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- 2011/12 Don Franco Mosconi L’APOCALISSE UN MESSAGGIO DI CONSOLAZIONE E LA TEOLOGIA DELLA STORIA G E S U’ I L M I S T E R O L’ INNAMORATO DELLA STORIA DELLA C H I E S A E DEL FUTURO Apocalisse 2-3 Apocalisse 4-5 Affi – Villa Elena, 19 novembre 2011

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2° - 2011/12

Don Franco Mosconi

L’APOCALISSE

UN MESSAGGIO DI CONSOLAZIONE E LA TEOLOGIA DELLA STORIA

G E S U’ I L M I S T E R O L’ INNAMORATO DELLA STORIA DELLA C H I E S A E DEL FUTURO Apocalisse 2-3 Apocalisse 4-5

Affi – Villa Elena, 19 novembre 2011

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Don Franco Mosconi Iniziamo con un’invocazione allo Spirito Santo. Preghiamo. (Più che una preghiera, è una constatazione del bisogno del silenzio)

L’uomo, nella nostra civiltà, vive nel rumore: non sa più che cosa è il silenzio. La vita nasce nel silenzio, l’uomo muore nel silenzio, Dio si incontra nel silenzio. Il silenzio è indispensabile alla vita umana: esso stimola a pensare, serve a non sbagliare, dispone ad ascoltare, aiuta a pregare. É necessario nella vita avere momenti di silenzio: tacere di sé è umiltà, tacere degli altri è carità, tacere in certi momenti è saggezza, tacere nell’insicurezza è prudenza, tacere quando tutto va storto è pazienza. L’uomo autentico ama il silenzio, medita nel silenzio, decide nel silenzio. Non si deve avere paura del silenzio: esso è maestro di verità, è gusto di profondità, è pace, gioia, serenità, è il modo per sintonizzarsi con Dio, è il linguaggio adatto per capire Dio. Ascolta.

Il nostro incontro sull’Apocalisse, avviato un mese fa, oggi si divide in due parti. Nella prima parte ho messo assieme il cap. 2 e il cap. 3 perché sono le lettere scritte alle Chiese (il titolo é “Gesù l’innamorato della Chiesa”); mentre nella seconda parte abbiamo il cap. 4 e il cap. 5, dove incomincia a svilupparsi il messaggio vero e proprio. La visione inaugurale del cap. 1 ci aveva messi alla presenza del Cristo glorioso che cammina in mezzo ai sette candelabri, cioè in mezzo alle sue Chiese . Abbiamo imparato dal primo capitolo che quel Cristo glorioso ci ama. Proprio al presente: ci ama, ha un atteggiamento attuale, perenne, costante di amore. Quante volte ho ripetuto: sentiamoci persone amate da Dio. Abbiamo visto che dalla sua bocca esce una spada affilata a doppio taglio, cioè una parola capace di discernere, di distinguere il bene dal male, il vero dal falso, quello che è conforme al progetto di Dio e quello che invece si oppone a tale progetto.

GESÚ L’INNAMORATO DELLA CHIESA (Apocalisse cap. 2-3)

ITINERARIO DI VITA CRISTIANA

Nei cap. 2 e 3 il Cristo glorioso diventa ‘il pastore’, che si rivolge alle sue Chiese e dirige con una parola che è, appunto, spada affilata, parola di giudizio, parola di discernimento. Ci sono sette lettere dirette ciascuna a una delle comunità alle quali il Cristo Risorto rivolge esortazioni, o parole di conforto, o anche di rimprovero. In conclusione: è un invito alla conversione. E facciamo nostre queste lettere perché ci riguardano: quando leggiamo e meditiamo, non sono più per quelle Chiese, che oggi non esistono più.

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Mentre leggevo queste lettere, pensavo: le nostre reggeranno? che fine faranno? Facciamo nostre queste esortazioni!

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1. ALLA CHIESA DI EFESO : RINNOVARE L’AMORE PER IL SIGNORE

[1] All’angelo della Chiesa di Efeso scrivi: Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro: [2] Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza, per cui non puoi sopportare i cattivi; li hai messi alla prova – quelli che si dicono apostoli e non lo sono - e li hai trovati bugiardi: [3] Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. [4] Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima. [5] Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto. [6] Tuttavia hai questo di buono, che detesti le opere dei Nicolaìti, che anch’io detesto. [7] Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio. La prima lettera è diretta alla Chiesa di Efeso, che é la Chiesa più importante. Efeso era la capitale della Provincia di Asia ed è certamente una delle città che ha avuto maggior rilievo nella formazione del cristianesimo primitivo, che si è formato attorno ad alcune comunità principali. Antiochia di Siria, Efeso e Roma sono state le prime grandi città. Ad Efeso San Paolo si è fermato per tre anni a predicare il vangelo, quindi la comunità efesina è stata curata dall’Apostolo per maggior tempo. Paolo qui si è speso molto. Efeso era una metropoli importante dal punto di vista ecclesiale ed anche dal punto di vista civico. Cosa dice il Signore a questa comunità? Due cose: · La prima è un elogio: c’è una serie di indicazioni per cui viene riconosciuto il suo valore. É una comunità

che ha faticato, che ha manifestato costanza, perseveranza; ha distinto chiaramente quello che era vero da quello che era falso, e ha anche sopportato con perseveranza le persecuzioni.

· Poi, c’è anche un rimprovero: Efeso è decaduta dall’amore iniziale. E penso che questo rimprovero sia anche per noi straordinariamente prezioso.

Cosa vuol dire? Vuol dire che nell’esperienza cristiana ci sono dei momenti privilegiati, momenti dell’innamoramento, nella sequela del Signore. Ci sono stati certamente nella nostra vita momenti in cui abbiamo veramente voluto bene al Signore, in cui abbiamo accolto e capito la bellezza anche della nostra consacrazione battesimale, dello spendere la nostra vita per Lui. Abbiamo desiderato dare tutto senza riserve e senza pentimenti. C’è una dedizione, c’è una fede grande, ma succede nella vita cristiana quello che capita molto spesso in ogni scelta che deve perdurare: Il tempo svilisce, rende opaca l’adesione iniziale; spesso viene meno l’entusiasmo, la gioia del dono. Succede facilmente che il cristiano tenda un po’ ad imborghesirsi, a lasciarsi in qualche modo condizionare dall’ambiente circostante, dal mondo, ad assumere comportamenti usuali e viene meno quello splendore della prima adesione al Signore. Chi, facendo l’esame di coscienza, non si rende conto di questo? É la tentazione della Chiesa di Efeso, ma è la tentazione della Chiesa di tutti i tempi, nostra compresa: la mondanizzazione è un rischio, è un pericolo costante. Giovanni direbbe: “Ricordatevi che siete nel mondo ma non del mondo”.

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Allora bisogna che la comunità cristiana se ne renda conto, che non stia così a dormire sugli allori, che ci sono stati certamente e che il Signore riconosce. Ci sono stati momenti belli nella comunità di Efeso, ma questi non danno garanzia per il futuro. Quindi la conversione, il richiamo che ci viene, deve essere permanente: è un invito costante. L’amore rivolto al Signore deve essere un amore che si rinnova giorno per giorno. Si tratta di recuperare il fervore di un tempo. Quando il profeta Osea, nel cap. 2, parla della condizione di idolatria di Israele, il Signore interviene per giudicare Israele, ma soprattutto interviene per ricondurlo all’impegno di amore e di fedeltà del tempo iniziale: “L’attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore”.

Per noi: perché non vedere anche questi ritiri mensili come momenti proprio di attrazione, un richiamo per tornare al fervore iniziale? Il Signore, diceva Osea, riporta Israele nel deserto, al tempo della luna di miele, al momento in cui aveva conosciuto Dio e si era innamorato di lui. Lì nel deserto, nel silenzio, dove non c’è niente che possa distrarre, il Signore parlerà al cuore di Israele: recupera il rapporto di piena intimità, ma non di intimismo, per recuperare, e poi re-immergersi nella storia con una carica nuova. Nel “deserto” rinasce la vita di fede, rinasce l’adesione, la nostra consacrazione battesimale al Signore. Ecco cosa chiede il Signore alla comunità di Efeso. (vv. 4 e 5) Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Insieme a questa esortazione c’è anche una minaccia: Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto. Il Signore è Colui che viene e tutte le comunità cristiane fanno esperienza di questa venuta. Ravvediti, convertiti, perché la venuta del Signore sia per te la conferma del rapporto di comunione, di amicizia, di alleanza. In caso contrario, sarà una venuta di giudizio: «rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto»: vuol dire il venir meno della comunità, lo scomparire della comunità dalla faccia della terra. É una minaccia che purtroppo si è avverata per molte comunità cristiane dell’Asia, ma è una possibilità concreta per tutte le comunità cristiane. Infatti, sento dire...parlando con persone che incontro : “la vita religiosa anche nel Nord dell’Europa sta sparendo, ed anche la vita di consacrazione. Un mese fa c’era da noi un novizio, un francescano conventuale: in tutta la Germania ce n’ é uno! Ce lo ha riferito lui, che ha fatto sosta per una settimana nell’Eremo, prima di andare ad Assisi per il noviziato. Un altro monaco del Belgio confermava la stessa cosa. «Ti rimuovo dal tuo posto»: É una possibilità concreta per tutte le comunità cristiane. O la comunità mantiene questo suo fervore o rischia di mondanizzarsi e quando questo succede si confonde con il mondo e scompare come comunità cristiana, perde il senso del lievito, perde di incisività, perde il suo significato. Il rischio è permanente! Quindi una riflessione di questo genere, come viene riferita alla comunità di Efeso, può aiutare ad avere un atteggiamento corretto nei confronti della comunità cristiana. Quando pensiamo a queste prime comunità cristiane, noi abbiamo una visione un po’ idealizzata, le consideriamo perfette, pure, veramente consacrate al Signore in tutta la loro esistenza; invece la Chiesa ha conosciuto il rischio di questo intiepidimento, della perdita del fervore iniziale. A tale rischio la Chiesa è chiamata a fare attenzione proprio da questa lettera. Ed è significativo fare un confronto e notare come viene descritta la Chiesa qui, e come viene descritta nel cap. 12 quella: «donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi»: è la Chiesa bellissima, integra, splendente dello splendore stesso di Dio, bella della bellezza di Dio. Ci si può chiedere: “Come è la Chiesa?” Dovrebbe essere bella della bellezza di Dio oppure esiste con i suoi compromessi, con le sue debolezze, con le sue fragilità.

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Potremmo dire che la Chiesa misteriosamente è l’uno e l’altra: ha la bellezza di Dio e i suoi compromessi; è fatta di quel materiale povero che siamo anche noi e porta nella sua esperienza anche la condizione di fragilità, di debolezza degli uomini. Nello stesso tempo, però, è e rimane il corpo di Cristo, rimane quella Sposa che Cristo ha purificato e ha reso bella con il lavacro dell’acqua accompagnato dalla Parola. L’ha resa bella, l’ha purificata da ogni macchia e ruga: è quindi bella della bellezza di Gesù, della bellezza del Signore. Il fatto che la Chiesa sia queste due cose insieme, fa sì che il cammino della Chiesa debba essere sempre un cammino di conversione. Prendere contatto con la realtà passata, è un richiamo anche al nostro cammino di conversione. La distanza fra quello che siamo, in quanto corpo di Cristo, e quello che realizziamo concretamente data la nostra debolezza, ci deve mettere in questo atteggiamento non solo di tensione, ma di conversione continua, di rinnovamento impegnato e costante. E, come ogni lettera, finisce: Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio. Troveremo ripetutamente espressioni e immagini di questo genere per indicare che il dono che sta al termine del cammino di conversione è la partecipazione alla vita stessa di Dio. Un accenno: Si parlava dei Nicolaìti. Si ignora quasi del tutto questa eresia. Le uniche informazioni ci sono fornite dall’Apocalisse che rimprovera certe tendenze gnostiche o libertine. Questo voleva dire con Nicolaìti. Passiamo alla Chiesa di Smirne.

2. ALLA CHIESA DI SMIRNE: FEDELI FINO ALLA MORTE

[8] All’angelo della Chiesa di Smirne scrivi: Così parla il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita: [9] Conosco la tua tribolazione, la tua povertà -tuttavia sei ricco (per altri motivi...ricchezza interiore) - e la calunnia da parte di quelli che si proclamano Giudei e non lo sono, ma appartengono alla sinagoga di satana. [10] Non temere ciò che stai per soffrire: ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere, per mettervi alla prova e avrete una tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita. [11] Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte. Mi pare siano belle le parole che il Signore rivolge a questa Chiesa perché sembra che qui non abbia nessun rimprovero da fare: «Conosco la tua tribolazione, la tua povertà, tuttavia sei ricco». Siamo davanti ad una comunità povera dal punto di vista sociale, che non ha un grande impatto sul contesto culturale della città, il grande porto di Smirne. In realtà, nonostante appaia povera e insignificante, in qualche modo anche lei è ricca. C’è una ricchezza interiore che il Signore riconosce a questa comunità e non ha grossi rimproveri da fare. Se è spiritualmente ricca pur apparendo povera, che cosa le si può promettere? La vita, la felicità, la benedizione di Dio. La vera ricchezza è quella interiore. Però, le viene promessa anche la persecuzione. Infatti, le viene detto: «Non temere ciò che stai per soffrire: il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere, per mettervi alla prova».

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Dunque è fedele, e questa fedeltà patirà la persecuzione; proprio perché è fedele la comunità di Smirne deve conoscere la partecipazione alla sofferenza del suo Signore, deve imparare a non aver paura della persecuzione, perché essa è il segno della piena fedeltà. Quindi le prove, quando vengono, ci fanno soffrire, ma come in esse sappiamo rispondere? Prima si parlava del silenzio come momento positivo, importante. La comunità di Smirne è diventata degna addirittura di partecipare alla passione di Cristo. Quindi un credente, solo se è legato veramente al Signore, può vedere una sofferenza che non riesce a capire come una condivisione della sua. Naturalmente le viene data la promessa della vita: «Ti darò la corona della vita» ad una condizione che è: «Sii fedele fino alla morte». Solo nella morte, solo quando avrà pagato la sua fedeltà al Signore fino all’ultimo, questa comunità potrà ricevere la corona della vita. E poi: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte». L’incontro con la morte è doloroso per tutti. La persecuzione entra in questa sofferenza, ma la promessa è che questa morte è provvisoria. Così l’esperienza della persecuzione rimane provvisoria perché al di là c’è quella vita che non è colpita da alcuna morte, da alcuna persecuzione; non c’è in essa una seconda morte, cioè quella eterna, che potrebbe essere il fallimento di una vita. Dunque, promessa di persecuzione ma anche di vittoria. Passiamo alla Chiesa di Pèrgamo.

3. ALLA CHIESA DI PÈRGAMO: L’IDENTITÀ DEL CRISTIANO

[12] All’angelo della Chiesa di Pèrgamo scrivi: Così parla Colui che ha la spada affilata a due tagli: [13] So che abiti dove satana ha il suo trono; tuttavia tu tieni saldo il mio nome e non hai rinnegato la mia fede neppure al tempo in cui Antìpa, il mio fedele testimone, fu messo a morte nella vostra città, dimora di satana. [14] Ma ho da rimproverarti alcune cose: hai presso di te seguaci della dottrina di Balaàm, il quale insegnava a Balak a provocare la caduta dei figli d’Israele, spingendoli a mangiare carni immolate agli idoli e ad abbandonarsi alla fornicazione. [15] Così pure hai di quelli che seguono la dottrina dei Nicolaìti. [16] Ravvediti dunque; altrimenti verrò presto da te e combatterò contro di loro con la spada della mia bocca. [17] Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve. Viene esaminata la Chiesa di Pèrgamo. Pèrgamo é costruita su un colle, domina tutta la pianura ed era stata per secoli un regno indipendente, famoso dal punto di vista economico, culturale: la famosa Biblioteca di Pèrgamo era la più grande dell’antichità insieme a quella di Alessandria. A Pèrgamo, dice la lettera, c’è il «trono di satana», cioè il culto imperiale. Piano piano, nel progresso dell’impero romano, della ideologia imperiale, gli imperatori sono assimilati alla divinità. Si esercitava il culto della dèa Roma, del dio imperatore. Pèrgamo era uno dei centri di questo culto, e sul colle c’era un famoso altare: l’altare a Zeus, che era immenso, dominava tutta la pianura ed era il simbolo della città, il simbolo dell’idolatria. Il veggente dell’Apocalisse, infatti, la vede come il centro dell’idolatria.

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Tuttavia in questa città la comunità è rimasta fedele, non si è lasciata trascinare dall’idolatria, dal culto imperiale, cioè dai vantaggi che questi potevano offrire. A chi accettava di sacrificare agli idoli, all’imperatore, toccavano dei privilegi dal punto di vista sociale, economico. É sempre il rischio anche della nostra Chiesa aggrapparsi al potere di qualcuno per avere privilegi. Questo è idolatria. La comunità di Pèrgamo è rimasta fedele; tuttavia anche lei ha le sue macchie: ci sono sètte un po’ eretiche al suo interno che tendono a compromessi con l’idolatria, a speculazioni gnostiche che diventeranno diffuse nel secolo II d.C. (qui sono i Nicolaìti). Interessante è la promessa che viene fatta a questa Chiesa: «Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve». Ci sono varie interpretazioni di questa «pietruzza bianca», che potrebbe essere proprio: «un nome nuovo». É come l’immagine di una nuova identità che Dio dona a questa comunità, Quello che noi siamo dipende dal codice genetico che ci fa essere con certe caratteristiche dal punto di vista fisico, e tipiche caratteristiche dal punto di vista psicologico. In realtà la vera identità di ciascuno di noi la dice il Signore quando ci chiama per nome, quando dà a ciascuno di noi un compito, una vocazione, una missione. La nostra identità è quella di essere partner del Signore: è di uno che gli appartiene e che proprio nel rapporto con il Signore recupera se stesso. Vediamo proprio in questa pietruzza il nome nuovo, la nuova identità che Lui ci dona. Questo viene promesso: non siamo schiavi dei nostri limiti, anche se ce li porteremo dietro finché vivremo. Sembra dire: Non sono i nostri limiti che ci definiscono, ma quello che ci definisce è il Signore, è l’amore con cui si rivolge a noi, è il nome con cui ci chiama che non è scritto sulla carta d’identità, ma è dentro il nostro cuore. Abbiamo imparato a riconoscerlo rispondendo al Signore, dicendo di sì a lui e alla sua chiamata. Questa è la nostra vera identità. Anche questo fa parte delle grandi immagini della vita: una pietruzza bianca con su scritto un nome nuovo, pulito, integro, bello, quello che veramente siamo davanti al Signore. Leggiamo alla Chiesa di Tiàtira.

4. ALLA CHIESA DI TIÀTIRA: IL DONO DEL SIGNORE

[18] All’angelo della Chiesa di Tiàtira scrivi: Così parla il Figlio di Dio, Colui che ha gli occhi fiammeggianti come il fuoco e i piedi simili a bronzo splendente. [19] Conosco le tue opere, la carità, la fede, il servizio e la costanza e so che le tue ultime opere sono migliori delle prime. [20] Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Iezabèle, la donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla fornicazione e a mangiare carni immolate agli idoli. [21] Io le ho dato tempo per ravvedersi, ma essa non si vuol ravvedere dalla sua dissolutezza. [22] Ebbene, io getterò lei in un letto di dolore e coloro che commettono adulterio con lei in una grande tribolazione, se non si ravvederanno dalle opere che ha loro insegnato. [23] Colpirò a morte i suoi figli e tutte le Chiese sapranno che io sono Colui che scruta gli affetti e i pensieri degli uomini, e darò a ciascuno di voi secondo le proprie opere. [24] A voi di Tiàtira invece che non seguite questa dottrina, che non avete conosciuto le profondità di satana - come le chiamano - non imporrò altri pesi;

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[25] ma quello che possedete tenetelo saldo fino al mio ritorno. [26] Al vincitore che persevera sino alla fine nelle mie opere, darò autorità sopra le nazioni; [27] le pascolerà con bastone di ferro e le frantumerà come vasi di terracotta, [28] con la stessa autorità che a me fu data dal Padre mio e darò a lui la stella del mattino. [29] Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. A questa comunità viene rivolto un elogio perché possiede amore, fede, servizio, costanza. Ma le è rivolta anche una esortazione, perché c’è una profetessa che deve essere smascherata nella sua identità. E per ultima la promessa. Il Signore promette alla Chiesa di Tiàtira la sua stessa autorità, cioè il suo stesso potere. È quello che Gesù ha e che dona senza riserve - non a caso abbiamo detto: IL DONO DEL SIGNORE. Il Signore si dona a questa comunità e si dona totalmente; dice addirittura che le darà la «stella del mattino», che è Cristo stesso. Cosa vuol dire? Vuol dire che l’unica differenza che c’è tra la Chiesa e il Signore è che la prima riceve come dono quello che il Signore è per natura. Gesù è il Figlio di Dio, e anche noi siamo figli di Dio. La differenza sta nel fatto che Gesù lo è per natura, noi lo siamo per dono, per grazia. Ma la stessa filiazione del Signore diventa nostra e tutto il potere che il Signore ha sulla vita, sulle cose, viene comunicato alla Chiesa, viene comunicato a ciascuno di noi. La Chiesa ce l’ha, anche se ce l’ha come dono. Questa è la differenza fondamentale: Lui è così per natura, noi lo siamo per un dono suo. Vuol dire che il Signore ama così tanto la Chiesa che non le sottrae niente di quello che lui possiede, la rende pienamente partecipe dei suoi beni, della sua ricchezza, della sua gioia, della sua vita. Quante volte Giovanni dirà: “Perché la vostra gioia sia piena”. E qui viene espresso per questa Chiesa. Leggiamo alla Chiesa di Sardi.

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5. ALLA CHIESA DI SARDI: SVEGLIARSI DALLA MORTE

[1] All'angelo della Chiesa di Sardi scrivi: Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle: Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto. [2] Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. [3] Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te. [4] Tuttavia a Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti; essi mi scorteranno in vesti bianche, perché ne sono degni. [5] Il vincitore sarà dunque vestito di bianche vesti, non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli. [6] Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.

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Con la lettera alla Chiesa dei Sardi incomincia il cap. 3. Incominciamo ad entrare negli aspetti un po’ più aspri, quelli che possono mettere in crisi anche noi. Perché questa espressione: «Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto»? É una di quelle di fronte alle quali non riusciamo a difenderci. É una parola abbastanza dura. «Ti si crede vivo», vuol dire: davanti al mondo hai successo, grandi riconoscimenti, «invece sei morto», quella vita che ti era stata donata, l’hai sciupata, l’hai persa. Si tratta anzitutto di rendersi conto di questa situazione senza nasconderla, senza mascherarla, perché il rischio è proprio quello. Siccome noi viviamo al cospetto del mondo, cerchiamo di curare il nostro look, la nostra apparenza; quando davanti al mondo noi riusciamo a cavarcela con un riconoscimento, con un applauso, ci sentiamo in qualche modo al sicuro, ci sentiamo realizzati, riusciti. «Ti si crede vivo e invece sei morto». Ma c’è anche l’aspetto consolante. L’affermazione non è una specie di pietra tombale che viene messa e che chiude definitivamente la storia, bensì è il motivo di una esortazione a convertirsi, a ritornare. E difatti poi c’è: «Svegliati!». Ma sono morto, come faccio a svegliarmi? Chi è morto non può svegliarsi. Non è così! La Parola del Signore sveglia anche i morti, è quella parola che abbiamo ricevuto nell’annuncio del Vangelo e che è diventata un Sacramento nel Battesimo, perciò è proprio la Parola che sveglia, che resuscita anche dai morti. Siccome c’è questa Parola, c’è per Sardi una speranza: «Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e che sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio» Di consolante rimane sempre la Parola di Dio. Se una parola di Dio arriva alla mia vita, può mettermi anche in crisi perché mi dice la realtà del mio cuore; ma se una parola di Dio arriva al mio cuore, c’è speranza, perché la parola di Dio è creatrice. Quando rimprovera, purifica. Quando accusa, nello stesso tempo salva. Ecco perché non c’è mai una pietra tombale: la Parola ci può svegliare anche dalla morte. Se accettiamo il rimprovero della parola di Dio, siamo salvi. L’unico disastro sarebbe rifiutarla e affermare: “Non ne ho bisogno, non dice la mia verità, io sono vivo per conto mio”. Questo sarebbe veramente l’unico disastro contro il quale nemmeno la parola di Dio è capace di salvarmi, perché la salvezza richiede la disponibilità a lasciarsi salvare. Non ci salviamo da soli, occorre la disponibilità a lasciarsi salvare. «Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane... non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio». Non significa che le opere avevano qualche difetto, ma che quelle opere nuove della carità, che sono le opere della perfezione, non si esercitano più a Sardi e che la comunità ha perso un po’ la sua identità di comunità cristiana. E al v. 3 «Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te». Anche in questo caso si tratta di ritornare all’origine, alla prima adesione al Vangelo, al fervore iniziale, quando avevamo accolto la parola di Dio con gioia, con riconoscenza: avevamo lasciato operare il Signore dentro la nostra vita e il Signore aveva potuto costruirci un cuore nuovo attraverso una Parola accolta e ricevuta nella fede. In fondo, l’ascolto della Parola è proprio questo: lasciare operare il Signore dentro la nostra vita. Allora, “ricordati e riprendi l’atteggiamento iniziale della fede e della conversione”.

E al v. 5 «Al vincitore...la veste bianca». Nel NT la veste è il simbolo dell’interiorità, indica un cuore pulito, un’anima rigenerata, un’anima rinnovata. Passiamo alla Chiesa di Filadelfia.

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6. ALLA CHIESA DI FILADELFIA: DOVE IL SIGNORE AMA DIMORARE

[7] All'angelo della Chiesa di Filadelfia scrivi: Così parla il Santo, il Verace, Colui che ha la chiave di Davide:

quando egli apre nessuno chiude,

e quando chiude nessuno apre.

[8] Conosco le tue opere. Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere. Per quanto tu abbia poca forza, pure hai osservato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome. [9] Ebbene, ti faccio dono di alcuni della sinagoga di satana - di quelli che si dicono Giudei, ma mentiscono perché non lo sono - : li farò venire perché si prostrino ai tuoi piedi e sappiano che io ti ho amato. [10] Poiché hai osservato con costanza la mia parola, anch'io ti preserverò nell'ora della tentazione che sta per venire sul mondo intero, per mettere alla prova gli abitanti della terra. [11] Verrò presto. Tieni saldo quello che hai, perché nessuno ti tolga la corona. [12] Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che discende dal cielo, da presso il mio Dio, insieme con il mio nome nuovo. [13] Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Ci troviamo di fronte a una comunità povera, piccola. Mentre Efeso, Smirne o Pèrgamo sono grandi città e le comunità cristiane sono comunità cittadine, Filadelfia è una piccola comunità di campagna che si presenta povera, irrilevante, una di quelle che il Concilio Vaticano II chiamava: “piccole, povere, disperse, ma nelle quali è presente il mistero intero della

Chiesa”. Anche nelle nostre piccole parrocchie è presente il mistero intero della Chiesa. Cioè la Chiesa non si divide in comunità, ma la Chiesa si realizza in ciascuna comunità. Anche una chiesa piccola è presenza del Signore in mezzo agli uomini; anche una chiesa dispersa, povera è in realtà significativa agli occhi del Signore. Questi la cerca con interesse, la guarda, la cura con amore grande e la pone come colonna del suo tempio: questa comunità entra in quel tempio di Dio che è la Chiesa e che è il luogo dove Dio abita e riposa. Bisognerebbe imparare a vedere le nostre comunità cristiane come luogo che il Signore ama frequentare, dove il Signore va e si ferma volentieri, comunità che sono la sua gioia. Il Signore è la nostra gioia, ma è vero anche il contrario: le comunità sono la gioia del Signore e lui abita volentieri in quelle, anche piccole, che però hanno mantenuto la fede, la disponibilità alla Parola. Deve essere un motivo di grande gioia anche per noi. E passiamo alla Chiesa di Laodicèa.

7. ALLA CHIESA DI LAODICÈA: MENDICANTI ALLA PRESENZA DEL SIGNORE

[14] All'angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi: Così parla l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: [15] Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! [16] Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca.

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[17] Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. [18] Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista. [19] Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti. [20] Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. [21] Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono. [22] Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Qui il rimprovero riguarda la tiepidezza. É venuto meno il fervore, è venuta meno la gioia della fede iniziale; siamo di fronte all’indifferenza. Oggi si suole dire che il peccato più grave, anche di un credente, è l’indifferenza. Essa rende difficile la consapevolezza di sé e la conversione. C’è una realtà di peccato che non si riesce a nascondere e che quindi può anche diventare trampolino di lancio per la conversione. Quando uno è di fronte alla sua miseria ed è costretto a rendersene conto perché è evidente, c’è la possibilità della conversione. Quando invece uno è indifferente, non si rende conto. Quindi, dal punto di vista del cammino spirituale, è più complicata la specie di penombra per cui non si comprende se sia bene o male, se sia giusto o falso, non si capisce se sia in sintonia con Dio o, in fondo, mescolato con il mondo o mondanizzato; in questo caso suscitare il senso del proprio peccato è difficile, è molto difficile. Quello che è tragico nel nostro mondo è il fatto che ogni comportamento viene considerato come una cosa da poco, non grave: magari avrà anche sbagliato, ma...ci si fa l’abitudine, e, dopo un po’, non sembra più nemmeno una cosa così grave. Ci si abitua a tanti comportamenti errati o scorretti. Da qui nasce l’atteggiamento della tiepidezza, cioè non ci si impegna né nel bene, né nel male. La radice è proprio l’indifferenza. Naturalmente impegnarsi nel non fare il male è una cosa buona, ma l’indifferenza rende come impossibile la coscienza di sé, così uno non si rende conto del suo stato. Se uno non sa di essere ammalato, è una cosa grave perché non si cura. «Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla». Chi si crede autosufficiente, si crede arrivato: è il rischio che in alcune comunità emerge, anche nelle stesse lettere di Paolo. Paolo quando scrive ai Corinzi (1Cor 4,8-10): «Già siete sazi, già siete diventati ricchi; senza di noi già siete diventati re. Magari foste diventati re! Così anche noi potremmo regnare con voi. Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all'ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati». Con questa ironia Paolo cerca di smontare la comunità di Corinto, perché i cristiani di quella comunità pensano di essere già arrivati in Paradiso, di aver già raggiunto la perfezione, di essere in stato di grazia permanente, di non correre più nessun rischio. In verità sono dei poveri uomini, povera gente che si tira dietro tutta la propria fragilità che Paolo mostra loro. Cioè: “Non vi rendete conto che anche noi

apostoli ci portiamo dietro tutta la nostra fragilità, che ci riconosciamo come dei poveri in questo mondo?

Come potete considerarvi dei re come se aveste già raggiunto la realtà definitiva, come se foste già arrivati

in Paradiso?”

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É un comportamento, diciamo così, pericoloso: è la presunzione. Il pericolo è la presunzione di sentirsi qualcuno. Il cammino dei cristiani è fatto di speranza e non di presunzione: l’una è la virtù di chi cammina verso una meta; la presunzione è l’atteggiamento di chi pensa di essere già arrivato e non cammina più, non si converte più, perché pensa di non aver più bisogno di conversione, di rinnovamento. É un atteggiamento di orgoglio quasi satanico. Penso a un testo di Ezechiele, quando parla della città di Tiro: «Tiro, tu dicevi: io sono una nave di perfetta bellezza. In mezzo ai mari è il tuo dominio. I tuoi costruttori ti hanno reso bellissima». (Ez.27) Tiro, sembra dire Ez. è costruita su un’isoletta in mezzo al mare a poche centinaia di metri dalla riva e si sente come una nave perfetta che domina i mari, alla quale non può accadere niente tanto è robusta, tanto è bella, addirittura: “Il tuo cuore si è insuperbito e hai detto: «Io sono un dio, siedo su un seggio divino in mezzo ai mari, mentre tu sei un uomo e non un dio»” (Ez.28). Questo è orgoglio, questa è presunzione. La realtà invece è un’altra: «ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo». Questa, un po’ drammatica, è la fotografia della comunità di Laodicèa: infelice, miserabile, povera, cieca e nuda. Allora, non c’è più niente da fare? C’è solo il fuoco del giudizio che deve scendere dal cielo per distruggerla come Sodoma e Gomorra? No! La lettera a Laodicèa è dal punto di vista la più severa, ma è anche la più delicata, la più affettuosa: «Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista». Cioè: “renditi conto di quello che ti manca e vienilo a comperare da me”. C’è la possibilità di superare anche questa povertà spirituale, questa cecità spirituale, a condizione che uno compri dal Signore quello di cui ha bisogno, e lo può comperare senza spendere denaro. Ricordate il testo bellissimo di Isaia: «O voi tutti assetati venite all'acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte». (Is.55) Non c’è da pagare niente, c’è solo da riconoscere la propria debolezza, c’è solo da riconoscersi mendicanti. Se uno si riconosce povero, con quella povertà compera tutti i doni del Signore. Lui non ne toglie nemmeno uno, non ne nega nemmeno uno: l’oro, le vesti, il collirio. «Io tutti quelli che amo li rimprovero»: Questa è la motivazione vera. Se Gesù parla così alla comunità di Laodicèa, non lo fa perché è arrabbiato, perché esprime un rifiuto radicale, ma lo fa perché è innamorato di lei, non si rassegna a vederla umiliata e annientata dal male, rosa dal peccato o dalla tiepidezza. Sono sentimenti che bisogna sempre portarsi dentro, qualunque sia la situazione che noi viviamo. Se ci arrivasse anche qualche prova, ricordiamoci sempre dell’ amore di Dio, che non è mai vendicativo. Il Signore vuole la sua comunità bella. Ha dato la vita perché sia bella, e allora dice: tutti quelli che amo li rimprovero, non per la voglia di far soffrire, ma per il desiderio di renderli più puri, più belli, più attraenti. Nella lettera agli Ebrei, l’autore invita la comunità cui scrive ad essere disposta ad accettare la correzione del Signore, perché è il segno dell’amore paterno di Dio: «Il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio. É per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre? Se siete senza correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete bastardi, non figli!» (Eb. 12,6-8) Chi non è corretto dal padre, è bastardo; così, se Dio non vi correggesse, vorrebbe dire che non siete preziosi davanti a lui, che lui accetta tranquillamente il vostro fallimento. Invece, proprio perché è Padre, Dio rimprovera per indurre alla purificazione.

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Quindi: «Mostrati dunque zelante e ravvediti. Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me». Il mendicante è diventato il Signore: è Lui che sta alla porta e bussa, come se dovesse ricevere qualche cosa. Deve ricevere una risposta che dipende dalla libertà dell’uomo: É l’uomo che deve dire di sì, è Laodicèa che deve accogliere il Signore come un mendicante. Se lo accoglie, Laodicèa (che in realtà è il mendicante) sarà arricchita dal Signore. Cioè, il Signore è un mendicante capace di arricchire l’uomo a condizione che l’uomo lo accetti, che lo accolga. Una simile frase richiama il Cantico dei Cantici: lo sposo, che sta alla porta e che bussa, deve ricevere l’espressione d’amore, la risposta d’amore della sua sposa. Naturalmente diventa prezioso il richiamo all’attenzione: quando Dio bussa alla porta, bisogna che uno dica di sì, che sia disponibile e pronto. Nel cap. 50 di Isaia il Signore dice: «Per quale motivo non c’è nessuno ora che io sono venuto? Perché ora che chiamo nessuno risponde? É la forza della mia mano troppo corta per riscattare oppure io non ho la forza per liberare?» Perché quando Dio viene per liberare, nessuno risponde, nessuno lo accoglie? Forse che Dio non è capace di liberare? É capace! eccome! Il Signore è capace di liberare anche Laodicèa, è capace di vincere la tiepidezza. Ma quando il Signore viene e sta alla porta e bussa, bisogna che ci sia risposta da parte dell’uomo. Se c’è questa risposta, c’è il banchetto dell’amicizia, c’è il banchetto che esprime l’intimità, la comunione piena della vita: «Cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono». Quello che appare in questa lettera è semplicemente che Gesù è il Signore della Chiesa, la guida e la comanda. É un Signore che si interessa delle sue comunità, le scruta, le conosce, le loda, riconosce quello che hanno anche di bello, è pieno di bontà; ma, se è il caso, le rimprovera; ma lo fa per amore, per portarle alla conversione, cioè le esorta ad un rinnovamento di vita. A tutte le Chiese il Signore, annuncia la sua venuta. Lui viene! L’importante è che sia una venuta di salvezza perché trova una comunità disponibile ad accoglierlo, magari anche tiepida, ma che non dice di no. Lui è il Signore, è quello che ha in mano il futuro della Chiesa; è Lui che decide; è Colui che può fare della Chiesa una novità continua, perenne. É lui che desidera una vita di intimità con la sua Chiesa. Mi pare che siano delle provocazioni sempre attuali. Ecco l’importanza del primato della Parola.

8. CONCLUSIONE

Nell’Apocalisse: da una parte ci sono immagini di una grandezza sconvolgente: -nel primo capitolo il Figlio dell’uomo si presenta con gloria, potenza, splendore, come il Signore dell’Universo. Dall’altra, lo stesso si presenta come un amico che ha un desiderio infinito di comunione, di amore, addirittura come mendicante, un mendicante di amore, che chiede l’amore della sua comunità. Queste due cose di grandezza e intimità vanno insieme, cioè è sorprendente ma fondamentale per capire l’Apocalisse: i termini grandezza, trascendenza, incarnazione, e intimità vanno coniugati insieme. Il Figlio dell’uomo è il Signore dell’Universo e, nello stesso tempo, è lo sposo innamorato della sua Chiesa. Non desidera altro se non colmare la sua sposa di tutti i suoi beni, delle sue ricchezze, della sua gloria. Gesù Cristo non tiene niente per sé:

· se lui è un vincitore, dà la vittoria alla Chiesa, · se lui è glorificato, concede la gloria alla Chiesa,

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· se lui ha il potere di Dio, lo concede alla sua comunità, non tiene niente egoisticamente per sé. L’importante è che noi non abbiamo altri signori,ma Lui sia l’unico Signore. I due capitoli con le sette lettere dovrebbero esserci di aiuto. Abbiamo visto che sono un esame di coscienza anche per noi, un esame di coscienza per tutta la Chiesa che deve attuare sempre un cammino di conversione. Bisogna saperle leggere come la Parola che lo Spirito proferisce oggi alla Chiesa, che il Signore rivolge a noi come invito alla conversione, come riconoscimento di quello che di bello c’è nella nostra vita -difatti ci sono anche degli elogi-. L’invito alla conversione è insistente perché l’intimità con il Signore sia veramente completa, sia totale. Il Signore non si rassegna a comunità tiepide, a noi tiepidi, ma le/ ci vuole fervorose in questo rapporto di comunione e di amore con lui. Anche le comunità morte possono rivivere quando la Parola del Signore le tocca, quando il Signore si rivolge a loro ed esse l’ascoltano e l’accolgono.

IL MISTERO DELLA STORIA E DEL FUTURO

(Apocalisse cap. 4 - 5)

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Dopo le sette lettere che hanno occupato i capitoli 2 e 3, con il capitolo 4 l’Apocalisse incomincia ad introdurci nel mistero della storia, nel mistero del futuro.

11.. SSAALLIIRREE IINN AALLTTOO:: IILL PPUUNNTTOO DDII VVIISSTTAA DDII DDIIOO

[1] Dopo ciò ebbi una visione: una porta era aperta nel cielo. La voce che prima avevo udito parlarmi come una tromba diceva: Sali quassù, ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito. [2] Subito fui rapito in estasi. Ed ecco, c'era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto. [3] Colui che stava seduto era simile nell'aspetto a diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono. [4] Attorno al trono, poi, c'erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano seduti ventiquattro vegliardi avvolti in candide vesti con corone d'oro sul capo. [5] Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni; sette lampade accese ardevano davanti al trono, simbolo dei sette spiriti di Dio. [6] Davanti al trono vi era come un mare trasparente simile a cristallo. In mezzo al trono e intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni d'occhi davanti e di dietro. [7] Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l'aspetto di un vitello, il terzo vivente aveva l'aspetto d'uomo, il quarto vivente era simile a un'aquila mentre vola. «Sali quassù» Salire in alto: cosa vuol dire? Accogli il punto di vista di Dio. Questo brano è una meraviglia e dovrebbe essere motivo di grande consolazione perché si apre per noi una porta nel cielo «una porta era aperta nel cielo». Cioè Dio non tiene nascosto il suo segreto, il suo mistero, ma c’è la possibilità di salirgli accanto, di vedere le cose dal suo punto di vista. E questo, naturalmente, per pura grazia, perché noi non possiamo salire accanto a Dio. Solo il Signore, per pura grazia, può aprire il segreto del suo cuore, della sua mente, dei suoi progetti. Ed è proprio quello che avviene: «una porta era aperta nel cielo».

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«La voce che prima avevo udito parlarmi come una tromba diceva: Sali quassù, ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito». Ecco, ci si domanda: A cosa serve sapere le cose che devono accadere in seguito? Perché è così importante? É una curiosità da soddisfare? Non è questo il discorso. Il motivo è che Giovanni, la comunità cristiana di Giovanni, e la Chiesa tutta devono annunciare il Vangelo. Il Vangelo eterno è la notizia di un’opera di salvezza, è la speranza di un mondo nuovo, di quel mondo che Dio si impegna a creare. Noi dobbiamo annunciare e vivere solo questo, non abbiamo altro da annunciare che il Vangelo. E questo va sempre sottolineato. Dobbiamo annunciare il Vangelo, perché dobbiamo sapere quello che Dio farà nella storia: Dio vuol trasformare la nostra storia come annuncio del suo Regno. Dobbiamo annunciare il Vangelo per sapere quello che Dio farà della nostra vita, delle sofferenze, delle gioie che segnano il cammino dell’uomo sulla terra. Cioè sapere il futuro, in questo caso, non è questione di maghi che vogliono anticipare la conoscenza, è questione di sapere qual è la nostra speranza, che cosa possiamo davvero annunciare alla gente come sicurezza che non viene dai nostri sogni, ma dal progetto di Dio. Quindi quel «Sali quassù, ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito», manifesta la volontà di Dio di svelare il suo progetto di salvezza a Giovanni, perché lo possa conoscere e annunciare. Quindi si tratta di sapere il contenuto del Vangelo. Nient’altro! Ed è significativo che San Giovanni, per conoscere il senso della storia, debba uscire dal mondo per vedere le cose dal punto di vista di Dio. Per sapere il senso della storia non basta leggere i giornali o studiare i libri di storia o guardare la televisione o cercare le espressioni dei filosofi sull’uomo. Se si vuole sapere il senso della storia, si deve salire presso Dio (ricordate quella frase di Gesù a Pietro “Tu ragioni ancora secondo gli uomini, non secondo

Dio”). Stando dentro la storia spesso non si capisce, non si vede bene, si vedono solo dei piccoli frammenti. Se si vuole capire davvero il disegno, occorre salire verso Dio, vedere le cose dal punto di vista di Dio e del suo progetto. E Giovanni riceve come un dono questo modo di vedere le cose. «una porta era aperta nel cielo» = uguale: capire la storia. Dunque, viene innalzato in cielo, è in estasi: vede un trono circondato da un arcobaleno simile a smeraldo e attorno al trono ci sono «ventiquattro vegliardi e (subito dopo) quattro esseri viventi». I «ventiquattro vegliardi» dovrebbero significare i patriarchi dell’Antico Testamento e gli apostoli del Nuovo (dodici e dodici = ventiquattro). Questi ventiquattro vegliardi sono il simbolo della Storia della Salvezza, cioè raccolgono l’esperienza del popolo di Dio nella Storia della Salvezza. Quindi sono tutti i grandi personaggi che si incontrano nel Primo Testamento da Abramo in poi, che hanno camminato secondo la volontà di Dio, che sono stati guidati dal suo progetto; sono rappresentati da questi ventiquattro personaggi misteriosi che stanno accanto al trono. Dio sta in mezzo come dominatore di questa Storia di Salvezza. E poi ci sono i «quattro esseri viventi». Alcuni esperti dicono che il quattro è il simbolo anche della totalità dello spazio. Siccome noi lo spazio lo percepiamo a partire dal nostro corpo e lo utilizziamo in quattro parti: davanti, dietro, sinistra e destra, uno potrebbe dire: est, ovest, sud, nord. Quattro è il numero che rappresenta la totalità dello spazio. I quattro viventi sono il simbolo del cosmo, dell’universo, della creazione. Incominciamo a capire due simboli: i ventiquattro vegliardi e i quattro viventi = la Storia della Salvezza e il cosmo, la creazione. Tutto è attorno al trono di Dio: Dio è il Signore del mondo, Dio è il Signore della storia,

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Dio ha creato l’universo e Dio domina il cammino della vita dell’uomo nel mondo. Per cui (vv. 8-11) proclamano: [8] I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi; giorno e notte non cessano di ripetere: Santo, santo, santo il Signore Dio, l'Onnipotente, Colui che era, che è e che viene! [9] E ogni volta che questi esseri viventi rendevano gloria, onore e grazie a Colui che è seduto sul trono e che vive nei secoli dei secoli, [10] i ventiquattro vegliardi si prostravano davanti a Colui che siede sul trono e adoravano Colui che vive nei secoli dei secoli e gettavano le loro corone davanti al trono, dicendo: [11] «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l'onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono». Se uno vuole capire la storia, deve partire da Dio, dal riconoscimento che c’è un Dio che è Signore del mondo. Al centro del mondo e della storia ci sta Lui. Il trono rappresenta la regalità, la sovranità di Dio.

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2. UNA PORTA APERTA NEL CIELO: CAPIRE LA STORIA

E veniamo all’aspetto più significativo: [1] E vidi nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli. Sembra proprio una specie di testamento, perché i testamenti secondo il diritto romano dovevano essere sigillati con sette sigilli. Questo signore che siede sul trono ha nella mano destra il rotolo che contiene la sua volontà, che contiene il senso della storia. Il senso della storia cosa significa? Io mi trovo nella storia a confrontarmi con avvenimenti che spesso non riesco a controllare del tutto. Io non sono il signore delle cose e spesso le cose mi condizionano, spesso mi trovo a fare i conti con distacchi, con azzeramenti, con destini misteriosi che mi fanno soffrire. Mi trovo a che fare con oppressioni, con pianti di innocenti che a stento so spiegare, a stento so dare un significato. Quindi mi trovo nella storia a confrontarmi con questi eventi. Mi chiedo se questo materiale complesso, di cui è fatta la mia vita, abbia uno scopo, un perché: se c’è da piangere e questo serve a qualcosa, ci sto; se c’è da provare angoscia e questa costruisce qualcosa di positivo, la sopporto. Ma quello che non riesco a sopportare è il peso della sofferenza che non porta da nessuna parte, che sembra inutile, un po’ come le fatiche di Sisifo. É il dramma dell’assurdo che facciamo fatica a sopportare. La risposta sta in quel rotolo, perché in quel rotolo c’è scritto il testamento di Dio, il suo disegno, la sua volontà, il suo progetto. L’idea sarebbe di poter leggere, di poter sciogliere quei sigilli e leggere il rotolo. vv. 2-4: [2] Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?».

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[3] Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo. [4] Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo. Non c’è nessuna forza umana o sovrumana che sia in grado di sciogliere il mistero della storia, il mistero della vita. Non bastano i grandi filosofi, che pure hanno fatto il loro servizio; non bastano gli imperatori, i principi, i re. Nemmeno gli angeli e i demoni sono in grado di rivelare il significato di queste cose. Non bastano queste realtà per entrare nel mistero della storia: l’uomo rimane radicalmente impotente. E qui comprendiamo il v. 4: «Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo». Il pianto di Giovanni è il pianto di tutti gli uomini che non sono stati in grado di capire il senso delle loro sofferenze, delle loro angosce; sono stati radicalmente deboli di fronte agli avvenimenti che hanno sopportato, non hanno potuto fare altro che subirli, senza riuscire a comprenderli. Il pianto dell’uomo è quel pianto che attraversa e accompagna la sofferenza immensa dell’umanità «Io piangevo molto». Ma,... al v. 5: [5] Uno dei vegliardi mi disse: «Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli». «Non piangere più». Esprime la proclamazione di un avvenimento nuovo nella storia, da Adamo in poi. Qui c’è una novità, c’è una cosa nuova, qualcosa di radicalmente inatteso, inedito, che finalmente può dare il senso alla nostra vita, alle nostre storie, che sa svelare il mistero degli avvenimenti... «Non piangere più» «ha vinto...», chi ha vinto? «ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide» Questi sono attributi messianici. Il primo, il leone, viene dalla Gen. 49 quando Giacobbe benedice Giuda e lo proclama come un leone, il leone di Giuda, che poi è diventato un simbolo messianico. Il testo di Gen.49,9-10: «Un giovane leone è Giuda: dalla preda, figlio mio, sei tornato; si è sdraiato, si è accovacciato come un leone e come una leonessa; chi oserà farlo alzare?». Dunque è una figura messianica: il Messia è come il leone di Giuda. Il leone indica nobiltà, forza irresistibile. Ma, accanto al leone è citato «il Germoglio di Davide». Anche questo è un titolo messianico che viene da Isaia, quando annuncia che dal ceppo di Iesse, dalla famiglia di Davide, scaturirà un nuovo germoglio che sarà il Messia. Il Messia forte e vincitore «aprirà il libro e i suoi sette sigilli». Quindi bisogna aspettarsi la venuta di qualcuno forte e vincitore, la venuta di un leone forte e nobile.

3. NELLA PROSPETTIVA DELL’AGNELLO IMMOLATO

[6] Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi (ricordate che sono il cosmo) e dai vegliardi (la storia della salvezza) vidi un Agnello, come immolato. Egli aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra. Qui ci dobbiamo stupire: Ci aspettavamo un leone e abbiamo un agnello. Ci aspettavamo un vincitore e abbiamo uno sgozzato.

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Ma è proprio questo il mistero della storia: “Chi perderà la propria vita, la salverà”. Sotto la croce: “Ha salvato gli altri: salvi sé stesso se è il Messia, se è l’eletto di Dio, se è il Figlio di Dio”. Ecco perché ci aspettavamo un leone ed abbiamo un agnello, un vincitore e c’è un apparentemente sconfitto, uno sgozzato. Questo è proprio il mistero della storia. «vidi ritto in mezzo al trono» Indica che è in piedi ‘ritto’: è evidente. Se è sul trono esercita sovranità: è un vincitore. «circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi» Quindi i quattro esseri rappresentano il cosmo e tutto il mondo. I vegliardi la storia. Cioè la storia è per Lui, la storia dipende da Lui, quell’Agnello è il Signore del mondo, è il Signore della storia; «un Agnello, come immolato» che è stato sgozzato, che porta ancora i segni del suo sacrificio. É tipico della teologia di Giovanni. Anche nel suo Vangelo ci dice che il Signore Risorto quando appare nel cenacolo porta i segni della passione e li mostra ai suoi discepoli. Nel giorno di Pasqua (Gv 20) «Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore». E otto giorni dopo con Tommaso, ancora i segni della passione, che per Giovanni servono a ricordare che il Risorto e il Crocefisso sono la medesima persona. É vero che è risorto ed è glorioso, ma porta anche i segni del sacrificio: Se è risorto, se è glorioso, è solo perché si è immolato. Quindi la Resurrezione non è solo un dopo la morte, ma un dentro alla morte, quella morte che viene qui trasfigurata, ma è morte. Sembra dire che senza immolazione, non c’è resurrezione: Se non è sgozzato, non è nemmeno vittorioso. Se non ha sacrificato sé stesso, non è nemmeno in grado di vincere come un risorto. Dunque l’Agnello immolato ha: «sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra» Il numero sette: le sette corna indicano la potenza irresistibile. É un agnello, ma è potente. Che cos’è questo potere? Il potere che ha Gesù, il Risorto, non è un potere arbitrario, Gesù ha rinunciato al “faccio quello che mi

pare”, il potere che ha è il potere di dare la vita. Alla fine del vangelo di Matteo (Mt 28): «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate.... »: questo è il suo potere: il potere di dare la vita. «...Tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato» (Gv 17). Questo è il suo potere: dare la vita, donare la vita stessa di Dio. Proprio perché Gesù l’ha donata, la comunica. Ha un potere irresistibile, ma è un potere salvifico, un potere di vivificazione, un potere di rinnovamento del mondo. Questo è il significato delle sette corna, questo potere senza limiti di dare la vita. «e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra» Qui è la sorgente dello Spirito Santo. L’immagine é ancora giovannea il Crocefisso e il Cristo Risorto: ‘emísit spíritum’: è la sorgente dello Spirito. La sorgente in realtà è il Padre, ma il Cristo Risorto comunica lo Spirito ai suoi con abbondanza. «I sette spiriti» = l’abbondanza dello Spirito. Quindi il giorno di Pasqua Gesù appare ai suoi discepoli e soffia su di loro lo Spirito: «Ricevete lo Spirito Santo» Ecco come Giovanni riassume questi simboli. * Quando Gesù è sulla croce «...ricevuto l'aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, spirò». Questo spirò si traduce anche emísit spíritum: Ha comunicato lo Spirito di Dio che era in lui agli uomini per vivificarli. «uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua» e questa è una morte feconda, è una morte che produce la vita, e la vita è esattamente lo Spirito.

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Gesù comunica lo Spirito di Dio agli uomini. Ha la pienezza dello Spirito (ecco i sette occhi perché lo Spirito è sceso su di lui e si è fermato sopra di lui. E secondo San Giovanni quello Spirito che Gesù ha posseduto, ora lo trasmette, lo comunica. Quindi sottolineiamo chi è questo Agnello, perché da qui si coglie il mistero della storia. L’Agnello che viene presentato nell’Apocalisse:

- è regale perché è sul trono;

- è vittorioso sulla morte, perché porta i segni dello sgozzamento, ma è ritto in piedi, è vittorioso;

- è al centro del mondo e della storia perché attorno a lui ci sono i quattro esseri viventi (il cosmo) e i ventiquattro vegliardi (la Storia della Salvezza);

- con l’onnipotenza (le sette corna) per dare la vita. Proprio la simbolicità delle sette corna è questo potere di Dio: donare la vita;

- i sette occhi, la pienezza dello Spirito da comunicare.

- Ecco, sta al centro del mistero della storia. Se uno vuol capire la storia deve guardare questo trono, deve rivolgere lo sguardo a Lui, l’Agnello, perché quell’avvenimento che è la passione del Signore, la Pasqua di Gesù, non è uno dei tanti avvenimenti della storia, ma è la sintesi della storia stessa, è il compimento.

4. IL TRAGUARDO DELLA STORIA E DELL’UMANITÀ

Come credenti bisogna veramente aderire in pienezza! L’avvenimento centrale della storia è il mistero pasquale, che non è uno dei tanti avvenimenti: è la sintesi, il compimento. La storia ha raggiunto il suo traguardo. Cosa è successo nella Pasqua di Cristo? L’umanità, perché Gesù era Dio ma era anche uomo, fatto di carne e di sangue come siamo fatti noi, questo pezzo di mondo è diventato Risorto, diciamo: divino, trasfigurato. Gesù Cristo ha preso un’umanità: la nostra carne, fatta di terra, della nostra terra. Ma Gesù Cristo ha portato questa nostra terra, questa nostra carne, alla perfezione, alla divinità, attraverso l’obbedienza al Padre. Ha reso la nostra carne pulita, fedele, giusta, perfettamente fedele a Dio, fino alla morte «obbediente a Dio fino alla morte». Quindi vediamo il cammino che ha fatto Gesù nel mistero pasquale: Ha trasformato la sua storia - che è fatta anche della nostra carne - e l’ha resa obbediente a Dio. Quando l’umanità in Lui è arrivata all’obbedienza a Dio fino alla morte, è diventata perfetta, è entrata nella gloria. La Resurrezione, l’Ascensione, vogliono dire questo: un pezzo di mondo, la nostra carne, è diventata Dio, è diventata divina, è stata trasfigurata, trasformata. Come? Come, non lo so. Come non so quale cambiamento sia avvenuto all’umanità di Gesù attraverso la Resurrezione. Sono cose che noi non riusciamo ancora a decifrare, però sappiamo che tutto questo è avvenuto per amore: Amando! Dio ha tanto amato il mondo da consegnare il Figlio. Gesù ha fatto la sua Pasqua amando, lavando i piedi. É attraverso questo che arriva la Resurrezione. La storia non ha altro senso che questo: fare in modo che il mondo venga condotto fino a Dio. Noi dobbiamo pasqualizzare la storia. Ciò che ha fatto Gesù, l’ha lasciato anche a noi. La storia non ha altro che questo senso: fare in modo che questo mondo venga condotto fino a Dio, faccia il cammino che ha fatto Gesù Cristo, cioè vivere la Pasqua come compimento della storia, perché un pezzo di umanità diventa glorioso. Quindi la Pasqua è davvero il compimento della storia del mondo. Per questo l’Agnello pasquale sta sul trono, è degno di aprire il libro e di scioglierne i sigilli.

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Cominciamo a capire che soltanto guardando, contemplando questo trono, capiamo il senso anche della nostra vita, anche della nostra sofferenza, anche di quello che non capiamo. Ci fidiamo. Quindi non sono gli studiosi che studiano gli avvenimenti della nostra storia, non sono i potenti che ne decidono gli avvenimenti, non sono loro quelli che prendono il libro e aprono i sigilli. Chi prende il libro e scioglie i sigilli è Colui che ha dato la vita nell’obbedienza al Padre, che ha trasformato la sua vita in un atto di obbedienza e di amore. Questo è il mistero profondo della storia. E qui ci si deve confrontare per trovare le risposte a certe nostre situazioni personali. [7] E l'Agnello giunse e prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono. [8] E quando l'ebbe preso, i quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardi si prostrarono davanti all'Agnello, avendo ciascuno un'arpa e coppe d'oro colme di profumi, che sono le preghiere dei santi. [9] Cantavano un canto nuovo: «Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, (perché è degno?) perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione [10] e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra». Il senso della storia é che l’uomo venga riscattato per Dio e diventi un regno sacerdotale. Cioè l’umanità venga liberata da quelle catene di egoismo, di egocentrismo e diventi veramente un’umanità per Dio. Cosa dobbiamo fare? Quello che ha fatto Gesù Cristo: É stato immolato; ma non solo, ha trasportato la sua umanità dal nostro mondo al mondo di Dio: Ecco la Pasqua! Gesù ha fatto della sua umanità un’umanità obbediente, ricca di amore: ecco perché lui è il nostro modello! Facendo questo ha «riscattato uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione». Il riscatto è la liberazione dal male, in questo mondo, di tutta l’umanità: lingua, popolo, nazione; perché tutto appartenga a Dio, cioè diventi «un regno di sacerdoti». Cosa vuol dire? Che divenga un’umanità di persone in grado di convertire la propria vita in offerta gradita a Dio, cioè di fare quello che ha fatto Gesù Cristo. E Gesù Cristo oggi rende possibile questo a tutti noi: lui è il capofila, lui è il primogenito. Non c’è altro che questo da realizzare nella storia: diventare questo regno di sacerdoti offrendo a Dio, non qualcosa, ma la propria vita. Il sacrificio gradito a Dio è l’offerta della propria vita. Tutti gli altri sacrifici dell’AT sono un simbolo; hanno avuto il loro valore, ma quello vero è l’offerta della propria vita, la nostra consacrazione al Signore, a partire dal Battesimo. Quando la vita non appartiene più a noi ma a Dio, la vita del credente, di ogni credente, è una vita che viene trasformata, aderendo al Vangelo in pazienza, in bontà, in servizio, in sacrificio di soave odore . Nell’ottica di San Giovanni il senso della storia non sta in grandi progressi culturali, non sta in trasformazioni tecniche, che pure hanno il loro valore; non sta nemmeno nei nostri progressi sociali. Il vero senso è la trasformazione dell’umanità in qualcosa di gradito a Dio, in una vita di amore, di pazienza e di servizio.

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Quando avviene ciò, la storia è completa, è piena, è realizzata. Questa umanità può regnare sopra la terra, è in grado di vivere i condizionamenti e i limiti senza riportarli al proprio egoismo, ma trasformandoli in amore, in obbedienza e consacrazione a Dio. Non c’è nessun limite o povertà o condizionamento che ci possa impedire di trasformare la vita in fedeltà a Dio, in obbedienza a Dio. Abbiamo davanti il nostro modello, il nostro maestro che è Gesù Cristo. Anche le cose più pesanti, più angoscianti, possono diventare offerta a Dio. Regnare vuol dire non essere schiavi del mondo e delle cose, ma usare anche i condizionamenti del mondo e delle cose per realizzare la nostra vocazione che ha come fine la glorificazione di Dio nella nostra vita. Noi glorifichiamo Dio attraverso la nostra vita.

[11] Durante la visione poi intesi voci di molti angeli intorno al trono e agli esseri viventi e ai vegliardi. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia

[12] e dicevano a gran voce: «L'Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione».

[13] Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all'Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli».

[14] E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E i vegliardi si prostrarono in adorazione.

La liturgia celeste è quella nella quale si svela il senso del mondo. Quando la storia, il cosmo, gli angeli e tutte le creature riconoscono questa sovranità dell’Agnello e gli attribuiscono il potere, la ricchezza, la sapienza e la forza, la storia è rivelata nel suo senso. Quando celebriamo la liturgia, quando facciamo queste cose fondamentalmente con un canto, con un inno o con altro, noi glorifichiamo l’Agnello, riconosciamo che a lui spettano «potenza e ricchezza, sapienza e forza». Quando facciamo la liturgia, il senso della vita umana, la storia viene portata alla sua rivelazione, e tutto il materiale di cui è fatta l’esistenza nostra viene trasformato in lode a Dio. Il pane e il vino, che sono il simbolo anche delle fatiche e delle sofferenze degli uomini, diventano lode a Dio. Quello che noi in fondo dovremmo tentare di realizzare, quello che costituisce la nostra speranza è che tutta la vita diventi una liturgia, che quello che compiamo nel momento dell’Eucaristia animi anche il resto: il lavoro, la fatica, i momenti di tristezza. Tutte queste cose sono a lode e a glorificazione di Dio. Per chiudere: Giovanni ha posto la chiave di lettura di tutto il resto del libro in questi capitoli 4 e 5. Dopo si vedranno una serie di avvenimenti che tentano di chiarire ancora quello che avviene nella storia, ma il senso è praticamente determinato dall’immagine fondamentale dell’Agnello ritto in piedi sul trono di Dio. In fondo è il mistero pasquale: Cristo morto e risorto. Ciò che dovremmo fare, semplicemente, è prendere questi due capitoli, assimilarli il più possibile e riuscire a rinnovare la nostra fede nel Signore, nell’Agnello, come Colui che dà senso alla nostra vita, in tutti i suoi aspetti di gioia e di sofferenza, anche di quelli che non capiamo. Contempliamo questo Agnello come Colui che dà senso alla nostra vita. L’Agnello è in grado di sciogliere l’enigma della nostra vita.

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Guardando a Lui, ricevendo da Lui l’energia e la forza, anche noi possiamo trasformare la nostra vita in offerta sacerdotale, in sacrificio dedicato a Lui. Fare questo vuol dire portare la nostra vita a compimento. Quindi Colui che è in grado di prendere il libro e di aprirne i sigilli è anche Colui che decide, che definisce il valore degli avvenimenti, di ciò che effettivamente accade nella storia. E nella storia avviene il riscatto degli uomini, perché possano nuovamente diventare popolo di Dio e regno di sacerdoti, in grado di vivere in piena libertà questa figliolanza divina, da figli di Dio. Piccola Bibliografia sull’Apocalisse accessibile a tutti

1) Bosetti E. Percorsi nell’Apocalisse di Giovanni (cittadella Ed. 2005) 2) Biguzzi G. L’Apocalisse e i suoi enigmi (Studi biblici 143), Paideia 2004 3) Biguzzi G. Apocalisse. Nuova versione, introduzione e commento. Paoline, Milano 2005 4) Doglio C. Introduzione all’Apocalisse di Giovanni. LDC, (TO) 2003 5) Ravasi G. Apocalisse, Piemme, Casale Monferrato 1999 6) Vanni U. Apocalisse. Una assemblea liturgica interpreta la storia. Queriniana, Brescia 1994 7) Vanni U. Apocalisse, libro della rivelazione. Dehoniane, Bologna 2009 8) Vògtle A. Il libro dei sette Sigilli. Commento all’Apocalisse. LDC, (TO) 1990