravosi per la gestione dei flussi migratori:-Fondo per le frontiere esterne: finanziamenti a Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Marina Militare, Capitanerie di Porto e Mini-stero degli Affari Esteri.-Fondo per i rimpatri: gestito dal Ministero degli Interni, copre il 50/75% delle spese -Fondo europeo per i rifugiati: è destinato ai progetti per l’acco-glienza durevole negli Stati membri.-Fondo per l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi: le somme

del fondo vengono gestite dal Ministero dell’Interno e più preci-samente dal Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione.Inoltre il 4 giugno scorso, a Malta, è stato firmato l’accordo tra l’Ufficio Europeo di Sostegno per l’Asilo (Uesa) e il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno. Secondo quanto stabilito, l’Italia potrà avvalersi di 42 iniziative di supporto tecnico ed operativo offerte dall’Uesa, destinate a far conformare l’Italia agli standard europei per la tutela del diritto di asilo.

Ciò che non viene dettoPer la legge Bossi-Fini, un migrante non può:- Essere soccorso durante un naufragio: l’8 agosto del 2007 i capitani tunisini di due pescherecci salvarono 44 naufraghi, provenienti dall’Africa e li portarono nel porto più vicino, quello di Lampedusa. Vennero sospettati di essere scafisti, subirono un processo lungo quattro anni (con una prima condanna a più di due anni), 40 giorni di carcere e il sequestro degli strumenti di lavoro.- Scioperare: per il colosso del latte Granarolo lavorano due co-operative che impiegano egiziani, tunisini, marocchini. Un anno fa, in nome della crisi, si decide per il taglio dello stipendio: da 1.050,00 a 500,00 euro, per dodici ore al giorno. In 51 vengono messi alla porta. Il 20 novembre del 2013 i migranti scioperano, ma i cancelli della fabbrica vengono chiusi. Le ipotesi di reato sono violenza privata e blocchi stradali per 170 persone.- Ammalarsi- Avere un infortunio sul lavoro: già, perché se malaugurata-mente un osso si spezzasse, il tempo di convalescenza sarebbe

troppo lungo. Scatta il rimpatrio.- Chiedere il ricongiungimento con i genitori qualora questi ab-biano meno di 65 anni- Partecipare ad un concorso pubblico- Giocare in un qualsiasi campionato sportivo per il quale serve il rinnovo annuale del permesso di soggiorno¿

il livello d’istruzione dei migranti che scelgono il nostro Paese: tra i più bassi d’Europa

Per la legge Bossi-Fini, un migrante non può ammalarsi

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8 PrimaVera Gioia

Ag

ricoltu

ra

Risulta facile trovare degli aggettivi per descrivere l’esta-te che sta per terminare: anomala, singolare, insolita. Se chiedessimo ad un agricoltore, forse risponderebbe con termini più pesanti, come ostile o impietosa. Sta di fatto che, a memoria d’uomo, non se ne ricorda una caratteriz-zata da un “bollettino di guerra” così terribile. A questo proposito è emblematico il comunicato della Coldiretti: «Decisivi sono in particolare i danni sulle api, che per la troppa pioggia faticano a volare e quindi ad impollinare tutte le specie agrarie i cui frutti portiamo sulle nostre ta-vole, dalle mele alle mandorle, dalle pesche alle pere, dalle melanzane all’uva, dai cetrioli alle fragole, solo per citare alcune delle 71 colture su 100 che provvedono all’alimen-tazione umana, le quali vengono impollinate dalle api […]; dalle vigne devastate dalle grandinate ai campi di pomo-dori e ortaggi finiti sott’acqua, il maltempo ha colpito e continua a colpire duramente le campagne della Penisola, con danni che in diversi casi interessano fino al 60 per cento dei raccolti […]; i raccolti di pomodori, melanzane, peperoni sono fortemente danneggiati, mentre la stagio-ne per i meloni è da dimenticare. Ma le piogge stanno im-pedendo anche le operazioni di sfalcio del fieno ed infine bombe d’acqua e grandine hanno colpito in particolare vi-gneti e ulivi, con percentuali di danno che in alcune azien-de sono arrivate al 30-40 per cento della produzione».

Se si analizza il settore vitivinicolo, tanto caro alla Puglia, i dati sono agghiaccianti: non siamo ancora a metà ven-

demmia e la Coldiretti afferma che «è dal 1950 che non si registra una campagna così misera, per cui quest’an-no l’Italia perderà il primato mondiale nella produzione di vino a vantaggio della Francia dove le stime per il 2014 danno una produzione di 47 milioni di ettolitri». La causa è il maltempo che ha fatto scendere la produzione del vino a 41 milioni di ettolitri, ossia il 15% in meno della produ-zione registrata nel magro 2013, in particolare in Puglia e Sicilia dove si stimano cali fino al 30%.

Ma in che modo le avvers ità atmosfer iche hanno in-c iso in maniera così profonda, compromettendo la buona r iusc ita del l ’annata 2014? Sono stat i deter-minant i i danni d i rett i , c ioè quel l i arrecat i dal l ’az ione immediata del le avvers ità (vento, grandine, p iogge) o quel l i indirett i , c ioè quel l i der ivat i dal la pers istenza del le stesse? Se s i potesse st imare una percentuale , potremmo dire che i danni d i rett i hanno inc iso per i l 25%, mentre quel l i indirett i per i l restante 75%. Nel pr imo caso, i maggior i responsabi l i sono da un lato i l vento, che asporta tra lc i , germogl i e – p iù d i f f ic i l-mente perché ormai l ignif icat i – grappol i e dal l ’a l tro lato la grandine, che causa dappr ima le scalf i t ture ad asola sugl i ac in i in accresc imento e poi lo scoppio con conseguente colatura sugl i ac in i a f ine matura-zione. Ma sono i danni indirett i quel l i che hanno in-f ic iato la resa produtt iva dei v ignet i . Malatt ie come l ’o id io , la botr i te e pr inc ipalmente la peronospora,

Agricoltura E

meteorologia due facce della stessa medaglia

Gianni Galasso

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provocate soprattutto dal la pers istenza del la p iog-gia , sono state le cause che hanno fatto d isperare v i t icoltor i e imprenditor i v i t iv in icol i .

Per i non addett i a i lavor i , la peronospora rappre-senta la p iù grave malatt ia cr i ttogamica (or ig inata da funghi parassit i de i vegetal i ) che la p ianta del la v i te subisce, la cui infez ione interessa tutte le part i verdi del la p ianta ( fogl ie , germogl i e grappol i ) e con-tro la quale la lotta comincia quando s i ver i f icano le condiz ioni dei t re 10: temperatura minima super iore a i 10°C; a lmeno 10mm di p ioggia; germogl i p iù lun-ghi d i 10cm. I pr imi s intomi sul le fogl ie sono v is ib i-l i sul la loro pagina super iore, ove s i formano zone sparse, tondeggiant i , s imi l i a macchie d ’o l io , in cor-r ispondenza del le qual i è possib i le osservare, sul la pagina infer iore , eff lorescenze b iancastre . S i t ratta del le f rutt i f icaz ioni del fungo, che possono degene-rare in un totale d isseccamento del lembo fogl iare . Ma l ’effetto p iù traumatico è quel lo che questa pa-tologia cagiona sui grappol i : nel caso d i un attacco nel la fase d i f ior i tura, i g iovani peduncol i possono r icopr i rs i d i una caratter ist ica muffa b iancastra . Se

invece la p ianta subisce l ’attacco nel le pr ime fas i d i accresc imento degl i ac in i , quest i u l t imi mostrano un part icolare marc iume bruno e poi d issecano, per cui s i par la d i «peronospora larvata».

N o n o s t a n t e c i ò , s i p u ò s p i e g a re l ’e s p l o s i o n e d e l l a p e ro n o s p o r a s o l o p e r l a p re s e n z a d i c o n d i z i o n i c l i -m a t i c h e f a v o re v o l i a l l o s v i l u p p o d e l l a p a t o l o g i a? O a n c h e g l i a g r i c o l t o r i s o n o r e s p o n s a b i l i ? A s c o l t a n d o l e o p i n i o n i d e i d i re t t i i n t e re s s a t i , m o l t i d i c h i a r a -n o d i n o n a v e r e f f e t t u a t o , s i a p e r u n a q u e s t i o n e d i c o s t i c h e p e r i m p r a t i c a b i l i t à d e i t e r re n i , u l t e -r i o r i t r a t t a m e n t i d i c o p e r t u r a d o p o l e p i o g g e d i d i -l a v a m e n t o c h e h a n n o re s o i v i g n e t i s u s c e t t i b i l i a q u a l s i a s i t i p o d i a t t a c c o , c o n g l i e f f e t t i t r a g i c i c h e t u t t ’o g g i s i o s s e r v a n o . Q u a l i s o n o l e p ro s p e t t i v e? G l i a d d e t t i a i l a v o r i a f f i d a n o l e u l t i m e s p e r a n z e s i a a d u n m i g l i o r a m e n t o d e l l e c o n d i z i o n i c l i m a t i c h e ( m e n o p i o g g e e q u i n d i m e n o u m i d i t à ) , c h e a l l a c a -p a c i t à d e i p ro d o t t i a d a z i o n e s i s t e m i c a ( a s s o r b i -m e n t o n e i t e s s u t i v e g e t a l i ) d i t a m p o n a re l ’ i n c e d e re d e l l a p a t o l o g i a e p o r t a re a r a c c o l t a l a q u a n t i t à d i u v a r i m a s t a ¿

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10 PrimaVera Gioia

Derive e prospettive: tra liberismo e diritti

Torna sulle prime pagine dei quotidiani nazionali la discussione sul mercato del lavoro italiano: ar-

ticolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, flexicurity e contrattazione aziendale in deroga sono i temi guida all’interno del dibattito ani-mato nelle ultime settimane soprattutto dalla coalizione di go-verno che appoggia Matteo Renzi, dalla segreteria nazionale del PD e dai sindacati confederali (CGIL, CISL e UIL). Come sempre, lo scontro tra le parti verte sulla tutela dei diritti acquisiti dai la-voratori. Infatti secondo Susanna Camusso (segretario nazionale della CGIL), l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è lo scalpo che i falchi dell’UE porteranno a casa dopo aver imposto le solite politiche ultraliberiste. Cercando di calare le dinamiche politico-sociali nella realtà territoriale alla quale facciamo riferimento, sarà utile spiegare i processi in materia di contrattazione collet-tiva che vanno innescandosi a Gioia del Colle. Dunque, in ordine ai settori produttivi locali, quali sono le argomentazioni che pre-occupano maggiormente i lavoratori e le parti sociali operanti sul territorio? Certamente le priorità sono: ritornare quanto prima a parlare dell’Ansaldo Caldaie nelle sedi istituzionali e analizzare le differenti emergenze del settore lattiero-caseario gioiese.

Ansaldo: il ritardo

Mancano solo sei mesi alla fine della concessione della cassain-tegrazione in deroga per i lavoratori dell’Ansaldo Caldaie, dopo di che le alternative saranno pochissime: licenziamenti o contratti di solidarietà; questi ultimi considerati rischiosi dai sindacati, in quanto non andrebbero a garantire la tutela dei diritti dei lavo-ratori, soprattutto per quel che riguarda tempi, orari di lavoro, mansioni e produttività. Secondo la testimonianza di qualche rappresentante dei lavoratori dell’Ansaldo, la direzione aziendale con sede a Gallarate (Milano) avrebbe confermato un rapporto commerciale con dei partner egiziani, ma l’inizio dei lavori non è stato ancora definito e i tempi non sembrano essere brevi. Tuttavia la commessa non garantirebbe posti di lavoro sul lun-go periodo e ad ogni modo la priorità è affrontare prima di tutto

la questione licenziamenti nel prossimo marzo 2015. In questo senso pare sia sotto accusa l’ITEA Spa (operante anche all’in-terno dello stabilimento gioiese), la cui mission è la diffusione di investimenti in impianti ad ossicombustione, ossia utili a separa-re e stoccare Co2 durante il processo produttivo, riducendo così l’inquinamento atmosferico. Le accuse rivolte a questa azienda consistono nella scarsità degli investimenti in ricerca e sviluppo e nella mancata formazione del personale dello stabilimento in questione. Secondo l’opinione dei sindacati, la mancanza di que-ste prerogative sottrae competitività e dunque lavoro alla fab-brica gioiese.

Nemmeno pensare ad un blocco della produzione sembrerebbe essere utile, dato il basso numero di commesse che l’azienda ha da rispettare e i pochi lavoratori impegnati. Nonostante la ri-stretta tempistica, il numero dei lavoratori a rischio non è stato ancora comunicato dall’azienda, la quale ha dato appuntamento nei prossimi mesi al sindacato di categoria FIOM-CGIL per un ul-teriore aggiornamento.

Settore lattiero-caseario: un primo passo

Per il settore lattiero-caseario, invece, il 6 agosto 2014 è stato raggiunto un importante risultato sindacale da parte della FLAI-CGIL presso l’Assessorato al Lavoro della Regione Puglia guidato da Leo Caroli. I soggetti della trattativa sono stati il sindaco di Gioia del Colle Sergio Povia, l’amministratore unico dell’azienda F.lli Capurso Giuseppe Capurso e Gaetano Mincuzzi in rappresen-tanza della FLAI-CGIL. Povia, Capurso e Mincuzzi si sono impe-gnati davanti all’assessore regionale ad affrontare un processo di rilancio aziendale, ipotizzando uno spostamento di parte della produzione presso il nuovo stabilimento sito nella zona artigia-nale di Gioia del Colle, che permetterebbe un’organizzazione del lavoro di maggiore qualità. Inoltre i licenziamenti sono stati con-gelati, ma la ricerca di nuovi mercati sembra ormai un’urgenza. Restano tuttavia ancora aperte molte questioni in questo settore tra cui quelle attinenti alle rappresentanze sindacali e alle piatta-forme di negoziazione. ¿

Crisi occupazionale Ansaldo Caldaie e F.lli Capurso al bivio

Occu

pazio

ne

Emanuele Donvito | / emanuele.donvito.7

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«E il naufragar m’è dolce in questo mare». Contrapponendosi all’Infinito di Leopardi, il naufragio della sinistra gioiese non è stato affatto dolce e le immaginarie onde, ad oggi, tendono a

trasportare più detriti, che speranze di vita e di salvezza. Traendo spunto dalla storia di Adamo ed Eva e soffermandoci unicamente sulle dinamiche locali, potremmo dire che in seno alla sinistra gioiese alberga una sorta di peccato originale; che questo sia la caduta di Mastrovito, il consenso all’odierno grande centro poviano o qualsivoglia altra situazione, non c’è dato saperlo. È indubbio, comunque, che la situazione e l’aggregazione interna è alquanto compromessa e il PD è visto parimenti come fulcro della disgregazione e capro espiatorio dell’intera crisi. Certo, non è facile esimerlo da colpe. Gli ultimi consigli comunali, infatti, hanno manifestato un coordinamento pressoché assente tra la segreteria locale e i rappresentati istituzionali (per intenderci, tra il gruppo del segretario L’Abbate e gli amministratori).

Non a caso, in linea con l’ultimo atto della passata segreteria Valletta, ad un anno di distanza passato senza sostanziali cambiamenti nel modus operandi dell’attuale maggioranza, il PD locale redige un nuovo documento di uscita dalla maggioranza, con annesso invito di dimissioni per l’assessore Masi e azioni similari per i consiglieri Ludovico e Giannico. Come un anno fa, il partito chiede ma nessuno risponde. I motivi di questo appello disatteso vanno ricercati nei prossimi impegni elettorali dello stesso partito: le elezioni del consiglio metropolitano e le elezioni per la presidenza regionale. Come tutte le competizioni, si cerca sempre di arrivare alla gara al meglio delle proprie possibilità e un partito spaccato, presumibilmente, non permetterebbe di

raggiungere i risultati pronosticati. La conseguenza naturale di tutto ciò sembrerebbe essere un intervento da parte della segreteria provinciale del PD, organo deputato anche al supporto e al controllo dei circoli locali ma, paradossalmente, il sopra citato intervento è in realtà un non intervento.

Il motivo di tutto ciò non è dato saperlo ma, ad esser maliziosi, c’è da immaginare una semplice valutazione d’importanza, di voti o di strategie che spinge l’organo provinciale a mantenere lo sta-tus quo non operando alcun tipo di provvedimento nei confronti dei consiglieri e dell’assessore. In realtà qualcosa nel buio si sta muovendo. È sempre più ossessiva nel paese la voce di un’azio-ne di sfiducia nei confronti dell’attuale segretario L’Abbate, reo di non fornire opportune garanzie di continuità all’attuale maggio-ranza. Si parla, a tal proposito, di una raccolta firme tra gli iscritti a cui vanno aggiunte le dimissioni di tre membri del coordina-mento eletti nella lista a sostegno dello stesso L’Abbate. A questi ultimi però andrebbero aggiunti anche gli otto precedenti dimis-sionari dell’area della Sinistra Riformista, per un totale di undici dimissionari su venti e la conseguente perdita della maggioranza all’interno del coordinamento. Per recuperare i numeri l’attuale segretario sembra intenzionato a chiedere la surroga dei dissi-denti con altri di sua nomina, manovra che lasciarebbe perplessi i più. Nel caso ciò non avvenisse, si andrebbe incontro al com-missariamento della sezione di Gioia del Colle, con congelamento di tutte le decisioni in campo amministrativo sino alle prossime regionali. È facilmente immaginabile come quest’ultima ipotesi sia la più ricercata da parte degli attuali amministratori in quota PD. Nella migliore tradizione meridionale, «tutto cambia affinché nulla cambi».¿

Fuga dalle idee e rincorsa alla

poltrona politica allA resa dei conti

Dario Magistro | / Dario.Magistro223

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Ascoli, 19 agosto 2014. La canicola estiva viene squarciata da un tuono. Ma non è un temporale. Improvvisamente una serie di in-cendi divampano distruggendo centinaia di ettari di vegetazione. Un danno ecologico immenso. Incendio doloso per il quale nes-suno sarà punito. Eppure una volta tanto si sa chi è il colpevole. C’è ben altro da pensare. Muoiono quattro persone. Tutti i piloti a bordo dei due Tornado, aerei militari con ali a geometria variabile impiegati a partire dagli anni Ottanta dalla RAF e dall’aeronautica araba durante la Guerra del Golfo, restano vittime dell’incidente. Questi caccia multiruolo non sono stati, però, utilizzati solo dalle aeronautiche estere. L’Italia ha fatto la sua parte e il palcoscenico d’elezione è stato Gioia del Colle (Bari). I Tornado italiani prese-ro parte alla guerra del Golfo nel 1991 con l’operazione Locusta. Otto di questi velivoli sono decollati dall’aeroporto militare di Gioia del Colle verso Al Dhafra, negli Emirati Arabi Uniti, come contributo italiano alla coalizione. Gli stessi Tornado IDS sono stati utilizzati poi durante la guerra del Kosovo nel 1999 per i bombardamenti e la soppressione dei radar e delle difese antia-eree jugoslave. Non c’è stata pace nemmeno quest’estate del 2014. L’incidente nel marchigiano ha scosso per qualche giorno le coscienze dei cittadini sul pericolo che vola proprio sopra i giardini di ville e cit-tà. È durato poco però. L’apprensione, come sempre, ha lasciato il passo al calciomercato, alla tintarella e al concerto sulla spiaggia.Sono morti quattro militari, quattro persone, e questo ovviamen-te addolora. Sono andati a fuoco immensi boschi, si è disperso un quantitativo enorme di carburante e si sono diffusi nell’aria contaminanti pericolosi per la salute a causa delle combustioni ad alte temperature. Ma erano coinvolti mezzi militari e nessuno ha voluto approfondire più di tanto le responsabilità. Cordoglio

per le vittime, questo è quanto.Pochi giorni dopo, e per molti giorni ancora, in questa turbolenta estate, i cicloni meteorologici, o meglio i tornado, hanno preso le fattezze di spaventosi uccelli della morte e non hanno smesso di far notare la loro presenza. Il 29 agosto, intorno alle 11:30, tre velivoli Eurofighter (quelli che dal 2005 hanno sostituito i Torna-do del 36° Stormo dell’Aeronautica Militare) partiti dalla base di

Gioia del Colle, nell’ambito dell’attività di addestramento, han-no effettuato un passaggio supersonico, cioè hanno infranto il muro del suono, per cinque minuti. I boati si sono uditi da tutta la costa di Taranto, allarmando gli ignari bagnanti e i molti turisti provenienti da altre regioni, che si sarebbero aspettati di trovare l’ennesima medusa in acque riscaldate e inquinate dagli impianti industriali tarantini o, al massimo, una tracina appostata sotto

Un Tornado sta volando sul mio

giardinoGli abusi militari sulla testa di gioiesi e italiani

Roberto Cazzolla Gatti

Una pace costosa. Migliaia di euro per un singolo volo di addestramento. Milioni di euro per una flotta di aerei mal costruiti e inutili

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la sabbia con la sua spina pettorale irta, ma mai che il pericolo potesse provenire dal cielo. Mai che coloro che si ergono a di-fensori della pace nazionale potessero minacciare la quiete e la sicurezza dei propri stessi cittadini.E sì, perché se un boato provoca pa-nico, inquinamento acustico e irrita il sistema nervoso dei già suscetti-bili lavoratori concentrati nelle ferie di una calda e affollata settimana di agosto, un aereo militare che ti pre-cipita mentre passeggi in campagna o poti le rose nel giardino crea ben altro disturbo. A meno che non sia precisato in qualche articolo nasco-sto della Costituzione che l’Italia ripudia la guerra, quando non ci sono interessi economici in ballo, ma gioca a farla a casa sua e i bersagli sono gli Italiani. È una questione di sicurezza, diranno gli addetti ai lavori. Ah, sì? E un aereo che rischia di schiantarsi sulla mia casa come dovrebbe tranquillizzarmi? È una questione di difesa, argomenterebbero nelle caserme. Ah, è vero? E come dovremmo difenderci dai tre-mendi rumori, dai gas di scarico tossici e dalle radiazioni dei po-tenti radar che ci piovono sulla testa durante tutto l’anno?Questa è stata un’estate di fuoco. Non solo per l’incendio scate-natosi sui monti del Piceno. Decine di voli di addestramento han-no devastato i timpani, e si scoprirà – ne sono certo – i polmoni degli abitanti della città di Gioia del Colle. Un comune che vive in simbiosi con un aeroporto militare costruito a meno di 500 metri dall’ospedale pubblico (per altro ormai inesistente, nonostante il serio pericolo di attacco o incidente aereo che corrono i gioiesi). Un aeroporto che ha le piste puntate verso le case, da cui par-tono voli di addestramento che superano i decibel consentiti in qualunque discoteca romagnola, che spargono nuvole nere di gas di scarico intrisi di diossina sulle teste della gente. E a Gioia? Muti. Per dirla alla Luzi. I cittadini, i più almeno, sembrano essersi assuefatti ai suoni e agli odori. Ma la vista gli è rimasta. E come ignorare allora quei mostri che solcano il cielo a poche decine di metri dalle abitazioni? Come non vedere quel vergognoso monu-mento alla “gloria militare” che campeggia proprio tra l’aeroporto e l’ospedale, tra quella no mansland che separa il civile dal soldato all’ingresso del paese? Perché la stupidità della guerra, lo scarso vanto di avere un pericoloso aeroporto a pochi passi dovrebbe accogliere il forestiero? Perché non una fiaschetta di vino primi-tivo o una mozzarella quale effigie di tipicità? Cosa c’è di tipico nelle bombe, nelle mimetiche, negli Eurofighter? C’è di caratteri-stico il senso della storia umana. Un lungo susseguirsi di guerre, conquiste e dominazioni spacciate al popolo come esplorazioni, diritto alla difesa e missioni di pace. Una pace costosa. Migliaia di euro per un singolo volo di adde-stramento. Milioni di euro per una flotta di aerei mal costruiti e inutili che l’Italia scambia come figurine per far piacere ai capi di Stato ricchi di petrolio e risorse naturali. Certo, dopo il pericolo dei Tornado e degli Eurofighter, un manipolo di F-35 che fa acro-bazie sulle nostre teste non guasterebbe. Inoltre, aumenterebbe

il PIL nazionale, per quanto lordo, di lerciume, questo sia.E se occhi, orecchie e nasi non ne hanno avuto abbastanza dei soprusi di un corpo militare che nessuno monitora (basti pensare che a Gioia del Colle non sono mai state installate centraline di ri-

levamento smog e rumore, forse per non monitorare strumentalmente ciò che ogni cittadino sa da tempo), un ulteriore vergognoso scandalo caratterizza la base gioiese. Sembra, infatti, che con ordinan-za del Sindaco e dopo i tre gradi di giudizio dei tribunali, a un privato cittadino custode di alcuni pini seco-lari nel proprio giardino di casa sulla

via Vecchia per Matera sia stato ingiunto di abbattere gli alberi centenari, rei di intralciare il volo degli aerei militari in partenza dalla pista gioiese. Ora in molti si chiederanno come possano de-gli alberi, seppur enormi, dell’altezza di 15-20 metri, intralciare il volo di aerei militari che, per la sicurezza di chi non gioca a fare la guerra e resta a terra, dovrebbero volare a centinaia e non a poche decine di metri dal suolo?Ebbene, si narra che tale misura d’abbattimento risulti necessa-ria all’Aeronautica Militare di Gioia del Colle per ottenere un mar-chio di qualità, un analogo della quinta stella alberghiera, dalla NATO – di cui l’Italia è partner strategico – e che la presenza di «oggetti intralcianti o potenzialmente pericolosi nel cono di volo» non permette di ricevere. Sarà necessario abbattere gli alberi per garantire il lustro al 36° Stormo? Il proprietario e molti cittadini sono già, è proprio il caso di dirlo, sul piede di guerra. Com’è pos-sibile che debbano essere sacrificati degli alberi secolari piantati su un suolo privato perché potenzialmente pericolosi e non si va-luti quanto possa, quindi, essere rischioso il passaggio radente di quegli aerei a pochi metri d’altezza sulle abitazioni? Com’è possi-bile che il Sindaco di un Comune, che dovrebbe in primis tutelare la sicurezza dei propri cittadini, la ignori e ordini di abbattere dei secolari testimoni del tempo per garantire libertà di volo ai deva-statori del cielo? È come voler uccidere i propri nonni perché nella loro stanza si vuol costruire una moderna taverna.

Sarebbe il momento di iniziare una grande protesta civile con-tro i soprusi delle forze militari che hanno la presunzione persino di poter decidere dove gli alberi vadano piantati o possano cre-scere. All’ingresso di Gioia del Colle, come di tutte le altre città militarizzare, dovrebbe campeggiare non un aereo militare, ma un grande striscione con scritto ciò che diceva il già citato poeta italiano Mario Luzi: «[…] a gara derubano della loro persona gli incolpevoli, a gara li umiliano e li vendono o all’alba si ritrovano il loro sangue sotto le unghie – e voi che alzate gli occhi su di loro e subito li chiudete bene e forte col sigillo delle dita timorosi di co-noscerli, spaventati di ravvisarvi, non è questo, lo so, che volete sentirvi dire eppure non c’è nulla a cui più appassionatamente pensi – parla alto, parla distintamente sotto la grande cupola di sordità la mia ben poca anima ancora viva tra le sue rovine. E voi? Muti».¿

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Nell’ultimo appuntamento del ciclo di incontri titolati Dialogo tra un IMPEGNATO e un non so, a cura di PrimaVera Gioia e del circolo Arci Lebowski, la cittadinanza gioiese ha avuto

modo di ascoltare Alessandro Leogrande (vicedirettore del mensile Lo straniero) in occasione della presentazione del suo ultimo libro Fumo sulla città : un reportage che mostra come Taranto sia stata fucina di alcuni tra i fenomeni più de-vastanti della nostra contemporaneità: dalla politica televi-siva all’emergenza rifiuti, passando per la crisi dell’industria. Il libro è frutto di un lavoro portato avanti per diversi anni, una stratificazione di testimonianze che accompagna il let-tore alla scoperta della città dei due mari dagli anni Novanta fino ad oggi. Il viaggio parte esplorando la figura di Giancarlo Cito: ex pic-chiatore fascista, telepredicatore, eletto a furor di popolo primo cittadino di Taranto dopo il crollo della Prima Repub-blica e successivamente passato in giudicato per concorso esterno in associazione mafiosa. La disamina della società e dell’industria, strette in un reti-colo inestricabile e fittissimo, è il momento successivo della narrazione. Una coltre di silenzio ha coperto per molti anni le conse-guenze dell’inquinamento causato dal più grande polo side-rurgico europeo. Il caso Ilva, infatti, è sotto i riflettori nazio-nali solo dall’estate 2012 grazie al lavoro della Procura di Taranto e in particolare alla tenacia della dottoressa Patrizia Todisco, magistrato tarantino già in forze al Tribunale dei Minori.La svendita dell’Italsider nel 1995, ceduta al gruppo Riva, è

il punto di partenza di numerosi effetti oggi lampanti. Infatti l’unico obiettivo dei Riva è stato massimizzare il rendimento degli impianti, senza tenere in alcun conto le condizioni in cui versavano gli operai, gli abitanti del quartiere Tamburi e più in generale tutta la città di Taranto.Per tornare alla narrazione, la concatenazione tra società, politica ed economia si riflette nella struttura tripartita del libro: che parte dall’analisi di una Taranto passata, viziata dalla politica corrotta segnata da tangenti e favoritismi, per arrivare alla parte finale in cui Leogrande offre uno «Zibal-done delle polveri», in cui raccogliere stralci e visioni degli ultimi mesi.Il punto di vista di Alessandro Leogrande è quello di un ta-rantino che ama profondamente la sua terra, ma che ora, con sguardo malinconico, si scaglia aspramente contro l’an-tipolitica, contro il disinteresse cittadino che ha contribuito a trasformare Taranto da città rurale di inizi Novecento in una città profondamente incentrata sul sistema industrial-capitalistico. Allo stesso tempo Leogrande mantiene accesa la speranza: il sogno che Taranto, consapevole del suo pas-sato, possa finalmente guardare al proprio futuro.Questa voglia di sperare si riflette nella scelta da parte dell’autore di dedicare alla sua città una delle ultime poesie di Pier Paolo Pasolini rivolta ai giovani: «Siamo stanchi di diventare giovani seri, o contenti per forza, o criminali, o ne-vrotici: vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare qualco-sa dalla vita, chiedere, ignorare. Non vogliamo essere subito già così sicuri. Non vogliamo essere subito già così senza sogni». ¿

Fumo sulla città Taranto tra passato e futuro

Alessandro Digregorio | /alessandro.digregorio2

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Sono ormai trascorsi quasi tre anni da quando un’ordinanza dell’allora sindaco Piero Longo rendeva agibile (quando forse agibile non lo era del tutto) gran parte della pensilina che

funge da copertura per la tribuna del campo sportivo. Da allora la sfortunata pensilina è ancora là, in attesa di una sistemazione che dovrebbe riguardare il patrimonio immo-biliare sportivo della città, considerato che vanta già un de-cennio di vita e in questo arco di tempo non ha mai goduto di un restyling strutturale. A vantare i danni maggiori, e dunque a necessitare degli in-terventi più urgenti, sono proprio quelle strutture che hanno rappresentato il fiore all’occhiello delle passate amministra-zioni: campo sportivo e palazzetto. Del primo già s’é detto della pensilina che, non essendo agibile, non permette agli spettatori di usufruire della tribuna per assistere agli incontri casalinghi delle squadre di calcio, e si spera un giorno anche di rugby. Anche il manto erboso è oramai al collasso tanto da non essere più idoneo a far disputare partite di catego-ria. Infatti, in una missiva dell’11 gennaio 2012 indirizzata al Comune di Gioia del Colle, la LND Servizi srl, società che per conto della Lega Nazionale Dilettanti sovrintende alla regolarità dei campi da gioco, indicava che «la durata me-dia dei campi in erba artificiale a cavallo degli anni 2003/04 è dell’ordine degli otto/dieci anni» (il campo Martucci è del 2003). Inoltre «durante i test dell’ultima ri-omologazione i tecnici indicano che il campo potrà essere utilizzato per un numero di anni definito e improrogabile». «La data di scadenza – recita ancora la missiva – dell’omo-logazione in essere porta la data del 04/01/2014»; in con-clusione «il campo dovrà essere ristrutturato e riprogettato alle conformità regolamentari in essere a quella data». Non sta meglio il palazzetto, al cui interno pare ci sia un continuo gocciolamento nei giorni di pioggia, segno che la guaina che copre il tetto necessita manutenzione. Quanto al parquet, in vari punti presenta listelli marci a causa dell’ac-qua assorbita dal sistema di serpentine per il riscaldamento presente al di sotto della pavimentazione. Senza volgere lo sguardo ad altre strutture (come quelle scolastiche, il pala Kuznetsov e altre ancora) le cui valuta-zioni sconforterebbero i contribuenti gioiesi, sarebbe oppor-

tuno cominciare a chiedersi se la delibera di Giunta n. 96 del 5/06/2013 avrà mai un seguito. In questa delibera, siglata dopo che la Consulta dello sport segnalò nel 2013 fondi sta-tali per la ristrutturazione degli impianti sportivi, nel pren-dere atto che gli impianti sportivi necessitavano di lavori di ristrutturazione straordinaria, in particolare si parlava di so-stituzione del manto di erba sintetica, del rifacimento della copertura della tribuna, della riparazione della struttura por-tante della copertura sia del campo sportivo che del palaz-zetto. Il tutto al costo di 1 milione e 350mila euro, per oltre la metà finanziabili. Quello che ci chiediamo oggi è: il Sindaco e l’assessore allo Sport avranno considerato la nota protocollata via e-mail da parte della Consulta dello sport, con cui il 24/07/2014 si segnalava l’esistenza di un bando regionale (con scadenza il 13/08/2014) che stanziava centinaia di migliaia di euro? Forse no, considerato che all’interrogazione del consiglie-re comunale di minoranza Donato Lucilla del 18/08/2014 il sindaco Sergio Povia rispondeva di non aver ricevuto nulla in merito. Nell’era della spending review e dei tagli inesorabili che i trasferimenti statali hanno subito pare non possano esser-ci altre strade se non quelle dei fondi strutturali per ridare slancio ad un patrimonio che, oltre a rappresentare un inve-stimento di denaro pubblico, rappresenta per molti ragazzi la possibilità di essere avviati ad una disciplina sportiva. In-tanto passando dalla manutenzione strutturale alla gestio-ne economico-finanziaria le cose non cambiano. È di questi giorni la bozza del bilancio preventivo dell’ente dalla quale si apprende un sostanzioso deficit per quel che riguarda la differenza fra entrate e uscite che gli impianti generano. Ri-mandando ad altre occasioni l’analisi delle singole voci con-tabili, adesso forse è il momento di prendere coscienza del fatto che un cambio di strategia è ineludibile. Questi impian-ti devono essere fonti di reddito, almeno per autosostenersi. Magari utilizzando uno schema di convenzione che affidi ad un privato la gestione, riservando all’ente l’espletamento dei servizi essenziali per la comunità sportiva, a determi-nate condizioni economiche e lasciando, magari, alla libera iniziativa privata lo studio di ulteriori possibilità di utilizzo.¿

Strutture sportive i fondi ci sarebbero

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Alessandro De Rosa | / alessandro.derosa.161

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PrimaVera Gioia ha avuto l’onore di collabora-re alla realizzazione dell’emozionante work-shop dedicato al frontman di una delle più longeve band musicali che dalla fine degli anni

Settanta ha “sfornato” la bellezza di 30 album, i Diaframma. L’incontro, svoltosi durante la due giorni dedicata al Gioia Rock Festival 2014, V edizione, è stato reso possibile grazie agli sforzi encomiabili del gruppo informale Rockerella, con la collaborazione di Nojarella (sorella-stra noiana del progetto Rockerella), Arci Lebowski e PrimaVera Gioia. Il ritorno dei desideri, titolo del work-shop dell’8 agosto scorso, accolto nel laboratorio urbano Bandèapart di via Arciprete Gatta, ha ospitato una tren-tina di spettatori tra stampa, fan e addetti ai lavori. Una giornata unica che ha permesso di tracciare dapprima le linee guida della vita artistica dell’eclettico Fiu-mani, svelandone aneddoti, racconti e considerazioni sul mondo musicale attuale (dalla produzione, al web, al booking), approcciandosi poi tecni-camente alla disquisizione sulle dif-ferenze tra testo e poesia e infine ad una prova live dell’artista marchigia-no assieme al gioiese Kecco Recchia. Federico Fiumani ha coinvolto la pla-tea districandosi nei meandri della sua psiche, manifestando un’orgogliosa infelicità esistenziale, sempre pronta a sposa-re la sua viscerale creatività. «Eravamo una band molto triste». L’esordio dei Diaframma viene descritto così da Fiumani, che spesso e volentieri non si risparmia dall’incoronare con una genuina malinconia le emozioni della Firenze anni Ottanta (dieci band per dieci lo-cali), i rapporti con i colleghi (Piero Pelù su tutti, a cui dedi-cherà il brano Ottovolante) e le cupe intuizioni che hanno portato a Siberia, capolavoro indiscusso della loro discogra-fia. La storia del musicista di Osimo, trapiantato a Firenze, muo-ve i primi passi proprio nel capoluogo toscano, vero terreno fertile della primavera musicale italiana degli anni Ottanta,

che ha visto esplodere, oltre al talento dei Diaframma, quello dei Litfiba, Neon e tanti altri. Dai primi concerti nella Rokko-teca Brighton di Settignano, gestita da Nicola Vannini, che per una parentesi temporale è stato cantante della band, ad oggi le cose sono cambiate. Federico Fiumani si è pro-posto in live sia con i Diaframma, sia da solista (due album all’attivo), sia da cantautore, che da poeta. E pensare che negli anni Novanta i discografici della Ricordi lo avrebbero

voluto rockstar televisiva e radiofo-nica sulla scia dell’ascendente Marco Masini, una strada questa che Fiuma-ni disertò a favore delle produzioni indipendenti. Scelta azzeccata, vista l’affluenza di pubblico che Fiumani riesce ancora a far avvicinare ai suoi versi, con un ricambio generazionale promettente. «Allora era impensabile vivere di musica, ora la musica mi dà da vivere» e nell’ultimo progetto in uscita, Un ricordo che vale 10 lire, fa rivivere brani italiani della sua memo-ria discografica in un album di cover che spaziano da Paolo Conte, a Lucio Battisti, finanziato tramite la piatta-forma di crowfounding musicale Mu-sic raiser. Un ultimo tuffo romantico nella line up a cui è più affezionato, quella di Si-beria in cui Federico Fiumani era alla

chitarra e Miro Sassolini alla voce, un binomio durato poco e che tutti i fan sperano di tornare a vedere. L’unica cosa certa è che i fruitori del workshop si sono interfacciati ad un artista a tutto tondo, in cui il lato solitario e rock cattura lo sguardo, apre le menti, generando fibrillazioni interessanti ancor prima di sentire quelle tre note incipit di Siberia, di-venute marchio di fabbrica della produzione Diaframma. Bi-sogna doverosamente ringraziare gli organizzatori e coloro i quali, provenienti da parti disparate non solo della Puglia, hanno colto l’occasione, insolita e per questo imperdibile, di entrare nell’universo artistico di un grande della musica. Meno cospicua la partecipazione locale ma poco importa: a distanza di una ventina di giorni si saranno rifatti con il genio di Pòvia. ¿

Federico Fiumani: il lato confidenziale di una tribolata anima punk rockFilippo Linzalata | / filippo.linzalata

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«Dinanzi a questa notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla tenera indifferenza del mondo. Sentendola così simi-le a me, così a me fraterna anche, ho capito

che ero stato felice, e che lo ero ancora. Perché tutto sia consumato, per sentirmi meno solo, arrivai ad auspicare che ci fossero molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accogliessero con grida di odio». Questo breve stral-cio è tratto dal romanzo L’Étranger di Albert Camus, l’opera letteraria che ha dato il titolo all’edizione zero del festival cinematografico Étranger film festival. La manifestazione realizzata dall’11 al 13 settembre all’interno della Corte del Castello, è nata per favorire l’integrazione globale e valoriz-zare visioni in grado di rappresentare la diversità culturale, etnica, religiosa, sessuale, politica e di genere, attraverso lo strumento cinematografico.

Una prima edizione già ben architettata, complessa sia per le tematiche, che per la vastissima quantità di opere che si sono proposte alla selezione: ben 576, da 38 Paesi diffe-renti. Solo 22 titoli però hanno concorso al Premio Étranger, vinto dal cortometraggio Aissa del francese Clément Tréhin-Lalanne «per la purezza stilistica con cui descrive l’esclu-sione di una giovane immigrata da parte di una società che ne misura il corpo ma non l’umanità». Un festival giovane, germogliato grazie alla creatività e tenacia di giovani ancora salvi dalla disillusione che ci attraversa, tanto desiderosi di affermare la propria unicità da essere arrivati a creare un sofisticatissimo riferimento con il romanzo di Camus, consi-derato da molti la più imponente opera letteraria del Nove-cento. Telaio che è riuscito a tessere le più infinitesime spie del naufragio umano dell’era contemporanea. Meursault, il protagonista, avvertiva l’estraneità da se stesso e dalle pro-prie abitudini, alimentata dall’incapacità di provare empatia per la madre, amore per la propria compagna, pentimento per l’aver ucciso un uomo. L’Étranger raccontava nel 1942 il tracollo dell’essere umano nell’oceano dell’incomunicabili-

tà, una tremenda profezia rivelatasi in tutta la sua assoluta insensatezza e che questo festival ha tentato di analizzare, forse superare, attraverso il cinema. Non solo attenzione per la diversità, ma anche ricerca di identità: il secondo premio del festival, infatti, è stato de-dicato a Ricciotto Canudo, il teorico e critico cinematografi-co gioiese che ha consegnato il cinema all’olimpo dell’arte: dopo architettura, musica, pittura, scultura, poesia e danza, il neonato metodo cinematografico divenne la settima arte agli inizi del Novecento. Lo hanno chiamato premio Le Bari-sien perché in Francia veniva soprannominato così, Canudo, da Guillaume Apollinaire, il poeta, e coscienti della profonda importanza del pubblico e della sua necessaria rieducazione per una riforma sostanziale del cinema di qualità, il Premio Le Barisien è stato commissionato proprio al giudizio popo-lare che lo ha assegnato a sua volta al cortometraggio Bella di notte di Paolo Zucca. In concomitanza con il festival cinematografico, è andata in scena anche un’altra iniziativa ad esso connessa: Étra, una mostra di arte contemporanea ospitata dal 10 al 25 settem-bre presso l’antico palazzo Romano. Tutti pugliesi di fama gli artisti esposti. La mostra si concentra sui linguaggi arti-stici e su come questi vengano percepiti come diversi. Una manifestazione che quindi ha cercato di coinvolgere una fet-ta di appassionati molto ampia.

Le impressioni che abbiamo avuto dall’incontro con gli or-ganizzatori, Maria Castellano, Giuseppe Procino e Lara An-gelillo, sono assolutamente positive. Quello di quest’anno è da considerarsi il primo passo verso l’istituzionalizzazione di una realtà che mira a raggiungere le vette più alte della qua-lità cinematografica. Le basi ci sono, la perseveranza anche. Avanti Étranger! ¿

la prima di Étranger Da Albert Camus alla narrazione cinematografica

Lyuba Centrone | / lyuba.centrone

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«Ci ste la frasche, se venne u mjire» recitava un antico detto gio-iese, riferendosi alla consuetudine da parte dei contadini di ap-pendere un ramo, spesso di olivo, al di fuori delle proprie cantine per la vendita e la mescita del vino. In quelle cantine scorrevano litri di vino dal colore impenetrabile, dall’odore intenso e dall’ine-quivocabile gusto deciso: era senz’altro U’ Primative, il Primitivo. Lasciando un attimo indietro il ricordo nostalgico di bambino che abitava nel centro storico e che tra settembre e ottobre respira-va l’odore acre dei tini in fermentazione, oggi posso parlare ed esporre le mie considerazioni da tecnico e da semplice appas-sionato. Il Primitivo, pianta che vede la sua scoperta proprio in territorio gioiese nel Settecento, coltivato ad alberello pugliese (u c’ppon), a spalliera o tendone, produce un frutto a bacca violacea ricoper-ta da un fitto strato di pruina, sostanza cerosa naturale protet-tiva e che, a piena maturazione fenolica, presenta una cospicua presenza di acini passiti. Maturazione fenolica? Si, perché fatte salve le tradizioni e i ricordi, oggi ogni cantina ha bisogno di rice-vere e vinificare le uve secondo approcci che uniscano la tradi-zione ancestrale della produzione enoica, alla scienza (enologia) e alle tecnologie. Prima di ricevere le uve per la trasformazione, infatti, è buona norma controllare il grado zuccherino, dal quale si ricava l’alcool potenziale, l’acidità totale e il pH, nonché le estrai-bilità di antociani e polifenoli, per intenderci il potenziale colore del vino e il persistere degli aromi. Una volta arrivate a matura-zione le uve vengono raccolte e portate nelle zone di ricezione uve della cantina. Niente stivaloni e pigiature molleggiate alla Celentano, oggi si procede in modo diverso con macchinari adatti a preservare la qualità. L’uva viene sottoposta a diraspatura, cioè alla separazione dell’acino dal raspo, attraverso l’uso della dira-spa – pigiatrice – e il risultante prodotto viene introdotto in tini di acciaio inox, anfore capienti o botti di legno, a seconda delle tecniche delle diverse cantine, naturalmente non prima di averle perfettamente igienizzate. L’igiene è la prerogativa fondamentale dell’agire enologico odier-no, senza il quale vengono meno le speranze di ottenere prodotti di qualità. Una volta poste le uve diraspate e pigiate, segue il pe-riodo di fermentazione che consiste nella trasformazione degli

zuccheri contenuti nelle uve da parte dei lieviti, in alcool. Una vol-ta terminata la fermentazione alcoolica e la macerazione sulle bucce, per estrarre più colore possibile e renderlo più stabile nel tempo, si procede alla separazione del mosto dalle uve. Questa operazione, nella maggior parte dei casi, viene effettuata tramite pressatura delle bucce risultanti dalla separazione del mosto in altro recipiente, immettendo le stesse in macchinari che, attra-verso la pressa, esauriscono le vinacce bagnate. Il vino-mosto così ottenuto andrà a svolgere la fermentazione malo lattica, che consiste nella naturale degradazione dell’acido malico in acido lattico, dovuta all’intervento dei batteri lattici presenti nel vino, che sancisce la definitiva maturazione da mosto a vino.Nel corso dell’anno il vino viene travasato più volte per proce-dere all’affinamento o all’invecchiamento in botti, barriques (botti francesi da 225 lt) o altri contenitori, a seconda delle tec-niche, peculiarità e tradizioni delle cantine. Preceduto per fama dal cugino di Manduria o dall’emigrato Zinfandel californiano, il

Primitivo di Gioia del Colle ha vissuto tempi duri fatti di vendita come vino da taglio per andare ad arricchire i vini delle cantine settentrionali, fino al fallimento di diverse Cantine Sociali, pas-sando attraverso l’espianto di diversi ettari di alberelli nodosi e secolari, quando oggi l’Unesco ha riconosciuto e tutela come pa-trimonio dell’umanità i territori vitati delle Langhe-Roero e del Monferrato.Attualmente il Primitivo D.O.C Gioia del Colle è tra i più apprezzati sul mercato, soprattutto internazionale, per le sue caratteristi-che eccezionali e uniche e, tra i produttori pugliesi, le cantine di tutto il bacino D.O.C sono le più premiate sulle guide nazionali e ai concorsi enologici di tutto il Mondo. E pensare che eravam partiti dalla frasca e dal bicchiere conta-dino… Prosit! ¿

Ci ste la frasche, se venne u mjire

alla scoperta del PrimitivoVito Roberto Cardilli

il Primitivo D.O.C Gioia del Colle è tra i più apprezzati sul mercato

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Il rumore della rete dopo un canestro a ciuffo, l’ossessione maniacale per l’arco dei tre punti, la gioia orgasmica per un punto allo scadere. Se non avete mai avuto una palla a spicchi tra

le mani, non potrete capire. Il basket, uno degli sport più diffusi al mondo, vive da anni momenti di alti e bassi nella ridente, e mica tanto, Gioiosa del Colle. Parliamo oggi della situazione cestistica con Enrico Giordani, attivista e porta-voce del gruppo Strittboll Gioia.

Ciao Enrico. Raccontaci del movimento Strittboll Gioia. Cos’è e quando nasce?Parlare di movimento attualmente credo sia prematuro. Il nome Strittboll Gioia nasce per gioco: dovevamo scegliere una scritta da apporre sulle maglie da basket per identificar-ci meglio durante le nostre partite. Dallo scherzo è nato un bel logo e un nome che oggi identifica una minoranza tutt’al-tro che silenziosa. Il gruppo nasce grazie all’aggregazione di ragazzi che non si conoscevano nemmeno tra loro ma, ave-vano in comune la passione per un gioco meraviglioso che a Gioia ormai è difficilissimo praticare. L’inaspettata costru-zione di campetti da basket outdoor a Gioia ha risvegliato la voglia di giocare in ragazzi che, come il sottoscritto, non toccavano un pallone da anni. In un paio di estati il gruppo ha raggiunto cento membri su facebook con una trentina di giocatori, provenienti anche da Acquaviva e Mottola, di età

comprese tra i 16 e i 40 anni che in pianta stabile si danno appuntamento almeno due volte a settimana da maggio a settembre.

Parlaci della situazione gioiese nel 2014.A livello giovanile le due società attualmente operanti a Gio-ia (Olimpia e Minozzi) sono molto attive e forniscono una formazione più che adeguata a ragazzi tra i 10 e i 17 anni, coinvolti in vari corsi e campionati. Per gli over 18, invece, ad

oggi non esiste una competizione federale che li coinvolga.

Due anni fa la Minozzi ottenne sul campo una meraviglio-sa promozione, vincendo i playoff di Prima Divisione, ma lo scorso anno non si è iscritta al campionato. Le cause sono molteplici: dalla difficoltà di reperire fondi per le iscrizioni alla mancanza di un movimento capace di unirsi per far fron-te alle tante necessità.

Il movimento Strittboll nasce anche sulle macerie del ba-sket gioiese. Credi sia prospettabile la costruzione di fon-damenta più stabili per dare forza al movimento cestistico della città?Il nostro piccolo gruppo ha accolto moltissimi protagonisti dell’ultimo campionato di prima divisione giocato dalla Mi-nozzi. A mio avviso il problema principale del basket gioio-se è la mancanza di coesione tra società: bisognerebbe far

Dall’asfalto nascono fiori: l’esperienza del basket di strada

Sp

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Filippo Linzalata | / filippo.linzalata

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vamento da un’esperienza anche minima di basket organiz-zato.

Perché non sfruttate la vostra esperienza e il vostro en-tusiasmo per mettere su una società scevra da dinamiche economiche legate al guadagno, ma concentrate al sosten-tamento del movimento, come nel caso del Granada Rug-by?È un nostro obiettivo che riteniamo realizzabile. Sarà sicura-mente durissima, ma se le cose continueranno così, ci pro-veremo. Non ci sono altre soluzioni.

Oltre ai campetti di via Einaudi e di piazza Berlinguer, c’è la possibilità di vedervi anche in versione indoor? C’è un confronto con gli addetti ai lavori, allenatori, dirigenti?Siamo riusciti a catturare l’interesse delle società gioiesi e con loro stiamo lavorando in cerca di spazi che possano

permetterci di praticare ba-sket decentemente, vista la mancanza di strutture e di ore a disposizione. Ringra-zio Andrea Polucci e Fran-cesco Fiorente dell’Olimpia, Franco Venere e coach Rino Di Bari della Minozzi per il tempo che dedicano alla no-stra causa.

Capitolo strutture sporti-ve. Data la mancata omo-logazione del palestrone, è possibile effettuare basket solo presso il palazzetto, la cui ripartizione degli orari prevede complessivamente 44 ore al volley (6 società) contro le 18 riservate alle 2 società di basket. Che idea

ti sei fatto?Un’idea schietta e sincera: politicamente il basket non inte-ressa a nessuno, non è un trofeo da sbandierare e non offre apparentemente nulla di tangibile. Nessuno guadagna nulla da quattro gatti che vogliono giocare a basket. Lo sappia-mo bene. Se fossi un politico, mi interesserei per riportare in auge un movimento importante come quello gioiese.

Avete qualcosa in cantiere per la prossima stagione?Stiamo tentando di trovare almeno due ore per allenarci in inverno, sperando di trovare fondi per iscriverci al campio-nato di Prima Divisione. Se non ci riusciremo, lavoreremo su altri fronti che ci porteranno a qualcosa di interessante nel 2015, migliorando la nostra struttura interna e organiz-zando tornei o leghe estive di basket. Non ci arrenderemo e non resteremo relegati a un campo in asfalto. Pretendiamo di più. ¿

fronte comune e costituire un polo di attrazione più credibile dal punto di vista sportivo e soprattutto politico per tornare ai livelli raggiunti anni fa.

Molte società hanno deciso di non puntare più sulla squa-dra senior, concentrandosi solo sui settori giovanili. Palesi scelte economiche, alcune volte dettate da una mission morale, altre volte no. Non pensi che i giovanissimi debba-no ambire a una squadra senior da cui prendere esempio?Questo è un po’ il nocciolo della questione. La pratica del basket non può essere limitata ai diciassettenni. Questo non giova a chi avrebbe ancora molto da dire, ma soprattutto agli stessi giovani che, arrivati a diciotto anni, non hanno di fatto una squadra che permetta loro di continuare la loro evolu-zione sportiva. Ragazzi che non hanno i mezzi o le possibi-lità di raggiungere un altro paese o che non sono tanto forti da attrarre l’interesse di altre società. Perché un ragazzo che ama uno sport non deve poterlo praticare a casa pro-pria? Il campetto di strada accoglie tutti questi ragazzi e il livello di gioco è comun-que buono, la competitività sana e le amicizie salde. Non è questo il fine ultimo e più nobile dello sport? O le bel-le parole hanno una data di scadenza al compimento dei diciotto anni?

Oltre al ruolo di chioccia, pensi che i componenti più adulti possano ancora dire la propria affrontando nuo-vamente la sfida di un cam-pionato federale?Un esempio su tutti: Giam-battista Buono, bandiera del basket gioiese, a quarantadue anni è in uno stato di forma da fare invidia a un sedicenne, continuando con noi a consu-mare scarpe e cartilagini sul cemento. Due anni fa ha segna-to quasi da centrocampo il tiro decisivo all’ultimo secondo della finale playoff. Avrebbe ancora molto da dire e da dare al basket ed è un esempio per tutti. Non vederlo giocare in un campionato fa male al cuore. Oltre a Giambo, ci sono tanti ragazzi che potrebbero dire ancora la loro in un campionato, come Angelo Paradiso, Giuseppe D’Onghia, Tommaso Mila-no e Alessandro Morolla, che continua a rifiutare numerose proposte da altre squadre perché vuole fortemente giocare a Gioia. Ad oggi una squadra fatta di gioiesi potrebbe vincere il campionato di prima divisione e non sfigurare in promo-zione. Poi ci sono i giovani: Nicola Sabato, Giuseppe Lillo, Alessandro Pardea, Francesco Morolla e tanti altri, cresciuti moltissimo negli ultimi due anni, che trarrebbero sicuro gio-

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Lino Digregorio | / lino.digregorio.5

Nel fittissimo programma dei #millegiorni del Governo Renzi si fa largo con tanti rumorosissimi proclami la pianificazione di una riforma del mondo della formazione. In realtà

nulla di nuovo, da una parte perché l’ultima riforma della pubblica istruzione (quella del ministro Mariastella Gelmini) risale a non più di quattro anni fa, ma soprattutto perché non cambiano le parole d’ordine e le idee su cui si fonda questo nuovo progetto di riforma. Non cambia, neppure sul piano retorico, la convinzione drammatica che si possa sanare la crisi delle assunzioni degli insegnanti, cambiando ancora una volta il percorso di abilitazione all’insegnamento. Non si è ancora compreso, dopo una delle più tragiche riforme dell’Università (il riferimento è ancora alla riforma Gelmini), che non si possono risollevare le sorti della formazione pubblica sulla base della concorrenza aziendalistica fra gli atenei, fra le scuole e dentro le scuole fra i docenti, in una lotta serrata contro severi vincoli di sostenibilità economica, che spesso significano tagli dell’offerta formativa e, in generale, ridimensionamenti al ribasso degli standard di qualità reale dell’istruzione.

Cosa significhi nello specifico tutto questo ce lo racconta con estrema chiarezza la situazione attuale dell’Università degli Studi ‘Aldo Moro’ di Bari che, giusto per chiarire gli ordini di grandezza, è uno dei più grandi atenei italiani e la sede degli studi di una considerevole parte degli studenti pugliesi. È notizia delle ultime settimane l’approvazione, con delibera del Consiglio di Amministrazione dell’8 settembre, del piano di rientro che dovrebbe permettere all’ateneo di risanare un disavanzo di bilancio milionario con il quale l’amministrazione fa i conti da molto tempo.

Prima di entrare nel dettaglio del piano di rientro va tuttavia individuato il senso più tangibile di cosa significhi per una sede universitaria soffrire di ristrettezze finanziarie e instabilità economiche. Secondo l’attuale normativa, il finanziamento pubblico agli atenei viene predisposto dal Ministero, per una parte considerevole della sua totalità, sulla base di un meccanismo premiale. Si assegnano cioè più risorse alle sedi che risultano più virtuose rispetto ad alcuni parametri che tengono

conto in maniera molto rigida della stabilità economica, da una parte, e dall’altra non si tiene conto della qualità effettiva della didattica offerta e della ricerca effettuata. Coerentemente con questa logica, fortemente punitiva e non meritocratica, viene per esempio distribuita fra gli atenei la possibilità di assumere il personale docente e i ricercatori. Tutto ciò genera inevitabilmente una situazione di impoverimento continuo di alcune sedi universitarie in favore di altre che riescono, nei pochi contesti economici e sociali favorevoli, a mantenere una disponibilità di risorse ampia e margini di sviluppo concreti.

Per questi motivi l’obiettivo dell’ateneo barese di risanamento del proprio bilancio è l’ennesimo estemporaneo tentativo di evitare un’ulteriore fuga di finanziamenti, in un quadro di disponibilità di risorse già estremamente critico. Come sempre però, di fronte alla necessità dell’amministrazione di battere cassa, a pagare le conseguenze sono gli studenti e le loro famiglie, poiché una parte della strategia di rientro si poggia sull’aumento della tassazione universitaria. Sebbene sia stato scongiurato per questa volta un incremento della contribuzione diretta, è stato predisposto un aumento dei costi di molti servizi, senza che questi vengano nei fatti migliorati o ampliati, e una cancellazione definitiva di ogni residuo incentivo economico agli studenti.

Per fare qualche esempio: verrà eliminata la possibilità di concedere un rimborso parziale delle tasse versate agli studenti che si laureano in regola con i tempi previsti; aumenterà il costo del certificato di laurea in lingua straniera (da 2,00 a 60,00 euro); sarà ridotto del 50% il finanziamento ai dottorati di ricerca; verrà introdotta una nuova tassa (variabile in base al reddito con un tetto di 50,00 euro) giustificata da presunti diritti di segreteria.È in questo modo che l’Università statale di Bari apre le sue porte per il nuovo anno accademico e questi sono i dati con cui deve fare i conti l’ambizioso tentativo di riforma del Governo. Se davvero le intenzioni fossero quelle di riformare radicalmente la scuola e l’università, se davvero si volesse restituire dignità ai lavoratori della conoscenza e a tutti i soggetti in formazione, il primo passo da compiere dovrebbe essere un decisivo investimento e un rifinanziamento adeguato della formazione pubblica. Ogni riforma dovrebbe partire da questo sostanziale dato di fatto. ¿

La riforma dell’Università

#passodopopasso

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Sarebbe assai superficiale decidere di trascura-re una figura tra i celebri “cimeli“ dell’artigianato locale reduci dall’estenuante selezione naturale professionale presentatasi nel corso degli ultimi

decenni, quale quella del sarto. La testimonianza concessa da Francesco Paradiso, in questo caso, tende a motivare una scelta di vita che si è più volte contrapposta alle difficoltà che frequen-temente hanno compromesso e compromettono tuttora la pre-senza di tali entità lavorative nell’attuale contesto sociale.

Da quanto tempo svolge questa professione a lei tanto cara? Cosa lo ha convinto a intraprendere questa strada?Ho cominciato a conoscere questo mestiere dall’età di otto anni, precisamente sessantotto anni fa. I genitori dei fanciulli a quel tempo erano soliti affidare i propri pargoli alle botteghe artigia-nali allora smisuratamente presenti a livello locale. Vi erano varie professioni alle quali i giovani potevano avviarsi, tra cui appunto quella del sarto. Negli anni ‘70 ho deciso di lavorare presso una vera e propria sartoria di Bari che purtroppo non ha retto la crisi del settore degli anni ‘80 e ‘90 e gli elevati costi, e quindi questa esperienza si è prolungata fino a poco tempo dopo. Ormai da più di venti anni ho deciso di esprimere le mie conoscenze e capacità al meglio grazie a questa piccola bottega.

Dopo anni di profonde trasformazioni, cosa rimane della ri-chiesta da parte della clientela nei confronti di una modesta attività artigianale come questa?Col passare del tempo sempre meno persone si rivolgono all’at-tività di bottega se non per esigenze di riparazione. Bisognereb-be comunque mettere in chiaro che la vera fonte di lavoro per quanto riguarda questo mestiere è rappresentata dalla vera e propria elaborazione di nuovi abiti. Questo richiede molto tempo sia in termini di raccolta delle dimensioni e delle materie prime utili sia in fase di realizzazione del prodotto stesso. Non a caso la maggior parte della gente ormai fa riferimento ai negozi di abbi-gliamento a favore di una maggior immediatezza nell’acquisto.

Quali sono i reali vantaggi di un abito fabbricato direttamente in una bottega sartoriale?Notando gli abiti che ricevo per necessità riparatorie, percepi-sco più volte l’impressione che fra un capo e l’altro non vi sia differenza. I prodotti che si vendono nei negozi hanno tutti una misura standard a cui si devono attenere e che non risaltano le caratteristiche fisiche della persona per come essa si presenta.

Un abito artigianale, definito con le sue misure potrà essere in-dossato quasi esclusivamente dal cliente che lo ha richiesto se-condo le sue proporzioni. Il tempo sicuramente provvederebbe a ripagare l’acquirente in termini qualitativi.

Cosa ha condizionato la riduzione sul territorio di botteghe ar-tigianali di questo particolare settore?Un consistente carico di responsabilità è attribuibile sicuramen-te all’esplosione del boom della confezione degli anni ‘70-’80. A causa della globalizzazione e del fenomeno della produzione di massa il settore della sartoria ha ricevuto un duro contraccol-po. Non bisogna trascurare che fino a pochi anni prima i vicoli traboccavano di queste piccole realtà artigianali. Con lo sviluppo dell’industria molti sono stati assunti da aziende che garantiva-no una maggiore stabilità economica presenti maggiormente nel nord Italia, altri sono emigrati all’estero. Questo ha favorito la graduale scomparsa di queste piccole entità commerciali.

Se dovesse fare i conti con un periodo di grande crisi occupa-zionale come quello che stiamo vivendo, quale strada sceglie-rebbe di percorrere nell’ambito lavorativo?Non posso nascondere che dedicherei ancora la mia vita a svol-gere questo mestiere. Potrebbe sembrare scontato, ma la scelta di fare il sarto appartiene ormai al mio DNA e sarebbe impen-sabile pensare di poter lasciare spazio ad altre opportunità. Ne avrei comunque colto l’occasione a tempo debito.

Crede che questa possa ripresentarsi come opportunità lavo-rativa in futuro?A mio avviso, risulterà molto difficile sperare che questo mestie-re abbia una sorta di previsione futura. Allo stato attuale sembra quasi impossibile pensare di imparare un mestiere come questo senza averlo prima appreso. Le botteghe si stanno ormai estin-guendo del tutto e molti giovani sono attratti da altre aspettative occupazionali che tra l’altro non trovano terreno fertile nel nostro ambito locale. Questo ad oggi non permetterebbe la sopravvi-venza di attività del genere. ¿

INTERVISTA AL SARTO PARADISO

Laura Castellaneta | / laura.castellaneta.7

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1° febbraio1979, la popolazione di Teheran accoglie il ritorno in patria dell’ayatollah Ruhollah Khomei-ni, tornato dal suo esilio parigino 16 giorni dopo la

partenza dell’ultimo scià di Persia. Il consiglio di reggenza non sarà mai eletto: l’ultimo governo della dinastia Pahlavi si dimise l’11 gennaio allorché l’esercito annunciò il ritiro nelle caserme. Era la prima rivoluzione iraniana, alla qua-le nel corso dei successivi mesi seguì una seconda più si-lenziosa, ma non meno importante, che segnò la nascita del regime degli ayatollah, come oggi lo conosciamo, o meglio ci illudiamo di conoscere. Le rivoluzioni sono state codifica-te dagli studiosi che hanno individuato alcune costanti, due delle quali sono generalmente presenti in tutti i fenomeni di radicale cambiamento di un regime vigente in una comunità politica. In primo luogo la presenza di masse popolari urbanizzate che condivi-dono un forte disagio sociale ed economico, le quali percepiscono il cambiamento non solo come auspi-cabile e necessario, ma soprattutto possibile, concreto, a portata di mano. Ai milioni di giovani disoc-cupati iraniani, illusi dal boom pe-trolifero e schiacciati dalla deflazio-ne degli anni ‘76-’77, non sarebbe bastata la rabbia se questa non fosse stata organizzata da «un’élite disponibile». Questa la seconda condizione necessaria e non sufficiente di una ri-voluzione, che non può prescindere dal ruolo dominante di

un gruppo sociale abbastanza forte e organizzato, o meglio motivato e disponibile a reggere le fila della rivoluzione. In Iran fu il clero sciita, alleato dei mercanti Bazarì, sicuramen-te il gruppo più organizzato all’interno della società iraniana, a guidare la rivoluzione, costringendo anche gli altri sogget-ti politici che componevano l’opposizione allo Scia Reza Pahlavi all’alleanza impari con gli ayatollah, i quali, di fatto, nel giro di qualche mese si liberarono di liberali costituzio-nalisti, socialisti, comunisti e nazionalisti per instaurare la versione radicale della Repubblica Islamica dell’Iran.

Il tema della rivoluzione è ricorrente, costituisce un comodo rifugio per gli adolescenti, per i frustrati, per i nostalgici, per

tanti altri, ma alla fine racchiude in se un principio di conservazione. In fondo, cos’è la rivoluzione in astro-nomia se non il moto di un corpo ce-leste intorno al sole? La rivoluzione in definitiva esiste solo a condizione di tradire se stessa. Non si illudano i puri di essere dalla parte della ragio-ne, come pure gli austeri liberali non si illudano che i servi non sappiano che il mondo va in una certa manie-ra. È tutta finzione e ognuno in cuor

proprio sa – anche quando recita preghiere in chiesa, mentre discute animatamente, mentre vota e manifesta – che nulla potrà mai cambiare; la rivoluzione non esiste. Una soluzione è però sempre possibile, la rinuncia a illudersi, il gesto più

qRosario Milano

Viva l Anarchia,

Una soluzione è possibile, la rinuncia a illudersi, il gesto

più rivoluzionario che esista

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, rivoluzionario che esista. Direbbe il senatore Antonio Raz-zi: «Amico mio, fatti i cazzi tuoi». Abbandoniamoci pure al qualunquismo, rinunciamo, pentiamoci di tutto questo attivi-smo, diamo un taglio all’estetica dell’antagonismo, di esse-re contro poiché in definitiva non siamo diversi da coloro i quali critichiamo, siamo fatti della stessa anima contamina-ta dall’economia politica e dal bisogno incessante di avere, di distinguerci. Facciamoci una buona dose di fatti nostri, campiamo alla giornata e accontentiamoci di una economia predatoria.

Allora sembrerà tutto più bello, come nella Corea del Nord campione del mondo di calcio 2014. «L’immaginario è il luogo della trascendenza sociale, dove nasce il pote-re», scrive Jean Baudrillard. Qui tutti siamo buoni, tutti siamo bravi e democratico-cristiani. In questo mondo circense immaginario, fare-mo finta che le stesse per-sone che, solo per amore del bene pubblico, fanno gli amministratori da vent’an-ni, non siano responsabili della situazione attuale che viviamo. L’irresponsabilità è sacrosanta e per una città affollata di impuniti e impu-nibili, piena di arroganti fac-cendieri pronti a scrivere in ciclo-stile querele per diffa-mazione: ma qual è la fama che state difendendo? Usano le leggi come scudo al giovedì e il giorno dopo aggirano e violano le norme con una violenza che farebbe invidia agli odierni tagliatori di teste dell’Eufrate. Ma questa è pura real-tà, a noi piace l’immaginario. Scrive Eric Hobsbawn in The Age of Empire (1987) che «il liberalismo è lo stato di anar-chia dei borghesi, e noi tutti borghesi e disimpegnati vivre-mo i benefici di questa anarchia legalizzata, dove gli sfigati aspetteranno le briciole cadere dalla tovaglia imbandita sulle ceneri dello stato di diritto e dello stato sociale».

Ciononostante, sappiamo anche che l’individuo è attraver-sato da pulsioni che l’ordine delle cose non può sopprime-re, può pensare di irreggimentare, sfumare, contenere, ma non può in definitiva abolirle. Per quanto possiamo sfor-zarci di non pensare, tutto questo sangue che ci sta attor-no, questa disperazione che vediamo avanzare intorno a noi non ci da tregua, non ci lascia tregua. Come la cor-sa dei tori a Pamplona, l’idea dell’azzardo c’impone di muoverci in fretta, per la necessità di mostrarsi, ma an-che per il bisogno di ritrovare una dimensione collettiva.

Tuttavia, se il clero sciita guidò la piazza di Teheran, se i bol-scevichi di Lenin s’impadronirono della rivoluzione russa e i borghesi impoveriti guidarono le masse italiane verso il fasci-smo, oggi chi potrà mai guidare la nostra resurrezione? Dove sono le masse e dove le élite disponibili? Animals (1977) fu il decimo album dei Pink Floyd. La leggendaria band raffi-gurava la società britannica degli anni Settanta composta da animali, come nell’opera di George Orwell The Animal Fac-tory (1947). Ci sono i maiali, ovviamente i politici, i cani, i custodi dell’ordine, quindi, i tutori della legge, e le peco-re, ossia il popolo obbediente. A queste specie occorrerebbe sommarne altre per descrivere appieno la fauna sociale, ad esempio i cani randagi, che nella fattoria non trovano spazio

e che si dannano l’esistenza a frugare tra i rifiuti, a gua-stare la festa, a disorientare le pecore, a minacciare l’ap-parente tranquillità. Bene, se proprio dobbiamo auto-raffigurarci preferiamo pen-sarci cani randagi, in attesa che il popolo di pecorelle sempre pronte a rinunciare a qualsiasi atto d’autono-mia scelgano finalmente di trasformarsi in masse poli-tiche coscienti della propria condizione e che trovino finalmente un’élite capa-ce di organizzarsi. Per ora all’orizzonte ci sono solo atomi, solo individui con un ego smisurato incapace di costruire un’alternati-

va all’anarchia selvaggia dei liberali al potere, ognuno at-tento alla proiezione della propria ombra, nessuno ancora capace di mettere tra parentesi l’io a favore della proposta collettiva. Se gli adepti del re Sole hanno ormai fagocitato questo Paese, fuori dalle mura l’assedio ancora non inizia perché continuano a nascere sigle, eroi e vessilli da portare, ma mancano leader capaci e, soprattutto, mancano le mas-se da guidare. Anche per questo chiederemo a tutti i ragazzi di buona volontà di partire, abbandonare questa terra dove nulla sarà mai possibile mutare. Abbandonate questo Paese, costruitevi una speranza lavorativa e culturale, andatevene e lasciate che questo paesuccio sia retto dai rivoluzionari con i calzini turchesi e da peppa pig, che è quello che meritiamo. La nostra speranza ad ottobre si chiama Mario D’A-lessandro, Spoki, che oggi lavora presso la Corte Pena-le Internazionale per i crimini in Cambogia, a Phnom Penh, un altro sul quale nessuno avrebbe scommes-so eccetto se stesso e mamma Santa, un altro miraco-lo che porta i colori della PrimaVera. Buon lavoro Mario. Dedicato a tutti gli emigranti.

Ruhollah Khomeyni

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