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http://scrivi.10righedailibri.it/ leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

http://www.10righedailibri.it

romanzo

Traduzione dall’inglese di Arianna Pelagalli

odio quindi amo

susan elizabeth phillips

Della stessa autrice abbiamo pubblicato:

Il gioco della seduzione Heaven, Texas, Un posto nel tuo cuore E se fosse lui quello giusto? Un piccolo sogno Il lago dei desideri Lady Cupido Seduttore dalla nascita

Prima edizione: febbraio 2015Titolo originale: Ain’t She Sweet© 2004 by Susan Elizabeth Phillips© 2015 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.Il marchio Leggereditore è di proprietàdella Sergio Fanucci Communications S.r.l.via delle Fornaci, 66 – 00165 Romatel. 06.39366384 – email: [email protected] internet: www.leggereditore.itProprietà letteraria e artistica riservataStampato in Italia – Printed in ItalyTutti i diritti riservatiProgetto grafico: Grafica Effe

odio quindi amo

susan elizabeth phillips

A Jayne Ann Krentz.Una cara amica, una meravigliosa scrittrice,

e la più arguta ed eloquente sostenitrice del romanzo d’amore.

Nessun riferimento a esempi tratti da libri. Rispetto a noi donne, gli uomini hanno avuto ogni vantaggio nel raccontare la loro storia. Gli uomini hanno sempre potuto godere del privilegio dell’istruzione molto più di noi; la penna è sempre stata nelle loro mani. Non ammetto che i libri possano essere considerati prova di alcunché.

jane austen, Persuasione

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«Temo» confessò Pen «di non essere una ragazza ben educata. Zia dice che ho avuto un’educazione deplorevole.»georgette heyer, Beau Wyndham - Un dono dal cielo

La ragazzaccia di Parrish, Mississippi, era tornata nella citta­dina che si era lasciata alle spalle una volta per tutte. Sugar Beth Carey spostò lo sguardo dal parabrezza bagnato di pioggia all’orrendo cane adagiato accanto a lei sul sedile del passeggero.

«So benissimo cosa stai pensando, Gordon, avanti, dillo. I potenti sono caduti, eh?» Fece una risata amara. «Be’, fottiti...» Sbatté le palpebre per il pizzicore delle lacrime. «Fottiti e basta.»

Gordon alzò la testa e le rivolse un ghigno. La considerava una pezzente.

«Non io, amico.» Alzò il riscaldamento della vecchia Volvo contro il freddo di fine febbraio. «Griffin e Diddie Carey gover­navano questa città, e io ero la principessa. La ragazza dal futu­ro più promettente di tutte.»

Udì il latrato immaginario della risata del basset hound. Proprio come la fila di case coi tetti di lamiera che aveva ap­

pena superato, col passare tempo Sugar Beth aveva perso il suo lustro. I lunghi capelli biondi che le si arricciavano sulle spalle

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non erano più lucenti come una volta, e i cuoricini d’oro ai suoi lobi non ballonzolavano più in una danza spensierata. Le sue labbra imbronciate avevano perso la voglia di arricciarsi in sor­risetti maliziosi e le sue guance da bambolina avevano abban­donato la loro innocenza tre mariti prima.

Due chiarissimi occhi blu erano ancora incorniciati da ciglia foltissime, ma ai loro angoli avevano iniziato a fare capolino delle lievissime zampe di gallina. Quindici anni prima, era la ragazza meglio vestita di Parrish, mentre ora uno dei suoi stivali al polpaccio col tacco a spillo aveva un piccolo buco nella suola, e l’aderente abito a maglia scarlatto, con il pudico collo alto e l’orlo un po’ meno pudico, veniva da un grande magazzino e non da una boutique.

Parrish era nata nel 1820 come città del cotone nel Mississippi nordorientale, e più tardi aveva evitato di essere data alle fiam­me dall’esercito dell’Unione grazie all’astuzia della sua popola­zione femminile, che aveva esercitato sui ragazzi in blu un tale irresistibile fascino e dato prova di una così infaticabile ospita­lità, tipica del Sud, che nessuno di loro aveva avuto la forza di accendere il primo fiammifero. Sugar Beth era la diretta discen­dente di quelle donne, ma in giornate come quella faceva molta fatica a ricordarsene.

Nell’avvicinarsi a Shorty Smith Road azionò il tergicristallo e lanciò un’occhiata all’edificio a due piani, vuoto in quel pome­riggio domenicale, che si trovava ancora in fondo alla strada. Grazie al ricatto economico di suo padre, la scuola superiore di Parrish rappresentava uno dei pochi esperimenti di successo di istruzione pubblica integrata del profondo Sud. Un tempo Sugar Beth aveva dettato legge in quei corridoi. Era stata lei a decidere chi si poteva sedere ai tavoli migliori della mensa, con quali ragazzi si poteva uscire e se l’imitazione di una borsa di Gucci era accettabile se tuo padre non fosse Griffin Carey e non ti potessi permettere l’originale. Bionda e divina, aveva regnato incontrastata.

Non era sempre stata una dittatrice clemente, ma pochissime

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persone avevano tentato di mettere in discussione il suo potere, persino fra gli insegnanti. Una volta uno di loro ci aveva pro­vato, ma Sugar Beth lo aveva liquidato in quattro e quattr’otto. Stessa cosa poteva dirsi di Winnie Davis... Che possibilità po­teva mai avere una nerd imbranata e goffa contro il potere di Sugar Beth Carey?

Mentre osservava la scuola attraverso la sottile pioggerella di febbraio, la vecchia musica iniziò a martellarle nelle orecchie: inxs, Miami Sound Machine, Prince. A quei tempi, quando El­ton John cantava Candle in the Wind, la cantava solo per Marilyn.

Le scuole superiori. L’ultima volta che aveva avuto il mondo in pugno.

Gordon scoreggiò.«Dio, ti odio, cane schifoso.»L’espressione sprezzante di Gordon le disse che non gliene

importava un bel niente. Ora come ora, non importava niente neanche a lei.

Controllò l’indicatore della benzina. Era praticamente a sec­co, ma non voleva sprecare soldi per riempire il serbatoio finché non fosse assolutamente necessario. Ma, guardando il lato posi­tivo, a che le serviva la benzina quando era già arrivata alla fine del viaggio?

Svoltò l’angolo e vide l’appezzamento vuoto dove un tempo sorgeva la casa di Ryan. Ryan Galantine era stato il Ken per la sua Barbie. Il ragazzo più popolare; la ragazza più popolare. Ti amerò x sempre. Gli aveva spezzato il cuore al primo anno di uni­versità a Ole Miss, quando lo aveva tradito con Darren Tharp, il famoso atleta che era diventato il suo primo marito.

Sugar Beth ricordava bene gli sguardi che Winnie Davis lan­ciava a Ryan quando credeva di non essere vista. Come se una goffa emarginata potesse avere qualche possibilità con un fa­scinoso maschione come Ryan Galantine. Sugar Beth e le sue amiche, le Coralline, si erano pisciate addosso dalle risate alle sue spalle. Quel ricordo la depresse ancora di più.

Mentre si avvicinava al centro della città, si accorse che Par­

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rish aveva deciso di sfruttare la recente fama di ambientazione, nonché di protagonista principale, del memoir best seller Ulti-ma fermata, destinazione nulla. L’ufficio turistico aveva attirato un buon flusso di avventori, e Sugar Beth notò che la città si era tira­ta a lucido. Il marciapiedi davanti alla chiesa presbiteriana non era più pieno di buche, e gli orrendi lampioni con cui era cre­sciuta erano stati sostituiti con degli affascinanti pezzi di inizio secolo. Lungo Tyler Street, le case storiche prebelliche, vittoria­ne e in stile neogreco erano state agghindate con delle freschissi­me mani di vernice, e un elegante segnavento in rame adornava la cupola della mostruosità in stile italiano di Eulie Baker. La notte prima di andare fino in fondo, Sugar Beth e Ryan avevano pomiciato proprio nel vicolo che si trovava dietro quella casa.

Girò sulla Broadway, la strada principale dei quattro isolati della città. L’orologio del tribunale non era più fermo alle dieci e dieci, e la fontana del parco si era scrollata di dosso il lerciume. Sia la banca che una mezza dozzina di altre attività presenta­vano dei tendoni a strisce verdi e bordeaux, e la bandiera degli Stati Confederati non sventolava da nessuna parte. Girò a sini­stra sulla Valley e si diresse verso il vecchio scalo ferroviario ab­bandonato, a un isolato di distanza. Fino ai primi anni Ottanta, il treno Mississippi Central era passato da lì una volta al giorno. A differenza degli altri edifici del centro, lo scalo avrebbe avuto bisogno di un bel po’ di riparazioni e di una bella ripulita.

Esattamente come lei.Non poteva più rimandare, così si diresse verso Mockingbird

Lane e la casa conosciuta come la Sposa del Francese. Anche se la Sposa del Francese non era uno degli edifici sto­

rici di Parrish, era il più grandioso, con le sue altissime colon­ne, gli ampi porticati e le graziose finestre ad arco. Splendido amalgama fra lo stile delle case delle piantagioni del Sud e lo stile Queen Anne, la dimora si ergeva su una lieve altura ben discosta dalla strada, circondata da magnolie, cercis canadensis, azalee e un grappolo di sanguinelle. Questo era il posto dove Sugar Beth era cresciuta.

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Come le case storiche su Tyler Street, anche questa era molto ben tenuta. Sulle persiane era appena stata data una mano di lucida vernice nera, e la lunetta sopra la porta a due ante dell’in­gresso scintillava per il dolce bagliore del lampadario all’inter­no. Erano anni che non aveva più notizie della città, a parte stral­ci di informazioni che si era degnata di passarle sua zia Tallulah, perciò non sapeva chi avesse comprato la casa. Andava bene così. Nella sua vita c’era già troppa gente che non sopportava, prima fra tutti sé stessa.

La Sposa del Francese era una delle sole tre abitazioni di Mock­ingbird Lane. Sugar Beth aveva già superato la prima, una ro­mantica casa colonica in stile francese a due piani. A differenza che nella Sposa del Francese, Sugar Beth sapeva benissimo chi viveva lì. La sua destinazione era la terza dimora, quella che era appartenuta a sua zia Tallulah.

Gordon si agitò. Quel cane era cattivo, ma Emmett, il suo ul­timo marito, lo adorava, perciò Sugar Beth si sentiva in dovere di tenerlo finché non gli avesse trovato un nuovo padrone. Fi­nora non aveva avuto molta fortuna. Non era facile trovare una casa a un basset hound con un enorme disturbo della perso na­lità.

Aveva iniziato a piovere più forte, e se non avesse conosciu­to la sua destinazione, avrebbe rischiato di superare il vialetto ricoperto di vegetazione che si trovava oltre l’altissima siepe che delimitava il lato est della Sposa del Francese. Il ghiaino era scomparso già da molto tempo e gli ammortizzatori consumati della Volvo risentirono del selciato accidentato.

La rimessa era ridotta peggio di come la ricordasse, ma i mat­toni bianchi ricoperti di muschio, il timpano e il tetto a spioventi le conferivano ancora un fascino fiabesco. Costruita nello stesso periodo della Sposa del Francese, non era mai stata utilizzata come rimessa, ma sua nonna trovava la parola ‘garage’ troppo banale. Alla fine degli anni Cinquanta era stata convertita ad abitazione per la zia di Sugar Beth, Tallulah. Tallulah ci aveva abitato per il resto della sua vita, e quando era morta l’aveva la­

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sciata in eredità alla nipote, un vero segno di disperazione, dato che la zia Tallulah non l’aveva mai approvata.

Lo so che non vuoi essere vanitosa ed egoista, Sugar Beth, che dio ti benedica. Sono sicura che prima o poi ne uscirai.

Tallulah credeva di poter insultare sua nipote ogni volta che voleva a patto di benedirla ogni volta che lo faceva.

Sugar Beth si protese sul sedile del passeggero e aprì lo spor­tello di Gordon. «Dài, scappa.»

Al cane non piaceva bagnarsi le zampe, e lo sguardo che le ri­volse le disse che si aspettava di essere portato dentro in braccio.

«Sì, contaci.»Le mostrò i denti.Sugar Beth prese la borsa, quello che era rimasto del cibo per

cani più economico che era riuscita a trovare e una confezio­ne da sei di Coca­Cola. La roba nel baule poteva aspettare che smettesse di piovere. Emerse dalla macchina, con la gonna corta che le si arrampicava in cima alle cosce e le lunghe gambe da purosangue a fare da apripista.

Quando voleva, Gordon sapeva essere veloce, e schizzò da­vanti a lei su per i tre gradini che conducevano al piccolo porti­co. La targa di legno verde e oro che il tuttofare di zia Tallulah aveva appeso ai mattoni quarant’anni prima occupava ancora un posto d’onore accanto alla porta d’ingresso.

nell’estate del 1954,il grande espressionista astratto americano

lincoln ash dipinse qui.

E lasciò a Tallulah una preziosa opera d’arte che ora appar­teneva a sua nipote, Sugar Beth Carey Tharp Zagurski Hooper. Un quadro che Sugar Beth doveva trovare il prima possibile.

Scelse una chiave tra quelle che l’avvocato di Tallulah le ave­va spedito, aprì la porta ed entrò. Gli odori del mondo di sua zia la investirono immediatamente: pomata Ben Gay, muffa, insa­lata di pollo e disapprovazione. Gordon diede un’occhiata, si

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dimenticò che non gli piaceva bagnarsi le zampe e tornò fuori. Sugar Beth appoggiò i pacchi e si guardò intorno.

Il soggiorno era un ammasso di accoglienti orrori di famiglia: polverose sedie Sheraton, tavoli graffiati con delle palline ai piedi delle gambe, uno scrittoio in stile Queen Anne e una cap­pelliera di legno curvato adorna di ragnatele. Sulla credenza di mogano c’era un orologio da camino Seth Thomas insieme a un paio di orrendi cani di porcellana e a uno scrigno d’argento con una placca ossidata che celebrava Tallulah Carey per i suoi tanti anni di zelante servizio presso le Figlie della Confederazione.

Negli arredi non c’era nessuna logica. Il liso tappeto orientale faceva a gara con lo scolorito chintz del divano. Il rivestimento a punto fiamma rosso e giallo di una poltrona sbucava da sotto un assortimento di cuscini all’uncinetto. Il divano era un grumo di consunta pelle verde, le tende un pizzo ingiallito. Eppure i colori e le fantasie, smorzati dagli anni e dall’uso, avevano raggiunto una sorta di fiacca armonia.

Sugar Beth si avvicinò alla credenza e tirò via una ragnatela per aprire lo scrigno d’argento. Dentro c’era un servizio da dodi­ci di posate in argento sterling. Fin da quando Sugar Beth aveva memoria, un mese sì e uno no Tallulah aveva usato i cucchiaini da gelato per il gruppo della canasta del mercoledì mattina. Su­gar Beth si chiese quanto potesse valere un servizio da dodici in argento sterling.

Non abbastanza. Le serviva il quadro.Doveva fare pipì e aveva fame, ma non stava più nella pelle

all’idea di vedere lo studio. La pioggia non si era attenuata, così prese un puzzolente maglione beige che Tallulah aveva lasciato accanto alla porta, se lo mise sulle spalle e tornò fuori. Mentre seguiva il lastricato che portava al garage costeggiando la casa, la pioggia le penetrò nello stivale dal buco nella suola. Le por­te di legno fuori moda si erano afflosciate nei cardini. Usò una delle chiavi da lucchetto che le erano state consegnate e le aprì trascinandole.

Quel posto era esattamente come se lo ricordava. Quando la

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rimessa era stata riconvertita nella casa di una zitella, Tallulah aveva impedito ai carpentieri di distruggere la parte del vec­chio garage dove un tempo Lincoln Ash aveva messo su il suo studio. Si era invece accontentata di un soggiorno più piccolo e di una cucina stretta, lasciando intatta quella zona come fos­se un santuario. Sugli scaffali di legno grezzo c’erano ancora i barattoli incrostati dei colori che cinquant’anni prima Ash ave­va fatto gocciolare dai suoi pennelli per creare le opere che poi erano diventate i suoi capolavori. Dato che l’unica coppia di finestre del garage non lasciava entrare molta luce, lavorava te­nendo le porte aperte, adagiando le tele sul pavimento esterno. Anni prima sua zia aveva coperto l’incerata sporca di pittura con alcuni spessi fogli di plastica protettiva, ormai talmente o­pachi per la sporcizia, gli insetti morti e la polvere che i colori al di sotto erano a malapena visibili. Una scala a pioli punteggiata di vernice, anch’essa ricoperta di plastica, era adagiata a un’e­stremità accanto a una cassetta degli attrezzi, a una collezione dei vecchi pennelli di Ash e a coltelli e spatole, tutti sparpagliati come se l’artista si fosse appena preso una pausa per uscire a fumare una sigaretta. Sugar Beth non si aspettava che la sua irascibile zia le avrebbe lasciato il dipinto accanto alla porta in attesa del suo arrivo, però sarebbe stato molto gentile da parte sua. Trattenne un sospiro. La mattina successiva avrebbe ini­ziato la vera ricerca.

Gordon la seguì di nuovo dentro casa. Nell’accendere una lampada da terra con un paralume a frange, la disperazione che la stava consumando da settimane le diede un morso più forte. Quindici anni prima aveva lasciato Parrish con una perfetta ar­roganza, come una folle ragazza rancorosa che non riusciva a concepire un universo che non ruotasse intorno a lei. Alla fine era stato l’universo a ridere per ultimo.

Vagò verso la finestra e scostò la tenda polverosa. Sopra la fila di siepi vide i camini della Sposa del Francese. Il nome de­rivava dalla proprietà originaria. Sua nonna l’aveva progettata, suo nonno l’aveva costruita, suo padre l’aveva modernizzata e

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Diddie l’aveva riempita d’amore. Un giorno la Sposa del Francese sarà tua, zuccherino.

Ai vecchi tempi si sarebbe arresa alle lacrime di fronte alle ingiustizie della vita. Adesso rimise a posto la tenda e si voltò per andare a dare da mangiare a quel cane odioso.

Colin Byrne era fermo davanti alla finestra della camera da letto padronale al secondo piano della Sposa del Francese. Il suo aspetto trasmetteva la meditabonda eleganza di un uomo d’al­tri tempi, dell’Età della Reggenza inglese forse, o comunque di un’epoca in cui i monocoli, le tabacchiere e i salotti andavano per la maggiore. Aveva due occhi infossati color verde acqua e un viso lungo e stretto con zigomi acuti sotto i quali c’erano delle cavità a forma di virgola. Le code di quelle virgole si ar­ricciavano verso una solenne bocca sottile. Aveva un volto da dandy, vagamente effeminato, se non fosse stato per quel naso enorme... lungo e ossuto, aristocratico, incredibilmente brutto eppure perfetto per il suo viso.

Indossava una giacca da camera con la stessa disinvoltura con cui un altro uomo avrebbe indossato una felpa. La sua tenu­ta era completata da un paio di pantaloni di seta con la chiusura a cordoncino e da due pantofole con dei simboli cinesi di color scarlatto sulle dita dei piedi. I vestiti erano stati confezionati su misura appositamente per il suo corpo eccezionalmente alto e le sue spalle larghe, ma le sue enormi mani da operaio ‒ palmi larghi e dita grosse ‒ facevano pensare che Colin Byrne non fos­se esattamente ciò che sembrava.

Mentre era fermo alla finestra a osservare le luci della rimes­sa che si accendevano, la linea della sua bocca severa divenne ancora più dura. Allora... i pettegolezzi erano veri. Sugar Beth Carey era tornata.

Erano passati quindici anni dall’ultima volta che l’aveva vi­sta. All’epoca era poco più che un ragazzino. Ventidue anni, pie­no di sé, era come un uccellino esotico atterrato in una cittadina del Sud per scrivere il suo primo romanzo e ‒ ah, sì ‒ insegnare

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a scuola nel tempo libero. C’era un che di appagante nel lascia­re fermentare un risentimento per così tanto tempo. Come un grande vino francese, diventava più complesso, sviluppando fi­nezze e sfumature che una decisione avventata non gli avrebbe mai permesso di sprigionare.

L’angolo della sua bocca si sollevò pregustando il momento. Quindici anni fa era completamente impotente di fronte a lei. Ora no.

Era arrivato a Parrish dall’Inghilterra per insegnare nella scuola superiore del luogo, anche se per quella professione non aveva alcuna passione e assolutamente nessun talento. Tuttavia Parrish, come molte altre cittadine del Mississippi, aveva un bi­sogno disperato di insegnanti. Con l’intento di far conoscere ai giovani del posto un mondo più vasto, un comitato formato dai cittadini più autorevoli dello Stato aveva contattato alcune uni­versità del Regno Unito, offrendo ai migliori laureati un lavoro e un permesso di soggiorno.

Colin, che era sempre stato affascinato dagli scrittori del Sud degli Stati Uniti, aveva colto la palla al balzo. Quale posto mi­gliore per scrivere il suo romanzo che i fertili paesaggi del Mis­sissippi, terra di Faulkner, Eudora Welty, Tennessee Williams, Richard Wright? Aveva buttato giù un saggio estremamente e­loquente nel quale aveva ampiamente esagerato il suo interesse per l’insegnamento, e aveva accluso le prime venti pagine del romanzo che aveva appena iniziato a scrivere, immaginando ‒ correttamente, per come erano poi andate le cose ‒ che uno Stato con un’eredità letteraria così notevole avrebbe prediletto uno scrittore. Un mese dopo aveva ricevuto la notizia di aver superato la selezione, e poco dopo si era messo in viaggio verso il Mississippi.

Si era innamorato di quel posto maledetto il primo giorno... della sua ospitalità, delle sue tradizioni, del suo fascino da pic­cola cittadina. Però non si era innamorato altrettanto del suo la­voro di insegnante, che era diventato da difficile a impossibile, e tutto ciò grazie a Sugar Beth Carey.

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Colin non aveva un piano ben definito per attuare la sua ven­detta. Non aveva rimuginato su un progetto machiavellico per dieci anni... non le avrebbe mai dato tutto quel potere. Ma que­sto non significava che avesse intenzione di lasciar perdere il suo antico risentimento. Aveva invece atteso di vedere dove lo avrebbe condotto la sua immaginazione di scrittore.

Squillò il telefono e lui si allontanò dalla finestra per rispon­dere, con quel suo accento inglese sincopato che gli anni trascor­si nel Sud degli Stati Uniti non avevano minimamente affievo­lito. «Byrne.»

«Colin, sono Winnie. Avevo provato a chiamarti anche prima.»Era stato impegnato a lavorare al terzo capitolo del suo nuo­

vo libro. «Scusami, tesoro. Non ho ascoltato la segreteria. Do­vevi dirmi qualcosa di importante?» Si portò il telefono alla fi­nestra e guardò fuori. Nella rimessa si era accesa un’altra luce, questa volta al secondo piano.

«Siamo tutti qui a fare una specie di festicciola. I ragazzi ades­so stanno guardando le immagini salienti di Daytona, e tu non ti fai vedere da un pezzo. Perché non fai un salto qui? Ci manchi, signor Byrne.»

Winnie si divertiva a punzecchiarlo con delle frecciatine che rimandavano al loro vecchio rapporto di studentessa e inse­gnante. Lei e suo marito erano i suoi più cari amici a Parrish, e per un attimo fu tentato. Ma ci sarebbero state anche le Co­ralline con i loro compagni. Di solito le donne lo divertivano, ma quella sera non era dell’umore giusto per le loro chiacchiere. «Devo lavorare un altro po’. La prossima volta ci sarò, okay?»

«D’accordo.»Lanciò un’occhiata dall’altra parte del giardino, desiderando

che non spettasse a lui darle la notizia. «Winnie... nella rimessa ci sono delle luci accese.»

Fra loro scesero diversi attimi di silenzio prima che lei rispon­desse a bassa voce, quasi in un sussurro. «È tornata.»

«Così sembrerebbe.»Winnie non era più una teenager insicura, e una lama d’ac­

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ciaio tagliò le sue dolci vocali del Sud. «Molto bene. Che i giochi abbiano inizio.»

Winnie tornò in cucina appena in tempo per vedere Leeann Perkins chiudere il cellulare, con gli occhi che danzavano pieni di eccitazione. «Non ci crederete mai.»

Winnie aveva il sospetto che ci avrebbe creduto.Le altre quattro donne in cucina smisero di fare quello che

stavano facendo. La voce di Leeann aveva la tendenza a diven­tare stridula quando era agitata, facendola somigliare a una Minnie del Sud. «Era Renee. Sapete che è parente di Larry Car­ter, quello che lavora al Quik Mart da quando è uscito dal centro di recupero, no? Non indovinerete mai chi è andato a registrarsi un paio d’ore fa.»

Mentre Leeann faceva una pausa per creare un po’ di suspen­ce, Winnie prese un coltello e si costrinse a concentrarsi sul ta­glio della torta alla Coca­Cola di Heidi Pettibone. La mano le tremava appena.

Leeann si rimise il cellulare in borsa senza abbassare lo sguar­do. «Sugar Beth è tornata!»

La schiumarola che Merylinn Jasper stava sciacquando cad­de nel lavello. «Non ci credo.»

«Sapevamo che stava tornando.» La fronte di Heidi si raggrin­zò per l’indignazione. «Ma comunque, ci vuole un bel coraggio!»

«Sugar Beth ha sempre avuto un sacco di coraggio» ricordò Leeann a tutte.

«Ci saranno un bel po’ di problemi.» Amy Graham si toccò la croce d’oro che aveva al collo. Alle superiori era stata la cristiana più fervente fra gli studenti dell’ultimo anno nonché presiden­tessa del club della Bibbia. Aveva ancora la tendenza a cercare di fare proseliti, ma lo faceva con una tale discrezione che le altre ci passavano sopra. Appoggiò la mano sul braccio di Winnie. «Stai bene?»

«Sto benissimo.»Leeann si pentì immediatamente. «Non avrei dovuto spiat­

tellarvi la notizia così a bruciapelo. Sono stata insensibile, vero?»

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«Come sempre» disse Amy. «Ma ti vogliamo bene lo stesso.»«E te ne vuole anche Gesù» buttò lì Merylinn prima che Amy

potesse toccare quel tasto.Heidi strattonò uno degli orecchini d’argento a forma di or­

sacchiotto che indossava in abbinamento con il maglione con l’orsacchiotto rosso e blu. Collezionava orsetti, e a volte si lascia­va un po’ prendere la mano. «Quanto pensi che si fermerà?»

Leeann si infilò una mano nella scollatura per tirare la spalli­na del reggiseno. Fra tutte le Coralline, lei era quella con il seno più bello, e le piaceva metterlo in mostra. «Non per molto direi. Dio, eravamo davvero delle stronzette.»

In cucina scese il silenzio. Amy lo ruppe dicendo quello che stavano pensando tutte. «Winnie non lo era.»

Perché all’epoca Winnie non era una di loro. Solo lei a quel tempo non era una Corallina. Che ironia: adesso era la loro leader.

A Sugar Beth era venuta l’idea delle Coralline quando aveva undici anni. Aveva scelto il nome ispirandosi a un sogno che aveva fatto, anche se nessuna di loro ricordava che cosa aves­se sognato. Le Coralline dovevano essere un club privato, a­veva annunciato, il club più divertente che ci fosse mai stato, per le ragazze più popolari della scuola, tutte scelte da lei, na­turalmente. Aveva fatto un lavoro abbastanza buono e, più di vent’anni dopo, le Coralline erano ancora il club più divertente della città.

Nel momento di maggior splendore, le Coralline avevano contato dodici membri, ma alcune di loro si erano trasferite e Dreama Shephard era morta. Adesso restavano solo le quattro donne che in quel momento si trovavano in cucina insieme a Winnie. Erano diventate le sue amiche più care.

Il marito di Heidi, Phil, si affacciò in cucina. Allungò la pen­tola vuota in cui c’era la salsa Rotel che gli uomini pretendevano di avere a ogni festicciola, un intruglio di pomodoro piccante e formaggio Velveeta in cui intingere le tortillas. «Clint ci sta co­stringendo a guardare il golf. Quando si mangia?»

«Tra poco. E non indovinerai mai cos’abbiamo appena sa­

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puto.» Gli orecchini a forma di orsetto di Heidi ballonzolarono. «Sugar Beth è tornata.»

«Stai scherzando? Quando?»«Oggi pomeriggio. Leeann l’ha appena saputo.»Phil le fissò per un momento, poi scosse la testa e scomparve

per fare il passaparola agli altri uomini. Le donne si misero al lavoro, e per alcuni minuti regnò il silen­

zio mentre ogni vittima era immersa nei propri pensieri. Quelli di Winnie erano i più amari. Quando erano piccole, Sugar Beth possedeva tutto ciò che Winnie avrebbe voluto: bellezza, popo­larità, sicurezza... e Ryan Galantine. Winnie invece aveva una sola cosa che avrebbe voluto Sugar Beth. Però era una cosa gros­sa, e alla fine si era rivelata la più importante.

Amy tirò fuori da un forno un prosciutto e un piatto delle famose patate dolci al Drambuie di sua madre. Dall’altro for­no, Leeann estrasse uno sformato di formaggio all’aglio e uno stufato di spinaci e carciofi. La spaziosa cucina di Winnie, con i suoi accoglienti mobiletti in legno di ciliegio e l’ampia isola cen­trale, rendeva la sua casa il posto migliore in cui ritrovarsi per le loro festicciole. Quella sera avevano parcheggiato i bambini dalla nipote di Amy. Winnie aveva chiesto a sua figlia di fare da baby­sitter, ma ultimamente era diventata un po’ difficile e le aveva detto di no.

Nello stile tipico delle donne nate e cresciute nel Sud, le Co­ralline si mettevano in ghingheri l’una per l’altra, perciò trascor­revano la prima parte delle loro riunioni a parlare di quello che indossavano. Era un’eredità che avevano ricevuto dalle loro madri, che si mettevano le calze di nylon e i tacchi alti anche solo per andare alla buca delle lettere. Però Winnie non era una Corallina, e, nonostante l’insistenza di sua madre, ci aveva mes­so molto più delle altre a capire come rendersi presentabile.

Leeann si leccò un velo di sformato di formaggio dall’indice. «Chissà se Colin lo sa.»

«Sei poi riuscita a parlarci, Winnie?» chiese Amy. «Siamo state così distratte dalla notizia che non te lo abbiamo neanche chiesto.»

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Winnie annuì. «Sì, ma sta lavorando.»«Lavora sempre.» Merylinn prese un foglio di carta assor­

bente. «Lo si potrebbe quasi scambiare per uno yankee.»«Vi ricordate quanto ci faceva paura alle superiori?» chiese

Leeann.«Non a Sugar Beth» fece notare Amy. «E neanche a Winnie,

era la cocca del professore.» Le sorrisero tutte.«Dio, come lo desideravo» disse Heidi. «Era parecchio strano,

ma era davvero sexy. Però non sexy com’è diventato adesso.»Quello era un argomento ricorrente. Erano passati cinque an­

ni da quando Colin era tornato a Parrish, e si erano appena abi­tuate ad avere nel loro gruppo di adulti uno dei professori che avevano temuto di più.

«Lo desideravamo tutte. A parte Winnie.»«Lo desideravo un po’ anch’io» disse Winnie per riscattarsi.

Ma non era vero. Poteva anche aver sospirato per il romantico distacco della personalità meditabonda di Colin, ma non aveva mai fantasticato su di lui come le altre ragazze. Per lei c’era sem­pre stato solo Ryan. Ryan Galantine, il ragazzo che amava Sugar Beth con tutto il cuore.

«Che fine hanno fatto i guanti da forno?»Winnie glieli allungò. «Colin sa che è tornata. Ha visto le luci

accese nella rimessa.»«E adesso cos’avrà intenzione di fare?»Amy appoggiò una forchetta da portata sul vassoio del pro­

sciutto. «Be’, io non ho intenzione di rivolgerle la parola.»«Se ti capita l’occasione lo farai, lo sai» la rimbeccò Leeann.

«Lo faremo tutte perché siamo curiose da morire. Chissà com’è diventata.»

Bionda e perfetta, pensò Winnie. Si trattenne dall’impulso di correre davanti allo specchio per ricordarsi che non era più la goffa, impacciata Winnie Davis. Anche se le sue guance non avrebbero mai perso la loro rotondità e non avrebbe mai potuto fare niente per la bassa statura che aveva ereditato da suo pa­dre, era magra e tonica grazie agli estenuanti esercizi che faceva

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in palestra cinque volte a settimana. Esattamente come tutte le altre, era truccata meticolosamente e aveva dei gioielli scelti con gusto, anche se i suoi erano più costosi di quelli delle altre. I suoi capelli scuri brillavano in un caschetto corto alla moda, opera del miglior parrucchiere di Memphis. Quella sera indossava una maglietta ornata di perline, un paio di pantaloni pervinca e sandali abbinati. Tutto quello che aveva era all’ultima moda, tutt’altra cosa rispetto all’epoca delle superiori, quando girava per i corridoi con dei vestiti larghi, terrorizzata dall’idea che qualcuno potesse rivolgerle la parola.

Colin, che era un emarginato proprio come lei, aveva capito. Con lei era stato gentile fin dal primo momento, più gentile di quanto non fosse coi suoi compagni, che spesso erano il ber­saglio della sua tagliente lingua piena di cinismo. Eppure, su di lui le ragazze facevano sogni a occhi aperti. Era stata Heidi, con la sua passione per i romanzi storici, ad avergli trovato il soprannome.

Mi ricorda un giovane duca inglese tormentato, con un grande mantello nero che svolazza nel vento, che ogni volta che c’è una tem-pesta sale sul bastione del suo castello perché soffre per la morte della sua bellissima sposa.

Colin era diventato il Duca, anche se lui non lo sapeva. Non era il genere di insegnante con cui si potesse avere quel tipo di confidenza.

Gli uomini iniziarono a gironzolare per la cucina attratti dal profumo del cibo e dal desiderio di sentire le reazioni delle loro mogli alla notizia del ritorno di Sugar Beth.

Merylinn gesticolò verso di loro. «State in mezzo ai piedi.»Gli uomini la ignorarono, come facevano sempre quando

arrivava l’ora di mangiare, e le donne iniziarono a fare la loro tipica danza, portando il cibo dalla cucina alla credenza del XVIII secolo che occupava una delle pareti della graziosa sala da pranzo di Winnie.

«Colin sa che Sugar Beth è tornata?» chiese Deke, il marito di Merylinn.

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«È stato lui che lo ha detto a Winnie.» Merylinn gli passò un’insalatiera.

«E voi vi lamentate che a Parrish non succede mai niente.» Il marito di Amy, Clint, era cresciuto a Meridian, ma conosceva le vecchie storie talmente bene che a volte gli altri si dimenticava­no che non era uno di loro.

Brad Simmons, che vendeva elettrodomestici, sghignazzò. Era l’accompagnatore di Leeann di quella sera. A Leeann non piaceva molto, ma da quando lei aveva divorziato, aveva inizia­to a uscire con tutti gli scapoli più appetibili di Parrish, e anche con alcuni dei meno appetibili, sebbene nessuna di loro ne par­lasse perché per Leeann era un argomento spinoso. Con due figli, uno dei quali disabile, e un ex marito sempre in ritardo col pagamento degli alimenti, meritava tutte le distrazioni che riusciva a trovare.

Il marito di Winnie fu l’ultimo a comparire. Era il più alto fra gli uomini, magro e tonico, con i capelli del colore del grano, occhi caramello e uno di quei volti perfettamente simmetrici che aveva indotto diverse volte Merylinn a dirgli di compiere il volere di Dio e diventare un donatore di sperma. Le Coralline erano troppo educate per smettere di fare quello che stavano facendo e fermarsi a esaminarlo nel modo in cui avrebbero vo­luto, ma lo osservarono con la coda dell’occhio quando prese il cavatappi e iniziò ad aprire il vino che Winnie aveva tirato fuori.

Winnie sentì un vecchio spasimo nel petto. Erano sposati da poco più di tredici anni. Avevano una bellissima bambina, una splendida casa e una vita quasi perfetta. Quasi... perché nono­stante tutti i suoi tentativi, Winnie sarebbe sempre stata la se­conda scelta nel cuore di Ryan Galantine.

Dopo aver vissuto di Coca­Cola e ciambelle rafferme per due giorni, Sugar Beth non poté più rimandare un giro al super­mercato. Attese fino all’ora di cena del giovedì, sperando che a quell’ora il Big Star fosse vuoto, e salì in macchina per andare in centro. La fortuna era dalla sua parte, e riuscì a prendere quello

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che le serviva senza dover parlare con nessuno a parte Peg Dru­cker alla cassa, che si mise a chiacchierare così animatamente che dovette passare due volte la gelatina di uva sul lettore del codice a barre, e Cubby Bowmar, che raggiunse Sugar Beth mentre Peg stava infilando la roba nei sacchetti e con un sorriso mise in mo­stra il buco dove un tempo c’era un canino.

«Ehi, Sugar Beth, sei anche più bella di come ti ricordavo, dol­cezza.» I suoi occhi si spostarono dai suoi seni al cavallo dei suoi pantaloni a vita bassa col risvolto in fondo. «Adesso ho la mia attività. Pulizia tappezzerie Bowmar. E va alla grande. Che ne diresti se tu e io andassimo a berci un paio di birre al Dudley e parlassimo un po’ dei vecchi tempi?»

«Mi dispiace, Cubby, ma ho rinunciato ai begli uomini quan­do ho deciso di farmi suora.»

«Cavolo, Sugar Beth, non sei neanche cattolica.»«Questo di sicuro lascerà di stucco il mio amico papa.»«Non sei cattolica, Sugar Beth. Te la stai solo tirando come al

solito.»«Vedo che l’intelligenza non ti ha abbandonato, Cubby. Salu­

tami tua madre.»Quando uscì dal Big Star evitò di guardare il poster che l’ave­

va sconvolta nell’entrare:

concerti di winnie e ryan galantinedomenica 7 marzo alle 14

chiesa battista5 $ di donazione per le associazioni benefiche locali

Le sembrava che la notte si stesse chiudendo su di lei, così si diresse al lago ma poi si rese conto che non aveva i soldi per fare benzina. Fece un’inversione a U su Spring Road vicino all’azien­da di finestre Carey, l’attività che aveva fondato suo nonno, che però adesso si chiamava cwf. Trovava difficile immaginare che Winnie e Ryan potessero organizzare una serie di concerti. Or­mai erano sposati da più di dodici anni. Non avrebbe dovuto es­

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sere doloroso dato che era stata proprio Sugar Beth a scaricarlo. Con la sua solita pessima capacità di giudizio, le era bastato dare una sola occhiata a Darren Tharp per scordarsi completamente del Ti amerò x sempre. E adesso Winnie era diventata la forza di propulsione del rinnovamento della città, ed era a capo di quasi tutte le associazioni impegnate nel sociale.

Il furgoncino delle pulizie per le tappezzerie di Cubby Bow­mar le passò accanto andando nell’altra direzione. Alle superio­ri, Cubby e i suoi amichetti si divertivano ad andare nel cortile della Sposa del Francese nel cuore della notte, per ululare alla luna e gridare il suo nome.

Sugar... Sugar... Sugar...Di solito suo padre continuava a dormire, mentre Diddie u­

sciva dal letto e andava a sedersi davanti alla finestra di Sugar Beth, a fumare una Tareyton e a guardarli. «Diventerai una don­na insuperabile, Sugar Beth» sussurrava. «Insuperabile.»

Sugar... Sugar... Sugar...La donna insuperabile guidò la sua Volvo scassata fino a

Mockingbird Lane e lanciò un’occhiata alla casa colonica in stile francese che un tempo era l’abitazione del dentista più in vista della città mentre ora apparteneva a Ryan e Winnie. Gli ultimi due giorni non avrebbero potuto essere più squallidi. Sugar Beth aveva pulito la rimessa per renderla abitabile, ma non aveva trovato traccia del quadro di Lincoln Ash, e il giorno dopo avrebbe dovuto affrontare l’ingrato compito di perlustra­re quell’orrendo scalo ferroviario. Perché Tallulah non le aveva lasciato una scorta delle sue patatine preferite invece di una ri­messa malandata e uno scalo ferroviario che avrebbe dovuto essere demolito anni prima?

Arrivò alla fine di Mockingbird Lane, e frenò quando i fanali della Volvo illuminarono qualcosa che quando era uscita non c’era... una catena che penzolava sul vialetto accidentato. Non era stata fuori neanche due ore. Qualcuno si era dato da fare in gran fretta. Scese dalla macchina per investigare. Il cemento a presa rapida aveva fatto il suo dovere, e un paio di calci non

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smossero minimamente nemmeno uno dei due piloni a cui la catena era attaccata. Evidentemente i nuovi proprietari della Sposa del Francese non sapevano che il suo vialetto non faceva parte della loro proprietà.

Il suo umore affondò ancora di più, e lei tentò di convincer­si ad aspettare fino alla mattina successiva per affrontarli, ma Sugar Beth aveva imparato a proprie spese che non bisognava rimandare i problemi, perciò si diresse verso il lungo sentiero che conduceva all’ingresso della casa in cui era cresciuta. Avreb­be riconosciuto le venature dei mattoni sotto i suoi piedi anche a occhi chiusi, il punto in cui il vialetto si infossava, l’angolo in cui si incurvava per evitare le radici della quercia che era stata abbattuta da una tempesta quando aveva sedici anni. Si avvici­nò al porticato anteriore e alle sue splendide quattro colonne. Se avesse fatto scorrere un dito lungo la base di quella più vicina, avrebbe trovato il punto in cui aveva inciso le sue iniziali con la chiave della El Dorado di Diddie.

Dentro la casa brillavano le luci accese. Sugar Beth cercò di convincersi del fatto che il malessere che sentiva nello stomaco dipendesse dal bisogno di fare un pasto decente, ma sapeva che non era così. Prima di arrivare in città, aveva cercato di tirarsi su di morale con un’aderente t­shirt rosa confetto che metteva in mostra alcuni centimetri di pancia, un paio di jeans a siga­retta a vita bassa che fasciavano alla perfezione le sue lunghe gambe affusolate e dei tacchi a spillo neri che la facevano di­ventare quasi un metro e ottanta. Aveva completato l’outfit con una giacca da motociclista di finta pelle nera e degli orecchini di diamanti finti grandi quanto due piselli che aveva comprato per sostituire quelli che aveva portato al banco dei pegni. Tuttavia, in quel momento la sua mise non riusciva assolutamente a risol­levarle il morale, e mentre superava il portico della sua vecchia casa, i tacchi batterono il fosco ritmo del ricordo di quello che aveva perso. Sugar Beth Carey... non abita qui... non più.

Drizzò le spalle, sollevò il mento e suonò il campanello, ma invece del familiare motivetto a sette note, udì uno stridulo din

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don a due. Che diritto avevano di cambiare lo scampanellio del­la Sposa del Francese?

La porta si aprì. Dall’altra parte comparve un uomo. Alto. Im­perioso. Erano passati quindici anni, ma lo riconobbe prima an­cora di sentirlo parlare.

«Ciao, Sugar Beth.»

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«Sconvolgente, eh?» disse quella voce odiosa. «Non ti picchierò se ti comporti bene.»

georgette heyer, Il figlio del diavolo

Deglutì a fatica e gracchiò: «Signor Byrne?»Le sue sottili labbra corrucciate si mossero appena. «In per­

sona.»Sugar Beth tentò di riprendere fiato. Tallulah non le aveva

detto che era stato lui a comprare la Sposa del Francese, ma d’al­tra parte sua zia le aveva riferito solo le informazioni che vo­leva che sapesse. Gli anni svanirono. Ventidue. Aveva quell’età quando lei gli aveva distrutto la carriera, era poco più che un ragazzino.

A quell’epoca era tremendamente bizzarro, con quel suo corpo alla Ichabod Crane ‒ troppo alto, i capelli troppo lunghi, il naso troppo grande, troppo eccentrico per una cittadina del Sud ‒, quel suo aspetto, l’accento, l’atteggiamento. Ovviamente le ragazze ne erano rimaste abbagliate. Indossava sempre abiti neri, la maggior parte dei quali logora, e dei foulard di seta al collo, alcuni a frange, uno con un motivo in cachemire, un al­tro così lungo che gli arrivava fino ai fianchi. Diceva frasi come

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‘atrocemente orribile’ o ‘fare lo sciocchino’ e una volta ‘stiamo facendo gli stolti, eh?’.

La prima settimana di scuola lo avevano visto con un portasi­garette tartarugato. Quando aveva sentito alcuni ragazzi bisbi­gliare che sembrava un finocchio, li aveva guardati al di là del suo lunghissimo naso e aveva detto che lo avrebbe preso come un complimento, dato che molti dei grandi uomini della storia erano omosessuali. «Ahimè,» aveva detto «sono stato condan­nato a una banale eterosessualità. Mi auguro che alcuni di voi siano più fortunati di me.»

E così dicendo li aveva portati fuori per i vecchi discorsetti insegnante­studente.

Ma il vecchio professore che Sugar Beth ricordava era solo un pallido precursore dell’uomo imponente che si trovava davanti a lei in quel momento. Byrne era ancora bizzarro, ma in un mo­do molto più inquietante. Il suo corpo sgraziato era diventato muscoloso e atletico. Anche se era magro, non era più ossuto, e finalmente il suo volto si era riempito, così come il nasone, men­tre le guance che un tempo erano scarne ora avevano un aspetto aristocratico.

Sugar Beth conosceva bene l’odore dei soldi, e lui ce l’aveva appiccicato addosso come succede con quello del fumo. L’ulti­ma volta che lo aveva visto, aveva i capelli lunghi fino alle spal­le. Ora erano un corto e folto groviglio, acconciato con un taglio da divo del cinema. Era difficile dire se la lucentezza dipendes­se da un costoso prodotto di bellezza o dalla buona salute, ma una cosa era certa. Non si era fatto fare quel taglio a Parrish, Mississippi.

Indossava un dolcevita con il logo Armani stampato ovun­que e dei pantaloni di lana neri con sottilissime righe dorate. Ichabod Crane non era solo cresciuto, era anche andato a scuola di portamento e poi aveva comprato quella scuola per farne un franchising internazionale.

Non succedeva spesso che Sugar Beth dovesse guardare gli uomini alzando gli occhi, soprattutto quando indossava dei tac­

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chi da dominatrice, ma in quel momento doveva sollevare lo sguardo. Per guardare quegli sprezzanti occhi verde acqua che ricordava fin troppo bene. Il vecchio rancore riaffiorò violente­mente. «Non mi avevano detto che viveva qui.»

«Ah, no? Buffo.» Non aveva perso l’accento inglese, anche se lei sapeva bene che gli accenti potevano essere manipolati. Il suo, per esempio, poteva sembrare del Nord o del Sud a secon­da delle circostanze. «Accomodati.» Indietreggiò di un passo e la invitò nella sua vecchia casa.

Le venne voglia di mostrargli il dito medio e mandarlo al dia­volo. Ma l’altezzosità era un altro di quei lussi che non poteva più permettersi, insieme agli irrazionali scatti d’ira e alla possibilità di esaurire il plafond delle carte di credito. Lo sprezzo che gli indurì gli angoli delle labbra le disse che capiva perfettamente quanto le bruciasse quell’invito. La consapevolezza che Byrne si aspettava che lei andasse su tutte le furie le diede la forza di drizzare le spalle e di varcare la soglia... della Sposa del Francese.

L’aveva rovinata. Sugar Beth se ne accorse subito. Un’altra bel­lissima casa del Sud violentata da un saccheggiatore straniero.

La forma tondeggiante dell’ingresso e l’ampio ricciolo delle scale erano rimasti uguali, ma aveva oscurato i romantici colori pastello di Diddie dipingendo le pareti di uno scuro marrone caffè, e le vecchie modanature in legno di quercia di un bianco gesso. Un assurdo quadro astratto era stato appeso al posto del dipinto che un tempo occupava la sala, un ritratto a grandezza naturale di Sugar Beth all’età di cinque anni, splendidamente vestita di pizzi bianchi e nastri rosa, rannicchiata ai piedi di sua madre, coperti da un paio di scarpe all’ultima moda. Diddie aveva voluto che l’artista inserisse nel dipinto un barboncino bianco anche se non avevano un barboncino, né nessun altro cane, nonostante le suppliche di Sugar Beth. Sua madre diceva che non voleva per casa un animale che si leccasse le parti inti­me, né che leccasse alcunché.

Lastre di marmo bianco con delle striature grigio talpa ave­vano sostituito i consumati pavimenti in legno massello. Le vec­

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chie cassepanche erano sparite così come lo specchio dorato in stile vittoriano e un paio di sedie in broccato d’oro. Adesso l’am­biente era dominato da un lucidissimo pianoforte nero a mezza coda. Un pianoforte a mezza coda nell’ingresso della Sposa del Francese... forse la nonna di Sugar Beth coi suoi gusti all’avan­guardia ne avrebbe apprezzato la stranezza, ma Diddie si stava senza dubbio rivoltando nella tomba.

«Oh, ma...» L’accento di Sugar Beth aveva preso una sfuma­tura smaccatamente del Sud, come succedeva sempre quando si trovava in una posizione di svantaggio. «Ma guarda... Si vede proprio il suo stile, qui dentro.»

«Scelgo quello che mi piace.» La guardò con l’arroganza di un nobile costretto a parlare con la donna di servizio, ma lei si meritava la sua ostilità, e per quanto le facesse ancora saltare i nervi, era giunto il momento di affrontare la questione. Già da molto tempo.

«Le ho scritto una lettera di scuse» disse Sugar Beth.«Ah, sì?» Non poteva sembrare più disinteressato.«Mi è tornata indietro. Rispedita al mittente.»«Ma non mi dire.»Voleva farla cuocere a fuoco lento nell’ingresso. Sugar Beth

se lo meritava, ma non aveva intenzione di farsi umiliare, così decise di scendere a compromessi fra ciò che doveva a lui e ciò che doveva a sé stessa. «Troppo poco, troppo tardi, lo capisco. Ma che cavolo, il pentimento è sempre pentimento.»

«Non saprei. Io non ho molto di cui pentirmi.»«Allora cerchi di ascoltare una persona che ci è passata. A vol­

te, signor Byrne, un semplice ‘mi dispiace’ è il massimo che una persona riesca a dire.»

«E a volte il massimo non è abbastanza, non ti pare?»Non aveva intenzione di offrirle il suo perdono, e non c’era da

stupirsi. Ma nello stesso tempo le sue scuse non erano state mol­to accorate, e dato che lui ne meritava di simili, la sua moralità le imponeva di fare qualcosa di più. Ma non lì, non ferma nell’atrio come una serva.

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«Le dispiace se do un’occhiata alla casa?» Non attese il suo consenso e gli passò accanto per andare nel soggiorno.

«Assolutamente no.» Le sue parole strascicate erano cariche di sarcasmo.

Le pareti grigio talpa richiamavano gli intarsi dei pavimen­ti, mentre le profonde poltrone di pelle e il divano dalla linea moderna riprendevano il marrone scuro dell’ingresso. Quat­tro fotografie color seppia che ritraevano dei busti di marmo e rano disposte simmetricamente sopra il caminetto, un cami­netto che non era quello che lei ricordava. La vecchia mensola in legno di quercia, con le bruciature rimaste dalla volta in cui Diddie si era scordata di aprire la canna fumaria, era stata rim­piazzata da una massiccia mensola neoclassica con una corni­ce pesante e un frontone scolpito simile a quello di un tempio greco. In un’altra casa, Sugar Beth avrebbe adorato l’audace contrasto fra il classico e il moderno, ma nella Sposa del Fran­cese no.

Si voltò per vedere Byrne incorniciato dallo stipite della por­ta, la sua postura rispecchiava la perfetta arroganza di un uomo abituato ad avere il controllo. Aveva solo quattro anni più di lei, quindi ne aveva trentasette. Quando era stato uno dei suoi professori, quei quattro anni avevano rappresentato un abisso incolmabile, mentre ora non erano niente. Ricordava benissimo quanto lo trovassero romantico le Coralline, ma Sugar Beth si era rifiutata di prendersi una cotta per una persona che resiste­va così testardamente alle sue avance.

Doveva riprovare a chiedergli scusa, e questa volta doveva farlo perbene, ma l’espressione di scherno nel suo sguardo in­sieme alla profanazione della sua vecchia casa le misero i ba­stoni fra le ruote. «Magari le ho fatto un favore. Con la paga da insegnante non si sarebbe mai potuto permettere di comprare tutto questo. Congratulazioni per il libro, a proposito.»

«Hai letto Ultima fermata?»L’arco scettico di quelle sopracciglia eleganti le fece saltare i

nervi. «Dio, ci ho provato. Ma c’erano troppi paroloni.»

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«Giusto. E a te non è mai piaciuto appesantire il tuo cervello con qualcosa di più stimolante di una rivista di moda, vero?»

«Ehi, se non le leggesse nessuno, ci sarebbe una marea di donne con addosso della roba di poliestere quadrettato, e al­lora pensi quanto starebbero peggio tutti.» Sgranò gli occhi. «Ops... adesso mi metterà in punizione per volgarità.»

Il tempo non aveva affatto migliorato il suo senso dell’umo­rismo. «Le punizioni non sono mai servite a niente con te, non è vero, Sugar Beth? Tua madre non le autorizzava.»

«Diddie aveva le sue idee su cosa fosse giusto e cosa sbagliato per me.» Inclinò la testa quel tanto che bastava per scostare i ca­pelli dagli orecchini di finti diamanti. «Sa che mi impedì di par­tecipare a Miss Mississippi? Disse che era sicura che avrei vinto, e non avrebbe mai permesso che sua figlia andasse in giro nella pacchiana Atlantic City. Avemmo una tremenda discussione, ma sa com’era lei quando prendeva una decisione.»

«Oh, sì, me lo ricordo.»Certo che se lo ricordava. Era stata Diddie a farlo licenziare.

Era arrivato il momento di prendere il toro per le corna e di fare un altro tentativo con quelle scuse ritardatarie.

«Mi dispiace. Davvero. Quello che ho fatto è imperdonabile.» Incrociare il suo sguardo fu molto più difficile di quanto Sugar Beth avrebbe voluto, ma questa volta non vacillò. «Dissi a Did­die che avevo detto una bugia, ma ormai il danno era fatto, e lei aveva già lasciato la città.»

«Strano. Non ricordo che mammina abbia cercato di contat­tarmi. È strano che una donna così intelligente non abbia mai trovato il modo di farmi un colpo di telefono per dirmi che era acqua passata e che ‒ come disse quel giorno? ‒ io non avevo sfruttato la mia autorità per cercare di compromettere la castità di sua figlia.»

Dal modo in cui sottolineò le ultime parole, Sugar Beth capì che sapeva benissimo quello che facevano lei e Ryan Galantine sul sedile posteriore della sua Camaro rossa. «No, non l’ha fatto. E io non ho mai avuto il fegato di dire la verità a mio padre.»

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Griffin lo aveva scoperto quando aveva scartabellato fra le scartoffie di sua madre alcuni mesi dopo la sua morte, e aveva trovato la lettera di confessione di Sugar Beth. «Però deve rico­noscere che papà si è comportato bene nei suoi confronti. Ha praticamente messo un annuncio sul giornale per far sapere a tutti che avevo mentito.»

«Era già passato più di un anno, no? Un po’ tardi. Ero già stato rispedito in Inghilterra.»

Sugar Beth iniziò a dire che alla fine era riuscito a tornare negli Stati Uniti ‒ sulla bandella del suo libro c’era scritto che adesso era un cittadino americano ‒, ma sembrava solo che stesse ten­tando di difendersi. Lui si allontanò dalla porta e vagò verso una parete in cui era alloggiato un angolo bar. Un bar nel soggiorno di Diddie Carey...

«Qualcosa da bere?» Non era la proposta di un buon padro­ne di casa quanto piuttosto una mossa astuta in quella specie di lotta fra gatto e topo.

«Non bevo più.»«Ti sei dovuta disintossicare?»«Oh, no. Non bevo e basta.» Stava andando alla grande... Co­

me no. Si stava uccidendo con le proprie mani. Byrne si versò due dita di quello che aveva tutta l’aria di esse­

re un costosissimo scotch single malt. Sugar Beth si era dimen­ticata di quanto fossero grandi le sue mani. All’epoca diceva a chiunque la stesse a sentire che lui era il più grosso effeminato della città, ma anche allora quelle mani da macellaio le faceva­no fare la parte della bugiarda. Non sembravano appartenere infatti a una persona che recitava i sonetti a memoria e che ogni tanto si tirava indietro i capelli con un nastro di velluto nero.

Una sera un gruppetto di ragazzi era uscito tardi da scuola e lo aveva visto in cortile con una palla da calcio. Il calcio non era proprio di moda a Parrish, e nessuno di loro aveva mai visto niente del genere. Si stava facendo rimbalzare la palla da un gi­nocchio all’altro, poi su un polpaccio, una coscia, e l’aveva tenuta in aria finché i ragazzi avevano perso il conto. Dopodiché aveva

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iniziato a correre calciandola per il prato, tenendosela fra i piedi. Dopo quella scena, l’opinione che i ragazzi avevano su di lui era cambiata, e poco tempo dopo lo avevano invitato a unirsi a loro per giocare a basket.

«Tre mariti, Sugar Beth?» Strinse quelle dita da operaio at­torno a un bicchiere di cristallo. «Mi sembra un po’ eccessivo persino per te.»

«Una cosa di Parrish non cambierà mai. I pettegolezzi sono ancora il passatempo preferito della città.» Quando si infilò le mani nelle tasche della giacca di pelle nera e la tirò all’indietro, un soffio d’aria fresca le sfiorò la pancia. Sulla sua t­shirt rosa confetto, all’altezza del seno, c’era scritto bestia con le paillettes. Era un tantino appariscente, ma l’aveva presa in saldo a 5,99 $, e poi lei riusciva a far sembrare all’ultima moda praticamente qualsiasi cosa. «Mi farebbe molto piacere se levasse quella cate­na dal mio vialetto.»

«Ah, sì?» Affondò su una delle poltrone di pelle senza invi­tarla a fare altrettanto. «Hai un curriculum pessimo in fatto di mariti.»

«Lei crede?»«Le notizie si spargono in fretta» disse strascicando le parole.

«Mi pare di aver sentito dire che hai conosciuto il marito nume­ro uno al college.»

«Darren Tharp, il classico giocatore di baseball americano. Ha giocato nei Braves per un po’.» Fece un perfetto urlo indiano1.

«Complimenti.» Bevve un sorso del suo drink – il bicchiere era stato praticamente inghiottito dal suo palmo – e la osservò oltre l’orlo di vetro. «Ho anche sentito dire che ti ha lasciata per un’altra. Che peccato.»

«Si chiamava Samantha. A differenza di me, era una laurea­ta, ma non è stato quello ad attrarre Darren. A quanto pare, era particolarmente portata per la fellatio.»

Il bicchiere si fermò a metà strada prima di arrivare alle labbra

1 La mascotte degli Atlanta Braves era un nativo americano urlante.

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di Byrne. Gli rivolse il miglior sorriso da donna del Sud che le riuscisse, il tipo di sorriso che si allargava senza nessuna sinceri­tà. Con qualche ritocco ‒ e se Diddie non avesse posto il veto su Atlantic City ‒ quel sorriso le avrebbe fatto guadagnare molto più di una corona al ballo della scuola. «Mi sa che l’intelligenza non porta una ragazza poi così lontano.»

Byrne non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sviare. «A quanto ne so, ti sei trasferita a Hollywood con i soldi che hai preso con il divorzio.»

«Me li ero guadagnati, fino all’ultimo centesimo.»«Però non sei stata proprio inondata di proposte cinemato­

grafiche.»«È davvero gentilissimo da parte sua dimostrarmi tutto que­

sto interesse.»«Sono sicuro di aver capito male... il tuo secondo marito era

una specie di Hell’s Angel?»«Sarebbe stato molto eccitante, ma temo che Cy fosse solo un

semplice stuntman. Era pieno di talento... finché non è morto tentando di saltare dal molo di Santa Monica al ponte di uno yacht di lusso con la moto. Era per un film sul narcotraffico, per­ciò mi sono convinta che sia morto per una buona causa... non che non mi facessi qualche spinello anch’io, all’epoca.»

«Alle superiori te ne facevi più di qualcuno, se non ricordo male.»

«C’è un errore, Vostro onore. Credo che fossero solo sigarette che facevano un odore strano.»

Lui non sorrise, ma d’altra parte Sugar Beth non se lo sareb­be mai aspettato dal suo volto di granito.

Aveva lasciato Cy qualche mese prima di quell’incidente mor­tale. Aveva un talento particolare nello sposare dei traditori sfigati. Emmett era stato un’eccezione, ma d’altra parte il gior­no del loro matrimonio aveva già settant’anni, e l’età porta sag­gezza.

«Dopo quell’episodio, la gente ha perso le tue tracce per un po’» disse lui.

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«Ho lavorato nel settore della ristorazione. In un ambiente molto esclusivo.»

Aveva iniziato come cameriera in un ristorante decoroso di Los Angeles, ma poi era stata licenziata per aver mandato al dia­volo un cliente. Dopo aveva lavorato in un pub. Quando aveva perso anche quel lavoro, aveva iniziato a servire le lasagne in un ristorante italiano a buon mercato, poi era finita in un fast food ancor più a buon mercato. Aveva toccato il fondo quando un giorno si era ritrovata a guardare un annuncio per un lavoro da escort. Era stato quello, più che qualsiasi altra cosa, che le aveva fatto capire che era ormai arrivato il momento di crescere e di prendere in mano la sua vita.

«Poi hai accalappiato Emmett Hooper.»«In questo caso non sono serviti i pettegolezzi di Parrish per

scoprirlo.» Il suo sorriso nascose ogni traccia di dolore. «I giornali sono stati piuttosto eloquenti. E divertenti. Una

cameriera di ventotto anni che diventa la mogliettina di un pe­troliere texano settantenne, schifosamente ricco e ormai in pen­sione.»

Un petroliere i cui investimenti erano andati all’aria molto prima che si ammalasse. Emmett era stato il suo più caro ami­co, il suo amante, la persona che la aveva finalmente aiutata a crescere.

Byrne sollevò il bicchiere verso di lei con l’aspetto di un mo­dello di Gucci annoiato, ma tremendamente mascolino. «Le mie condoglianze.»

Il groppo in gola minacciò di non farle trovare una rispostina saccente, ma alla fine riuscì a cavarsela. «Apprezzo molto la sua compassione, ma quando sposi una persona così vecchia, sai be­nissimo cosa devi aspettarti.»

Sugar Beth accolse il disprezzo di quegli occhi verde acqua. Il disprezzo superava la compassione ogni maledetto giorno. Lo osservò accavallare le gambe in un movimento che racchiudeva un’inquietante combinazione di grazia felina e forza virile. «La chiamavamo il Duca» disse lei. «Lo sapeva?»

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«Certo.»«Pensavamo tutti che fosse un finocchio.»«Ah, sì?»«E arrogante.»«Lo ero. Lo sono ancora se è per questo. E ne vado fiero.»Sugar Beth si chiese se fosse sposato. Se non lo era, tutte le

donne single di Parrish dovevano fare la fila alla sua porta con torte al cocco e stufati. Si spostò verso il caminetto tentando di apparire risoluta. «Suppongo che si sia divertito come un matto a chiudermi il vialetto, ma il gioco è bello finché dura poco.»

«In realtà mi sto ancora divertendo.»Aveva l’aria di uno che non sapeva divertirsi in alcun modo,

se non forse a conquistare l’India. Mentre guardava i suoi per­fetti abiti su misura, Sugar Beth si domandò chi potesse aver montato i piloni di cemento con così poco preavviso. «Non pen­sa che sarebbe imbarazzante se chiamassi la polizia?»

«Niente affatto. È la mia proprietà.»«E io che credevo che a Parrish fosse un’autorità. Mio padre

ha lasciato la rimessa a mia zia nel 1950.»«La casa, sì. Ma non il vialetto. Quello fa ancora parte della

Sposa del Francese.»Lei si raddrizzò. «Non è vero.»«Il mio avvocato è incredibilmente bravo, e fa molta attenzio­

ne ai confini di proprietà.» Si alzò dalla poltrona. «Se vuoi, puoi dare tranquillamente un’occhiata alla perizia. Te ne manderò una copia.»

Era possibile che suo padre fosse stato così stupido? Certo che era possibile. Griffin Carey era stato assurdamente scrupo­loso per tutto ciò che riguardava la sua azienda di finestre, ma la sua mancanza di attenzione nei confronti della casa e della famiglia era proverbiale. Quale uomo avrebbe mai fatto convi­vere la moglie e l’amante nella stessa cittadina?

«Cosa vuole, signor Byrne? Ovviamente non le interessano le mie scuse, quindi sputi il rospo.»

«Be’, vendetta, ovviamente. Cosa pensavi che volessi?»

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Quelle parole dette a bassa voce le provocarono un brivi­do lungo la schiena. Resistette alla tentazione del bicchiere di scotch che lui aveva appena appoggiato, ma non beveva da quasi cinque anni e non avrebbe ricominciato quella sera. «Oh, be’, questo sarà davvero molto divertente. Dove pensa che do­vrei parcheggiare esattamente?»

«Non potrebbe importarmene di meno. Magari una delle tue vecchie amiche potrebbe darti una mano.»

Quello era il momento perfetto per lasciarsi andare a uno scat­to d’ira, ma non ne era più capace. Così andò verso di lui rapida­mente, ondeggiando lievemente i fianchi anche se le sembrava che le sue ossa avessero cent’anni. «Vede, è qui che si sbaglia. Ho già perso tre mariti e due genitori, quindi se vuole vendicarsi, dovrà pensare a qualcosa di più di un misero vialetto.»

«Vuoi davvero giocare la carta della pietà?»Sembrava proprio così, e le venne voglia di mordersi la lin­

gua. Invece si tirò su il colletto della giacca e si diresse alla porta. «Vada a farsi fottere, signor Byrne, lei e la sua pietà.»

Non aveva fatto neanche tre passi quando colse l’odore di un profumo costoso. Quando la afferrò per un braccio e la fece gi­rare su sé stessa, il cuore iniziò a martellarle contro le costole.

«Che ne dici di questo, allora?»La gelida espressione sul suo volto le ricordò quella che a­

veva avuto Darren Tharp prima che si mettesse a dargliele di santa ragione, ma Colin Byrne aveva in mente un altro tipo di violenza. Prima che potesse fare qualcosa, la sua testa scura piombò su di lei e le coprì la bocca con un bacio brutale, puni­tivo.

Baci... tantissimi baci. I bacetti affettuosi che le dava sua ma­dre sulle guance. Quelli aridi di zia Tallulah. I baci adolescen­ziali e umidi di sesso con Ryan. Darren era stato un uomo di facciata e un pessimo baciatore. Poi c’erano stati i goffi baci u­briachi di Cy e i suoi fradici di gin. Dopodiché erano arrivati quelli di una sfilza di uomini che ricordava a malapena, a parte il fatto che tutti avevano avuto il sapore della disperazione. La

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salvezza era arrivata con i baci di Emmett, pieni di gentilezza, bisogno, paura e, alla fine, rassegnazione.

L’ultimo bacio che aveva ricevuto era stato quello della figlia di Emmett, Delilah, che le aveva gettato le braccia al collo e le aveva lasciato un’impronta umida sulla guancia. Ti voglio più bene che a chiunque altro al mondo, Sugar Beth.

Tutti quei baci, e non gliene veniva in mente neanche uno che si avvicinasse a questo. Freddo. Calcolato. Programmato per umiliare.

Byrne si prese il suo tempo per fare giustizia. La costrinse a muovere la mandibola, senza farle male, ma facendole aprire la bocca per poterla attaccare con la sua lingua. Lei non reagì, non si oppose.

A lui non importò.Non si stupì quando sentì la sua mano sul seno. Se lo aspet­

tava.Un’altra esplorazione clinica, come se nella pelle di Sugar Beth

non vivesse una vera persona, solo carne e ossa senz’anima.Le tenne un seno in una delle sue enormi mani e glielo sfregò

col pollice. Quando le accarezzò il capezzolo, Sugar Beth fu at­traversata da una fitta di voglia. Non di desiderio... era troppo svuotata per quello, e questa era una questione di vendetta, non di sesso. Provò invece una profonda voglia di gentilezza, desi­derio ironico per una persona che era abituata a mostrarne così poca nei confronti degli altri.

Aveva imparato un sacco di cose sulle risse da strada nel pe­riodo in cui era stata sposata con uno stuntman, e pensò di mor­derlo o di sollevare un ginocchio, ma non sarebbe stato giusto. Lui meritava di prendersi la sua vendetta.

Alla fine si allontanò, e l’odore dello scotch che lui aveva be­vuto le scese delicatamente sulla guancia. «Dicesti che ti avevo infilato la lingua in bocca e ti avevo toccato il seno.» I suoi occhi verde acqua la perforarono. «Non è questo che raccontasti a tua madre, Sugar Beth? Non è così che mi hai fatto fuori, costrin­gendomi a fare le valigie?»

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«Esattamente così» rispose lei con calma.Le passò il pollice sul labbro superiore. Da parte di un altro

uomo, quel gesto sarebbe stato una dimostrazione di tenerezza, invece quello era il marchio di un conquistatore. Gli doveva del rimorso, ma l’unica cosa che le era rimasta era un minimo di dignità, e sarebbe morta piuttosto che versare una sola lacrima davanti a lui.

Abbassò il braccio. «Adesso non è più una bugia.»Sugar Beth scavò nella sua riserva di coraggio ormai quasi

prosciugata, e riuscì a racimolarne abbastanza da sollevare una mano e sfiorargli una guancia. «È stato terribile vivere da bugiar­da per tutto questo tempo. Grazie, signor Byrne. Mi ha pulito la coscienza.»

Colin sentì il suo palmo freddo sulla pelle e si rese conto che Sugar Beth aveva avuto l’ultima parola. Ne rimase sconvolto. Quella doveva essere la sua vittoria. Lo sapevano entrambi. Ep­pure lei stava cercando di fregargliela.

Fissò la bocca che aveva appena schiacciato. Non era stato co­me se lo aspettava... non che si aspettasse granché, dato che non aveva pianificato quell’attacco. Eppure si era inconsciamente preparato a sentire la scaltrezza, la frivolezza, il mostruoso ego che la avevano sempre caratterizzata. Chi è la più bella del reame? Io! Io! Io! E invece aveva trovato qualcos’altro... qualcosa di cru­do, determinato, insolente. Perlomeno, l’insolenza era una cosa familiare.

Sugar Beth lasciò cadere la mano e puntò l’indice verso di lui, una pistola che mirava direttamente alla sua autostima. Appe­na prima di premere il grilletto, gli rivolse uno scaltro sorriso da cortigiana. «Ci si vede, signor Byrne.»

Bang. E poi se ne andò.Lui rimase fermo dov’era. L’odore di lei ‒ vivacità, sesso, te­

stardaggine ‒ continuò ad aleggiare nell’aria anche dopo che la porta dell’ingresso fu chiusa. Quel bacio orrendo avrebbe do­vuto mettere la parola fine su tutta quella storia. E invece aveva riacceso tutto.

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A diciotto anni, era la creatura più bella che Parrish avesse mai vi-sto. Osservarla passeggiare lungo il vialetto che conduceva alla scuola superiore era come guardare una sensualissima opera d’arte in movi-mento: quelle gambe infinite, l’oscillazione dei fianchi, il ballonzolare dei seni, il luccichio dei suoi lunghi capelli biondi.

I ragazzi incespicavano l’uno nell’altro per fissarla, e la musica che usciva dai loro stereo portatili faceva da colonna sonora alla sua vi-ta. Billy Ocean la implorava di uscire dai suoi sogni e di entrare nella sua macchina. Bon Jovi le dava un’occhiata e poi viveva di speranza. I Cutting Crew volevano solo morire fra le sue braccia. I Guns n’ Roses, i Poison, i Whitesnake ‒ tutti i più grandi gruppi hair metal ‒ lei li lasciava tutti in ginocchio, a implorare per una briciola del suo affetto.

Sugar Beth era ancora bellissima. Quegli occhi azzurri assas­sini e quei lineamenti perfettamente simmetrici la avrebbero accompagnata fino alla tomba, e quella nuvola di capelli biondi avrebbe dovuto aprirsi a ventaglio su un cuscino di raso im­mortalato su una doppia pagina di Playboy. Però la sua freschez­za da rugiada mattutina era scomparsa. Sembrava più vecchia dei suoi trentatré anni e molto più dura. Era anche più magra. Colin aveva notato i tendini sul suo lunghissimo collo, i polsi fragili. Tuttavia, la sua pericolosa sessualità non era cambiata. A diciotto anni, quella sessualità era nuova e indiscriminata. Ora era affinata e molto più letale. Il bocciolo poteva anche essersi staccato dalla rosa, ma le spine erano diventate velenose.

Recuperò il suo drink e si rimise in poltrona, più depresso di quanto avrebbe voluto essere. Mentre si guardava intorno per la casa lussuosa che i soldi gli avevano permesso di comprare, a Colin tornarono in mente i ghigni che gli aveva rivolto suo padre, un muratore irlandese, quando era dovuto tornare in In­ghilterra dopo essere stato licenziato.

«Sei tornato a casa con la coda fra le gambe, eh? Ecco cosa ne è stato delle fantasie tue e di tua madre, ragazzo. Adesso ti metterai a lavorare onestamente come tutti noi.»

Anche solo per quello, Colin non avrebbe mai perdonato Su­gar Beth.

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Sollevò il bicchiere, ma neppure il gusto di uno scotch invec­chiato di dieci anni riusciva a cancellare la determinazione che aveva visto negli occhi di Sugar Beth. Nonostante il suo attacco camuffato da bacio, era convinta di essere ancora in vantaggio. Appoggiò il bicchiere e meditò su come farle cambiare idea.