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Page 1: Quarant anni fa due ragazzi affamati e folliinventavano l azienda piá

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SAN FRANCISCO

$IRCA QUARANT’ANNI FA — al tempo in cui esistevano i settimanali e le edicole, si telefonava con il gettone e non bisognava togliersi le scarpe per prendere un ae-reo — ebbi la fortuna di essere inviato a scrivere di uno strano posto in California chiamato “Silicon Val-

ley”, di cui si raccontavano meraviglie, così diverso da un’Italia che allora era un grigio paesaggio di fabbriche, turni di lavoro, ci-miniere e sindacati. Arrivato, mi spiegarono che “silicon” stava per “silicio”, non per “silicone”. E che il silicio, ovvero la sabbia allo stato puro, è il miglior conduttore di elettricità che ci sia. Come di-re: il petrolio a gratis.

Il luogo era davvero una vasta valle, ricca di boschi e di agrume-ti, con eucaliptus giganteschi, a sud della baia di San Francisco, do-minata dall’antica università di Stanford. Qui due ingegneri, Ro-bert Noyce e Gordon Moore (quest’ultimo è morto una settimana fa ed è stato ricordato come un genio del secolo) avevano scoperto che si potevano “miniaturizzare” i circuiti elettronici stampati su silicio: un congegno che fino all’anno prima occupava una stanza, ora stava sul palmo di una mano.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

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NEW YORK

2UANDO L’FBI HA CHIESTO il suo aiuto per “violare” l’i-Phone usato dai terroristi nella strage di San Bernar-dino a dicembre, Apple si è lanciata in una crociata in difesa della privacy e dei diritti costituzionali. Molti hacker la pensano diversamente. Non hanno esitato

a fare la loro scelta di campo: si sono offerti di aiutare l’Fbi. Per loro il chief executive di Apple, Tim Cook, è solo un turbo-capitalista im-pegnato in un’operazione di marketing.

Questo episodio recente la dice lunga sull’evoluzione di Apple a quarant’anni dalla nascita. Sempre più ricca e potente. Molto me-no amata di una volta.

Steve Jobs non ha fatto in tempo a vedere la parabola discenden-te del suo mito. Finché era vivo il fondatore, era troppo forte il ricor-do delle origini eroiche. Jobs era allora un grande venditore di so-gni. Era anche, nell’immaginario di molti suoi clienti, il protagoni-sta di un’epica battaglia: quella di Davide contro Golia. Era stato il piccolo outsider coraggioso, capace di sfidare ben due monopolisti della prima rivoluzione di internet: Ibm da una parte, Microsoft dall’altra.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

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/EL 1971 AVEVANO fondato una lo-ro piccola società — la Intel — e avevano messo in vendita, per 370 dollari, il “4004” che conte-neva l’equivalente di 2.300 transistor. Tre anni dopo, nei negozi di elettronica si poteva comprare il “6502”, con le stes-se prestazioni, per venti dolla-ri. Lo assemblavano, in gran se-greto, in certi scantinati, delle donne messicane pagate tre

dollari l’ora. Dove sarebbe andata quella spaventosa capacità di calcolo, non lo sapeva nessuno.

I computer, fino ad allora, erano soprattutto patrimonio dell’industria militare che dominava la California. Ora, inve-ce, che il “microchip” si comprava sul bancone, tutti nella Val-ley avevano un’idea in proposito. Il computer si poteva unire a uno schermo televisivo, a una tastiera, a un amplificatore; permetteva di scrivere e conservare i testi, gestire un magaz-zino, compilare enormi elenchi di dati, prevedere avvenimen-ti futuri, dare i comandi a un robot per tagliare un abito su mi-sura. I nuovi sacerdoti erano i programmatori informatici, il loro Vangelo era il “Basic”, una stringa infinita di lettere e nu-meri, un linguaggio per iniziati.

Steve Jobs aveva ventisei anni ed era già un personaggio fa-moso. Nel 1976 aveva fondato la “Apple”, un’aziendina pim-pante che aveva come simbolo una mela morsicata con i colo-ri arcobaleno del nascente movimento gay — si diceva in omaggio al matematico inglese Alan Turing, omosessuale perseguitato che si era suicidato mangiando una mela avvele-nata. Si diceva anche che sui prodotti Apple non ci fosse il ta-sto “on/off” perché Jobs aveva paura della morte. Il suo socio era un polacco, Steve Wozniak, bravissimo a costruire circuiti elettronici, ma non un filosofo: aveva una segreteria telefoni-ca che esordiva con una greve barzelletta su quanto sono stu-pidi i polacchi. Steve Jobs era l’opposto: era carismatico. Oc-corre però ricordare che a San Francisco, in quei tempi, il cari-sma era diffuso. Qui, nel giro di pochi anni, gli studenti univer-sitari si erano ribellati all’autorità; il proprietario di un nego-zio di sviluppo e stampa fotografica, tale Harvey Milk, aveva avuto l’idea di presentarsi alle elezioni locali in quanto gay (prima volta sul pianeta). Era stato eletto, ma era stato ucci-so, insieme al sindaco, da un consigliere che non amava i gay. Un predicatore, il reverendo Jim Jones, aveva raccolto sette-cento seguaci e li aveva portati a rifarsi una vita nella Guyana dove il governo gli aveva dato del terreno. Inseguito dalla leg-ge aveva convinto tutti i settecento a bere una pozione da un certo bicchierino che le guardie andavano distribuendo: il più grande suicidio di massa della storia. La signorina Patty Hear-st, ricchissima ereditiera di un impero editoriale, sequestra-ta da un gruppo terroristico, si era messa allegramente a rapi-nare banche insieme a loro.

Tutto questo per dire che intorno alla Silicon Valley quella che si respirava era un’aria di radicalismo, di avventura, di pazzia alla portata di mano. Ricordo che due dei più brillanti fisici di Stanford, Norman Packard e Doyne Farmer, avevano messo a punto un mini computer che, infilato in una scarpa, poteva prevedere dove sarebbe caduta la pallina della roulet-te: volevano sbancare Las Vegas e regalare il malloppo ai guerriglieri del Salvador. Altri avevano costruito dei massicci computer pubblici da sistemare agli angoli delle strade; al co-sto di 25 cents avrebbero fornito musica e poesie. A Menlo Park, dove oggi ci sono i quartieri generali di Facebook, in una casa di legno si era sistemato l’”Home Brew Computer Club”, dove Wozniak, Jobs e altre centinaia di dilettanti pa-sticciavano con progetti, invenzioni, scatole magiche per fre-gare la compagnia dei telefoni.

Steve Jobs aveva avuto una vita non comune. Figlio di una studentessa svizzera e di un siriano (sì: proprio un siriano, im-piegato all’università), dato in adozione appena nato, studen-

te universitario mancato, vegetariano, buddista, viaggiatore in India, estimatore dell’Lsd («La mia differenza con Bill Ga-tes è che lui non l’ha mai provato»), il ragazzo era particolar-mente bello, con lunghi capelli castani che si ravvivava in con-tinuazione con entrambe le mani. Sosteneva di mangiare so-lo mele, che depuravano il corpo e rendevano inutile il lavarsi. Aveva avuto una figlia, Lisa, non l’aveva riconosciuta, ma ave-va chiamato una sua macchina con il suo nome; era anche stato brevemente fidanzato con Joan Baez, ma solo per far vedere a tutti che l’aveva portata via a Bob Dylan.

Quando lo incontrai, nella sede — quattro stanze — della Apple a Cupertino, disse subito che non avrebbe parlato dei suoi prodotti futuri («sono un segreto»), ma fece un mono-logo sul rapporto uomo-macchina, sulla saggezza dei bam-bini, sulla capacità dell’uomo in bicicletta di spostarsi più velocemente del condor. Alla domanda su che tipo di lavoro si facesse alla Apple, rispose «non ci sono ora-ri, ci interessa solo la creatività. Per questo i migliori vogliono venire da noi». Tre anni dopo i suoi prodotti erano già un culto: Jobs era il sacerdote di eventi, nei suoi negozi non c’erano commessi, ma evangelisti; i suoi oggetti erano i più belli, i più eleganti, i più ca-ri, aveva reso amica la macchina, gli aveva messo dentro colori e fantasia. La macchina componeva musica, creava quadri, inventava caratteri grafi-ci, si faceva sfiorare con le dita o con un NPVTF. Aveva fama di essere un padrone molto autorita-rio. Ai dipendenti succhiava tempo e anima in cambio di TUPDL�PQUJPOT; spiava i suoi ingegne-ri, temendo che andassero a letto con la con-correnza, ma con la concorrenza costruì un cartello per tenere bassi i salari. Non assu-meva volentieri donne, né afroamericani, né latinos. L’idea di sindacato era una be-stemmia. Il più grande inventore e innovato-re del capitalismo fu un figlio eccezionale di un’epoca, di una demografia favorevole, di un ambiente di libertà. Ma nessuno gli chie-se mai di essere anche buono. Solitario e dit-tatoriale, Jobs venne colpito dal cancro quando aveva appena quarantotto anni. Sareb-be sopravvissuta la Apple senza di lui? In realtà, con la morte vicina, la sua creatività raggiunse un culmine incredibile di bontà. L’iPod regalò la musica, l’iPhone mise a disposizione di tutti, su un piccolo schermo, il sapere del mondo, sotto forma di BQQ gratuite. Jobs morì a cinquantasei anni. A San Francisco i ragazzini piangevano.

Le invenzioni finirono con il loro creatore ma, a quarant’anni dalla sua fondazione, Apple è la più grande concentrazione finanziaria del pianeta. Ha la forza e i problemi di uno Stato, e peraltro sta costruen-do la sua capitale, proprio a Cupertino dove tutto co-minciò. Sarà un’astronave circolare per dodicimila di-pendenti, su un milione di metri quadri con ottomila al-beri da frutta trapiantati. Ma forse sarà la sua tomba: Ap-ple non ha “the new thing”, impiega più avvocati che crea-tivi, è troppo delocalizzata in Cina, lotta con il fisco. Non è più quella comunità di persone “affamate, folli”, come le aveva definite Jobs. La mela che addentarono, la stanno di-gerendo.

Silicon Valley è oggi la più grande concentrazione di miliar-dari del pianeta. Google, Facebook, Apple detengono il mag-giore e più antipatico dei poteri: sono in grado di orientare la morale pubblica. Nella valle lavorano centomila UFDIJFT, con le loro scuole private, le loro biciclette, il loro culto della salu-te. Si spostano su enormi bus che per le strade di San Franci-sco fanno l’effetto sgradevole delle Grandi Navi a Venezia. Qualcuno si opporrà a questa nuova élite, i figli sazi di Steve Jobs?

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4FIORÒ IL FALLIMENTO, fu caccia-to e poi ripreso al vertice dell’azienda che lui aveva creato. Quando saliva su un palco per ipnotizzare la folla

dei suoi fan lanciando un nuovo prodot-to, era preceduto e circondato da quella leggenda delle origini. Il revisionismo storico cominciò quando Jobs era anco-ra vivo, con le biografie che raccontava-no una personalità non proprio esempla-re. Dopo la sua morte l’attacco al mito è diventato sistematico. Il lato oscuro di Apple è ormai un contro-tema che ac-compagna i suoi successi economici.

Da una parte c’è la gigantesca elusio-ne fiscale. Così fan tutti, certo: le multi-nazionali sfruttano privilegi normativi, debolezze e indulgenze degli Stati sovra-ni, e spostano virtualmente i profitti lad-dove pagano meno tasse o non ne paga-no affatto. Apple è la regina di queste operazioni perché fa profitti record. Ha accumulato all’estero, per lo più in para-disi fiscali europei come l’Irlanda, un te-soro di liquidità superiore ai duecento miliardi. Dal punto di vista del contri-buente americano, è una rapina ai suoi danni. Non a caso se ne parla parecchio in questa campagna elettorale dove il te-ma dell’elusione delle multinazionali è stato affrontato da Donald Trump, Ber-nie Sanders e Hillary Clinton.

Un’altra pagina ignobile nella storia di Apple è lo sfruttamento della manodo-pera cinese nella famigerata “fabbrica dei suicidi”, il maxi-stabilimento della Foxconn vicino Shenzhen, nella Cina meridionale. Foxconn è di proprietà tai-wanese ma fin dai tempi di Jobs le è sta-to affidato l’assemblaggio della mag-gior parte degli iPhone, iPad e iPod. Le condizioni di lavoro in quella fabbrica so-no spaventose, dopo uno stillicidio di proteste represse e di suicidi per dispera-zione, la più clamorosa protesta avven-ne nel gennaio 2012 quando centocin-quanta operai minacciarono il suicidio collettivo per denunciare la loro soffe-renza.

Nel frattempo anche il glamour dei prodotti Apple ha subìto un logorìo natu-rale. Ai tempi di Jobs il ritmo forsennato delle innovazioni dava l’impressione che Apple fosse in grado di “reinventare il mondo in cui viviamo”, senza sosta. In realtà molti suoi prodotti si ispiravano a invenzioni altrui: dai lettori digitali di musica agli smartphone ai tablet, altri avevano avuto l’intuizione iniziale. Ma il genio di Apple lanciava quei prodotti co-me mode di massa, rivoluzioni di costu-me. Ci aggiungeva un’eleganza estetica quasi impareggiabile, il vero tratto di-stintivo di Jobs. Negli ultimi anni però la concorrenza si è fatta agguerrita, smali-ziata, implacabile. Dalla Samsung alle marche cinesi, gli smartphone degli al-tri offrono prestazioni equivalenti a prezzi inferiori. Apple è diventata così il marchio di lusso di un’industria molto af-follata. Continua a essere uno status symbol, continua ad avere masse di affe-zionati che sono disposti a pagare per un prodotto Apple un sovrapprezzo consi-derevole. È questo il segreto di una reddi-tività eccezionale, e di una quotazione in Borsa stratosferica. Ma la poesia di una volta è un ricordo lontano.

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-A FESTA DELLA PASQUA, sarà che cade in primavera, è una di quelle ricorrenze simboli-che che costringono a crede-re che la bellezza esista nono-stante tutto e che per resiste-re alla mediocrità occorra im-parare a cercarla dove nes-sun altro la vede.

Qualche mese fa ho avuto un’occasione unica per edu-care lo sguardo a questo tipo

di meraviglia nascosta e per questo devo ringrazia-re il Deutsch-Amerikanisches Institut di Heidel-berg, che mi ha inclusa come unica italiana nel gruppo dei dieci scrittori chiamati da tutta Europa a visitare i laboratori scientifici della città e osserva-re la scienza con occhi insoliti, a caccia di un’etica collettiva.

Quando ho indicato la mia preferenza per la bio-logia e l’astrofisica mi sono ritrovata accanto a tre scienziati il cui lavoro non sarebbe comprensibile se non partendo proprio dall’evidenza che nella ma-teria esista una grazia insopprimibile. Prima che una tensione all’utile, la scienza per chi la fa è anzi-tutto un’attrazione per il bello. Ciascuno di questi luminari era affascinato dal suo campo di ricerca e vedeva splendore e armonia anche in quello che agli occhi di una profana come me appariva impro-babile descrivere con categorie estetiche, come le cellule del cervello di topo, un gruppo di pesci cie-chi in un acquario o la superficie brulla e tossica di un pianeta dall’altra parte della galassia.

Gli spunti più significativi in merito me li hanno dati i due biologi, la dottoressa Hannah Monyer, del Deutsches Krebsforschungszentrum, e il dot-tor Joachim Wittbrodt del Center of Organismal Studies. Il motivo non è difficile da capire: entram-bi lavorano sugli esseri viventi. Hannah Monyer — che abbina all’eccellenza scientifica un raro talento pianistico e ha nel suo studio un ritratto di J.B. Shaw — studia il comportamento delle cellule del cervello, e in particolare la loro capacità di ricorda-re e di imparare a seconda degli stimoli a cui vengo-no sottoposte. Rumena naturalizzata tedesca, Mo-nyer è un faro in materia: per aver dimostrato che anche in età avanzata le cellule cerebrali possono rinnovarsi se non si smette di apprendere, nel 2004 ha ricevuto il prestigioso premio Leibniz e la titolarità del laboratorio in cui mi ha accolta. Il suo gruppo di lavoro opera sui topi, facendo cose che dif-ficilmente sarebbe possibile classificare come bel-le, perché molto invasive e eticamente problemati-che anche per chi ammette l’esistenza di una gerar-chia tra le varie for-me di vita. Agli ani-mali, scelti nella variante di specie dotata di media in-telligenza, viene infatti scoperchia-to il cranio in ane-stesia totale per consentire l’inca-stonamento nel cervello di un pic-colo elemento con elettrodi, di cui il topo al suo risveglio non si rende-rà conto di essere portatore. Senza quello strumen-to sarebbe impossibile rilevare gli stimoli elettrici che mostreranno ai ricercatori come lavora il cer-vello dell’animale nelle varie situazioni in cui verrà provocato a reagire, rivelando le varianti del suo comportamento. È stato davanti alla vita segreta di alcune cellule analizzate da una sottilissima sezio-ne di materiale cerebrale che Hannah Monyer mi ha rivelato la sua motivazione estetica. Incantata davanti allo schermo, muoveva lei stessa il mouse alla ricerca di quella che continuava a definire «la cellula più bella», mostrandomene i movimenti e la

coesione alle altre e distinguendo il loro comporta-mento a seconda della posizione nel lobo sezionato. Al termine della visita, con un candore che mi ha stupito in una donna con così tanti anni di ricerca al-le spalle, Monyer mi ha confessato che il lavoro sui topi le causava problemi etici costanti, nonostante sapesse perfettamente che al momento per curare alcune malattie umane non esistono alternative al-la sperimentazione sugli animali. Nonostante que-

sto scrupolo, mi è stato comunque evidente che tra l’armonia che la scienziata era in grado di vedere in quelle cellule e il modo violento e ar-bitrario con cui erano state ottenu-to dall’animale non c’era possibili-

tà di confronto. Lo splendore della materia vivente e i suoi segreti così visibilmente a portata di mano risultavano schiaccianti rispetto a qualunque rifles-

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sione morale: la bellezza della conoscenza divorava tutte le altre.

Nell’altro laboratorio biologico, il Center of Orga-nismal Studies, ho pensato che le cose sarebbero state meno problematiche, perché si lavora senza vivisezione. L’istituto è infatti diretto dal professor Joachim Wittbrodt, un biologo dello sviluppo che mi ha detto di aver scelto i pesci proprio a causa del lavoro violento sui topi fatto mentre era studente di biologia: «GPS �NF � JU�T � UPP � CMPP�EZ», troppo san-gue. In effetti, per ottenere i risultati utili al suo campo di ricerca il dottor Wittbrodt ha biso-gno di disporre di animali vivi in per-fette condizioni, sani e sereni al punto da non subire alcuna alterazione del proprio naturale ciclo vitale. Ai pesci, che sono sensibilissi-mi, non è facile offrire queste garanzie: bastano dei

lavori in corso alla base del palazzo, con l’eco dei martelli pneumatici anche solo leggermente per-cettibile dagli acquari del laboratorio, a bloccare la riproduzione degli animali. Per questa ragione le centinaia di acquari presenti nell’istituto sono cura-ti singolarmente con attenzione certosina, dall’illu-minazione al cibo, dalla vegetazione alla tempera-tura, fino al monitoraggio elettronico che arriva a trasmettere i dati di ogni anomalia a uno strumen-to agganciato al polso del dottor Wittbrodt, segna-landogli la presenza di alterazioni dovunque si tro-vi e a qualunque ora: «per me non sono materiale di studio: i pesci sono miei collaboratori». Eppure, an-che se i pesci non muoiono con la stessa sistematici-tà con cui altrove lo fanno i topi, una gran parte del lavoro di ricerca si fa agendo sulle sequenze del loro Dna, e questo sul piano etico non può porre doman-de di portata inferiore all’apertura JO�WJWP del cra-nio di un topo. Nelle vasche ho visto nuotare placi-damente molti pesci frutto della manipolazione ge-netica del dottor Wittbrodt: varianti di colore della stessa specie e soprattutto alcuni esemplari albini, dai corpi alieni completamente trasparenti e gli or-gani vitali rossi e pulsanti, visibili senza necessità di vivisezionarli. Per provocarlo un po’ gli ho raccon-tato di un genetista americano a cui avevo doman-dato perché facesse manipolazione e lui mi aveva ri-sposto «CFDBVTF�*�DBO», perché posso, mostrando-mi un’inquietante inclinazione a considerare la co-noscenza un potere a sé stante, uno spazio senza re-gole in cui l’intelligenza adulta, abbinata a una re-sponsabilità bambina, potesse esercitarsi all’infini-to a sfidare i propri limiti senza altro scopo che supe-rarli. Poi ho chiesto a lui se si sentisse anche lui in mano il potere di Dio. La nostra conversazione tra gli acquari fino a quel momento era stata seria, ma intrisa di meraviglia e di leggerezza come una visi-ta al luna park; evocare l’ipotesi del potere divino davanti al codice della vita di un pesce ha aperto uno spazio di verità imprevisto. «Il potere di Dio è creativo, non distruttivo. Se volessi sapere come è fatto il mio telefono» — mi ha detto Wittbrodt spe-gnendo il microscopio — «martellarlo e ridurlo in pezzi sarebbe un modo possibile. Ma una volta che l’avessi capito in ogni piccolo particolare interno non sarei in grado di rimettere insieme i pezzi e far-lo funzionare di nuovo. Sono uno scienziato che la-vora con le leggi più delicate della vita, ma non vuol dire che non mi metto dei limiti: il mio è non rompe-re mai quello che non so ricostruire». Un buon mo-do per dire che chi di Dio crede di aver in mano la po-tenza, di Dio ha il dovere di mostrare anche la con-

sapevolezza e il ri-spetto davanti alla bellezza.

L’incanto del professor Witt-brodt davanti alla totipotenza dei suoi embrioni di pesce era identico a quello che avevo già visto nella dot-toressa Monyer ed entrambi mi han-

no dato l’impressione di osservare la cosa più bella mai vista. Non dubito che nella loro vita lavorativa siano mossi da molte motivazioni complesse: sono scienziati premiati e riconosciuti, dirigono ciascu-no un gruppo di ricerca e hanno certamente le pro-prie ambizioni di riuscita, ma la luce che ho visto nei loro occhi davanti all’infinitamente piccolo che sta alla base della loro materia è qualcosa che viene prima, è il riverbero dello stupore infantile innanzi al miracolo, lo stesso stupore del Dio della Genesi che davanti alla sua stessa creazione non può fare a meno di pensare che “è cosa buona”.

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,HALED AL-ASAAD, OTTANTATRÉ ANNI, archeologo siriano in pen-sione noto con il soprannome di Mister Palmira per la sua straordinaria conoscenza di quella venerata città di epoca romana, è stato giustiziato lo scorso agosto 2015. Jihadisti dello Stato Islamico lo hanno pubblicamente decapitato, ap-pendendo poi per i polsi il suo corpo a un semaforo, con la te-

sta ai suoi piedi. Attaccato alla vita, un cartello elencava i pre-sunti crimini: partecipazione a “conferenze di infedeli” e “diret-tore di idolatria” per la passione di una vita dedicata a docu-mentare e condividere la storia di Palmira, sua città natale. L’attuale direttore dei musei siriani ha fornito una spiegazione più razionale: nonostante i ripetuti interrogatori, al-Asaad ave-va rifiutato di confessare il luogo dove statue e altre opere d’ar-te erano state nascoste per proteggerle dall’arrivo dei militan-ti dell’Is.

Quella di Khaled al-Asaad non è la prima morte al servizio dell’arte in tempo di guerra. Già durante il Secondo conflitto mondiale, nel marzo 1945, il maggiore Ronald Balfour, Monu-

ments Man inglese, fu ucciso da una granata mentre rimuove-va tesori artistici dalla Chiesa di Cristo Re a Kleve, in Germa-nia. Il mese successivo, un colpo di mitragliatrice costò la vita al Monuments Man americano capitano Walter Huchthausen mentre controllava un rapporto di arte trafugata. Seppure fos-sero due studiosi, Balfour e Huchthausen indossavano unifor-mi militari. Al-Asaad era invece un semplice civile, armato sola-mente della sua vasta conoscenza della grande Palmira. La sua determinazione nel proteggere quel che restava di quella gran-de civiltà si può paragonare a quella della grande eroina france-se Rose Valland. Dal 1940 al 1944, questa donna modesta lavo-rò come custode del piccolo museo parigino che i nazisti aveva-no requisito per le loro operazioni di saccheggio, e ne spiò per tutto il tempo le attività. Sospettata e per due volte minacciata di esecuzione sommaria, la Valland continuò la sua opera, e fu una fortuna. I suoi appunti segreti che registravano l’arrivo di arte trafugata e la successiva spedizione verso la Germania si rivelarono di fondamentale importanza per la scoperta di più di ventimila opera d’arte da parte dei Monuments Men. Rose Valland si unì in seguito a loro e proseguì la ricerca delle opere d’arte disperse fino alla sua morte nel 1980.

L’orribile uccisione di al-Asaad, così come la morte di Bal-four e Huchthausen, testimoniano quanto possa costare pro-teggere opere d’arte e altri beni culturali durante i conflitti ar-

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mati. Balfour e Huchthausen ne erano consapevoli prima di ar-ruolarsi come volontari, ma vollero ugualmente servire la cau-sa. Anche al-Asaad, secondo il figlio Walid, conosceva il rischio di restare nella sua città natale nonostante le numerose oppor-tunità di fuggire prima dell’accerchiamento di Palmira da par-te delle truppe dell’Is. A questo punto la domanda è: ma l’arte vale una vita?

È una domanda che mira dritto al cuore della missione dei Monuments Men durante la Seconda guerra mondiale, così co-me a quella di tanti volontari che allora come oggi rischiano la propria vita per salvare il patrimonio culturale dell’umanità. Il comandante supremo delle forze alleate, Eisenhower, credeva che la risposta dovesse essere «no», sostenendo che una vita umana conta «infinitamente» di più. Il Monuments Man capita-no Deane Keller, professore di storia dell’arte presso l’Universi-tà di Yale e artista lui stesso, era d’accordo. Keller, che nei suoi tre anni di servizio in Italia venne a trovarsi per oltre un anno nella zona di combattimento, scrisse che «la vita di un giovane americano vale più di qualsiasi monumento». E tuttavia fece una distinzione fondamentale: tra la differenza nel rischiare la vita per salvare un oggetto d’arte rispetto a rischiare la vita per una causa. Come gli altri Monuments Men, Keller conside-rò un privilegio poter rappresentare la propria nazione nella lotta per difendere la libertà di espressione creativa degli arti-

sti, e preservare i più grandi esempi di quanto creato dagli arti-sti del passato.

Anche il generale Eisenhower si espresse sull’argomento, di-cendo nel 1946 che «almeno per quanto riguarda una democra-zia, gli ideali per cui [una guerra] viene combattuta vivono ol-tre il materialismo e la distruttività della guerra». Anche il Mo-numents Man tenente comandante George Stout, quando nel 1943 aveva dovuto perorare presso il presidente americano Roosevelt la necessità di creare un’unità per la protezione del patrimonio culturale, si era espresso con chiarezza e passione: «La salvaguardia di questi beni… dimostrerà il nostro rispetto per le credenze e i costumi di tutti e testimonierà che queste opere non sono patrimonio di un unico popolo ma dell’intera umanità. Preservarle fa parte della responsabilità che grava sui governi delle Nazioni Unite». Roosevelt fu d’accordo. Bal-four, Huchthausen e oggi al-Asaad a Palmira hanno onorato questi alti ideali. Le Nazioni Unite ancora no.

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-E RASSICURANTI FACCE DEI BEATLES sorridono felici. Indossano camici bianchi da macellaio imbrattati di sangue e in mano, in grembo o sul-le spalle hanno bambole decapitate, pezzi di carne, frattaglie. Punk ante litteram, anticipatori anche in questo. Per la raccolta prevista solo per il mercato americano e intitolata�:FTUFSEBZ�BOE�5PEBZ, nel 1966 la Capitol stampò ben 750mila copertine, molte dalle quali non uscirono dallo stabilimento viste le proteste dei primi negozianti a cui erano state inviate. I Beatles, stanchi dei «soliti, noiosi servizi foto-grafici» avevano infatti voluto usare uno scatto del fotografo Robert Whitaker per una performance di arte concettuale intitolata "�4PN�OBNCVMBOU�"EWFOUVSF. Tra gli stessi componenti del gruppo non c’e-ra concordia su quell’immagine scioccante, con Paul McCartney che

l’aveva voluta e John Lennon che la definì «BT�SFMFWBOU�BT�7JFUOBN», mentre George Harrison la considerava «un’idea stupida e volgare». Tra le voci c’era anche quella che diceva che quel “macello” (la cover prenderà in futuro proprio il nome di “#VUDIFS�$PWFS”) fosse una polemica contro la Capitol che fabbricava a tavolino un disco che non esisteva contro il volere della band. Tutto questo contribuì a renderla una delle copertine più rare e introvabili della storia valutata a prezzi incredibili.

Oggi, in tempi di musica liquida, le copertine contano meno di un tempo, peccato, perché at-traverso uno scatto, si può raccontare un intero mondo. Farlo nel rock’n’roll è una delle prove più difficili che possono toccare a un fotografo. Che deve essere anche un esperto psicologo (o meglio, psichiatra) perché avere a che fare con le star richiede grandi capacità di conoscenza dell’animo umano. Quello che vediamo raccontato nelle pagine di 1JDT�0GG�, serie di foto raccol-te da Matteo Torcinovich che mette a confronto la copertina del disco con gli altri scatti realiz-zati durante il servizio, è dunque un modo di lavorare che va scomparendo, artigianale e molto romantico, che contempla un contatto diretto con l’artista, ormai quasi impossibile. Da un la-to per i mille filtri che le star frappongono (uf-fici stampa, agenti, sponsor) e dall’altro per il contatto diretto con i fan che oggi i social network consentono. Incontri come quello di Roberta Bayley con i Ramones o di Edo Berto-glio con i Blondie, oggi non avvengono più. Ma è proprio da questa combinazione che può nascere la magia.

Guardando le copertine insieme ai provini la domanda che viene in mente è se le cose sa-rebbero andate bene ugualmente se fosse stato scelto un altro scatto. Il più delle volte la risposta è no. È ovvio che se fosse stata scelta una foto dei Ramones che ridono per l’inci-dente occorso a Dee Dee di cui ci racconta nel-la pagina a fianco Roberta Bayley, si sarebbe perso completamente il senso di che cosa era la band in quel momento: l’icona stessa del punk. L’estetica povera, in bianco e nero, che riduce tutto all’essenziale non è casuale. Così come non lo è quella scelta di luogo in appa-renza banale e scontata. Quella scelta è la strada. Anzi, è un muro pieno di scritte in una periferia senza nome. E quattro giubbotti di pelle. Quella foto diventa un’icona insupera-ta perché in uno scatto rivela uno stile di vita: nuovo, vero, intenso. Come l’altra grande fo-to che rappresenta il punk: quella di Pennie Smith per -POEPO�$BMMJOH dei Clash, anno 1979, che ritrae Paul Simonon mentre di-strugge il suo basso durante un concerto al Palladium di New York. La fotografa Pennie Smith accompagnò i Clash durante tutta quella tournée stando giorno e notte insieme alla band, vivendo le loro stesse avventure. Fosse stato per lei, non avrebbe mai usato

quell’immagine perché «non a fuoco». Fu pro-prio il cantante della band, Joe Strummer, a volerla, insieme al grafico Roy Lowry che l’as-socerà come omaggio (ma molti ai tempi la lessero invece come contrasto e presa in gi-ro) al primo album di Elvis Presley, con lo stesso MFUUFSJOH e quegli assurdi colori verdi e rosa che diventeranno un’altra bandiera del punk. Nel 2002 quello scatto verrà segnalato dalla rivista 2 come “miglior foto rock di tutti i tempi” perché “rappresenta lo stato d’ani-mo più puro del rock’n’roll: la totale perdita di controllo”. Simonon dichiarò che fece quel gesto perché era arrabbiatissimo con i butta-fuori che non permettevano agli spettatori di alzarsi dalle loro sedie per ballare.

Un’altra cover controversa è quella di #PSO�JO�UIF�6TB di Bruce Springsteen: lui di schiena contrapposto alla bandiera america-na. Viste le sue posizioni anti-establishment di quel periodo (era il 1984 di Reagan) si dif-fuse la leggenda che Springsteen stesse uri-nando sulla bandiera. Fatto da lui smentito su 3PMMJOH�4UPOF: «Non c’era alcun significato segreto, davvero. Semplicemente, guardan-do le foto scattate, sembrava che sulla cover ci stesse meglio il mio sedere piuttosto che la mia faccia». Resta il dubbio che quelle spalle voltate, quel cappellino XPSLJOH�DMBTT, quei jeans sdruciti, qualcosa sul sogno americano la volessero dire. Del resto ogni copertina, riu-scita o meno, è uno scrigno di segreti che la-scia le porte aperte al sapore della leggenda. Abbiamo così bisogno di storie.

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/EL MARZO 1976, DIO MIO, QUARANT’ANNI FA, la rivista

“Punk” mi chiese per il suo terzo numero un

servizio fotografico sui Ramones. Avrei lavorato di

giorno, così invece di usare come al solito una

pellicola Tri-Ex comprai un rullino di Plus X (in

bianco e nero a grana molto fine, ndt). Erano solo pochi mesi che

facevo la fotografa a New York, precisamente dal novembre

1975, ma John Holmstrom e Legs McNeil ebbero fiducia in me,

tanto da affidarmi l’incarico.

Per prima cosa andammo al loft dei Ramones, al 6 di East 2nd

Street (oggi si chiama Joey Ramone Place). Era il loft di Arturo

Vega, amico della band nonché direttore artistico e tecnico delle

luci. Feci qualche scatto lì dentro, sotto l’insegna della band, ma

poi abbiamo pensato di andare all’aperto, perché così le foto

ci sembravano noiose e fuori la luce era migliore.

A pochi passi c’era un campetto, è lì che ho iniziato a scattare.

Eravamo tutti molto rilassati perché il servizio era per “Punk”,

una rivista nuova, niente di che, non ci rendevamo conto che in

quel momento fosse la più cool di tutta New York e forse del

mondo!

Fotografai i Ramones da dietro la rete di recinzione, poi contro

un muro e ancora davanti a un altro. Scattavo velocemente

perché sapevo che in genere le band sono a disagio davanti

all’obiettivo. Ma i Ramones erano molto tranquilli, ci

conoscevamo tutti, eravamo tra amici. A un certo punto Dee Dee

pesta una cacca di cane. La stacca dalla suola delle scarpe con un

bastoncino e poi, col bastoncino in mano si mette a inseguire gli

altri che scappano. Io continuavo a fotografare. In meno di un’ora

avevamo finito e me andai a casa a sviluppare il rullino.

Circa una settimana dopo il manager dei Ramones, Danny

Fields, chiamò “Punk”. Le foto “professionali” che la Sire Record

aveva commissionato per la copertina dell’album non piacevano

a nessuno. Così il disco stava per uscire e ancora non c’era

l’immagine di copertina, e allora Danny si era messo a chiedere

in giro foto dei Ramones a chiunque ne avesse. Guardò i miei

provini e scelse due immagini, una per la copertina e l’altra, tutta

sorridente, per la pubblicità. Per le due le foto mi offrirono

centoventicinque dollari, una cifra ridicola. Ma io amavo i

Ramones, e mi sembrava bello fare la copertina del loro disco. E

così, con il permesso della redazione di “Punk”, accettai.

Il resto è storia. La mia è diventata la foto simbolo dei Ramones

ed è stata persino definita una delle migliori copertine di tutti i

tempi. E, posso dirlo?, sì, sono orgogliosa di averla scattata

perché i Ramones sono diventati una band straordinaria e in

qualche modo, con quello scatto, nel mio piccolo, faccio parte del

loro universo.

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$�È UN MANTRA CHE NOAM CHOMSKY, ottanta-sette anni, ripete con energia durante tut-ta la nostra intervista: «*U�T�PVS�DIPJDF», di-pende da noi. Dipendesse da lui, celebre linguista famoso in tutto il mondo, intel-lettuale mai tenero con il potere, allora una chance ai robot bisognerebbe darla.

«Potrebbero essere loro a liberarci dal guinzaglio della routine», a farci correre sui campi incolti della creatività e del piacere.

Professor Chomsky, secondo lei che cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale?«Si può intendere l’intelligenza artificiale in due modi. Il primo

è quello a cui ho dedicato la mia vita: l’indagine sull’intelligenza umana, il tentativo di ricostruirla. Molto dev’essere ancora dimo-strato, ma con la “rivoluzione copernicana” della linguistica abbia-mo finalmente inteso il linguaggio come proprietà biologica, mo-strando che l’enorme varietà linguistica può essere ricondotta a un sistema molto semplice che genera il pensiero. L’altro modo di intendere l’intelligenza artificiale è il lato ingegneristico della fac-cenda: i dispositivi utili, ad esempio le macchine che si guidano da sole. Vuol sapere come vedo quel tipo di futuro? Con entusiasmo».

Il premio Nobel per l’economia, Paul Krugman, però mette in guardia: dice che in realtà i robot ci ruberanno il lavoro, e che la diseguaglianza è dietro l’angolo. A lei il tema dell’uguaglianza sta a cuore. I robot valgono il rischio?«Chi accusa i robot di toglierci lavoro dovrebbe avere dalla sua

parte l’evidenza: la produttività dovrebbe aumentare, cosa che al momento non avviene. Ma se davvero le macchine dovessero rim-piazzarci, io direi: bene! Sarebbe un enorme beneficio per l’umani-tà. Certo, quando un robot subentra in un certo settore ci saranno problemi di adattamento, i lavoratori di quel settore devono esse-re reimpiegati. Ma un mondo robotizzato è una possibilità di libera-zione».

Liberazione da che cosa? «Ma dalla routine, dal lavoro ripetitivo e alienante. Chi di noi de-

sidera stare otto ore a una cassa di supermercato piuttosto che de-dicarsi alle cose che ama? Se i robot facessero il lavoro che ci anno-ia al posto nostro, saremmo liberi di creare, di concentrarci sull’in-novazione. Potremmo dedicarci al piacere».

Cosa le fa pensare che l’automazione verrà gestita portando più libertà ed equità? Oggi le tecnologie dell’informazio-ne sono in mano a poche grandi aziende che offrono servizi “masticando” i nostri dati. E se nel futuro i benefici che secondo lei saranno pro-dotti dai robot alla fine an-dassero solamente a favore di pochi?«Dipende da noi, la tecnolo-

gia è neutrale, è come un mar-tello: puoi usarlo per torturare o per costruire. La scelta è politi-ca, il futuro è un bivio: se imma-gini la tecnologia gestita da po-chi grandi centri di potere, se pensi a un “neoliberismo in sal-sa tech”, allora devi persino te-mere nuovi totalitarismi — pen-so alla sorveglianza da “Grande fratello”, ad esempio. Ma se la immagini in mano alle perso-ne, se pensi a una svolta tecno-logica democratica, allora in-tenderai l’opposto: più cono-scenza uguale più uguaglianza. Quale tra le due strade prende-remo? Non si tratta di catacli-smi naturali ma di come fare-mo la Storia».

L’etichetta di radicale che al-cuni le attaccano sulla schie-na le pesa? «Oggi viene definito radicale

chiunque esca dal pensiero do-minante, perciò lo prendo co-me un complimento. Bernie Sanders si ispira al New Deal, eppure c’è chi lo definisce estre-mista. Quanto a me, penso che i lavoratori debbano disporre del loro lavoro, e mi ispiro in ciò al socialismo libertario. Ma que-ste sono eredità del neoliberali-smo classico: prendo molto sul serio pensatori come John Stuart Mill, sono grandi classi-ci. Io stesso mi sento un “classi-co”, se però vi piace chiamate-mi pure “radical”…».

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Fonte: Oxford University '13

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Il 47% degli impieghi in Usa è ad alto rischiodi scomparsa

Fonte: Forrester Research 2015

22 milioni di posti di lavoro persi solo negli Usa

12,9 milioni di nuovi posti di lavoro creati

9,1 milioni il saldo dei posti di lavoro in meno

ENTRO 10 ANNI

22

12,99,1

Fonte: McKinsey '15

Meno del 5% dei lavori può essere completamente automatizzato

Almeno il 60% dei lavoripuò essere però automatizzato al 30%

OGGI

60% 30%

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IL FUTURO DEL LAVOROEcco come impatterà l’automazione nel mercato del lavoro nei paesi più industrializzati del pianeta secondo alcune delle ricerche più recenti e accreditate

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Che sempre più l’intelligenza artificiale sostituirà il nostro lavoro è un fatto.

Se questo sia un pericolo o una opportunità è invece faccenda che divide gli studiosi.

La robotizzazione ci condanna alla disoccupazione di massa? Oppure i posti

di lavoro perduti verranno sostituiti

da altri? Esiste poi una terza opzione,

la più ottimista di tutte. A farsene

portavoce non sono due cantori

della Silicon Valley, ma un intellettuale molto critico e un giornalista piuttosto

radical. Ecco che cosa ci hanno detto

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.ARX È MORTO MA ANCHE IL CAPITALISMO non sta tanto bene. E allora bisogna voltare pagina: «La nuova classe rivoluzionaria è tra noi: so-no i XIJUF�XJSF�QFPQMF, i sempre connessi, quelli con gli auricolari. E i robot saranno i lo-ro alleati». Così parla l’ultimo dei tecnoentu-siasti, Paul Mason, inglese, giornalista eco-

nomico e ora star del Postcapitalismo, come ha intitolato il libro ap-pena uscito in Italia con il Saggiatore.

Oggi anche i più incalliti tecnofedeli della rete libera fanno i conti con la realtà e iniziano a esprimere dubbi. Lei invece parte dalla tecnologia per proporre un’utopia addirittura di sinistra.«Il capitalismo si basa su risorse scarse, mentre l’informazione è

una risorsa abbondante: con il web abbiamo raggiunto la possibilità di crearla e riprodurla senza limiti. Questo elemento farà saltare il vecchio sistema. L’uomo del futuro sarà istruito e connesso, la socie-tà non si baserà su capitale e lavoro ma su energia e risorse: il postca-pitalismo è un’utopia socialista in salsa tecno. Esperienze collabora-tive come Wikipedia dimostrano che una rete della condivisione è possibile. Quanto ai robot so bene che l’università di Oxford prevede la scomparsa del 47 per cento dei lavori a causa loro. Dico però che so-no un antidoto, non un pericolo. Grazie a loro, quando l’informazio-ne avrà reso molte cose gratuite potremo rinunciare agli impieghi di basso valore e prediligere meno lavoro, più produttivo. Insomma, potranno liberarci dai lavori più alienanti: tecnologia può significa-re conoscenza diffusa ed equità».

Equità? In realtà la tecnologia dell’informazione è in mano a po-chi: Google, Facebook... E il capitalismo non è mai stato così ag-gressivo. Almeno così dice chi critica il suo “postcapitalismo”, co-me Evgeny Morozov. «I monopoli sono proprio il tentativo del capitalismo di dominare

un cambiamento inevitabile. Quando puoi prendere un’informazio-ne, ad esempio una traccia musicale, e copincollarla all’infinito, il prezzo tende inevitabilmente allo zero. Il monopolio consente di con-trollare quell’informazione e imporre artificialmente un prezzo. Ma una visione alternativa è assolutamente possibile. La rivoluzione dell’informazione suggerisce invece abbondanza e prodotti gratis».

Gratuità, lavoro volontario in stile Wikipedia e porte aperte ai ro-bot. Scusi, ma nel suo postcapitalismo come ci si mantiene?«In una fase di transizione sarà fondamentale che lo Stato garan-

tisca il reddito di cittadinanza universale. Poi verremo “paga-ti” sempre di più in servizi: i sala-ri diventeranno sociali, fino a sparire lentamente».

Lei dice “economia della con-divisione” e viene in mente la sharing economy di Uber. È questo che ha in mente?«No, Uber non è un sistema

equo, al contrario: è una piatta-forma di TFMG�JNQPWFSJTINFOU, spinge alla competizione estre-ma e allo sfruttamento. Io ho in mente Wikipedia: il QFFS�UP�QFFS, la rete paritaria, elevata a potenza, un modello basato su competenze diffuse e collaborazione».

Lei sostiene che la sinistra po-litica non sta capendo nulla di quanto sta accadendo. Che “si rifiuta di vincere”. Neppu-re Bernie Sanders la entusia-sma?«Sì, trovo interessanti sia lui

che Jeremy Corbyn, sono due po-litici che conoscono le abitudini della “generazione connessa”, che del resto li vota. Mi piace an-che la sindaca Ada Colau, di Po-demos: a Barcellona ha aperto un bel ragionamento sulla TNBSU�DJUZ. Dico però che la sini-stra non ha saputo sfruttare le contraddizioni tra mercato e economia dell’informazione. Il neoliberismo dell’austerity non darà risposte efficaci quando i robot ci toglieranno il lavoro. La condivisione sì. Ovviamente in questa transizione lo Stato ha un ruolo chiave: può rompere le asimmetrie che consentono i monopoli, primo fra tutti quello dell’informazione. Provi a imma-ginare: se potessimo utilizzare tutti i dati che finiscono in mano alle corporation per fini pubblici condivisi, non sarebbe una vera rivoluzione?».

7,1 milioni di posti di lavoro persi in 15 paesi (che costituiscono il 65% della forza lavoro mondiale)

2 milioni di nuovi posti di lavoro creati

5,1 milioni il saldo dei posti di lavoro in meno

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i&IO PENSAI A... QUELLA VECCHIA barzelletta, sa-pete... Quella dove uno va dallo psichiatra e dice: Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina, e il dottore gli dice: perché non lo interna?, e quello risponde: e poi a me le uova chi me le fa?”. Irriverente e surreale come d’abitudine, la battuta di Woody Allen (da *P�F�"OOJF) ci regala una piccolissima riflessione su un alimento con-siderato pochissimo e utilizzato moltissi-mo, ingrediente principe o umile gregario di una miriade di preparazioni: così tante e

così trasversali, che nemmeno ce ne rendiamo conto.Pasqua coincide con la celebrazione dell’uovo, reale e virtuale, cibo e concetto, storia ultra-

millenaria e perfezione ideativa, sintesi mirabile di forma e sostanza. Un gioiello della natura venduto a un prezzo così insignificante, che per molto tempo abbiamo smesso di andare oltre il guscio, come se bianchi e rossi fossero tutti uguali, scendendo tutti i gradini più bassi della qualità ovaiola. Mai come in questo caso, benessere animale e qualità del prodotto sono diret-tamente proporzionali. La giusta indignazione per le condizioni orripilanti delle galline alleva-te nei pollai-lager fa da specchio alla totale perdita di sapore, tra sgradevoli sentori di pesce —

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colpa dei mangimi pessimi — e colori sempre più sgargianti creati ad arte per ingannare il pa-lato, visto che il tuorlo aranciato viene percepito come più salubre. Un peggioramento che ha indotto una mutazione genetica nei ricettari, pronti a suggerire dosi sempre più robuste di condimenti, dall’onnipresente formaggio grattugiato fino all’orrore del dado alimentare.

I cuochi sono andati contro tendenza, cercando l’uovo assoluto per bontà e purezza, pre-miando gli allevatori virtuosi di galline libere di razzolare e nutrirsi in modo sano. Risultato: piatti deliziosi, con l’uovo cotto nel modo più delicato possibile, per esaltarne il gusto origina-rio. Altra ricerca, quella sulle tipologie: non solo le diverse razze di galline — in questo momen-to piacciono le uova candide delle galline livornesi — ma anche di pennuti. Le uova d’oca sono fantastiche per far riuscire gli impasti gonfi e spumosi, mentre quelle di quaglia sono perfette per regalare proporzioni aggraziate agli antipasti. Il bello dell’uovo è che lavorarci sopra non è un problema. Con la sincerità disincantata che gli è propria, Carlo Cracco racconta di aver scel-to le uova come oggetto di investigazione culinaria «perché sono un alimento povero e non ti senti in colpa anche se ne sprechi tante». Una ricerca economica ma anche proficua, se è vero che la marinatura del tuorlo — disidratato in una purea di fagioli, sale e zucchero, per farne squisiti tagliolini senza un grammo di farina — rappresenta una delle tecniche più interessan-ti della ristorazione d’autore italiana. Tra recupero goloso di piatti tradizionali e fascinazione per gli esperimenti gastro-ovaioli, l’attenzione è cresciuta al punto che le uova guidano la clas-sifica degli alimenti certificati biologici più venduti in Italia. La primavera è il periodo perfetto per visitare una delle tante bio-cascine delle nostre campagne: con un cucchiaio scarso di zuc-chero di canna grezzo e un braccio muscoloso vi regalerete la merenda più golosa del pianeta.

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'ESTA DI RESURREZIONE ma anche rito di primavera. L’arrivo della Pasqua ci fa uscire dal grigio inverno e colora di giallo le nostre

giornate. È il momento in cui la natura si risveglia dentro e fuori di noi. E la tavola diventa un trionfo di odori e sapori che sanno di stagione nuova, anzi novella. A cominciare dall’uovo, che regna incontrastato sulla mensa festiva proprio in quanto simbolo di nascita e rinascita, di generazione e rigenerazione. Insomma niente riesce a sintetizzare meglio la ciclicità della vita di questo archetipo da mangiare. Fine e inizio, morte e resurrezione in una sola linea, senza soluzione di continuità. “Una forma perfetta nonostante sia fatto con il culo”, diceva il grande designer Bruno Munari.

Anche per questo nell’antichità l’ingresso della primavera veniva celebrato con il dono delle uova colorate. E la Terra Madre, regina di tutte le dee, veniva raffigurata con in mano l’uovo cosmico, segno della fecondità e del ritorno annuale alla vita. Il cristianesimo non dilapida questo patrimonio di simboli ad altissima definizione e fa del risveglio stagionale e della resurrezione di Cristo una sola cosa, un vero cortocircuito rituale. Al punto che nel medioevo si raffigurava Gesù risorto che esce dal sepolcro come un pulcino dal guscio. E si raccontava che la Maddalena, mentre pregava sulla tomba di Gesù, avrebbe visto l’uovo che teneva fra le mani trascolorare in un rosso porpora. Era il segno soprannaturale che il dio stava risorgendo.

Insomma dall’uovo primordiale a quello di cioccolato, il passo è breve. Per questo le nostre feste pasquali sono delle orge rituali a base di tuorli, albumi, focacce, frittate, ciambelloni, colombe, farce, cresce. È il momento delle torte dolci e salate, piatto forte di questa liturgia proteica, dove le uova devono essere rigorosamente a vista, con sopra una bella croce di pasta frolla o sfoglia. Per comunicare urbi et orbi che si tratta di un mangiare sacro. Di un’abbuffata come Dio comanda. È il caso degli straripanti casatielli partenopei. O delle barocche “cuddure ccù l’ovu” siciliane. Ma anche dei “coccoi cun s’ou”, monumento della gastronomia popolare sarda. E, naturalmente, delle raffinatissime e sobrie pasqualine genovesi, che guardano dall’alto in basso le supponenti “quiches” francesi. E last but not least la sontuosa pastiera napoletana che, al trionfo delle uova, associa quello delle messi, altro grande simbolo primaverile delle religioni mediterranee. Perché in ogni spiga abitava quel dio che dorme sepolto in un campo di grano. E che è pronto a rivivere per diventare il nostro pane quotidiano. Così la gola diventa devozione. E qualche volta la digestione si trasforma in passione.

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BERLINO

#EL VISO, SGUARDO DIRETTO E TRASPARENTE il regista danese si rac-conta, si commuove, si contraddice, si accende. Seduto nella hall sotto la cupola di vetro dell’Adlon Hotel, a due passi dalla Porta di Brandeburgo, sembra vivere il qui e ora come fosse l’incarnazio-ne di una delle regole di Dogma 95, il movimento cinematografi-

co che quando aveva ventisei anni fondò insieme a Lars Von Trier. «Trovarmi in questo albergo così pesantemente conservatore è una cosa che mi piace, mi tranquillizza». A Berlino, un mesetto fa, ha consegnato -B�DPNVOF���,PMMFLUJ�WFU, il suo film più commovente, di certo il più autobiografico. Dai sette ai di-ciannove anni Thomas Vinterberg è vissuto davvero in una comune, speri-mentando gioie e dolori della famiglia allargata. E oggi, che di anni ne ha quarantasei, ha trasformato la sua esperienza in film: «Diciamo che sì, è una lettera d’amore alla mia infanzia».

Protagonista del film una coppia di intellettuali di Copenaghen, l’anno è il 1975: lui eredita una casa enorme che vorrebbe vendere, lei (Trine Dyrholm, Orso d’argento all’ultima Berlinale) suggerisce di condividerla con gli amici. È l’inizio di una esperienza straordinaria fi-no a che l’uomo, che sente di aver perso l’intimità di coppia, la ritrova con una studentessa (Helene Reingaard Neuman, nella vita nuova

compagna del regista) rompendo fragili equilibri: «In realtà non volevo raccontare l’ennesima famiglia disfunzionale, ma un’epoca di condivisione e utopie di cui sento una profon-da nostalgia. Volevo fare un film sul tempo che passa, sull’a-more che finisce, sulle persone che muoiono, insomma su quando realizzi di avere perduto ciò che prima avevi. Non ho mai veramente capito perché debba sempre andare in que-sto modo».

Nella vita di Thomas a dare vita alla comune fu suo padre: «Faceva il critico cinematografico e decise di fare questa scelta sostanzialmente per motivi ideologici: nella strada in cui abitavamo, a Copenaghen, ce n’erano già altre sei, tutte diverse una dall’altra. E comunque, quando ho fatto vedere il film a quelli della comune con cui sono cresciuto abbiamo

tutti convenuto che quella sullo schermo non era veramente la OPTUSB. Il fatto è che quando condividi una casa e insieme a questa sei partecipe anche della quotidianità, perdi ogni difesa, assorbi tutto insieme agli altri. Ogni essere umano è fatto di ciò che vuole mostrare al mondo e di ciò che vuole nasconde-re. In una comune, invece, prendi tutto il pacchetto completo, non c’è recita né finzione, davanti agli altri sei pigramente nudo. E infatti è lì che ho affinato la mia intuizione, lì ho imparato a vedere le persone per ciò che sono veramen-te. Ovviamente può essere anche molto rischioso, ma di certo crea legami che non si spezzano mai. Con parecchi degli ex membri della nostra comune ci ve-diamo ancora spesso. I più anziani sono come degli zii per me. E quelli che era-no ragazzini sono miei fratelli e sorelle al pari di quelli biologici». A proposito di fratelli e sorelle, nel film c’è un bimbo che a un certo punto se ne va “perché non può vivere in un mondo in cui non c’è più l’amore”. Del tutto inaspettata-mente, alla nostra curiosità gli occhi di Vinterberg rispondono riempiendosi di lacrime: «Era una bambina, si chiamava Corinna, ed è morta lì, nella nostra casa». Il regista riesce a spostare il discorso dalla sua infanzia alla sua carriera artistica con discreta maestria, rintracciando i fili che legano l’una all’altra: «Sa, una troupe è un po’ come una comune. Oppure prenda “Dogma 95”: non somigliava forse a una comune? Anche con quell’esperienza in fondo abbia-mo fatto qualcosa di nuovo, di rischioso e persino di un po’ coraggioso». “Dog-ma” era il manifesto-decalogo scritto dai due registi danesi nel 1995, una sor-ta di “voto di castità” cinematografico. Gli aderenti avrebbero dovuto usare so-lo luce naturale, niente cavalletti e soltanto location autentiche per arrivare a un cinema puro e senza artifici che rispettasse le unità aristoteliche di tempo, spazio e azione. La prima prova EPHNBUJDB di Vinterberg fu 'FTUFO�'FTUB�JO�GB�NJHMJB (1998), spaccato di una famiglia dell’alta borghesia danese dilaniata da liti, accuse e violenze: «In fondo anche quello era il racconto di una comune, i miei film raccontano sempre di uomini e donne danneggiati. Spesso ne difen-do i lati oscuri, perché una spiegazione c’è sempre».

Thomas inizia a girare che ha sedici anni. Grazie a un corto, 4OFCMJOE, nell’89 viene ammesso alla Scuola nazionale di cinema e qui si fa notare da Lars Von Trier. Intanto il suo corto gira il mondo e vince premi. «Eravamo or-mai alla fine degli anni Ottanta, quando la libertà individuale aveva preso il po-sto della solidarietà, il rosso era diventato blu e il calore si era trasformato in freddezza. Certamente nell’individualismo c’era anche qualcosa di fortemen-te magnetico. Ricordo la foto di un broker newyorchese, uno yuppie, ricco e ben vestito, che andava al lavoro a Wall Street su uno skateboard: era l’imma-gine della libertà assoluta, e comunque di una nuova era. Però oggi se guardi all’Europa, soprattutto al mio paese, lo vedi a occhio nudo come tutto è diven-tato freddo, cinico, disumanizzato, e io ne provo vergogna, perché noi siamo un popolo caldo, accogliente, veramente civile». Si accalora e se ne rende con-to: «Sono sempre stato profondamente aggressivo nei confronti delle ingiusti-zie. In famiglia, nella vita, non ho mai avuto paura di parlare, di mostrare UIF�FMFQIBOU�JO�UIF�SPPN (tipica espressione inglese per indicare una verità ovvia ma che si preferisce ignorare, OES). Pure nei miei film, anche se più indiretta-mente perché credo che il messaggio politico diretto non funzioni dal punto di

vista cinematografico». *M�TPTQFUUP (2012), eccolo un bell’esempio di FMFGBO�UF�OFMMB�TUBO[B: Mads Mikkelsen interpreta un insegnante d’asilo in un

paesino della Danimarca che viene ingiustamente accusato di pedofilia. Le ingiustizie, dunque: «Avevo quattro anni la prima volta che reagii a una ingiustizia. Ero sul bus con mio padre e mia sorella. Io e lei eravamo seduti. Un ubriaco le si avvicina e le ordina: “Scansati!”. Io sono fuori di me, vado dall’energumeno e gli dico “sei uno stupido!”. Lui mi colpisce in

faccia, mio padre mi difende, ricordo ancora i suoi occhiali rotti. Il gior-no dopo all’asilo ero molto orgoglioso del mio occhio nero. Così co-

me oggi sono orgoglioso di ogni mio film, anche quando mi stroncano» (nella carriera di Vinterberg ci sono anche una manciata di film BNFSJDBOJ dall’altalenante risultato...).

E di Dogma, che ne è stato? Morì non appena sbocciato: «La standing ovation ricevuta per 'FTUFO a Cannes, nel ’98, effettivamente è stata sia l’inizio che la fine. Il nostro movi-mento era nato per essere innovatore e ribelle verso le con-venzioni del cinema, ma stava diventando di moda, e quin-di convenzione. Perfino un marchio. Oggi in Danimarca di-segnano persino i mobili in stile “Dogma”, mentre il super-mercato sotto casa ti consegna a domicilio il box “Dogma”. Per noi proseguire su quella strada sarebbe stato pateti-co, come indossare un vestito vecchio. Però abbiamo ispi-rato altri artisti, e forse lasciato una traccia. Quanto a me, la ricerca della purezza e della verità tento ancora di por-tarla sul grande schermo». E, vent’anni dopo, dell’amici-zia con Von Trier cosa ne è stato? «Lars è anche venuto più volte al montaggio de -B�DPNVOF, ci vediamo, siamo fratel-

li. Ed è così che ci chiamiamo tra di noi, sa?, “fratello Lars” e “fratello Thomas”. I movimenti passano, le amicizie a volte restano».

Prima “Festen”, feroce radiografia di una ricca cena borghese. Poi

“Il sospetto”, inquietante ritratto di una piccola comunità. Il terzo

film, “La Comune”, è il più schiettamente autobiografico di tutti:

“Diciamo che è una lettera d’amore alla mia infanzia” confessa il

quarantaseienne regista danese che in una comune è cresciuto

per davvero: “Non volevo raccontare l’ennesima famiglia disfun-

zionale, piuttosto un’epoca di condivisione e utopie di cui sento

una profonda nostalgia. Soprat-

tutto volevo parlare del tempo

che passa, dell’amore che fini-

sce, delle persone che non ci so-

no più e del perché debba sem-

pre andare a finire così”

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