un fante lassu' - gino cornali

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Memorie della prima guerra mondiale. Unica edizione del 1932, libro molto raro. L'autore era un ufficiale di complemento bergamasco. Interventista e poi di simpatie fasciste, nel dopoguerra fece carriera come giornalista, scrittore e traduttore.

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GINO CORNALI

UN FANTE LASSAi Morti e ai vivi del mio battaglione

I. DAL TICINO ALL'ISONZO (giugno-settembre 1915) E finalmente un giorno a Pavia vidi affisso all'angolo del Demetrio il manifesto della mobilitazione. Fra gli studenti non ci furono, in genere, dei saluti molto espansivi. Qualche bicchierata; qualche evviva alla stazione : e basta. Io arrivai a Bergamo, a casa mia, per l'ora del pranzo. La mamma non aveva ancora scodellata la minestra. Mi aspettavano. Mi accolsero con tenerezza. Il pap era piuttosto allegro. Diceva che l'entrata in guerra dell'Italia avrebbe abbreviata la durata delle ostilit; era pronto a scommettere che a Natale tutti saremmo stati di ritorno. Diceva poi forse per consolare la mamma che gli studenti di lettere sarebbero stati usati come ufficiali nei grandi Comandi. La mamma non diceva niente; ma non credo che condividesse tanto ottimismo, perch ogni tanto sorprendevo i suoi grandi occhi neri che mi guardavano con sgomento. Forse, in quei giorni, solamente le mamme presentivano la verit della guerra. Dopo pranzo uscii in cerca d'amici. Il Sentierone era affollatissimo: nei caff tutti i tavoli occupati. Ogni tanto qualcuno saliva sopra una sedia e diceva ad altissima voce delle parole che scatenavano salve di applausi. Sul viale della funicolare, dove m'ero rifugiato, incontrai il mio amico Vittorio. Mi confid che l'indomani all'alba sarebbe partito coi volontari ciclisti. Restai per un attimo a pensare che forse era quello il mio dovere: non attendere il corso degli allievi ufficiali annunziato dal proclama di mobilitazione, e partire subito, come soldato. Non seppi decidermi. Mi pareva quasi un tradire il destino: il mio destino; e, insieme;, un atto di superbia. Io non credevo che la guerra fosse Cosi breve come assicuravano tanti. E se agli studenti universitari era riservato il compito di comandare i plotoni dei soldati, in nome di che cosa e di chi avrei dovuto sfuggire a questo compito e a questa responsabilit ? " Accompagnai Vittorio fino alla sua casa, lo abbracciai forte, lo baciai senza dirgli nulla ; poi lo stetti a guardare mentre attraversava il breve giardino. Alla porta si volse, lev le due bracci, e, sottovoce, mi grid: "A Trieste!". Ritornandomene a casa, solo, pensavo che quel grido non poteva essere stato sincero, e che un amico come lui avrebbe dovuto trovare un'altra parola di commiato, oppure tacere, come avevo taciuto io. Sentivo che era gi incominciata, prima ancora della guerra, la retorica della guerra; e mi pareva di soffrirne come se offendessero in me un pudore nascosto. Nella sala da pranzo, sotto la lampada a gas, la mamma fingeva di

avere un gran daffare davanti a una piccola cesta di biancheria. Il pap era andato al caff, l mia sorellina dormiva. Mi sedetti al tavolo, di fronte alla mamma, e accesi una sigaretta. Le raccontai di Vittorio. Mormor : Povera madre! La rimproverai con dolcezza, esortandola a pensare anche a quell'altra madre, l'Italia, che aveva bisogno di tutti i suoi figli. Chin la testa sopra una calza nera, e non mi rispose. Quando fui a letto, venne nella mia stanza, mi rimbocc le coperte, mi baci sulla fronte, mi bened e poi, all'uscio, si volse e mi mand un altro bacio sulla punta delle dita, tentando di sorridermi. La mattina dopo, alle, sei, mi presentai alla caserma Umberto I. Eravamo un centinaio, e quasi tutti studenti. Ci rinchiusero in uno stanzone, con una pagnotta e una bracciata di paglia fresca, e fino a sera nemmeno un caporale si cura di noi. Ore lunghissime e calde, piene di pocher, d'inquietudine e d'umiliato dispetto. A sera s'ebbe la libera uscita, con l'impegno di ripresentarci l'indomani all'alba. A casa la pagnotta ottenne un vivissimo successo. Maria giur ch'era migliore del pane; il pap la trov saporitissima e sostanziosa; solamente la mamma scosse la testa scontenta. Ancora una notte nel mio soffice letto. La mattina, nel cortile della caserma, ci misero per quattro e ci tennero fermi, sull'attenti, fino a che comparve un capitano secco e arcigno che ci guard in faccia, uno per uno, con provocante disdegno e poi ci tenne un breve discorso durante il quale trov il modo di avvertirci che la nostra qualit di studenti non ci impediva di essere pi zotici e asini dei coscritti analfabeti e che se fosse dipeso da lui le cose sarebbero andate diversamente. Come, non lo disse; e se ne and in malo modo, borbottando chiss che cosa. E allora fu la volta d'un piccolo sergente dai polsini lunghi un miglio e dai capelli impomatati, che ci avvis che la sera stessa sessanta di noi sarebbero partiti per Modena. Per mia fortuna, fui tra i sessanta. Alla stazione non volli nessuno; neanche la mamma. Per vincere la sua insistenza le dissi che mi avrebbe fatto un regalo se, all'ora della mia partenza, fosse andata a pregare nella chiesetta di Sant'Antonio, dove, per tanti anni, quand'ero bimbo, l'avevo accompagnata alle funzioni serali del mese di maggio. A Modena mi tagliarono i capelli, mi insaccarono in una divisa di tela grigia, e mi assegnarono alla XIVa Compagnia, alle Scuole Cmpori. Due mesi di scuola ed uno di campo, ai Bagni della Porretta. Dalla pi illimitata libert goliardica alla disciplina rigida dell'Accademia. Ma i nostri istruttori non dovettero faticare molto per insegnarci ad ubbidire senza discutere; e, in capo ai tre mesi, ognuno di noi sapeva comandare il plotone, camminare otto ore con lo zaino affardellato sulle spalle, superar

d'un balzo un fossato di tre metri, strisciar per terra come una biscia e tenere il libro di contabilit della compagnia. Non era ancora la guerra, naturalmente; era un po' di caserma e un po' di piazza d'armi. Ma la guerra, ce l'avrebbero insegnata i fanti che ci aspettavano lass. Il 12 settembre il corso fin; e partimmo tutti per qualche giorno di licenza, in attesa della nomina. *** A casa, volli subito vestire la fiammante uniforme d'ufficiale, anche se sul colletto non potevo fissarmi nessun genere di mostrine e nessun numerino d'argento potevo inserire nel trofeo del berretto. Ma quella giubba attillata, quei gambali lucidi, quella lunga sciabola brunita, quei guanti bianchi, esercitavano un fascino cos irresistibile sulla mia vanit che stetti in divisa per quanto dur la licenza: dodici giorni. Eravamo in campagna, a Donate. Ogni mattina arrivavano notizie di morti e di feriti. Le cascine diventavano sempre pi silenziose. Se qualche ragazza usciva all'improvviso a cantare, la si guardava tutti con meraviglia; e il suo canto cessava di botto. Prima di partire volli passare una giornata a Milano, in casa di una mia bella amica : forse troppo di lusso per la mia acerba inesperienza. Non so che cosa sperassi, salendo le lucide scale di quella casa. Forse un po' di tenerezza, forse un po' d'amore. Contavo molto anche sulla elegante uniforme che vestivo. Infatti fui accolto con una dolce effusione, quasi portato, tra quelle braccia profumate, nell'angolo del salotto, fatto sedere sul divano morbidissimo, vicino vicino a lei, con la sua testa sulla mia spalla. Ma non avevo ancora aperto bocca che capit un signore, piuttosto anziano, elegantissimo, che mi saluto distrattamente ; e non mi ci volle molto per capire d'essere importuno. Feci l'atto di congedarmi; non fui trattenuto. E sulla soglia quel signore, come se si accorgesse solo allora della mia divisa, stringendomi la mano con una curiosa cordialit, mi disse : Sottotenente di complemento? Mi sembra un ragazzo. E pensare che siamo di fronte a un candidato al Paradiso! Lei mi saluto con affettuosa indifferenza, e la porta sbatt forte alle mie spalle. Scendendo dalle scale mi sentivo un gran vuoto al cuore e una punta d'amarezza che me lo trafiggeva come una spina.: E che desiderio d'una bocca che mi baciasse, di due mani che mi accarezzassero con dolcezza sui capelli. Con dieci lire quell'ansia, forse, avrei potuto quietarla; ma temetti che l'amarezza sarebbe stata, dopo, anche pi acuta; e ritornai a Bonate in fretta. L'ultima sera,; a pranzo coi miei, riuscii con la mia allegria a tener sereni tutti; e a un certo punto anche la mamma sorrise : appena appena,

ma sorrise. Dopo pranzo, vennero le zie e degli amici a salutarmi. Si parl di guerra; ognuno disse la sua; si fin per concludere che c'erano novanta probabilit sopra cento che a Natale la guerra fosse finita. Nella mia stanza, quando fui solo, pensai che non avrei potuto dormire e che era arrivato il momento di salutare i miei libri, le mie carte, la mia adolescenza; ma non avevo ancora messo il capo sul cuscino che ero gi addormentato profondamente. La mattina all'alba fu la mamma a svegliarmi. Sentii che pioveva. I passeri pigolavano sugli alberi del giardino. La mamma era pallidissima, col viso solcato da rughe che non le avevo mai viste. Ma non piangeva. Mi sugger piano piano un'Avemaria; poi mi accompagn in cucina, tenendomi per un braccio, mi prepar in silenzio il caff. Credevo che mi volesse parlare; certo lo voleva, come volevo anch'io; ma non sapevamo, n lei n io, che cosa dire e da che parte incominciare. Stai attento a non perdere il treno. E gi ora? Quasi... meglio che tu parta. Allora... L'abbracciai: forte, fortissimo. Le mani della mamma mi si avvinghiarono dietro alle spalle. Non prendere freddo... Sei cos facile ai raffreddori... Stai tranquilla, mamma. Tienti riparato, e... qualche volta d una preghiera... Te lo prometto, mamma. ...alla Madonna... Lei stata Mamma, e sa... Mi sciolsi, forse un po' bruscamente. Uscii. Il cielo nuvoloso schiariva. La carrozzella era pronta davanti al cancello. La mamma volle lei aiutare il vetturale a issare la mia cassetta d'ordinanza sul serpino ; e mi parve che sollevasse una cassettina da morto. Mi toccai, con un brivido, le due stellette sul colletto. Ancora un abbraccio. Partii. Sentii la mamma gridare, a voce bassa, il mio nome. *** Deposito Rifornimento Uomini a Modena. Mi avevano assegnato a una compagnia di reclute; ma l'istruzione era affidata ad ufficiali effettivi che sapevano i regolamenti a memoria e conoscevano la piazza d'armi almeno quanto io, tre mesi dopo, dovevo conoscere la trincea. Per due giorni mi annoiai mortalmente, avvilito di quell'inerzia che mi pareva un umiliante castigo. Sapevo di tanti camerati partiti verso i reggimenti di prima linea direttamente; e non riuscivo a spiegarmi perch mi avessero assegnato a Modena. Finalmente un

pomeriggio fummo chiamati d'urgenza al Comando. Corremmo. Ci radunarono in uno stanzone. Un capitano diede l'attenti e un colonnello raccolse il nostro giuramento. Uno per uno, dovemmo presentarci davanti a lui e, sguainata la sciabola, fare un grande saluto e poi pronunciare la formula di rito. Ero imbarazzato come davanti a una commissione d'esami e trepidavo per quel saluto colla sciabola, che finii diffatti per infilare nel tappeto rosso del tavolo. Quando la cerimonia fu compiuta, il colonnello, da quella sfinge che era stato fin l, si trasform di botto; e con voce vibrante, il viso congestionato d'emozione, ci grid che lass occorrevano d'urgenza ufficiali; ma, prima d'estrarre a sorte i candidati alla partenza, che gli pareva una cosa umiliante, domandava chi era pronto a partire. Eravamo un centinaio; ci facemmo avanti in sette. Il colonnello divent pallido e attese qualche minuto. Nel silenzio di tomba che era seguito, nessuno osava muovere un dito. Mi pareva che fosse successo qualche cosa di irreparabile, e sentivo la gola stretta da un'emozione angosciosa. Avrei giurato che il colonnello sarebbe scoppiato in una furibonda imprecazione. Non disse nulla. Si irrigid; poi con voce dura, tagliente, si rivolse, ai sette : Sta bene. Si presentino al Magazzino vestiario e poi all'aiutante maggiore. Gli altri tredici che occorrono, li sceglieremo... (esit un attimo)... dal mucchio E usc. Partimmo l'indomani mattina. E nessuno che ci salutasse alla stazione! Eravamo vestiti come i soldati, con una stelletta d'argento sul braccio, e una pistola automatica appesa al cinturone. La diagonale, la sciabola, i gambali lustri e il berretto erano rimasti a Modena, con la fascia azzurra del giuramento. Eravamo allegri come ragazzi in vacanza. A ogni stazione delle signorine ci offrivano arancie, cartoline, caff, panini imbottiti di prosciutto; ci mandavano dei baci sulla punta della mano. Pigiandoci ai finestrini gridavamo come ossessi, ricambiando quei baci, maledicendo al treno che non ai fermava abbastanza o ripartiva proprio quando sarebbe stato cosi bello scendere e correre verso quelle mani che si agitavano, quelle figurine bianche che parevano risplendere nel tumulto nero della folla e dei treni. A Cervignana, in un ufficio, un ufficiale colle pipe rosse sul collo della giubba, ci borbott il nome d'un paese: Armelino. Avremmo dovuto raggiungerlo al pi presto. Uno domand: Ci si va sin treno? L'ufficiale dalle pipe rosse sogghign e rispose : S, in vagoneletto. Un piantone fu pi cortese, e ci insegn che Armelino erano poche case, a qualche chilometro da Cervignano, dove era accampata una

Divisione di fanteria. Armelino. In fondo a una strada campestre sconciata dal fango c'era una casetta colla porta aperta. Fuori, dei soldati andavano e venivano indaffarati. La campagna pareva spenta sotto un cielo basso di nuvole fitte. Venne un sergente con una gran cravatta bianca che gli strozzava il collo roseo e ci squadr, sull'attenti: Loro desiderano? Siamo stati mandati qui dal Comando tappa di Cervignano. Scomparve. Dopo qualche minuto ritorn. S'accomodino. Dentro, seduto a un tavolino sgangherato, c'era un capitano colla fronte fasciata. Rispose freddamente al nostro saluto, e poi lesse, sopra un foglio di carta, i nostri nomi, aggiungendo un numero ad ogni nome. A me tocc il 117. Quand'ebbe finito, fece un gesto con la mano per congedarci e precis: I reggimenti sono accampati tutti qui intorno. Vadano a raggiungerli; e buona fortuna. Uno di noi os domandare se non era possibile che fossimo assegnati tutti allo stesso reggimento. Il capitano si strinse nelle spalle, seccato, e fece: Le assegnazioni non dipendono da me. Poi si curv sulle poche carte che gli stavano davanti. Fuori dalla Casina ci salutammo. Il sergente di prima mi aveva avvisato che il mio reggimento aveva le tende nei campi li attorno. Restai un pezzo sulla strada a guardare i camerati che si allontanavano in silenzio; poi mi avventurai nei campi, affondando fino alla caviglia nelle zolle fanghigliose. Arrivai a un gruppo di tende chiare. Alcuni soldati, sdraiati sull'erba contro una siepe, mi additarono, senza alzarsi, il comando del reggimento : una baracca in fondo a un campo di meliche mozze. Pareva vuota, se non fosse stato il picchiettare d'una macchina da scrivere. Entrai titubando. Lei chi ? Mi voltai di scatto. Era un capitano alto, pallido, con due battelli neri sul labbro e gli occhi canzonatori. Mi presentai. Ah, un complemento!... Benone. Vada pure a raggiungere la prima compagnia. Al colonnello si presenter pi tardi, alla prima occasione. Girai tra le tende a cercar la mia compagnia. I soldati stavano seduti per terra e tenevano quasi tutti la faccia chinata sopra la camicia spiegata sulle ginocchia, esaminandola con un'attenzione meticolosa. Al mio passaggio levavano la testa a guardarmi con curiosit e poi accompagnavano la mia penosa marcia nel fango con delle frasi di cui non afferravo bene il senso ma che erano senza dubbio suggerite dal mio

atteggiamento tremendamente matricolino. La tenda del capitano della prima compagnia? domandai a un soldato. Me l'accenn. Era aperta. Il capitano, piccoletto, tarchiato, con una barbetta nera ben curata intorno al mento, era seduto sopra la branda, con un fiasco stretto fra i piedi e le mani occupate una da un enorme pane imbottito, l'altra da una grossa ciotola colma di vino. Mi accolse con rumorosa cordialit, mi offr del prosciutto, del vino, del pane, del cioccolatte, meravigliandosi e quasi scandalizzandosi ch'io non volessi bere "a digiuno". Fiol d'un can! Se il momento migliore per bere! Lo stomaco innocente, la mente freschissima... Su su, da bravo. Non faccia storie. Non feci storie, da quel buon bergamasco che son sempre stato. Poi volle sapere di me, miei miei studi, della mia famiglia. Studente in lettere? Benon. Siamo quasi colleghi. Io sono maestro, nelle scuole comunali di Padova. Ventidue anni di onorato insegnamento. S, non c' male. A proposito, e... politicamente, di che colore siamo? Non stia a turbarsi. Io capisco tutto e comprendo tutto. Interventista. Va ben, questo. Adesso, son tutti interventisti: di tutti i colori. Ma prima? Non sapevo che cosa rispondergli. Egli mi confid d'essere un democratico anticlericale e che la guerra era per lui una specie di crociata contro il militarismo rappresentato dalla Germania e contro l'oscurantismo clericale rappresentato dagli austriaci. Finalmente, mi parl della compagnia. La migliore del reggimento, a sentirlo, tutti "fioi de cani", ma buona gente e dal fegato sano. A Bosco Cappuccio, pochi giorni innanzi, avevano fatto miracoli. Buoni anche i tre subalterni : due aspiranti venuti freschi freschi dal corso allievi ufficiali del Corpo d'armata, e provenienti dai sottufficiali, e un sottotenente effettivo, "un po' borioso, di quelli che stan solo a la forma : un pignolo da caserma, insomma. Ma, vedr, buon ragazzo, in fondo, anche lui. Basta lassarlo dir e lassarlo far...". Poco dopo, alla mensa del battaglione, ch'era in una cascinetta mezzo diroccata in fondo all'accampamento, mi presentai al maggiore e agli altri ufficiali. Il maggiore, un uomo basso e grosso, con un cespuglio di baffi rossicci sotto il naso e gli occhietti brillanti, mi accolse con fredda benevolenza, come se il darmi la mano e l'augurarmi il benarrivato fosse per lui nient'altro che un dovere professionale. I tre capitani delle altre compagnie non furono certo pi espansivi; solamente la subalternaglia rumoreggi festosa, pensando alle bottiglie di spumante che avrei dovuto offrire. Il mio capitano mi seguiva, mentre andavo presentandomi agli

ufficiali, con occhio attento ed affettuoso, pronto a sorridermi s'io mi imbattessi nel suo sguardo. Durante la colazione mi pareva d'avere come un groppo alla gola, e duravo fatica a mangiare, ad onta che l'appetito non mancasse. Pensavo che in quel momento, nella mia casa di Bonate, c'era la mamma, col pap e la mia Maria, seduti intorno alla tovaglia bianca su cui non mancava mai un piccolo mazzo di fiori; e mi guardavo in giro; e non vedevo che faccie ignote, estranee, forse ostili, e dei sorrisi ironici; e non sentivo che discorsi lontani dalla mia vita, pieni di oscuri significati, o ripugnanti al mio istintivo pudore. Fu un piccolo tormento che il pensiero di dovermi poi presentare al mio plotone rendeva anche pi inquieto. Speravo che fosse almeno il capitano a condurmi davanti ai miei sessanta uomini; invece, dopo colazione, il collega "pignuolo da caserma", pi anziano ed effettivo, mi trasse da parte con un certo sussiego, e mi avvis che dovevo recarmi all'istruzione, in un prato dietro l'accampamento, dove, preso contatto col mio plotone, avrei fatta l'adunata della compagnia per presentargliela in ordine quando fosse arrivante. I due aspiranti avevano avuto un giorno di permesso. Sul prato, i soldati formicolavano di qui e di l senz'ordine, quelli distesi sull'erba, questi raccolti in crocchietti ed acquattati a terra intorno a qualcuno che raccontava o leggeva. Il mio arrivo fece cadere di botto tutti i fitti conversari. Sentii gli occhi di duecento uomini che tornavano dalla trincea addosso a me. Quasi subito un sergente maggiore mi venne incontro di corsa, mi si piant davanti sull'attenti: Raduno la compagnia? S, faccia l'adunata per plotoni. Dov' il secondo ? Il sergente maggiore chiam forte : Sergente Rosa! Il sergente Rosa accorse, prese gli ordini, mi radun il plotone in fondo al prato. Immobili, davanti a me. stettero i miei sessanta soldati. Molti avevano la barba, parevano vecchi come mio padre. Qualcuno portava sul petto il nastrino azzurro d'una decorazione. Mi guardavano con attenta seriet, forse con diffidenza. Venivo dalla "Scuola"; avevo vent'anni; potevo, di qualcuno, essere il figliolo; non avevo ancora vista la trincea; non sapevo della guerra se non quello che mi avevano insegnato alla "scuola" o che avevo letto sui giornali : nulla. Peggio : delle ridicole teorie o delle sciocche descrizioni. Bisognava che io parlassi, e avevo paura della mia voce. Mi pareva che tutto sarebbe dipeso da quelle prime parole che avrei detto. Trangugiai la saliva, e dissi forte: Riposo. Il plotone s'allent ; qualche mormorio lo percorse punteggiato da due o tre brevissimi sorrisi. Nessuno mi levava gli occhi di dosso. Ma c'era, su quei visi rudi dove la trincea aveva steso come un'ombra color di terra, qualcosa che mi pareva un principio di simpatia. Fra il "pignuolo da

caserma" e gli ex-sottufficiali, io ero per loro, forse, l'ufficiale borghese che sa perdonare tutto perch non conosce troppo i regolamenti e fa la guerra colla fotografia della mamma sul cuore. De Amicis? Che importa, pur che si sappia tener duro? Me li feci seder sull'erba, intorno: ed io, in piedi, in mezzo a loro, incominciai a parlare. Poi li interrogai : sulle loro famiglie lontane, sulle loro case, sui loro campi. Erano quasi tutti contadini, e quasi tutti avevano moglie e figlioli. Qualcuno si frug sotto la giubba : uscirono delle fotografie, delle lettere, in mezzo a delle immagini di santi. All'improvviso una voce secca mi chiam. Era il "pignuolo da caserma" che stava osservando l'idillio poco lontano. Accorsi. Mi preg di mettermi sull'attenti; pari grado, s, ma pi anziano. No, caro Cornali, non va. Dovevi adunarti il tuo plotone per l'istruzione e non per passare in rivista le fotografie dei soldati. Queste sono abitudini che fanno ridere. Finirai per farti prendere in giro. E al momento buono ti spareranno nella schiena. Ad ogni modo, adesso, raduna la compagnia e presentamela. E che tutti i plotoni siano bene allineati, e un attenti perfetto, mi raccomando. Vai pure! La sera, dopo la mensa ma io avevo gi incominciato ad avvicinarmi ai colleghi e ad interessarmi alle conversazioni che si intrecciavano intorno a me in sei o sette ci avviammo, sotto la luna, per una strada solitaria, fra due alte siepi, e incominciammo a parlare dell'Italia, e delle nostre citt e delle nostre ragazze. Io non l'avevo: l'inventai; e non fui, forse, il solo. Poi cantammo. Io aveva una discreta voce di tenore; a un certo punto fui solo a cantare, in mezzo ai colleghi, " Me ne vogl'i in America...". Quand'ebbi finito, un aspirante napoletano sospir: Peccato che tu non sia napoletano! Eravamo arrivati a una svolta, e l, per un largo squarcio della siepe, si vedeva tutto il cielo, fino all'orizzonte. C'era una bassa fascia bruna, laggi, dove s'aprivano, con un brontolio di tuono, dei brevi lampi rossi, quasi sanguigni. Vedi? Quello il Carso. E queste son cannonate. Deve esserci qualche cosa di nuovo al Sei Busi. Mi pare pi in gi, verso Doberd..., Io ero ammutolito, e guardavo con un'emozione nuova quella fascia e quei lampi. La guerra. La guerra vera, finalmente. Ma non riuscii pi a cantare. E allora i colleghi mi riportarono alla mensa, mi fecero bere dell'acquavite; uno di di piglio a una chitarra e un altro, sull'aria del "Sor Capanna", improvvis una canzone dove si diceva d'uno studente interventista che si meravigliava perch alla guerra si sparavano delle cannonate.

" cos indiscrete " che qualche volta posson far del male... " La mattina dopo, con altri sottotenenti arrivati in quei giorni al reggimento, fui presentato al colonnello. Il gran rapporto degli ufficiali dei tre battaglioni avvenne in una baracca che qualcuno aveva, per l'occasione, tappezzata di tricolori. Si festeggiava anche la recente promozione del nostro maggiore, e ci volle del bello e del buono per ottenere un po' di silenzio da quella piccola folla di ufficiali. Il colonnello, un bell'uomo dai capelli bianchissimi e dal viso roseo e fresco di fanciullo, ci guardava con un sorriso affettuoso, quasi con tenerezza. Il tenente pi anziano, il capo gallotta, pronunci un brindisi con molta seriet e fervore, ma non arriv fino in fondo perch la memoria lo trad sul pi bello, e la perorazione fu sostituita da una specie di singhiozzante invito a bere alla salute del colonnello. Parl anche un capitano, poi un maggiore, e finalmente il colonnello. Anche la subalternaglia lo stava a sentire con piacere e con una punta di commozione. A un certo momento un colpo secco, contro la parete della baracca, e un improvviso rovinio d'assi scheggiati interruppero le parole del colonnello. La massa degli ufficiali ondeggi, qualcuno usc di corsa. Un altro colpo, che mi parve scoppiasse in fondo a una fulminea ventata. Un grido. Erano granate austriache. Non riuscivo a spiegarmi come mai gli austriaci bombardassero, e da dove, proprio la nostra baracca: e non riuscivo nemmeno a capire se ci fosse o non ci fosse del pericolo. Il colonnello sciolse bruscamente l'adunata, e se ne and, coi tre maggiori e il suo aiutante. Quando mi pass vicino rispose sorridendo al mio saluto e, senza fermarsi, fece: Il suo battesimo del fuoco, tenente. Mi avviai verso lo tende della mia compagnia, insieme coi due aspiranti, che erano tornati dal permesso. Parlavo forte, con disinvoltura, ansioso che i colleghi vedessero la mia perfetta indifferenza di fronte a quel pericolo che mi pareva cos lontano ed incerto. Ma ecco ancora la secca fulminea ventata, lo schianto lacerante. Mi trovai disteso per terra, sul fango secco, con la faccia contro un sasso. Un impeto di vergogna mi trasse in piedi di furia : giusto in tempo per vedere i due colleghi che facevano, con minor precipitazione, la stessa cosa. Davanti alla mia umiliata meraviglia sorrisero e uno comment : Ha imparato subito la mossa. Il bombardamento dur fino a mezzogiorno. Sul tardi vennero a ronzare sopra l'accampamento due aeroplani, altissimi. Parevano due tenui libellule color di sole, con un puntino nero sotto il ventre, come quei pidocchi che avevo gi trovato, il mattino, sulla mia camicia. A mezzanotte levammo, in fretta e furia, le tende, e l'intera brigata si avvi sotto la luna, per una strada che pareva andasse parallela alla gradinata del

Carso. Il capitano mi spieg che si trattava di una falsa marcia, per ingannare il nemico : tanto era vero che si poteva persino fumare. Camminammo fino all'alba. Al primo sole le compagnie si dispersero all'addiaccio per la campagna, dentro i fossati, dietro le siepi, all'ombra di qualche cascinale. Per tutto il giorno il brontolio lontano delie artiglierie parve tumultuare in sordina sopra il Carso; ma nessuno ci faceva gran caso, intorno a me; ed io mi sforzavo di nascondere quella strana, sottile inquietudine che mi teneva. A volte mi pareva come d'essermi sdoppiato; e che te mie parole e i miei gesti e la mia chiassosa allegria fossero d'un altro e che io mi fossi tutto rifugiato e nascosto in una lucida e vigilante tensione cui non sfuggiva il pi piccolo di quei tuoni lontani. Alle prime ombre della notte, zaino in spalla e in marcia verso l'Isonzo. Piovigginava. Il cielo era nero di nuvole. Divieto rigoroso di fumare e di parlare. I soldati camminavano pesantemente strascicando gli scarponi per terra. Io marciavo in testa al mio plotone e aveva accanto il mio attendente, Grillo. Davanti, nel buio, vedevo la sagoma oscura dell'ultimo uomo del primo plotone. A un certo punto lasciammo la strada e piegammo nei campi; e allora l'oscurit divenne anche pi profonda. Qualcuno inciampava nelle zolle dure, o contro i ciuffi tenaci delle meliche mozze; e s'udiva allora una bestemmia soffocata seguita da un basso crepitio di risate. Avevo paura di perdere il collegamento e di non sapermi poi orientare nella campagna, con quell'oscurit, e camminavo addosso all'uomo che mi precedeva, voltandomi ogni tanto per esortare i miei uomini : Sotto, sotto, ragazzi. Una volta, a una di queste mie esortazioni, sentii una voce rispondere: Solo... che andaremo tuti sototera. Il bombardamento, sul Carso, era caduto. Non pioveva quasi pi. Ma dal cielo nero scendeva l'alito umidiccio e gelido delle nubi. Ci avventurammo su l'Isonzo sopra una stretta passerella oscillante. Il fiume, gonfio, passava gorgogliando, con dei fuggenti balenii color d'acciaio, un metro sotto di noi. Io mi tenevo aggrappato alla corda metallica tesa lungo la passerella, e pensavo che, se per un incidente qualsiasi, fossi caduto in acqua, nessuno mi avrebbe salvato. All'improvviso un riflettore si accese in fondo all'orizzonte, e incominci a frugare nella notte come se ci stesse cercando. Io seguivo quel lungo fascio di luce con un'ansia indicibile. Pensavo "se riesco a fare ancora dieci passi senza che il riflettore ci abbia colti, siamo salvi". Ci colse in pieno: e fu come se un fiume di luce abbacinante stravolgesse. Ristemmo impietriti a un ordine secco che ci venne dall'altra riva, dove un battaglione era gi passato. In quel chiarore spietato avevo l'impressione d'essere ignudo

contro un nemico che mi stesse prendendo di mira. Pigiati l'uno contro l'altro eravamo, sulla passerella che oscillava cigolando. Voci e comandi si intrecciavano nella notte. Avanti, gridai verso la testa della colonna. Non si pu ! Non si pu ! Il fiume luccicava sinistro. Dissi a un caporale di tentare di aprirsi un varco per raggiungere il capitano e pregarlo di far continuare la marcia; il caporale tent di passare sulla incerta striscia di legno; dopo pochi passi ritorn ansante. Non si poteva. All'improvviso il riflettore si spense. Diventammo tutti ciechi. Una voce imprec : Adesso ci fracassano di granate. Una specie di smaniosa trepidazione mi serrava la gola. Pensai di buttarmi nel fiume e raggiungere la riva a guado. Non sapevo nuotare; ma l'acqua doveva essere bassa. E mi tenevo aggrappato alla corda, aspettando che un impeto di panico tra i soldati mi travolgesse. Ed ecco quattro colpi lontani, soffocati, ma che l'istinto avverte con una precisione lucidissima : e quattro sibili rabbiosi, come di fruste gigantesche, sulle nostre teste, e quattro schianti, quattro vampate rosso-turchine. Qualche grido, alle nostre spalle. Avanti, per Dio! Avanti! Non si pu! Altri quattro sibili, pi bassi, che ci fan chinar la testa, e quattro schianti pi vicini. Signor tenente, avanti! Un altro stormo di proiettili. Altre grida. La passerella oscillava paurosamente. Avanti! Avanti! sentivo implorare dietro di me. Avanti! gridavo io sottovoce. E pensavo che in quel momento, a Bonate, nella saletta del farmacista, mio padre e le zie parlavano certo di guerra o studiavano il comunicato Cadorna e vaticinavano che a Natale la guerra sarebbe finita, e non sapevano ch'io ero sopra una passerella fragile sull'Isonzo in piena, in mezzo all'infuriare d'un bombardamento. Finalmente le ombre che stavano davanti a me, come un muro, si mossero. Avanti! Avanti! Piano! Piano! Fate piano, per Cristo! Mi sentii urtato alle spalle, buttato avanti. Un gran lampo sanguigno, uno schianto vicinissimo; la passerella parve sobbalzare, con

un sinistro scricchiolio. Sentii il legno mancarmi sotto i piedi. Scivolai. Mi abbrancai disperatamente alla corda metallica. Ma davanti a me non c'erano pi soldati. Avanti! urlai; e mi buttai su con impeto, facendo forza sui polsi, scorticandomi il palmo delle mani contro la corda. Sulla sponda! Ci lanciammo di corsa per il greto, ci addossammo contro una parete sabbiosa, dove c'erano altri soldati. Che battaglione? Secondo. E il primo? Non so. Qualcuno mi chiam per nome, poco lontano. Riconobbi la voce del mio capitano. Ha avuto perdite? Feci l'appello : tutti presenti : neanche un ferito. Solamente il terzo plotone aveva avuto un caporale colpito da una scheggia a un braccio e un soldato colla mano lacerata dalla corda metallica della passerella. Riprendemmo la marcia. Ora il mio plotone era in testa, ed io camminavo accanto al mio capitano. Davanti a noi di qualche passo, a cavallo, era il maggiore, circondato da sei o sette soldati. Dietro di noi, sul fiume, continuava lo schianto degli srapnel. Il nostro terzo battaglione era rimasto di l dal fiume. Domandai al capitano: E adesso dove si va A Monfalcone.

II. MONFALCONE (ottobre-dicembre 1915) Di riserva nell'azione del 21 ottobre, restammo alcuni giorni accampati dietro il cimitero, in attesa dell'ordine che ci mandasse in linea. L'ordine non venne. L'azione si sospendeva, infrangendosi i nostri plotoni contro gli intatti reticolati austriaci di quota 121. Verso sera la compagnia fu comandata al Cantiere per spegnervi un incendio minaccioso. Il capitano protest : "Fioi de cani! Mi no son capitano dei pompieri"; ma si dovette andare. Il mio plotone chiudeva la marcia della compagnia; io venivo per ultimo. Davanti al cimitero si apriva, nella campagna, uno stretto camminamento che metteva all'Arsenale; e fu di li che si infilarono, uomo per uomo, i quattro plotoni. Ma io non vi avevo ancora messo piede che la fila dei soldati si ferm. Attesi qualche minuto, poi mandai un caporale a vedere che cosa fosse successo. Torn tutto affannato a raccontarmi che, passata quasi tutta la compagnia, mezzo del mio plotone era stato fermato bruscamente da un capitano d'artiglieria che aveva i suoi quattro pezzi appostati poco sopra il camminamento. Balzai fuori dal fosso e corsi verso la testa della brevissima colonna. Un soldato d'artiglieria, moschetto imbracciato, stava immobile in mezzo al camminamento. Che fate qui? Ordine del signor capitano. Non si pu passare. Dov' il vostro capitano? L. Andate a chiamarlo. Non posso muovermi di qui. E ho l'ordine di sparare su chiunque tenti di passare dal camminamento o sopra. Non aveva finito di parlare che mi vidi arrivare addosso un piccolo capitano colla faccia nera e due occhi che parevano tizzi di carbone infocato. Cosa vuole lei? Passare coi miei uomini. Torni indietro immediatamente. Di qui non si passa. Ho avuto un ordine. Me ne frego. Io ho i miei pezzi proprio qui sopra; e quota 121 l, la vede? L... E se vedono passare dei soldati nel camminamento, mi fracassano la batteria. L'ha capito o non l'ha capito? Ma il mio capitano... Il suo capitano un fesso. Se ne vada. Stetti un poco perplesso, davanti a quel furioso ; poi mi presentai e aggiunsi :

Riferir al mio colonnello che lei mi ha vietato di proseguire. Riferisca quello che vuole, ma si levi dai piedi. Proprio in quel momento uno srapnel venne a rompersi sopra le nostre teste, in alto; il capitano divent addirittura paonazzo di collera. Ripiegando in fretta verso la sua batteria continu ad urlare agitando minacciosamente contro di noi la sua Glisenti. Diedi il dietro-front ai miei soldati, e ritornammo al cimitero, dove un'improvvisa folata di srapnel ci disperse tutti, buttandoci contro il muro di cinta. Uno dei miei soldati cadde in mezzo alla strada, e vi stette, colle braccia spalancate. Mi precipitai su di lui. Teneva gli occhi chiusi. Lo sollevai per le spalle, appoggiai la sua testa sopra un mio ginocchio. Gli altri soldati erano curvi su di noi, in silenzio. Apri gli occhi, li gir intorno, mi guard; ebbe un lungo sospiro; si mise a piangere. ferito a un piede osserv il sergente Rosa. Aveva infatti una scarpa tutta rossa di sangue. Un portaferiti gliela tolse, piano piano, gli tagli la calzetta di cotone tutta inzuppata, e con un pacchetto di medicazione gli fasci il piede lacerato sul dorso da una larga ferita. Su, che non niente, da bravo. Un mese d'ospedale e due di licenza con la tua donna e i tuoi figlioli. Una fortuna. Va meglio adesso? Mi guard, tent di sorridere, non ci riusc; e si lasci cadere di botto la testa sui petto. Un altro svenimento. No, signor tenente. E morto. Il sergente Rosa s'era chinato a mostrarmi un piccolo foro nella giubba del soldato, proprio all'altezza del cuore. Mi allontanai di due passi, in silenzio, con un'impressione di gelo in cuore. Morto. Il mio primo morto. Non osavo guardarlo. Mi pareva assurdo morire cos, lontani dal nemico, colpiti da un proiettile partito chiss di dove. Alcuni soldati, col sergente, s'erano curvati sul morto, gli levavano il portafogli, l'orologio, gli sfilavano un anello dal dito, raccoglievano tutto in un fazzoletto. Io lo conosco... di un paese vicino al mio; ha una bottega di fruttivendolo e tre figlioli. Lo ricopersero con un telo da tenda, in attesa che il comando di battaglione mandasse una barella. Io pensavo a quella donna lontana, coi tre bambini, in mezzo alle ceste d'insalata e di grappoli d'uva; e non sapevo che fare e che dire. Mi pareva che i soldati mi guardassero in faccia per vedervi la mia emozione. Proprio in quel momento ci raggiunse un tenente colonnello d'artiglieria, seguito da un soldato. Mi presentai, gli feci un breve rapporto di quanto era accaduto. Si volse verso il mucchio oscuro del telo, salut gravemente, poi mi fece brusco:

Mi segua coi suoi uomini. Ci infilammo nel camminamento dietro a lui. Davanti alla sentinella che vigilava sempre col suo moschetto si ferm: Vai a chiamare il tuo capitano. Ma io... Fila! Il soldato s'arrampic fuor del fosso, e corse alla batteria. Dopo pochi secondi ecco arrivare il capitano, tutto sorridente: Colonnello... Cos' questa storia? Quale? domand con bonaria innocenza il capitano. La trovata della sentinella. Le spiego subito, signor colonnello. Siccome siamo in vista di quota 121 e se vedono passare qualcuno nel camminamento, sparano... Sparano? Davvero? incredibile, sa? Ma... Il colonnello gli volse brusco le spalle e mi ordin : Vada pure coi suoi uomini, tenente. Poi, balzato agilmente sull'orlo del fosso, stette, coi pugni chiusi sui fianchi, immobile, a guardare passare i miei fanti silenziosi. *** La nostra trincea si stendeva sulla groppa d'una tozza quota pietrosa proprio di fronte a quota 121, e pareva poi galoppar gi, di groppa in groppa, verso il mare. Non era che un muretto alto un metro s e no, di sassi sovrapposti, con qualche cestone gonfio di pietre. Ogni tanto lo spessore del muretto si faceva pi grosso, e dentro vi s'era scavata una tana per il comandante della compagnia o del plotone. Dietro la trincea la quota calava gi, in una ruina bianca di pietre, senza il pi piccolo riparo; davanti, un piccolo deserto sassoso, spaccato da un'avvallatura e dominato dal cocuzzolo oscuro della quota nemica incoronata di profonde trincee e di fitti reticolati. A mezzo della nostra linea s'apriva un varco che metteva nel "tamburo" : un mozzicone di trincea protetto da una duplice fila di cestoni sventrati, che si spegneva sull'orlo della valletta. Non una caverna, non un appostamento di mitragliatrice, salvo una vecchia "Perino" scintillante come se fosse d'oro; ma nessuno si ricordava con precisione d'averne mai sentita la voce. In compenso, una batteria da 75 appostata a poche decine di metri da noi; e si diceva che nell'azione del 21 ottobre, esaurite tutte le munizioni, gli artiglieri coi loro ufficiali fossero corsi in trincea a battersi coi loro moschetti. Il nostro capitano si ficc in una baracca duecento metri sotto, la linea, accanto a un cavernone che serviva di ricovero al plotone di

rincalzo. Io m'ero trovato una specie di nido fra due cestoni, con un soffitto di ruberoide e un telo da tenda per porta; e vi ricevevo i colleghi per la sacramentale partita. Ogni tanto la sera si cantava. Venivano, dagli altri battaglioni, Caradonna e Carnevali, Troilo e Bagnariol; uno aveva la chitarra ; ci si metteva in crocchio, spalle alla trincea, occhi al cielo, a cantare: l'inno di Oberdan, le canzoni di Trieste. E poi , si guardava il luccichio del mare, e ci si immaginava di vedere Trieste, e che a Trieste ci sentissero. I soldati erano allegri, la pagnotta buona, il riso ben condito ed abbondante, non mancava mai il vino. Purch non li buttassero contro gli intatti reticolati di quota 121, i nostri fanti erano contenti anche della guerra. Quando poi fosse necessario uscire dalla trincea e correre avanti, sotto le granate, pazienza. Non era detto che proprio tutti ci dovessero lasciare la pelle. Ogni tanto,: naturalmente, venivano ordini difficili: come quello di portare i tubi di gelatina sotto i reticolali nemici. Su altro fronte, forse, la cosa era possibile ; ma l, con quei quattrocento metri di nudo pietrame che ci separavano dalla linea austriaca, come cavarcela? Una mattina tocc a me; e c'era la promessa di dieci giorni di licenza premio. La promessa valse a trovare i dieci volontari. Cinque i tubi, lunghi, e pesantissimi. Uscimmo all'alba che una ftta nuvolaglia rendeva anche pi fosca; ma non s'era arrivati all'orlo della valletta che una raffica di mitragliatrice ci inchiod contro i sassi, immobili, e ci tenne l per quasi tre ore, col naso a terra, tra una fucileria infernale che s'era propagata come un razzo per tutta la linea. Il comando di battaglione ordin che si ritentasse la prova al tramonto; e fu il bis della mattina. Ormai mi sentivo anch'io un "anziano". Sapevo bestemmiare, portavo una barbetta rossa, e un esercito di pidocchi per tutto il corpo con perfetta disinvoltura. Una notte, dopo un falso allarme che aveva risvegliato per tutta la linea, dal Cosic al mare, un infernale fuoco di fucileria, il capitano mi mand di pattuglia. Quando, alla Scuola di Modena, mi avevano parlato di pattuglie, s'era sempre presupposto, fra le due linee, un terreno da esplorare, cespugli da nasconderci, boschi da rastrellare a poco a poco, e incontri drammatici e cavallereschi con le pattuglie avversarie. Ma su quel deserto di pietre, liscio, senza il pi piccolo arbusto, disteso come una pagina davanti agli occhi del nemico, dove nulla poteva celare una insidia e nulla offrirsi come riparo, la faccenda era diversa. Diceva l'ordine dei Comando che, essendoci fondato sospetto che gli austriaci stessero preparando una mina nella valletta per far saldare la nostra quota, era indispensabile una ricognizione. Presi con me il sergente Rosa, la squadra del caporal maggiore

Binaglia e il mio attendente: quattordici uomini in tutto. Strisciando per il tamburo, arrivammo sull'orlo della valletta, e ristemmo. Un piccolo arco di luna metteva un chiarore rossiccio nell'atmosfera e dava al Carso un trasognato luccicore funerario. Gi, verso il mare, si vedeva ardere l'inestinguibile incendio d'un deposito di carbone. Da una delle arcate del viadotto di Duino sprizzava a tratti il rigido fascio di luce d'un riflettore che spazzava la costa, le quote e rivelava gli scheletri delle case massacrate dalle artiglierie. Mi sporsi sull'orlo della valletta, col moschetto pronto, a guardare. Sassi che luccicavano; e, in un angolo, sul versante opposto, una grossa macchia oscura. Dalle trincee nemiche di quota 121 veniva distinto il martellare secco dei lavoratori che approfondivano le difese: qualche brusco comando, delle risate. Improvvisamente si lev dal mare un vento freddo umido , e a quel vento, intorno ai macchione oscuro che stavo guardando con circospetta trepidazione, parvero sorgere altre macchie, altre ombre incerte che la mia ansia individu senz'altro per una pattuglia nemica. Chiamai con un fil di voce il sergente, gliele mostrai. Rosa guard con attenzione. E una pattuglia nemica. La vede? una pattuglia di morti, signor tenente. Nostri? S. Han tutti la testa rivolta verso quota 121. Avanzi dell'azione del 21 ottobre. Calati nella valletta, ne trovammo a diecine. Squadre intere, ancora allineate, col caporale in testa, falciate dalle mitragliatrici. Frugammo a lungo, indisturbati; ma non c'era nulla. Raccogliemmo molti fucili e la salma d'un tenente irriconoscibile per un atroce squarcio nel viso. Poi ci avviammo verso la nostra trincea. Ma io non volli lasciar subito la valletta. Mi pareva che il mio dovere fosse di restarci ancora, solo, per non dar nell'occhio del nemico, e frugare con pi diligenza. Forse, dietro qualche cumulo di pietra si apriva la caverna da mine che preoccupava tanto il Comando. Feci risalire Rosa con tutta la pattuglia, avvisandolo di tenersi appiattato nel tamburo, e continuai ad esplorare il fondo della valletta, procedendo cautissimo sulle pietre, curvandomi sui cadaveri per accertarmi che non fossero dei vivi in agguato. Durai forse mezz'ora in queste ricerche vane. Il vento era pi violento e pareva spirare proprio a raso della terra. Tramontava la luna. Ed ecco un curioso fiore attirare la mia attenzione: bianchiccio, a cinque petali rigidi, che si agitavano mollemente a ogni sospiro di vento. Pensai a quelle "erbe grasse" che s'usavano tenere nei salotti e anche la mia mamma ne curava con particolare sollecitudine alcuni vasetti. Mi chinai, lo ghermii incuriosito; un brivido di terrore mi ributt indietro. Era una mano, scarnita, gelida di rugiada, al sommo dell'avambraccio irrigidito, che spuntava dai sassi. Mi

guardai attorno, nella valletta deserta di vita e affollata di morti. Mi parve d'essere solo, lontanissimo dai miei uomini, e che tutti quei morti sospirassero e gemessero nel vento della notte, e mi domandassero di portarli nei loro cimiteri accanto al pianto delle loro mamme. Pensai che un giorno sarei stato anch'io fra quei morti, insepolti, scarniti sulle pietre del Carso ; pensai alla dolcissima quiete verde del cimiterino di Santa Giulia, dove c'erano tutti i miei morti ad aspettarmi ; e un irresistibile bisogno d'una voce viva, d'uno sguardo vivo, d'una mano viva e calda che stringesse la mia, mi prese, mi butt verso il tamburo, tra gli uomini che mi attendevano pazienti, accovacciati contro i cestoni. *** L'indomani era Ognissanti. I conducenti e i cucinieri che di buon mattino ci portavano le casse del caff, sussurrarono d'un'azione che si sarebbe dovuta fare nel pomeriggio. Il capitano era inquieto ; il "pignuolo da caserma" bestemmiava come un carrettiere toscano guardando gli intatti reticolati che proteggevano le trincee nemiche di quota 121. Poco prima di mezzogiorno il capitano mi mand a chiamare nella baracca del suo comando. Forse il mio plotone doveva uscire per il primo dalla trincea? No; non era l'avanzata che si aspettava. Non ci era affidata che una funzione di second'ordine : un'azione dimostrativa. Fingere, cio, con poca truppa e densa fucileria, di muovere all'attacco di quota 121 per distrarre l'attenzione dell'artiglieria nemica e consentire cos ai reggimenti che stavano alla nostra sinistra di buttarsi avanti sul serio verso altre quote. Se poi la loro azione fosse ben riuscita, allora anche noi, con maggior probabilit di successo, ci saremmo lanciati senz'altro contro quota 121. Logico e semplice come un teorema. Nello spiegarci questa "manovra", il nostro buon capitano aggiunse, come sua considerazione personale, che non ci capiva gran cosa. Il pignuolo da caserma ebbe un sorrisetto ironico e comment : Eppure semplicissimo.' Si manda fuori un plotone... Il capitano non lo lasci finire, naturalmente, e complet secco : Un plotone, sissignore; e pi precisamente il suo. Viceversa, con una complicatissima dimostrazione, il sottotenente prov al capitano che toccava proprio al secondo, cio al mio. Si accese una curiosa discussione, alla quale parteciparono anche il furiere e l'attendente del capitano. Per difendere i miei soldati da questo troppo evidente intrigo di fureria cercai di oppormi; il collega effettivo ebbe un altro dei suoi sorrisetti tiraschiaffi e mi osserv : Sei l'ultimo arrivato e incominci gi a piantar grane quando si tratta di fare qualche cosa? Gli risposi che ero pronto ad uscire con qualsiasi plotone, purch non

fosse il mio. Ma il capitano tagli corto con un'energia inaspettata : Tocca al secondo plotone, e basta. Preparai il mio plotone. Il sergente Rosa mi assicur confidenzialmente che un'azione dimostrativa era una fesseria e che, con un po' di tatto, tutto si sarebbe risolto in una sparatoria assolutamente innocua. Prima di uscire mi recai dal capitano per domandargli ordini pi precisi. Mont su tutte le furie. stato anche a Modena tre mesi e non sa che cosa sia un'azione dimostrativa? Ma allora che razza di ufficiale mai lei? E che razza di interventista? Vada fuori col suo plotone e finga di attaccare: ecco tutto. Mi perdoni, signor capitano; ma fin dove devo portare il mio plotone? Fino a Trieste. Non gli potei cavare altro. E una bestemmia rispose al mio rispettoso saluto. Uscii dalla baracca cogli occhi che mi bruciavano di lacrime. Non riuscivo a capire perch il capitano mi trattasse cos. L'azione spettava a me, d'accordo; e la facevo volentieri. Per quanto mi frugassi dentro non rintracciavo la pi piccola esitazione, la pi piccola ombra di cruccio o di timore. Ma cercando di evitare ai miei soldati un'avventura che poteva anche costare la vita, non facevo forse il mio dovere? Se il turno di combattimento non toccava al mio plotone, perch non insorgere contro la piccola ingiustizia, contro il sopruso? Offrirmi volontario, avrei dovuto: questo era forse il muto rimprovero celato nella bruschezza del capitano. Ed ero pronto e l'avevo detto subito. Ma con qual diritto portare a un possibile sacrificio anche i miei sessanta uomini? Perch non m'avevano capito? Era dunque cos difficile la guerra? cos arduo intendersi coi colleghi? coi superiori? Raggiunsi in trincea il mio plotone, gi pronto, e attesi l'ora fissata, seduto sopra un sasso, scrivendo cartoline ai miei cari. "Niente di nuovo e sempre ottimamente" scrissi alla mamma; ma poi vi aggiunsi "Ti bacio con tutta la mia tenerezza". Il capitano mi sorprese che stavo ancora curvo a scrivere e m'invest con asprezza: il momento di scrivere, questo? Ma io sono pronto, signor capitano. Lei! E i suoi uomini? sicuro che ci sono tutti? Sicurissimo. Ho gi fatto l'appello. Se ne trovo uno, uno solo, in trincea, lo faccio fucilare; e lei... lei passa un bel guaio! Non gli risposi. Lo guardai negli occhi a lungo, con molta seriet, fino a che non vidi che abbassava confuso i suoi. Riprese con voce mutata : Allora ha capito quello che deve fare? Perfettamente; non ho bisogno d'altro.

E gli voltai le spalle. Alle due meno cinque incominci il fuoco delle nostre artiglierie. Prima fu la nostra batteria da settantacinque, colla sua voce secca, rabbiosa, mordente ; e a ognuno dei suoi colpi erano altrettanti pennacchi rossicci che sprizzavano su dal cocuzzolo di quota 121; poi tutta la zona rimbomb di tuoni e di schianti, e nugoli di ululanti proiettili fischiarono sulle nostre teste. Fuori! url a un certo punto il capitano. Alzai un braccio, urlai al plotone di seguirmi, scavalcai d'un balzo il muretto e corsi avanti, sui sassi, senza guardarmi all'indietro. In mezzo al tuonare del bombardamento avvertii nettamente il secco colpo d'una fucilata. Mi buttai a terra istintivamente. Sentii dei tonfi dietro e intorno a me. Erano i miei soldati. Squadra per squadra, a terra, si andavano componendo a catena, coi loro caporali. Rosa strisci fino a me, che ero avanti di qualche passo, e mi grid : Sar meglio andare avanti. Qui ci fregano tutti. Avanti! urlai; e feci di corsa un altro tratto, fino al ciglio della valletta. L c'erano dei massi di pietre sovrapposte, confusi embrioni di trincee; e il plotone si ripar tutto dietro quegli improvvisati baluardi. Io ero con Rosa, il mio attendente e un soldato che m'ero scelto come portaordini : un piccolo napoletano dagli occhi vivacissimi, l'unico napoletano di tutto il plotone. Il bombardamento da parte nostra continuava violento. Quota 121 pareva un piccolo vulcano in ebollizione per tutte le granate che vi si schiantavano sopra. Ma avevo l'impressione che nessuna arrivasse proprio sulla linea e pochissime nei reticolati; quasi tutte scoppiavano sulla cma, che era arida, pelata, deserta. Con un po' di pazienza riuscii a disporre le mie quattro squadre sopra un fronte abbastanza lungo; poi, ghermito il mio moschetto, diedi con un colpo il segnale del fuoco. Una fucileria assurda, grottesca. Si sparava sulla quota a casaccio. Forse qualche soldato premeva sul grilletto tenendo gli occhi chiusi, o la faccia schiacciata contro i sassi. Il mio attendente e il napoletanino, sdraiati accanto a me, s'erano sfidati a chi sapesse abbattere col novantuno una specie di pentolino che qualche austriaco burlone aveva piantato sopra un paletto dei reticolati. La gara attrasse anche me; e vuotai un intero caricatore contro il pentolino. Mi domandavo intanto se le azioni dimostrative si riducessero tutte a quella inoffensiva sparatoria che il nemico non doveva neanche degnare della sua attenzione. Ma ero un po' preoccupato per il dubbio che forse avrei dovuto fare qualche altra cosa portare, per esempio, il plotone pi sotto la trincea austriaca. Ne domandai a Rosa; e il sergente mi rassicur: Siamo gi troppo avanti. Se volessero fregarci, ci fregano E tutti in un quarto di minuto.

Feci un biglietto al capitano : "Raggiunto ciglio valletta, e iniziato il fuoco". Mi rispose: "Ottimamente. Tenga duro sulla posizione e intensifichi il fuoco. Bisogna che il nemico creda che si voglia attaccare la quota". Questo, ecco, mi pareva assurdo : supporre che il nemico abboccasse a un amo cos ridicolo come il mio plotoncino lanciato contro un'intera quota fortificata potentemente. A stormi ci passavano sulla testa le granate e gli srapnel delle nostre batterie. Qualche proiettile, i pi grossi, si sentivano venire da lontano, oltre il Carso : pareva che salissero ansando nell'aria, e andavano a rompersi, in un gran pennacchio di fiamme, sulla quota con un "rann" da terremoto. Ma il nemico taceva, ostinatamente. Pensavo che, ben protetti nelle loro caverne profonde, gli austriaci dovevano ridere di quel nostro infernale concerto. Forse avevano sguarnita la linea e ritirate tutte le truppe, tranne le vedette, nei ricoveri blindati; e s'io avessi osato, con un balzo fulmineo, avrei conquistato la trincea. Ma durante quei duecento metri di deserto non sarebbe bastata una mitragliatrice, una sola, a buttarci tutti e sessanta a terra, a tener compagnia ai cadaveri che affollavano la pietraia? Era gi strano che ci lasciassero dove eravamo... Ogni tanto guardavo alla mia sinistra per vedere le colonne degli altri reggimenti che avrebbero dovuto uscire dalle linee del Debeli e del Cosic per attaccare le trincee nemiche; ma non si vedeva che il deserto di pietre bianche tormentato dalle granate. Improvvisamente, dalla quota 121 si sgran secco e minuto, nell'orrendo frastuono, il rosario d'una mitragliatrice; e le pallottole vennero a schizzare intorno a noi, furibonde, sui sassi. Il nostro fuoco di fucileria cess come per incanto; ognuno schiacci la testa a terra, cercando, istintivamente, di raccorciare le gambe. Il rosario seguit implacabile. Io non sapevo che fare; tenevo le mani strette contro il moschetto, e, fra due pietre, spiavo la trincea austriaca per vedere dove sprizzasse la fiammella azzurra della Schwarlose. La colsi; passai la voce a Rosa che la pass a sua volta alla prima squadra, ch'era la pi vicina : e un attimo dopo la nostra fucileria riprese, e con un preciso punto da colpire, questa volta. Mi pareva che adesso i soldati sparassero con un fervore nuovo, quasi con ferocia; ma la mitragliatrice non ci lasciava tregua, ci teneva le teste inchiodate gi, inesorabilmente. All'improvviso, pochi passi pi in l, alla mia destra, vidi un soldato scattar su colle braccia spalancate, agitar forsennato il fucile, e poi crollar gi di botto sui sassi con una gran maschera rossa sulla faccia. uno della terza squadra mi sussurr il sergente. Rombon precis il mio attendente il sagrestano. Quasi contemporaneamente il napoletano gettava un urlo e si accartocciava tutto sul ventre, strambuzzando gli occhi e chiamando la Madonna. Rosa fu lesto a trascinarselo contro il nostro riparo di pietre, gli

abbass i pantaloni insanguinandosi le mani, trov la ferita. Il sangue ne purgava come da una sorgiva. Un altro grido, pi lontano, all'estremit del plotone. Continuare cos era assurdo. Mi consigliai con Rosa; decidemmo di buttare il plotone nella valletta, dove c'era maggiore possibilit di star defilati. Nello stesso tempo mandavo il mio attendente dal capitano con un altro biglietto : "Siamo sotto il fuoco di una mitragliatrice; porto il plotone nella valletta e di qui continuer, se possibile, la fucileria. Perdite: un morto e due feriti". Fatta passar la voce, a un mio grido, le squadre si lanciarono nella valletta; e lo sbalzo ci cost altri due colpiti. Nella valletta si era abbastanza coperti, e bench la Schwarlose continuasse a frugare rabbiosa tra i sassi, non ci poteva cogliere. Il mio attendente ritorn col biglietto del capitano; mi ordinava di rientrare in linea con tre squadre e di lasciarne una, con un caporal maggiore, a vigilare che non si preparassero sorprese da parte del nemico. Lasciai il caporal maggiore Binaglia coi nove uomini rimasti della sua squadra, e, piano piano, ritornai nella trincea. Aveva cominciato a piovere: una pioggia gelida e minuta, traversata da folate di vento ghiacciato. Trovai il capitano pallidissimo, accovacciato contro un cestone che lanciava dei "fioi de cani" a destra e a sinistra. Resto in linea cogli uomini, capitano? E dove vuol andare, fiol d'un can? Il mio plotone era di rincalzo, e avrebbe dovuto restare nella cavernetta vicino al comando. Stesi invece le tre squadre fra il terzo e il quarto plotone, e, col sergente Rosa e l'attendente, mi piantai davanti a una feritoia, fra due cestoni. Potevano essere le quattro del pomeriggio, e sul cielo livido di nuvole dense gi si incominciavano a presentire le ombre della sera. All'improvviso, dietro le quote nemiche, l'artiglieria si risvegli; e fu un risveglio spaventoso. L'azione alla nostra sinistra doveva essere andata male; le nostre batterie avevano quasi cessato il loro fuoco. Non si udivano che i rabbiosi latrati dei quattro pezzi della nostra Settantacinque, che mordevano con furia quota 121. In pochi minuti il bombardamento nemico divent d'una intensit atroce. Le granate ci giungevano dai rovesci delle linee nemiche, dalle bassure di Duino, dall'Hermada, da quota 144, dalle doline infossate dietro le due quote 208: ci prendevano d'infilata, ululando venivano a stormi a schiantarsi, con una precisione terribile, sulla nostra linea. Eravamo schiacciati contro il muretto, la testa nelle spalle, le pupille che si serravano a ogni rauco sibilo, con la disperata certezza della nostra inerme inferiorit di fronte a tanta violenza. Disarmati: peggio che disarmati : un gregge da maciullare. Angoscia di aspettare la morte senza nemmeno vedere il nemico che ci uccide!

A tratti pensavo che tutta la compagnia doveva essere gi sfracellata, e ch'io ero il solo sopravissuto. Sentivo, nel fragore senza sosta, delle deboli grida, delle implorazioni acute. Dov'era il capitano? Dov'erano i miei colleghi? E la mia squadra? Il mio caporal maggiore rimasto, coi suoi nove uomini, all'aperto, a "vigilare" ?... Per quanto aguzzassi lo sguardo fuori dalla feritoia, non vedevo nulla, sulla pietraia livida che mi si stendeva davanti, nella foschia della sera piovigginosa. E la mamma, la mamma che faceva a quell'ora? Forse Maria studiava il pianoforte con la sua maestra. E io... Se la mamma avesse potuto sapere, avesse potuto vedere... Ma che facevo incollato a quella feritoia? Perch avevo paura di staccare persino la faccia da quelle pietre? di alzar la testa e guardar per la trincea, dove c'erano i miei uomini, il mio capitano, i miei colleghi? Perch non giravo per la linea a rincorare i miei soldati? a dar le novit al mio capitano? a mostrargli che non avevo paura? No, io non avevo paura. Non avevo paura. Morire: ecco tutto; essere travolto da una di quelle granate, sepolto sotto un rovinio di pietre... Mi feci forza, mi irrigidii, mi staccai dal muretto. Sccccccccciiiiiii... vrann! vrannn! Mi ributtai gi, contro un cestone. Ma dove va, signor tenente? A vedere i miei uomini. Stia qui... Non si pu far niente. Non importa. Seppi staccarmi, fare qualche passo per la trincea, a testa alta. L'uragano di fuoco continuava. I soldati erano addossati al muretto, e mi guardavano inebetiti e attentissimi. Parevano ascoltare se, in mezzo alla orrenda tempesta, venisse il ronzio di quella granata che li avrebbe uccisi. Coraggio, ragazzi, fra pochi minuti andranno a mangiare anche loro. Qualche faccia sorrise, ma si ricompose subito come se il sorriso costasse un'insostenibile fatica. Tentai di accendere una sigaretta; ma una ventata fiammante mi lanci a terra, addosso a un soldato. Gli nascosi la faccia sul petto. Un chiarore sanguigno. Un metallico ronzio di scheggie. Niente? Niente, signor tenente. E lei? Niente. La mano? Una scalfittura : sottile e diritta come il taglio d'un rasoio. Ne succhiai il sangue. Una sciocchezza. Il capitano? Pi in gi, col tenente del primo. Ma io non potevo e non volevo abbandonare il mio plotone; e ritornai

accanto al sergente Rosa, davanti alla piccola feritoia aperta tra i sassi. Gli uomini del caporal maggiore Binaglia dovevano essersi trovato un rifugio, all'aperto, e forse stavano meglio di noi. Mi pareva d'impazzire e che a un certo punto sarei corso fuori, a gridare, ad urlare di farla finita, di ammazzarci tutti quanti, ma basta, basta con quell'inferno. Poi guardavo Rosa, guardavo il mio attendente, li vedevo tranquilli, mi vergognavo di me stesso, mi sforzavo alla calma, accendevo una sigaretta. Ci saranno perdite nel plotone? Non credo, signor tenente. pi il chiasso che la rovina. Se tutte le granate dovessero colpir nel segno, a quest'ora la guerra sarebbe gi finita osserv sottovoce il mio attendente. Un grosso sibilo friggente venne a spegnersi, con uno strano tonfo soffocato, sotto la feritoia. Non esplosa? Per adesso... Una voce rauca mi chiam, quasi rantolante. Mi volsi. Era il portaordini del capitano, col viso tutto insanguinato, che mi porgeva un foglietto . Ferito ? Niente: una piccola scheggia di striscio. E nella maschera rossa della faccia i due occhi gli brillavano di un sorriso quasi malizioso. Il capitano mi avvertiva che il sottotenente del primo plotone era rimasto ferito e che dovevo assumere il comando anche di quel plotone; aggiungeva di vigilare perch, dopo il bombardamento, il nemico avrebbe senza dubbio attaccato. Firmai, tesi il biglietto al soldato; e in quell'attimo come una ondata di fiamme mi invest, mi stord, mi rap via. Spalancai le braccia, precipitai chiss dove, insensibile e solo, disperatamente solo. Rinvenni quasi subito, e vidi sopra di me le faccie spaurite del sergente Rosa, del mio attendente, d'un soldato sconosciuto. Mi guardai intorno, volli muovermi: ero inchiodato a terra da qualche cosa di enorme che mi gravava sulle gambe. Forse non le avevo pi. Ecco: dovevo aver perdute le gambe. Una goccia calda e densa mi scivol gi dalla guancia nell'angolo della bocca: sangue. Pensai che era finita. Non sentivo nessun dolore: anzi, uno strano senso di leggerezza. Sorrisi ai soldati. Poi vidi che stavano facendo forza su qualche cosa, e avvertii una acutissima trafittura a un ginocchio. Mi venne da piangere dalla contentezza. Avevo ancora le mie gambe! In pochi secondi mi trassero fuori da una specie di sepolcro di sassi e di cestoni che mi si era rovesciato addosso, mi fecero bere dell'anice, mi sostennero per le ascelle. Niente. Una graffiatura sotto l'occhio, le ginocchia ammaccate, un braccio indolenzito. Illeso. Volli bere dell'altro anice, e vuotai tutta la borraccia del mio attendente. Poi il sergente mi accenn colla mano la trincea. Il punto del

muretto coi due cestoni che ci proteggevano non era pi che un mucchio di rottami, con un piccolo cratere bianco aperto nel mezzo; e di sotto i rottami spuntava un braccio immobile, colla mano color cenere, dischiusa, pareva, a un cenno di saluto. Uno dei miei caporali. Morto. Il bombardamento poco dopo cess; corsi gi per la linea a cercare del mio capitano. Lo trovai rannicchiato contro un cestone, col viso terreo, la barbetta sconvolta, due grosse borse di rughe nere sotto gli occhi smarriti. Mi guard come si guarda un'apparizione incredibile: Ma... non morto, lei? Il portaordini, sfuggito per miracolo allo scoppio, vedendomi investito in pieno, travolto dalla valanga di pietre, era corso a raccontare della mia morte al capitano. Qualche sera dopo fummo sostituiti in linea dal terzo battaglione, e la mia compagnia discese, di riserva, in una valletta pinosa, dietro la quota 83. Il novembre era freddissimo, ma le giornate serene; si andava in cerca di fondelli di granate per farne braccialetti e tagliacarte, e si giocava al pochr. L'ultimo turno in linea fu tranquillissimo; ma i plotoni, un po' i morti nel solito stillicidio quotidiano, un po' i feriti, un po' gli ammalati, s'eran ridotti della met. Il giorno del cambio, poche ore prima di scendere a Monfalcone, arrivarono i complementi. A me toccarono undici soldati e un caporal maggiore. Davanti alla baracca del capitano il sergente Rosa me li present. Erano tutti anziani, venivano dai depositi. Nuovissimi della trincea, si guardavano in giro come sorpresi che tutto fosse cos quieto e si potesse star ritti a sentir parlare un ufficiale e non si udisse un colpo. Dissi poche parole e, per consiglio dello stesso capitano, li lasciai nella cavernetta del plotone di rincalzo, che era vuota essendo stato il terzo plotone comandato di corv in Monfalcone. Si infilarono cos, uno per uno, nella cavernetta, felici di non venire in trincea; e, stanchi com'erano del lungo viaggio, non tardarono ad addormentarsi. Ripassando infatti davanti alla caverna un'ora dopo, sentii un concerto di soffi e di fischi da non lasciar dubbi. Scese la sera. Serena e tranquilla come da un pezzo non si godeva. La trincea era tutta un brulichio indaffarato di fanti, nell'imminenza dello sgombero. Coi miei due colleghi del primo e del quarto plotone, stavo sdraiato contro il muretto. Si parlava di donne. L'aria era fredda, ma la fantasia, eccitata da quell'argomento, ci riscaldava il cuore d'una struggente tenerezza. All'improvviso s'ud come un tonfo lontanissimo, nel silenzio: e, subito, un miagolio vorticoso sulle nostre teste, e uno schianto lacerante sotto la quota. T... Si stava cos bene!

Questa andata a trovare il capitano. Stemmo ad ascoltare, con un po' d'apprensione. Niente. Nessun altro colpo, nessun grido, gi. Riprendemmo a parlare di donne. Ma ci interrompemmo subito : il sergente Rosa correva verso di noi. Il capitano ? No, i complementi, signor tenente! Tutti. Corsi gi. Davanti alla baracca del comando di compagnia il furiere giocava a scopa coll'attendente del capitano. A momenti ci frega noi, quella brutta strega ! Al posto della cavernetta c'era una specie di mausoleo di enormi pietre scheggiate, irto di sbarre di ferro, di filo spinato contorto, di sacchetti sventrati: e tutto premuto, schiacciato, confitto, rottame su rottame, come se una gigantesca pressa l'avesse impastato. Verso il mare, al posto della bassa imboccatura della caverna, una piccola voragine. Cercammo di smuovere quei macigni, di aprirci un varco con le vanghette e coi piccozzini degli zappatori; ma ci sarebbero volute le mine. E il battaglione che doveva darci il cambio gi spuntava allo sbocco della valletta. Feci piantare una croce di legno al sommo del cumulo pietroso, e pregai l'aiutante del battaglione che saliva di farvi incidere i dodici nomi dei soldati colti nel sonno dalla morte. Scendendo, verso Monfalcone, sentivo i miei soldati che commentavano sommessi quella fine. Uno con un sospiro, osserv : Che peccato, non averli trovati. Pensa che avevano tutti le scarpe nuove.

III. LICENZA INVERNALE (gennaio 1916) Ci accantonammo, per il turno di riposo, a Passariano d'Udine, nelle case coloniche accovacciate nella campagna, intorno alla villa dei conti Manin. Ero l'ultimo arrivato: logico che quasi tutti i servizi e l'istruzione della compagnia toccassero a me. Ma Codroipo era vicino; e c'era un bar dove si poteva persino bere un americano e giocare al bigliardo. E poi c'erano delle donne. Venne Natale. Molti erano gi in licenza; e quella sera, alla mensa, si cerc di fare del chiasso e di ubbriacarci. Ma non ci riuscimmo. Squallida intorno la campagna, piena d'acquitrini; e le case addormentale, sotto un po' di luna. Un Natale senza luci alle finestre. In ogni casa, un vuoto; in molte un vuoto che non si sarebbe riempito pi. Verso la mezzanotte ci lasciammo. Io dormivo in una stanzetta a terreno nel rustico della villa, con un caro collega, l'aspirante Cappetta, di Salerno, che, di solito, si addormentava nell'attimo stesso che soffiava sulla candela. Quella notte non gli riusc di prendere sonno. Seduto sul letto, ad onta del freddo che lo faceva rabbrividire, mi raccont per un pezzo della sua casa e della sua famiglia. Sai, mi diceva, quando andr in licenza, busser alla porta di casa. in una stradetta vicina a una piazza. Si affaccier a una finestra la mia sorellina pi piccola ed io le dir serio serio : "ho dimenticato il fazzoletto ; sono tornato a prenderlo". E rideva di questa invenzione, lisciandosi, tutto commosso, i baffetti biondi. La licenza mi tocc a fine d'anno. E il viaggio, in tradotta, mi parve eterno, e, insieme, troppo breve, tanto era intensa quella smaniosa ansia di arrivare, quell'inquieto immaginarmi la scena che sarebbe successa. Quando la mia citt mi apparve, coi suoi campanili e le sue torri, sulla cresta del colle, dovetti staccarmi dal finestrino per non commettere qualche sciocchezza. A casa arrivai che nessuno mi aspettava. E fu una festa che mi stord. La mamma mi aveva allacciato con le braccia e non mi voleva lasciare, tanto che il pap, met per scherzo e met sul serio, intervenne per avere lui pure la sua parte. Quindici giorni. Qualche volta mi pareva che non finissero mai; qualche altra che dileguassero con una rapidit inesorabile. Tante cose da raccontare; e non saper mai da quale incominciare. Un po' la paura di spaventare la mamma, un po' il timore che la "mia" guerra non fosse poi cos interessante e meravigliosa come quella che si leggeva sui giornali; il

fatto che non riuscivo a dire neanche la decima parte di quello che mi ero proposto di descrivere. Ero ostinato e minuto, invece, nel voler sapere: di tutto e di tutti. I miei amici, per esempio, i miei compagni di liceo, dove erano? in quale reggimento? in quale parte del fronte? Curioso! Erano quasi tutti rimasti in citt, nei vari uffici. Protezioni, raccomandazioni. Chiss! Non avevo nessuna voglia di indagare, e neanche di esprimere lo sdegno che mi sentivo ribollire nel fondo a quella constatazione. Ne incontravo spesso, sul Sentierone.: ed erano tutti in diagonale, coi gambali lucidissimi e la cravatta bianchissima intorno al collo. Nessun pidocchio, certamente. Grandi esclamazioni di meraviglia, strette di mano gagliarde e "ti ricordi?", "ti ricordi?". E poi, di sfuggita: Sei in licenza? S. E tu? Macch licenza; ufficio da mattina a sera, e qualche volta anche dopo pranzo... Tu dove sei? Tal reggimento, tale compagnia... E fronte? Carso : Monfalcone. Ah!... Beato te. In questa maledetta Sussistenza dove mi hanno inchiodato, si crepa di noia. Quanto al crepare, sai, neanche da noi si scherza. S; ma un'altra cosa. No, no: credi a me. In fondo, siete dei fortunati. E se ne andava sospirando e scuotendo, come una vittima rassegnata, la testa. E poi c'era chi voleva sapere, sapere, sapere; e non poteva persuadersi ch'io non avessi proprio nulla da raccontare, neanche un attacco da descrivere, neanche una bella morte da rievocare. Ma lei non ha ammazzato ancora nessun austriaco? E pareva che in quella domanda ci fosse uno stupito rimprovero: come si sarebbe potuto vincere la guerra se tutti avessero fatto come me? Una zia, la pi cara delle zie, saputo che lass si giocava molto alle carte, si turb tutta e mi supplic, "per quanto avevo di pi caro" di non prendere quell'abitudine che avrebbe finito col rovinarmi. Quando ti invitano a giocare, pensa alla tua mamma che prega, al tuo pap che lavora da tanti anni per te, e... va a fare una bella passeggiata. Una cugina, che mi era stata anzi molto cara, quando seppe che in trincea non ci si poteva lavare e neanche far la barba, ebbe un brivido di sgomento e torse la bella bocca pregandomi di non ripeterle mai pi quelle "brutte cose" se non volevo vederla svenire. Non osai confessarle l'affare dei pidocchi, ma poi me ne pentii. Glielo confessai invece alla mamma; mi

prese la testa fra le mani e mi baci a lungo a lungo sulla fronte. Ecco: a casa mia, s, qualche volta, dopo pranzo, mi lasciavo andare a qualche confidenza. Ma poche cose, dette alla svelta, senza importanza. Sentivo che ormai io vivevo in un mondo lontano, troppo lontano dalla loro mentalit e dalle loro consuetudini. Potevano mai interessarsi al fatto che, nell'assenza del capitano, la compagnia fosse comandata da un sottotenente meno anziano di me, ma effettivo, e per questo solo considerato pi anziano? L'avrebbero creduta una delle solite ingiustizie; ed era invece un'ingiustizia assolutamente diversa dalle solite. Potevano persuadersi della necessit di promuovere a sergente il caporal maggiore Ferrarol? Potevano capire l'importanza dei turni di corv? E allora, perche raccontare? Io vivevo un'altra vita, in un'altra famiglia: ch'era la mia vera famiglia. Dove i pericoli, quelli s, non avevano nessuna importanza, e la morte era, in fine, un fatto d'ordinaria amministrazione, da registrarsi sul libro di contabilit della Compagnia. E la guerra... la guerra era la guerra, e nient'altro: ecco. Concepirla sotto una specie di morte atroce sempre imminente, era un errore. La guerra era piuttosto un modo di vivere, di pensare e di sentire, prima ancora che un modo di morire. O, forse, era questa continua possibilit di morire, presente senza tregua al nostro spirito, che dava a quella nostra vita un colore e una serenit nuovissima. S: la vita, nel suo senso assoluto, non che un'attesa della morte; ma gli uomini l'hanno organizzata in modo che l'illusione della sua durata una certezza indubitabile e, insieme, la pregiudiziale necessaria d'ogni pensiero e di ogni azione. Lass l'illusione secolare era caduta : ecco tutto. Non era pi necessaria perch l'avvenire non contava pi nulla. Il presente soltanto era la grande, infinita realt... Chi poteva capire tutto questo ? La mamma ?... La mamma non vedeva che con la sua angoscia, per gli occhi del suo terrore; e basta. Non poteva credere che ci fossero tante e tante ore liete e gioconde, lass, all'ombra della morte. La mamma contava i morti, e non credeva ai vivi. Nessuno, insomma, che potesse capire: nessuno che potesse vedere. E allora, dopo cinque o sei giorni, avrei voluto ritornarmene al mio reggimento, e non sapevo come passare i lunghi pomeriggi invernali, cos vuoti, nella mia citt, cos vuoti da immalinconire anche la mia giovinezza. Verso la fine della licenza il pap cadde ammalato; e questo accrebbe la tristezza della partenza. Dovevo prendere il treno delle cinque del mattino per raggiungere la tradotta a Brescia; e fu la mamma a svegliarmi. Capii che non aveva chiuso occhio in tutta la notte. Il suo viso, il suo povero viso bianco, era consumato dal dolore. E il pap? Non ha dormito affatto, poveretto.

Mi vestii in silenzio. La mamma era in cucina a prepararmi il caff. Nella stanza vicina alla mia, Maria dormiva, e ne sentivo il tranquillo respiro. Le sfiorai la fronte colle labbra, senza svegliarla; ma forse sent il mio bacio perch ebbe, nel sonno, un piccolo gemito. Nell'altra stanza il pap mi aspettava. Seduto contro una fila di cuscini, col viso scuro, gli occhi affossati, un convulso di singhiozzi che gli faceva tremare la gola, mi strinse quasi con furia contro il suo petto, mi baci, mormorando solamente: Poverino... poverino... La mamma non ebbe una lacrima. Quasi spettrale, cogli occhi nerissimi che parevano stranamente ingranditi nel suo viso bianco, mi accompagn fin sulle scale, si lasci abbracciare e baciare tutta fredda e tremante, dicendo ogni tanto il mio nome, come se lo confidasse a s stessa. Poi stette sul pianerottolo, con un braccio proteso in fuori a reggere la candela per rischiarare un poco la scala oscura. Quando fui gi, alzai la testa a guardarla : la fiamma oscillante della candela le riverberava nel viso tra palpiti d'ombra. Non aveva un gesto, non aveva una parola. I suoi occhi mi cercavano nell'ombra della scala. Per vedermi meglio, fece schermo con una mano alla candela ; e allora un tenuissimo sorriso parve passare, disperato, sul suo volto. Mamma! Gino... Il mio nome mi arriv a stento, come un soffio. Fuggii, chiudendo con forza alle mie spalle il portone della casa, che rimbomb cupamente nel silenzio della deserta via.

IV. CASTELNUOVO DEL CARSO (febbraio 1916) Alla fine di gennaio tutto il reggimento si port a Sagrado. Dovevamo sostituire, nelle trincee davanti a Castelnuovo, la Brigata Sassari. Sostammo una notte e tutto il giorno seguente nello scheletro di una grande filanda; e verso sera ci mettemmo in cammino, in fila indiana, gli uomini staccati l'uno dall'altro di qualche passo, per il sottopassaggio della ferrovia, su per il Bosco Cappuccio e Castelnuovo. La mia compagnia fu accatastata alla meglio in due baracche sudicissime che un aspirante della Sassari ci assicur assolutamente defilate dal tiro nemico. La notte fu abbastanza tranquilla; e l'alba trov tutti i fanti fuor della baracca intenti a spidocchiarsi i farsettoni di maglia e le camicie, con rosari di contumelie e di bestemmie all'indirizzo dei compagni della Sassari che, secondo i nostri padovani, avevano lasciato nelle baracche una specialit di pidocchi famelici, ancora sconosciuta alla nostra provata esperienza. Di buon mattino il maggiore adun tutti gli ufficiali per una visita al settore che si sarebbe dovuto, la notte, occupare con le nostre compagnie. Ma non s'era ancora girato il muro di cinta del parco Hohenloe, lungo il quale, come baracconcini da fiera, eran sorti a diecine i ben costrutti e muniti ricoveri dei Comandi di reggimento, del genio e dell'artiglieria, che un folgorante miaolio ci disperse tutti quanti, a terra, qua e l, il naso sui sassi. La granata scoppi sulla strada; e il ronzio delle precipitanti scheggie dur qualche secondo. Quando ci raccogliemmo di nuovo intorno al maggiore, constatammo d'essere stati tutti quanti colpiti. Leggerissime scalfitture, naturalmente : graffi di nessun conto : solo un aspirante, nuovo venuto, s'era avuta una sassata in uno stinco che n'era rimasto ammaccato sul serio. Ad ogni modo il maggiore giudic opportuno rinviare la gita in massa : e and in linea solamente coi quattro capitani. Ne torn a pomeriggio inoltrato, e colla faccia scontenta. Il mio capitano era addirittura furente. Mi assicur di non averci capito nulla e che l'assurdit di quella posizione era tale da scoraggiare anche i santi. Il cambio fu rinviato di ventiquattr'ore; ed io ne approfittai per toccar con mano la realt. Non volevo arrivar nuovo, in piena notte, in una trincea che non conoscevo, colla responsabilit del mio plotone e, forse, di tutti e tre i plotoni di prima linea. Non dissi niente a nessuno, tranne che al mio sergente, e, poco dopo l'alba, solo, mi avviai. Il mattino era sereno e silenzioso. Nemmeno un colpo di fucile per tutto il Carso. Il cielo si specchiava nelle infinite pozzanghere di fanghiglia. Le trincee di resistenza, che mi parvero abbastanza munite, formicolavano di soldati appena svegli e allegri, intorno alle marmitte fumanti del caff. Ogni tanto incontravo dei laceri e sudici fanti della

Sassari che, saputo dell'imminente cambio, lo anticipavano per conto loro, rotolando gi, a rivoletti frettolosi, verso le baracche. Una batteria da settantacinque si risvegli lontano, e a quattro a quattro, fulminei, i proiettili passavano nel cielo, andando a rompersi in quadruplici schianti sulle linee. A un certo punto mi infilai in un basso camminamento scavato nel fango e protetto, da un lato, da un sottile schermo di pietre sovrapposte. Ma tratto tratto quello schermo era sfasciato e il camminamento si perdeva in piccoli crateri che il fango e l'acqua avevano subito riempiti. Dopo duecento metri, pi nessuna traccia del camminamento. Bisognava andare allo scoperto. Mi fermai un attimo a guardare e poi mi accinsi ad attraversare di corsa lo spianato sassoso, pensando che fosse sotto il tiro delle mitragliatrici nemiche. Un caporal maggiore della Sassari, che incontrai proprio in quel punto, mi assicur che li s'era abbastanza sicuri e che le pallottole passavano tutte pi alte. Gli domandai dove fossero le trincee del 151, che avremmo dovuto sostituire; e quello tese un braccio: L, signor tenente... Mi volsi a guardare; e all'improvviso sentii che il caporal maggiore mi si aggrappava a una spalla con un lungo sospiro. Cercai di sostenerlo. Teneva gli occhi chiusi e rantolava. Gli passai un braccio sotto le ascelle: la mia mano si bagn di sangue. Poi mi pes tutto sulle braccia, scivol gi. Una pallottola gli era entrata sotto la spalla sinistra e lo aveva fulminato. Un poco pi avanti, nella dolina Piras, trovai il comando del 151; e raccontai a un piantone della morte del caporal maggiore. Da un ricovero usc un capitano, con una faccia insonnolita, che mi guard con stupore, mi ascolt annoiato e fin per dirmi : Torni alle sue baracche. La linea, ha tempo di conoscerla dopo. Adesso inutile fare delle passeggiate sentimentali, al solo scopo di verificare se il 151 pulisce le trincee come prescrive il regolamento. E al suo colonnello dica che la Sassari se ne frega delle ramazze. Ha capito? Evidentemente il capitano era di malumore. Salutai e ritornai indietro. Alle baracche c'era il mio capitano furibondo, che mi cercava da due ore. Il maggiore mi aveva mandato a chiamare tre volte. Corsi, col batticuore. Al Comando di battaglione il maggiore mi avvert che, finito il primo turno di trincea col mio plotone, sarei passato al comando, come suo aiutante maggiore. Credo di non aver saputo nemmeno rispondergli, tanto ero rimasto contento e orgoglioso. Il maggiore mi guard piuttosto a lungo, socchiudendo, come soleva, un occhio: e poi gli vidi l'ombra d'un sorriso passar furtiva sotto il cespuglio rossiccio dei baffi. Null'altro. Un saluto, rigidissimo; un dietrofront; e ritornai tra i miei fanti. A mezzanotte eravamo in linea. Io presidiavo col mio plotone, il

"budello". *** A che cosa in realt servisse il "budello" e quale compito avesse il plotone che lo presidiava, non si sapeva. Il tenente della "Sassari" che me lo diede in consegna mi disse che nei tre giorni che aveva dovuto starci coi suoi uomini ne aveva avuti otto ammazzati e sei feriti, che si era presi d'infilata dalle mitragliatrici nemiche, e alle spalle dalle vedette delle nostre stesse compagnie distese nella trincea retrostante. Consegne vere e proprie da darmi, non ne aveva: se volevo, potevo far rotolare qualche morto che incominciava a puzzare, nella trincea nemica; ma non era prudente rischiare una fucilata per un morto. Era notte fonda, e non ci si vedeva a un metro dal naso; e in quel fosso di fango, fra quei due incerti muriccioli di viscidi sacchetti di terra non ci capivo nulla. Sapevo solamente che la profondit della trincea era tale, da coprirci si e no fino al petto, e che bisognava pertanto andar carponi di notte e restar sdraiati di giorno, se non si voleva servir da bersaglio a uno degli immancabili cecchini che, pipa in bocca e scodellone di birra a portata di mano, stavano annidati comodamente dietro un mausoleo di pietre nella trincea nemica, un occhio alla sottile feritoia e l'indice della destra sul grilletto. Ma la linea nemica quanto dista esattamente? Esattamente non saprei, e non ho mai cercato di saperlo. Calcola dai dieci ai venti metri. Con quest'ultima confortante notizia il tenente sardo se ne and. La notte era abbastanza quieta, pur con la consueta sparatoria ininterrotta. Cercai di orientarmi alla meglio per disporre le vedette accoppiate. Il "budello" si staccava dalla nostra linea all'altezza della dolina Berardi e si inoltrava diritto verso la trincea nemica che, in quel punto, descriveva una specie di arco di cerchio; dopo circa trenta metri si rompeva in un microscopico fortilizio protetto da un grosso scudo e da una montagnola di sacchetti gonfi di spessa fanghiglia, contro i quali poggiavano, disfatti, alcuni cadaveri di fanti della Sassari. La trincea nemica correva parallela ai budello per una ventina di metri, quindici passi al di sotto di noi, poi se ne scostava, puntando verso la nostra trincea principale. Cos, il "budello" era destinato a ricevere il frutto della sparatoria nemica e della nostra in caso d'allarme o d'attacco. Sistemate le vedette accoppiate, strisciai verso il mio ricovero, che era una specie di buco raschiato nel fango, coperto da una lamiera di zinco. Il mio attendente mi aveva preceduto, come al solito, e lo trovai che bestemmiava in sordina per l'immondizia accumulata in quel metro

quadrato di fanghiglia. Aveva dovuto persino far rotolare gi dalla lamiera un cadavere che vi stava appoggiato a met, come se avesse voluto affacciarsi sulla trincea nemica; e diceva che gli era rimasto sulle dita un odor di morto che faceva venire il vomito. Impossibile accendere una candela; mi aiutavo con la lampadina elettrica. Ma la seconda volta che l'accesi, contro lo spesso scudo che proteggeva a mezzo l'apertura della tana venne a schiantarsi una pallottola, come una fulminea diabolica ditata. Le coperte, dopo mezz'ora, erano fradicie d'umidit. Topi grossi come gattini passavano tra le gambe, famelici. Uscii all'aperto, mi accoccolai alla meglio nel fosso, contro lo scudo, avvolto in un telo da tenda ancora asciutto, e accesi, con mille precauzioni, una sigaretta. Qualche gocciolina gelida veniva leggera dalle nuvole nere a posarmisi sulle guancia, sulla fronte, sulle mani. La fucileria ininterrotta, da Monfalcone al San Michele, pareva un infernale rosario di grilli d'acciaio, che talvolta, lontano o vicino, un'improvvisa ansia disperata intensificava in raffiche furibonde che andavano poi a poco a poco ricadendo nella normalit. A un certo punto il sergente Rosa mi capit davanti tutto eccitato ad annunziarmi che le pallottole venivano da tutte le parti e che gi quattro soldati erano rimasti colpiti, e almeno due, a suo parere, da fucilate dei nostri. Rifeci con lui, piano piano, il penoso percorso del "budello"; poi, riparandomi sotto la mantellina, buttai gi in fretta un biglietto al mio capitano prospettandogli la opportunit di lasciarmi in quel mozzicone illogico di trincea con una sola squadra, per evitare delle perdite inutili. Mi rispose con queste parole: "Non possibile. Budello estrema importanza. Tenga duro". A mezzo della notte le goccioline diventarono pioggia : e parve quasi un sollievo, nell'aria grassa di putrefazione. Ogni tanto si apriva, in cima a un fuso d'oro che sprizzava friggente verso le nubi, il candido bagliore d'un razzo : ondeggiava un poco, con livida stupefazione spettrale sul moncherino della mia trincea, e poi si spegneva; e allora la notte pareva schiacciarsi anche pi nera addosso a noi. Verso mattina la fucileria si spense quasi del tutto; e un sommesso brusio si diffuse per tutte le trincee del Carso. Noi nel budello si dovette addirittura strisciar come vermi. Un caporale che, per scavalcare un bidone, lev un attimo la testa oltre il muretto, s'ebbe una pallottola nella guancia che lo butt gi nel fango ululante di spasimo, mentre dalla vicinissima trincea nemica veniva, distintissima, una grassa risata. A mezzogiorno avevo gi tre morti e cinque feriti. Mi pareva assurdo continuare cos. Tornai a scrivere al mio capitano, facendogli un rapporto particolareggiato della posizione e pregandolo che, almeno, informasse il comando di battaglione per ottenere che, di notte, non si sparasse dalla trincea che ci stava alle spalle. Rispose che avrebbe provveduto. Ma ebbe pi effetto un mio biglietto al capitano Giorgi che comandava la terza compagnia, distesa precisamente in quel tratto di trincea donde ci

venivano le pallottole. Non solo mi rispose assicurandomi che avrebbe tenuto in silenzio tutti i suoi fanti, ma volle lui stesso sincerarsi della cosa, e, nel pomeriggio, capit nel budello a studiare la posizione e a concludere con me che tenere quella specie di camminamento avanzato con un intero plotone era una pericolosa sciocchezza. Era un ufficiale simpaticissimo, il capitano della terza: elegante anche in trincea, con due morbidi baffi biondi, stile milleottocentonovanta, il monocolo e un'arguzia sempre pronta. Ufficiale di carriera e coltissimo, usava considerarci, noi ufficiali improvvisati per la guerra, con un tantino di disdegnosa sopportazione; ma la sua signorile cortesia conteneva tale sottile disprezzo nei limiti di una affabilit abbastanza fraterna. Prima di andarsene dal budello mi sugger di spostare due vedette; e dovetti riconoscere che la sua osservazione era logica. Ma quando il mio capitano seppe della visita del collega e del suo consiglio, mont su tutte le furie e mi refil, per iscritto, un cicchetto in piena regola. Dopo quarantott'ore, ci eravamo abituati anche al budello. Le nostre grigio-verdi erano diventate colore del fango, e color del fango le faccie dei soldati. Si mangiava di notte, con una scatoletta di carne e mezza pagnotta : all'alba ci arrivava una marmitta di caff bollente : ed era l'unico refrigerio della giornata. Quasi tutto il pomeriggio lo passavo sdraiato dentro il microscopico fortilizio che chiudeva il budello, con un occhio contro la feritoia dello scudo blindato e il moschetto pronto, alla posta di qualche austriaco che spuntasse dalla trincea. Ogni tanto ne vedevo salire dei sottili capricciosi fili di fumo azzurro: forse qualche pipa tirolese; e allora puntavo due centimetri sot