processo rostagno. un anno dopo

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Rostagno, un anno dopo Era il 26 settembre del 1988 quando Mauro Rostagno venne ucciso in contrada Lenzi a colpi di lupara. Anni di depistaggi hanno impedito di ricostruire i retroscena di quell’agguato mortale che solo oggi un processo sta cercando di definire di Natya Migliori 19 | aprile 2012 | narcomafie Vittime di mafia

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Excursus fra storia ed attualità di un anno di udienze e un ventennio di indagini. Di Natya Migliori

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Rostagno,un anno dopoEra il 26 settembre del 1988 quando Mauro Rostagno venne ucciso in contrada Lenzi a colpi di lupara. Anni di depistaggi hanno impedito di ricostruire i retroscena di quell’agguato mortale che solo oggi un processo sta cercando di definire

di Natya Migliori

19 | aprile 2012 | narcomafie

Vittime di mafia

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Mafia, politica, massoneria, ap-palti. Sono sempre più evidenti le connessioni che continuano ad emergere dal processo per il delitto di Mauro Rostagno, il giornalista e sociologo torinese ucciso a Trapani nel 1988. Specie dopo la deposizione del “ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra”, il collaboratore di giustizia Angelo Siino, sembra chiaro, infatti, che a decretare la morte di Rostagno non sia stato solo il capo mandamento Vincenzo Virga, sotto accusa insieme al presunto esecutore materiale Vito Mazzara, ma un complicato intreccio di nomi e interessi. Il bandolo della ma-tassa Rostagno lo aveva forse trovato. Un golpe, secondo Si-ino, firmato Licio Gelli, su cui il giornalista avrebbe indagato e che lo avrebbe quasi certa-mente portato alla morte.

Vent’anni dopo, il processo. Dopo un ventennio di false piste e vicoli ciechi, il pro-cesso aperto il 2 febbraio del 2011, a 22 anni di distanza dal delitto, e attualmente in cor-so a Trapani, sembra dunque imboccare finalmente la strada della verità.«Finora − ha dichiarato il pm della Dda di Palermo Antonio Ingroia − è stata scoperta solo una parte dei motivi del delitto. Gli stessi numerosi depistaggi che per anni hanno compro-messo le indagini dimostrano che la morte di Rostagno non è stata voluta solo dalla mafia, ma è stata dettata anche da interessi di altro tipo».Per dieci anni le indagini per l’omicidio di Mauro Rostagno, affidate alla Procura di Trapani, si sono infatti impantanate fra sopralluoghi tardivi, risposte

confuse, domande mai poste. Dal 1988 al 1998, le strade percorse dagli inquirenti ab-bracciano le relazioni del gior-nalista, la sua vita privata e il suo passato politico più del suo impegno professionale. Principali sospettati, in un primo momento, i compagni di Lotta Continua, fondata nel 1969 da Rostagno insieme ad Adriano Sofri, Guido Viale, Marco Boato, Enrico Deaglio, Giorgio Pietrostefani, Paolo Brogi.Il presunto coinvolgimento di Rostagno nel delitto del commissario Luigi Calabresi (ucciso nel 1972), insinuato dalle “confessioni” dell’ex compagno di partito Leonardo Marino, ed un avviso di com-parizione inviato al giornalista dalla Procura di Milano poco tempo prima dell’omicidio, aprono la cosiddetta “pista Calabresi”, smentita in via de-finitiva nell’ambito dell’attuale dibattimento: «Pista sondata, niente riscontri», è la pronta affermazione del pm Gaetano Paci.

La realtà di Saman. L’altro filone d’inchiesta seguito per anni dagli inquirenti trapanesi riguarda invece “Saman”, la comunità per il recupero da tossicodipendenze creata dal giornalista in contrada Lenzi, a pochi chilometri da Trapani, insieme all’imprenditore Fran-cesco Cardella. Si tratta della cosiddetta “pista interna”. A Saman è lo stesso Rostagno a curare la riabilitazione, sulla base delle tecniche di medita-zione e della filosofia di vita apprese da Bagwan Rajneesh (Osho) in India. Il giro di eroi-na scoperto all’interno della

comunità nell’agosto dell’88 avrebbe scatenato la reazione di Rostagno e i rancori di alcu-ni degli ospiti nei confronti del terapeuta, per gli inquirenti un probabile movente dell’omici-dio. Ma anche le indagini sulla pista interna si arenano, fino a quando, nel 1996, il procu-ratore di Trapani Gianfranco Garofalo, deciso ad escludere ogni coinvolgimento della ma-fia nella vicenda, focalizza i propri sospetti sulla testimone oculare del delitto, Monica Serra, su Giuseppe “Juppiter” Cammisa, braccio destro di Ciccio Cardella, sui legami fra la compagna di Rostagno, Chicca Roveri, e Luciano Mar-rocco, altro ospite di Saman, nonché sullo stesso Cardella. Per tutti scattano gli avvisi di custodia cautelare.Chicca Roveri e Monica Ser-ra finiscono in prigione con l’accusa di favoreggiamento, mentre Cardella, individuato come mandante dell’omicidio, fugge in Nicaragua, dove, fino alla morte avvenuta lo scorso agosto, lo attende una fiorente carriera diplomatica. Latitante, in Ungheria, anche Cammisa, presunto esecutore materiale del delitto.Un grosso peso viene attribuito ai riconoscimenti fotografici di Silvana ed Emilia Fonte. Le due sorelle, allora di 13 e 17 anni, sostengono di aver visto la sera del 26 settembre una Fiat Uno inseguire la Fiat Duna di Rostagno e di aver scorto i visi dei passeggeri.La testimonianza delle Fonte sembra trovare conferma nel rinvenimento, il giorno dopo il delitto, di una Fiat Uno com-pletamente carbonizzata in contrada Rocca Giglio, indi-

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viduata dagli inquirenti come l’auto usata dai killer e risul-tata rubata a Palermo circa tre mesi prima. Tuttavia, i quattro fascicoli fotografici sottoposti dalla Digos e dal Reparto ope-rativo dei Carabinieri nel ’96 generano contraddizioni nelle testimonianze delle Fonte. I ricordi, i visi e le foto segna-letiche si sovrappongono. Nel corso dell’attuale processo, la stessa Silvana ammette di non aver mai avuto certezze. Una confusione plausibile, dati gli otto anni trascorsi dai primi confronti alle indagini di Garofalo, che vale lo sca-gionamento degli indagati da parte del Tribunale del riesame per insufficienza di prove. È l’abbandono definitivo della pista di Saman.Una questione però riemerge anche fra i banchi del Tribu-nale trapanese: i registri di presenza relativi alla notte dell’omicidio, che i Carabi-nieri depositano agli atti in formato elettronico, appaiono visibilmente alterati rispetto all’originale scritto a mano. Chi c’era (o non c’era) a Sa-man quella notte? Chi altera i registri? E perché?

L’intuizione di Linares. Nel 1998 gli atti passano alla Dire-zione distrettuale antimafia di Palermo, che iscrive nel regi-stro degli indagati il boss trapa-nese Vincenzo Virga. La pista mafiosa viene ufficialmente aperta, ma gli anni trascorsi e le prove oramai inquinate costringono nel 2007 il giudice Antonio Ingroia a richiederne l’archiviazione.È l’intuito dell’ex dirigen-te della Squadra mobile di Trapani Giuseppe Linares a

scongiurare, nel 2008, che gli assassini di Rostagno restino senza un volto.Linares effettua, per la prima volta nella storia dell’indagine, una comparazione balistica che permette di risalire ad un altro importante esponente di Cosa nostra: Vito Mazzara. Plu-riergastolano, già condannato per l’omicidio, tra gli altri, dell’agente scelto di polizia penitenziaria Giuseppe Mon-talto, Mazzara è ex campione nazionale di tiro al volo e uomo di fiducia del boss.«Quello che sparava sempre − ha asserito il pentito della famiglia di Paceco Francesco Milazzo durante la deposizio-ne del 23 novembre − era Vito Mazzara. Ha partecipato a di-verse gare e poteva sparare e modificare le armi con facilità. Portava sempre con sé un fucile calibro 12 e una pistola calibro 38». Le stesse armi con cui Mauro Rostagno è stato freddato la sera del 26 settembre 1988 all’interno della sua auto.La prova balistica, insieme ad un appello alle autorità pro-mosso dall’associazione Ciao Mauro e firmato da diecimila persone, ha finalmente permes-so di aprire, il 2 febbraio dello scorso anno, a distanza di 22 anni dalla morte del giornali-sta, le porte dell’aula bunker Giovanni Falcone, presso il Tribunale di Trapani.Davanti alla Corte d’Assise, presieduta dal giudice Angelo Pellino, e ai magistrati della Dda palermitana Antonio In-groia, Gaetano Paci e Francesco Del Bene, hanno deposto in un anno circa quaranta dei trecento testi iscritti alle liste di pm, difesa e avvocati di parte civile.

Alla difesa, gli avvocati Vito e Salvatore Galluffo per Mazzara, Giuseppe Ingrassia e Stefano Vezzadini per Virga.Le divergenze fra le piste se-guite allora dai Carabinieri e la linea investigativa abbracciata dalla Polizia e dalla Procura di Palermo emergono con forza dalle udienze tenute finora.

Le indagini: il filone econo-mico. «Non ho mai perso la fiducia nella giustizia −si sfoga durante la propria deposizione Chicca Roveri− ma per anni gli inquirenti non hanno operato alcuna indagine sulla mafia. Indagavano piuttosto sui nostri amori, presentati come una soap opera, sulle nostre vicen-de personali o sulle spese di Saman. Nessuno ha mai sentito i redazionali di mio marito o ha mai dato peso al fatto che Mauro facesse il giornalista in una città che conviveva con la mafia. Forse ancora oggi, se si pensa che il super la-titante Messina Denaro vive tra noi».Beniamino Cannas, ex bri-gadiere dei Carabinieri, oggi luogotenente al comando di Buseto Palizzolo, e Nazareno Montanti, comandante del nu-cleo operativo durante le in-dagini preliminari sul delitto, ora a riposo, tentano in sede di dibattimento una spiegazione della pista interna come filone quasi esclusivo delle indagini fino al ’96.«Non esisteva nessuna pista interna −si giustifica di fronte ai pm il comandante Cannas in terza udienza− ma il nostro interesse andava su singoli fatti specifici e su delega».«In realtà non scartavamo nulla − ha dichiarato ancora durante

«Il delitto di Mauro Rostagno – spiega il pm Gaetano Paci –

si inserisce nel contesto trapanese

della fine degli anni Ottanta in cui

importanti pezzi dell’imprenditoria,

della politica, del mondo istituzionale

hanno certamente avuto rapporti di

collusione con l’organizzazione

mafiosa. Le indagini sull’omicidio hanno

avuto il merito di chiarire quel

contesto ed evidenziare il profilo

del giornalista. Rostagno e la sua

ricerca della verità facevano paura»

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la terza udienza Montanti− ma dovevamo tenere conto di quello che avevamo in mano e cioè i rapporti all’interno della comunità. Ci insospettiva anche il fatto che Cardella, in tempi secondo noi troppo brevi, era riuscito a raggiun-gere Palermo da Milano, im-barcandosi sul primo aereo senza alcuna prenotazione. Circostanza che riscontrammo con il personale dell’aeroporto di Linate. E inoltre c’erano le irregolarità amministrative emerse a Saman».Il riferimento di Montanti è agli illeciti che, nella metà degli anni 90, portano a Cardella e alla Roveri una condanna per truffa e peculato nei confronti di Saman: sessanta miliardi di lire movimentati grazie all’attivazione di corsi fanta-sma finanziati dalla Regione Sicilia.È il vice questore Giovanni Pampillonia, ex capo della Digos di Trapani, a esporre in dibattimento l’indagine sul filone economico-finanziario: «Otto anni dopo l’omicidio − spiega durante la deposizio-ne del 30 marzo − iniziammo un’attività d’indagine sulle casse di Saman. Se questa pista fosse stata indagata subito, oggi probabilmente avremmo molti più elementi su cui ri-flettere».La difesa rincara: «Se miopie ci sono state − asserisce l’avvo-cato Vito Galluffo − è doveroso accertarle. Gli arricchimenti paurosi riscontrati all’interno di Saman potrebbero portare ai veri assassini e ai veri man-danti dell’omicidio».Nonostante le riserve nutrite tutt’oggi dalla Dda su un pos-sibile ruolo di Cardella, i pm

sono irremovibili.«Gli interessi economici e fi-nanziari di Saman − è la tesi dei magistrati palermitani − nella persona di Cardella non saran-no ricostruiti in sede proces-suale perché non conducono agli imputati odierni».

La firma del killer. A Montan-ti, Cannas e Pampillonia resta invece da chiarire perché per tanto tempo siano state lasciate fuori dalle indagini la mafia e l’attività giornalistica di Rosta-gno, «nonostante gli editoriali di Rostagno − sottolinea Gae-tano Paci − segnino una netta linea di demarcazione rispetto alle ipotesi investigative del passato, individuati come mo-vente dell’omicidio anche dai collaboratori di giustizia».«Sulla pista mafiosa – spiega Montanti ai pm − non avevamo niente. Durante le indagini, anzi, finivamo per raccoglie-re elementi che sembravano escluderne ogni coinvolgimen-to, come la probabile esplo-sione del fucile o le cartucce ricaricate, abitudine casomai dei cacciatori che vogliono risparmiare. Ci sembrò un omicidio alla “carlona”. Le trasmissioni di Rostagno, poi, non penso fossero molto se-guite: io stesso non ne sentivo parlare e non le vedevo perché rientravo tardi la sera. Non era in ogni caso l’unico giornalista a scrivere contro la mafia».Deduzioni contraddette, in se-conda udienza, dal capo della Squadra mobile di allora, Rino Germanà, che da subito indica la pista mafiosa: «Ritenemmo Rostagno ucciso dalla mafia proprio per le modalità se-guite dal commando omicida, a nostro avviso tutt’altro che

disorganizzato. Lo dimostra il fatto che abbiano utilizzato un’auto rubata tre mesi prima e che fu ritrovata solo il giorno successivo al delitto completa-mente carbonizzata. Con ogni probabilità la Fiat Uno era ri-masta nascosta fino al giorno del rinvenimento. Nella cava di Rocca Giglio, infatti, sia noi che i Carabinieri avevamo effettuato diverse ispezioni. Questo non è un modus ope-randi da sprovveduti, ma da gruppi organizzati. E che fa pensare ad una esecuzione per un fatto grave, non per semplice vendetta».Anche le perizie balistiche guidate da Linares confermano la tesi di Germanà e dei pm, stringendo il cerchio sull’at-tuale imputato Vito Mazzara: «Il delitto Rostagno − spiega Linares − per le modalità di esecuzione e per le armi usate combacia perfettamente con altri omicidi seriali commessi dallo stesso Mazzara. La firma del killer era la sua ripetuta abitudine a marcare le cartucce per rendere impossibile ogni perizia balistica, insieme al sovraccarico delle munizioni. Circostanza, quest’ultima, che il 26 settembre del 1988 fece esplodere il fucile usato per uccidere Rostagno».Riguardo poi alle inchieste giornalistiche di Rostagno, la loro importanza era in quegli anni, a Trapani, sotto gli occhi di tutti.

Un giornalista fuori dal coro. «Il delitto di Mauro Rosta-gno − spiega ancora Gaetano Paci − si inserisce nel conte-sto trapanese della fine degli anni Ottanta in cui importanti pezzi dell’imprenditoria, della

«Non ho mai perso la fiducia nella giustizia – afferma durante la propria deposizione Chicca Roveri – ma per anni gli inquirenti non hanno operato alcuna indagine sulla mafia. Indagavano piuttosto sui nostri amori, presentati come una soap opera, sulle nostre vicende personali o sulle spese di Saman. Nessuno ha mai sentito i redazionali di mio marito o ha mai dato peso al fatto che Mauro faceva il giornalista in una città che conviveva con la mafia. Forse ancora oggi, se si pensa che Messina Denaro vive tra noi»

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politica, del mondo istituzio-nale hanno certamente avuto rapporti di collusione con l’organizzazione mafiosa. Le indagini sull’omicidio hanno avuto il merito di chiarire quel contesto ed evidenziare il pro-filo del giornalista. Rostagno e la sua ricerca della verità facevano paura».In una Trapani dove il silen-zio è dura imposizione del sistema mafioso, attraverso le frequenze di Rtc (Radio Tele Cine), emittente locale gestita dall’editore Puccio Bulgarella, recentemente scomparso, Ro-stagno grida nomi, cognomi e fatti per mostrare a tutti rela-zioni e connivenze fra politici, imprenditori e mafiosi locali. Rostagno fa un gran chiasso e Trapani tace ancora. Ma, questa volta, per ascoltarlo.«Mauro − racconta Carla Ro-stagno, sorella del giornalista, ascoltata in sedicesima udien-za − cercava di ridare una co-scienza civica ai cittadini. Di questa terra si era innamorato e combatteva con le armi che aveva, ossia con la parola».«Uno schema scritto da Mauro e che ho prodotto al dottor Garofalo e al dottor Pampillo-nia − specifica Chicca Roveri, compagna di Rostagno, durante l’udienza del 20 aprile 2011 − coglie l’intreccio tra certe indagini ferme al Palazzo di Giustizia di Trapani, la raffine-ria di droga scoperta in contra-da Virgini, la loggia massonica Iside 2 e il delitto di Ciaccio Montalto. Mauro aveva capito e voleva denunciare l’intero si-stema di collusioni. Per questo mio marito è morto».È Linares a chiarire il contesto della Trapani degli editoriali di Mauro.

«Alla fine degli anni 80 − spiega l’attuale direttore della divisione Polizia anticrimine trapanese − il territorio veni-va assalito da speculazioni e appalti truccati, mentre la mafia diventava un tutt’uno con l’imprenditoria e la po-litica. Nessuno ostacolava, nessuno parlava. Rostagno rompe l’andazzo. È un giorna-lista fuori dal coro e la gente lo ascolta e gli dà ragione. Per Cosa nostra è troppo. I pentiti stessi hanno confer-mato i malumori della mafia nei suoi confronti. Mauro era circondato dai lupi e i lupi lo hanno azzannato».«Totò Riina − conferma il pen-tito Giovanni Brusca, interro-gato lo scorso 21 dicembre − mi disse “si sono levati questa camurria” (rogna, ndr). Riina si riferiva ai mazaresi, perché erano loro a gestire Cosa nostra a Trapani. Era Virga però il capo mandamento a Trapani e, considerato che il delitto doveva compiersi nel suo ter-ritorio, è stato necessariamente lui a dare l’incarico».«In carcere il programma di Rostagno lo sentivamo tut-ti − aggiunge il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara durante la deposizione dell’11 gennaio − e i commenti erano delle vere e proprie parolac-ce. Rostagno era pericoloso per ciò che indagava, diceva e faceva. Ma non dava fastidio solo a Cosa nostra. Parlava male anche della massoneria e di uomini delle istituzioni che non doveva toccare. In poche parole, doveva essere ucciso».

I verbali Faconti. Le inchieste e le denunce di Rostagno scot-

tano. A confermarlo, i verbali degli interrogatori sostenuti dal 1989 al 1997 da una stretta collaboratrice del giornalista, Alessandra Faconti, scomparsa nel 2007.«Mauro − si legge sui verbali Faconti nell’ambito della quat-tordicesima udienza− stava cercando di dimostrare che la loggia massonica Iside 2 di Trapani, i Cavalieri del Lavoro di Catania, la mafia catanese e la famiglia mafiosa di Mariano Agate erano tra loro collegati da un ingente riciclaggio di denaro sporco connesso a traf-fici di armi con il nord Africa. Più esattamente, secondo lui, le armi provenivano dai paesi del Medio Oriente, transita-vano per il nord Africa e da qui venivano trasportate, con il coinvolgimento di Mariano Agate, a Marsala e Mazara del Vallo su navi tunisine, soma-le, marsalesi o mazaresi. La mafia prelevava il quantitati-vo d’armi che necessitava ed organizzava il trasporto del rimanente carico verso i paesi dell’est europeo».La verità sul traffico d’armi è offuscata da una nebbia di sospetti, videocassette sparite e personaggi ambigui. Come Sergio Di Cori. È Giovanni Pampillonia a parlarne in di-battimento. L’ex capo della Digos di Trapani ricorda di aver appreso da un giornalista sedicente amico di Rostagno, Sergio Di Cori, di un traffico d’armi fra l’Italia e la Somalia, che avrebbe avuto come base operativa l’ex pista militare di Kinisia. Aggiunge anche di aver effettuato dei sopralluoghi insieme a Di Cori.«Nel ’96 − spiega Chicca Ro-veri durante l’udienza del 13

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aprile − Di Cori si presentò come amico di Mauro e mi parlò di una cassetta con le immagini di un traffico d’armi che mio marito aveva ripreso a Kinisia. Per telefono mi disse anche che sapeva chi aveva ucciso Mauro. Io però non lo avevo mai visto né sentito nominare. E pensai subito che se qualcuno è a conoscenza della verità su un delitto, non viene a raccontarla dopo otto anni. Insomma, non mi sembrò credibile».

«Nessuno − avalla Carla Ro-stagno − ha mai confermato la conoscenza tra Mauro e Di Cori. È un personaggio ambi-guo e non ha mai fornito alcuna argomentazione concreta. Una volta mi chiamò persino per chiedermi dei soldi in pre-stito».A detta di molti dei testimo-ni, una cassetta video a cui Rostagno teneva in particolar modo pare tuttavia essere real-mente scomparsa. Ma che cosa contenesse nessuno sembra

saperlo.

Cosa nostra impren-ditrice. È ancora una volta la recente de-posizione di Siino a gettar luce sui rappor-ti fra Cosa nostra e imprenditoria.«Io ero geometra e im-prenditore − spiega il collaboratore du-rante la ventiquat-tresima udienza − e mettevo le imprese in contatto con Cosa nostra. Ero io stes-so ad occuparmi di chi doveva vincere la gara di appalto. La “messa a posto”, di solito in percentua-le del tre per cento, lasciava contenti gli imprenditori perché non richiedeva loro particolari obblighi e li garantiva sot-to diversi profili. Sapevo che anche gli imprenditori catanesi Rendo, Costanzo e Graci operavano a Tra-pani e avevano come riferimento

Totò Minore.I politici gestivano e a loro volta dovevano pagare la ma-fia. A Trapani qualche volta ho avuto frequentazioni con ambienti della massoneria. Io stesso ero massone».Il quadro della Faconti sembra inoltre confermato dai faldoni che l’avvocato Nino Marino, amico del giornalista, conse-gna alla Corte d’Assise durante il processo. Sono appunti di Rostagno affidati all’ex segre-tario del Pci da Chicca Roveri poco dopo il delitto. Fra carte e schemini manoscritti, lo stesso inquietante panorama di traffici di droga ed armi, massoneria e mafia. Probabilmente ciò che resta dell’ultima inchiesta di Mauro.«All’epoca − dichiara Marino in dibattimento − la mafia tra-panese cominciava a collocare i suoi uomini in politica. Nel Consiglio provinciale era stato eletto Vito Panicola, consuo-cero di Messina Denaro, e a Castelvetrano un genero dello stesso boss. Era inoltre scop-piata una sorta di tangentopoli che vide l’arresto di assessori e consiglieri comunali e venne scoperta la loggia massonica Isi-de 2. Noi attivisti percepivamo che a Trapani i servizi segreti avevano messo le radici. Lo stesso anno venne fuori che ben cinque centri Gladio erano stati aperti, persino nel minuscolo centro di Santa Ninfa. Prima di morire, Mauro stava lavorando a questi legami. Rostagno aveva anche la certezza che Licio Gelli, il capo della P2, per due volte era stato a casa di Mariano Agate e Natale L’Ala, entrambi membri delle logge coperte di Trapani».Presenza definitivamente con-

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fermata il 29 febbraio scorso dalla testimonianza di Angelo Siino. «Durante il periodo del se-questro inscenato da Michele Sindona (il banchiere mem-bro della loggia P2, tessera n. 0501, condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, ndr) nell’agosto del 1979 – ha di-chiarato Siino – Gelli venne a Palermo e per un giorno intero sparì. Venni a sapere successivamente che aveva incontrato i fratelli trapanesi per un progetto di golpe che si voleva mettere in atto. Più che di un golpe in realtà si trattava di un ricatto che si voleva compiere nei confronti di Andreotti».Pare che lo stesso Rostagno avesse fornito ai Carabinieri le informazioni sulla loggia massonica Iside 2 e sul pas-saggio di Gelli a Trapani di cui era venuto a conoscenza. Ma i responsabili delle indagini, fra i quali l’ex brigadiere Be-niamino Cannas, non le hanno mai trasmesse. L’omissione emerge nel corso della settima udienza.Di fronte alle domande incal-zanti dei pm, numerosi sono stati infatti i “non ricordo” del comandante Cannas, che ha ribadito come, all’epoca dei fatti, si occupasse di droga e non di mafia o massoneria.Tanti i “non ricordo” anche del generale Montanti. Eppure, Montanti avrebbe do-vuto ricordare ogni dichiara-zione sulle logge massoniche trapanesi degli anni 80. La Squadra mobile e la Guardia di finanza avevano sequestrato dal Centro studi Scontrino, copertura della loggia Iside

2, elenchi ed agende da cui emergevano nomi di politi-ci (tra i quali l’ex deputato dell’Ars Francesco Canino, leader storico Dc, arrestato nel 1998 per associazione mafiosa, e l’onorevole Udc Calogero Mannino, arrestato nel 1995 e prosciolto nel 2008), imprendi-tori, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e personag-gi vicini alle cosche mafiose. Nomi e relazioni che è toccato a Montanti identificare. Ma il generale dimentica tutto. Per-sino il suo stesso rapporto del 1987 sulla presenza di Licio Gelli a Trapani.

Le minacce. «Nonostante l’evi-dente valenza degli editoriali di mio fratello − si sfoga Carla Rostagno − solo sette mesi dopo la sua morte qualcuno pensò di sequestrare e visiona-re le cassette di Rtc. So per cer-to inoltre che alcune cassette sono state a disposizione degli inquirenti ma sono sparite. Dove sono finite?».Certo è che qualcuno prova ad intimare a Mauro di smettere. E le intimazioni non arrivano solo dai boss trapanesi.Ancora sui verbali Faconti si legge: «A Mauro fu fatta richie-sta di cambiare l’impostazione dei suoi editoriali. Mi riferì anche che alcuni personaggi influenti trapanesi gli avevano “consigliato” di lasciar perdere la sua inchiesta sulla loggia Scontrino».È Ninni Ravazza, giornalista, ex collega di Rostagno ad Rtc, a darne testimonianza in un-dicesima udienza: «Qualche mese prima dell’omicidio − racconta − io e Mauro fummo convocati dall’editore di Rtc Puccio Bulgarella. Ci disse di

stare attenti perché qualcuno si stava incazzando».Quel “qualcuno”, secondo Siino, era Francesco Messina Denaro, ’u muraturi, infastidi-to dal fatto che il giornalista di Rtc non tenesse a freno la lingua neanche sulla questione degli appalti.«Messina Denaro − spiega il pentito alla ventiquattresima udienza − mi disse che vole-va “rompere le corna” a Ro-stagno. Riferii a Bulgarella il pericolo che correvano lui e, soprattutto, il giornalista e gli raccomandai di frenarlo».«Siino ed altre persone della normale borghesia trapanese − conferma durante l’udienza del 29 febbraio 2012 Caterina Ingrasciotta, moglie del defun-to editore − avevano espresso a mio marito un certo disagio per gli interventi in tv di Ro-stagno. Non ricordo i nomi di chi si lamentava di Rostagno, ma a dare fastidio credo fosse la scelta di Mauro di incidere sul costume dei trapanesi, pur non denunciando, in realtà, nessun fatto nuovo. Non si trattò però di vere e proprie minacce».«Durante un suo editoriale − ricorda la Roveri − mio marito spiegò che un suo caro amico gli aveva consigliato di abbas-sare i toni, perché rischiava di fare male alla Sicilia e alla comunità. Mauro aggiunse che la migliore pubblicità per la Sicilia era affermare che la mafia esiste e va abbattuta».Il suggerimento di cambiare registro non viene dunque raccolto da Rostagno. E, an-cora secondo i verbali Faconti, sembra mettere a dura prova il rapporto di amicizia con Cardella.

«In carcere il programma di

Rostagno lo sentivamo tutti –

aggiunge il collaboratore di

giustizia Vincenzo Calcara durante la

deposizione dell’11 gennaio – e

i commenti erano delle vere e proprie parolacce. Rostagno

era pericoloso per ciò che indagava,

diceva e faceva. Ma non dava fastidio

solo a Cosa nostra. Parlava male anche della massoneria e

di uomini delle istituzioni che non doveva toccare. In

poche parole doveva essere ucciso»

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Ha gli occhi al solito “vispi”, curiosa, muove le pupille conti-nuamente guardandosi attorno, guarda la gente, i giovani, si sof-ferma su chi entra in aula con la toga, i pm, gli avvocati, ma non è più circondata da giornalisti e telecamere come fu all’inizio del processo per il delitto di suo padre, Mauro. Un processo arrivato 23 anni dopo il delitto, l’omicidio è del 26 settembre 1988, vittima dei sicari in Sici-lia, a Trapani, più esattamente a Lenzi di Valderice, fu Mauro Rostagno, sociologo, ex sessan-tottino, fondatore tra gli altri di Lotta Continua, uomo dalle mille vite, l’ultima fu quella da giornalista che affiancò a quello da terapeuta in un comunità di recupero, Saman, a pochi metri dal cancello della comunità fu ucciso quella sera. Maddalena, sua figlia, quindicenne all’epo-ca della morte, con sua madre, Chicca Roveri, si alternano ad ogni udienza per arrivare da Torino a Trapani per seguire le udienze, in poco più di un anno nemmeno 30. Per strada durante questi mesi si è perdu-ta quell’attenzione iniziale dei mass media. Maddalena muove gli occhi che tradiscono fastidio per qualunque cosa dia disturbo al processo, offuschi lo scenario. Chicca spesso fa spallucce ma non si arrabbia meno della figlia, ripete di conoscere Trapani e di concordare con chi dice che la morte del marito fermò quel processo di rivoluzione, riscatto. Era questo che voleva la mafia. Per 23 anni quel delitto è pas-sato per un delitto di “corna”, tradimenti vari, spuntò fuori la pista degli “amici”, lei Chicca si trovò travolta, finì anche in carcere. Anche quando parla di queste cose Chicca Roveri ti accoglie col sorriso e ti colpisce per quel volto pieno di rughe:

«Sono quelle del dolore» spiega, lei fu Clitemnestra agli occhi di investigatori e magistrati quando la pista per il delitto Rostagno divenne quella interna alla co-munità Saman, accadde nel 1996, con l’operazione “Codice Rosso” diretta dalla Procura di Trapa-ni. Le piste diverse dalla mafia piacevano a tanti soprattutto a Cosa nostra e ai suoi complici. Durante un summit a Mazara, il boss Mariano Agate poco dopo il delitto, ad una domanda di uno dei mafiosi locali sul per-ché Rostagno fosse stato ucciso, rispose, “delitto di corna fu” e così per anni questo si disse, mentre i pentiti vennero a rac-contare che Rostagno dai capi mafia era appellato nel peggiore dei modi, il più elegante quello che fosse una “camurria”. Altro che corna.

Mauro Rostagno fu ammazzato la sera del 26 settembre del 1988 a Lenzi, territorio di Valderice. Guidava una Fiat Duna Bianca, con lui c’era la giovanissima Monica Serra, stavano facendo rientro alla comunità Saman, arrivando da Rtc, la tv nella quale lavorava oramai da due anni, i killer spararono lascian-do la ragazza miracolosamente illesa. Poi lei corse in comunità a dare l’allarme. Per la Procu-ra antimafia di Palermo fu la mafia a volere morto Rostagno e imputati sono nel processo davanti alla Corte di Assise due mafiosi oramai conclamati per le sentenze che li riguardano diventate definitive, Vincenzo Virga, capo del mandamento di Trapani, come mandante, e Vito Mazzara, ex campione di tiro a volo, uno che andava a spara-re assieme a Matteo Messina Denaro, si esercitava ucciden-do uomini. Rostagno sarebbe stato uno dei bersagli. Virga e

Mazzara scontano ergastoli per altri delitti. L’accusa è precisa. «Rostagno – dice il pm della Dda di Palermo Gaetano Paci – è stato ucciso dalla mafia perché faceva paura come giornalista, a Trapani come dimostrato in altre sentenze c’era insediato un sistema di potere che aveva paura che Rostagno diventasse specchio di quella realtà crimi-nale, che la raccontasse con fin troppa dovizia di particolari in tv». Ed ha aggiunto illustrando le fonti di prova: «Questo processo non si sarebbe potuto fare senza l’impegno degli uomini della Po-lizia diretti dal dottor Giuseppe Linares (il capo della Mobile che all’epoca della riapertura delle indagini proponendo una perizia balistica e riascoltando i pentiti permise alla Dda di non archiviare le indagini, ndr) e la caparbietà del dott. Ingroia». «A parere nostro quelli prodotti dall’accusa – dice il pm Ingroia – sono elementi robusti, abbiamo ottenuto dalle indagini elementi importanti sulle responsabilità della famiglia mafiosa di Tra-pani».I testi dell’accusa hanno rico-struito il periodo trapanese di Rostagno, in quel 1988 la ma-fia cambiava pelle, diventava maggiormente imprenditoriale, mafiosi diventano imprenditori e politici, Cosa nostra si metteva in proprio. Il film “I cento passi” dedicato alla storia di Peppino Impastato di Cinisi, compagno di lotte di Mauro Rostagno, rendono molto chiaro l’ambiente in cui Impastato si trovava, appunto “a cento passi” dalla mafia, abitava vicinissimo al capo mafioso don Tano (seduto lo chiamava lui) Ba-dalamenti. Rostagno era ancora più vicino alla mafia, a cinque passi, tanti ne doveva fare per arrivare dalla sua stanza a quella dell’editore della tv dove era

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di Rino Giacalone

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andato a lavorare, l’imprenditore Puccio Bulgarella, un imprendi-tore che parlava con il ministro dei lavori pubblici di Cosa no-stra, Angelo Siino, che quando decise di collaborare raccontò di come a Bulgarella avesse detto chiaramente che per i suoi inter-venti in tv Rostagno rischiava di essere ucciso e perciò lo invitava a farlo fermare. Bulgarella nel frattempo è morto. Tanti i pentiti sentiti in questa prima fase del dibattimento, tutti a ricordarsi di quel periodo e di quell’uomo vestito di bianco e con la barba che da quella tv le cose non le mandava certo a dire, ma le diceva lui diret-tamente. Rostagno in tv dava fastidio alla mafia ed ai mafio-si già solo perché sollecitava i trapanesi ad essere più attenti. «Faceva il terapeuta mio padre – ha ricordato in aula quando fu sentita sua figlia Maddalena – faceva il terapeuta fuori e an-che a casa». Ma da ultimo aveva scelto di fare il terapeuta di una città che ancora oggi a proposito della presenza mafiosa tentenna pericolosamente.Tutto portato dentro le indagini. Trapani tentennava e tentenna davanti alla mafia, chi inda-ga pure, almeno una volta in quest’ultimo caso. Non ci sono indagini che hanno conosciuto così tante disattenzioni e sot-tovalutazioni come queste per l’omicidio Rostagno. E i carabi-nieri citati come testi nel pro-cesso sono venuti candidamente a dirle queste cose. Il verbale di sopralluogo sulla scena del delit-to presentato mesi e mesi dopo, perquisizioni prima negate poi confermate, informazioni dimen-ticate, incredibili giustificazioni. La Polizia in quel 1988 imboccò subito la pista mafiosa, per i carabinieri le cose non stavano in questo modo e il ritrovamento

di cartucce sovraccaricate per i carabinieri era indice del fatto che a sparare erano stati sprov-veduti, non killer professionisti, «perché era abitudine dei cac-ciatori – dice l’ex comandante del reparto operativo dell’arma, oggi generale Nazareno Montan-ti – sovraccaricare le cartucce», ma Rostagno non morì per un incidente di caccia, e anni dopo si incrocerà che c’era un killer di mafia che aveva questa abi-tudine, e cioè Vito Mazzara. Tra le circostanze emerse quello che più di tutti aveva contatti con Rostagno quando era vivo era un maresciallo dei carabinieri, Be-niamino Cannas, tanto questi era una fonte di Rostagno che per un paio di volte lui sentì Rostagno a verbale, dimenticandosi poi del contenuto di quei verbali al mo-mento dell’omicidio. Documenti entrati nel dibattimento quando era già in corso da mesi. Carte spuntate fuori come dal nulla. In quei verbali Rostagno faceva riferimento alla presenza della massoneria, alla presenza in città di Licio Gelli, alle conviviali fatte con mafiosi e massoni. Tutte notizie che aveva appreso, ma

che al momento opportuno non vennero tenute in considerazio-ne da chi indagava. Durante le indagini poi sono spariti dagli uffici dell’Ama i brogliacci delle intercettazioni, nastri finirono smagnetizzati, tracce importanti che scomparivano, mentre si diceva che Rostagno era stato ucciso dai suoi amici.Rostagno come giornalista non piaceva ai mafiosi, «dava fasti-dio» hanno detto i pentiti, «era circondato dai lupi e i lupi lo hanno azzannato» ha detto al momento degli arresti l’allo-ra capo della Mobile Giuseppe Linares. La sede del Comune di Trapani, Palazzo D’Alì, lui, Rostagno, la chiamava «Palazzo D’Alì dei 40 (tanti erano i consi-glieri comunali ndr) ladroni». E i politici sbuffavano. La sera che Rostagno fu ucciso, era riunito il Consiglio comunale a Trapani, ma tutti, apprendendo la notizia del delitto, si guardarono bene dal sospendere la seduta.Mancava la capacità di indigna-zione, la stessa capacità manca ancora oggi, Rostagno resta di-menticato da molti, ma purtrop-po non solo a Trapani.

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Le diffidenze di Rostagno. Stando alla Faconti «i contrasti con Cardella cominciarono dopo che Mauro aveva attac-cato in tv la loggia Scontrino e aveva denunciato la mala amministrazione di Marsala, in mano ai socialisti (a cui l’imprenditore, amico stretto di Bettino Craxi, era molto vicino, ndr)». «In effetti − aggiunge Carla Rostagno − fra Mauro e Fran-cesco c’era molto feeling, ma nell’ultimo periodo lui e mio fratello non si parlavano e non si salutavano più. C’era stata una rottura irreparabile. Subito dopo i funerali scoprii anche che Mauro non dormiva più al “Gabbiano”, la struttura di Saman riservata ai fondatori. Trovai per caso anche il fax con cui gli veniva comunicata da Francesco la cacciata e ne feci una fotocopia. Successi-vamente chiesi spiegazioni. In particolare Beniamino Cannas e Monica Serra mi parlarono di liti furibonde fra Cardella e Mauro avvenute qualche mese prima dell’omicidio. L’oggetto della discussione non lo cono-scevano, ma ipotizzarono che Francesco si fosse offeso poiché Mauro non lo aveva nominato in occasione di un’intervista rilasciata a Claudio Fava e pub-blicata su «King» ad agosto. È un’ipotesi che non mi ha mai convinta. Ho sempre ritenuto che ci fosse dell’altro».Sono infatti molto pesanti, come pesante è il provvedi-mento, le parole sul fax che sancisce la cacciata di Mauro dal Gabbiano: «Sostanzialmen-te falso, ingeneroso, inoppor-tuno e pericoloso». «Mauro – è ancora la Faconti a parlare − mi disse che era

convinto di non potere parlare più con nessuno a Saman, nem-meno con Cardella. Forse per-ché aveva scoperto che questi faceva parte della massoneria. Mi disse che voleva realizzare per conto della Rai un servizio sulle cose da lui scoperte».

La speranza e l’amarezza. Dalle ultime deposizioni emer-gono altre vicende e altre ve-rità. Le testimonianze che la Corte d’Assise raccoglie dai collaboratori di giustizia Mi-lazzo, Sinacori, Brusca e Calca-ra gettano luce sui rapporti tra le famiglie di Marsala, Mazara del Vallo e Trapani, sul cambio di guardia nel 1985 fra Totò Minore e Vincenzo Virga, sui legami politico-mafiosi sma-scherati da Rostagno e sulla conseguente volontà generale di “scipparici a testa”.Ma gettano anche ombre. Sull’editore di Rtc Puccio Bulgarella, innanzitutto.«Bulgarella − afferma Vincenzo Sinacori, udienza 21 − era un costruttore. Era uno che aveva tanti lavori anche a Palermo. Aveva rapporti con Siino e Brusca che penso nascessero dagli appalti».«Bulgarella − conferma Sii-no – era una persona estrosa, allegra e “accomodante”. L’ho conosciuto nell’ambito della borghesia trapanese. Aveva un bel seguito di personaggi interessanti, tra imprendito-ri e politici nella zona del Belice, in particolare. Ciccio Messina Denaro però mi disse che non era un personaggio affidabile».«Questo Puccio − dice Gio-vanni Brusca, in collegamen-to il 21 dicembre da un sito riservato − l’ho conosciuto

personalmente, con lui siamo stati insieme una settimana nel 1989 per chiudere degli appalti».Inquietante anche l’episodio riferito dall’ex operatore di Rtc Giuseppe Aiello, chiamato a testimoniare lo scorso 15 giugno.Aiello racconta di un pranzo di lavoro a Palermo a cui, nel 1988, aveva accompagnato Bul-garella. Parlando del delitto Rostagno con un manager di Fininvest (tale ingegner Lo-dato), pare che l’editore abbia asserito: «Già una volta ero riuscito a salvarlo. Questa volta ero fuori Trapani e non ci sono riuscito. Per questo motivo da un mese non saluto più questa persona». Bulgarella pronuncia quest’ul-tima frase accennando col capo all’onorevole Francesco Cani-no, seduto al tavolo accanto.A più di un anno dall’inizio del processo, i dubbi sono an-cora tanti, le certezze poche, i sentimenti contrastanti.«Non so cosa aspettarmi dal processo − si sfoga Carla Rosta-gno −. Ho dedicato vent’anni a cercare di capire, a lottare per la verità. Adesso non spero più. Provo solo tanta stanchezza, delusione, amarezza».Ma la speranza che sull’omi-cidio venga fatta luce non manca: «Dopo ventidue anni − asserisce Maddalena, la mi-nore delle due figlie di Mauro Rostagno − siamo riusciti a entrare in un’aula di tribuna-le e ad ottenere un rinvio a giudizio con prove specifiche a carico di due persone. Ci aspettiamo che questo proces-so possa regalare quanta più verità possibile sull’uccisione di mio padre».

«Nonostante l’evidente valenza degli editoriali di mio fratello – si sfoga Carla Rostagno – solo sette mesi dopo la sua morte qualcuno pensò di sequestrare e visionare le cassette di Rtc. So per certo inoltre che alcune cassette sono state a disposizione degli inquirenti ma sono sparite. Dove sono finite?»

28 | aprile 2012 | narcomafie