rivista bimestrale di assimpredil ance numero trentotto luglio … · il tema riguarda le miniere e...

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Tariffa R.O.C.: Poste Italiane SpA Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv.in L. 27/02/04 n. 46) Art. 1, comma 1, DCB Milano Rivista bimestrale di Assimpredil Ance_Numero Trentotto_Luglio agosto 2013 quarto bimestre DEDALO fuga dalla crisi g g

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Direttore: Cecilia [email protected]

Redazione:[email protected]

Comitato di redazione:Claudio De AlbertisGloria DomenighiniLuca BottaGiuseppe EspositoRoberto MangiavacchiGabriele BisioRegina De AlbertisRiccardo Sverzellati

Art directors:Contemporary Graphics

Pubblicità:[email protected]

Direttore responsabile:Cecilia Bolognesi

Registrazione n. 4 del 5/1/1985 anno ventisettesimo numero 38quarto bimestre 2013Per le immagini di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara disponibile ad assolvere i propri doveri.

DedaloRivista bimestrale edita daASSIMPREDIL ANCE Via San Maurilio 21, 20123 Milanotel. 02 8812951fax 02 8056802 www.assimpredilance.it

Presidente:Claudio De Albertis

Direttore generale: Gloria Domenighini

Vicedirettore: Andrea Lavorato

DEDALO Numero Trentotto_Luglio | Agosto 2013 Rivista bimestrale di Assimpredil Ance

AUTORE TITOLO Foto di Firat Ataman

Cecilia Bolognesi Finalizzare gli obiettivi 008

Claudio De Albertis I fattori della ripresa: i soggetti, i prodotti, le regole 009

Cristina Rapisarda Sasson Rigenerazione urbana sostenibile: siamo pronti? 012

e-Mapping EPH residenziale 016

Roberto Camagni Le aree metropolitane italiane chiave dello sviluppo del Paese 018

Luca Penna Imprenditori attori del_cosa fare_ 024Micele Thea

Giorgio Robba Opportunità sui mercati esteri, 030 problemi sul mercato italiano, imprese all’estero

Angelo de Prisco Colmare le lacune 034

Elena Delsignore Mercato immobiliare ad oggi: una riflessione 036Antonio Campagnoli

Warwick Business School London Perchè e come aziende leader nel business investono in design 040

Antonio Accetturo L’effetto dell’immigrazione nelle cttà italiane 046Franceco ManaresiSauro Mocetti Elisabetta Olivieri

DEDALO

Questo numero è stato interamente illustrato per gentile concessione di Firat Ataman.Il tema riguarda le miniere e la città di Britannia, nella British Columbia Canada, miniere di rame attive dal 1904 al 1974 che, dopo avere dato lavoro a circa 60.000 persone, procurarono un danno ambientale comprese le acque di portata estrema. Nel 2004 inizia la bonifica ed i risultati ad oggi ne fanno un caso di eccellenza nella storia delle conversioni di aree ex industriali.

editoriale

Finalizzare gli obiettivi

L’ultimo bollettino del Gennaio 2014 _Ance congiuntura PIL produzione e investimenti nelle costruzioni, occupazione_ è disarmante: la registrazione dei dati selezionati per fare il quadro sul settore delle costruzioni e sul

mercato del 2013 rappresenta uno scenario per cui è impossibile non essere pessimisti. Non esiste segno più e la nota di speranza si limita alla variazione nulla del Pil odierno. E’ molto probabile dunque che l’inerzia del sistema ci guidi verso il fallimento. Ma è ugualmente probabile che in questa condizione totalmente priva di ossigeno, si azionino leve disperate per attuare un cambiamento. Un obiettivo comune tra chi amministra e chi è dall’altra parte è sicuramente la realizzazione di un territorio efficiente e di qualità, attrattivo, competitivo. Un territorio specchio di tutto il capitale produttivo cognitivo e creativo che può rilanciare tutto il sistema. Si tratta di iniziare a condividere degli obiettivi calibrando le proprie azioni senza rinunciare ai propri credi. Basta consumo di suolo? Portiamo avanti più manutenzione, più sostituzione, più qualità nell’edificato. C’è parte politica o categoria che si vuole opporre ad un disegno del genere? No, se lo sviluppo viene comunque tutelato. Il territorio è il banco di prova del fabbisogno di modernità. Che la trasformazione diventi un obiettivo perseguito da tutti, in un rinnovato equilibrio tra città e campagna, ma come? Abbattendo i costi delle sostituzioni edilizie (o incentivando i profitti), favorendo una fiscalità e dei regolamenti che sostengano le operazioni di trasformazione, garantendo l’accesso ai nuovi prodotti edilizi dagli utenti con modalità di finanziamento snelle, costituendo premialità per amministratori che mettono in atto procedure trasparenti al passo di chi vuole investire. La procedura deve inseguire e indirizzare l’investimento, il contrario è il fallimento. Non c’è sufficiente massa critica su molti punti né consapevolezza condivisa. A fronte di città modeste, vecchie e prive di qualità, esistono ancora sacche di vaghezza decisionale e contraddizioni senza consapevolezza dei danni inflitti all’evoluzione. Uno tra i mille esempi? Milano rinnova il suo R.E. Ma perché mentre il risparmio energetico predica la compattezza dell’involucro a noi sono ancora preclusi i cavedi (che lo permetterebbero al meglio) o i bagni ciechi? Perché mentre negli altri paesi evoluti gli studenti popolano i monolocali delle grandi città di dimensione ridotta, noi non possiamo allinearci nel loro ridimensionamento alle ridotte superfici europee? Non esiste motivo se non la distrazione nei confronti di un mondo che se non evolve rapidamente è destinato al fallimento, sia pure per un cavedio, una ventola, 3 mq. Partecipare tutti, a tutti i livelli, al territorio in una forma di alta democrazia significa proprio questo: promuoverne l’efficienza e la bellezza, collegando le informazioni capillarmente e perseguendo la sua felice evoluzione, con il sostegno di tutte le parti.

Cecilia Bolognesi

Il lungo periodo di recessione che abbiamo vissuto non è assimilabile ai periodi di crisi che cicli-camente hanno investito il settore delle costruzioni dagli anni della ricostruzione ad oggi. Credo si tratti, piuttosto, di una rivoluzione complessiva del sistema economico e del mercato destinata a cambiare completamente gli scenari ai quali la storia di questi decenni ci ha abituato. Al termi-

ne di questo drammatico periodo, il mondo della produzione edilizia sarà diverso da quello attuale: saranno diversi i soggetti, saranno diversi i prodotti, saranno diverse, auspicabilmente, anche le rego-le. È dalla combinazione di questi nuovi fattori che si verrà a configurare l’offerta edilizia di domani. Innanzitutto, con riferimento ai soggetti: certamente il mercato opererà una selezione degli attori. Il nostro mercato è costituito da troppe imprese, troppo piccole e polverizzate. Una situazione che deri-va da molteplici cause, ma prima di tutto dall’assenza, sino ad oggi, di un sistema di qualificazione dell’attività di imprenditore edile, considerata attività libera; chiunque può fare l’imprenditore in questo settore semplicemente presentando alla Camera di Commercio una carta d’identità e un codi-ce fiscale. Quanto alle regole del mercato, attualmente esiste un sistema di qualificazione soltanto nel settore degli appalti pubblici che fa capo alle SOA, mentre non esistono meccanismi di qualificazione nel mercato privato. E’, questa, un’esigenza sempre più avvertita: perché l’immagine e la reputazione di un’impresa sono fattori determinanti ai fini della sua competitività; perché qualificazione dell’im-presa significa, innanzitutto, qualità del processo produttivo e dell’organizzazione dei fattori della produzione, regolarità dei rapporti di lavoro e sicurezza nei cantieri, nonché qualità prestazionale del prodotto realizzato; e, infine, perché qualità delle imprese significa competitività del territorio e delle città, motori del sistema economico nazionale. Le condizioni del mercato e il panorama economico quale si prospetta al termine di questa fase depressiva impongono norme che garantiscano la serietà degli operatori: un percorso di qualificazione che valorizzi e renda trasparente la struttura dell’impre-sa e conseguentemente permetta al mercato di conoscere per scegliere l’operatore più adeguato. Se poi parliamo del prodotto edilizio, visto nell’ottica di quella che sarà la città di domani, dobbiamo fare una riflessione su cosa dovranno essere e a cosa dovranno servire gli edifici: come dovranno essere la casa e l’ufficio o il posto di lavoro, non soltanto quali nuclei abitativi o lavorativi, che rilevano da un punto di vista sociologico, ma anche da un punto di vista tecnico-progettuale, per le caratteristiche, i requisiti, le esigenze che occorre soddisfare. Sotto l’aspetto sociologico, il nuovo modello abitativo sarà condizionato fortemente dall’andamento demografico del nostro Paese, dal modificarsi del con-cetto di famiglia tradizionalmente inteso, ma soprattutto dal crearsi di quelle famiglie e di quei nuclei che si formeranno, sempre più numerosi a seguito degli scorpori della famiglie di origine, della fran-tumazione del modello tradizionale di famiglia, del nascere delle coppie di fatto: tutti fenomeni che si dovranno gestire anche sotto l’aspetto dell’esigenza abitativa. D’altronde, questa sarà sempre più la realtà. I nuclei famigliari sono sempre più piccoli: le coppie tendono a tardare l’allargamento della famiglia; i giovani restano molto più a lungo con i propri genitori; gli anziani aumentano in quanto aumenta l’età media della popolazione; ci sono molti single e tanti studenti; comincia ad affermarsi anche da noi il fenomeno dell’appartamento in condivisione. Va poi considerata la domanda abitativa espressa dagli immigrati, previsti in costante aumento nei prossimi anni. Ognuna di queste categorie esprime bisogni differenti. Allo stesso modo, i nuovi modelli di uffici e luoghi di lavoro dovranno sa-per coniugare le esigenze che discendono dalle formule, sempre più diffuse, di co-working e di home working, che impongono soluzioni diverse da quelle tradizionali, oltre all’influenza dei problemi re-lativi alla mobilità che caratterizzeranno sempre di più la nostra società del domani. Sotto l’aspetto tecnologico e di innovazione, occorre rimarcare come il prodotto edilizio sia un prodotto rimasto fermo agli anni Cinquanta nei modelli tipologici, nei processi e nelle tecnologie costruttive. Credo fermamente che il mondo dei costruttori debba ripensare al prodotto edilizio come è stato progettato

dal Presidente

I fattori della ripresa: i soggetti, i prodotti, le regole

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e realizzato negli ultimi decenni: i sistemi di costruzione, le tecnologie, i materiali, l’organizzazione stessa del cantiere. Oggi molto è cambiato. Sono diverse le tecnologie costruttive; è obbligatorio l’ade-guamento a prescrizioni di sostenibilità ambientale che hanno rinnovato completamente le regole del passato; ci sono innovazioni materiche che rappresentano vere e proprie novità nel mondo delle co-struzioni; la formazione e le responsabilità delle maestranze sono state rivoluzionate. Di tutto questo il costruttore deve tener conto: deve cambiare l’ottica con cui si vede l’edificio da costruire. Il manu-fatto edilizio deve essere concepito e progettato come un vero e proprio prodotto industriale, a 360 gradi: un prodotto che nasce da un processo di costruzione, con una data di fabbricazione, una data di scadenza, un costo di gestione, di utilizzo e di manutenzione, un’attenzione al ciclo di vita (vero perno della sostenibilità), una trasparente esplicitazione dei componenti, un’estrema chiarezza sulle prestazioni e un’offerta di adeguate garanzie. Solo in questo modo, facendo propria questa diversa e nuova concezione, l’industria delle costruzioni potrà realizzare un prodotto diverso, molto meno co-stoso ed estremamente più funzionale, che rispetti i requisiti e le condizioni che la legge prescrive e che vada incontro ai bisogni espressi da una nuova domanda. Per fare questo, però, è necessaria una integrazione sempre più stretta tra la fase progettuale e la fase costruttiva dell’edificio. Una delle più importanti novità che ha interessato il settore edile negli ultimi anni è stata l’introduzione di nuove regole, a volte prescrittive, a volte solo premiali, in merito alla sostenibilità degli edifici, alle tecnologie costruttive, all’organizzazione del cantiere, agli obblighi di natura ambientale. Regole che da un lato hanno richiesto attenzione al rispetto di ben precise prescrizioni legislative e dall’altro hanno aperto la strada ad una maggiore considerazione della qualità del fabbricato. Più in generale, queste nuove norme hanno messo in moto un processo di aggiornamento e di acculturamento dell’intera filiera edile, le cui figure erano spesso prive delle necessarie competenze sia sotto l’aspetto progettuale che sotto l’aspetto costruttivo. Ma, soprattutto, hanno determinato la inevitabile integrazione tra i saperi e le scelte di tutti gli attori che partecipano, dall’inizio alla fine, al lungo iter di realizzazione del fabbri-cato. Evidenti i vantaggi conseguibili da questa integrazione, a cominciare dalla riduzione dei tempi e dei costi dell’iter di costruzione, e dal risultato qualitativamente superiore dei requisiti di sostenibi-lità, intesa in senso complessivo, del fabbricato. Se, però, innegabili sono i vantaggi conseguibili con la progettazione integrata, occorre anche sottolineare che ciò comporta un flusso ininterrotto di dati tra soggetti diversi (progettista, capocantiere, committente, utente finale, ecc.). Ad ogni passaggio, infatti, il rischio di incoerenze e perdite di informazioni è sempre molto elevato e spesso ciò si tramuta in un costo per le imprese. Questo rischio può essere minimizzato grazie al potenziale della c.d. interopera-bilità. Parlando del futuro del prodotto edilizio, non possiamo dimenticare l’importanza dell’efficien-za energetica degli edifici: come è noto, infatti, gli edifici sono responsabili del 40% del consumo energetico su scala europea. La Commissione Europea, conscia del problema e della sua incidenza sui cambiamenti climatici globali e sull’inquinamento locale, spinge gli Stati membri ad emanare apposi-te norme per contrastare il fenomeno. Ciò è avvenuto con la Direttiva 2002/91/CE e, più recentemen-te, con la Direttiva 2010/31/UE. Tale Direttiva impone agli Stati membri di emanare disposizioni af-finché i nuovi edifici e tutti quelli soggetti a “ristrutturazioni importanti” (ovvero le ristrutturazioni il cui costo superi il 25% del valore dell’edificio o che riguardino almeno il 25% della superficie dell’in-volucro) abbiano un consumo energetico “quasi zero”. Il recepimento di tale Direttiva dovrà chiarire quali usi energetici dovranno essere inseriti nel consumo energetico (al momento, infatti, sono vigen-ti obblighi solo sul riscaldamento degli ambienti) e dovrà essere determinato il concetto di “quasi zero”. Il recepimento dovrà, però, confrontarsi con un quadro legislativo non semplice: ci si augura che sostituisca con un unico atto l’intera produzione legislativa seguita alla Direttiva 2002/91/CE e che non sia soggetto a successive e varie integrazioni. Il settore edile, come ogni altro settore dell’im-prenditorialità, ha infatti bisogno di regole chiare, condivise e stabili nel tempo. La sostenibilità am-bientale degli edifici sarà la nuova frontiera per un’edilizia innovativa. Infatti, si è già visto come le criticità energetiche (costo dei combustibili e crescente inquinamento) hanno fornito al settore edili-zio segnali chiari per un cambiamento che considerasse il fattore energia come uno degli elementi chiave in un percorso costante verso l’innovazione. Allo stesso modo, la tematica ambientale, non ri-duttivamente vista come “risparmio di energia”, potrebbe essere il prossimo volano per l’innovazione, se adeguatamente supportato da nuovi incentivi e da nuove opportunità di mercato. Un problema da superare è l’insufficiente coordinamento tra le varie regolamentazioni, ben rappresentato da alcuni regolamenti edilizi comunali che impongono l’utilizzo di specifiche tecnologie, che godono di una forte popolarità, dimenticandosi dell’esistenza di altre tecnologie concorrenti, meno alla moda ma più efficaci. L’obiettivo comune deve essere quello di massimizzare la prestazione ambientale globale dell’edificio e non di imporre specifiche tecnologie e materiali: in tal modo, verrà riaffermata la cen-tralità e priorità di una corretta progettazione, capace di utilizzare tutti i contributi possibili (tanto dall’involucro, quanto dalla bioclimatica e dall’impianto termico), al fine di ottenere un sensibile ed effettivo risparmio energetico e un elevato comfort climatico. Una progettazione più attenta agli im-patti ambientali sicuramente costa di più, ma permette un contenimento di una serie di voci che pe-sano sul bilancio economico dell’intervento edilizio. Il rinnovamento della città non può, però, avve-nire agendo esclusivamente sulle nuove costruzioni, che, secondo la Commissione Europea, hanno un peso modesto (dallo 0,5% al 2% annuo) rispetto al numero totale di edifici. Occorrerebbero, infatti, decenni per avere un impatto significativo delle nuove tecniche sostenibili. Di conseguenza, occorre che siano resi più sostenibili e meno energivori gli edifici esistenti, eseguendo idonee ristrutturazioni e sostituzioni edilizie. Credo che sia necessario far scattare, insieme, due leve. Da un lato, stimolare il mercato privato tramite l’erogazione di appositi incentivi di natura fiscale ed edilizia, eventualmente anche riconvertendo in un’ottica sostenibile gli attuali incentivi; dall’altro lato, sollecitare la commit-tenza pubblica affinché aumenti il numero di appalti con forte connotazione di sostenibilità; perché, ad esempio, non individuare una serie di aree particolarmente avvantaggiate sul versante delle biocli-matica (per massimizzare gli apporti solari e la ventilazione naturale), da destinare all’insediamento

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di questo nuovo tipo di edifici, che possano anche avere una funzione didattica quanto a materiali, tecnologie e soluzioni adottate, soprattutto in termini di progettazione integrata? L’obiettivo della sostenibilità è importante ed ambizioso e per raggiungerlo è necessario che tutti i soggetti coinvolti (il mondo imprenditoriale e tecnico, da una parte, e la pubblica amministrazione dall’altra) facciano la propria parte. Il settore delle costruzioni può innescare un processo di sostenibilità oltre la normativa, che sappiamo tutti essere già molto rigorosa, e portare la città a guardare concretamente alle prospet-tive che la green economy può offrire in termini di trasformazione del mercato. Da tempo diciamo che la Pubblica Amministrazione è l’infrastruttura su cui corrono le idee, è il partner della crescita e dello sviluppo. Ma, soprattutto è regista delle forme, delle dimensioni e della qualità delle nostre città. Bisogna finalmente avviare, con serietà e consapevolezza, un percorso di semplificazione e di innova-zione normativa agendo a tutti i livelli e ricercando, tra pubblico e privato, terreni di azione comuni. La più difficile, ma non impossibile, sfida per il rinnovamento è quella di rendere la Pubblica Ammi-nistrazione più efficace ed efficiente, superando gli eccessi di burocrazia e di lentezza nei processi autorizzativi. In questo, la città deve porsi come laboratorio della sperimentazione di un nuovo corso nei rapporti tra Pubblica Amministrazione e cittadini e tra Pubblica Amministrazione e imprese: oc-corre farlo, è la pre-condizione per ripartire. Ma per fare questo occorre, prima di tutto cambiare le regole: non si può pensare al nuovo mercato che potrà svilupparsi dopo questa prolungata e potente recessione, e alla tipologia di offerta che nascerà dalla produzione edilizia, con la coesistenza di rego-le vecchie. E’ fondamentale che nuove regole siano dettate per consentire alla nuova offerta di poter decollare. Questo significa aggiornamento del quadro normativo: anche se molto sta cambiando, il nostro Paese risulta essere ancora vittima di un sistema poco flessibile e, pertanto, incapace di cogliere tutte le opportunità offerte dagli intervenuti progressi tecnologici. Se per andare incontro al mercato il settore delle costruzioni deve puntare verso la sperimentazione, allora serve l’aiuto del legislatore: c’è l’esigenza di un nuovo approccio normativo che operi la sostituzione di regole farraginose che affaticano senza motivo le nuove costruzioni con regole nuove, moderne, in linea con quelle di altri Paesi europei, che diano l’opportunità di pensare a un’offerta immobiliare adeguata a quella che sarà la nuova domanda immobiliare. Un’ultima considerazione, strettamente connessa a quanto sinora detto, va rivolta al sistema bancario: negli ultimi 5 anni la riduzione dei finanziamenti al settore delle costruzioni per il comparto abitativo è stata di quasi il 50% e di oltre il 60% nel non residenziale. Per uscire dalla crisi le imprese hanno bisogno di nuovi rapporti con il sistema delle banche, sia per quan-to riguarda i finanziamenti ordinari, sia per quelli a lungo termine: è fondamentale per il settore delle costruzioni una politica volta a sostenere gli investimenti a lungo termine con misure specifiche che permettano lo sviluppo di interventi immobiliari sul territorio con caratteristiche di innovatività di prodotto e di eco sostenibilità, nonché gli interventi legati alla rigenerazione delle aree urbanizzate. Il settore delle costruzioni è uno dei più convenzionali e dei più conservativi, ma la crisi che ci ha in-vestito in questi anni ha provocato un’accelerazione nel cambiamento e richiede un salto tecnologico e culturale che ognuno degli attori del nostro settore, cogliendo una straordinaria opportunità, ha il dovere di compiere.

Claudio De Albertis

Cristina Rapisarda SassoonAmministratore Delegato GLOBAL TRENDS

una leva

Rigenerazione urbana sostenibile: siamo pronti?

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Da molti fronti esperti di tutti i settori si stanno chiedendo da tempo:

come uscire da “questa” interminabile crisi? Una crisi sicuramente senza precedenti dall’ultimo Dopoguerra e che richiede quindi una sensibilità particolare nel tentativo di prospettare possibili soluzioni di way out. Ci si chiede tra l’altro: le strategie di sviluppo sostenibile possono rappresentare un asse portante delle prospettive di ripresa? E possono rappresentare il percorso anti-crisi del settore delle costruzioni, tuttora in fase di preoccupante recessione? Una premessa è d’obbligo: se, fino a qualche anno fa, la sostenibilità economica, ambientale e sociale poteva rappresentare il corno di un dilemma che ancora metteva al tavolo dei decisori strade differenti di “dispersione di risorse”, oggi è un must. La dimensione di generale e diffusa scarsità che la crisi ha portato con sé impone un approccio più che oculato alle risorse, tutto all’insegna del risparmio. Di sprechi, a essere seri, non si può proprio più parlare per il semplice fatto che è rimasto ben poco da sprecare. Oltre alle risorse economiche e finanziarie, anche il capitale ambientale e sociale va valorizzato al massimo, proprio e anche per compensare la scarsità di valore strettamente economico. Detto ciò, sembra paradossale che il settore delle costruzioni si trovi ad attraversare la sua crisi peggiore in una fase storica e sociale che vede nello sviluppo urbano e infrastrutturale il punto chiave della sua dinamica evolutiva. A questo proposito, i numeri della crescita della popolazione urbana nel mondo sono noti. A fronte di un 2% di popolazione mondiale insediata nelle città a inizio del diciannovesimo secolo, nel ventunesimo secolo la popolazione urbana è pari al 50% e raggiungerà il 60% nel 2030. Per la prima volta nella storia dell’umanità la maggioranza della popolazione mondiale vive nelle città e questa proporzione continuerà ad aumentare. Nel 2050 sette persone su dieci vivranno in città, rappresentando il 70% di una popolazione che si stima attorno ai 9 miliardi di persone. E’ vero che il tasso più alto di urbanizzazione si registra nei Paesi emergenti. Ma è altrettanto vero che i Paesi maturi

si trovano ad affrontare una crescita urbana che sarà determinata per circa due terzi dall’immigrazione. L’Europa a 27, secondo Eurostat, vedrà aumentare i suoi cittadini dai 501 milioni registrati a inizio 2010 a 525 milioni nel 2035 e toccherà probabilmente il picco di 526 milioni attorno al 2040, con sensibili differenze tra gli Stati Membri: nel 2060 sarà il Regno Unito il Paese con la popolazione più numerosa (79 milioni), seguito dalla Francia (74 milioni), dalla Germania (66 milioni), dall’Italia (65 milioni) e dalla Spagna (52 milioni). Questa linea di tendenza genera nuovi e pressanti bisogni. I Paesi emergenti dovranno creare condizioni di habitat favorevoli per un numero crescente di persone, bonificando progressivamente il degrado degli slums. I Paesi maturi dovranno avviare una consistente riqualificazione degli habitat esistenti per una maggiore efficienza ambientale, economica e sociale capace di distribuire le risorse scarse esistenti a una popolazione in continuo aumento. In ogni caso, sarà indispensabile ridurre l’impronta ecologica delle città che, oltre ad occupare porzioni significative di territorio, sono responsabili di circa l’80% del consumo globale di energia, di oltre il 70% delle emissioni di gas serra e di oltre il 70% della produzione mondiale di rifiuti. E non è certo da trascurare, nella fase attuale di cambiamento e instabilità climatica, l’esigenza di riabilitazione di aree urbane colpite da calamità naturali, in particolare da eventi sismici e da fenomeni di dissesto idro-geologico, e, allo stesso tempo, di interventi di riqualificazione e messa in sicurezza per un’adeguata prevenzione del rischio sismico. Insomma la transizione, con buona probabilità irreversibile, verso un mondo prevalentemente urbano apre straordinarie prospettive di sviluppo che dovranno ruotare attorno ai tre pilastri della sostenibilità: economico, dovendo rendere disponibili alloggi economicamente accessibili ai nuovi cittadini, anche dal punto di vista dei consumi energetici; ambientale, dovendo garantire un uso più efficiente delle risorse e dei territori a favore di un numero

crescente di persone; sociale, dovendo rispondere ai bisogni di una popolazione multi-culturale e più longeva. Ed è più che evidente che, in questo scenario, il settore delle costruzioni avrà un ruolo centrale e determinante. Attenzione però: in una prospettiva del tutto nuova, essendo cambiata radicalmente la direzione del ciclo edilizio, che si sposta dall’espansione alla rigenerazione dei tessuti urbani e alla riqualificazione del costruito per un migliore utilizzo delle risorse e dell’energia. In Europa, come è noto, il tema dell’efficientamento energetico è una priorità, dato che le nuove normative sull’efficienza energetica in edilizia impongono, da qui al 2019, per tutti gli edifici pubblici di nuova costruzione un regime “a quasi zero energia”. Dal 2020 lo stesso target dovrà essere raggiunto anche dagli edifici privati e, nel frattempo, dovrà essere avviato un processo di trasformazione per il patrimonio edilizio esistente. Ma allora che cosa ci sta ostacolando dal cercare di cogliere al volo le opportunità del nuovo e inarrestabile sviluppo urbano? Due ordini di riflessioni vanno fatte, riguardo alle imprese del settore e riguardo alla governance delle città. Sul fronte impresa, l’impegno richiesto dalle nuove dinamiche di sviluppo urbano in termini di cambiamento culturale è grandissimo. Oggi è indispensabile una professionalità elevata e una capacità di visione progettuale lungo tutta la filiera. Perché, da un lato, gli operatori della filiera devono mettersi al passo con le nuove frontiere dell’innovazione tecnologica nel costruire: digital fabrication, computational design, la ricerca su materiali avanzati sono oggi una realtà tangibile nelle migliori pratiche del settore. Dall’altro lato, dovranno riuscire a mettere in campo una visione e una capacità progettuale “olistica”, idonea cioè a declinare la sostenibilità nel costruire in tutte le fasi del ciclo edilizio. Non è questa la realtà del tessuto imprenditoriale nel nostro Paese, in cui proprio la mancanza di know how tecnologico e progettuale rende difficile il percorso di cambiamento e innovazione anche ai players maggiori di alcuni segmenti della filiera. Penso in particolare all’impegno in ricerca e

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innovazione del settore del cemento, in cui l’Italia vanta alcune vere e proprie eccellenze, (v. sdVision 2013-2014 anche per un’ampia discussione delle riflessioni qui svolte). Su questo fronte è quindi urgente attivare percorsi qualificati di formazione continua per i professionisti e gli operatori della filiera. Va detto, infatti, con lucidità, che oggi probabilmente non siamo ancora pronti ad affrontare nemmeno il percorso disegnato dall’Europa per il campo specifico dell’efficienza energetica. Ma è certo che, anche con il tessuto imprenditoriale più qualificato, la strada indicata non è percorribile senza una governance adeguata. Perché la rigenerazione urbana sostenibile non è solo una pratica urbanistica mirata a riqualificare edifici e infrastrutture e ad abbattere e ricostruire edifici giunti a fine vita, ma è una strategia complessiva per lo sviluppo sostenibile delle città, funzionale anche alle strategie smart city, che riduce l’impronta ecologica dell’ambiente costruito, limita la dispersione urbana, frena il consumo di nuovo territorio e mira alla riqualificazione delle periferie come punto di partenza per la svolta dell’assetto edilizio e ambientale delle città. Ci sono esempi importanti, anche vicino a noi, di amministrazioni pubbliche che hanno saputo muoversi in questa direzione. A partire dalla Francia che ha istituito, nei primi anni 2000, l’Agence Nationale pour la Renovation Urbaine (ANRU) deputata alla riqualificazione urbana del Paese, grazie alla quale molti dei quartieri periferici costruiti nel secondo dopoguerra sono stati demoliti per far posto a nuove realizzazioni. E dagli anni Novanta la città di Barcellona che ha sviluppato, anche in accompagnamento a grandi eventi di portata mondiale, un piano di rigenerazione urbana totale, da cui hanno avuto origine prima i “100 progetti” di Oriol Bohigas e poi l’ammodernamento delle strutture sportive, i molti interventi sul fronte mare, la distribuzione di opere e infrastrutture e gli interventi di recupero e ristrutturazione in molti quartieri della città dal centro alle periferie. E noi? Dove siamo? Volendo restare saldamente radicati nel terreno fertile del pensiero

positivo, c’è una luce sul nostro orizzonte: Torino SMILE, il nuovo Masterplan di Torino Smart City che si propone come il primo progetto strategico chiaro e condiviso elaborato da una città italiana. Torino SMILE disegna un percorso di trasformazione articolato in quattro ambiti strategici di sviluppo: mobilità, inclusione sociale, salute e benessere, energia. Tra le idee già mature per un’operatività a breve termine spiccano: 1) utilizzare nuove tecnologie, strumenti e metodi a supporto della pianificazione e progettazione urbana per la riqualificazione degli spazi pubblici, anche attraverso azioni integrate di retrofit di edifici e il recupero di aree dismesse; 2) promuovere la sicurezza e la qualità urbana attraverso il controllo del territorio, la rigenerazione urbana intesa come sostegno sociale, risanamento e miglioramento dello spazio; 3) promuovere il risparmio energetico e la sostenibilità ambientale degli edifici privati, attraverso l’adozione di uno standard tecnico di riferimento per la definizione e la verifica degli interventi di riqualificazione energetica degli edifici e l’impiego di sistemi di incentivazione diretta collegati allo standard e alla sostituzione edilizia; 4) sviluppo e sperimentazione di illuminazione pubblica urbana intelligente, mediante impiego di lampade a LED, telegestione dei lampioni, regolazione dell’intensità ed erogazione di servizi a valore aggiunto. In conclusione: riqualificazione all’insegna dell’eco-efficienza, messa in sicurezza e manutenzione del patrimonio edilizio pubblico e privato esistente, recupero di aree dismesse e valorizzazione degli spazi pubblici con il sostegno dell’infrastruttura digitale, sono queste certamente alcune delle ricette anti-crisi nella nuova città della parte più matura del mondo. E’ una prospettiva che potrebbe soddisfare i bisogni di tutti, ma che richiede lo sforzo di tutti. Non si può fare senza imprese innovative, ambientalmente e socialmente responsabili. Non si può fare senza un’amministrazione pubblica capace di visione e di operatività per il bene comune. Mettiamoci alla prova.

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Elaborazione e-Mapping su dati catastali -SIT Comune di Milano

MILANO Energivora

EPH residenziale

EPH residenziale

Media ponderata dell’EPH di ogni edificio residenziale calcolata come media ponderata sulla superficie degli alloggi in relazione al numero di Certificati ACE presentati

strategie

Roberto CamagniOrdinario di Economia Urbana e di Valutazione economica delle Trasformazioni Urbane Politecnico di Milano

Le aree metropolitane italiane chiave dello sviluppo del Paese

L’idea della necessità di dotare le grandi aree metropolitane di istituzioni sovra comunali che possano innovare nei loro sistemi di governo e nelle loro pratiche di governance non è

nuova. Essa nasce storicamente da molteplici esigenze ritenute cruciali nell’attuale fase complessa di crescita fisica ed economica di questi territori, gravida di rischi per la sostenibilità e per la competitività dei territori stessi. Da un lato, la centralità delle aree metropolitane nei processi di internazionalizzazione e di globalizzazione è apparsa chiara, almeno in Europa, da quando il Presidente Jacques Delors annunciò il progetto di Grande Mercato Unico Europeo nel 1985, cui seguì un prolungato periodo di intensissimi investimenti da parte delle grandi imprese multinazionali – industriali, finanziarie e commerciali – nelle aree di punta dell’economia dei singoli paesi, i ‘gateways’ della loro internazionalizzazione: le grandi città metropolitane appunto. Il processo terminò nel 1992, anno dell’approvazione del progetto di Mercato Unico, a riprova della strategicità degli annunci (affidabili) prima che delle vere e proprie realizzazioni (1), ma si ripropose in seguito con caratteristiche assai più selettive: alcune città proseguirono la loro crescita e la loro attrattività, mentre altre – e fra queste le grandi città italiane – restarono sostanzialmente ferme e furono superate da città europee anche di minore taglia e minore storia (2). Ma d’altro lato gli intensi processi cumulativi che si mettono in moto allorché la potenza economica e politica delle grandi città si sposa con le decisioni sulle nuove grandi reti di trasporto e comunicazione e con gli elementi simbolici della ‘centralità’ (3), non possono non generare tensioni territoriali, trasformazioni spesso disordinate, crescite insediative che sfidano la capacità dei sistemi di pianificazione di mantenere un ordinato ed equilibrato sistema territoriale. Si ha l’impressione che tali sistemi di pianificazione, spesso frammentati, non siano in grado di tenere il ritmo delle trasformazioni e della

crescita quantitativa delle grandi città metropolitane (4). Milano, con un sistema di governo urbano per 1,3 milioni di abitanti, costituisce il polo di riferimento funzionale – ma non il centro ‘ordinatore’ – di un’area di 4 milioni almeno di abitanti (o di 6 milioni come indicano alcuni studi internazionali), un’area fin qui affidata alle cure di un ente istituzionalmente debole come la Provincia. Un controsenso e un chiaro vuoto istituzionale. Le sfide per il nostro paese – ma anche per tutti gli altri - sono dunque oggi sostanzialmente due, che presentano un’urgenza forte amplificata dalla crisi: una sfida economica e una sfida territoriale e di pianificazione. E non vi è chi non veda che le due si intrecciano fortemente, perché un territorio efficiente e di qualità costituisce elemento di attrattività e di competitività e perché solo una visione di sviluppo che riesca a coinvolgere tutto il capitale produttivo, cognitivo e innovativo presente sull’area vasta può essere capace di rilanciare le nostre grandi città. Si pone dunque oggi l’esigenza di superare egoismi municipalistici, la storica frammentazione territoriale e la tradizionale modestia decisionale in ambito territoriale nonché la necessità di raggiungere una massa critica sufficiente di risorse: territoriali, produttive, umane, di ricerca e di creatività. La parte del disegno di legge Delrio che tratta della città metropolitana, approvata dalla Camera e oggi in discussione al Senato, è certamente la più fragile, anche perché sconta un insufficiente contributo di riflessioni da parte della cultura territoriale e un insufficiente dibattito politico sul tema. Certamente questa parte è quella in cui la distanza fra obiettivi e soluzioni appare tale da far presagire un’ennesima occasione mancata per il paese. Servirebbe infatti, come recita la relazione al disegno di legge iniziale, “uno strumento di governo flessibile, dalle ampie e robuste competenze, in grado di essere motore di sviluppo e di inserire le aree più produttive nella grande rete delle città del mondo”: dunque una istituzione davvero forte, cui delegare dal livello comunale

Note:1 Si veda: Camagni, 1992; Camagni e Gibelli, 1996.

2 Si veda la Presentazione di chi scrive all’Osservatorio sulla Qualità della vita a Milano, Megliomilano, Milano, 2010, 2011 e 2012, in cui si documenta lo scivolamento di Milano e ancor più di Roma nella gerarchia urbana europea.

3 Si vedano ad esempio le decisioni sulla creazione della grande rete di trasporti ad alta velocità che collegò le grandi capitali del nord-Europa in quegli anni (’80 e ’90).

4 Si veda: Camagni, 2001.

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Le aree metropolitane italiane chiave dello sviluppo del PaeseQuesto paper è stato presentato il 6 febbraio 2014 durante il convegno “Le città metropolitane: una riforma per il rilancio del Paese” Firenze, febbraio 2014

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e regionale funzioni di programmazione e di pianificazione di area vasta, capace di interpretare i nuovi bisogni dell’economia e della società e di rilanciare nuove e ampie progettualità. Ma la proposta legislativa va in tutt’altra direzione: le città metropolitane assomigliano in larghissima misura alle nuove province, già deboli istituzionalmente e ulteriormente indebolite, “enti governati dai sindaci” che prestano gratuitamente i loro servizi, senza risorse per le poche competenze aggiuntive. Le funzioni assegnate sono infatti “le funzioni fondamentali delle province” (pianificazione territoriale di puro coordinamento, infrastrutture interne e servizi di mobilità, ambiente, rete scolastica). Di nuovo e sostanziale troviamo: - il piano strategico: uno strumento di coordinamento e di indirizzo, che è possibile (e utilissimo) attivare anche in assenza di rivoluzioni istituzionali, come ha dimostrato la recentissima esperienza realizzata con qualche successo dalla Provincia e dal Comune di Bologna;- la promozione dello sviluppo, ma lasciata totalmente senza risorse;- la pianificazione territoriale generale, non meglio definita, dimenticata all’art. 1 della legge laddove si elencano le finalità istituzionali generali, che duplica e rischia di appiattirsi sulla pianificazione di coordinamento provinciale. Di più: se si volesse passare all’elezione diretta di una nuova dirigenza politica metropolitana occorrerebbe lo smembramento del comune capoluogo, una vecchia e sbagliata idea dei primi anni ’90. Indeboliamo la città centrale per costruire una città metropolitana già debole? Non sembra certo che il nuovo istituto nasca sufficientemente robusto per affrontare i nuovi compiti. Ma vediamo più in dettaglio tre punti chiave: funzioni di pianificazione, articolazione del comune capoluogo e numero delle città metropolitane. La pianificazione territoriale di area vasta, cui il dibattito disciplinare e politico più recente attribuisce il compito fondamentale di ridurre l’insensato consumo di suolo degli ultimi trent’anni, riorientando l’attività edilizia verso la rigenerazione urbana, esce abbastanza malconcia dal dibattito politico attuale. Si tratta infatti di una funzione tradizionalmente affidata alle (deboli) province e che temo stia subendo lo stesso destino che si vuole per le province stesse: un sostanziale ridimensionamento, in antitesi con la rilevanza dei compiti potenziali. La attribuzione del compito della pianificazione territoriale a istituzioni di secondo livello (“governate dai sindaci”), come le nuove province e le città metropolitane, è certo accettabile, ma a condizione che se ne definiscano i veri poteri, il sistema di incentivi e in sintesi l’’adeguatezza’ delle nuove strutture, come avviene in Francia per le communautés urbaines. Ricordiamo che il livello comunale non è quello ‘adeguato’ per effettuare una pianificazione territoriale efficace. Per questo ritengo che la legge deva definire compiutamente e precisamente il significato della funzione di pianificazione assegnata alle CM, al fine di evitare che essa si riduca nei fatti a una pura funzione di conferma di decisioni comunali sostanzialmente autonome o di semplice coordinamento. Non basta indicare che tale funzione si possa realizzare “anche fissando vincoli e obiettivi” all’azione dei comuni; occorrerebbe almeno indicare, come è stato giustamente suggerito (5), che la pianificazione metropolitana coincida ad esempio con la ‘pianificazione di struttura’ introdotta e definita da molte leggi regionali italiane (distinguendosi dalla pianificazione ‘operativa’ attribuita alla competenza comunale). I legislatori regionali dovrebbero essere sollecitati a recepire una tale indicazione nelle loro leggi. Quanto alla condizione dello scorporo del comune centrale in comuni perché si possa procedere all’elezione diretta degli organi metropolitani – una condizione alleggerita alla Camera per le CM con più di 3 milioni di abitanti, ma in modo non chiaro e non facilmente giustificabile - essa potrebbe rispondere all’esigenza di evitare conflitti fra il sindaco del comune centrale e il sindaco metropolitano, una volta che entrambi siano eletti direttamente, secondo la preoccupazione di molti. Ma ribatterei: perché utilizzare uno strumento nato per tutt’altro obiettivo – quello di evitare scontri fra il comune capoluogo e il suo hinterland – e comunque sbagliato, come ho detto più sopra? Perché avere paura di un conflitto aperto fra due istituzioni – che potrebbe facilmente essere evitato esplicitando nella norma i principi fondamentali di differenziazione e di adeguatezza delle funzioni attribuite ai due enti – e non del conflitto interno alla figura del sindaco metropolitano, che potrebbe anche in casi estremi configurarsi come conflitto di

interessi? Comunque, la condizione di articolazione del comune centrale renderebbe ancora più difficile il passaggio all’elezione diretta del sindaco metropolitano, un obiettivo certo di lungo periodo, che richiede un adeguato rodaggio, ma che comunque dovrebbe restare ragionevolmente raggiungibile. Una parola sul numero di città metropolitane prevedibili sulla base dell’attuale testo di legge. In Francia, dopo un periodo di sperimentazione di cinquant’anni in cui le communautés urbaines sono state proposte, definite, incentivate, monitorate, si è deciso di passare alle Métropoles lanciandone tre, per il momento. In Italia, dopo un dibattito di qualche mese e nessuna sperimentazione, stiamo per lanciarne 18 (1 + 9 + 5 + 3), aumentabili in futuro, più uno statuto di simile autonomia per due province montane. Ogni commento è superfluo. Ho potuto verificare che al Senato molte delle perplessità che qui esprimo sono condivise da molti, e alcuni opportuni e precisi emendamenti sono stati presentati, tutti nel senso di un rafforzamento istituzionale e funzionale del nuovo ente. Sarebbe importante sostenerli adeguatamente. Quale che possa essere l’immediato futuro della legge, voglio suggerire agli attuali sindaci delle grandi città, di concerto con i sindaci di cintura, spesso consapevoli della necessità di una forte unità interna, di lanciare da subito un’iniziativa politica proponendo la loro idea di Statuto metropolitano che includa almeno questi nuovi obiettivi e competenze: - una forte competenza di pianificazione territoriale “di struttura”, - una competenza delegata dalle regioni e dallo stato sulla fiscalità delle trasformazioni immobiliari e sulle relative rendite e capital gain, oggi tenuta a livelli incompatibili col finanziamento finanche delle infrastrutture di base e della manutenzione urbana, una fiscalità a carattere necessariamente omogeneo a livello metropolitano,- un esplicito obiettivo di riduzione dei consumi di suolo, da realizzarsi anche attraverso la rigenerazione urbana, - un obiettivo di semplificazione ed efficientamento della gestione delle aree produttive,- una competenza su housing sociale e riuso del patrimonio edilizio inutilizzato, - l’istituzione di un “consiglio di sviluppo” metropolitano con le parti sociali, economiche e culturali, sull’esempio francese, - la proposizione di credibili procedure per la partecipazione dei cittadini, - un’azione di comunicazione e di costruzione di un’identità metropolitana.

Tutte materie su cui il disegno di legge è muto.

Riferimenti bibliograficiCamagni R. (1992), “Le grandi città italiane e la competizione a scala europea”, in P. Costa e M. Tonilo (a cura di)

Città metropolitane e sviluppo regionale, F. Angeli, Milano, 23-45 Camagni R. (2001)

“Economic role and spatial contradictions of global city-regions: the functional, cognitive and evolutionary context”, in A. Scott (ed.), Global city-regions: trends, theory, policies, Oxford University Press, Oxford, 96-118Camagni R., Gibelli M.C. (1996)

“Cities in Europe: globalization, sustainability and cohesion”, in: Presidenza del Consiglio dei Ministri, European Spatial Planning; Rapporto presentato alla Riunione dei Ministri delle Politiche Territoriali, Venezia, 3-4 maggio. Poligrafico dello Stato, Roma, 91-175

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strategie

Luca Penna e Michele TheaBain & Co.

Imprenditori attori del _cosa fare_

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Imprenditori attori del _cosa fare_L’attuale contesto impone necessaria-

mente due grandi interrogativi che riguardano uno la necessità

di comprensione profonda del contesto stesso ed il secondo come potersi proiettare al futuro, provando a considerare opportunità alcuni elementi dello scenario presente.Certamente non esistono “ricette” per superarlo indenni, tuttavia si proverà a dare risposte a 6 interrogativi:1)Quali peculiarità caratterizzano l’andamento macroeconomico 2008-2012?2)Perché è importante adeguarsi al presente?3)Quali sono le possibili cause di una mancata flessibilità verso il contesto attuale?4)Quali strumenti possono essere efficacemente adottati per una pianificazione di breve termine?5)Come definire un percorso strategico di medio-termine? 6)È possibile prefigurare un modello di riferimento per le imprese di costruzioni italiane?

ContestoLa crisi internazionale che ha colpito duramente negli ultimi anni ha alcune peculiarità:È diversa dalle “normali” crisi dei decenni passati in quanto:-deriva prevalentemente da un eccesso

La crisi internazionale che ha colpito duramente negli ultimi anni è diversa dalle normali

crisi dei decenni passati

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di offerta causato da erronee aspettative dei mercati di un “lungo boom” economico e da un eccesso di finanziarizzazione dell’economia reale;-è caratterizzata da problematiche di bilancio e di liquidità anche in capo a Stati e banche; -si scontra con vincoli di stabilità e di rigore a livello sovranazionale.Le leve tradizionali di politica monetaria si sono rivelate fino ad oggi scarsamente efficaci per il superamento della crisi dovuta a:-politica monetaria accentrata a livello europeo a fronte di problematiche ed esigenze diverse degli stati membri;-un sistema bancario in questa crisi non in grado di funzionare da “cinghia di trasmissione” delle politiche monetarie espansive.L’uscita dalla crisi si sta dimostrando molto più lenta rispetto alle crisi passate, ma soprattutto è difficile prevedere quando si ritornerà ai livelli pre-crisi L’Italia è stato uno dei paesi maggiormente colpiti dalla crisi, come esemplificato nel grafico 1.Difficile prevedere quando si tornerà a livelli pre-crisi, per cui necessariamente si devono applicare dei tassi di crescita statistici (e medi) e calcolare quale livello dei PIL si avrà tra “X” anni come si evince dal grafico 2.

Adeguamento al contesto e rischi di una mancata flessibilità.Numerosi studi da noi effettuati come si vede nei grafici 3 e 4 dimostrano come:-le performance di aziende dello stesso settore possano divergere sensibilmente in tale contesto economico;-vi sia forte correlazione tra la performance economica e la pianificazione del proprio percorso strategico da parte di una impresa.È pertanto possibile identificare “Vittime” ed “Eroi” in tale scenario. Appare una definizione “romantica”, tuttavia ad essa sottostanno chiare evidenze numeriche.Come si evince nel grafico 4 in periodo di crisi economica il 36% delle aziende del primo quartile (1) è sceso di due o più quartili, mentre in periodo di crescita economica tale fenomeno ha interessato solo il 29% delle aziende. Viceversa, in periodo di crisi economica il 38% delle aziende dell’ultimo quartile è salito di due o più quartili, sebbene in periodo di crescita economica tale fenomeno abbia interessato solo il 25% delle aziende. I quartili sono definiti in base ad un mix di utile netto e tasso di crescita nelle vendite. (Fonte: S&P Compustat; analisi Bain)

Pianificazione di breve e percorso strategico di medio-lungoGli imprenditori devono essere protagonisti attivi del processo, ovvero convincersi che “il cosa fare” non può discendere da un processo

Gli imprenditori devono essere protagonisti attivi del processo, ovvero convincersi che “il cosa fare”

non può discendere da un processo guidato dall’esterno, né tanto meno da terzi

(1) I quartili sono definiti in base ad un mix di utile netto e tasso di crescita nelle vendite (Fonte: S&P Compustat; analisi Bain)

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guidato dall’esterno, né tanto meno da terzi.Dal momento che anche gli atteggiamenti endogeni sono determinanti nella gestione del cambiamento e nel coglierne le opportunità, la pianificazione si rivela cruciale ed essa ha due momenti concettuali di riferimento, entrambi di natura temporale.Vi è una necessità di bilanciamento, infatti, tra pianificazioni/interventi di breve e la definizione di un percorso strategico di medio termine.Relativamente alle azioni di breve termine, cinque sono gli elementi principali: 1)status della propria liquidità2)posizione di costo3)posizione di mercato4)struttura della domanda5)complessità del proprio settore.

Ai fini dell’individuazione di una pianificazione di medio termine, invece, la strategia deve essere identificata sulla base di tre variabili fondamentali: 1)l’impatto del processo di mutamento sul proprio settore di riferimento2)il proprio posizionamento strategico3)la propria solidità finanziaria.

Una pianificazione adeguata e “su misura” del proprio percorso strategico aziendale può aiutare a mitigare gli impatti a breve e medio-lungo termine derivanti da periodi di grande incertezza.È opportuno sottolineare che settori differenti mostrano diverse dinamiche: ne è un chiaro esempio l’industria delle costruzioni che, a livello mondiale, nel decennio successivo alla crisi del 1991 ha visto una variazione media della crescita dei ricavi pari a –49% (grafico 5), nettamente superiore rispetto alla rispettiva variazione in altri settori.

Guardando all’Italia e focalizzandoci sulle piccole medie imprese (PMI), circa il 54% delle PMI di settore in Italia hanno registrato nel 2010 un fatturato inferiore ai livelli pre-crisi del 2008 (grafico 6). Sul fronte della domanda (grafico 7) degli investimenti nel settore delle costruzioni sono scesi di 39 punti percentuali (base 100 nel 1970 rispetto al picco pre-crisi). Un interrogativo rilevante riguarda l’adeguamento, rispetto a questo livello ridimensionato di domanda, sul lato dell’offerta, ovvero sulle imprese operanti.

E’ possibile prefigurare un modello per la (piccola-media) impresa di costruzioni italiana? Spostando l’attenzione sull’offerta, si vuole provare a dare risposta all’ultimo interrogativo.Il modello presentato non vuole essere una “formula magica” ma solo uno spunto di riflessione.

Tale modello si basa su 3 elementi principali (figura 8):1)consolidamento del settore2)ricerca del vantaggio competitivo3)mercati esteri

Una pianificazione adeguata e “su misura” del proprio percorso strategico aziendale può aiutare a mitigare gli impatti a breve e medio-lungo termine

derivanti da periodi di grande incertezza

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Il consolidamento delle imprese di settore è al primo posto dei driver del modello per ripensare l’impresa. L’alta frammentazione del mercato delle costruzioni in termini di numero di aziende è il primo elemento da analizzare.

Nel periodo di crisi 2008-2010 si sono infatti verificati una serie di fenomeni (grafico 9):1)il decremento del numero delle imprese (-4%) sostanzialmente dovuto a un 24% di imprese coinvolte in procedure fallimentari (~6,7K imprese 2008-2010; alto insolvency ratio nelle costruzioni di 31/10.000 nel 2011, secondo solo all’industria) e ad un restante 76% ripartito tra aggregazioni e fusioni e uscite “volontarie” dal mercato;2)il decremento del numero degli addetti (-11%);3)l’aumento delle imprese con un solo addetto (+4%) e con oltre 250 addetti (+4%).Con comparazione rispetto all’UE, l’Italia ha un trend simile ad altri paesi europei (Fonti: ANCE, Insee, Ministerio de Fomento, Construction Statistics Branch, Office for National Statistics, Statistisches Bundesamt).In Italia ci sono 450k imprese di costruzioni (escluse le società di installazioni di impianti) che contano oltre 1,3M di addetti. Circa il 96% delle imprese italiane ha meno di 10 addetti (~58% con un solo addetto). Anche in altri paesi significativi della UE (ed in UK), oltre il 93% ha meno di 10 addetti.Le imprese italiane sono sottocapitalizzate: il livello equity/debito è 7 punti percentuali sotto la media EU. In particolare circa il 50% delle PMI di costruzioni italiane ha un rapporto Debt/Equity è in “zona rischio”. (Fonti: Bankitalia,Cerved) (immagine 11)Elemento imprescindibile per un’impresa che vuole perseguire una strategia di consolidamento è quello di avereuna profonda conoscenza della propria realtà aziendale.

A tale scopo è innanzitutto importante fare una autodiagnosi sulla base di:propria dimensione aziendalesettore in cui si opera (Pubblico/Privato)natura dei margini industriali (commesse/aree attività)struttura e la sostenibilità dei debiti finanziarievoluzione del Capitale Circolante.Molto frequentemente le PMI di costruzione italiane non hanno un adeguato controllo di gestione: difficile dunque avere contezza delle proprie aree di inefficienza o del profilo finanziario delle proprie commesse attive (o delle gare che si stanno preparando).Conoscersi per compiere consapevolmente scelte di assunzione di nuovi lavori, migliorare i propri margini e perseguire un rafforzamento patrimoniale sembra apparentemente un concetto scontato, ma non è così per molte imprese.Il secondo fattore del modello riguarda la ricerca del vantaggio competitivo. Tale vantaggio può assumere connotazioni di “costo” o di “differenziazione” declinandosi in 3 strategie alternative:

Le imprese italiane sono sottocapitalizzate: il livello equity/debito è 7 punti percentuali sotto la media EU

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1)Leadership di Costo2)Differenziazione/Specializzazione3)FocalizzazioneLa leadership di costo è una strategia tipica delle aziende di settori ad alto livello di standardizzazione delle attività (quale quello delle costruzioni). Ciò presuppone di conoscere le proprie aree di miglioramento per cui è appunto imprescindibile un diagnostico ed un controllo di gestione affidabile.La differenziazione è una strategia attraverso la quale l’azienda decide di differenziarsi dai competitor e cambiare posizionamento competitivo imponendo un ”premium price”. Tale strategia si può provare ad applicare ad esempio nelle attività di costruzioni legate allo sviluppo di complessi residenziali; il “prodotto” abitazione impone di essere sempre più attenti alle esigenze dei potenziali clienti/compratori.Infine la focalizzazione è una strategia che può declinarsi nell’ambito di entrambe le tipologie di vantaggio competitivo. Da un lato essa può risultare in un vantaggio di costo su uno o più segmenti/aree di business; dal punto di vista della differenziazione, la focalizzazione può invece riguardare la definizione ed il presidio di una nicchia di mercato. In quest’ultimo caso è necessario individuare una nicchia sufficientemente ampia da poter ottenere un’adeguata redditività.Il terzo ed ultimo pillar del modello riguarda l’esplorazione dei mercati esteri (grafico 12).Sono le grandi imprese (>500M fatturato) a trarre una parte sempre più preponderante dei loro ricavi da progetti esteri (62%) (figura 13), seguite dalle medie imprese (<50M) che fanno registrare notevoli tassi di crescita fuori dall’Italia. (Fonti: Ance)L’approccio ai mercati esteri richiede un impegno da parte dell’azienda nell’analizzare i potenziali mercati accessibili, la tipologia di domanda ma anche la sostenibilità dei costi e delle linee di credito. Su queste basi, per le PMI si è identificata la metafora del “Pesce Pilota”, ovvero prevedere una strategia di collaborazione con un player strutturato, con riconosciute esperienze sul mercato estero nel quale si intende entrare e disponibile ad assegnare a terzi una parte del lavoro acquisito. Il modello del “Pesce Pilota” è infatti una soluzione efficace per internazionalizzarsi limitando i sunk cost di ingresso nei mercati, nonché i rischi di acquisizione o execution dei lavori.A conclusione, nell’attuale contesto, è importante ricavare del tempo per “lavorare su se stessi”, analizzando la propria situazione aziendale e pianificando un iter strategico al fine di riscoprire o reinventare un nuovo modo di fare impresa. Il modello proposto costituisce uno spunto, si auspica utile e già testato su molte realtà, per supportare l’imprenditore nelle necessarie decisioni per l’impostazione di un percorso sostenibile nel breve e nel medio-lungo termine.

La differenziazione è una strategia attraverso la quale l’azienda decide di differenziarsi dai competitor e cambiare posizionamento

competitivo imponendo un ”premium price”

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andare via?

Giorgio RobbaPresidente e socio fondatore di Avalon Real Estate S.p.A.

Attualmente viviamo una fase del nostro mercato interno dove, già vessati dal calo della domanda e da un’incessante

recessione, tra burocrazia asfissiante e mancanza di risorse economico-finanziarie, riuscire a vedere una prospettiva positiva per chi opera nel mercato delle costruzioni italiano è veramente difficile. Nasce allora la domanda spontanea sull’opportunità o meno di trasferire parte della propria attività all’estero ma dove, o come? La varietà della scelta impone opportune cautele: ci sono paesi con democrazie per nulla o insufficientemente sviluppate, dove lo stato di diritto non esiste e non garantisce, e nei quali è oggettivamente molto difficile operare; ma le sorprese per le imprese possono venire anche da contesti più stabili ed ugualmente difficili per buona parte del nostro settore. Dai primi anni novanta, ad esempio, molte imprese italiane affrontarono il mercato tedesco, per sfuggire alla crisi di quello italiano. Si trovarono quindi ad affrontare Committenti e Direzioni Lavori durissimi, Capitolati Tecnici molto dettagliati ed applicati “alla lettera” (senza quella minima dose di flessibilità e di buon senso che li avrebbe resi-sia chiaro, in modo totalmente lecito- effettivamente applicabili).Allora le Imprese, in generale, persero molti soldi in queste operazioni e si indebolirono sotto ogni profilo (quando non fallirono). Eravamo per farla breve impreparati per quel mercato. Il primo ragionamento da fare quindi è sul “dove”. Alcuni mercati interessanti sono geograficamente vicini, il nord Africa ad esempio. L’Algeria per molti è, già oggi, una buona risorsa: vicino, di diritto e lingua francese. La presenza di Imprese italiane è già molto nutrita, è un Paese con enormi prospettive di sviluppo edilizio ed infrastrutturale, Paese inoltre ricco di risorse naturali (gas in primis). Accanto ad esso, con caratteristiche analoghe ma ancora sicuramente meno sviluppato, il

Opportunità sui mercati esteri, problemi sul mercato italiano, imprese all’estero

Marocco. La Libia e l’Egitto sono, viceversa, molto meno stabili dal punto di vista politico. Più ad Oriente, ma sempre raggiungibili in modo “non insormontabile”, l’Arabia Saudita e tutti gli Emirati, Paesi dove l’inglese è normalmente, almeno a livelli alti, molto diffuso. Tutti mercati relativamente vicini. Rimane il fatto che ci si può installare nella misura in cui la struttura dell’impresa conosce il paese (in via diretta o indiretta), ha personale preparato nella conoscenza delle lingue e flessibile nel comprendere le necessità e la mentalità di ogni committente, gli usi e costumi spesso anche radicalmente diversi dai nostri. In Arabia per esempio le trattative sono infinite e non sempre incontrano la pazienza dei nostri Sviluppatori.

Oltre al Nord Africa suggerirei di pensare all’Europa Orientale, dove l’esperienza italiana è consolidata sia nel campo delle infrastrutture (aeroporti, ferrovie, centrali idroelettriche) sia in quello dell’edilizia. Tutta l’Europa orientale è un mercato potenzialmente molto interessante e sono diverse le imprese che, con bilanci sani, hanno riconvertito, almeno parzialmente, la produzione dall’Italia in questa zona d’Europa. C’è chi ha addirittura aperto

stabilimenti per la prefabbricazione per servire, con un raggio di azione tipico di questa produzione, il territorio locale. C’è chi ha saputo evolvere in fretta, o in tempo, ed ha portato a casa risultati certamente lusinghieri. Grandi Imprese di Costruzione italiane sono state capaci, nel giro di quattro-cinque anni, di passare dal 30% della produzione estera e 70% in Italia al contrario, 70% all’estero ed il rimanente in Italia Altre che nel giro di pochissimi anni hanno aperto Filiali/Società in molti Paesi. Molte, in definitiva, ora per lo più lavorano all’estero. Ma la vicinanza e la conoscenza del Paese in cui cercare un “altro mercato” rimane, a mio avviso, un fattore fondamentale, soprattutto nel caso di imprese di medie dimensioni come sono la maggior parte delle nostre. A volte Paesi lontani possono affascinare ma è un errore: pensare di andare negli Stati Uniti, ad esempio, senza una dimensione di impresa credibile è un controsenso. E’ un mercato difficilissimo, dove le Grandi Imprese Italiane sono a volte riuscite ad andare (a volte guadagnando altre perdendo) molto complesso e non per tutti. Per le imprese medio piccole in questi paesi c’è la possibilità del subappalto in strutture dove la grande impresa fa da General Contractor: in genere gli italiani sono

molto apprezzati anche in questo ruolo, sono flessibili e generalmente poco litigiosi, ma si tratta di sub appalti (e quindi vale la logica dei prezzi dai profitti limitati). In ogni caso, per la media Impresa, soprattutto se detentrice di know tecnico, macchine e uomini, mettersi al traino di un General Contractor italiano può essere utile ed interessante. L’estero, a volte, è visto come l’ancora di salvezza per situazioni finanziarie quasi compromesse, ma il tema di fondo è che la capacità finanziaria propria è fondamentale e chi ne è privo non può contare sull’appoggio degli Istituti di Credito. Non si può affrontare un mercato estero senza avere una base solida in Italia, base solida di Impresa, di uomini, di mezzi, di capacità finanziaria commisurata al lavoro che si affronta. Né va trascurata la capacità di reperire il personale locale necessario.

Il settore immobiliareVenendo ora al settore immobiliare, chi ha investito negli anni passati nei paesi dell’Est Europa, ad esempio, ha raccolto quasi sempre molto bene, ma il ritorno economico non è stato immediato, è arrivato nel tempo con una rendita che è salita molto ma nel tempo.Ora certamente è tutto più caro anche nell’est Europa ed i prezzi sono saliti parecchio,

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ma c’è ancora grande spazio per l’acquisto sia di terreni che di edilizia demolibile per la sostituzione. Lipsia, Dresda.. si compra benissimo, con rendimenti incomparabili a quelli italiani, con la certezza di uno Stato e di un’economia tedesca alle spalle, ma quale delle nostre imprese conosce le potenzialità di questi mercati? Chi conosce l’oceano di fondi spesi dalla Germania Occidentale per risollevare l’economia di quella Orientale? Luoghi dove ancora si compera a prezzi inferiori al costo di costruzione, con rese (sul residenziale) del 5-6%?? A Lipsia ad esempio recentemente Google ha aperto una sua sede, così Amazon e così la BMW. E’ chiaro che il panorama si fa interessante ma come Società di Investimento devi essere preparato, il che vuole dire preparato come management, sapere il tedesco, avere i conti in ordine. Solo con una situazione di partenza sana in Italia si può pensare di affrontare questo mercato, o le capitali di Ungheria o Romania, o i centri limitrofi minori. Gli Italiani sono sempre stati un popolo di emigranti; un vantaggio competitivo rispetto ad altre popolazioni. Oggi la nostra emigrazione è, tendenzialmente, di alto livello, giovanile, colta (senza trascurare ovviamente il resto). Le nostre imprese

possono rappresentare sia qui che fuori un esempio virtuoso per know how e flessibilità: non abbiamo una qualità inferiore alla concorrenza estera ed, anzi, spesso pratichiamo soluzioni ottimali per vincere sulla concorrenza. Ma per uscire dal nostro Paese dobbiamo essere solidi.

Uscire dalla crisiCome usciremo da questa crisi non lo sappiamo bene ma il mercato immobiliare nel nostro Paese ormai è ai minimi e forse ci sono operazioni che hanno probabilità di successo proprio perché il mercato è sceso molto. Il mercato immobiliare ha delle crisi lunghe e cicliche dalle quali ci si riprende per i fattori più svariati. L’ultima crisi scoppiò nel 1992 e durò dal 1993 al 1997 circa. Poi il mercato si è ripreso ed abbiamo avuto un decennio di crescita rientrando in crisi nel 2009. All’inizio c’è sempre un fattore scatenante che fa scoppiare una bolla speculativa, ma proprio per la sua ciclicità ed andamento sinusoidale voglio pensare che nel 2014/2015 ci possa essere una risalita, anche duratura nel tempo (ma ci sono delle condizioni fondamentali perché ciò avvenga, vedere in seguito) La gente ricomincia ad avere voglia di investire, ci sono nuovi Fondi Immobiliari…

Nel frattempo molte Imprese si sono razionalizzate e chi è sopravvissuto ha un’attenzione diversa ed enormemente superiore rispetto a prima verso tanti temi che magari erano trascurati. Molti investitori stranieri vengono in Italia già ora, siamo un mercato potenzialmente interessante dal punto di vista dell’investimento in sé, ma l’incertezza dei tempi ed anche la carente gestione della P.A. nelle grandi (e piccole) opere è devastante. Avremmo gli investitori ma quando raccontiamo loro che il proprio investimento può essere realizzato dopo anni (non quantificabili) dall’inizio dell’operazione è finita, li vediamo sparire. E poi anche quando il cantiere sembra pronto al decollo appare la sindrome Nimby, il comitato di quartiere, etc etc. In un paese dove la farraginosità legislativa spadroneggia mi appare indispensabile una fortissima semplificazione legislativa, una regolamentazione della stessa, delle procedure burocratiche…..Se ci riusciremo, torneremo attrattivi per gli Investitori Esteri, altrimenti la via di cercare sbocchi verso un “estero ragionato” forse rimane l’unica soluzione per sopravvivere (pur, come detto, con i piedi ancora in Italia).

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Sono passati otto anni dalla pubblicazione del DLgs 163/2006 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e

forniture) e ben venti dalla L. 109/94 (la allora “Nuova legge quadro in materia di lavori pubblici”, più comunemente conosciuta come Legge Merloni) che introduceva nel nostro sistema di realizzazione delle opere pubbliche il concetto di “verifica del progetto” (art. 30 comma L. 109/94) ai fini della “validazione”. Sulla spinta del ciclone provocato dall’inchiesta “mani pulite”, che aveva messo in evidenza inefficienze e mal gestione della cosa pubblica, alla fine del 1992, nasceva l’urgenza di un riassetto della normativa preesistente che riconducesse la gestione delle opere pubbliche a criteri di trasparenza ed efficienza. La Legge Merloni ridisegnava così l’articolazione del processo edilizio introducendo, per la prima volta nella normativa cogente italiana, i temi della qualità e del controllo, da tempo teorizzati e già presenti in altre normative europee. Il Legislatore tradusse quindi in regola quanto peraltro la buona pratica, ancor prima che l’esperienza, suggeriva e cioè che quando si tratta di un’opera complessa e ad elevato impegno di risorse, come lo sono gran parte delle opere pubbliche (senza dimenticare non poche iniziative private), diviene prioritario ridurre i rischi di ritardi o variazioni dei costi di realizzazione e accertarsi che l’opera realizzata corrisponda pienamente alle reali esigenze del committente. In questo senso, peraltro, i rischi non stanno solo dalla parte del committente: tutti gli operatori, anche progettista e costruttore, sono danneggiati da errori, carenze o quant’altro provochi ritardi, aumento dei costi o il mancato

raggiungimento del risultato atteso, e dunque non può che essere comune l’interesse alla qualità ed efficienza. In tale contesto si individuò nella progettazione quel momento centrale del processo di costruzione cui concentrare l’attività di verifica preventiva per sfruttarne a pieno la potenziale efficacia. Nasceva così l’obbligo di verifica dei progetti quale presupposto per la loro appaltabilità. Tale verifica assunse il significato di un vero e proprio collaudo della fase progettuale da svolgersi prima dell’inizio delle procedure di affidamento, incentrato sulla coerenza del progetto rispetto alle finalità e agli scopi per i quali l’opera è stata prevista, e sulla conformità all’impianto normativo cogente e ai limiti temporali e di spesa prestabiliti. Anche da un punto di vista soggettivo, cioè degli operatori abilitati a svolgere un tale controllo, il Legislatore si mosse secondo criteri di qualità e affidabilità, richiedendo – per le opere di maggior rilievo – che questa attività di verifica venisse svolta esclusivamente da Organismi di Controllo accreditati ai sensi della norma europea UNI CEI EN 45004. Ciò che sulla carta costituiva un impianto di eccellenza, che si poneva tra i più avanzati a livello europeo, nella pratica rimase però per lo più lettera morta, per l’incapacità (e spesso l’impreparazione) dei funzionari pubblici a cogliere le potenzialità dello strumento e per la scarsa propensione ad investire su servizi di efficienza in un contesto strutturalmente da sempre poco incline alla performance. La mancanza di controlli sull’applicazione e di censure per le riscontrate violazioni fece il resto, con quanto ne è seguito in termini di spesa pubblica e scheletri urbani a testimonianza del fallimento di un sistema. Le

altissime percentuali di successo nei rari casi di applicazione avevano però dimostrato la bontà del processo di verifica e la sua indiscutibile utilità, determinando il Legislatore, anche per rimanere al passo con gli standard internazionali (dove lo strumento trova diffusione come Design review, Independent Checking Engineer, Design verification), ad insistere su tale strada e dunque a riproporre tale strumento, in maniera ancor più decisa e articolata, con la riforma delle procedure pubbliche di affidamento di lavori e servizi compiuta con il D.Lgs. 163/06 (art. 112) e successivo regolamento di attuazione D.P.R. 207/2010 (Parte II, Titolo II, Capo II, art. 44 ÷ 59). La verifica del progetto ha dunque assunto a tutti gli effetti il ruolo insostituibile di fase analitica e ingegneristica che deve mettere in luce tutte le caratteristiche di qualità (o di carenza di qualità) del progetto al fine di pervenire alla redazione finale di un opus progettuale adeguato agli scopi che il committente si prefigge. La sua conclusione con esito positivo comporta il trasferimento al committente della comunicazione che il progetto è scevro da errori e da lacune, coerente con il contesto normativo a cui deve rispondere, adeguato a soddisfare le esigenze per le quali è stato concepito, congruo dal punto di vista economico, realizzabile e immediatamente cantierabile (se si tratta di un progetto esecutivo) ovvero atto a generare il successivo livello approfondito di progettazione (livello definitivo se il progetto oggetto di verifica è un preliminare; livello esecutivo se il progetto oggetto di verifica è un definitivo). In tale contesto abilitato a svolgere tale servizio e a garantire il risultato,

Colmare le lacune

validazione

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Angelo de PriscoPresidente CONTECO S.p.A.Organismo di Controllo

per le opere di maggior rilievo, è l’Organismo di Controllo, cioè un soggetto accreditato ai sensi della norma europea UNI CEI EN ISO/IEC 17020 da enti partecipanti all’European cooperation for accreditation (EA), tenuto ad assicurare l’assoluta separazione, sul piano tecnico, procedurale, amministrativo e finanziario, tra le attività ispettive ed altre attività con queste potenzialmente conflittuali. In altri termini tali Organismi devono aver costituito al proprio interno una struttura tecnica autonoma che garantisca l’indipendenza e l’imparzialità rispetto agli altri attori del processo di realizzazione delle opere. Vi è a questo punto da chiedersi se del passato si sia fatto tesoro e dunque lo strumento veda oggi finalmente riconosciuto il proprio ruolo. Ebbene, a parte la triste presa d’atto di un perdurante disinteresse (per lo più frutto di ignoranza) rispetto all’esistenza dell’obbligo normativo, le statistiche in argomento erano e continuano ad essere poche (forse per timore dei risultati, sicuramente per la resistenza opposta nel fornire i dati) e deludenti. Esse ci confermano anno dopo anno come questa attività rimanga da un lato uno strumento residuale, poco sfruttato e soprattutto sfruttato male, e dall’altro però, ove applicato, una preziosa risorsa di successo: dal 2005 al 2010 in Italia solo il 17,5% delle opere pubbliche ha ricevuto una validazione del progetto e solo l’8,3% è stato validato da un soggetto terzo e indipendente. Quando però si vanno ad analizzare i dati nei casi di sua applicazione, si raggiungono percentuali elevatissime in ordine al buon esito realizzativo dell’opera. E allora perché tanta sfiducia nell’applicazione? Siamo purtroppo di fronte ad un vero

e proprio paradosso finanziario, che solo il mondo delle costruzioni poteva realizzare e ciecamente continuare a sostenere: è incontrovertibile che un’opera riuscita (intendendosi funzionale e inserita in armonia nel contesto di riferimento nel rispetto di tempi e costi) e che dura nel tempo ha sempre alla base un progetto di qualità, e che dunque tale progetto abbia una fondamentale centralità per il raggiungimento del risultato. Ebbene, le statistiche ci dicono però che la fase progettuale, dove dunque il rischio è maggiore e dove la buona norma ci inviterebbe a concentrare l’attenzione, è quella in cui il committente investe purtroppo di meno. Del pari la parte finale della fase realizzativa vede un’impennata della curva degli investimenti, a testimoniare come i costi risentano (almeno per una parte) proprio degli errori e delle lacune nascenti dal progetto. D’altra parte sono tutti a conoscenza che più l’opera è dimensionalmente importante e ingegneristicamente complessa e maggiore è il rischio di incorrere in errori progettuali, in mancanza di coordinamento tra le diverse discipline e in mancanza di una visione complessiva dello stato di avanzamento del progetto, ma soprattutto maggiore è il rischio che tutto ciò si traduca in un aumento dei costi e dei tempi. E si badi bene, i dati dimostrano purtroppo che questo aumento di costi e di tempi, nelle grandi opere, è esponenziale, perché in gioco ci sono grandi numeri. Eppure la prassi è per i più sempre la stessa: confidare in un prodotto di qualità senza verifiche, tenendosi ben lontani da una cultura del controllo, per poi correre ai ripari intervenendo nelle fasi costruttive

finali, con piani economico finanziari che non tornano mai. Partendo dagli sconfortanti risultati odierni è allora forse giunto il momento per i committenti, pubblici o privati che siano, di ripensare alle logiche che regolano il processo costruttivo e trarre vantaggio dagli strumenti a loro disposizione, chi solo per cieco rispetto normativo e chi per lucido utilitarismo e lungimiranza finanziaria. La verifica del progetto è sì uno strumento obbligatorio per l’affidamento degli appalti pubblici e in tale settore dovrebbe trovare – e ci si augura che lo trovi sempre più – regolarmente applicazione, ma costituisce anche un’opportunità per il mondo privato delle costruzioni, che già, timidamente, ma per opere significative, ne sta facendo applicazione con ottimi risultati. Essa assicura il rispetto dei requisiti definiti in fase di Pianificazione e Programmazione, asserisce la fattibilità del progetto entro i termini previsti e l’economicità delle scelte progettuali, favorisce l’individuazione di specifiche chiare ed efficaci; monitora l’avanzamento del Progetto in ogni fase, favorendo il dialogo costante tra Committente e Progettista, riduce il rischio dell’insorgere di contenziosi durante la realizzazione, tutelando così il Committente, il Progettista e l’Impresa esecutrice, garantisce la piena soddisfazione da parte dell’Opera dei bisogni definiti e la possibilità per l’Utente finale di goderne nei tempi e nei modi previsti. Di tutto ciò se ne fa garante l’Organismo di Controllo, la cui presenza in fase progettuale costituisce un apporto concreto dell’operare in qualità e nella riduzione dei rischi, ed è dunque fondamentale e strettamente connessa al valore dell’opera.

degrado. Il fenomeno del “riuso” delle aree industriali dismesse, infatti, se il progetto è ben pensato, può avvantaggiare notevolmente la comunità, migliorando l’attrattività nelle città, rivitalizzando le strutture trascurate e abbandonate, producendo redditività economica, avendo ripercussioni positive e generando innovazioni nel campo della tecnologia, dell’organizzazione del lavoro e della creazione di nuove attività e servizi. Oltre alla riconversione, appare di particolare interesse l’iniziativa di alcune Associazioni di operatori immobiliari, FIABCI in testa, di aver sottoposto al Governo un memorandum per introdurre in Italia una normativa che abbini mattone e residenza: la cosiddetta “Golden Visa” in grado di attirare residenti di alto profilo, in termini di patrimonio, con una elevata capacità di spesa e tutto l’indotto che ne consegue. L’obiettivo è portare una testimonianza e proposta concreta, forte della conoscenza che FIABCI ha dei contesti internazionali, che spinga il Governo ad agire prontamente per incentivare gli investimenti stranieri nel Real Estate italiano. Normative come il “Golden Visa”, già promulgate in Paesi quali UK, USA, Spagna, Portogallo e Paesi Balcanici, rappresentano un volano per rilanciare il mercato immobiliare, alla luce delle eccellenze e delle potenzialità del nostro Paese. È importante comprendere che parlando di “Golden Visa” non parliamo solo di investitori istituzionali, ma di migliaia

Partendo dal presupposto, non oggetto del presente lavoro, che siano rispettati e raggiunti nei processi di sviluppo e di ristrutturazione i migliori standard qualitativi in relazione agli aspetti energetici,

ambientali, architettonici, impiantistici, etc., obiettivo di chi scrive è quello di fornire ai lettori qualche spunto di riflessione e alcune idee “alternative” a quelle classiche in tema di processi e strumenti per il rilancio del Real Estate nel sistema paese Italia. Che cosa fare? Quali opportunità sfruttare? Quali percorsi intraprendere? Una prima attività consiste nel “riuso” delle aree dismesse, in modo particolare verso dei manufatti edilizi sempre più degradati ed obsolescenti, in posizioni centrali o periferiche delle città che, se non ripensate ed adattate alle esigenze dell’attuale clientela del mercato immobiliare, rischierebbero di trasformarsi in edifici fatiscenti e abbandonati mentre, se valorizzati, potrebbero essere fonte di grandi opportunità economiche e sociali per gli investitori e la comunità in genere. Il riutilizzo delle aree dismesse ha sia lo scopo di ridurre al minimo l’uso del suolo sia il fine di trovare uno sbocco positivo alla crisi che ha investito i diversi comparti, cercando di contribuire in maniera positiva al rilancio degli stessi. In ogni città non è raro vedere numerosi edifici o addirittura intere porzioni di città, completamente inutilizzati, abbandonati o sfitti, in evidente stato di

Elena Delsignore - Antonio Campagnoli Il Punto Rea Srl/Corfac International

crowdfunding

Mercato immobiliare ad oggi: una riflessione

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di famiglie che, spinte dalla diffusione dei nuovi strumenti di informazione e comunicazione globale, quali internet e la tv satellitare si trasferiscono in Occidente per assicurarsi, da subito, un benessere e una qualità della vita superiori. Questi nuovi investitori sono oggi più che mai sensibili alla professionalità e al gusto legato al sistema Italia nel suo complesso. Il nostro Made in Italy, fatto di tutto quel mondo di piccole aziende e realtà sinonimo di eccellenza, è riconosciuto oggi come il terzo brand a livello mondiale e rappresenta un patrimonio insostituibile, vero e proprio propulsore per un nuovo rinascimento. Le nuove normative “Golden Visa” rappresentano degli strumenti per aprirsi ai mercati internazionali, rilanciare il Real Estate e la ripresa socioeconomica del Paese. Ancora, in un mercato immobiliare bloccato ed in costante decrescita, in cui gli istituti di credito in primis e gli investitori istituzionali e non, nazionali e esteri, hanno perso fiducia negli operatori e nelle proposte ed iniziative da loro offerte sul mercato, c’è un estremo bisogno di maggior trasparenza e di una diffusione del valore di mercato dei beni immobili. Tale valore deve nascere da modelli applicati in modo rigoroso e preciso. Deve rispettare linee guida nazionali e sovranazionali che permettano a chiunque di poter leggere con chiarezza e semplicità il percorso logico che lo ha generato. Non può essere soggettivo o

“calcolato” in base al proprio istinto e all’esperienza. Questi due elementi possono rappresentare un corollario ma le fondamenta devono essere solide, rigorose e inequivocabili. Proprio partendo da questi presupposti, una novità è la designazione del titolo REV che offre al mercato un termine di riferimento per uno svolgimento responsabile dell’incarico nei confronti dell’interesse pubblico sotteso. Si tenga conto che la valutazione immobiliare è un elemento chiave di alcuni dei fondamentali processi che stanno coinvolgendo i nostri mercati tra cui: l’erogazione di credito ipotecario ivi incluso quello fondiario; la ristrutturazione di aziende in crisi, ivi inclusi i piani attestati o asseverati; la determinazione del valore della quota di fondi immobiliari; le operazioni societarie straordinarie come apporti in natura o affitti di rami d’azienda; le operazioni di finanza strutturata fra cui mini-bond, cartolarizzazioni, crowdfunding; l’attività di underwriter per compagnie d’assicurazione per diversi prodotti assicurativi; i processi di dismissione, riqualifica o sviluppo di aree con o senza una public and private partnership. Tutto ciò per evidenziare come per il mondo immobiliare una scorretta valutazione del bene può generare a cascata una serie di danni più o meno irreparabili, come già il passato ci ha insegnato. Sempre con la stessa filosofia di ridare fiducia al mercato, con particolare attenzione a quello primario del debito

immobiliare, così come a quello secondario, devono essere utilizzati vecchi e nuovi strumenti quali il Mortgage Lending Value, il Property and Market Rating e la Title Insurance. Il filo rosso che collega i tre strumenti è l’attenzione al futuro più che al passato, al concetto di probabilità e quindi di rischio dell’investimento oltre che al solo “valore”. Un percorso complesso che, da una parte, mina l’idea stessa di sicurezza, spesso insita nel settore immobiliare, e dall’altra, applica allo stesso, con gli adeguamenti del caso, i più generali criteri del processo di “asset allocation”. Nell’ambito del debito, questo si trasforma in un giudizio a medio lungo termine sulla capacità del bene immobile di fungere da garanzia del finanziamento. Si richiede, quindi, non solo un giudizio di solvibilità di chi ha accesso al finanziamento, bensì un giudizio sulla bontà economica del bene o dell’operazione immobiliare in sé. Tutte e tre questi strumenti, quindi, mettono al centro l’immobile come mezzo per l’uscita della crisi ma certamente il più innovativo è rappresentato dalla Title Insurance. La Title Insurance è tipica dei paesi di “common law”, ma è uno strumento utilissimo anche per i paesi di “civil law” al fine di coprire i rischi non tanto connessi al diritto di proprietà in senso stretto in quanto quelli connessi a problematiche giuridiche ancillari (ma non sempre secondarie). Premesso che non vi è un numero chiuso di rischi legali

assicurabili da tale assicurazione, si evidenziano di seguito alcuni esempi: • in ambito di cessioni immobiliari: rischi legali connessi a distanze, servitù, diritti propter rem, diritto urbanistico o edilizio, confini, prelazioni legali, provenienze donative, vincoli storici, paesistici, usucapione, oneri e gravami in genere, ecc.; • in ambito di procedure di liquidazione o aste: la polizza può essere utilizzata (i) per creare virtualmente delle dichiarazioni di garanzia nell’ambito della cessione (nel caso in cui la cessione medesima sia priva di tali garanzie di per sé), e (ii) una volta che la cessione sia avvenuta, per liquidare definitivamente ed immediatamente la special purpose vehicle (“spv”) che abbia rilasciato delle dichiarazioni di garanzia (senza aspettare il termine d’efficacia di tali clausole); • in ambito di energie rinnovabili: rischi connessi alla qualificazione giuridica dei pannelli solari come beni immobili e conseguente efficacia dell’ipoteca, tematiche circa l’efficacia degli strumenti autorizzativi edilizi ottenuti, servitù di connessione, vincoli paesistici, ecc.; • in ambito di dismissioni pubbliche: rischi conness con la correttezza del procedimento di dismissione alla luce di eventuali criticità sollevate in occasioni, per esempio, di aste o bandi pubblici; • in ambito di cartolarizzazionI o acquisto di npl: rischi connessi

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al differimento temporale fra trasferimento del credito e le trascrizioni ipotecarie, due diligence legale a campione diretta ad una copertura sull’intero portafoglio, ecc.; • in ambito di interpretazioni giurisprudenziali: rischi connessi ad un cambiamento interpretativo o ad un giudizio di incostituzionalità della normativa considerata; • in ambito di fiscalità immobiliare: rischi connessi a riprese fiscali che possano incidere direttamente sull’immobile tramite, per esempio, iscrizioni pregiudizievoli da parte dell’Agenzia delle Entrate. Il potere assicurare il rischio legale connesso ad un immobile è di grande utilità sia per possibili investitori sia, in particolare, per gli enti finanziatori che spesso si trovano a dovere risolvere problematiche di tal genere nel corso dell’esecuzione forzata. Da ultimo data l’elevata difficoltà di reperimento di mezzi finanziari anche per iniziative immobiliari con grosse potenzialità di sviluppo ed apprezzamento da parte del mercato, è necessario identificare forme alternative di repertimento del capitale, quali ad esempio i mini bond o il crowdfunding. Il nostro paese è stato il primo in Europa a dotarsi di una regolamentazione specifica in materia di equity crowdfunding ovvero della raccolta diffusa di capitali attraverso le piattaforme di internet

a sostegno di progetti imprenditoriali. Gli USA sono i pionieri e il real estate inizia a beneficiarne nelle attività di sviluppo e ristrutturazione: attualmente è uno strumento usato soprattutto dai piccoli sviluppatori ma iniziano a interessarsi anche i grandi e soprattutto gli enti locali per dirottare liquidità fresca su progetti di riqualificazione urbana. In Italia, oggi, il Decreto Legge del 18 ottobre 2012 n. 179 (Decreto crescita bis), prevede questo strumento solo per il finanziamento di start-up innovative sotto il controllo di Consob che al fine di tutelare chi investe prescrive, ad esempio, che i gestori dei siti andranno iscritti in un apposito registro e dovranno rispettare criteri di trasparenza e solidità e che per ogni progetto, almeno il 5% di quanto offerto dovrà essere sottoscritto da investitori professionali, fondazioni bancarie o incubatori. Ma quali sono le possibilità concrete di usare il crowdfunding per l’immobiliare? I presupposti sono buoni sebbene qualche punto interrogativo resta: il decreto riserva il crowdfunding solo alle start up innovative ma anche l’immobiliare, così come qualsiasi altro settore, può generare prodotti e processi innovativi come ad esempio nella bioedilizia e nei metodi di costruzione a basso impatto ambientale. Oggi che il canale bancario non riesce più a sostenere il settore, questo nuovo strumento può essere una valido supporto se non un’alternativa tout court.

una possibilità

Warwick Business School LondonUn estratto da Leading Business by Design

Why and how business leaders invest in designBy Design Council

Il Design è attualmente partner di qualsiasi agenda del business. Non si tratta

più di un processo limitato come una ciliegina sulla torta per beni o marche di lusso, al contrario nell’ultimo decennio il design ha raggiunto una certa rilevanza sia per la maniera in cui sono strutturate le aziende che per come operano e come si organizzano. Molte aziende e diversi settori stanno usando il design in maniera strategica, per differenziarsi nella competizione, per lanciare nuovi prodotti, nuovi marchi, o per affinare gli esistenti e per sostanziare scelte forti. C’è già un’evidenza considerevole nella relazione tra ciò che è l’intenzione di progettare con un design specifico ed il meccanismo di crescita del business e dell’innovazione. Questo scritto, uno stralcio di un lavoro più ampio della Business School di Warwick, mira a sostanziare quest’evidenza intervistando leaders di aziende afferenti a differenti settori produttivi e chiedendo loro di raccontare come usano il Design e che beneficio ne hanno tratto in termini di business. Diverse interviste con leader nel business in tutto il mondo provenienti da multinazionali quali Barclays, Virgin Atlantic, ecc ecc portano nel lavoro della Warwick alle medesime conclusioni: 01_ I benefici che nascono dall’utilizzo del design sono tanto maggiori quando più il design è intimamente relazionato alla ricerca per la soluzione di problemi posti dalla clientela dell’azienda ed a cui l’azienda dà credito.02_ Il design è più incisivo quando è culturalmente già parte del processo produttivo e produce al meglio quando ha un grosso supporto nell’organizzazione soprattutto da parte dei senior manager.

Perché e come

aziende leader nel business

investono in design

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03_Il design può dare un contributo a qualsasi tipo di produzione, dalla manifatturiera a quella basata sui servizi, piccola media o grande che sia.Nello studio, nella versione completa, si esaminano meglio queste affermazioni e si riportano alcuni esempi in cui l’impatto dell’introduzione del Design è stato determinante.

01._Il design è tagliato sul clienteLa maggior parte dei nostri intervistati si riferisce al design assimilandolo agli attributi tradizionali di manufatto con un valore estetico maggiorato, funzionante e fruibile; ma per la maggior parte chi lo ha utilizzato in maniera strategica lo ha definito come la capacità di risolvere i veri problemi posti dai clienti. Questo significa che il design non coincide propriamente con una specifica funzione né si identifica con un gruppo di persone che lo utilizza ma soprattutto fa riferimento ad una maniera di pensare e lavorare. In un business il design può spostare l’enfasi dal prodotto ed i servizi sui clienti.Tutti gli intervistati hanno

stabilito una connessione chiarissima tra il design, i clienti e i risultati finanziari. Si considera il massimo risultato non tanto creare un gran prodotto di design ma sviluppare una grande soluzione, un prodotto o servizio che risolva un problema con clienti che desiderino pagare per esso.

02._Il prodotto di Design è tanto più incisivo quanto più inserito nel processoIl nostro studio ci ha dimostrato come il design possa essere usato in 3 maniere differenti:1.Come un servizio: il design è trattato come una modalità organizzativa con raffinata competenza ed i designer sono spesso i massimi esperti di questo che svolgono come compito prioritario2.Come una prospettiva chiave nel processo di sviluppo: il design ed i designer sono coinvolti nel processo di elaborazione di nuovi prodotti e servizi, dall’inizio alla fine. Il questo caso il design svolge un ruolo più influenteed a volte addirittura strategico, ed è considerato allo stesso livello di altre funzioni (come il marketing o la pubblicità).3.Come prospettiva strategica: in questo caso il design ha capacità di modificare la strategia del business e spesso i designer hanno un ruolo leader nel processo.Si è riscontrato che Il design sembra lavorare meglio quando usato strategicamente ed in maniera integrata nello sviluppo

del processo del prodotto dall’inizio alla fine. Se poi il design possa essere usato strategicamente o no sembra essere determinato da tre fattori principali:1-La presenza di un sostenitore all’interno del senior management (come il CEO/il fondatore)2-Il ruolo del design manger/ il direttore è cruciale, specialmente quando il supporto della leadership è carente e il design manager deve sia influenzare che educare i decision maker sul design del proprio prodotto.3-La presenza di una rigorosa documentazione e monitoraggio del successo, specialmente quando il design è stato capace di riflettere e rinforzare il marchio dell’azienda.

03 Il design può aggiungerevalore a qualsiasi tipologia di azienda o prodottoLo svolgimento di questa ricerca ha dimostrato che il business investe nel design perchè può aggiungere valore:_ guidando l’innovazione ed aprendo spazi in mercati ancora inesplorati_ differenziando prodotti e servizi per attrarre clienti_rinforzando il brand, incarnando il valore della compagnia e rinnovandone l’identità. La maggior parte delle interviste ha rivelato una quantità impressionante di benefici quantitativi e qualitativi derivati dall’applicazione del design nel business. I leader del business citano incrementi nelle vendite, crescite nell’estendere la loro presenza nel settore di riferimento del mercato, una riduzione dei costi e l’ aumento dell’efficienza nella produzione. In parecchie compagnie specialmente in quelle dei servizi, l’introduzione di processi di design ha corrisposto ad una consistenza crescente del portfolio dell’azienda, ad un tempo più veloce di accesso al mercato, ed in lancio di prodotto più di successo. Tra i benefit non quantificabili economicamente la capacità di una riconoscibilità maggiore del marchio, una soddisfazione maggiore del cliente ed il suo sostegno al brand, una più grande forza nel prodotto, una minore possibilità di fallimento. Più il business usa in maniera strategica il design e più grandi sono i benefici. Infine

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il design può migliorare l’impatto sulle abitudini della gente. Come? Facilitando la collaborazione tra i vari comparti dell’azienda, cambiando lo spazio fisico dell’ufficio per riflettere il brand, organizzando un approccio più strutturato al prodotto.

Il paradosso di quantificare i benefici Nessuna company negli esempi della Warwick ha un metodo concreto per valutare l’impatto del design sulle performances dei prodotti ( specialmente l’impatto finanziario). Parecchie interviste hanno puntato il dito verso questo paradosso: più grande è la richiesta di provare il contributo del design attraverso dettagliate analisi, più la performance è risultata più bassa. Di conseguenza le interviste, ad architetti e non, enfatizzano le necessità per i top manager di provare al massimo il valore del design ed il lavoro dei designers.Questa ricerca, nel suo finale, fa otto raccomandazioni su come massimizzare l’impatto del design,

applicabile all’industria ed alle company e non importa quale sia il vostro business, possono comunque applicarsi anche al vostro:1_ Non limitate il contesto dove può operare il designLe company coinvolte in questo studio mostrano che ci sono enormi opportunità per usare usare il design per differenziare qualsiasi tipo di prodotto o servizio, incontrare le necessità dei clienti e migliorare i progetti professionali.2_Usate il design per fare la differenzaIl design può essere strategico se usato primariamente come via per risolvere i problemi dei clienti. Tuttavia specialmente nella fase esplorativa ed ideativa di nuovi prodotti e sviluppo di servizi il focus dovrebbe essere sulle vere necessità della clientela e non su cosa offrono i competitor. 3_ Integrate il design con il fare BrandIl design ha successo quando rinforza il Brand e parla un linguaggio sostanziato dal Brand.

Mentre si esplorano le nuove opzioni o possibilità le chiavi di lettura di un brand dovrebbero essere sempre indagate.4_ Il processo del design dovrebbe essere sempre strutturato chiaramente e ben compreso da tutte le parti per assicurarci la consistenza dei suoi esitiDovrebbe essere anche fortemente condiviso e supportato. Come decisione dell’azienda dovrebbe essere portata avanti da alcuni per evitare fazioni e punti di vista discordanti che rallentano il processo.5_ Date credito ai vostri talenti creativiIl design di successo spesso comporta il prendere decisioni coraggiose. Credere nella relazione tra il top management ed il design è perciò fondamentale. Una credenza del genere può venire dalla storia dell’azienda, dalla credenza dei suoi leader nel fatto che il design e l’innovazione possono fare una differenza notevole.

6_ Allocate il Design nella cultura della vostra organizzazioneNel senso più ampio il design riguarda la soluzione dei problemi dei consumatori perciò all’interno dell’azienda partire da una riflessione sui problemi dei consumatori è fondamentale. 7_ Applicate il design anche al vostro ambiente di lavoroIl design riguarda il processo così come i clienti così come l’ambiente di lavoro. Dovrebbe avere i clienti come punto focale ma anche essere presente nello progetto dell’ambiente di lavoro.8. Non lasciate che il ruolo del Design sia un’imposizioneI designers spesso iniziano la loro carriera come specialisti tecnici con funzioni di esperti. Ma perché il design svolga un ruolo strategico devono essere in grado di attraversare tutti i gruppi di lavoro e muoversi per influenzare l’azienda sia al suo interno che all’esterno. Solo così possono giocare al massimo la visione in cui credono con fare crescente facendole svolgere le potenzialità insite.

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Rilascio dell’attestato di aggiornamento:

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Tra il 2000 e il 2010 vi è stato un forte incremento dei flussi migratori dai paesi più poveri a quelli economicamente più avanzati, che ha interessato principalmente le aree urbane.

All’interno delle città, gli immigrati tendono a concentrarsi in alcune aree: questo fenomeno è evidente anche in Italia, dove la quota di immigrati in alcuni quartieri è circa dieci volte superiore alla corrispondente quota in altri quartieri. Il lavoro svolto studia l’interazione tra nativi e immigrati nelle aree urbane italiane, esaminando gli effetti della presenza straniera sul mercato immobiliare. L’analisi si basa su un modello teorico in cui si ipotizza che gli immigrati abbiano mediamente un reddito inferiore rispetto ai nativi e che questi ultimi possano cambiare quartiere in seguito all’afflusso di immigrati. La maggiore domanda di abitazioni connessa con l’aumento degli immigrati in un quartiere determina un aumento dei prezzi medi delle case in tutta la città. Se a seguito dell’immigrazione, inoltre, i nativi percepiscono un deterioramento della qualità della vita, ad esempio perché prevedono un pos-sibile peggioramento dei servizi offerti (quali un maggiore affollamento sui trasporti pubblici), allora la crescita dei prezzi nel quartiere in cui si

spunti

L’effetto dell’immigrazione nelle città italiane

Antonio Accetturo Francesco Manaresi Sauro Mocetti Elisabetta Olivieri

concentrano gli immigrati risulta inferiore a quella media e si associa a un loro deflusso verso altre aree della città. Gli effetti sono di segno opposto se la presenza di stranieri influenza positivamente le prospettive sulla qualità della vita (ad esempio attraverso una maggiore varietà di beni e servizi offerti). Queste implicazioni sono state sottoposte a verifica empirica esaminando un campione di 20 città italiane, nel periodo 2003-10, nelle quali si concentra circa un quarto del totale della popolazione immigrata. Un incremento del 10 per cento della popolazione straniera in un quartiere determina un aumento dei prezzi delle abitazioni dell’1,6 per cento nella media della città; la variazione dei prezzi è sostanzialmente nulla nelle aree dove si concentrano gli stranieri e più elevata nel resto della città. Le stime indicano che per ogni 10 immigrati che arrivano in un quartiere, circa 6 residenti nativi si trasferiscono verso altre aree della città. L’effetto sui prezzi medi delle città è in linea con quello trovato da altre analisi, sia per l’Italia sia per altri paesi sviluppati. Le dinamiche osservate a livello di quartiere sono coerenti con quelle stimate per gli Stati Uniti.

Sintesi di un lavoro svolto per la collana “Temi di discussione” una raccolta di contributi per il dibattito scientifico nei diversi campi di interesse dei ricercatori della Banca d’Italia

Don’t stand so close to me: the urban impact of immigration

Prime cittadinanze tra la popolazionestraniera a Milano_anno 2011

Nel prossimo numero: bollettino per i naviganti.Dopo i numeri sullo stato di fatto della crisi e le leve dello sviluppo le previsioni alla scala nazionale sull’andamento dei mercati e gli scenari più vicini a noi.Le prospettive di un settore che lavora per il suo ricollocamento: destini segnati ed astri nascenti della produzione edilizia.