teramani n. 92

32
mensile di informazione in distribuzione gratuita Ottobre 2013 n. 92 NEW LONDON SCHOOL EXPLOSION HABITAT ZEROUNO IL CASTELLO DELLA MONICA pag. 6 pag. 10 pag. 20 CI SONO BANDIERE E BANDIERE

Upload: giancarlo-puritani

Post on 26-Mar-2016

230 views

Category:

Documents


3 download

DESCRIPTION

Ottobre 2013

TRANSCRIPT

Page 1: Teramani n. 92

mensile di informazione in distribuzione gratuita

Ottobre 2013

n. 92

NEW LONDONSCHOOL EXPLOSION

HABITATZEROUNO

IL CASTELLODELLA MONICA

pag. 6

pag. 10

pag. 20

CI SONOBANDIERE E BANDIERE

Page 2: Teramani n. 92
Page 3: Teramani n. 92

SOMM

ARIO 3 Ci sono bandiere e bandiere

4 Teramo Culturale 6 New London school explosion 8 Non sai Nulla? Mettiti in politica 9 Agorà 10 Un Habitat per l’arte teramana: Capitolo zerouno 12 Il libro del mese 13 Il Carrozzone va avanti 14 Il Premio Nobel per la Letteratura 16 Il Corecom apre a Teramo 17 Arco Consumatori Informa 18 Jacopo Di Giampietro 19 L’oggetto del desiderio 20 Il Castello della Monica 22 In giro 24 Musica: il Folkstudio 25 Musica: David Bowie 26 Cinema 28 Calcio 28 Arte 30 Pallamano

Direttore Responsabile: Biagio TrimarelliRedattore Capo: Maurizio Di Biagio

Hanno collaborato: Mimmo Attanasii, Maurizio Carbone, Maria Gabriella Del Papa, Maurizio Di BiagioMassimo Di Giacomantonio, Floriana Ferrari, Carmine Goderecci, Maria Cristina Marroni, Fabrizio Medori, Silvio Paolini Merlo, Antonio Parnanzone, Leonardo Persia, Sergio Scacchia.

Gli articoli firmati sono da intendersi come libera espressionedi chi scrive e non impegnano in alcun modo né la Redazionené l’Editore. Non è consentita la riproduzione, anche soloparziale, sia degli articoli che delle foto.

Progetto grafico ed impaginazione: Antonio Campanella

Periodico Edito da “Teramani”, di Marisa Di MarcoVia Paladini, 41 - 64100 - Teramo - Tel 0861.250930per l’Associazione Culturale Project S. Gabriele

Organo Ufficiale di informazionedell’Associazione Culturale Project S. GabrieleVia Paladini, 41 - 64100 - Teramo - Tel 0861.250930

Registro stampa Tribunale di Teramo n. 1/04 del 8.1.2004Stampa: Gruppo Stampa Adriatico

Per la pubblicità: Tel. 0861 250930347.4338004 - 333.8298738

Teramani è distribuito in proprio

[email protected] a

www.teramani.infoè possibile scaricare il pdf di questo e degli altri numeri dal sito web

n. 92

Meno dieci, meno otto… meno tre,

meno due, meno uno… lift off. Un

nuovo traguardo s’avvicina. Manco

a dirlo è il jingle del Comune di Teramo

sequenziale e stampato giornalmente

su un sei per tre e spalmato per tutta

la città con la pretesa di un casereccio

stupor mundi. Dal sapore vagamente

mao-stalinista, da regime comunque,

instilla nell’inconscio collettivo la vigoria

e il trionfo che solo le opere pubbliche in

questo caso sanno inculcare nelle menti

dell’elettorato allettato ed avido sempre

del ghe pens mi o delle maestrie della

cazzuola sui mattoni.

In questa rivoluzione epocale da altro

mondo e da altri sogni e da un altro esodo,

c’è chi si ostina ancora a sbandierare

risultati infrastrutturali, alla stessa stregua

dei raccolti e piani quinquennali di Radio

Mosca o Radio Tirana. Un risultato tra

l’altro nemmeno sudato con il perlage

pecoreccio della propria fronte ma con

quello più spazioso dell’Anas: è come

se io mettessi la firma su un articolo del

compianto Bocca e me ne compiacessi.

Goffo. triste, piuttosto.

Soprattutto quando a dieci metri dal

gioioso sei per sei da guerra fa capolino

una misera bandieretta, una specie

di stendardo rosso, sostenuta da sue

asticelle, di cui una rotta da mesi, che

segnala la presenza in Viale Bovio della

Pinacoteca Civica. Un contrattempo

da poco si dirà, ma comunque molto

emblematico dei tempi che corriamo,

suscettibili di annunci e di uomini

tronfi. Leggo dall’enciclopedia virtuale

Wikipedia: pinacoteca, dal greco

πίναξ (pinax, “quadro”) e θήκη (théke,

“scrigno”, “ripostiglio”), è il luogo in cui

sono conservate, tutelate ed offerte alla

pubblica fruizione opere d’arte dipinte.

Ripostiglio dei quadri insomma, della

nostra memoria storica, del nostro essere

stati italiani e teramani.

Un luogo che ha poco a che fare con

un ripostiglio delle auto, con parcheggi

multipiano o con opere attese da

trent’anni e sventolate come successi

individuali.

Ci sono bandiere e bandiere, quindi, ma la

cura maniacale che si presta ad una lingua

di strada svela prepotentemente l’aridità e

la sublime pochezza del nostro essere. n

3L’Editoriale

Ci sono bandieree bandiere

diMaurizio Di Biagio

Page 4: Teramani n. 92

Teramo culturale4diSilvioPaolini Merlo [email protected]

n.92

VenanzoCrocettie il valore aggiunto della committenza

Quella del centenario della nascita di Venanzo Crocetti appar-

tiene al genere di ricorrenze che meno rischiano di venire

onorate sottotono. Nell’orizzonte dei maggiori protagonisti

della Teramo culturale, passata e presente, non esiste forse

fi gura il cui valore possa dirsi altrettanto universalmente conclamato

entro e fuori dei confi ni nazionali. Ad attestarlo un’importante espo-

sizione al Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma, dal titolo Ve-

nanzo Crocetti e il sentimento dell’antico - L’eleganza nel Novecento,

che lo colloca, precisamente nel costante dialogo con l’arte antica

e il lessico fi gurativo della classicità, tra gli autori centrali dell’arte

scultorea del Novecento. Ben al di là della conversazione tenuta al

Kursaal di Giulianova con Francesco Tentarelli, soprintendente ai

beni librari e biblioteche d’Abruzzo, e il giovane storico dell’arte Sirio

Pomante, direttore tecnico del Polo museale civico, la collocazione di

Crocetti tra i maggiori scultori del Novecento italiano appare un fatto

assodato per pressoché tutta la critica italiana, al pari di nomi affer-

mati come il bergamasco Giacomo Manzù, il pistoiese Marino Marini,

il trevigiano Arturo Martini, ai quali Crocetti è stato di frequente

accostato e coi quali dimostra numerose affi nità. Rispetto al primo,

Crocetti assimila l’uso della tecnica del bassorilievo su bronzo oltre

che una certa sensibilità per la fi gura umana. Dal secondo, l’attenzio-

ne al mondo degli animali. Dal terzo, il recupero della tecnica fi ttile

per un ritorno alquanto marcato alle suggestioni arcaiciste della

scultura etrusca. Da tutti e tre, una istintiva predilezione per le linee

dolci, per la sodezza delle masse corporee, che tende all’elevazione

dello sguardo e ad un rapporto indissolubile, diciamo pure metafi -

sico, tra simbolismo fi gurativo e cruda matericità degli oggetti. Non

che in Crocetti non si evidenzino distintamente, e fi n dal principio,

dei tratti caratteristici suoi propri, quelli di un’idea e di uno stile

consapevoli e maturi. Anche su questo punto si è praticamente tutti

concordi: benché il suo mondo espressivo non rappresenti un inizio,

la sua tecnica non abbia introdotto una nuova dimensione espressi-

va, la sua non sia stata l’opera di un capofi la, uno “stile crocettiano”

esiste e si distingue.

Incuriosisce non poco, allora, leggere nelle note di presentazione

della mostra romana, come già per l’esposizione delle sue aggrazia-

te ballerine al piano nobile di Palazzo Zenobio a Venezia nel 2011,

l’antico adagio di un colpevole difetto di attenzione da parte di critica

e pubblico, persino il pericolo concreto di una condanna all’oblìo. Già

vincitore della Biennale di Venezia, titolare nella stessa città della

cattedra di scultura all’Accademia di Belle Arti, presente con una

sala personale permanente al Museo Ermitage di San Pietroburgo e

scultore prescelto per realizzare la porta d’ingresso della Cattedrale

di San Pietro in Vaticano, la fortuna di Crocetti è in realtà quasi senza

pari nel panorama artistico abruzzese. Salutato tra i massimi scultori

europei del Novecento, tra

i maggiori italiani di ogni

tempo, esposto e riesposto in

quattro continenti, ha iniziato

giovanissimo a riscuotere i

primi successi a livello nazio-

nale. Il ruolo di erede, reale o

virtuale che sia, dell’opera del

concittadino Raffaello Pagliac-

cetti, il maggiore predecesso-

re nella Giulianova dell’Ot-

tocento, diviene a paragone

poco più di un dettaglio. Ma

vediamo di non girare intorno

alla questione: chi oggi voles-

se occuparsi di ciò che lega

Venanzo Crocetti a Teramo

senza parlare dell’onorevole

Antonio Tancredi, segretario

dominus di partito nelle liste Dc fi n dal 1965 e in seguito parlamen-

tare incaricato in diverse commissioni, partirebbe non solo col piede

sbagliato ma compirebbe una vistosa mistifi cazione storica. Se la

carriera inizia presto ad arridere al giovane scultore giuliese, dopo gli

anni Sessanta diviene praticamente inarrestabile. Il punto non è certo

il valore di Crocetti, del quale nessuno dubita né ha mai osato dubita-

re. Ma è altrettanto indubitabile - malgrado l’apprezzamento sincero

di critici anche di area comunista come Antonello Trombadori - che la

natura culturale delle committenze di Crocetti, la si chiami deliberata

o frutto di un reclutamento implicito, sia sempre stata marcatamente

politica. Questa, e non altra, a me pare essere la ragione profonda

della distrazione critica e galleristica, della parziale omissione o

riluttanza storica che da qualche tempo con una certa costernazione

Il Giovane Cavaliere della PaceYokoama Museum of Art

Affi nità tematico-stilistichefra Manzù (a sinistra ) e Crocetti

Page 5: Teramani n. 92

5

- forse un poco strumentalmente - si viene

osservando. Indubitabile è al contempo che

il suo legame col capoluogo teramano sia

stato più forte e signifi cativo che non con

quello giuliese, notoriamente di area politi-

camente alternativa, e che questo legame

abbia sottinteso strategie culturali molto

marcate. La mostra celebrativa promossa a

Roma dalla Fondazione Crocetti, nata quale

costola della Banca di Teramo, a sua volta

braccio operativo del feudo tancrediano,

non è che l’ultimo capitolo di un’antica saga

di famiglia, quella che Crocetti - orfano di

entrambe i genitori e rimasto celibe - non

ha purtroppo mai avuto, e che ha reso di

fatto l’intera faccenda, non solo l’opera di

promozione ante e post mortem ma l’opera

crocettiana in sé, un affare semiprivato,

un’operazione di colonizzazione e di preser-

vazione autocratica.

Si potrà certo discutere a lungo se l’impo-

nente bronzo del San Michele Arcangelo ad

Aprilia, uno degli esiti massimi dell’opera

crocettiana, sia o meno da ridurre intera-

mente a un esempio di arte fascista, com’è

in qualche misura avvenuto per il collega

Martini, eletto tra le due guerre scultore uf-

fi ciale del regime. E sarà per questo oppor-

tuno, come si è detto in merito, storicizzare,

motivare, comprendere l’opera in ragione

delle contingenze storiche. Ma quelle narra-

zioni scolpite sui lati della base, iconografi e

che assai più del Rinascimento di Piero della

Francesca richiamano la mistica di tutt’altra

temperie mecenatesca, non possono facil-

mente venire districate dal progetto fascista

di bonifi ca integrale delle paludi pontine, la

più poderosa impresa architettonica di Mus-

solini, e da quel grande orto da realizzare

alla periferia romana attraverso la nascita

di quattro nuovi comuni in provincia di Lit-

toria. Porre in una delle “città nuove” della

bonifi ca un’opera simile, tanto virilmente

educatrice quanto dolcemente ammonitrice,

alludeva, nonostante quanto si sia contro-

argomentato, all’esigenza di un assoggetta-

mento obbediente dell’artista a un preciso

pedagogismo nazional-imperialista, per

scopi apologetici e consolatori. E così le vit-

torie nei concorsi all’Accademia di San Luca,

Crocetti appena maggiorenne, alla Galleria

Nazionale di Firenze, l’invito alla Biennale

di Venezia nel 1934 e alla Quadriennale di

Roma, con cospicui premi in denaro, che gli

apriranno la strada verso le affermazioni a

Bruxelles, Parigi, Berna e Zurigo. E non c’è

chi non veda, a voler vedere, quanto stretto

sia il legame tra le committenze ricevute

a Roma da Concezio Petrucci, aderente al

Raggruppamento Architetti Moderni Italiani,

fi liazione sindacale degli architetti fascisti, e

quelle, tutte estremamente impegnative per

non dire imponenti, ricevute nel dopoguerra

a Teramo da Gambacorta e Tancredi.

Chiedersi, sia pure in base alle commit-

tenze, se Michelangelo, Caravaggio o il

Perugino siano stati artisti “di destra” o “di

sinistra” è, semplicemente, privo di senso.

Non chiederselo dell’arte moderna, specie

dopo le ultime follie belliche mondiali e il

fallimento delle utopie liberaliste, lo è altret-

tanto. Non solo tecniche come il formale

e l’informale hanno preso a polarizzarsi

violentemente, ma temi come l’ingiustizia e

la povertà sono diventati per vocazione di

sinistra, così come quelli dell’ordine, della

rettitudine, della misura, sono stati attribuiti

alla destra. Il pessimismo, l’arcaicismo,

l’ambientalismo, i diritti della donna, hanno

assunto il segno di un progressismo anar-

chico, così come l’ottimismo, il naturalismo,

n.92

la fi ducia nella ragione e nelle scienze,

sono divenuti un’ipoteca reazionaria della

classe dominante. Follia doppia, avallata dal

sistema dei blocchi contrapposti, mantenuta

in vita, durante e dopo, da fondazioni di

stampo politico-fi nanziario che di autentica-

mente culturale non hanno avuto pressoché

nulla. Si vede dunque piuttosto bene, credo,

cosa sia ciò che anche in un artista della

statura di Crocetti non ha fi nora saputo

garantire un elemento identitario forte alla

Teramo culturale. Precisamente questo suo

essere stato, più o meno consapevolmente,

un emissario spirituale per conto terzi, un

eroe cherubino, una sorta di ambasciatore

morale di una parte politica determinata,

quella conservatrice italiana, clericofascista

prima e democristiana infi ne, per la quale

ha saputo fungere da punta di diamante,

da cavaliere purifi catore, quasi templare

antisecolarizzante della “vera” fede e della

“vera” cultura.

Colpa gravissima per la critica d’arte italia-

na, in massima parte di matrice hegelomar-

xista, e indubbiamente tallone d’Achille per

ogni futura lettura obiettiva e serena che di

lui e del suo lavoro si vorrà tentare.

Non che questo genere di letture non siano

possibili, oltre che auspicabili. Ma una

volta compiute sorgerà spontaneo, temo,

chiedersi che cosa resti di propriamente

“teramano” nell’opera di Crocetti. n

Lo Studio di Crocetti(Fondazione Crocetti - Roma)

Opere di Crocetti a Palazzo ZenobioVenezia (2011)

Page 6: Teramani n. 92

L’esplosione della New London School è avvenuta il 18 marzo

1937, quando una fuga di gas naturale ha distrutto un edificio

scolastico, nella Contea di Rusk. Il terzo disastro più letale

nella storia del Texas, dopo l’ uragano di Galveston del 1900 e

Texas City Disaster del 1947.

Il gas naturale non trattato è inodore e incolore, così le perdite

sono difficili da individuare e può passare inosservato. Anche se c’è

da dire che gli studenti, a quei tempi, effettivamente spesso rac-

contavano di improvvisi mal di testa; ma fu data poca importanza ai

capricci improvvisati di quegli inquieti ragazzini.

Il 18 marzo cadde di giovedì. Il giorno dopo sarebbe stata vacanza,

per consentire agli studenti di partecipare alla Henderson ‘s Inter-

scholastic Meet, una competizione sportiva molto ambita all’epoca.

A un certo momento, Lemmie R. Butler, un istruttore di formazione

manuale, accese una levigatrice elettrica. Una scintilla diede fuoco

a una miscela micidiale di aria e gas.

Disastri accaduti6n.92

New London Schoolexplosion

diMimmoAttanasii [email protected]

I testimoni del disastro raccontarono di pareti che si gonfiavano e

del tetto sparato in alto e ricaduto sulla struttura crollata. La forza

dell’esplosione fu così potente che scagliò addirittura un blocco

di cemento da due tonnellate su una Chevrolet parcheggiata nelle

vicinanze, disintegrandola.

Un autista della London School bus, Lonnie Barbiere, che trasporta-

va alunni delle scuole elementari, alla vista del disastro, dapprima

continuò il suo solito percorso nel condurre i bambini a casa dai

propri genitori, per poi precipitarsi subito alla ricerca dei suoi quat-

tro figli dispersi fra le macerie dell’esplosione.

Su 600 persone che si trovavano all’interno dell’edificio scolasti-

co, solo 130 riuscirono a scamparla senza riportare lesioni gravi.

Le stime sul numero di morti variano dalle 296 alle 319 unità, ma

questo numero potrebbe di molto superiore se si considera che

molti dei residenti nella New London, lavoratori precari e transitori

impiegati nel settore petrolifero, raccolsero i corpi dei loro figli, nei

giorni successivi al disastro, per dargli sepoltura vicino le loro case.

La maggior parte dei corpi rimasero carbonizzati, non identificabili.

Una madre morì d’infarto dinanzi ai resti della figlia, con solo una

parte del suo viso, il mento e un po’ di ossa sparse. Un altro ragaz-

zo fu identificato solo grazie alla cintura dei suoi jeans.

I soccorritori lavorarono notte e giorno, sotto la pioggia, per 17 ore.

L’intero sito era stato cancellato dal fuoco. Gli edifici delle comunità

vicine di Henderson, Overton, Kilgore e anche di quelle ancora più

distanti, come Tyler e Longview furono adibite a improvvisati obitori

per ospitare un enorme numero di organismi irriconoscibili.

I giornalisti si videro travolti anch’essi nel tentativo di salvatag-

gio. Anche a Walter Cronkite toccò in sorte, in uno dei suoi primi

incarichi giovanili alla United Press, di raccontare la tragedia di New

London. Decenni appresso, dopo avere assistito agli orrori della

seconda guerra mondiale e del processo di Norimberga, dichiarò:

“Non sono bastati i miei studi, né tanto meno le mie esperienze di

vita, per prepararmi ad affrontare una storia come quella della New

London School explosion”.

Gli esperti della United States Bureau of Mines giunsero unani-

mi alla conclusione che il collegamento con la linea del gas era

difettoso e, dal momento che il gas naturale è invisibile e inodore,

la perdita non era possibile rilevarla. In seguito, s’impose l’aggiunta

di composti organici di atomi di carbonio, zolfo e idrogeno che, ca-

ratterizzati da un odore intenso e sgradevole, rendono le eventuali

perdite rapidamente avvertibili. La pratica si diffuse velocemente in

tutto il mondo.

Dopo il disastro, lo Stato del Texas, sotto l’enorme pressione dell’o-

pinione pubblica, promulgò una legge molto severa a regolamenta-

re le pratiche di ingegneria sull’errata installazione dei collegamenti

del gas naturale. Ancora oggi, l’uso del titolo di “ingegnere” in Texas

rimane giuridicamente limitato a coloro i quali l’esercizio ingegne-

ristico sia stato professionalmente certificato unicamente dallo

Stato. A Piano d’Accio, alle porte della città di Teramo, si sarebbe

potuta verificare una strage. Il pericolo scampato dà i brividi se

proiettato sul quadrante di un orologio. Le lancette vicine alla tacca

dell’esplosione e a quella della campanella d’uscita lasciano appe-

na il tempo per un pensiero da rimuovere: “Un’ora prima e sarebbe

stata una ecatombe”. n

disastri scampati

Page 7: Teramani n. 92
Page 8: Teramani n. 92

sua inutilità stipendiata peraltro da noi. Sabrina De Camillis è l’esempio

dell’avidità che i nostri politici palesano in tante assise: lei in Regione e in

Parlamento, percependo la doppia indennità, in barba alle leggi nazionali

e morali e alla faccia del cielo stellato sopra di me e la legge morale

dentro di me. Questi rozzi esemplari di esseri civici sventolano solo legge

della poltrona sotto di loro. E basta.

La beata Beatrice Lorenzin, nel suo ruolo di ministro della salute, tra l’altro

mai lavorato in questo settore, ha l’ardire di consigliare allegramente un

Trip advisor per gli ospedali, in parole povere i pazienti che mettono i voti

agli ospedali (una cagata pazzesca, sic!). Sventola ancor più beatamente

il diploma di maturità, in un settore talmente complesso che necessita

competenze ben specifiche. Poi non meravigliamoci se, davanti ai Napo-

letani che protestano incazzati perché da loro c’è un’alta percentuale di

cancro ai polmoni o allo stomaco, la ministra se ne esca con un: “E’ colpa

vostra e dei vostri stili di vita”. Tanto per una che vuole far mettere i voti

ad una tomografia assiale computerizzata o a un Drg cosa può uscire

di bocca. “Ministro, sotto queste terre ci sono dieci Seveso” la richiamò

stizzito uno scienziato campano”.

Giampiero D’Alia è ministro della pubblica amministrazione ma il suo

caso è paragonabile a quello della Lorenzin: zero

competenze specifiche, sebbene possegga una

laurea. Viva l’italianità del tirare a campare. Viva

il potere dell’appartenenza politica e del lecchi-

naggio, uno sport dove noi siamo indubbiamen-

te campioni del mondo, non ci batte nessuno.

Leccare, adulare, annullarsi, per raggiungere la

poltrona. Anche la stupidità

è bella, se perfetta, diceva

Thomas Mann, ma noi in

questo campo raggiungiamo

il sublime.

Il sudista Gianfranco Miccichè

afferma candidamente, quan-

do deve spiegare il suo lavoro,

che lui non ha fatto nulla:

“Come sottosegretario alla

funzione pubblica so che il Ministro ha presen-

tato una legge sulla semplificazione che però

non mi sembra una legge molto importante,

diciamo”. Diciamo, e lo diciamo alla Ignazio La

Russa, con molto sarcasmo e disprezzo.

Infine che lezione trarre da questi esempi man-

dati peraltro in onda dalla trasmissione Report

di Raitre? Che i politici hanno un’etica particolare, tutta loro, sganciata dal

mondo reale. Molti dei nostri rappresentanti presso le istituzioni politiche

sono degli incapaci… totali, mentre i restanti sono invece capaci di tutto,

diceva uno. Ma in questo caso colpisce la chiara stupidità dei leccaculo,

che poi riescono a sedere nei posti di comando con nostro profondo

rammarico: non importa ciò che sostiene il suo boss, se afferma cose

intelligenti o stupidate abissali, l’importante è annuire, dire sì col capo,

mettersi in mostra, dirgli che è il più bravo pur di ottenere un favore. Di

questo il potente è consapevole, tanto che egli non si fida affatto dei

suoi scagnozzi: se ne serve come zerbini perché il beneficio, per quanto

effimero e non duri all’infinito, è reciproco: non ci sarebbero monopoli se

non ci fossero imbecilli che li sostengono. n

La Nunzia scambia una lontra per un uccello. La Sabrina non ne vuo-

le sapere di mollare l’osso anche se ricopre illegittimamente due

ruoli politico-istituzionali, ricevendo una

doppia indennità. Beatrice per giustifica-

re l’alto tasso di mortalità per tumori addossa

alla gente tutte le colpe per via dei loro stili di

vita. Giampiero non capisce proprio un’acca

di quello che sta facendo. L’altro Giampiero fa

ricoprire un ruolo prestigioso al fidanzato di

sua nipote. Gianfranco non sa che sta

facendo eppure è a capo di un’isti-

tuzione importante. Marco distrugge

l’ambiente eppure è uno deputato a

preservarlo.

Cos’hanno in comune tutte queste

persone? E’ che sono politici italiani.

Cavalcano i nostri tg quotidianamen-

te, riempiono di ovvietà i talk show,

producono il nulla…e soprattutto

sono ignoranti, nel senso che ignorano ciò che fanno. Tutti: ministri,

sottosegretari, yes-man, siedono in poltrone tanto perché un giorno

hanno reso un servigio a sua maestà il ras di turno, non perché, in virtù di

una qualsiasi meritocrazia, possano aver maturato il diritto a presiedere

qualche assemblea solo perché hanno in animo di far crescere il nostro

paese o di contrastare la disoccupazione, no, ma per un inveterato diritto

feudale amano avere sotto il culo un velluto rosso da sbandierare poi

ad amici, conoscenti, stampa e mondo mediatico, in un eterno spirito di

idiota rivalsa che fa piccoli loro e il paese intero. Purtroppo.

La Nunzia fa di cognome De Girolamo e da miracolata, senza aver rice-

vuto un solo voto di preferenza ma solo bigliettini amorosi del perenne-

mente arrapato Berlusca, si ritrova nominata in parlamento a scambiare

uccelli per fiaschi. Facesse almeno un po’ di birdwatching, lì col cannoc-

chiale ad osservare l’universo attorno a sé, comprenderebbe un po’ la

L’Italia degli ignoranti8n.92

Non sai di nulla? Mettitiin politica

diMaurizioDi Biagio www.mauriziodibiagio.blogspot.com

Chiedete e vi sarà dato ma solo se siete utili alla causa (ovviamente la loro)

Page 9: Teramani n. 92

9

Nella Grecia antica l’agorà era la piazza che rappresentava il cen-

tro della polis, sia economico che commerciale, sia religioso che

politico, in quanto luogo della democrazia e delle assemblee dei

cittadini. La piazza fu inventata dai Greci, dato che le altre civiltà

non ne avevano avvertito l’utilità e i pregi. Teramo, che in epoca romana

meritò uno dei teatri più antichi dell’Impero, coevo del più famoso Tea-

tro Marcello di Roma, ha molte piazze che nei millenni hanno accolto la

vita cittadina.

Durante il secolo scorso diverse piazze sono sorte e hanno contribuito

all’aggregazione dei teramani.

Piazza Garibaldi ha dapprima rap-

presentato la periferia urbana in

direzione Ascoli Piceno, poi mano

mano ha acquisito una centralità

collegata all’espansione della cit-

tà in Viale Bovio e sulla collina del

Castello. Sulla piazza si affacciano

la Villa comunale e la Pinaco-

teca civica, e in essa insistono

numerose attività commerciali e

gastronomiche che la rendono il

cuore della vita notturna.

L’Amministrazione Sperandio ha

creduto bene di approvare un

progetto per sventrare la piazza

e per far luogo a un esperimento

inedito: creare un museo sotterraneo e uno spazio espositivo ipogeo

perfettamente al di sotto del luogo più trafficato di tutto il Comune.

In origine, tuttavia, il progetto prevedeva un museo quasi a livello del

manto stradale, con il reinserimento della vecchia fontana nel posto

originario. Dopodiché l’attuale Giunta, presieduta dal Sindaco Brucchi,

ha modificato il progetto iniziale e ha inaugurato un’opera a metà. Un

monumento agli scarichi delle automobili, un omaggio alle scatole di

tonno aperte, un elogio del ferro arrugginito, uno sberleffo a tutti gli

abitanti di Viale Bovio che prima vedevano piazza Martiri e oggi guar-

dano sconsolati una tavola da surf obliqua. Il costo? Ad oggi sembra si

sfiorino i 3 milioni di euro, cifra con la quale avremmo potuto acquistare

il palazzo della Banca d’Italia per stabilirvi la sede di un museo davvero

prestigioso. Invece abbiamo un mostro di cemento armato che non

tarderà a mostrare i segni delle intemperie, mentre l’adiacente castello

Della Monica e il relativo quartiere aspettano da decenni un solo milione

di euro per tornare a splendere come un tempo (con l’aggravante che

le pitture murali si stanno irrimediabilmente rovinando). In compenso

vantiamo l’unico museo al mondo con il transito dei camion sul soffitto.

Poi c’è Piazza Dante, luogo deputato agli studenti poiché vi insistono il

Liceo Classico, il Convitto nazionale, la scuola media Savini e l’Istituto

Regina Margherita che ospita un asilo infantile.

Qui l’Amministrazione Brucchi è stata ancora più acuta: sventramento

totale per far posto all’ennesimo parcheggio, all’ennesimo mausoleo

dell’automobile. Per completare il capolavoro non potevano mancare

accessi sotterranei volgari e feritoie disgustose per l’aerazione che

rappresentano delle vere e proprie ferite nel manto stradale.

Il colpo di genio però è stato rappresentato dalla rampa di entrata ed

uscita. Scartata l’ipotesi iniziale di creare un accesso dal campetto adia-

cente alla palestra, è parso ben più ingegnoso concedere all’impresa

la facoltà di creare una rampa nella già stretta via di accesso a Piazza

Dante da Viale Mazzini, ottenendo il duplice obiettivo di impedire fisi-

camente il passaggio dei pedoni e di far risparmiare enormi spese alla

ditta costruttrice la quale, se ha preteso che ci fosse un doppio senso

di marcia per entrare ed uscire dal sotterraneo con l’automobile (dato

lo spazio risicato, non sarebbe stato più corretto scavare una rampa

a senso unico?), non ha consentito nemmeno che una madre con il

passeggino possa transitare dal viale dei tigli alla piazza.

Il tutto corredato da due penose aggravanti: la prima è che il piano a

raso della Piazza avrebbe dovuto

essere destinato a giardini e pan-

chine per la vivibilità dell’intera

zona, in base ad un progetto

pubblicizzato con i cartelloni dal

Comune, salvo poi rassegnarsi al

passare degli anni e all’impossibi-

lità di poter rientrare in possesso

dell’area, destinata non si capisce

per quale motivo ad ulteriore

parcheggio a pagamento per le

tasche del costruttore privato

che lo gestisce; la seconda è che

proprio su Viale Mazzini sostano i

pullman che conducono i ragazzi

nelle scuole, per cui all’orario di

entrata e di uscita dalle classi si

crea un ingorgo mostruoso fra la folla che deve entrare ed uscire da

Piazza Dante per recarsi ai mezzi di trasporto pubblico e nelle scuole,

folla che deve necessariamente passare in un pertugio che è offensivo

definire accesso pedonale.

Quindi il parcheggio, che avrebbe dovuto risolvere i problemi di traffico,

si è rivelato un progetto fallimentare, perché numerosi veicoli gravitano

proprio sulla piazza, ostruendo ancora di più le vie cittadine.

Un’altra Piazza sventrata e stuprata è quella dei Donatori di sangue

all’incrocio fra Via Po e Via Fonte Regina, laddove pure si è scavato per

consentire il ricovero delle automobili, salvo poi trasformarsi in parcheg-

gio per topi e altri animali piuttosto che per mezzi di locomozione.

C’era poi Piazza della Cittadella con il suo famoso Albergo Giardino,

demolito sotto la furia distruttrice degli anni sessanta per far posto al

mostruoso edificio sede dell’INPS.

La Piazza ha da molto cambiato nome in Martiri Pennesi ed è anch’essa,

in attesa di essere perforata, un parcheggio a cielo aperto da decenni.

Questo è ciò che resta della polis, ciò che resta dell’agorà, ciò che resta

di una civiltà gloriosa che oggi non ha più diritto ad alcuna gloria. n

n.92

Cose di casa nostra

AgoràIl declino delle piazze teramane

[email protected]

diMaria Cristina Marroni

Page 10: Teramani n. 92

Teramo culturale10diSilvioPaolini Merlo [email protected]

n.92

Un Habitat perl’arte teramana:capitolo ZerounoRipensamenti e riparazionisulle territorialità artistiche

C’èmodo e modo di fare valorizzazione della cultura

contemporanea di un territorio mediante lo strumen-

to delle gallerie d’arte. Ne ho già detto a più riprese,

specie a proposito di una realtà di recente conio

sviluppata entro l’ambizioso “Progetto Cult” dall’attuale amministra-

zione comunale: lo spazio espositivo denominato Arca, sedicente

Laboratorio per le Arti Contemporanee in Abruzzo, spazio che in città è

di fatto solo l’ultimo arrivato nel rilancio di una centralità del fare cultura

partendo da un contesto di tipo provinciale. Nel suo Identità dell’Arte in

Abruzzo, Antonio Zimarino ha riassunto con efficacia la doppia natura

del provincialismo, rintracciabile in due tipici errori mentali: 1) escludere

la relazione tra “centri” e “provincia” basandosi su di un presunto genius

loci salvifico, da esaltare nella propria incontaminata purezza, fuori cioè

da stimoli di qualsivoglia provenienza esterna; 2) abbracciare acritica-

mente ogni modello maggioritario proveniente dai “centri”, allo scopo di

ottenerne benefici di ritorno. Aggiungo che, a rigore di termini, il provin-

cialismo in provincia non nasce tanto dal primo dei due errori, comune

anche ai “centri”, ma proprio dal secondo. Nel primo vi è cecità, nel

secondo qualcosa di peggio: opportunismo.

Plaudiamo perciò a quest’Habitat Zerouno «sulle realtà creative legate

alla Città di Teramo», promosso da Umberto Palestini nella struttura da

questi presieduta, col quale si dà inizio - pare - a una serie di collettive

centrate su artisti “locali” da tempo attivi nelle arti visive e figurative, di

varia anagrafe ma per lo più di giovane e giovanissima età. In questa pri-

ma tornata, leggiamo i nomi di Maurizio Anselmi, Marco Appicciafuoco,

Fausto Cheng, Antonella Cinelli, Silvestro Cutuli, Paola Di Giosia, Cleto Di

Giustino, Giampiero Marcocci, Marino Melarangelo, Fabrizio Sclocchini.

Eppure, anche stavolta, qualcosa non torna. Nulla da eccepire sui nomi

coinvolti, ognuno a suo modo degno di attenzione. Altro è il punto, e

non entrerò minimamente nel merito dei singoli percorsi creativi. Sia

io che Palestini, al pari di tanti altri operatori attivi entro e fuori Teramo,

sappiamo bene che queste capacità esistono per forza di cose, com’è

naturale che sia e come sarebbe innaturale se non fosse. Qui l’aspetto

che si apre alla discussione è il metodo, il criterio di partenza, il piano

della precomprensione concettuale.

Non è, si dice, una mostra di Teramo fatta per Teramo. E perché mai?

Cosa vi sarebbe di male in caso contrario? Non si può rischiare il narcisi-

mo, si aggiunge. Ma di quale narcisimo si parla? Forse quello dettato dal

punto di vista fino ad ora preso a modello procedurale? Ci si schermisce,

con frasi da excusatio non petita, che l’Arca si è sempre mostrata aperta

ad artisti nostrani, che ha sempre voluto prodigarsi per valorizzare le for-

ze e le risorse del territorio. E si ricordano il caso di Giuseppe Stampone,

con cui l’Arca veniva inaugurata nell’ottobre 2011, a cui si aggiungono

quelli di Marco Chiarini e Georgia Tribuiani. Benissimo. Ma perché mai

asserirlo e rimarcarlo? Perché mai non avrebbe dovuto essere così? A

cosa altro dovrebbe servire una struttura del genere in una città come

Teramo, che provincia era, è, e resterà? A onor del vero, tutta questa

apertura nei confronti del territorio, e della città di Teramo, all’Arca non la

si è vista. E se poi un 10% degli spazi è stato esteso ad artisti teramani,

o per meglio dire ad alcuni di essi, selezionati con criteri non sempre

del tutto limpidi, se ne prende atto con gioia, ma di certo non può dirsi

bastevole a invertire il senso di un percorso che è finora stato quello che

è stato: elitaristico, mercatistico, platealmente mondanizzante, vistosa-

mente antiscientifico, risolto in visibilismo mediatico puro e semplice.

Si insiste sul principio

della ricognizione

“di qualità”, indicata

come “punto fermo”

indifferibile. Pena

la ricaduta nel

localismo. E va pure

bene. Ma questa

benedetta “qualità”,

cui tutti si affidano

come all’extrema

ratio per giustificare

ogni e qualsivoglia

strampalateria, è parola che vuol dire tutto e che può non significare

nulla. Ogni oggetto frutto dello sforzo viscerale di un professionista,

realizzato secondo un criterio e sulla base di acquisizioni sufficienti ad

essere valutate, quotate, riprodotte, e fatte oggetto di mercanteggio,

sono, di per ciò stesso, tutte, “di qualità”. Comprese le note scatolette di

latta che nel 1961 Piero Manzoni riempì della propria merde d’artiste.

Si rimarca inoltre, a più riprese, il termine “scoperta”. Ma scoperta

implica l’idea della ricerca e della personale autonoma valutazione. E

di quale valutazione si può parlare se di questi artisti non si fa altro che

sbandierare quanto hanno già fatto, quanto già contano, quanto già han-

no ottenuto, quanto di loro già si sa o è stato detto? L’accreditamento

semmai, e unicamente l’accreditamento, inteso come qualificazione

ricatapultata dai “centri”, è l’oggetto vero di questa presunta “scoperta”.

Ma dunque parliamo, daccapo, non di reale novità, ma di sommatoria

del già noto. Non di reale valorizzazione, ma di pura ostensione del già-

dato-per-scontato. Non di proposte, non di analisi, senza di cui il bacino

della comprensione territoriale non si incrementa di una sola virgola. Ci

si limita a raccogliere da altri percorsi, da altri canali, da altri ambienti,

da altre idee, da altri consessi critici. Opera di mera ricognizione, di pe-

dissequa agglomerazione, di collage quale che sia, tanto per non essere

da meno, tanto per dare a intendere. n

Page 11: Teramani n. 92
Page 12: Teramani n. 92

I talo Calvino è un esperto viaggiatore

tra diversi generi letterari, mai clas-

sificabile definitivamente in un’unica

categoria o stile. Persino nelle opere

più ideologiche, la sua riflessione raziona-

le sposa la leggerezza, attraverso il gusto

letterario della fiaba, del sogno e della

fantasia.

Quando il pensiero si lega all’emozione, la

scrittura diviene vibrante, allora anche il

realismo mette le ali per volare lieve. Ce-

sare Pavese definì efficacemente Calvino

lo “Scoiattolo della penna”.

Così come rifiuta di aderire apaticamente

a un’idea di letteratura dettata dalla moda

del momento, allo stesso modo Calvino

ricusa di compiacere la cultura derivante

da un’appartenenza politica, in base alla

quale un intellettuale della sinistra doveva

descrivere le classi sociali svantaggiate e

polemizzare con la borghesia.

Nel romanzo La speculazione edilizia,

pubblicato la prima volta nel 1957, Calvino

riflette con lucidità sulla pratica della ce-

mentificazione sfrenata e incondizionata.

All’inizio del libro Calvino confessa: “I

luoghi, i fatti, le persone, i nomi di questo

racconto sono assolutamente fantastici

e non possono esservi trovati riferimenti

con la realtà se non per caso”.

In realtà, dietro i tre asterischi *** usati

per definire una generica località, si cela

Sanremo. Il romanzo è ambientato nella

Riviera ligure proprio negli anni della

trasformazione edilizia, anni fecondi che

preludevano al successivo boom econo-

mico, ma che nascondevano “il sospetto

che ogni nostra ostentazione di prosperità

non fosse che una facile vernice sull’Italia

dei tuguri montani e suburbani, dei treni

d’emigranti, delle pullulanti piazze di paesi

nerovestiti: sospetti fugacissimi, che con-

viene scacciare in meno d’un secondo”.

Archiviata la Guerra, la società, dopo anni

di austerità e di digiuno dai vizi, si muove

rapida verso il benessere. In particolare il

ceto borghese alimenta dal suo interno i

propri desideri, anche quelli più super-

ficiali. Si sviluppa anche il turismo e le

località costiere sono prese d’assalto per

il bisogno di possedere una casa al mare,

oppure di affittarla per la stagione estiva.

Anche a *** si sviluppa con velocità il

mercato immobiliare e la cementificazio-

ne avanza in maniera caotica e spropor-

zionata. Accanto a costruzioni di pregio

si elevano nuovi edifici, privi di qualsiasi

elementare senso estetico. Il paesaggio

ne è violato e perde l’antico splendore.

Il protagonista del romanzo, Quinto Anfos-

si, è un intellettuale che Svevo definireb-

be “inetto”. Ammaliato dalla vivacità dei

tempi e dalla personalità spregiudicata

degli affaristi e dei costruttori, decide di

entrare in affari con Pietro Caisotti, uomo

privo di cultura ma assai ricco per una se-

rie di fortunate coincidenze. I palazzi che

lui costruisce sono vantaggiosi economi-

camente, ma osceni nelle fattezze.

Quinto cede a Caisotti un pezzo di terra

di famiglia per la costruzione di alcuni

edifici, da dividere fra i soci. Ma quello

che doveva essere un affare si rivelerà un

fallimento.

“Di solito mi piace raccontare storie di

gente che riesce in quel che vuol fare (e

di solito i miei eroi vogliono cose para-

dossali, scommesse con se stessi, eroismi

segreti) –spiega il narratore- non storie di

fallimenti o smarrimenti.

Se nella Speculazione edilizia ho rac-

contato la storia di un fallimento (un

intellettuale che si costringe a fare l’af-

farista, contro tutte le sue più spontanee

inclinazioni), l’ho raccontata per rendere il

senso di un’epoca di bassa marea morale.

Il protagonista non trova altro modo di

sfogare la sua opposizione ai tempi che

una rabbiosa mimesi dello spirito dei

tempi stessi, e il suo tentativo non può

che essere sfortunato, perché in questo

gioco sono sempre i peggiori che vincono,

e fallire è proprio quello che lui in fondo

desidera”.

La speculazione edilizia fotografa in anti-

cipo sui tempi la crisi dei valori contem-

poranea e l’impossibilità per la borghesia

italiana di emanciparsi dall’affarismo

becero.

Nonostante la profondità delle rifles-

sioni di Calvino, il romanzo risulta assai

piacevole alla lettura, perché la scrittura

cristallina e il lieve umorismo vi sottraggo-

no ogni pesantezza didascalica.

In un intervento a un dibattito sulla rivista

“Menabò”, Calvino sosteneva il valore

insostituibile della letteratura come “sfida

al labirinto”, nella denuncia alle storture

della società industriale.

Se oggi fosse ancora vivo, Calvino avrebbe

novant’anni. E probabilmente si vergogne-

rebbe ancora di più dell’Italia. n

Il libro del mese12 [email protected]

n.92

diMaria Cristina Marroni

La speculazione ediliziadi Italo Calvino

Page 13: Teramani n. 92

13Debito pubblico

diMimmoAttanasii [email protected]

Non è come spostare un

pedone perché non si ha la

più squallida idea di come

posizionare l’alfiere, piuttosto

che imbastire tattiche improbabili,

con un cavallo e la regina stretta in

un angolo. Si discute di strutture diri-

genziali manageriali da fare rivoltare

i cadaveri nelle tombe, attribuendo,

come appunto nel caso delle parte-

cipate dagli enti pubblici, ai sindacati

e ai media di avere metamorfosato

privilegi in diritti, mentre erano

indubbiamente privilegi, forse positivi

per i loro iscritti, ma di certo non

utili per i disoccupati. Società che

nascono da un sistema discutibile, da

questioni eticamente censurabili, che

hanno interessato la politica del pas-

sato, con dipendenti assunti perlopiù in maniera clientelare e senza

un reale know how. Una delle vicende più torbide nella storia del

nostro Paese: “I carrozzoni clientelari e i loro costosissimi consigli di

amministrazioni”. Poltrone da accatastare per i trombati dei partiti.

Aziende anche in liquidazione per deficit milionari, costruite in sfre-

gio ai finanziamenti pubblici, di tutti i cittadini contribuenti. Cose già

sentite e rintracciabili in rete. Anche se, di recente, in un trafiletto del

9 ottobre 2013 pubblicato dal quotidiano “Il Messaggero”, si appren-

de di un presunto mancato, o forse solamente ritardato, versamento

delle ritenute Irpef, per una somma di centinaia di migliaia di euro.

La cronaca ha registrato una importante testimonianza su un caso di

presunto clientelismo politico, di un ex direttore generale di una so-

cietà a partecipazione pubblica. Il dg, sentito dai magistrati in merito

al mancato versamento, ha chiarito che effettivamente, nel periodo

preso in esame dall’Agenzia delle Entrate, c’era una mancanza di

fondi in cassa, essendo stato obbligato dall’ente pubblico societario

partecipativo ad assumere 20 dipendenti di un’altra azienda finita

male e costretta al fallimento. A leggerla tutta, il tizio alto in grado ha

ritenuto utile di rendere noto che alcune responsabilità ricadrebbero

su di una governance politica troppo disinvolta. Tutti quegli anni di

studi buttati al vento. Tutto quell’applicarsi, quell’essere diligenti, via

n.92

come niente. Da giovani si gioca spesso a fare il libero pensatore

e al bar ci si vanta pure di non credere nell’esistenza di Dio e cose

del genere. Più delle volte si tratta di acqua che passa. Quel santo in

paradiso, che intercede solo tramite le voci piagnucolose echeggian-

ti nelle sagrestie di partito, se lo si invoca come si deve, fa calare

presto la sua mano a protezione dei miserandi. E miserandi poi si

rimane, seppure alla catena, ma con i soldi per campare la famiglia.

Le iperboli dei politicanti coinvolti, dopo la dichiarazione esplicita del

funzionario, potrebbero ridimensionarsi in semplici strali lessicali do-

vuti alla foga dell’oratoria e della retorica politica. C’è da rimpiangere

il bel management di una volta, quando tutti i tecnici incaricati dello

start-up delle società carrozzone erano sì preparati, in possesso

di indubbie capacità relazionali con la forza lavoro da istruire e una

stimata notorietà professionale vantata in ogni ambiente, ma erano

soprattutto nomi che si rincorre-

vano, nel tempo e nello spazio,

nella tortuosità incorporea di collegi

circoscrizionali, di venerabili maestri

di vita. Fucine di grandi uomini e

pensatori. Grazie alle strategie politi-

che messe in atto, l’Abruzzo di oggi,

moderno e all’avanguardia, è sfio-

rato solo marginalmente da quella

che in quasi tutto il Paese è rimasta

pratica spregevole e consolidata.

Un sistema clientelare inossidabile

che si accanisce sulle “non scelte”

dei giovani. La dritta, che non vuole

essere impartita per diritti acquisiti

sul campo, piuttosto da spendere

per baratto, vista la scarsità di

esperienze vissute, potrebbe essere

quella di ricaricarla sul groppone del

politico, la zavorra esistenziale della

raccomandazione ricevuta per un impiego. Il santo in paradiso, lo si

può tranquillamente restringere in un sofistico ambiente inconsueto

per una mente abituata all’inciucio cerebrale finanche con se stessa,

rinfacciandogli a brutto muso le proprie azioni: “Che vuoi? Hai fatto

male a raccomandarmi!” e via e andare poi con i nomi e cognomi

di tutti quelli che si sono adoperati assieme a lui nel mercimonio

riprovevole, illegale delle coscienze. n

Il Carrozzone va avantiPer campare, questo ed altro

Page 14: Teramani n. 92

Giovedì 10 ottobre Peter Englund, segretario Permanente dell’acca-

demia di Svezia, ha annunciato che la vincitrice del Premio Nobel

per la letteratura 2013 è stata la scrittrice canadese Alice Munro.

Lo scorso anno, come è noto, il Nobel per la letteratura è andato al

cinese Mo Yan, vittoria che ha suscitato non poche polemiche.

In questi giorni si sono fatti molti nomi sui candidati al Nobel, ma sono

state solo delle ipotesi, scommesse. Per statuto i nomi dei candidati sono

segreti e l’Accademia di Svezia non smentisce mai perché non può tradi-

re il segreto. Secondo alcune voci i nomi più quotati sono risultati Haruki

Murakami (in sentore di Nobel da anni, ormai), il poeta sudcoreano Ko Un,

lo scrittore ungherese Péter Nádas, la scrittrice statunitense Joyce Carol

Oates e la canadese Alice Munro.

Il Premio Nobel per la letteratura può essere assegnato anche a più di

un autore, come succede per gli altri Nobel, anche se ciò non accade dal

1974 quando a vincerlo furono Eyvind Johnson e Harry Martinson. Per

ciò che concerne l’Italia siamo stati detentori del nobel per ben sei volte:

Giosuè Carducci (1906), Grazia Deledda (1926), Luigi Pirandello (1934),

Salvatore Quasimodo (1959), Eugenio Montale (1975) e Dario Fo (1997).

Per quel che riguarda le quote rosa in Nobel si è alquanto carenti: su 109

premiati, solo 12 sono state donne. L’attuale premio Nobel è la tredicesi-

ma donna a vincere tale riconoscimento e in questo modo cerca un po’ di

riequilibrare le “quote rosa” del premio stesso.

Alice Munro nata il 10 luglio 1931 in Ontario è considerata la più grande

scrittrice canadese. Secondo Jonathan Franzen, Alice Munro è “la più

grande narratrice vivente del Nord America. E’ stata premiata perché è

“maestra del racconto breve contemporaneo”. Certo, un bello schiaffo a

gran parte del mondo dell’editoria che non prende mai in considerazione i

Letteratura14n.92

Alice Munro

diMaria Gabriella Del Papa [email protected]

Premio Nobel 2013

racconti (brevi o lunghi) e predilige solo i romanzi.

Secondo alcuni Alice Munro, per via del suo stile asciutto e per la pro-

fondità dell’introspezione, soprattutto dei personaggi femminili, è quasi

una sorta di “Cechov” canadese. E con lo scrittore russo Alice Munro

sembra condividere l’amore per le minuziose descrizioni e per i particolari

apparentemente insignificanti che provocano un’immediata e lancinante

illuminazione.

Infatti con i racconti ha ricevuto riconoscimenti nel corso degli anni: La

danza delle ombre felici è del 1968 e vinse il Governor General’s Award,

il più importante premio letterario canadese. Nel 1978 si distinse con Chi

ti credi di essere? che John Gardner così definì: “Non saprei dire se Chi ti

credi di essere? sia una raccolta di racconti o un nuovo genere di roman-

zo, ma qualunque cosa sia è meraviglioso”.

In italiano Alice Munro è pubblicata, tra gli altri, da Einaudi e Mondadori.

Tra i suoi ultimi titoli ricordiamo: Racconti (a cura di Marisa Caramella,

Mondadori 2013), Troppa felicità (Einaudi 2011), La vista da Castle Rock

(Einaudi 2007).

Sicuramente molti lettori che la conoscono poco o quasi per nulla stanno

cercando di orientarsi nella sua vasta bibliografia, composta per lo più da

raccolte di racconti, ma quali libri scegliere? Da dove cominciare?

Un modo intelligente e direi proficuo per addentrarsi fra le bellissime

parole di Alice può essere quello di lasciarsi guidare da chi la conosce

bene, ossia da Marisa Caramella, probabilmente la maggior esperta

italiana dell’argomento Munro. Caramella ha selezionato cinquantacinque

racconti per l’antologia della collana Meridiani Mondadori. Il volume è

uscito da pochi mesi, per l’esattezza dal 28 maggio 2013, e contiene an-

che alcuni testi mai visti prima in italiano. La versione nella nostra lingua è

ottima, curata da Susanna Basso, traduttrice di casa Einaudi prediletta

da superstar anglofone come Ian McEwan e Julian Barnes, oltre che dalla

stessa Alice.

Questo Meridiano risulta essere una vera immersione letteraria nella

scrittura di Munro, un mare di parole che si alternano e saggezza profonda

milleottocento pagine. Si parte da cinque racconti selezionati fra i quindici

da Danza delle ombre felici, opera d’esordio pubblicata nel 1968 e subito

accolta con stupore dalla critica (un giornalista canadese, quasi presagio

di ciò che è accaduto oggi, si disse folgorato dalla “profonda umanità della

scrittrice e dalla bellezza quasi spaventosa che raggiunge nell’esprimerla”).

Si prosegue poi con un viaggio in quasi mezzo secolo di racconti “densi

come romanzi”. Il librone chiude con la vertigine di Uscirne vivi, apparso

sul New Yorker nel 2011 e quindi all’interno della raccolta a cui dà il titolo,

pubblicata in inglese nel 2013. Poi, alla vigilia dell’ottantaduesimo comple-

anno, Alice Munro, all’improvviso, dichiarava urbi et orbi di non poter più

sopportare la solitudine necessaria alla scrittura, e di voler abbandonare

definitivamente il suo lavoro. Per fortuna, pochi giorni prima, proprio in

Italia era uscita questa preziosa collezione di tesori.

Non credo possa mancare nella biblioteca di un buon lettore almeno

un libro della scrittrice canadese. Consiglio anche la lettura di Nemico,

amico, amante, una raccolta di nove racconti. Sono storie di un mondo

ordinario in cui si scopre anche lo straordinario; non c’è nulla di banale

o di facile sentimentalismo femminile. C’è piuttosto molta umanità: ora

ironica e divertente, ora drammatica.

Tanto per dirla alla Pietro Citati: “Fra pochi anni, chiunque vorrà parlare

di un bellissimo racconto, o di una sottile accortezza narrativa, o di una

visione del mondo tanto ricca quanto inafferrabile, dirà: “Mi ricorda un

libro di Alice Munro. Lo leggerò subito”. n

Page 15: Teramani n. 92
Page 16: Teramani n. 92

Chi chiude e chi apre16n.92

Il Corecom

dallaRedazione [email protected]

Oltre 3.500 tra famiglie e aziende abruz-

zesi, negli ultimi 18 mesi – da gennaio

2012 a giugno 2013 – si sono rivolte

al Corecom con un problema legato

alla telefonia mobile o fissa e sono uscite con

la soluzione: indennizzi e bollette annullate

per 1 milione 700 mila euro grazie all’istituto

della conciliazione gratuita. Le richieste più ri-

levanti riguardano i problemi sulla migrazione

(cioè il passaggio ad un gestore ritenuto più

conveniente), la contestazione di importi non

dovuti in fattura, il superamento della soglia

dei costi per il roaming internazionale legato

soprattutto ai periodi di vacanza all’estero, i

distacchi di linea ingiustificati e l’attivazione

di servizi mai richiesti o problematiche legate

alla linea Adsl. “Al 15 settembre erano arrivate

sul tavolo del Corecom - spiega il Presidente

Filippo Lucci - 3656 istanze con una crescita,

rispetto al 2011, del trenta per cento.

Abbiamo registrato oltre 15 mila contatti tra

telefonate, mail e posta ordinaria. Indicatori

che chiariscono due cose: che il Corecom è

sempre più conosciuto ed efficiente e che

la litigiosità tra utente e gestore telefonico

aumenta.. La nuova sede a Teramo – con-

clude Lucci - faciliterà l’espletamento dei

tentativi di conciliazione agli utenti di tutta la

provincia, spesso scoraggiati dal viaggio per

venire nella nostra sede principale di L’Aquila,

tanto da arrivare, a volte, ad abbandonare

l’istanza. Una sede, tengo a precisare, a

costo zero per i cittadini e che arriva dopo

il successo di quella di Pescara”. Presenti

all’incontro, in videoconferenza, dalla sede

dell’Aquila, anche il Governatore Gianni Chiodi

e il presidente del Consiglio regionale Nazario

Pagano. “Registro – ha affermato Chiodi – il

successo del Corecom Abruzzo. La Pubblica

amministrazione ha il compito di facilitare la

vita ai cittadini, e puntare sempre più sulla

semplificazione burocratica. Il Corecom,

come Ente, non rappresenta una novità in

sé, la novità è rappresentata dai servizi che

offre e dalla sua efficienza. Gli Enti, d’altronde,

camminano sulle gambe degli uomini e per

questo esprimo soddisfazione per la scelta

di Filippo Lucci, che, tra l’altro, è riuscito

a scalare i vertici del Corecom nazionale.

“Il Corecom – ha aggiunto Pagano – che si

occupa di questioni concrete, ha raggiunto

un altro importante traguardo”. Hanno voluto

rilasciare dichiarazioni anche altri esponenti

politici teramani. Alfonso Di Sabatino Martina,

vicesindaco di Teramo:”Si può esprimere solo

compiacimento per l’apertura a Teramo e per

gli ottimi risultati del Presidente Lucci che

raccoglie in Italia e fuori consensi unanimi,

aiutando l’Abruzzo e Teramo nella moder-

nizzazione e aiutando il Cittadino”.Tommaso

Ginoble, parlamentare PD:” La sede delle

Conciliazioni e i risultati impareggiabili ottenu-

ti dal Corecom Abruzzo ci aiutano a restituire

corpo alla nostra società abruzzese e a quella

teramana, che è a rischio isolamento con la

perdita di tante Istituzioni. Il presidente Filippo

Lucci è una figura straordinaria ed è l’esempio

di come si ottengano risultati utili a tutti quan-

do in un posto c’è la persona giusta”.Manola

Di Pasquale (esponente minoranza Consiglio

comunale Teramo):” Quando si sa sfruttare

al meglio la normativa insieme con ciò che

offrono le nuove tecnologie, si realizzano

tutte le potenzialità, a beneficio dell’Ente e

dell’intera collettività. Un professionista giova-

ne e capace come il presidente del Corecom,

tanto motivato, andrebbe replicato in diversi

Enti per far sì che si raggiungano risultati che

diventano la crescita di tutti”.

(E aggiungiamo noi che il Presidente Filippo

Lucci ha aiutato “Teramani” nella difficile

fase della nascita e lo ha condotto, sempre

come Direttore Responsabile, nel mare

magnum dell’editoria agli attuali livelli di

credibilità). n

apre una sede a Teramo

Telefonia, in 18 mesi 3.500 conciliazioni e oltre 1,7 milioni di euro agli abruzzesi dalla Redazione.Il Presidente Filippo Lucci: “Siamo un modello nazionale. La cosa di cui siamo più orgogliosi?La soddisfazione dei cittadini”.

Page 17: Teramani n. 92

nelle attività di investimento

Arco Consumatori informa

diMassimoDi Giacomantonio [email protected]

Obblighi degli istituti di credito

G li istituti di credito, quali intermediari finanziari, anche nell’eserci-

zio professionale dei servizi e delle attività di investimento sono

sottoposti a rigide prescrizioni. Il Decreto legislativo 24 febbraio

1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di interme-

diazione finanziaria), stabilisce che nella prestazione dei servizi e delle atti-

vità di investimento i soggetti abilitati devono: a) comportarsi con diligenza,

correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per

l’integrità dei mercati; b) acquisire, le informazioni necessarie dai clienti

e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; c)

utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non

fuorvianti; d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno,

idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività.

Entrando maggiormente nel dettaglio, il Regolamento Consob.

n.11522/98 ha opportunamente precisato che, prima della stipulazione

del contratto di gestione e di consulenza in materia di

investimenti, nonché prima dell’inizio della prestazione

dei servizi di investimento e dei servizi accessori a questi

collegati, gli intermediari autorizzati devono chiedere

all’investitore notizie circa la sua esperienza in materia

di investimenti in strumenti finanziari, la sua situazione

finanziaria, i suoi obiettivi di investimento e circa la sua

propensione al rischio.

Gli intermediari bancari autorizzati non possono effettuare

o consigliare operazioni o prestare il servizio di gestione, se non dopo aver

fornito all’ investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle

implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia

necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento.

Gli intermediari bancari hanno altresì l’obbligo di astenersi dall’effettuare

con o per conto degli investitori operazioni non adeguate per tipologia,

oggetto, frequenza o dimensione. Essi, quando ricevono da un investitore

disposizioni relative ad una operazione non adeguata, devono informarlo

di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno procedere alla

sua esecuzione. Qualora l’investitore intenda comunque dare corso all’o-

perazione, gli intermediari possono eseguire l’operazione stessa solo sulla

base di un ordine impartito per iscritto ovvero, nel caso di ordini telefonici,

registrato su nastro magnetico o su altro supporto equivalente, in cui sia

fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute. Le richiamate norme di

condotta richiamate forniscono utili delucidazioni circa gli obblighi cui gli

intermediari bancari sono tenuti, ponendo in particolare l’attenzione sui

doveri informativi e sull’esigenza di trasparenza che consenta al cliente di

essere adeguatamente e costantemente informato. n

17n.92

Amalia Africani alla sua prima personale,

espone nello spazio di corso Cerulli,

presso il Salotto Artistico Culturale “Pha-

ros” di Giulietta Cerulli, una serie di dipinti che

evidenziano una forte personalità e un sicuro

talento.

Amalia dipinge, come disse il grande scrittore

Wolfgang Goethe, sentendosi “un dilettante”

nel senso proprio della parola, cioè per diletto,

per soddisfare il proprio desiderio di dire e di

fare qualcosa, avendo davanti a sé null’altro

che il piacere di esprimersi. E lo fa con grande

sicurezza, senza tentennamenti, con un gusto

sicuro che nulla concede alla piacevolezza. È

del tutto evidente, infatti, che i suoi quadri non

sono accattivanti, non cercano un consenso

facile tramite, ad esempio, il colore, evitano le

trappole della gradevolezza, cui sono molti a

cedere pur d’intercettare il gusto del pubblico.

Sarà forse per questo che tra gli elementi del

linguaggio dell’arte e del fare pittura - luce,

colore, superficie, spazio, volume, composizione

- che risultano evidenti tra le sue predilezioni,

ad imporsi sono la cura e l’attenta elaborazione

delle superfici. La Pittrice riempie gli spazi della

trama disegnativa dei suoi quadri con delle

stesure mai banali o addirittura sciatte. Siano

esse un prato, un cielo, un muro, uno specchio

d’acqua, oppure un volto o il corpo di una figu-

ra, la coloritura è sempre attenta, complessa,

l’impasto denso, il riempimento mai pago di

un risultato definitivo. Sappiamo che il colore

costituisce tra gli elementi della pittura quello

di più facile comprensione, quello che cattura

di più l’attenzione e predispone l’osservatore

ad un giudizio positivo. Il colore è un elemento

della nostra cultura figurativa più profonda,

la stessa che muove il vivente a far bella la

natura per tessere la trama della vita e della

condivisione. Ma attenzione, può trasformarsi

in un fattore di seduzione e di falso piacere.

Amalia Africani doppia con naturalezza la

trappola dell’insincerità per arrivare al colore

autentico di uno stile ben preciso. Ecco allora

l’infinita gamma dei grigi, dei verdi, dei rossi,

nelle loro variazioni tonali e nella scala di

infinitesime variazioni.

Pittura quindi, pittura autentica che ci auguria-

mo la Nostra possa continuare a praticare per

sempre nuove avventure creative. n

Amalia Africani

Arte di Romolo Bosi

La Sincerità della Pittura

Page 18: Teramani n. 92

L’uomo e il cavallo hanno percorso tanta strada insieme tracciando

un segno indelebile nella storia dei secoli che si sono succeduti

fino alla rivoluzione industriale. Nel passato il nobile animale è stato

indispensabile per l’uomo per soddisfare i bisogni di tutti i giorni e

nei campi di battaglia.

Con l’avvento della tecnologia la forza prodotta dalle macchine ha

soppiantato quella dell’animale. La simbiosi tra i due esseri ha sviluppato

qualcos’altro che non è stato solo forza prodotta dal cavallo necessaria

per l’uomo. Pur in una condizione di netta distinzione, l’uomo e il cavallo

hanno trovato il modo di completarsi in un’attività diversa dai quotidiani

bisogni, lo sport. Insieme hanno dato vita ad un’attività sportiva chiamata

appunto “equestre” con chiaro riferimento alla specie equina, cui appartie-

ne l’animale. Anche la cinematografia ha contribuito a mettere in risalto il

millenario binomio dedicandole uno specifico settore, il cosiddetto genere

“western”. Le mitiche guerre del Nord America, con gli indomabili indiani

da una parte e i generali dall’altra, hanno fatto la storia del cinema. Da qui

si sono evolute discipline sportive diverse da quelle tradizionali che nel

tempo le stesse hanno acquisito il nome dello stesso continente, comune-

mente chiamate “monta americana”. Molte solo le discipline praticate tra

le quali spicca quella più diffusa, il reining. Nel centro ippico “Le Arene” di

Corropoli, oltre al reining, è possibile praticare altre discipline con la monta

americana come il reined cow horse, il cutting, il roping. Accanto a questi

sport “veloci” si possono praticare le performance Aiqh, come il western

pleasure, il western riding, il trail horse. Nel centro vibratiano, inserito in un

circuito nazionale di ottimo livello, si tengono anche concorsi ad ostacoli,

oltre a offrire agli ospiti ottimi piatti tradizionali della cucina nostrana.

Le attività praticate sono sia a carattere professionistiche che dilettan-

tistiche. Un giovanissimo cavaliere comincia a farsi strada nella difficile

disciplina del renning, dove alle qualità di destrezza nel saper dare i giusti

comandi al cavallo si uniscono anche quelle di freddezza nell’eseguire le

manovre.Il promettente giovane è Jacopo Di Giampietro di Torricella Sicura,

fresco campione interregionale (Abruzzo e Marche), nell’ambiente consi-

derato cavaliere dal sicuro futuro. In tutte le discipline sportive, il sacrificio

di sopportare la fatica e l’abnegazione sono fondamentali sia per la sem-

plice pratica che per eventuali ambizioni. Jacopo ogni mattina dalla casa di

campagna di Corropoli, si reca a piedi nel centro ippico “Le Arene”, situato

a poca distanza, per i quotidiani allenamenti in sella al fedelissimo Cutter

Baby Doc. La passione del reiner in erba è supportata dal nonno Ennio che,

oltre a tifare ovviamente per lui, accudisce i suoi cavalli perché la giovane

promessa, quando non è impegnato in gare e allenamenti, si dedica anche

a lunghe passeggiate con amici e il padre Gianfranco. Il cavallo tutti i giorni

e la domenica anche il calcio perché Jacopo tifa Teramo. Serraiocco e

gli altri idoli biancorossi hanno trovato posto tra le sue passioni: i libri sui

banchi della scuola, le cavalcate in sella a suo Cutter Baby Doc e la tastiera

del cellulare per seguire risultati e classifiche e quando può ad incitare il

diavolo sulle gradinate dello stadio di Piano d’Accio.

“Il cavallo è la mia passione e il renning è la disciplina che mi piace di

più. Insegnare le manovre al cavallo vuol dire entrare in sintonia con lui,

capire le sue peculiarità caratteriali e le capacità di cui è dotato “dichiara

il giovane reiner” e non è facile instaurare un rapporto di buon livello.

La disciplina è molto tecnica e richiede tempo e pazienza per preparare

il percorso di gara, apparentemente semplice da eseguire, in realtà irta

di tante difficoltà. Disegnare in pista dei cerchi a forma di otto,eseguire

la frenata a piedi uniti e far girare il cavallo su se stesso, sono manovre

che necessitano tanto tempo per farle apprendere al cavallo”.

Il giovane cavaliere mostra maturità e conoscenza della disciplina

promettendo, oltre a un brillante futuro in sella al millenario amico

dell’uomo, anche un avvenire importante come uomo.

Riuscire nello sport vuol dire avere a disposizione strutture idonee. Jaco-

po dispone del centro ippico “Le Arene” di Coppoli, di Alfredo Ciabattoni,

un vero gioiello per la impeccabile gestione e per la cura che denota

altrettanta passione del titolare per lo sport equestre. n

18n.92

diAntonio Parnanzone [email protected]

JacopoDi Giampietro

L’uomo e il cavallo

Una promessa nel renning

Page 19: Teramani n. 92

19

Le conchiglie sono la corazza,il guscio

calcareo di molti molluschi che vivono

nei mari tropicali e quando hanno una

particolare lucentezza iridescente

si possono usare come ornamento. Fin

dall’antichità le conchiglie possedevano un

significato simbolico importante; in Messico

erano considerate il ricettacolo del soffio

vitale, in Perù erano propizie per la pioggia

ed erano offerte in dono agli dei.

In numerose civiltà orientali anche il simbolo

della conchiglia era associato alla fecondità

e alla prosperità.

Le conchiglie fin dai tempi antichi erano

usate anche come oggetto ornamentale:

raramente venivano utilizzate nella loro

forma originale, più spesso erano lavorate a

piccole placche o a lamelle, per essere infila-

te in collane o bracciali,o per grandi pettorali

e pendenti da esibire durante le cerimonie

importanti.

Oggi le conchiglie più apprezzate sono quelle

dei molluschi perliferi, come la Pinctada

maxima e la Pinctada margaritifera che si

trovano entrambe nelle acque dell’Australia

e della Nuova Guinea. In Nuova Zelanda

invece si pescano le Aliotidi o “Orecchie di

mare” che hanno una bella madreperla blu

verde brillante e talvolta variopinta. Lo strato

di madreperla è cosi spesso che si possono

intagliare direttamente nel guscio grani per

collane.

Oggi le conchiglie si usano per bottoni di

n.92

madreperla, mosaici, manici di coltelli e altri

oggetti come scatole e pettini, tuttavia nella

storia della gioielleria non è certamente

mancato chi ha avuto l’immaginazione e l’ar-

dire di trasformare queste meraviglie della

natura in incredibili capolavori di arte orafa.

Manutenzione e cura:

Come la madreperla e le perle, anche i gioiel-

li ottenuti dalla lavorazione delle conchiglie

sono delicati e devono essere maneggiati

con cura. Si sfaldano, si possono incrinare

o rompere a contatto con altri oggetti ed

è molto difficile ripararli senza che se ne

vedano le tracce.

Le conchiglie temono gli acidi, i profumi e le

sostanze alcoliche o oleose.

Per pulirle è sufficiente con un panno delica-

to come il velluto. n

L’oggetto del desiderio

diCarmine Goderecci di Oro e Argento

Il mare dellemeraviglieLe conchiglie

Page 20: Teramani n. 92

Il Castello Della Monica è lì, già prima di esistere, celato in un posto

immaginifico della nostra anima fanciullesca, a rapirci e a trasportarci

lontano nell’onirico mondo di gnomi, elfi e spiritacci con barbe incolte

e bianche. È lì con le sue alte guglie da Gothic novels sin da quando

siamo Teramani, sin da quando respiriamo, da quando la prima volta

con la Graziella lo circumnavigammo su per Via Cavour e giù senza freni

(inibitori) per Viale Bovio. È lì perché appare a perdita d’occhio tracotante

e vanaglorioso e perché in valli e colline per chilometri non ha né fratelli

né sorelle. S’erge pretenzioso a ridosso dei Parioli teramani, unico, sac-

cente, borioso e ispido di medievale bellezza. Eppure dalle bifore t’aspetti

che una Giulietta butti giù una treccia o che dai merli rimbalzi l’eco di un

cannone o ancora che frecce sibilanti eruttate da balestre oliate oscurino

il cielo azzurro. A guardarlo dal cancello t’aspetti pure che un maniscalco

serri forte gli zoccoli dei cavalli e che quel pino, alto, maestoso, non tradi-

sca il concedere ogni giorno ombra alla maestosità medievale. Pino che

a quanto pare gli conferisce anche uno status da cartolina. Le sue linee

parlano di arditezza e fantasia in un contesto architettonico cittadino

pusillanime e senza coraggio. Una struttura che appare componibile, forse

solo perché una zingara rivelò al suo autore, Gennaro Della Monica, che

sarebbe morto il giorno in cui avesse terminato l’opera: lui, figlio di quel

Pasquale, rinomato artista neoclassico e insegnante d’arte, cercò di esor-

cizzare la sua ora fatale aggiungendo di giorno in giorno nuovi padiglioni,

impreziosendolo all’infinito, pur di non lasciare questa terra. Lo terminò

nel 1917, senza averlo completato del tutto, mentre la costruzione prese

il via nel 1889. “Pura invenzione senza alcun criterio architettonico” lo

definì lo storico d’arte Guglielmo Aurini. “Un sogno” per molti. Di leggende

sul Castello della Monica si sprecano ma quella che vuole il posto pieno di

reperti storici incastrati tra le pareti è la più gettonata.

Ora a difesa di questo pregevole monumento cittadino, attualmente in

uno stato di degrado, scendono in campo diverse figure. Il Fai ad esempio

ha chiesto la sua gestione e al contempo è sorto da poco il Comitato

civico Castello aperto volto al suo recupero e riuso. Solo poco tempo fa,

grazie al Gruppo giovani Fai di Teramo, circa 300 visitatori hanno potuto

visitare l’edificio, dando anche una sbirciata all’interno della struttura. In

quell’occasione il primo cittadino, Maurizio Brucchi, ha promesso la mas-

sima attenzione da parte dell’Amministrazione comunale. Per il recupero

definitivo occorrerebbero ancora tra le 800 mila e il milione di euro. Il

Capo delegato del Fai di Teramo, Franca Di Carlo Giannella, ha proposto di

coinvolgere il Fondo Ambiente Italiano nel recupero e, successivamente,

nella gestione del bene: un auspicio rilanciato anche dal capogruppo dei

Giovani Fai, Vincenzo Di Gennaro. A salutare l’evento con estremo favore

è il teramano Fabrizio Primoli anche se esterna qualche dubbio: “Prendo

atto con piacere della buona riuscita dell’iniziativa del Gruppo Giovani del

Fai di Teramo, devo tuttavia prendere atto del ritardo perché sono passati

più di due anni da quando ho avuto modo di proporre pubblicamente

l’affidamento del complesso Della Monica al Fai, dal momento che il

coinvolgimento di terzi è l’unica strada percorribile per recuperare questo

patrimonio architettonico”. Su una cosa Primoli non concorda, cioè sulla

quantificazione degli importi necessari per recuperare il bene: “Le cifre

necessarie sono quasi il doppio” conclude.

Per il recupero scende in campo anche il neo costituendo Comitato civico

Castello aperto. Nelle intenzioni del suo presidente Fabio Panichi c’è quella

di “promuovere ogni lecita iniziativa atta a valorizzare, recuperare, rendere

fruibile e tutelare il Borgo Medioevale di Teramo”. Le proposte avanzate da

tempo dal Comitato, che è presente anche su Facebook, per recuperare il

complesso sono: liberare l’immobile posto su Via Camillo De Lellis; aprire

da subito al pubblico i Giardini del Borgo; affidare l’intero complesso a

terzi, affinché possano occuparsi essi stessi dei lavori di recupero; prov-

vedere affinché all’interno degli edifici del Borgo Medioevale si possano

installare esercizi commerciali (le cui locazioni costituiranno reddito per

il gestore del complesso) compatibili con la vocazione del luogo, come

botteghe artigiane, caffè in stile, ristoranti con cucina tipica; e consen-

tire l’affitto di taluni locali del Borgo per eventi privati. Infine il Comitato

avrebbe intenzione di realizzare in attesa degli interventi di recupero, due

iniziative: l’allestimento in occasione delle prossime festività natalizie, con

un albero di Natale dinanzi al cancello principale del Borgo, e l’illuminazio-

ne in notturna, con impianto provvisorio e per la durata di una settimana,

la facciata principale del Castello. Sarebbe già un bel primo passo. n

Luoghi teramani20n.92

Il CastelloDella Monica può farsipiù bello

diMaurizioDi Biagio www.mauriziodibiagio.blogspot.com

Il sogno di un castello ritrovato

Page 21: Teramani n. 92
Page 22: Teramani n. 92

In giro22diSergioScacchia [email protected]

n.92

L’antica Colonna d’Ercoledel Regno di Napoli

Colonnella

A ll’alba di un mattino d’estate

l’uomo cammina sul sagrato della

chiesa.

Ha un cappellaccio bisunto, ingen-

tilito da un nastro colorato, folta barba

bianca e abbigliamento trascurato che gli

danno aria da eremita.

Mi guarda mentre dal piccolo balcone della

piazza scatto foto al sole nascente sul

mare di Alba Adriatica.

Poi preso dalla curiosità, mi chiede se di

professione sono un fotografo.

Reporter, gli rispondo, per hobby, aggiungo.

Se ne va tirando boccate da una pipa

dopo aver sbarrato gli occhi all’ombra

di cespugliose sopracciglia e a me, pare

deluso. Si aspettava forse qualche grosso

personaggio cui regalare storie del paese.

Evidentemente uno scribacchino locale

non gli dà affidamento.

Torno a scattare immagini.

Colonnella è un paese dove potresti tro-

vare a ogni angolo spunti per un servizio

fotografico.

Dall’alto del minuscolo belvedere al centro

del paese la spiaggia sembra una crea-

zione della fantasia. Prima della distesa

d’acqua la vista s’imbatte nei puntini multi-

colori delle migliaia di ombrelloni variopinti

che fanno da sfondo a un immaginario

fatto di scenografie per una varia umanità

in costume da bagno.

Volgendo lo sguardo all’altra parte, gli

occhi si riempiono della maestosità di cime

tanto amate nel Gran Sasso e nei monti

della Laga che promettono frescura e

passeggiate corroboranti.

Sotto la collina, nella valle del fiume Vibra-

ta, ferve la vita lavorativa dei campi con

vigne e ulivi e delle mille piccole fabbri-

che che fanno di questa zona, al confine

delle Marche, la parte più produttiva del

teramano.

Colonnella, uno dei paesi più belli della

provincia, è davvero come evoca il nome,

un militare con stelline a guardia di un

territorio che regala un caleidoscopio d’im-

magini di rara intensità. L’etimologia viene

forse per la sua antica posizione di “colon-

na d’Ercole” al confine dell’antico Regno di

Napoli o forse dal nome del suo feudatario

“Antichi palazzi costruitisu un’alta collina,un intreccio di viuzze e scalinate,diverse piazzette caratteristiche,un panorama incantevole, unico,l’aria salubre, fresca,questa e’ Colonnella.”

Ennio Flaiano

Page 23: Teramani n. 92

23n.92

principale che ne volle l’incastellamento.

La visita a questo paese confinante con

l’ascolano marchigiano è un nuovo, inedito

percorso d’arte, di sapori e tradizioni che

trasportano idealmente il visitatore, coin-

volgendolo e affascinandolo in tutti i sensi.

È bella non poco la piazza del Popolo

su cui prospetta la parrocchiale dei S.S.

Cipriano e Giustino. Ancor più bella la

ripida salita di via dello Statuto che porta

a Piazza Mazzini con il Torrione del secolo

XVI costruito su basamento medievale.

Colonnella da questa torre svettante con

l’orologio che riesci a vedere da ogni parte,

non si sottrae agli sguardi. Si lascia, anzi,

coccolare con i tetti, le grondaie ramate,

le vie strette, le sue improvvise vedute che

lasciano immaginare una sottile linea attra-

versante paesaggi, monti, colline, pianure

e coste.

È come essere appesi su di un filo ar-

genteo che unisce e connette un abitato

con la sua natura dolce e placida, ricca di

contrasti e contraddizioni.

Un consiglio: addentratevi nelle vie di

questo borgo incastellato regalando tem-

po e tranquillità alla vostra visita.

Ne rimarrete entusiasti! n

Page 24: Teramani n. 92

Se i giovani romani alla moda, nel periodo che va dalla metà degli

anni ’60 alla metà del decennio successivo, avevano trovato

un solido punto di riferimento nel Piper, i giovani intellettuali

trovarono il loro luogo di elezione in una cantina di Trastevere, in

via Garibaldi, denominata “Folkstudio”. Il locale, nato come studio di un

pittore afro-america-

no, Harold Bradley,

appassionato di mu-

sica popolare, diventò

ben presto, per motivi

fiscali e per evitare

accuse di “schiamazzi

notturni”, un “circolo

privato culturale

apolitico”. Nel giro di

pochi anni Bradley

tornò negli Stati Uniti,

dopo aver lasciato

l’abitudine, quasi

una moda, di ascoltare due o tre diversi artisti ogni sera, tutti legati alla

medesima idea stilistica, la musica Folk, che in Italia era praticamente

sconosciuta. Assolutamente sconosciuto era anche Robert Allan Zim-

mermann, in arte Bob Dylan, che nel 1962, all’epoca del suo primo disco,

si trovò a suonare sulla pedana del Folkstudio, davanti ad una quindicina

di distratti spettatori. Bradley fu molto importante anche perché fece

conoscere musiche di una serie di paesi, come il Brasile e l’Irlanda, e

questo insegnò al colto pubblico capitolino che la ricerca delle novità

avrebbe portato solo arricchimento culturale.

Il locale, però, aveva forse una linea artistica troppo poco definita, dal

folk americano a quello europeo, dal gospel alla musica caraibica. Tutto

ciò contribuì a far scemare l’interesse del pubblico nei confronti del

locale, favorendo la decisione di Bradley di tornare in America. Il suo

posto, al timone del Folkstudio, venne allora preso da Giancarlo Cesa-

roni, uno dei fondatori del locale, ed il logo del Folkstudio, una mano

bianca ed una nera che si stringono, è proprio il simbolo del passaggio di

consegne fra il primo ed il secondo gestore dello storico locale. Intorno

alla cantina di via Garibaldi, pian piano, si creò un gruppo di giovani

musicisti legati alle atmosfere acustiche e a quello stile emergente che

trovava proprio in Dylan il suo più conosciuto interprete. Nasceva in quel

modo quella che negli anni avrebbe preso il nome di “Scuola Romana”,

insieme piuttosto eterogeneo di nomi più o meno noti, ispiratori e com-

plici di centinaia di produzioni discografiche, che hanno fatto la fortuna

di alcune etichette, quali la RCA e la IT di Vincenzo Micocci (“Vincenzo, io

ti ammazzerò” di Alberto Fortis). I più illustri frequentatori del Folkstudio

sono stati sicuramente Francesco De Gregori ed Antonello Venditti. Il pri-

mo era stato introdotto nel locale all’età di circa sedici anni dal fratello

Luigi (ancora oggi attivo come interprete e traduttore di canzoni country

e folk americane, con il nome d’arte di Luigi Grechi).

De Gregori esordì una domenica pomeriggio sulla pedana che veniva

usata come palco, e Cesaroni commentò l’esibizione dell’emozionatissi-

mo Francesco dicendogli che se il seguente Mercoledì il suo nome fosse

comparso nella programmazione del locale, sul giornale, avrebbe potuto

suonare di nuovo. Così fu, e così iniziò la carriera di una delle più grandi

stelle della scena musicale Italiana. L’altra grande star del Folkstudio

era Antonello Venditti, che sullo sgangherato piano verticale del locale,

iniziò, circa un anno dopo De Gregori, il suo prolifico cammino artistico.

Proprio loro due, poco prima di dare alle stampe il loro disco d’esordio,

“Theorius Campus” formarono, insieme a

Giorgio Lo Cascio e ad Ernesto Bassignano, il

gruppo denominato con pochissima fantasia:

“I giovani del folk studio”, forse per distinguer-

li da quegli interpreti che già da qualche tem-

po si esibivano nello stanzone di via Garibaldi.

I più noti fra loro erano Ivan Della Mea, Gio-

vanna Marini e Paolo Pietrangeli. Le influenze

artistiche principali, ora

che il termine “apolitico”

sembrava parecchio inade-

guato, si concentravano fra

la musica folk americana

e quella italiana, tanto che

fecero diverse apparizioni

giganti del folk nostrano,

come Maria Carta, Otello

Profazio, e soprattutto

Matteo Salvatore e Il

“Duo di Piadena”. Dopo il grande successo ottenuto da De Gregori e

Venditti, l’ambiente legato al folk studio si arricchì di un gran numero di

personaggi fondamentali per la canzone d’autore italiana, e grazie allo

storico locale, che dopo la sede originaria era stato spostato in altri siti,

conobbero la loro notorietà, Mimmo Locasciulli, Stefano Rosso, Rino

Gaetano, Ivan Graziani, Sergio Caputo e Luca Barbarossa, solo per citare

i più conosciuti.

Il Folkstudio, nato come punto di incontro per giovani intellettuali roma-

ni, si è quindi trasformato, in una straordinaria fucina di talenti musicali,

senza pretese e senza grandi concessioni alle mode - creando, anzi, una

moda durata nei decenni, quella dei cantautori -.

Questa veloce retrospettiva apre uno squarcio su un mondo ormai

scomparso, su un modo di vivere e di concepire la musica che oggi

sembrano preistoria, ma che fino a pochi decenni fa ha sfornato prodotti

artistici di livello eccezionale, sperando possa a tornare, miracolosa-

mente a vivere un posto dove l’arte e la Musica possano contare più del

mercato e del business. n

Musica24 [email protected]

n.92

diFabrizio Medori

L’ ”altra” Roma musicale:il Folkstudio

Page 25: Teramani n. 92

25

Andiamo all’attualità: questa è la prima recensione dell’anno in

corso, CD pubblicato a...sorpresa, dopo circa 10 anni di inat-

tività discografica, senza clamori pubblicitari, semplicemente

annunciato dal singolo Where Are We Now (8 genn. 2013), il

full-album è uscito a marzo, finalmente! Mr. DAVID BOWIE (all’anagra-

fe David Jones, London 08/01/1947), ha ancora qualcosa (di nuovo)

da dire? Probabilmente pochi personaggi dell’establishment artistico

a 360° possono vantare simili credenziali, soprattutto dalla ‘Stampa’

e dai Mass Media in generale: il Duca Bianco, Ziggy Polvere di Stelle,

Gigolò... Qualche passo indietro, Londra anni ‘70, il giovane Bowie

si districava nella scena londinese in cerca di visibilità, vantava già

una congrua cultura generale, attratto dal teatro e dalla scuola del

mimo Lindsay Kemp, tutto dire. Mr.Jones-BOWIE evidenziava già dagli

esordi alcune peculiarità: abbigliamento sgargiante, una certa ambi-

guità... sessuale, acconciature stravaganti, atteggiamenti da poseur

ammiccanti e altro, un gruppo con solide basi musicali, The Hype (

John Cambridge e soprattutto Mick Ronson alla chitarra e produzio-

ne). Riferimento d’obbligo alle prime fasi discografiche, uno dei primi

45 giri “Space Oddity”, buone vendite e, una curiosa italian version

“Ragazzo solo, Ragazza sola”, chi non la ricorda? Intanto frequenta la

Factory di Andy Warhol, il cinema rappresenta una realtà importante

della sua carriera: Just a Gigolò, Absolute Beginners, The Elephant

Man (David Linch, stupendo!), Miriam si sveglia a Mezzanotte...

Intanto completa il primo disco: The Man Who Sold The World, mai

titolo si rivelerà più indovinato: l’Uomo che Vendette il Mondo! Il

brano omonimo era (è, ancora oggi, dopo 40 anni), una pietra miliare

del firmamento ‘pop’! Nel febbraio del 1971,l’artista britannico mette

a punto il nuovo disco-spettacolo: The Rise and Fall of Ziggy Stardust

& His Spiders from Mars (aiuto! I Marziani sono caduti sulla Terra!),

uno shock, un capolavoro musicale, visivo, di costume. Il disco

(rigorosamente in vinile, magari remastered, a 180 gr.), è (ancora)

splendido, songs memorabili (Five Years, Soul Love, Moonage Daydre-

am, Starman...), non dovrebbe mancare in nessuna discografia che si

rispetti, grande musica, il fido Mick Ronson degno comprimario (e,

non solo). Bowie intanto, è sempre più conteso dai Registi, interpreta

l’ennesimo movie, The Man Who Fell To Earth (l’Uomo caduto sulla

Terra, Nicholas Roeg), ennesimo prototipo del ‘Glam-Rock’ incarnato

da Bowie, si allarga la sfera della popolarità, David è questo, estroso,

mutante, geniale, inafferabile. La carriera prosegue, seguono dischi

come Heroes, Low, Scary Monsters, Pin Ups, Let’s Dance, Young

Americans, Station To Station... Rimarchevole la trilogia Berlinese a

cavallo degli ‘80, con le incisioni appena citate.

Nonostante qualche cenno di stanchezza, Bowie imprime la sua

particolare connotazione musicale ai vari generi che ‘attraversa’ con

grande nonchalance: glam-rock, new wave, synth-pop, dark-gothic,

neo-soul, dance...

Ma, andiamo a questa autentica sorpresa del...”Giorno dopo”. Cover

emblematica, ripresa da Heroes, foto quasi coperta da un quadrato

bianco, titolo ‘Heroes’ cancellato, autore dell’artwork è il Graphic-

Designer Jonathan Barnbrock, il poster interno, multicolorato in

stile ‘optical’ di difficile lettura, comunque elegantissimo, in palese

contrasto con il b/n dell’intero package. Il formato deluxe del titolo, è

arricchito di 3 bonus tracks, lo si può ascoltare instreaming integrale

(gratis!) su iTu-nes, corredato

com’è da video

all’altezza del

personaggio, del

resto David Bowie

è (anche) un con-

sumato attore.

Altra figura im-

portante è Tony Visconti, insieme

hanno convo-

cato i migliori

musicisti sulla

piazza, Gail Ann Dorsey, Sterling Campbell, Earl Slick e, altri

session men, si sono chiusi negli studi di registrazione e, dopo 2

anni (!), oplà! E’ nato un (quasi) capolavoro, 17 brani, lungo ma, non

estenuante e, ci fiondiamo direttamente alla traccia n° 3 “The Stars

(Are Out Tonight): Le Stelle, stanotte sono fuori: tiro irresistibile, ritmo,

voce, strumenti, grandissima musica, in quasi tutti i dischi recensiti,

la song n° 3, è la migliore del lotto, curiosa coincidenza? Un passo

indietro, il CD inizia con la title track tND, così così, segue Dirty Boys,

scura, sporca (appunto) quanto basta, di The Stars... bbiamo detto

ma, ci ritorniamo brevemente, ritmo irrefrenabile, stellare, perfetta

pop-song in 3’55”. L’Album prosegue incessante, fra episodi soste-

nuti, Love Is Lost, If You Can See Me, I’d Rather Be High, Boss On Me,

Dancing Out In Space, How Does The Grass Grow, Plan, I’ll Take You

There, e brani più medidati e rilassati, You Feel So Lonely You Could

Die, Heat, Valentine’s Day, (You Will) Set The Word On Fire. Siamo a

17, anzi 18 (nell’edizione Made in Japan!), alcuni rumors riferiscono

che ne sarebbero stati registrati addiritura...29!

Appena uscito, il disco si è posizionato ai vertici delle charts di

Belgio, Danimarca, Germania, Giappone, Norvegia, Olanda, Gran

Bretagna, Rep. Ceca, Svezia e Svizzera e, immediatamente a ridosso

della prima posizione in Italia, Spagna, Stati Uniti, Canada, Francia e

Austria, così, come dato statistico emblematico. Buon ascolto!

Voto: 7 1/2 n

n.92

Write about... the records!

diMaurizio Carbone [email protected]

The next day David BowieCD - de luxe editionsiso/columbia/sonymusic, 2013

Page 26: Teramani n. 92

Nello spazio, silente, la macchina da presa si avvicina a noi,

allontanandosi ancor più dall’immagine della Terra, già remota. Il

movimento si identifica con l’orbitante Hubble Space Telescope

che procede verso lo spettatore,

suo controcampo fuoricampo. Una strana

soggettiva rovesciata: è la solitudine dello

spazio a invaderci. In tal modo, il muoversi

danzante di un corpo, fuscello a gravità

zero, che poi diventano due e tre corpi, for-

se quattro con la virtuale voce a distanza di

chi controlla la missione spaziale dalla ter-

ra, unisce tutti: voci, corpi, spettatori, attori

e macchina da presa. Anche quest’ultima

fluttuante e ruotante, come in un mare

senz’acqua, nel quale i nostri occhi nuota-

no upside down, a seguire i capovolgimenti

dei protagonisti, girotondi umani, metafore

di uno spazio dove non esiste né sopra né

sotto. Visione nitida del tempo abolito e so-

speso (anche attraverso il piano-sequenza,

lunghissimo, con cui si apre il film), frazione

del nulla. La danza dell’assenza di peso

unisce e separa i corpi con inaudita facilità,

abolendo divisioni ma pure stabilità, il tutto

divenuto nulla. «È da cagarsi sotto quando

le cose non sono legate».

La science-fiction contemporanea deve

necessariamente fare i conti con un futuro

già arrivato: non l’outer del passato avve-

niristico ma l’inner del presente immobile

è al centro della sua ispirazione visiva e

concettuale. La battuta chiave di Gravity è «It’s time to go home», una

sorta di chiusura per assurdo del cerchio di quel remoto, individualistico

«E.T. home phone» che definì sin troppo bene gli anni ’80. Si tratta an-

cora dell’alien in noi, essere solitario lost in space alla disperata ricerca

di un contact, innanzitutto tra me e me, stavolta però per ritrovare l’e-

sterno. Lo spazio del film di Alfonso Cuarón, da sempre interessato alla

auto-ricostruzione o definizione degli esseri umani (sin dall’esordio di

Solo con tu pareja, 1991) si rivela quindi un cyber-spazio 2013 tutto alla

Cinema

deriva, un terreno minato di lacerti di un passato dissoltosi nell’irreale

simultaneità di un terminale post-moderno. Una casa parallela da cui

fuggire, per ricostituire quella originaria.

Sci-fi da camera, interiorizzata, sia pure nella vastità del cielo che la

contiene, esclusivamente basata (dopo poco più di mezz’ora) sulla

performance di un(a) one (wo)man band, la dottoressa Ryan, specialista

alla sua prima missione, e da salvare (salvarsi da sola) come l’omonimo

soldato emblema di Spielberg. Omaggio alle celebri odissee nello spazio,

2001 e 2002, Kubrick e Douglas Trumbull, ricomprese nell’uso parco del

sound (lo spazio è silenzioso), niente a che fare con la pomposità reto-

rica delle colonne sonore da blockbuster. Nella scarna messa in fabula

dove ogni rotondità di narrazione viene schiacciata da una prospettiva

sferica corrispondente a una semplicità primordiale, ogni elemento

perde spessore (gravità) ponendosi come unità non separata.

Non a caso, corpi e volti sexy dei due attori-star risultano annullati dalle

stelle della volta celeste, un tutto indistinguibile. Sandra Bullock (Ryan) e

George Clooney (il comandante Matthew, all’ultima mission prima della

pensione) sono altresì anonimizzati dalle tute spaziali, il loro costitu-

isce un vagare indistinto da quello del terzo corpo di Shariff (Phaldut

Sharma) di cui per un attimo ascoltiamo

la voce. Udiamo parlare (almeno nella ver-

sione originale) pure Ed Harris (Houston), il

quarto uomo dalla Terra, epitome dell’era,

senza più identità e persona (corpo), detta

dal film. Quando, insieme a Ryan, vedremo

Shariff in faccia, sia pure protetto dal casco

che nega la viseità, tranne che nei primi

piani, pure agli altri due, il volto non lo ha

più, trafitto dalle scaglie di detriti di una

stazione spaziale russa distrutta, che a sua

volta distrugge shuttle e satelliti a cui sono

attaccati, come a un cordone ombelicale,

gli eroi leggeri del film. Resta una foto di

famiglia, lui con moglie e figlio, amarcord

dalla Terra.

E dal pianeta più arrogante, con lo stesso

metodo de-composto, autentica dramma-

turgia “magra” di un’esplosione interiore

avvenuta, sono riconoscibili, tra gli interni o

gli esterni delle stazioni spaziali (americana,

russa o cinese, tre mondi senza distinzio-

ne), l’icona di Budda e Gesù, un fotogram-

ma del Voyage sur la lune (1902) di Méliès

(ricordato pure nel tuffo finale), pezzi di

scacchiera (per giocare con la Morte?) e

racchetta e pallina da ping pong. Anche

(siamo in casa Warner) Marvin il marziano,

looney tune spazzata via dalle meteoriti. Cartoni animati e corpi, sport e

religioni, fiction e realtà, tutto omologato.

Sembrano cartoline decontestualizzate eppur eloquenti di un social

network (citato Facebook quando il satellite finisce in pezzi) e, piuttosto

che una conversazione, o un rapporto, quello tra Matt e Ryan, si direbbe

una chattata. Non sanno niente l’uno dell’altra, lui fa il piacione, chiede

della vita di lei, che racconta di sé come probabilmente in nessun altro,

reale, contesto. Le albe sulla Terra diventano un ricordo, una testimo-

26

La gravitàdella tomba

diLeonardoPersia [email protected]

n.92

Gravity sul grave del nostro tempo

Page 27: Teramani n. 92

27

nianza a distanza (virtuale). Proprio al pari

di un contatto da web, il nome da uomo di

Ryan nasconde una donna, si parla (tutti e

due) di occhi azzurri che invece sono marroni,

il racconto delle proprie tragedie personali

comincia ad affiorare, intimità della distanza.

Seguendo quest’ottica, anche il cognome di

Matt, Kowalski, potrebbe essere un nickname

(in onore a Marlon Brando o Tennessee

Williams). Ryan si chiama così, invece, perché

il padre voleva un maschio, non ha compagno

che l’aspetti sulla Terra, è rimasta irrigidita e

pietrificata (Stone il cognome) dopo la morte

della figlia di quattro anni. Ecco che il termine

gravity chiama a sé grave, la tomba. Ed è

impossibile non pensare alla gravità (pesan-

tezza) della nostra condizione umana, oltre a

quella di Ryan, rimasta improvvisamente sola

nello spazio.

La sua solitudine è la chiave di volta del rac-

conto. Paradossale, perché la donna ha perso

il proprio peso (specifico) proprio per essere

divenuta greve, per essersi fatta pietra. Quella

figlia morta è un rovescio simbolico della sua

condizione di non nata. Il personaggio di Matt

è (ugualmente in senso psicanalitico, junghia-

no) l’uomo da sé estirpato, conferma una

condizione di mutilazione. L’altro paradosso

sta nel fatto che, proprio quando il maschio

sparisce, Ryan lo ritrovi in sé, sotto forma di

visione e slancio, puro fuoco interiore. James

Cameron (che difatti ha elogiato molto il film)

non è tanto lontano, sia nella progressiva

virilizzazione dell’eroina che nelle implica-

zioni avatariane della rete. Soprattutto per la

duplicità, tipica dei simboli, delle situazioni.

L’ululato da cane di Ryan, per esempio, è un

ulteriore sprofondare nell’annullamento, ulti-

mo gradino prima della resurrezione, oppure il

divenire-intenso, divenire-animale, divenire-

impercettibile di cui parlava Deleuze?

Quello spazio virtuale e critico risulta asettico

e fertile allo stesso tempo. I detriti da satellite

colpito da missile richiamano alla mente

molesti spermatozoi che penetrano nella

vita frigida della protagonista e non mancano

neppure i

parti metafo-

rici, l’entrare

e uscire da

pertugi sim-

bolici, come

altrettanto

presenti sono

le riparazioni/

operazioni chi-

rurgiche (Ryan

è in primis

un medico), con tanto di cordoni ombelicali

(satellitari) recisi e sacchi di placenta ambu-

lanti. Se dal 3D si passa al 4D, tutto diventa

chiaro. Si capisce il preludio alla riconquista,

didascalica e in stile Shyamalan, dei quattro

elementi naturali. Quando la donna risale su,

scendendo giù (alla lettera), una rana nuotan-

te rappresenta l’umido della vita contrappo-

sto all’arido del morire (o del vivere senza

n.92

vivere, condizione assai comune). Lo spazio

anfibio ritrovato.

Ryan recupera l’aria (dopo essersi tolta

l’uniforme e ri-postasi in posizione fetale)

e, appunto, il fuoco (reale e metaforico) e

l’acqua (anche per via di una lacrima che

sfoca tutto lo sfondo e riempie lo schermo,

come definitissima particella di saggezza

ritrovata, di scioglimento necessario). Infine

la Terra, approdo inevitabile, con il contatto

non più virtuale, segnato da quella mano che

penetra nella sabbia. «La vita nello spazio è

impossibile» recita la didascalia iniziale. Per

questo, era ora di tornare a casa. Adesso lo

sguardo è smarrito, impaurito, umano. La sor-

presa di ritrovarsi viva. Con fatica, la vediamo

rimettersi in piedi e andare avanti. Ci guarda

e guarda, di nuovo si crea una soggettiva

inversa e plurima che implica lo sguardo dello

spettatore e lo chiama di nuovo in causa. Lei

è nata di nuovo. E noi? n

Page 28: Teramani n. 92

L’era Vivarini comincia bene.

L’entusiasmante finale

dello scorso campionato

poteva mettere in ombra

la nuova gestione tecnica. Il bel

ricordo della mancata promo-

zione, invece, ha lasciato il posto

ad un brillante inizio di stagione. A rendere ancor più interessante il primo

scorcio di stagione ci ha pensato il Cosenza dell’ex Cappellacci. Un duello

a distanza che alla vigilia di Natale, se le due squadre dovessero continua-

re con lo stesso passo, potrebbe regalare ai tifosi biancorossi una sfida

inattesa e piena di significato. I goal di Dimas, la collaudata difesa della

formidabile coppia centrale Ferrani - Speranza e del paziente Caidi pronto

a sostituire uno dei due, la certezza di Scipioni, l’affermazione definitiva

di Di Paolantonio, i giovani Pacini, Lulli, Petrella, Serraiocco e così via tutti

gli altri, hanno fatto della formazione guidata da Vivarini un collettivo che

gioca bene e sa vincere su qualsiasi campo, magari non sempre, ma senza

subire l’avversario. Proprio quest’ultimo aspetto è la qualità migliore di una

28n.92

diAntonio Parnanzone [email protected]

L’era Vivarini comincia bene

Calcio

Recentemente, nella nostra terra d’A-

bruzzo, nel territorio teramano, abbiamo

accolto Mark Kostaby, un poliedrico

artista, pittore , musicista, un esponente im-

portante nell’arte contemporanea, presente,

a Montorio, con una sua mostra pittorica ed

un concerto all’evento “La Vetrina del Parco”.

Kostaby, artista della Pop Art, nato in Califor-

nia e trasferitosi, dopo gli studi artistici alla

“California State University“, a New York negli

anni ’80, conquistò ben presto il successo a

livello internazionale: dagli Stati Uniti, Giappo-

ne, Australia,fino all’Europa. Nelle sue opere,

attraverso un linguaggio universale, partendo

dalle figure umane che assurgono sempre più

tratti schematici, in un tripudio di colori , rie-

sce a catturare la sensibilità e ad emozionare

quanti si appassionano alla sua arte.

I Mass Media se lo contendono, grazie alla

sua disponibilità, chiarezza nella comunica-

zione , semplicità e nell’aiuto offerto ai giova-

ni artisti. I suoi insegnamenti per arrivare al

successo sembrano facilmente perseguibili,

ma nascondono anni di impegno, fatica, step

by step, sacrifici, grande passione e creatività

artistica.

Tra i suoi consigli ai giovani artisti : vivere

e lavorare a New York, Londra o Berlino…,

non parlare di sé, lasciando il proprio ego

a casa, ma ascoltare gli altri, non lamen-

tarsi, essere educati, credere nelle proprie

capacità, frequentare i galleristi, i luoghi,

gli eventi artistici, conoscere persone ed

interessarsi agli altri, costruirsi una propria

storia, conoscere artisti famosi, saper

vendere le propria produzione artistica ed

infine formare bravi artisti che sappiano

lavorare nello studio del maestro. n

MarkKostaby

Arte varia di Floriana Ferrari

Pillole per il successo artistico

squadra che gioca con personalità e autorevolezza. Anche quando l’equili-

brio tiene teso il filo conduttore dell’incontro, trova lo spunto per risolvere

a proprio favore il match. Qualità importanti che dovrebbe consentire

al Teramo di accedere alla terza serie nazionale unica nella stagione

2014/2015. E’ ancora presto per dire se il Teramo è veramente grande e se

l’ampia rosa potrà reggere al logorio di una stagione altamente agonistica

che gli organi federali hanno proposto per l’assestamento della catego-

ria. Per scivolare nel baratro basta poco. Il nono posto, in altre stagioni

sinonimo di tranquillità in una posizione di centro classifica, significa

intravedere la serie inferiore e se poi le cose dovessero andare un pochino

peggio, diventa certezza il ritorno nei dilettanti. C’è piena consapevolezza

dei rischi che l’annata propone, ma non bisogna demordere di fronte alle

difficoltà. Lo staff tecnico, la società e i calciatori, uniti come non mai,

stanno dando prova che quando

si vuole raggiungere un obiettivo

la forza di volontà e le capacità

di ciascuno conducono nella

direzione giusta. D’altra parte non

possono riconoscersi i meriti del

D.S. Di Giuseppe per i successi

del recente passato e quelli dello

stesso Vivarini che sta conducen-

do, con saggezza e competenza,

un gruppo di ragazzi bravi e volenterosi, da quelli che giocano più spesso a

quelli che devono accontentarsi di starsene seduti sulla panchina o addirit-

tura sulle gradinate della tribuna. E le avversarie? le più titolate (Casertana,

Messina, Foggia) non brillanto, ma c’è da aspettarsi l’ascesa nelle zone alte

della classifica nel prossimo futuro. Bene, invece, Melfi e Vigor Lamezia,

benissimo il Cosenza di mister Cappellacci. I giochi sono appena iniziati,

per cui la sfida per la conquista delle posizioni che contano deve ancora

entrare nel vivo. Il futuro, pertanto, riserverà grande interesse. n

Page 29: Teramani n. 92
Page 30: Teramani n. 92

C ampionato iniziato in maniera entusiasmante e superiore ad

ogni più rosea aspettativa per la Teknoelettronica Teramo.

Dopo aver perso la prima gara casalinga piuttosto nettamen-

te con il Carpi, tra le candidate ai primi posti della classifica

finale, la compagine teramana ha inanellato quattro successi con-

secutivi, due dei quali in trasferta a Bologna e Pisa. Le vittorie sul

terreno di casa sono state conseguite contro squadre titolate tra le

quali l’Ambra Prato, sovvertendo ogni pronostico. Ora, la squadra

teramana occupa il primo posto in classifica generale insieme a

Carpi e la stessa Ambra Prato degli ex Pierluigi Di Marcello e del

lituano Raupenas, anche se con una partita in più. Alla luce dei

risultati fin adesso ottenuti e delle belle prestazioni di squadra, il

Sport30 dallaRedazione [email protected]

n.92

Pallamanosogno di

centrare

i play off

sembra

raggiungibi-

le fermo re-

stando che

l’obiettivo

principale

resta quello

della sal-

vezza.

In campo femminile, la squadra allenata da Franco Chionchio,

dopo l’esordio di Salerno perso con appena una rete di differenza

e dopo aver cullato a lungo il conseguimento di una clamorosa

affermazione, ha fatto registrare la brutta sconfitta casalinga contro

il Mestrino, evidenziando quanto difficile sarà il suo cammino nel

corso del campionato.

Queste due iniziali sconfitte hanno consigliato la società teramana

di tornare sul mercato, cercando di aggiungere almeno una gioca-

trice di valore al già nutrito organico e che consenta un cammino

più rassicurante e tranquillo. n

Maschile e femminile

Page 31: Teramani n. 92

64021 Giulianova (Te) c.so Garibaldi, 6564100 Teramo (Te) via Vincenzo Irelli, 31 - c/o Obiettivo CasaTel: 085 8001111 - 085 8007651 Fax: 085 [email protected] - www.juliaservizi.it

Il risparmio sul gas metano.JULIA SERVIZI PIÙgestione vendita gas metano

È arrivata la tuanuova vicina di casa.

Risparmia subito il 10%sulla bolletta del gas metano.

Page 32: Teramani n. 92

Via Po 19, TeramoTel. 0861 213901

IL DESIGN HA TROVATO CASAA TERAMO

Nuova apertura sabato 9 novembre dalle 16:00