produttività del lavoro e contesti informativi
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Tesi di Laurea triennale in Economia Politica.TRANSCRIPT
UNIVERSITA’ DEL SALENTO
FACOLTA‟ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA
COMUNICAZIONE
TESI DI LAUREA TRIENNALE
IN
ECONOMIA POLITICA
PRODUTTIVITA’ DEL LAVORO E CONTESTI
INFORMATIVI
Relatore:
Prof. Andrea Pacella
Laureando:
Andrea Bene
Matr. n. 10019855
ANNO ACCADEMICO 2008-2009
1
INDICE
INTRODUZIONE ......................................................................................... 3
CAPITOLO PRIMO
IL FUNZIONAMENTO DEL MERCATO DEL LAVORO
1.1 . DOMANDA E OFFERTA DI LAVORO: ANALISI
MICROECONOMICA .................................................................. 5
1.2 . LA TEORIA KEYNESIANA DELL’OCCUPAZIONE ................... 19
1.3 . DEREGOLAMENTAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO ..... 22
CAPITOLO SECONDO
I FALLIMENTI DEL MERCATO: IL CASO DELLE ASIMMETRIE
INFORMATIVE
2.1 I FALLIMENTI DEL MERCATO: CARATTERI GENERALI ........ 32
2.2 LA SELEZIONE AVVERSA ....................................................... 34
2.3 IL RISCHIO MORALE ED IL MODELLO DEL PRINCIPALE
AGENTE ................................................................................... 35
2.4 LA TEORIA KEYNESIANA DELL’INCERTEZZA ....................... 37
CAPITOLO TERZO
DEREGOLAMENTAZIONE, PRODUTTIVITÁ DEL LAVORO E
DISOCCUPAZIONE
3.1 PRODUTTIVITÁ E SAGGIO DI PERFORMANCE DEL
LAVORATORE .......................................................................... 40
3.2 EFFETTO LIME ........................................................................ 45
3.3 IL POTERE COME SCAMBIO................................................... 47
3.4 CONTESTI INFORMATIVI ........................................................ 50
2
3.5 QUALE SCAMBIO TRA FLESSIBILITÁ E DISOCCUPAZIONE. 55
3.6 L’INFORMAZIONE SUL MERCATO DEL LAVORO .................. 58
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE ........................................................... 60
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................ 63
3
INTRODUZIONE
Il presente lavoro di tesi nasce da una serie di riflessioni seguite allo
studio di un modello teorico post-keynesiano di impronta
marginalista riguardante il rapporto esistente tra flessibilità del
lavoro e produttività. Dopo diversi incontri con il docente siamo
giunti alla conclusione che fosse quantomeno utile, quand‟anche
necessario stante la situazione critica in cui versa il mercato del
lavoro in Europa, nonché tutti i sistemi economici nazionali
occidentali, di approfondire la disamina delle realtà associate alle
nuove forme contrattuali previste dalla maggior parte delle
legislazioni Europee e non solo.
La reale condizione del lavoratore subordinato spesso viene confusa
con argomenti propriamente aziendalistici (uno su tutti la
produttività), i quali premiano una visione positiva, i molti casi
esaltata dalla propaganda prettamente liberista che in questi anni
sempre più sembra tornare in auge, rispetto ai contratti di lavoro
interinale, o più in generale riguardo ad una deregolamentazione di
tutto il sistema.
In questo contesto tematico si inserisce la nostra disquisizione
teorica, con ambiti applicativi tuttavia estremamente pratici, che
partendo nel primo capitolo da un richiamo generale alle teorie
inerenti il mercato del lavoro, pur rimanendo nell‟alveo delle
definizioni di orientamento keynesiano e post-keynesiano, si
sofferma poi su una definizione degli strumenti utili a capire quali
4
fenomeni vengono ad entrare in gioco quando sopraggiunge nel
mercato del lavoro un modello contrattuale deregolamentato. Nel
secondo capitolo, quindi, vengono richiamati concetti legati a casi
di asimmetrie informative che portano a fallimenti del mercato.
Nel terzo capitolo, quello conclusivo, si è cercato di fare un
approfondimento sia di natura economica che sociologica,
affrontando lo studio di strumenti quali il worker performance rate
e del connesso fenomeno denominato LIME (Last in Most
Efficient), e soffermandoci sul rapporto che si instaura tra lavoratore
neoassunto e tutti gli attori che lo circondano (colleghi più anziani,
imprenditore, manager). Scopo centrale del lavoro di tesi rimane
quello di individuare i contesti informativi che influenzano il
comportamento del lavoratore assunto con un contratto di lavoro a
tempo determinato, e che ne settano il grado di produttività.
5
CAPITOLO PRIMO
IL FUNZIONAMENTO DEL MERCATO DEL
LAVORO
1.1 DOMANDA E OFFERTA DI LAVORO: ANALISI
MICROECONOMICA
Oggetto di studio multidisciplinare, il mercato del lavoro può
essere considerato sia da un punto di vista economico che da un
punto di vista sociologico. Il primo approccio si basa
prevalentemente sull‟analisi del meccanismo di mercato di
domanda/offerta che regola lo scambio di lavoro in maniera
sostanzialmente analogo a qualsiasi altra merce; l‟approccio
sociologico, invece, si focalizza sui meccanismi istituzionali che
regolano lo scambio di lavoro in contesti storico-geografici
specifici.
Nel mercato del lavoro, alla stregua degli altri mercati di beni e
servizi, il criterio della concorrenza e dell‟equilibrio ottenibile
grazie al sistema dei prezzi.
Contrariamente a quanto avviene nel linguaggio comune, in
economia chi domanda lavoro sono le imprese, mentre chi offre
lavoro sono le famiglie (i lavoratori). L‟impresa domanda lavoro in
base al livello di output che ha deciso di produrre. Il salario
rappresenta il costo del lavoro e l‟impresa domanderà lavoro fino a
6
che il valore del prodotto marginale del lavoro non eguaglierà il
salario.
Da questa condizione possiamo quindi giungo alla formula che ci
dice che il prezzo del fattore lavoro è uguale al rapporto tra saggio
di salario e prodotto marginale del lavoro:
A questo punto è facile ricavare l‟equazione della domanda di
lavoro da parte dell‟impresa:
Come sempre, la condizione di massimizzazione è definita dalla
grandezza marginale. La condizione di massimizzazione del profitto
implica, dunque, che l‟impresa assuma lavoro fino a quando il
salario reale eguaglia il prodotto marginale del lavoro. Per salario
reale s‟intende la quantità di prodotto che i lavoratori possono
acquistare con il salario nominale, cioè, appunto, il rapporto tra
saggio di salario e prezzo . Se il salario reale diminuisce
l‟impresa avrà convenienza ad aumentare la quantità di lavoro
domandata, poiché il prodotto marginale del lavoro è una funzione
decrescente della quantità di lavoro occupata. La curva di domanda
di lavoro è dunque una funzione decrescente del salario reale.
7
Come si vede nella figura 1.1, all‟aumentare del salario reale
l‟impresa domanda la quantità di lavoro , in corrispondenza
del quale il profitto è massimizzato. Se ripetiamo lo stesso
ragionamento per vari livelli del salario reale otteniamo la curva di
domanda di lavoro dell‟impresa, corrispondente al tratto
decrescente della curva del prodotto marginale del lavoro.
In termini di logica economica possiamo ragionare in questi
termini:
1. se l‟impresa impiega una quantità di lavoro inferiore a , la
stessa ha convenienza a domandare ulteriori unità di lavoro
perché il prodotto in più che può ottenere è maggiore del
prodotto (il salario reale) utilizzato per remunerare queste unità
aggiuntive;
w/P
Figura 1.1
8
2. se l‟impresa impiega una quantità di lavoro maggiore di , essa
ha convenienza a diminuire la quantità di lavoro perché il
prodotto ottenuto con le ultime unità di lavoro è minore del
prodotto (il salario reale) che remunera queste unità aggiuntive;
3. solo quando
l‟impresa è in equilibrio, cioè non ha
alcuna convenienza ad aumentare o a diminuire la quantità di
lavoro impiegato.
Perché dobbiamo considerare solo il tratto decrescente del prodotto
marginale? Se l‟impresa eguagliasse il prodotto marginale e salario
reale in un punto in cui il prodotto marginale è crescente, avrebbe
tutta la convenienza ad aumentare il lavoro impiegato, perché
ulteriori unità di lavoro produrrebbero un output maggiore del
salario reale, e di conseguenza aumenterebbe il profitto
dell‟impresa (Gioia, Perri, 2005).
Poniamoci ora dal punto di vista del lavoratore e andiamo quindi ad
analizzare il lato dell‟offerta. Si supponga che ciascun individuo
possa scegliere quanto tempo dedicare al lavoro per ogni periodo di
tempo preso in considerazione (un giorno, un mese un anno o
persino l‟intero arco della vita lavorativa). L‟alternativa al lavoro è
il tempo libero che comprende tutte le attività diverse dal lavoro.
Oltre che lavorare e godere del tempo libero, ciascun individuo
acquista un insieme di beni e servizi. A questo punto il problema
del lavoratore è quello di scegliere tra:
a) tempo libero e tempo di lavoro;
b) quali e quanti beni e servizi consumare;
9
Anche se a prima vista potrebbe sembrare un problema complesso,
la scelta per l‟agente economico è simile a quella tra due beni
osservabile nel comportamento del consumatore. Per ipotesi, il
consumatore dispone del solo reddito da lavoro che destina
all‟acquisto dell‟unico bene di consumo composito. Il vincolo di
bilancio è il seguente:
Dove è il prezzo del bene di consumo; è la quantità fisica del
bene di consumo; rappresenta il saggio del salario orario e il
tempo di lavoro. Se prendiamo in considerazione, come periodo di
tempo, un giorno allora:
esprime la relazione esistente tra tempo di lavoro e tempo libero
Il vincolo di bilancio diventa:
In questa formula il vincolo è facilmente interpretabile: è il
reddito massimo conseguibile (teorico) se l‟individuo lavorasse per
24 ore al giorno; rappresenta la spesa per l‟acquisto del bene di
consumo composito; è la spesa per “acquistare” il tempo
libero di cui intende godere e è dunque la spesa
complessiva.
È evidente che il consumatore non “acquista” letteralmente . Di
tutto il suo tempo complessivo (24 ore), il consumatore offre
10
e quindi rinuncia a guadagnare il salario orario per
usufruire di . Quindi si valuta in base al costo opportunità,
ossia al reddito da lavoro a cui l‟agente rinuncia per godere del
tempo libero.
Torniamo al vincolo di bilancio esplicitando rispetto a ,
otteniamo la retta:
Dal grafico risulta che il punto rappresenta la situazione in cui il
consumatore acquista solo il bene di consumo e non gode del
tempo libero, mentre nel punto il consumatore “acquista” solo
tempo libero senza consumare altro. In più ricordiamo che l‟angolo
α è uguale a
.
=
α
Figura 1.2
11
Per un consumatore le cui preferenze riferite a e a siano
rappresentabili tramite una funzione di utilità con tutte le usuali
proprietà, è possibile rappresentare una mappa di curve di
indifferenza tra consumo e tempo libero:
Considerando contemporaneamente il vincolo di bilancio e la curva
di indifferenza più elevata compatibilmente con tale vincolo si
evidenzia la scelta ottima del consumatore. Nel punto di ottimo
vale la condizione:
Il saggio marginale di sostituzione tra e è uguale al salario
reale
.
Figura 1.3
12
Cosa accade, in particolare a e ad , se aumenta il salario reale
? Normalizziamo per semplicità il prezzo del consumo
ponendo , così che rappresenti direttamente il salario reale.
Graficamente, un aumento di :
modifica l‟intercetta verticale (spostandola verso l‟alto);
lascia immutata l‟intercetta orizzontale;
fa aumentare la pendenza del vincolo;
la scelta ottima si sposta verso l‟esterno.
Figura 1.4
13
CASO A - un aumento di riduce e fa aumentare :
CASO B - un aumento di fa aumentare e riduce :
B
A
Figura 1.5
Figura 1.6
14
Passiamo ora allo studio di due effetti e delle loro relative
conseguenze:
EFFETTO SOSTITUZIONE: un aumento del salario rende
relativamente più caro il consumatore è indotto a domandare
meno e ad offrire più .
EFFETTO REDDITO: un aumento del salario fa aumentare il
reddito reale, consentendo all‟individuo di consumare di più tutti i
beni (tra i quali anche ) se è un bene normale, il
consumatore è indotto a domandare più e ad offrire meno .
Se l‟Effetto Sostituzione prevale sull‟Effetto Reddito, allora il
consumatore domanda meno e offre più , e questo è ciò che
accade per bassi livelli di reddito. Se i due effetti si compensano, il
consumatore non varia la domanda di tempo libero e continua ad
offrire la stessa quantità di lavoro.
Queste considerazioni rendono plausibile l‟ipotesi che la curva di
offerta di lavoro abbia un andamento inizialmente crescente e
successivamente decrescente all‟aumentare del salario reale. (Piras,
2005). Esiste dunque un livello di salario reale, chiamiamolo ,
oltre il quale l‟offerta di lavoro diminuisce all‟aumentare del salario
reale.
15
La curva di offerta di lavoro di mercato per una categoria di
lavoratori si ottiene sommando orizzontalmente le singole curve di
offerta individuali. Si può dimostrare che anche se la curva di
offerta di lavoro di tutti gli individui ha un tratto decrescente, la
curva di offerta di lavoro di mercato per quella categoria di
lavoratori è crescente rispetto al salario. La ragione di ciò risiede
nel fatto che anche se l‟aumento del salario induce i singoli
lavoratori a lavorare di meno, tale aumento attira lavoratori da altri
settori verso quello nel quale si è registrato l‟aumento salariale.
Data questa ampia premessa, passiamo ora a definire il caso
dell‟equilibrio dell‟impresa, ricordando che essa opera sempre su
due mercati: quello dei fattori produttivi e quello dei beni. Deve
pertanto risolvere due problemi: come produrre (mercato dei fattori)
e quanto produrre (mercato dei beni). Per il primo problema i
neoclassici pongono l‟ipotesi definita dalla dicitura: rendimenti
Figura 1.7
16
marginali decrescenti (ricordiamo che produttività marginale si
intende l‟incremento di prodotto associato all‟impiego di una unità
addizionale di un fattore produttivo). La funzione di produzione è:
dove è la produzione, ed sono rispettivamente il capitale ed il
lavoro impiegati nel processo produttivo, assumendo che la
produzione cresca al crescere di , con dato, ma con rapidità
decrescente. Ciò viene spiegato con il fatto che – dato il capitale
disponibile – il lavoratore addizionale avrà a disposizione una
quantità di minore rispetto al primo lavoratore assunto e, per
questa ragione, sarà meno produttivo. Il profitto si ricava ponendo:
dove e sono rispettivamente il costo del capitale ed il costo del
lavoro (salario) e i prezzi di vendita. Ponendo uguale a zero la
derivata prima della funzione del profitto, si ottengono le due
condizioni di equilibrio nel mercato del lavoro e nel mercato dei
capitali, ovvero:
L‟isocosto è, sostanzialmente, il vincolo di bilancio dell‟impresa e
la sua formula è quindi:
L‟isoquanto è il luogo geometrico di tutte le possibili combinazioni
di lavoro e capitale che danno il medesimo livello di produzione.
Differisce dalla curva di indifferenza (pag. 8, figura 1.3) perché
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possiamo attribuirgli un valore numerico. La sua inclinazione, posto
come ascissa, è:
ovvero è data dal rapporto fra le produttività marginali dei fattori.
L‟inclinazione è negativa in quanto al crescere della quantità del
fattore , quella del fattore decresce (e quindi la sua produttività
marginale va sottratta). L‟equilibrio dell’impresa si ha nel punto di
tangenza tra isoquanto e isocosto:
in tale punto infatti si realizza la massima produzione compatibile
con il bilancio dell‟impresa, in quanto tutti gli altri punti
dell‟isocosto intercettano isoquanti posti a Sud-Ovest di quello
tangente, associati quindi a produzioni inferiori, mentre gli
isoquanti posti a Nord-Est di quello tangente semplicemente non
possono essere raggiunti, comportando un costo maggiore.
Se si riduce, l‟isocosto ruota, con intercetta sulle ordinate ( )
fissa, diventando tangente ad un isoquanto posto più a Nord-Est,
con un maggiore valore di . Quindi la curva della domanda di
lavoro (da parte delle imprese) è inclinata negativamente. In questa
ottica, e per la sola ipotesi relativa alla tecnologia utilizzata dalle
imprese (sostituibilità dei fattori), è impossibile quindi il simultaneo
aumento di salario e di occupazione.
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L‟offerta di lavoro è invece crescente, perché sono diversi i salari di
riserva1. Il mercato del lavoro nel modello neoclassico funziona in
base al seguente meccanismo, assumendo che ci sia concorrenza sia
fra le imprese e sia fra i lavoratori:
Per aumentare sia che , secondo i neoclassici occorre il
progresso tecnico. Esso accresce la produttività del lavoro,
spostando la curva più a destra (con conseguente spostamento di
e di rispettivamente a destra e in alto). Il progresso tecnico è
neutrale: non si ammette l‟esistenza della disoccupazione
tecnologica. La curva di domanda del lavoro esprime la produttività
marginale del lavoro, dal momento che – come si è visto – le
imprese scelgono il numero di occupati solo sulla funzione delle
produttività marginale, pertanto è uguale alla produttività
1 Salari minimi per i quali i lavoratori sono disposti a lavorare.
Figura 1.8
19
marginale del lavoro. Si osservi che, in questo modello, sono
escluse valutazioni di ordine etico, così che il salario può assumere
qualunque valore anche se inferiore a quello di sussistenza.
1.2 LA TEORIA KEYNESIANA DELL’OCCUPAZIONE
L‟opera principale dell‟economista inglese John Maynard
Keynes (1883-1946) è la Teoria generale dell’occupazione,
dell’interesse e della moneta (1936). L‟obiettivo fondamentale di
Keynes consiste nel dimostrare che un’economia di mercato non
tende automaticamente alla piena occupazione. Perciò la stessa
sopravvivenza del capitalismo, che sarebbe messa in pericolo da
condizioni di disoccupazione elevata e persistente, richiede un
vigoroso intervento pubblico per stimolare l‟attività economica e
sostenere l‟occupazione. Scrive Keynes:
“Il nostro scopo presente è di scoprire ciò che determina in un
periodo qualsiasi, in un dato sistema economico, il reddito
nazionale e (ciò che è press‟a poco lo stesso) il volume
dell‟occupazione; la qual cosa – in uno studio complesso come
quello dell‟economia, nella quale non si può sperare di pervenire a
generalizzazioni assolutamente esatte – significa scoprire i fattori le
cui variazioni contribuiscono principalmente a determinare il
risultato che cerchiamo. Il nostro compito finale potrebbe essere di
scegliere quelle variabili che possono venire deliberatamente
controllate o manovrate dall‟autorità centrale, in un sistema come
quello nel quale effettivamente viviamo.” (Keynes 1936, p.437).
20
La struttura analitica della Teoria generale poggia su tre pilastri: il
concetto di domanda effettiva, il meccanismo del moltiplicatore, la
teoria dell‟interesse, ma per i nostri obiettivi abbiamo bisogno di
soffermarci soprattutto sul primo dei tre, cogliendolo dalla lucida ed
autorevole analisi di Alessandro Roncaglia.
Al „principio di domanda effettiva‟ è dedicato il terzo dei 24
capitoli della Teoria generale. Keynes definisce il 'punto di
domanda effettiva' il punto di intersezione tra i grafici delle
funzioni di domanda e offerta aggregate che tuttavia presentano
degli aspetti peculiari che le differenziano dalle rappresentazioni
tradizionali. In sostanza Keynes rappresenta la domanda aggregata
come risultato della relazione tra il numero dei lavoratori occupati
N lungo l'asse delle ascisse a una variabile Z, riportata sull'asse
delle ordinate e definita come: <<il prezzo d'offerta aggregato del
prodotto ottenuto dall'impiego di N uomini>>, mentre la funzione
aggregata di domanda collega N a una variabile D (che, come Z,
figura sull'asse delle ordinate), definita da Keynes come: <<i ricavi
che gli imprenditori si attendono di ricevere dall'impiego di N
uomini>> (Keynes, 1936, p. 25).
In buona sostanza, la variabile Z serve a rappresentare il costo
complessivo che gli imprenditori si attendono di sostenere se
impiegano N lavoratori. Questo costo complessivo, tra l'altro, non
comprende solo i salari, ma include anche i costi fissi e gli oneri
figurativi. Per converso D indica quanto gli imprenditori si
attendono di ricavare vendendo sul mercato il prodotto che sperano
di ottenere con l'impiego di N lavoratori. A questo punto risulta
evidente che nella rappresentazione keynesiana, le uniche
valutazioni e decisioni in grado di influenzare il mercato del lavoro,
21
dipendono dalla volontà unilaterale degli imprenditori. E' così che
Keynes esclude il potere contrattuale dei lavoratori, che possono
solo accettare le condizioni qualitative e quantitative dettate dal
datore di lavoro (l'imprenditore)2.
Sia i costi sia i ricavi attesi crescono al crescere del numero dei
lavoratori occupati. Pertanto entrambe le funzioni sono crescenti,
cioè sia sia crescono al crescere di . Tuttavia cresce sempre
più rapidamente (derivata seconda positiva), mentre cresce
sempre più lentamente (derivata seconda negativa). Questo
andamento può avere varie giustificazioni. Per quanto riguarda la
domanda effettiva , Keynes ricorda che essa è costituita da due
componenti, consumi e investimenti; per una „legge psicologica‟ i
primi aumentano più lentamente del reddito, e quindi
dell‟occupazione; i secondi invece dipendono dalle aspettative di
lungo periodo degli imprenditori e possono essere considerati dati
2 È chiaro che la costruzione keynesiana lascia aperto il problema della costruzione di curve
aggregate, riferite alle valutazioni dell’insieme degli imprenditori e non di un imprenditore singolo.
Figura 1.9
22
nel contesto della determinazione del punto di domanda effettiva.
Per quanto riguarda , nel contesto marshalliano della teoria di
Keynes è naturale supporre che all‟aumentare del numero di
lavoratori impiegati (mentre dato il contesto di breve periodo, si
suppone resti invariata l‟attrezzatura produttiva) il costo marginale
risulti crescente.
Il „ punto di domanda effettiva‟ è quello in corrispondenza del quale
. Esso ci dice dunque qual è il livello di equilibrio atteso
dall‟occupazione, e quindi della produzione, date le aspettative di
breve periodo degli imprenditori su costi e ricavi.
1.3 DEREGOLAMENTAZIONE DEL MERCATO DEL
LAVORO
Gli studi che cercano di mettere a nudo il ruolo delle
istituzioni come fattori esplicativi della performance del mercato del
lavoro, solitamente, fanno riferimento a forme diverse di
regolamentazione o intervento in questo campo: a) salario minimo;
b) assicurazione contro la disoccupazione; c) disciplina limitativa
della facoltà di recesso del datore di lavoro; d) forme di flessibilità
in entrata; e) contrattazione centralizzata. Questa varietà di elementi
istituzionali pone un primo problema di definizione del termine
flessibilità (Nannicini, 2005). Fra i primi tentativi di chiarire il
significato del termine, va segnalato quello contenuto nel rapporto
OCSE del 1986, nel quale si identifica la flessibilità con “l‟abilità
degli individui nel sistema economico, ed in particolare sul mercato
23
del lavoro, di abbandonare schemi prestabiliti e di adattarsi a
circostanze nuove” (OCSE, 1986, p. 6). Negli anni successivi, si è
proceduto a specificare più in dettaglio i contenuti di tale nozione,
giungendo a proporre la distinzione fra flessibilità numerica e
flessibilità funzionale. La prima riguarda la maggiore o minore
libertà per l‟imprenditore di variare il proprio organico; la seconda
fa riferimento alla maggiore o minore libertà di adattare il personale
esistente alle mansioni definite dalla programmazione aziendale.
Come rilevato da Salvati (1988), tuttavia, lo sforzo di
individuazione di criteri che definiscano la nozione di flessibilità
incontra due limiti:
i) per tutte le possibili definizioni, vale una sostanziale
ambiguità terminologica. Il termine, infatti, contiene un implicito
giudizio di valore, per cui “rigidità è una brutta parola, flessibilità
una bella” (Salvati, 1988, p. 8);
ii) la flessibilità è, per sua stessa natura, una variabile
multidimensionale, che include, cioè, una molteplicità di variabili
quantitative e qualitative. Se, dunque, fosse anche logicamente
possibile definire il concetto di flessibilità – e se anche fosse
possibile escluderne l‟implicito giudizio di valore contenuto nel
termine – risulta impossibile misurare il grado di flessibilità.
L‟impossibilità di misurazione rende di fatto inutile (quanto meno
ai fini operativi) lo sforzo di definizione.
Ma che cosa contraddistingue un contesto ad elevata flessibilità: la
libertà dei salari di fluttuare senza vincoli a seconda della
produttività, o la libertà del datore di lavoro di aggiustare
24
rapidamente il livello e la composizione della propria manodopera
seguendo gli andamenti della produzione? Secondo il nostro
approccio, che punta ad una messa in luce delle relazioni che
intercorrono tra produttività del lavoro e contesti informativi, una
maggiore flessibilità coincide con minori costi di licenziamento
della manodopera regolare e con una maggiore facilità di ricorso a
forme di lavoro temporaneo da parte delle imprese. In quasi tutti i
paesi industrializzati, infatti, esistono regimi di protezione
dell’impiego (RPI), che limitano la facoltà del datore di terminare
un rapporto lavorativo a tempo indeterminato e/o di ricorrere a
tipologie contrattuali non standard. In generale, un RPI si
caratterizza per la presenza di uno o più di questi elementi: a)
pagamento di un “buono uscita” (severance payment) nei confronti
del lavoratore licenziato; b) periodo minimo di preavviso prima di
terminare il rapporto; c) obbligo di reintegro del lavoratore in caso
di licenziamento ingiustificato (job property); d) procedure
preventive per l‟avvio di licenziamenti collettivi; e) vincoli
quantitativi o procedurali all‟utilizzo di contratti a tempo (Garibaldi
e Violante, 1999).
In quanto segue, per comodità espositiva, si intenderà per
flessibilità una condizione che soddisfi i requisiti di seguito elencati
e si farà astrazione – ancora per comodità espositiva – dal problema
della misurazione3:
3 Per rendere confrontabili tra loro le situazioni di paesi diversi, nel rapporto Oecd (1999;
2004) viene applicato a trentacinque Paesi il metodo delle “gerarchie delle gerarchie”. Questo metodo consiste nell’assegnazione di una valutazione numerica che sintetizzi la rigidità di una particolare forma di regolamentazione o intervento. Facendo la media dei diversi indici si ottiene una misura sintetica della rigidità del RPI di un paese.
25
- La flessibilità salariale. È una condizione nella quale il
salario può fluttuare liberamente (assumendo, cioè, qualunque
valore) in risposta a variazioni della domanda e/o dell‟offerta di
lavoro. Tale condizione presuppone l‟assenza di „distorsioni‟,
ovvero l‟assenza di interventi di istituzioni esterne al mercato
(segnatamente lo Stato e le organizzazioni sindacali), che siano in
grado di influire su (o determinare il) livello salariale.
- La flessibilità del rapporto di lavoro. Si struttura nelle
seguenti componenti:
- La flessibilità numerica, ovvero la libertà attribuita
all‟impresa di assumere e licenziare il numero e la tipologia di
lavoratori che l‟impresa stessa vuole assumere o licenziare;
- La flessibilità funzionale, ovvero la discrezionalità attribuita
all‟impresa nel gestire l‟allocazione della forza-lavoro all‟interno
del processo produttivo, senza vincoli su quando farlo e su come
farlo (il c.d. ius variandi). In particolare, vi è flessibilità funzionale
quando il datore di lavoro può destinare propri dipendenti allo
svolgimento di mansioni anche inferiori rispetto a quelle per le
quali sono stati assunti.
Passiamo ora velocemente in rassegna i tre diversi orientamenti
teorici che – soprattutto a partire dagli anni novanta – hanno
proposto modelli contrastanti sul funzionamento del mercato del
lavoro, soffermandoci sull‟approccio postkeynesiano, il quale ci
sarà utile nel prosieguo della nostra indagine per comprendere i
modelli di nuovissima realizzazione, e sulla base dei quali
26
affronteremo il problema del rapporto tra flessibilità, produttività e
disoccupazione.
Secondo gli economisti di orientamento neoclassico „tradizionale‟,
la flessibilità è uno strumento efficace per accrescere l’occupazione
(v., fra gli altri, Lyard, Nickell and Jackman, 1994). In presenza di
interventi esterni – segnatamente l‟intervento pubblico di
regolamentazione del salario minimo o l‟adozione sindacale volta
ad accrescere oltre il livello di equilibrio – si genera
disoccupazione involontaria. L‟aumento del profitto è qui visto
come una precondizione per l‟aumento degli investimenti, nel senso
che (inteso come volume dei profitti) costituisce una fonte di
autofinanziamento per le imprese:
SEQUENZA 1.1.
Dove è un indicatore della flessibilità salariale, è il volume
dei profitti, sono gli investimenti ed l‟occupazione.
Soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, numerosi
studiosi di ispirazione „neokeynesiana‟ (v., fra gli altri, Garofalo
and Quintiliani, 1994) hanno contribuito allo sviluppo di un
indirizzo di ricerca (noto come „microfondamenti della
macroeconomia keynesiana‟) volto a mostrare come la rigidità
salariale sia l‟effetto di meccanismi endogeni al mercato del lavoro
e come, conseguentemente, politiche di flessibilità salariale siano
inefficaci. Le principali teorie, in quest‟ambito, sono la teoria dei
contratti impliciti (v. Rosen, 1985), la teoria del salario di efficienza
(v. Akerlof and Yellen, 1986), la teoria degli insiders/outsiders, la
teoria del decent wage (v. Solow, 1994).
27
Gli economisti di ispirazione keynesiana ritengono che la
flessibilità salariale costituisca una strategia o inefficace o finanche
controproducente ai fini della riduzione della disoccupazione. In
quanto segue, si procede a dimostrare questa conclusione a partire
dalle seguenti assunzioni generali:
a. La contrattazione fra datori di lavoro e lavoratori ha ad
oggetto il salario monetario, non il salario reale;
b. Il salario ha natura duale: è costo di produzione, ma anche
elemento della domanda aggregata per il tramite dei consumi.
Dall‟ipotesi b. discende immediatamente che le decisioni di
occupazione da parte delle imprese non sono prese sulla base (o
soltanto sulla base) della tecnica con la quale operano (come accade
nel modello neoclassico e nelle teorie „neokeynesiane‟), e dunque,
dei costi; ma principalmente sulla base della domanda attesa per i
beni da esse prodotti. È così possibile stabilire la seguente relazione
macroeconomica:
Dove è la domanda aggregata attesa. Ciascuna impresa
fronteggia una quota attesa di ed effettua le proprie scelte di
occupazione sulla base delle aspettative sulla domanda dei beni che
essa produce. In ottica keynesiana, una possibile schematizzazione
degli effetti derivanti dall‟introduzione di misure di flessibilità
salariale è indicata nella sequenza 1.4:
SEQUENZA 1.4. :
28
La sequenza ricostruisce, in modo semplificato, il meccanismo
keynesiano mediante il quale la riduzione del salario monetario,
connesso alla rimozione di rigidità nel mercato del lavoro in
presenza di disoccupazione ( ), riduce la domanda per
consumi, con effetti negativi sulla domanda aggregata e,
conseguentemente, con effetti sostanzialmente nulli
sull‟occupazione. Occorre tener conto, tuttavia, che, parallelamente,
la riduzione del salario spinge (almeno temporaneamente) le
imprese ad accrescere l‟occupazione (Graziani, 1992),
determinando un aumento dell‟offerta aggregata ( ). L‟aumento
di e la contemporanea riduzione di si trasferisce in una
riduzione del livello generale dei prezzi e, dunque, in una
tendenziale rigidità del salario reale (giacché si è ridotto il salario
monetario).
D‟altra parte, mentre la collettività delle imprese trarrebbe
vantaggio dalla crescita della domanda aggregata, nessuna impresa
ha interesse a contribuire a determinare tale risultato. Infatti, sia A
la singola impresa e B l‟insieme delle altre imprese, si escluda il
caso di collusione fra A e B, e si ammetta che sia A sia B siano
wage-maker. L‟aumento dei salari monetari per i dipendenti di A
accrescerebbe la domanda aggregata, essenzialmente a beneficio
delle imprese B (non potendo A obbligare i propri dipendenti ad
acquistare i beni che essa produce). Poiché questa considerazione
vale per tutte le imprese, pur essendo per tutte conveniente elevare
la domanda, nessuna ha interesse a iniziare, ovvero tutte hanno
interesse a che siano le altre a iniziare (advantage of being late),
29
così che l‟aumento dei salari – in un mercato del lavoro
deregolamentato – non ha mai luogo.
In definitiva, nel modello keynesiano:
- la flessibilità salariale non accresce l‟occupazione;
- pur ammettendo perfetta flessibilità del salario monetario, in
questo modello il salario reale risulta essere endogenamente rigido.
Il che sta a dire che l’operare spontaneo dei meccanismi di mercato
non garantisce necessariamente il raggiungimento del pieno
impiego (Forges Davanzati, 2005, pp. 11-31).
Questi risultati sono generati dall‟ipotesi chiave secondo la quale il
livello di occupazione non è determinato nel mercato del lavoro
(che è qui un „mercato residuale‟), ma dipende dall‟ampiezza della
domanda aggregata.
Alcuni recenti sviluppi della ricerca in ambito keynesiano (v.
Forges Davanzati e Realfonzo, 2004) hanno posto in rilievo il fatto
che la flessibilità in uscita può ridurre l‟occupazione. Il modello è
fondato sulle seguenti ipotesi:
a) La propensione al consumo ( ) si riduce al crescere della
probabilità di licenziamento ( ). Questa ipotesi è giustificata dal
fatto che, ragionevolmente, l‟obiettivo degli occupati è mantenere
sostanzialmente stabile il proprio tenore di vita. La riduzione della
propensione al consumo (ovvero l‟aumento dei propri risparmi)
costituisce, perciò, una risposta razionale all‟introduzione di misure
di flessibilità in uscita;
30
b) La produttività del lavoro ( ) cresce al crescere della probabilità
di licenziamento ( ), a ragione dell‟operare dell‟effetto di
disciplina.
Dal punto di vista macroeconomico, si verificano, dunque, i
seguenti effetti.
SEQUENZA 1.5‟.
SEQUENZA 1.5‟‟. α
Una maggiore flessibilità in uscita riduce la propensione al
consumo, dunque la domanda aggregata, dunque l‟occupazione.
Parallelamente, sia a causa della riduzione della domanda, sia a
causa dell‟aumento della produttività del lavoro, si rende necessario
un numero minore di occupati.
D‟altra parte, dal punto di vista microeconomico, vi è certamente
convenienza ad avvalersi di misure di flessibilità in uscita, giacché
queste, contribuendo alla riduzione dei costi di produzione
(l‟aumento della produttività a parità di salario), determinano una
riduzione dei prezzi e la conseguente sottrazione – da parte delle
imprese che per prime se ne avvalgono – di quote di mercato alle
proprie concorrenti. È questo un caso nel quale:
- vi è vantaggio nel „partire per primi‟ (advantage of being
first);
- vi è divergenza fra convenienza privata (avvalersi della
flessibilità in uscita, in quanto questa contribuisce alla crescita della
produttività e dei profitti) e convenienza sociale (non avvalersi della
flessibilità in uscita in quanto questa riduce la domanda aggregata,
31
l‟occupazione e non ha effetti positivi sui profitti aggregati). In
conclusione, è opportuno porsi la seguente domanda: posto che non
vi è accordo fra gli economisti sugli effetti di politiche di
deregolamentazione del mercato del lavoro, sulla base di quali
considerazioni tali politiche vengono – o non vengono – poste in
essere? In letteratura sono state avanzate numerose risposte (v.
Saint-Paul, 2000) e non è questa la sede per dare conto della
complessità del dibattito. Occorre rilevare che la fase di attuazione
di misure di politiche del lavoro (e, più in generale, di politica
economica) coinvolge numerosi attori, segnatamente: il Governo (il
cui obiettivo si ritiene essere la massimizzazione del consenso), le
imprese (alle quali conviene operare in un mercato del lavoro
„flessibile‟), i lavoratori occupati (che verosimilmente sono contrari
alla flessibilità), i lavoratori disoccupati (che verosimilmente sono
favorevoli alla flessibilità). Una tesi, accreditata soprattutto fra gli
economisti di ispirazione marxista-radicale (cfr. Bowles and Gintis,
1983), è che le politiche del lavoro sono, in ultima analisi, orientate
dalla minaccia che le imprese oppongono al Governo di
disinvestire, ovvero dislocare i propri investimenti all‟estero ( il c.d.
Capital Strike). Il disinvestimento costituisce una minaccia poiché,
riducendo il reddito nazionale, e quindi i redditi individuali, riduce
la probabilità che i cittadini (ora impoveritisi) rinnovino il proprio
consenso al Governo in carica.
32
CAPITOLO SECONDO
I FALLIMENTI DEL MERCATO: I CASI DELLE
ASIMMETRIE INFORMATIVE
2.1 I FALLIMENTI DEL MERCATO: CARATTERI
GENERALI
L‟obiettivo della sezione è quello di fornire gli strumenti per
comprendere alcuni fenomeni che caratterizzano il mercato del
lavoro, sia dal lato dell‟offerta che da quello della domanda.
Affronteremo i casi di fallimento del mercato soffermandoci su
taluni che, secondo gli ultimi studi sul settore, determinano delle
dinamiche di comportamento ben distinguibili riguardo la
produttività del lavoro nei contratti a tempo determinato in funzione
del livello di deregolamentazione dello stesso.
In economia, viene chiamata fallimento del mercato quella
situazione in cui i mercati non sarebbero in grado di organizzare la
produzione in maniera efficiente, o non saprebbero allocare
efficientemente beni e servizi ai consumatori. Nel linguaggio di tutti
i giorni, d‟altra parte, il termine è impropriamente utilizzato per
designare le situazioni in cui le forze di mercato non appaiono
servire ciò che è definito quale interesse pubblico.
Riguardo al tema in esame ci soffermeremo su un tipo particolare di
fallimento definito come asimmetrie informative. Questa
33
condizione è caratterizzata dal fatto che un‟informazione non è
condivisa integralmente fra gli individui, e così avviene che una
parte degli agenti interessati ha maggiori informazioni rispetto a
resto dei partecipanti, ponendo i primi in una posizioni di evidente
vantaggio.
Passiamo ad un esempio pratico: gli azionisti di una società
vorranno certamente assumere il miglior manager sul mercato con il
compito di gestire l‟impresa e definire i piani in difesa dei loro
interessi. Noteremo la presenza di un accesso differenziato alle
informazioni: da un lato gli azionisti non sono in grado di valutare
le capacità manageriali dell‟agente prima della sua assunzione
(adverse selection o selezione avversa, oltre par. 2.2), dall‟altro non
hanno un controllo puntuale sulle sue azioni e decisioni (rischio
morale o moral hazzard, oltre par. 2.3). Se il manager viene pagato
a stipendio fisso, il suo interesse è quello di minimizzare gli sforzi
e, in mancanza di variabili o elementi verificabili su cui fondare un
contratto ottimale, cercherà di sfruttare il “vantaggio informativo”
per incrementare la sua utilità a scapito di quella degli azionisti.
Nel terzo capitolo sarà nostra premura evidenziare come queste
circostanze valgano anche all‟opposto, cioè a scapito del lavoratore
dipendente. Esistono difatti diversi autorevoli studi che tentano di
dimostrare come la deregolamentazione del mercato del lavoro
abbia ribaltato la situazione sopra descritta, conferendo agli
imprenditori il controllo totale delle informazioni riguardanti il
rinnovo contrattuale. Difatti, con le nuove forme contrattuali
interinali, il lavoratore verrà tenuto (volutamente) allo scuro di
alcune notizie riguardanti il suo futuro all‟interno dell‟impresa, allo
scopo finale di ottenere da esso la massima produttività.
34
2.2 LA SELEZIONE AVVERSA
La selezione avversa si ha quando una delle parti (delegante)
non può osservare importanti caratteristiche esogene (preesistenti)
del delegato o del bene oggetto della transazione o delle situazioni
nelle quali possa trovarsi il delegato stesso (Akerlof, 1989).
Studiata inizialmente da Akerlof, per il mercato delle auto usate,
negli anni settanta, il caso di selezione avversa è un tipico caso che,
oggi, interessa soprattutto il mercato assicurativo. In questo settore i
ricavi sono corrisposti anticipatamente al verificarsi dell‟evento e la
non conoscenza dell‟effettivo manifestarsi dello stesso determina
incertezza nella quantificazione del prezzo da praticare. Il prezzo
corrente deve corrispondere al costo medio atteso dell‟evento
dannoso che, non essendo prevedibile in maniera certa, poiché il
grado di rischiosità dell‟assicurato non è calcolabile
aprioristicamente, condurrà ad una situazione di inefficienza.
Infatti, l‟assicuratore è costretto a fissare il premio sulla base di una
probabilità media del verificarsi dell‟evento. Da un lato questo
premio sarà troppo alto per individui con un basso grado di
rischiosità che decideranno quindi di non assicurarsi; dall‟altro lato,
questo sarà vantaggioso per coloro che presentano alti profili di
rischiosità e che pertanto saranno gli unici a sottoscrivere il
contratto assicurativo. Tutto ciò condurrà ad un aumento del
verificarsi degli eventi dannosi e ad un conseguente innalzamento
dei livelli di premi assicurativi, con un ciclo negativo che conduce
rapidamente al fallimento del mercato.
Riguardo al nostro indirizzo di ricerca, la definizione di questo
fenomeno rientra appieno nell‟analisi della contrattazione nel
35
mercato del lavoro, difatti l‟informazione privata responsabile della
selezione avversa può essere acquisita attraverso sia esami
attitudinali e sulla preparazione, e sia tramite l‟invio del curriculum
vitae. Invero, l‟impresa deve sostenere dei costi o limitazioni che
riducono il loro utilizzo mantenendo la relazione contrattuale
soggetta ad asimmetrie informative. Nelle situazioni di
opportunismo pre-contrattuale, gli individui potrebbero
avvantaggiarsi rivelando le loro informazioni private e certamente
anche le altre parti ne trarrebbero beneficio. Le difficoltà sussistono
nel fatto che non esiste un metodo efficace in grado di rivelare
informazioni credibili se non attraverso il tentativo delle parti non
informate di ricercarle attraverso l‟analisi delle dichiarazioni
verificabili. La segnalazione è la strategia intrapresa dalla parte
privatamente informata, invece la selezione dalla sua controparte.
2.3 IL RISCHIO MORALE ED IL MODELLO DEL
PRINCIPALE-AGENTE
Come per la selezione avversa, anche il termine rischio
morale (o moral hazard) proviene dagli studi sul settore
assicurativo e si riferisce al fatto che gli assicurati tendono a
modificare il loro comportamento in un modo che rende più elevati
i rimborsi richiesti, ma il moral hazard è però un meccanismo più
generale che ritroviamo in numerose circostanze, compresa quella
in cui si trova un lavoratore neo assunto.
Per analizzare il suddetto fenomeno utilizziamo un modello in cui si
suppone vi sia un principale che stipula un contratto con un agente
36
il quale, una volta stipulato il contratto, ha l‟interesse ad adottare un
comportamento che danneggia il principale poiché tale
comportamento è difficilmente riscontrabile da parte del principale.
Questo modello viene per questo definito “del Principale-Agente”
(Bilancini, 2008).
L‟esistenza del rischio morale è dovuta alla presenza di
un‟esternalità negativa che l‟agente impone al principale (in altre
parole l‟agente non considera tutti i costi delle sue azioni rendendo
possibile che egli compia azioni i cui benefici privati sono superiori
ai costi privati ma inferiori ai costi sociali). Come la selezione
avversa, il moral hazard nasce dall‟incompletezza contrattuale.
Tuttavia, a differenza di questa, esso è caratterizzato da:
Opportunismo post-contrattuale, nel senso che
l‟opportunismo si manifesta dopo la stipula del contratto;
L‟asimmetria informativa è sistematicamente a favore
dell‟agente (per questo chiamiamo l‟altro contraente
principale).
Ci sono due tipi di asimmetrie informative che possono generare il
moral hazard e sono: i)non osservabilità delle azioni dell‟agente da
parte del principale; ii)osservabilità delle azioni dell‟agente da parte
del principale ma non verificabilità delle azioni da parte di un terzo.
Nella realtà può essere molto difficile distinguere tra moral hazard
e selezione avversa poiché non si conoscono le varie ragioni delle
scelte degli agenti (es. caso Volvo e gli incidenti nella zona di
Washington, 1990).
2.4 LA TEORIA KEYNESIANA DELL’INCERTEZZA
37
In letteratura spesso si discute di quale sia la vera
innovazione analitica presente nella Teoria generale: se
l‟innovazione consista nel principio della domanda effettiva, oppure
nella determinazione monetaria del tasso d‟interesse. La discussione
è oziosa, poiché entrambe le categorie e dunque l‟intera Teoria
generale, piaccia o non piaccia, hanno una fondazione comune, che
per brevità si può definire di ordine psicologico.
Tutte e due le componenti della domanda effettiva hanno una
fondazione „psicologica‟: la domanda per consumi è spiegata sulla
base di una „legge psicologica fondamentale‟, mentre la domanda
per investimenti è spiegata sulla base delle „aspettative‟ che
governano l‟efficienza marginale del capitale e la domanda di
moneta per il motivo speculativo (di qui la natura monetaria del
tasso di interesse). A questo proposito sono rivelatrici, tra le tante,
due critiche di diversa provenienza e con diversi obiettivi. Klein
nota, con evidente disapprovazione, che tutti i risultati importanti di
Keynes sono derivati da schede di comportamento economico e non
da relazioni definite tra elementi concreti (Klein, 1966). D‟altra
parte Dobb lamenta che sulle „propensioni‟ non si può costruire
nessuna teoria della distribuzione, e che la nozione di efficienza
marginale del capitale, nel rapporto in cui viene posta col saggio
corrente d‟investimento e con le aspettative per il futuro, sembra in
realtà indicare che la teoria tradizionale del profitto non viene
messa in discussione né trasformata, e questo è per Dobb il punto
vulnerabile della Teoria generale (Dobb, 1973). In breve: l‟idea
38
prevalente è che in economia l‟impiego di categorie psicologiche è
epistemologicamente biasimevole.
In un articolo del ‟37 a commento della Teoria Generale, è notevole
che Keynes cominci non con il principio della domanda effettiva,
così come fa nella Teoria generale, ma con “una disquisizione
filosofica di carattere generale sul comportamento dell‟umanità”:
una disquisizione che al lettore potrebbe sembrare peregrina. La
premessa maggiore del ragionamento keynesiano è che noi
abbiamo, di regola, soltanto l‟idea più vaga delle conseguenze non
immediate dei nostri atti (Keynes, 1937). Questo fatto, che è
incontrovertibile, è di ordine non psicologico, anche se può avere
conseguenze psicologiche, ma è di ordine cognitivo. In altre parole,
la nostra conoscenza del futuro è fluttuante, vaga e incerta. Ciò non
significa che le nostre decisioni siano „irrazionali‟ (come spesso si
sostiene che Keynes sostenga), ma significa che vengono prese
sulla base di una “conoscenza incerta”. Ed è proprio qui che si
innesta la nostra discussione sulla flessibilità nel mercato del lavoro
e sui suoi possibili contesti informativi.
Il significato con cui Keynes usa la locuzione “incertezza” è quello
per cui si può dire che sono incerti la prospettiva di un‟altra guerra
in Europa, o il prezzo del rame e il tasso di interesse di qui a
vent‟anni, o l‟obsolescenza di una nuova invenzione, o la posizione
dei proprietari di ricchezza privata nel sistema sociale tra cinquanta
anni. Su queste cose, scrive Keynes, non c‟è alcuna base scientifica
su cui fondare un qualsivoglia calcolo probabilistico: noi
semplicemente non sappiamo. Anche se in condizioni di
conoscenza incerta, tuttavia, dovremo prendere delle decisioni, e
39
ciò faremo rimuovendo l‟esperienza passata e dunque
sottovalutando la possibilità di mutamenti futuri; oppure fingendoci
che lo stato attuale dell‟economia sia basato su una corretta
ponderazione delle prospettive future (che è l‟assunto
epistemologicamente ingenuo della moderna teoria delle
„aspettative razionali‟); oppure ammettendo che il nostro giudizio
individuale non vale nulla, e perciò ci converrà ricorrere al giudizio
del resto del mondo, che forse è meglio informato (Lunghini, 2009).
40
CAPITOLO TERZO
DEREGOLAMENTAZIONE E PRODUTTIVITÁ DEL
LAVORO
3.1 PRODUTTIVITÁ E SAGGIO DI PERFORMANCE DEL
LAVORATORE
La flessibilità nel mercato del lavoro, sia salariale sia della
durata del contratto, è un principio che sta trovando, e in molti casi
ha già trovato, attuazione nella maggior parte delle politiche
economiche europee. Si nota difatti una tendenza a considerare la
flessibilità come la soluzione a realtà giudicate ormai anacronistiche
ed improduttive, in una sola parola: rigide. Proprio la
contrapposizione tra rigidità e flessibilità sta alla base di numerose
disquisizioni di natura economica e sociale, in una realtà in cui la
globalizzazione impone elevati standards di efficienza qualitativa e
quantitativa.
La deregolamentazione del mercato del lavoro si pone l‟obbiettivo
generale di snellire i contratti di lavoro, riducendo i poteri
contrattuali e le conseguenti restrizioni, facendo in questo modo
pendere la bilancia a favore delle imprese e quindi delle domanda.
Rimanendo nel contesto giuridico italiano, ci rendiamo conto che
con la legge Biagi sono venute ad istituirsi forme contrattuali
41
“flessibili” con caratteristiche le più disparate, che hanno permesso
alle imprese di sfruttare appieno tutta l‟offerta disponibile,
ottenendo così livelli di produttività più elevati.
Nel nostro percorso ci soffermeremo in particolare su uno di questi
contratti che, a nostro vedere, punta a sfruttare particolari forme di
asimmetrie informative con il chiaro intento di rendere
costantemente insicura la condizione del lavoratore, per ottenere
così da esso la massima produttività. Ci doteremo di strumenti per
misurare la produttività del lavoro in funzione della flessibilità,
sfruttando i recenti studi sul tema di impostazione post-keynesiana.
Consideriamo il recente modello di Pacella (2009). Le ipotesi di
base sono le seguenti:
1. Il sistema economico è chiuso e opera in equilibrio di
sottoccupazione.
2. Il grado di deregolamentazione del mercato del lavoro è
misurato sulla differenza relativa tra massima durata del
contratto legalmente prevedibile e la durata attuale
del contratto di lavoro usato più frequentemente dal
sistema :
con . Se il sistema si trova nella
situazione di massima regolamentazione, pertanto la
durata massima del contratto di lavoro coincide con la
durata più frequente. Se invece , il sistema si trova
al massimo livello di deregolamentazione. (Un approccio
42
alternativo, adottato da Davanzati & Realfonzo (2004),
definisce come una probabilità esogena di
licenziamento.)
3. Con la massima regolamentazione, i datori di lavoro non
sono liberi di licenziare, al contrario con la massima
deregolamentazione hanno la totale libertà di licenziare.
4. In regime di deregolamentazione non sono previsti sussidi
di disoccupazione.
5. La deregolamentazione è retroattiva, nel senso che è
applicabile sia ai nuovi contratti di lavoro, sia a quelli già
in corso.
6. Prezzi e salari nominali sono assunti come dati.
7. Imprese e lavoratori sono soggetti ad un regime di
incertezza keynesiana.
8. Le imprese vogliono massimizzare i loro profitti.
A questo punto facciamo un balzo in avanti rispetto
all‟approfondimento sulle relazioni tra deregolamentazione e
domanda aggregata per costruire la funzione dei profitti rispetto al
grado di deregolamentazione:
dove è il livello dei prezzi e è la produttività del lavoro.
La funzione di produttività rappresenta la produttività media
dei lavoratori come una funzione della deregolamentazione del
43
contratto. è la produttività minima offerta dai lavoratori4.
Mentre rappresenta l‟intensità minima di lavoro offerto,
individua lo sforzo addizionale che i lavoratori forniscono oltre gli
stock di capitale a loro disposizione. Questa quantità addizionale
dipende dal costo opportunità derivante dalla possibile perdita del
proprio lavoro.
Il saggio di performance del lavoratore (worker performance rate)
per ciascun livello di deregolamentazione è dato da
. Il
nodo della questione è che si assume un rapporto di proporzionalità
diretta di natura esponenziale tra il worker performance rate e il
grado di deregolamentazione del contratto di lavoro (Pacella, 2009),
difatti la forma esponenziale è basata sull‟idea che nel momento in
cui il lavoratore si trova in una situazione di incertezza riguardo al
rinnovo del suo contratto di lavoro, esso si sforzerà di ottenere da se
stesso la massima produttività, con il chiaro intento di mettersi in
buona luce agli occhi del datore di lavoro. Scopo finale di questo
comportamento quindi è quello di evitare il rischio di licenziamento
dimostrando il massimo delle proprie capacità (Engellandt &
Riphahn, 2005). L‟analisi della funzione di produttività conduce
alle seguenti implicazioni:
a) In condizioni di massima deregolamentazione/flessibilità
( ) la produttività del lavoratore è al suo massimo livello
, ed è questo il caso in cui il lavoratore offrirà il
massimo sforzo per evitare il rischio di licenziamento ed
44
Per semplicità questo valore è preso come parametro ed è misurato in termini di output medio ottenuto nel tempo tecnico necessario allo svolgimento del ciclo produttivo, dati gli stock di capitale umano e tecnico.
44
aumentare le probabilità di rinnovo contrattuale. Al contrario,
quando ci troviamo in una situazione di massima
regolamentazione/rigidità la produttività del lavoratore è
uguale a . In questo caso il lavoratore non sentirà alcun
bisogno di dimostrare il proprio valore in quanto sa di non
correre alcun rischio di licenziamento.
b) L‟elasticità della funzione di produzione dipende dal grado di
deregolamentazione:
1. se e
(produttività positivamente inelastica)
2. se
(produttività positivamente elastica).
45
3.2 EFFETTO LIME
Passiamo ora allo studio di un fenomeno definito come
effetto LIME (Last in Most Efficient) effect, di approccio post-
keynesiano il quale dimostra che la produttività dei neoassunti è
maggiore rispetto ai lavoratori assunti precedentemente.
Consideriamo la funzione di offerta aggregata nella seguente
forma:
e ne calcoliamo l‟elasticità rispetto al grado di deregolamentazione:
1. se e
(offerta positivamente inelastica)
2. se e
(offerta positivamente elastica)
La funzione di produzione qui proposta si caratterizza da una
produttività marginale crescente. Il succo del discorso sta
nell‟evidenziare che il nuovo assunto è più produttivo rispetto al
precedente perché esso non sa esattamente quale sarà il suo futuro
nell‟impresa. Di fatto, l‟intensità di lavoro profuso dipende da uno
stato di incertezza derivante da un contesto informativo sbilanciato
a favore dell‟impresa, generando così una situazione nella quale il
lavoratore si trova a subire un rischio morale.
46
Date le caratteristiche dei contratti di lavoro stipulati in regime di
flessibilità, il datore di lavoro è interessato a tenere allo scuro il
lavoratore riguardo il suo possibile rinnovo contrattuale, perché in
questo modo riesce a mantenere una situazione di precarietà che, da
un lato spinge il lavoratore a lavorare al massimo delle sue
possibilità, dall‟altro permette al datore di lavoro di tenere “sotto
scacco” i suoi dipendenti. Se un lavoratore assunto con un contratto
di lavoro precario con possibilità di rinnovo, sapesse a priori che
alla scadenza dei termini non lavorerebbe più per quell‟impresa,
non avrebbe nessun interesse a dimostrare la sua efficienza, che
invece sarebbe portata al massimo livello se dietro ci fosse una
possibilità di rinnovo contrattuale. Appare evidente che, in
mancanza di forme di protezione da parte dello Stato, il lavoratore
possiede una ed una sola arma per far sì che gli venga rinnovato il
contratto, cioè distinguersi per dedizione, impegno, precisione,
stacanovismo, in una sola parola produttività.
Tuttavia è ragionevole supporre che questa mancanza di
informazioni prima o poi verrà colmata; le fonti a disposizione del
lavoratore, trascorso un certo periodo di tempo5 aumentano sempre
di più mettendo così in luce una temporaneità del fenomeno.
Esperienza maturata nell‟azienda, contatti frequenti con il datore di
lavoro, passa parola tra colleghi, sono tutti elementi che
contribuiscono ad una presa di coscienza della situazione nella
quale si trova il lavoratore, pertanto è lampante che più tempo
rimane alla scadenza del contratto e più alta sarà la produttività del
5 Il riferimento ad un periodo entro il quale calano le barriere informative è tuttavia una
semplificazione del discorso, in quanto, di fatto, risulta arduo quantificare in giorni, piuttosto che in ore lavorative il tempo necessario ad acquisire tali informazioni.
47
lavoratore. Quindi l‟ultimo lavoratore sarà più efficiente del
lavoratore assunto prima.
È importante però riportare anche un altro fenomeno che ci appare
fondamentale nella valutazione aprioristica della produttività di un
lavoratore con contratto a tempo determinato, difatti non bisogna
tralasciare che, soprattutto per la forma contrattuale definita dal D.
Lgs. N. 276/2003 (artt. 20 ss.) definita di somministrazione, è
importante per il lavoratore far si che, anche in caso di non rinnovo
del contratto di lavoro, rimanga una buona impressione al datore di
lavoro, affinché valga come referenza spendibile per il contratto
successivo.
3.3 IL POTERE COME SCAMBIO
Ci sembra a questo punto necessario entrare con più audacia
nello studio delle dinamiche del potere, partendo da
un‟impostazione generale relativa alle organizzazioni, per poi
arrivare in maniera decisa alla formulazione di modelli di
comportamento che descrivono il potere come scambio.
La nostra idea è quella di dimostrare che affianco alle normali
forme di potere esercitate dall‟imprenditore, cioè quelle che
riguardano direttamente il rapporto di lavoro con le sue mansioni
esplicitamente previste nel contratto, vi siano delle forme di
manifestazione di potere che potremmo definire accessorie. Queste
48
ultime riguardano una serie di comportamenti che il capo
(l‟imprenditore piuttosto che il capoufficio) assume (sfrutta) nel
momento in cui stabilisce che il rapporto di lavoro non debba
esaurirsi con l‟esecuzione della mansione da parte del dipendente,
ma che continui attraverso un feedback che dal dipendente va verso
il capo e che permetta a quest‟ultimo di poter valutare le singole
performance dei lavoratori. Fin qui non si aggiunge niente di nuovo.
Il problema sorge nei casi di regimi contrattuali deregolamentati,
ossia quando lo strumento che l‟imprenditore usa per ottenere dei
feedback sempre più positivi, è la possibilità del rinnovo del
contratto di lavoro. Tale strumento funge da volano per la
produttività del lavoratore, innescando però dei sistemi di potere,
basati su delle asimmetrie informative, eccessivamente sbilanciati a
favore dell‟imprenditore.
Muoviamo le nostre prime mosse dalla definizione di potere data
dal politologo Robert Dahl, il quale lo descrive come: <<la capacità
di A di fare qualcosa a B, che B non avrebbe fatto senza
l‟intervento di A>> (Dahl, 1957). Estremamente chiara e semplice,
può essere assunta come nostro punto di partenza pur nella
consapevolezza che molti autori l‟hanno criticata come limitata,
riduttiva, in alcuni casi addirittura tautologica.
È relativamente facile per A ottenere che B faccia quello che lui
vuole se questo rientra nell‟ambito della sfera di accettazione, è
legittimato e comporta quindi una pregiudiziale predisposizione
all‟obbedienza. Ma è possibile per A far fare a B qualcosa che è al
di fuori della sfera di accettazione di B, in violazione dei processi
sociali che legittimano alcune azioni e ne escludono altre? Può A
49
indurre comportamenti voluti in B quand‟anche questi non sia per
nulla predisposto all‟obbedienza? La risposta è senz‟altro positiva,
date certe condizioni che cercheremo ora di vedere meglio e che
molto hanno a che vedere con i processi di deregolamentazione del
mercato del lavoro.
L‟assistente che va a prendere a scuola la figlia del professore
quando piove e il dipendente che aiuta la moglie del capoufficio a
fare le pulizie pasquali si stanno muovendo al di là di quanto è
considerato giusto, normale, legittimo. Stanno compiendo atti al di
fuori del loro dovere: ma perché lo fanno? Le risposte possono
essere fondamentalmente due: o si sono offerti spontaneamente
oppure hanno ricevuto un ordine. Soffermandoci sul secondo caso,
l‟imposizione del capo (il professore, il capoufficio) si afferma nella
consapevolezza di oltrepassare il limite del normale rapporto di
lavoro e quindi di operare al di fuori del su ambito d‟autorità,
inducendo al comportamento voluto con la minaccia esplicita o
implicita di sanzioni. <<Non sta scritto da nessuna parte che lo devi
fare, ma se non lo fai non ti sosterrò al prossimo concorso per
professori (o non ti rinnoverò il contratto di lavoro)>>. Il
professore, il capoufficio, l‟imprenditore, un qualsiasi A usano le
risorse che hanno a disposizione in ragione dell‟ufficio che
occupano per ottenere da B un comportamento voluto e che esula
dal normale rapporto di autorità. Scambiano una risorsa (l‟accesso
al concorso, la possibilità di un rinnovo del contratto di lavoro) con
un‟altra risorsa, più limitata, che ha B.
Una vasta letteratura e un insieme importante di autori quali
Emerson, Blau, Crozier, Friedberg (per non citare che i più
50
rilevanti) si sono occupati di questa questione formulando, seppur
con rilevanti discrepanze nei ragionamenti, l‟idea del potere come
scambio asimmetrico di risorse. Nella sua formulazione idealtipica
più pura possiamo dire che A ha potere su B quando B è in possesso
di una risorsa che interessa ad A ma contemporaneamente A
controlla una risorsa:
di cui B ha assolutamente bisogno;
che B non può procurarsi altrove;
che B non può strappare con la forza ad A.
In tutti questi casi A ha potere su B e riesce a fargli fare quello che
vuole perché nel contempo B dipende da A così come è sancito
dalla condizione di asimmetria nel possesso di risorse pertinenti e
mobilitabili nello scambio: l‟asimmetria (nel nostro caso di tipo
informativo), ossia la sperequazione nel possesso delle risorse, lo
squilibrio, la dipendenza di un soggetto dall‟altro, è il primo
requisito dello scambio che crea le condizioni per l‟insorgenza di un
potere come scambio che lo rende un fenomeno assai diverso
dall‟autorità.
3.4 CONTESTI INFORMATIVI
Più volte ci siamo riferiti a delle circostanze che più di altre
determinano un eccessivo sfruttamento del lavoratore subordinato
(precario) che si ritrova senza alcuna protezione nei confronti degli
interessi dell‟imprenditore. Abbiamo descritto l‟effetto LIME e ci
51
siamo soffermati ad osservare come il potere si manifesta oltre le
normali attribuzioni d‟ufficio. Ora però abbiamo bisogno di
indagare con più attenzione alla ricerca di quei contesti informativi
che determinano l‟insorgenza delle suddette situazioni; ovvero ci
viene spontaneo porci le seguenti domande: quali sono le
informazioni che l‟imprenditore nasconde al dipendente? Quali
rapporti si instaurano tra dipendenti neoassunti? Quali informazioni,
se nascoste al dipendente, permettono un innalzamento della
produttività?
Prima però di procedere al tentativo di dare una risposta alle nostre
domande, è necessaria una precisazione che deriva da diverse
osservazioni maturate “sul campo”: trattando temi quali la
flessibilità e la produttività dei lavoratori, abbiamo constatato che le
dimensioni aziendali sono inversamente proporzionali
all‟incremento di produttività dovuto alla deregolamentazione. Nei
casi di piccole/medie imprese, il lavoratore neoassunto si trova
spesso ad avere contatti direttamente con l‟imprenditore riducendo
così la scalata gerarchica delle informazioni, mentre in imprese di
grosse dimensioni il rapporto tra dipendente e imprenditore è
mediato da una gerarchia molto consolidata che filtra ogni notizia.
Per questa ragione scegliamo di semplificare il modello di
riferimento considerando una classificazione dei rapporti che non
tenga conto delle dimensioni dell‟impresa né della lunghezza della
scala gerarchica, ma che classificheremo come orizzontali nel caso
in cui si tratti di rapporti tra dipendenti, verticali nel caso di contatti
tra il lavoratore e la direzione.
52
Date le dovute precisazioni, possiamo passare al setaccio le diverse
circostanze che possono influire sulla produttività del lavoratore in
funzione della flessibilità e dei contesti informativi nei quali si trova
ad operare. Sin dal momento in cui viene stipulato un contratto di
lavoro, e quindi dal momento in cui il lavoratore mette piede per la
prima volta nel nuovo ambiente lavorativo, assistiamo ad una serie
di passaggi che egli inevitabilmente deve percorrere prima di
riuscire ad integrarsi. Nella costruzione dei rapporti, sia di tipo
verticali che orizzontali, il neoassunto tesse una rete di relazioni
sociali che nel medio lungo termine influiscono sulla sua
produttività. Partendo da una situazione di totale insicurezza e
spaesamento, egli avrà tutto l‟interesse a dimostrare la sua buona
volontà e le sue capacità lavorative per fare in modo che sia i
superiori che i colleghi abbiano un‟ottima impressione, ma passata
questa fase iniziale di integrazione, il lavoratore comincerà a
chiedersi (e a chiedere in giro per l‟azienda) quanto paghi in termini
contrattuali un comportamento esemplare ed altamente produttivo6.
Parlando con i colleghi egli potrà scoprire i comportamenti che
l‟imprenditore ha assunto in passato, di fronte a situazioni simili, un
atteggiamento di totale indifferenza, inducendo così il lavoratore a
non preoccuparsi più di spiccare in produttività; ovvero potrebbe
scoprire che l‟imprenditore tiene molto in considerazione il
comportamento del neoassunto durante le prime settimane di lavoro
e pertanto il lavoratore si sentirà incentivato a lavorare ancora
meglio. Conoscere le esperienze vissute nell‟azienda dai propri
6 Ricordiamo che il lavoratore è stato assunto con un contratto di lavoro a tempo
determinato, pertanto il suo primo interesse è quello di riuscire ad ottenere dall’imprenditore un rinnovo contrattuale.
53
colleghi aiuta il lavoratore a fare le sue valutazioni sulla possibilità
di un rinnovo contrattuale e più in generale sulle possibili scelte
dell‟imprenditore. Non sempre però avviene che i colleghi siano
disposti a condividere le proprie informazioni e la propria
esperienza, sia perché non vedono nessun interesse a farlo, sia
perché vedono nel nuovo assunto una possibile minaccia alla loro
posizione. A questo punto si può assistere a vere e proprie
operazioni di depistaggio mirate a confondere le aspettative del
lavoratore, che si possono concretizzare in false rassicurazioni,
valutazioni inesatte, quand‟anche vere e proprie minacce. Questo
fenomeno può essere devastante per il lavoratore e profondamente
deleterio per la produttività dell‟azienda ed è per questo che il ruolo
dell‟imprenditore (manager) comprende anche la capacità di
integrare i nuovi assunti in maniera meno traumatica possibile, sia
per i dipendenti e sia per il lavoratore stesso7.
Per quanto riguarda invece la gestione dei rapporti specificamente
verticali, risulta di fondamentale importanza il ruolo e la
preparazione dell‟imprenditore (manager nel caso di imprese di
grandi dimensioni) nel saper gestire in maniera giusta e corretta le
relazioni con il personale. La concezione di fondo dell‟impresa, che
è in continua evoluzione e non è statica, prevede come necessario
un costante aggiornamento metodologico e relazionale,
obiettivizzato al miglioramento continuo delle relazioni. Nella
fattispecie, se andiamo ad analizzare le relazioni tra lavoratore
7 Un’alternativa all’effetto LIME è il suo opposto denominato effetto FIME (First in Most
Efficient) che si verifica quando i lavoratori più anziani vedono i nuovi assunti come una minaccia alla loro stabilità lavorativa. Vi sono approcci che si sono occupati di osservare come i lavoratori più anziani cerchino di ridurre la produttività dei nuovi assunti per fare in modo che aumentino le possibilità di un loro licenziamento (Standing, 1999).
54
precario e imprenditore, questi precetti di buona Governance non
sempre vengono applicati, soprattutto in termini di trasparenza.
Molto spesso è interesse dell‟imprenditore tacere quanto più a
lungo possibile le proprie intenzioni riguardo al lavoratore, per fare
in modo che le sue insicurezze ne garantiscano la massima resa. Le
informazioni taciute non riguardano solo il contratto di lavoro e la
possibilità di rinnovo dello stesso, ma possono riguardare anche
direttamente le mansioni svolte dal dipendente: il soggetto che non
si sentirà adeguatamente gratificato penserà che il proprio lavoro
non è stato apprezzato dal capo e quindi in futuro si impegnerà di
più proprio allo scopo di ottenere quella gratificazione. Questi
atteggiamenti fanno sì che la produttività del dipendente rimanga
sempre molto alta, anche in prossimità della scadenza del contratto
di lavoro, impedendo che il lavoratore si senta in una sorta di limbo
di premorienza. Da un punto di vista aziendale questo tipo di
strategie possono risultare altamente proficue e produttive, in
quanto permettono di sfruttare al massimo le nuove forme
contrattuali sia in termini salariali che funzionali, ma dal punto di
vista del lavoratore questo approccio può essere devastante. La
totale mancanza di garanzie contrattuali lascia nelle mani
dell‟imprenditore il potere di decidere autonomamente della vita
lavorativa (e non!) dei suoi dipendenti esclusivamente rispetto alle
oscillazioni della domanda di beni.
55
3.5 QUALE SCAMBIO TRA FLESSIBILITÁ E
DISOCCUPAZIONE?
Dal 1995 al 2003 al forte aumento dell‟occupazione e alla
parallela riduzione della disoccupazione, soprattutto giovanile, si è
accompagnata una crescita delle occasioni di lavoro instabili, meno
dirompente di quanto spesso si crede, ma comunque rilevante. Si
può quindi concludere che vi è un nesso tra i due fenomeni, cioè
che l‟aumento dell‟occupazione e la riduzione della disoccupazione
si devono attribuire alla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro?
Un‟analisi più dettagliata di quanto accaduto nel mercato del lavoro
italiano non conferma tale trade-off.
La diffusione dei lavori flessibili, da quelli a tempo determinato alle
collaborazioni, ha interessato essenzialmente i giovani, ma
l‟impatto sui tassi di occupazione risulta quasi nullo per i giovani
maschi e molto scarso per le giovani femmine. Indagini ISTAT
(2004) riferite ad un periodo di tempo che va dal 1993 al 2003,
rilevano che per i maschi dai 20 ai 35 anni il tasso di occupazione
del 2003 supera di poco quello del 1995, ma resta nettamente
inferiore a quello del 1993, quando la crisi economica era già
iniziata e i lavori instabili erano molto meno diffusi. Quanto alle
donne il tasso di occupazione è cresciuto per tutte quelle oltre 24
anni, ma l‟aumento maggiore è stato registrato dalle donne dai 45 ai
60 anni, che solo in misura molto limitata sono state interessate
dalla diffusione dei lavori instabili. Se escludiamo le donne dai 24
ai 29 anni, i giovani nel 2003 risultano un po‟ meno occupati di
56
dieci anni prima e se occupati più spesso con lavori instabili,
benché per lo più a fini formativi, ma anche meno disoccupati
poiché il tasso di disoccupazione dai 15 ai 24 anni si riduce di un
paio di percentuali.
L‟apparente paradosso che i giovani sono contemporaneamente
meno occupati e meno disoccupati si spiega con la netta ripresa
della scolarità superiore, che dai 15 ai 24 anni ha provocato una
riduzione del tasso di attività di 6-7 punti percentuali dal 1993 al
2003. Quindi, i giovani sono meno disoccupati non perché riescono
a trovare più facilmente occasioni di lavoro flessibile ma perché
frequentano in maggior misura gli istituti superiori e le università
(Forges, 2005). Inoltre non bisogna dimenticare che il volume della
disoccupazione giovanile si riduce anche perché le nuove leve sono
sempre meno numerose; dal 1993 al 2003 i giovani dai 15 ai 24
anni diminuiscono da 8 milioni 400 mila a 6 milioni 400 mila.
Il forte aumento dell‟occupazione, che si deve quasi tutto alle donne
adulte, può essere sì collegato ad una misura di flessibilizzazione,
che concerne, però, solo l‟orario di lavoro e non la stabilità del
rapporto. Oltre un quarto dei 2 milioni di posi di lavoro creati tra il
1995 e il 2003 sono, infatti, occupati a tempo parziale da donne.
L‟occupazione femminile a tempo parziale molto cresciuta
(dall‟11% di quella dipendente nel 1993 al 18% nel 2003), ma la
stragrande maggioranza delle donne che lavorano part-time hanno
normali rapporti a tempo indeterminato.
L‟impressione che vi sia stato un collegamento tra crescita
dell‟occupazione e diffusione dei lavori “atipici” si fonda
57
sull‟inserimento tra gli “atipici” anche dei lavori a tempo parziale,
ma si tratta di un arbitrio pericoloso, perché confonde situazioni
precarie con altre che non lo sono affatto e consente di stabilire
artificiosamente una relazione tra il livello di occupazione e quello
dei vincoli posti alle imprese. Occorre pensare ad altre spiegazioni
della crescita dell‟occupazione in Italia, come il circuito virtuoso
innescato dalla maggiore partecipazione al lavoro delle donne, di
cui si è detto, e la riduzione del costo del lavoro. Un rapporto
ISTAT (2004) mostra come, a parità di potere d‟acquisto, le
retribuzioni dei lavoratori italiani sono precipitate agli ultimi posti
della graduatoria dei paesi della vecchia Unione Europea perché dal
1996 al 2002 praticamente non sono cresciute, mentre in tutti gli
altri paesi gli aumenti sono stati cospicui, anche con percentuali a
due cifre (Reyneri, 2005). La moderazione salariale, nata con la
crisi economica e la politica dei redditi decisa nel 1993 per
l‟ingresso nell‟euro, è proseguita anche dopo quando la
disoccupazione diminuiva e l‟occupazione cresceva. Poiché la
produttività del lavoro ha continuato a crescere (per i motivi di cui
sopra) sia pur debolmente, la quota dei redditi da lavoro dipendente
su reddito nazionale si è fortemente ridotta a favore sia dei profitti
(da impresa e da lavoro indipendente), sia anche delle rendite (da
quelle finanziarie a quelle immobiliari). Ci si deve domandare,
quindi, se era davvero necessario aumentare ancora il grado di
flessibilità del lavoro, portando al livello record di 21 il numero dei
apporti di lavoro “pienamente atipici”, come ha fatto la legge
30/2003.
58
3.6 L’INFORMAZIONE SUL MERCATO DEL LAVORO IN
ITALIA
Nei primi anni ‟80 si è venuta sempre più diffondendo la
consapevolezza che una politica attiva del lavoro debba dedicare
grande cura sia ad un‟informazione tempestiva e significativa sulla
struttura e dinamica della domanda e dell‟offerta, sia
all‟orientamento e alla formazione professionale dell‟offerta
medesima (Carinci, 2005).
Per quanto riguarda l‟informazione la situazione attuale vede la
coesistenza di tutta una serie di strutture pubbliche che, in modo
(solo in parte) diverso, controllano e monitorano i flussi di
lavoratori in entrata e uscita dai mercati del lavoro e cercano di
studiarne caratteristiche e tendenze (es. Istat, Cnel, Ministero del
lavoro e delle politiche sociali e sue articolazioni periferiche,
commissioni regionali e provinciali per l‟impiego, osservatori
regionali e provinciali del mercato del lavoro).
Nell‟ottica della realizzazione di un sistema di strumenti diretti a
garantire la trasparenza nel mercato ed una migliore circolazione
delle informazioni, fattori ritenuti propedeutici per una corretta
impostazione di politiche del lavoro ed una concreta efficacia delle
misure dirette a promuovere l‟incontro tra domanda e offerta,
dapprima il D. Lgs. N. 469/1997 (art. 11) e successivamente il D.
Lgs. N. 276/2003 (art. 15) (anche detta riforma Biagi) si occupano
di istituire una rete informatica (network) che utilizza lo stesso
protocollo di comunicazione quale strumento di coordinamento
59
delle informazioni, offerto a beneficio di tutti i sistemi locali per
l‟impiego, pubblici e privati (Pedrazzoli, 2003).
Ideato nel 1997 e battezzato come SIL (Sistema Informativo
Lavoro), tale sistema in origine chiuso (una sorta di Intranet, cioè
una rete protetta e accessibile solo per i soggetti autorizzati), ancor
prima di trovare completa e concreta attuazione su tutto il territorio
nazionale, si rinnova nel 2003, cambiando nome e natura. Nasce
così la “Borsa continua nazionale del lavoro”, sistema basato su una
rete di nodi regionali facilmente consultabile (es. da Internet) sia
dai lavoratori che dalle imprese attraverso accessi appositamente
dedicati da tutti i soggetti pubblici o privati autorizzati ad erogare
servizi per l‟impiego. A tal fine tutti gli operatori accennati devono
conferire al sistema i dati legittimamente in loro possesso, cioè
quelli strettamente attinenti alle attitudini professionali dei
lavoratori. Infatti severi limiti all‟acquisizione, al trattamento e alla
divulgazione dei dati personali sono predisposti per la tutela della
riservatezza dei lavoratori e per evitare il perpetrarsi di trattamenti
discriminatori (Carinci, 2004). La conduzione coordinata ed
integrata della Borsa del lavoro resta ben salda nelle mani dello
Stato [art. 117, 2° comma, lett. r), Cost.] mentre la sua gestione
viene in gran parte demandata alle Regioni8.
8 È già attivo il primo nodo regionale “Borsa Lavoro Lombardia”,
http:www.borsalavorolombardia.net
60
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Le previsioni per il futuro dicono che il fenomeno della
deregolamentazione del mercato del lavoro avrà un impatto sempre
più incisivo nella costituzione di nuove forma contrattuali. Il
numero di varianti previste dalle norme vigenti lascano presagire
che l‟eterogeneità delle condizioni contrattuali è ormai una
condizione assodata quanto irrinunciabile, per l‟ottenimento di una
condizione occupazionale soddisfacente.
La nostra riflessione si incunea su alcuni aspetti derivanti dalla
eccessiva precarizzazione dei lavoratori, che diventano sempre più
deboli e ininfluenti in fase contrattuale, constatando di contro una
tendenza, di innegabile natura capitalistica, a favorire il lato della
domanda. Argomenti quali la produttività vengo strumentalizzati da
alcune teorie socio-economiche per spostare gli equilibri
contrattuali in maniera pericolosa a favore dei datori di lavoro, che
possono così sfruttare a proprio piacimento i lavoratori, sia in
termini salariali che funzionali.
Nella fattispecie sarebbe opportuno rivedere, alla luce delle
suddette riflessioni, alcune delle forme contrattuali che oramai
regolamentano la maggior parte delle assunzioni. Ci riferiamo in
questa sede alla forma definita dalla vigente normativa nazionale
come contratto di somministrazione (ex interinale)9 che predispone
una struttura triangolare. Il rapporto di lavoro interinale consta,
9 Introdotta dal Decreto legislativo 276/2003, artt. 20-28.
61
infatti, di tre figure cardine: un'impresa fornitrice di lavoro
temporaneo, un'impresa utilizzatrice ed infine il lavoratore assunto
e retribuito dall'impresa fornitrice ed avviato al lavoro presso
l'impresa utilizzatrice. Il fenomeno che in questa forma si
manifesta, è una sorta di formalizzazione, a nostro vedere, di
un‟asimmetria informativa tutta a favore delle imprese utilizzatrici:
il lavoratore in questo caso non è un dipendente dell‟azienda per la
quale lavora, bensì dell‟agenzia di lavoro interinale, che lo
assume… e lo stipendia! Pertanto il lavoratore non avrà mai nessun
tipo di contatto con il proprio datore di lavoro riguardo un eventuale
rinnovo contrattuale, perché di fatto il suo referente unico rimane
l‟agenzia. Anche in fase di selezione, il lavoratore non ha in nessun
modo la possibilità di entrare in contatto con l‟azienda in quanto
essa delega all‟agenzia il compito di trasmettere al candidato tutte le
comunicazioni del caso. Si delinea così un atteggiamento da parte
del datore di lavoro, che sin dall‟inizio del rapporto, “abitua” il
lavoratore ad una condizione di assoggettamento, che educa
psicologicamente il neo assunto rendendolo “mansueto”, in ogni
caso.
Lo studio di fenomeni quali il LIME che sfruttano modelli nei quali
la produttività del lavoratore viene valutata in funzione della
flessibilità del contratto di lavoro, fa capire che i rapporti di potere
che si instaurano tra dipendente ed imprenditore non sono sempre
equilibrati, ma anzi sono spesso sbilanciati da asimmetrie
informative che indeboliscono il lavoratore precario. Avviene così
che il rapporto di potere tra i due soggetti viene distorto e piegato
rispetto alla sua forma normale proprio a causa di mancanza di
62
garanzie per il lavoratore, determinando così una sfera di poteri che
potremmo definire accessori.
A conclusione di questo lavoro ritengo sia importante evidenziare
che una riflessione più attenta alle esigenze dei lavoratori
subordinati sia dovuta, oltre che necessaria, per favorire una
contrattazione più equa ed equilibrata. Riteniamo che il
perseguimento di uno standard elevato di produttività sia una
condizione necessaria ma non sufficiente per un mercato del lavoro
che tenga conto degli interessi di tutti gli strati sociali.
63
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