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Macbeth Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom L ’ ambizione del mio amore piaga dunque se stessa: la cerva che vorrebbe accoppiarsi con il leone deve pur morire d’amore. William ^ ^ C D Tutto è bene quel che finisce bene Estratto della pubblicazione

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Page 1: Tutto è bene quel che finisce bene · 2018. 4. 12. · Forse Shakespeare ammirò l’amara ironia johnsoniana di «scagionato e lasciato libero di godersi la felicità». Tutto è

Macbeth

Cura e introduzione di Gabriele Baldini

Con un testo di Harold Bloom

L ’ ambizione del mio amore piaga dunque se stessa: la cerva che vorrebbe

accoppiarsi con il leone deve pur morire d’amore.

William

C D

Tutto è benequel che

finisce bene

Estratto della pubblicazione

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Opere

William

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Gabriele Baldini (Roma, 1919-1969), saggista, traduttore, critico

letterario e cinematografico, è stato direttore dell’Istituto Italiano di

Cultura a Londra e docente di Letteratura inglese a Roma.

La sua fama, in Italia e all’estero, è legata ai suoi meriti accademici

in anglistica e americanistica: dai suoi studi sono nati saggi di rilie-

vo, come Poeti Americani 1662-1945, Melville o le ambiguità, John Webster e il linguaggio della tragedia. È stato il primo curatore di

una rigorosa edizione dell’intero corpo degli scritti di Shakespeare,

in tre volumi: Opere Complete nuovamente tradotte e annotate

(Classici Rizzoli, 1963). Fanno ancora scuola la sua storia del teatro

inglese – Teatro inglese della Restaurazione e del ’700, La tradizio-ne letteraria dell’Inghilterra medioevale, Il dramma elisabettiano –,

le sue lezioni su Le tragedie di Shakespeare e il fortunatissimo Ma-nualetto shakespeariano.

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Williamz z

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WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE

Edizione speciale su licenza per Corriere della Sera

© 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano

Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli

ISBN 97888

Proprietà letteraria riservata

© 1963-2012 RCS Libri S.p.A., Milano

Titolo originale dell’opera:

Traduzione di Gabriele Baldini

Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

via Sol erino 28, 20121 Milano

Sede Legale via Rizzoli 8, 20132 Milano

f

61261

Prima edizione digitale da edizione LLIAM SHA ESPEARE - OPERE WI2012 2012K

e note

23 – Tutto è bene quel che finisce bene

600

All’s Well That Ends Well

Per il testo di Harold Bloom

© 2012 RCS Libri S.p.A., Milano

Tratto da Shakespeare: the Invention of the Human© 1998 by Harold Bloom

Traduzione di Roberta Zuppet

Estratto della pubblicazione

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PRESENTAZIONEdi Harold Bloom

Rispetto ai suoi effettivi meriti drammatici e letterari, Tutto è bene quel che finisce bene resta la commedia shakespeariana più sottovalutata, soprattutto in confronto a opere giovanili come I due gentiluomini di Verona e La bisbetica domata. Ho assistito a una sola produzione di Tutto è bene quel che finisce bene, e il dramma continua, ahimè, la sua lunga storia di im-popolarità, perciò è improbabile che ne veda altre versioni. Fondamentalmente, pare che quest’opera sia stata fraintesa dall’epoca di Samuel Johnson, il maestro dei critici shake-speariani, fino ai giorni nostri. Come il dottor Johnson, non sopportiamo Bertram, il giovane mascalzone aristocratico di cui è inequivocabilmente innamorata la mirabile Elena. Questa non è l’unica relazione impari in Shakespeare, le cui donne scelgono generalmente uomini che non sono alla loro altezza, ma sembra la scelta d’oggetto più irritante di tutti i drammi shakespeariani. Bertram non ha alcuna qua-lità positiva, e definirlo un moccioso viziato non è affatto anacronistico. Il dottor Johnson si infuriò soprattutto per il lieto fine, in cui Bertram si adatta a una presunta felicità domestica:

Non riesco a riconciliare il mio cuore con Bertram, un uomo nobile senza generosità e giovane senza sincerità; che sposa Elena da codardo e la lascia da dissoluto; quando ella muore a causa della sua crudeltà, egli cerca di rifugiarsi in un secon-do matrimonio, viene accusato da una donna che ha trattato ingiustamente, si difende con la menzogna e viene scagionato e lasciato libero di godersi la felicità.

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Forse Shakespeare ammirò l’amara ironia johnsoniana di «scagionato e lasciato libero di godersi la felicità». Tutto è be-ne quel che finisce bene è, nonostante la sua eleganza, astioso quanto Troilo e Cressida e Misura per misura; persino il titolo del dramma contiene un’amarezza sofisticata. Poiché Ber-tram non è altro che uno snob sciocco, l’interesse dell’ope-ra si concentra su Elena e su Parolles, il finto soldato il cui nome significa, appunto, «parole» e che viene demolito più nell’ottica morale di Ben Jonson che in quella di Shakespeare. Molti critici hanno stroncato Parolles, ma non riesco a capire il perché; è uno splendido briccone, trasparente per chiunque abbia un po’ di buonsenso, ma Bertram non rientra in questa categoria. I ruoli di Parolles e di Elena sono i più impor-tanti del dramma. L’unica cosa che un regista potrebbe fare con Bertram è presentarlo come un Clark Gable immaturo, la soluzione adottata da Trevor Nunn per la produzione cui ho accennato all’inizio. In Shakespeare, gli uomini giovani e antipatici non mancano; Bertram, essendo un personaggio vuoto, è veramente detestabile.

Yeats, lagnandosi che la sua amata Maud Gonne aveva de-ciso di sposare il maggiore MacBride quando avrebbe potuto avere lui, sancì il principio shakespeariano riguardante le don-ne intelligenti che scelgono uomini spaventosi o insignificanti:

È certo che le donne raffinate mangianoun’insalata sghemba insieme alla carnein modo che il corno dell’abbondanza vada distrutto.

Poiché tutti noi conosciamo esempi lampanti di coppie shake-speariane mal assortite, dovremmo essere lieti di rivolgerci al drammaturgo per avere qualche illuminazione sull’«insalata sghemba». Porzia si accontenta di Bassanio, un cercatore di fortuna amabile e perfettamente inutile, forse perché così si prende implicitamente una rivincita sul suo strambo padre, che le ha imposto il rituale degli scrigni, quando afferma:

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Ohimè, la parola «scegliere»! Io non posso né scegliere chi vorrei, né rifiutare chi mi spiace; tale è la volontà d’una figlia viva, imbrigliata dall’ultime volontà d’un padre morto.

[Il mercante di Venezia, I.ii.22-25]

Julia, nei Due gentiluomini di Verona, è follemente innamo-rata di Proteus, ma un amante proteiforme ha tante sfaccet-tature che anche una donna molto più saggia potrebbe com-mettere lo stesso errore. Ero, in Molto strepito per nulla, sposa l’inetto Claudio, ma è semplicemente troppo giovane per sapere che lui non ha nulla da offrirle. Nella Dodicesima notte Shakespeare abbandona ogni freno: l’incantevole ma sciocca Viola è affascinata dall’assurdo Orsino, mentre Olivia si ac-caparra Sebastiano solo perché è il gemello di Viola; essendo sciocco quanto sua sorella, lui è lieto di lasciarsi divorare in questo modo. Elena è chiaramente un altro paio di maniche, e la sua passione tardoromantica per Bertram sembra sia un vertice ironico degli accoppiamenti comici di Shakespeare sia qualcosa di quasi keatsiano:

Nella mia memoria sa restare impresso più soltanto il volto di Bertram. E son perduta. Non riuscirò a vivere, no, in nessun modo, se Bertram resterà lontano. Eppure, egli è tanto superiore a me che sarebbe come s’io amassi una certa stella di particolare splendore e mi pensassi mai di sposarla. Debbo contentarmi del conforto che posso trovare nel suo pur luminoso riverbero e nella sua luce collaterale, e non pensare mai d’attingere quello della sua sfera? L’ambizione del mio amore piaga dunque se stessa: la cerva che vorrebbe accoppiarsi con il leone deve pur morire d’amore. Era bello, sebbene fosse anche dolorosissimo, vederlo qui ogni ora e, sedendo dinanzi a lui, venir disegnando sulla tavola del mio cuore l’arco delle sue sopracciglia, i suoi occhi di falco e le sue chiome inanellate.

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Un cuore troppo impressionabile, il mio, per ogni linea ed ogni tratto o capriccio di quel suo dolce viso! Ma ora ch’è partito, al mio amore idolatra non son lasciate da adorare altro che delle reliquie.

[I.i.80-96]

Il grande sonetto finale di Keats, «Se fossi costante come te, fulgida stella», echeggia la devozione di Elena a «una certa stella di particolare splendore», e si può dire che il pathos della poesia di Keats colga l’ironia di Shakespeare. Qui, tuttavia, le ironie di Elena sono rivolte solo contro il suo «amore idolatra», contro la sua adorazione petrarchesca per il giovane aristocratico con cui è cresciuta. Per «memoria» (imagination) e «amore» (fancy) Elena e Shakespeare inten-dono entrambi una facoltà negativa, una qualità volutamen-te autoingannevole.

Shakespeare fa in modo che ci commuoviamo (come si commosse Keats) davanti alla capacità di amare propria di Elena, anche se ci rendiamo conto che questa splendida donna ha mangiato un’insalata sghemba insieme alla carne. Bertram è «superiore» a Elena dal punto di vista dello status sociale e forse anche della bellezza fisica; per il resto, lei è la «stella di particolare splendore» e lui è solo leggermente migliore di Parolles, perché gli unici successi di Bertram sono militari, mentre Parolles è un semplice miles gloriosus, un impostore, un bugiardo e una sanguisuga, assai più inte-ressante di Bertram, le cui sole occupazioni sono la guerra e le prostitute. La domanda iniziale di Tutto è bene quel che finisce bene è dunque: come può Elena commettere un erro-re così madornale? Si può giustificare il suo giudizio erroneo solo affermando che Bertram è immaturo e che cambierà, ma Shakespeare fa prevedere il contrario: questo mascal-zone viziato diventerà ancora più mostruoso nonostante la madre, la moglie e il re; anzi, quasi per fare dispetto a loro. La caparbia Elena trionfa, ma solo a proprie spese, come il pubblico è sicuramente indotto a concludere. Con la sua

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misteriosa capacità di rappresentare le donne in modo con-vincente almeno quanto gli uomini, Shakespeare trasforma la domanda precedente in un quesito molto più affascinan-te: chi è Elena?

Scopriamo molti dettagli sul suo compianto padre, un medico illustre e un amico del re, ma non ricordo riferimen-ti alla sua vera madre all’interno dell’opera. La contessa, la madre di Bertram, ha cresciuto Elena come figlia adottiva, e l’amore tra le due donne è il sentimento più ammirevo-le del dramma. Shakespeare non esita a eliminare i genitori quando sono irrilevanti per i suoi scopi. Non sappiamo nulla della madre di Goneril, Regan e Cordelia, quasi come se la regina di Lear fosse insignificante quanto il primo marito di Lady Macbeth o la madre di Iago (si suppone che persino lui ne abbia avuta una). Non intendo assecondare i formalisti e i materialisti facendo congetture sull’infanzia di Elena, né tantomeno su quella di Iago, ma è importante notare l’amo-re di Elena per la vecchia contessa di Rossillion, protettrice della fanciulla orfana. Freud, shakespeariano anche in questo, divide le scelte d’oggetto in due tipi – narcisistiche e per ap-poggio –, e la scelta di Elena nei confronti di Bertram rientra chiaramente in entrambe le categorie. Sul piano narcisistico, Bertram, un compagno di giochi infantile, è ciò che Elena desiderava essere, la vera figlia della propria madre adottiva, mentre nella modalità di appoggio Bertram avrebbe simbo-leggiato entrambi i padri perduti, il proprio e quello di Elena. L’amore di Elena è dunque sovradeterminato in una misura insolita persino per la produzione shakespeariana, dove assi-stiamo sempre alla contingenza della passione sessuale. Non importa chi sia Bertram interiormente o cosa faccia: Elena non può far altro che amarlo.

Dovremmo quindi cominciare a interpretare Tutto è bene quel che finisce bene rendendoci conto che il giudizio di Elena non è giusto o sbagliato; anzi, non si tratta affatto di una questione di giudizio. Elena resterà innamorata di Bertram

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fino alla fine dei suoi giorni, perché questa è la sua identità, ciò che questa donna è sempre stata. Shakespeare, che con tutta probabilità era infelicemente sposato, ci dimostra che il matrimonio non è questione di scelta. Mi diverto sempre a spiegare ai miei studenti che il matrimonio più felice della produzione shakespeariana è quello di Macbeth e Lady Mac-beth, un coppia davvero ben assortita. Perché Otello e De-sdemona si sposano, dando luogo a un’unione disastrosa che offre a Iago la sua terribile opportunità? Non siamo in grado di dare una risposta univoca a questa domanda più di quanto siamo in grado di scegliere tra i tanti motivi della sua malva-gità. Sembra manchi qualcosa nella descrizione che Otello e Desdemona fanno del loro amore, ma quel qualcosa è fonda-mentale per la natura del matrimonio, la più peculiare delle istituzioni umane, sia dentro sia fuori dalle opere shakespea-riane. Il matrimonio, sottintende sempre il drammaturgo, è dove siamo scritti, non dove scriviamo.

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Non serve a niente confrontare Parolles con Falstaff, sovra-no dell’arguzia e della libertà, benché molti critici cadano in questo errore. Il magnifico Falstaff è più grande dei drammi dell’Enrico IV e si avvicina più di qualsiasi altro personaggio alla rappresentazione del centro vitale di Shakespeare come individuo. Parolles, che non è un cosmo come Falstaff, è il centro spirituale di Tutto è bene quel che finisce bene, l’em-blema dell’astiosità nascosta sotto la facciata elegante del dramma. Il rancore dell’opera è condensato nel giuramento di Parolles, che si ripromette di sopravvivere dopo lo sma-scheramento e la rovina:

Nonostante tutto, sento in me come un moto di gratitudine: se il mio animo fosse davvero nobile,

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il mio cuore scoppierebbe dopo quel che m’è accaduto. Capitano non lo sarò più, ma voglio mangiare e bere e dormire di gusto quant’altri mai che abbiano il grado di capitano. Basterà la cosa che sono a farmi vivere. Chi si conosce per un millantatore, abbia pur tema di questo: che cioè prima o poi ogni millantatore sarà riconosciuto per somaro! Arrugginisci pure, o spada. Raffreddatevi pure, o rossori! E tu, Parolles, vivi anche più sicuro nella tua corazza di vergogna! Dal momento che han fatto di me un buffone, ch’io possa prosperare per virtù delle mie buffonate. C’è posto per tutti, e qualche risorsa non vien mai meno a chi vive sotto le stelle. Ed io andrò in cerca e dell’uno e dell’altra.

[IV.iii.319-29]

Trasaliamo all’udire «basterà la cosa che sono / a farmi vi-vere», ma non riusciamo a contestare queste parole. «Do-ve si trova colui che sa uscire indenne da un tranello?» ha domandato Parolles poco prima, e forse anche questo ci fa sussultare. Nel contesto, «c’è posto per tutti, e qualche risor-sa non vien mai meno a chi vive sotto le stelle» ha un’aura particolare, che può farci rabbrividire a sua volta. Nella sua rovina, Parolles non suscita la nostra simpatia, bensì amplia la portata della possibile identità con noi. Forse non siamo milites gloriosi, codardi e logorroici, ma siamo tutti accomu-nati dalla terribile paura del disonore e della destituzione, di fallire come l’Abishag di Robert Frost o come Parolles. Il monito frostiano «Premunitevi, premunitevi» è pronunciato nello stesso spirito della battuta di Parolles: «Ed io andrò in cerca e dell’uno e dell’altra».

Ma allora perché Parolles ed Elena sono nello stesso dram-ma? Anzi, perché lo condividono come antagonisti, seppur non troppo poderosi? Il loro legame è costituito da Bertram, le cui colpe non si possono imputare a Parolles, perché il pro-tagonista non migliora dopo lo smascheramento del soldato.

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Se Parolles non fosse esistito, Bertram avrebbe frequentato un altro tirapiedi, un altro furfante adulatorio. L’unico elemento autentico in Bertram è il desiderio di gloria militare, poiché anche le sue conquiste femminili sembrano più un attribu-to secondario delle sue aspirazioni belliche che una ricerca autonoma. Alcuni difensori di questo personaggio cercano di considerarlo una vittima del parassita Parolles, ma si trat-ta di una tesi infondata. Parolles non compare nel dramma come angelo nero di Bertram; rappresenta piuttosto ciò che Shakespeare ha sempre detestato: la negligenza, la raffinatezza fasulla e opportunista, il falso coraggio, la sfera della men-zogna. Ciò che è singolare e importante in Parolles è la sua trasparenza; nel dramma, ogni persona di buona volontà in-dovina subito le sue intenzioni. La cecità di Bertram è indice di indegnità ed è affine alla sua avversione nei confronti di Elena, che deve risalire alla loro infanzia condivisa. Noi tutti abbiamo conosciuto uno o due Parolles; a stupirci è ancora una volta la tolleranza di Shakespeare verso questo furfante logorroico, il cui survivalismo abietto ma tenace è accettabile per il drammaturgo e diventa addirittura fondamentale nel-la distruzione di Bertram e nel trionfo di Elena. Parolles e, in modo assai più complesso, Elena sono indispensabili per comprendere il messaggio più poderoso e impercettibile di Tutto è bene quel che finisce bene, una visione pessimistica del-la natura umana, che è anche molto tollerante nei confronti del pessimismo. È come se Shakespeare, con uno sforzo di volontà, si tenesse lontano dagli abissi nichilistici di Troilo e Cressida e di Misura per misura, ma solo al prezzo di attribuire la maggior parte del valore a una generazione avanti negli anni – il re, la contessa, Lafeu, il clown Lavatch – e a Elena come ritorno ai loro principi. Assecondando il vecchio ordi-ne, Shakespeare ci offre una possibile saggezza, chiaramente espressa all’interno del dramma dall’osservazione in prosa di un signore francese:

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La trama della nostra vita è intessuta di fili di materiale mi-sto: e c’è il buono e c’è il cattivo. Le nostre virtù montereb-bero troppo in superbia se non ci fossero, sempre pronti, i nostri vizi a sferzarle; così come i nostri malpassi ci condur-rebbero alla disperazione se non fossero un poco consolati dalle nostre virtù.

[IV.iii.68-71]

Poche frasi in lingua inglese sono più ingegnose o, alla fine, più sconcertanti di questa. Non ci sono fili di materiale mi-sto nella trama di Bertram o di Parolles; l’osservazione riguar-da Elena, come surrogato del pubblico. Molto ammirata da George Bernard Shaw per le sue caratteristiche di donna ag-gressiva e post-ibseniana, Elena ha poco senso dell’umorismo, e dunque non è molto shawiana. È davvero formidabile, anzi quasi monomaniacale nella sua fissazione per la scintillante vuotezza di Bertram. Poiché la sua prepotenza nel conquistar-lo è così irriverente, possiamo domandarci perché non pro-viamo compassione per lui benché la sua scelta sia imposta dall’alleanza di Elena con il re, che semplicemente lo costringe ad accettare un matrimonio combinato. Dal punto di vista umano, Bertram subisce un enorme torto; è il premio scelto da Elena come ricompensa fiabesca per aver curato il re di Francia. Tutto ciò dovrebbe essere abominevole, ma poiché Bertram è abominevole, non ci lasciamo angosciare. L’arte di Shakespeare nel gestire l’irriverenza di Elena è straordinaria; la protagonista realizza il suo strambo progetto con verve e sprezzatura:

Bertram. Io non posso amarla, né intendo fare alcuno sforzo per riuscirvi.Re. Tu commetti un torto verso te stesso se pensi che tu abbia la possibilità di decidere quanto alla tua scelta.Elena. Che voi siate guarito, mio signore, basta a farmi contenta. Del resto non m’importa.

[II.iii.145-48]

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«Del resto non m’importa» è magnifico nel suo accostamento di disperazione e astuzia, poiché Elena sa, come il re, che sono in gioco l’onore reale e il potere. Provocata, l’autorità parla in toni che anticipano il severo Dio del Paradiso perduto di Milton:

Obbedisci alla nostra volontà ch’è intesa al tuo bene, non prestar fede al tuo sdegno, e, senza metter tempo in mezzo, paga alle tue fortune quel tributo di obbedienza che insieme il tuo dovere ti impone e che la nostra potenza esige. O ch’io ti allontanerò per sempre da me e dall’ala della mia protezione, per abbandonarti alle incertezze e alle irresponsabili cadute che son proprie alla giovinezza e all’ignoranza. Così che entrambi il mio odio e la mia vendetta si sfogheranno su te in nome della giustizia, e senza alcuna rèmora della pietà.

[II.iii.158-66]

La vendetta di Bertram, dopo la capitolazione, è opportu-namente infantile: «Me ne andrò alle guerre di Toscana e non mi giacerò mai con lei!». Il momento più toccante del dramma, alla fine dell’atto secondo, giustappone la stizza di Bertram alla disperazione dignitosa di Elena:

Elena. Signore, non so dir altro se non che sono la vostra serva più obbediente.Bertram. Suvvìa, andiamo. Non parliamone più.Elena. E sempre, con la più fedele devozione, cercherò di rimediare a quel che l’umile mia stella non mi ha saputo concedere perch’io fossi pari alla mia grande fortuna.Bertram. Suvvìa, basta così. Ho una gran fretta. Addio, affrettatevi alla volta di casa.Elena. Ve ne prego, signore, perdonatemi.Bertram. Ebbene, che altro c’è?Elena. Non son degna della ricchezza che posseggo,

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e non ho neppure il coraggio d’affermare che sia mia… eppure lo è. Ma, simile a un ladro tutto pieno di paure, son presa da un forte desiderio di rubare quel che pure la legge mi concede come mio possesso.Bertram. E che cosa vorreste avere?Elena. Vorrei avere qualcosa, e neppur tanto. A dire il vero, non voglio nulla. Non voglio dirvi quel che proprio vorrei, mio signore. Ma sì, se volete che sia sincera, vi dirò che soltanto coloro che sono tra loro estranei o nemici si separano senza neppur baciarsi.Bertram. Vi prego di non indugiare ancora. Suvvìa, salite subito a cavallo.Elena. Non saprò certo trasgredire i vostri ordini, mio buon signore.

[II.v.71-88]

Bertram è la ricchezza che Elena possiede, sessualmente par-lando, ma il suo rifiuto la trasforma in «un ladro tutto pieno di paure», preso dal desiderio di rubare ciò che legittimamen-te è già suo. Qui le esitazioni della sua voce sono molto astute e risvegliano gran parte del nostro affetto per la protagonista, se non per la sua capacità di giudizio. La lettera d’addio di Bertram a Elena consolida sia il nostro disprezzo per lui sia la nostra complicità obbligata con lei:

«Quando potrai vantare il possesso dell’anello ch’io porto al dito, e che non mi sarà mai sfilato, e potrai mostrarmi un figlio generato dal tuo stesso corpo e di cui io sia realmente il padre, soltanto allora potrai anche chiamarmi col nome di sposo. Ma in questo “allora”, io intendo un “mai”».

[III.ii.56-59]

Pragmaticamente, questo è l’invito shakespeariano allo stra-tagemma del letto (bed trick), ossia la sostituzione di una donna con un’altra nell’oscurità, che contribuisce a produrre una risoluzione astiosa, sia qui sia in Misura per misura. La formula scherzosa – al buio sono tutte uguali – è in parte una

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satira shakespeariana sulla tendenza maschile a non distin-guere una donna dall’altra, ma contiene anche una sfumatura di amarezza. In Misura per misura, quando Isabella accetta lo stratagemma del letto facendosi sostituire da Mariana dietro istigazione del «duca dei segreti meandri», non ci sbalordia-mo della sua complicità morale perché, come quasi tutti gli altri personaggi del dramma, è pazza almeno in parte. Tut-tavia, non possiamo fare a meno di essere turbati quando è Elena a proporre lo stratagemma del letto, dove si calerà nel ruolo dell’esecutrice sessuale assumendo il nome di un’altra persona. Il nostro disagio dovrebbe aumentare quando riflet-tiamo sul linguaggio usato da Elena mentre immagina la sua unione imminente con il gabbato Bertram:

Ma, oh, quanto sono strani gli uomini che possono mettere a un uso tanto dolce proprio ciò ch’essi più hanno in odio, allorché la irriflessiva accettazione delle illusorie parvenze della lussuria contamina la tenebrosa notte. La lascivia, così, si trastulla proprio con quanto più gli ripugna, scambiandolo per qualcosa ch’è invece affatto lontano.Ma di tutto questo sarà bene riparlare in un altro momento.

[IV.iv.21-26]

La superba astiosità di queste parole è racchiusa nel loro prag-matismo. La letteratura consente forse una visione femminile più fredda e imparziale della lussuria maschile? La pungente espressione di Elena, «irriflessiva accettazione» (saucy tru-sting), troverà un’eco in Misura per misura quando l’ipocrita Angelo paragonerà l’assassinio alla procreazione illecita: «Le lascive (saucy) dolcezze con le quali si conia una immagine del cielo in stampi proibiti». In entrambi i casi, l’aggettivo saucy significa sia «insolente» sia «lascivo», e la forza dell’in-tuizione di Elena si basa, in parte, sull’idea confusa secondo cui la lussuria maschile è insieme mordace, indifferenziata e misogina. Benché Elena ci prometta di riparlarne «in un altro

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momento», non la sentiremo più (ahimè) esprimersi a questo riguardo. Ci dice invece che sarà il dramma a informarci, anche quando ne cita il titolo:

Fallo ancora per poco, te ne prego.Ché, pur mentre stiamo parlando, il tempo s’adopra a riportar l’estate, e i roseti, oltre le spine, metteranno anche i fiori, e per quanto pungenti, diffonderanno un profumo soave. Dobbiamo andare. La nostra carrozza è pronta. Il tempo incalza. Tutto è bene quel che finisce bene. E il fine sempre coronerà l’opera. Per quanto difficile possa essere la traversata, il porto è sicuro!

[IV.iv.30-36]

Questo guazzabuglio deliberato di proverbi è adeguatamente dolceamaro e serve a giustificare l’audacia di Elena, anch’essa un misto di insolenza e lascivia che non dobbiamo sottova-lutare. Lo stratagemma del letto è una cosa, e un bel gioco se si desidera parteciparvi, ma non è forse un altro paio di maniche fingersi morta per affliggere la contessa, il re e La-feu? Qui le tattiche di Elena preludono a quelle dell’equivoco duca di Misura per misura, che inganna crudelmente Isabella e tutti gli altri spacciando Claudio per morto. Non che Elena sia sadica come il duca, ma è implacabile nella pulsione di far finire tutto bene per se stessa irretendo l’immangiabile Bertram. Questa ricerca deve sembrare curiosamente morbo-sa al pubblico, e Shakespeare dimostra di essere consapevole della nostra ambivalenza, non verso Elena bensì verso la sua missione impenitente.

Il dramma protegge Elena dal nostro scetticismo pre-sentando la sua monomania in una luce eroica. Nella pro-duzione shakespeariana vi è forse qualcun altro, uomo o donna, che lotti così incessantemente e, in fondo, così ef-ficacemente per superare ogni ostacolo alla realizzazione di un desiderio? Con lei possono competere solo gli eroi-cat-

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tivi – Riccardo III, Iago, Edmund, Macbeth –, che alla fine vengono tutti trucidati o neutralizzati. Elena trionfa anche se restiamo sgomenti davanti alla ricompensa che sceglie. Tuttavia, ha affrontato una lotta complessa; ricapitolando, occorre capire che il suo agone per conquistare Bertram co-stituisce la struttura generale del dramma, a eccezione della saga di Parolles, la cui sconfitta e successiva volontà di so-pravvivenza rappresentano l’eco parodistica della vittoria di Elena e della sua volontà di sposarsi. Freud ricavò da Shake-speare moltissimi dei suoi presunti concetti originali; uno di questi è l’idea secondo cui l’appagamento, se non la felicità, dipende dalla realizzazione delle nostre più profonde am-bizioni infantili. Elena raggiunge questo obiettivo, perciò si presume che sarà soddisfatta. Tuttavia, Shakespeare ci fa volutamente sentire a disagio con l’ultimo scambio di bat-tute tra marito e moglie:

Elena. O mio buon signore, quand’io ero come questa fanciulla, ho dovuto conoscere la vostra squisita cortesia. Eccovi il vostro anello. E voi prendete questa: è la vostra lettera. Dice così: «Quando sarete riuscita a sfilare dal dito quest’anello, e quando resterete incinta d’un mio figliuolo…» con quel che segue. Tutto è stato fatto. Vorrete esser mio, ora che siete stato doppiamente vinto?Bertram. Se, o mio sovrano, ella mi può dimostrare che questo è vero, io l’amerò con tutto il mio più tenero affetto, e per sempre.Elena. Se tutto questo non sarà evidente, e se sarà dimostrato per falso, un divorzio di morte s’interponga fra me e voi!

[V.iii.303-12]

Questi distici aspri sono tra i più astiosi di Shakespeare e cau-sano un effetto comico alienante. Tra le impudenze di Elena, la più irriverente è «O mio buon signore, quand’io ero come questa fanciulla, / ho dovuto conoscere la vostra squisita cor-

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tesia», un’allusione così disgustosa, nel contesto, che qualcosa dentro di noi si allontana dalla protagonista. Quanto all’in-sopportabile Bertram, egli replica con la giusta nota di falsità ridicola: «Io l’amerò con tutto il mio più tenero affetto, e per sempre», dove il «per sempre» è tutt’altro che convincente. L’ultimo distico del re, prima dell’epilogo, esprime le riserve giustificate di Shakespeare e del pubblico:

Possiamo arguire che tutto sia andato per il meglio, e se le amarezze del passato hanno una conclusione così grata, anche più grata sarà la dolcezza del presente.[il corsivo è mio]

[V.iii.327-28]

L’epilogo va oltre, trasformando noi in attori, cosicché il no-stro applauso diventi una celebrazione ironica del dramma, dei personaggi e delle riserve comiche del drammaturgo. Una curiosa cadenza che si spegne al fondo – per citare la battuta iniziale del duca nella Dodicesima notte – accompagna il di-stacco di Shakespeare da una risoluzione che è esclusivamente di Elena:

Il re non è più che un mendico, e conclusa è la storiaE tutto assai bene è finito, e abbiam grande gioia.

Con sempre più fervido impegno vorremmo noi darvi letizia;E in premio dell’umile ingegno, venite con buona amicizia.

Sia l’animo vostro paziente, l’orecchio non troppo severo:A voi nostro cuore fidente, a noi vostro applauso sincero.

[Epilogo 1-6]

Gli attori diventano spettatori e devono trarre un’eventuale soddisfazione da noi. Benché la sequenza compositiva delle tre commedie problematiche sia oggetto di discussione tra gli studiosi, Tutto è bene quel che finisce bene va interpretata, a

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