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1 «Un pensiero di frontiera: la riflessione di A. J. Greimas e la ricerca in semiotica strutturale» Roma, 8, 9, 10 maggio 2017 Abstract Luca Acquarelli - Cristina Addis - Giuditta Bassano - Massimiliano Coviello - Cristina Greco - Stefano Jacoviello - Valentina Manchia - Francesca Polacci - Daniele Salerno - Giacomo Tagliani Luca Acquarelli Lo sguardo imperfetto della ‘camera analitica’. Su Pays Barbare di Gianikian e Ricci Lucchi Partendo dall’oggetto teorico Pays Barbare (2013), ultimo film della coppia di cineasti Yervant Gianikian et Angela Ricci Lucchi, nel mio intervento mi propongo di ritornare su alcuni punti teorici cari ad una semiotica dell’“imperfezione”. In particolare: la temporalità densa delle immagini legata al caso specifico delle re-enunciazioni dei film di montaggio di archivi; i modi di esistenza come meccanismo epistemologico per comprendere l’articolazione dello spessore discorsivo; in generale i rapporti fra narrazione, storia e tempo della memoria. Il caso delle re-enunciazioni di filmati d’archivio può essere illuminante per trattare “la temporalità plurale delle immagini” e i rapporti figurali che esse costituiscono all’interno di montaggi che sembrano lavorare più per contagio che per giustapposizione di iconografie. All’interno di un complesso processo di re-enunciazione, i montaggi “fotogrammatici” di Gianikian e Ricci Lucchi e lo sguardo sulla pellicola della loro camera analitica sembrano dunque aiutarci nel perlustrare lo spessore discorsivo dei fotogrammi, altrimenti depotenziati nella logica del cinema a 24 immagini al secondo. Se questa posizione analitica ci porta ad allargare lo sguardo ad una vasta teoria dell’immagine che reinterroga dai bordi disciplinari la semiotica delle arti, l’attenzione si porta anche sulle “sequenze” verbali del film: recitazione di testi in voce-off, letture di testi documentari, intertitoli con marche di discorso storico etc. Questo “testo” cinematografico complesso mette così in opera strategie enunciazionali contrastanti: da una parte tendenti a costruire una solidificazione del senso intorno ad aspettualizzazioni spaziotemporali stabili, dall’altro a far esplodere il potenziale analitico del materiale d’archivio. In questo contesto il figurativo (audiovisivo o verbale che sia) è una porta d’accesso al figurale. Scriveva Greimas: “la figuratività non è un semplice ornamento delle cose: essa è quello schermo dell’apparire la cui virtu’ consiste nel dischiudersi, nel lasciarsi intravedere, grazie o a causa della sua imperfezione, come una possibilità di senso ulteriore”. L’imperfezione ci introduce dunque nella complessità del senso: un modo per affermare che in uno stesso discorso coabitano diverse formazioni semiotiche all’interno di un regime di modi di esistenza molteplici. Come scrive Jacques Fontanille: “la co-presenza discorsiva non si riduce alla co- occorrenza. I modi di esistenza, il virtualizzato, l’attualizzato, il potenzializzato e il realizzato, convertono in qualche modo la co-presenza in uno spessore discorsivo, e proiettano delle articolazioni modali sul campo del discorso”. Questa tipologia ci permette di analizzare il testo aprendolo al suo spessore temporale e culturale, intendendolo come luogo di tensioni fra possibili traiettorie di senso. In fondo si tratta di lavorare un testo secondo gli stessi meccanismi che regolano una semiosfera. Allo schema proposto da Fontanille per i modi di esistenza dovremmo però aggiungere una variabile di fluidità processuale, allo scopo di rendere conto di opere come quella dei due cineasti. I modi di esistenza delle differenti “formazioni semiotiche” possono in effetti coesistere a diverse intensità, essere destinati a brusche inversioni di tendenza, attivare delle tensioni irrisolvibili fra elementi che si avvicinano o si allontanano dalla loro realizzazione, dando vita a momenti di saturazione o di svuotamento che non smettono di rinnovarsi. Insomma se i quattro poli-processi scanditi dai modi di esistenza sono necessariamente destinati a interdefinirsi e a coabitare in coalescenza su assi di movimenti di attrazione o di respingimento, allo stesso tempo essi, come in un cristallo poliedrico insieme trasparente e riflettente, si rendono sempre visibili in un continuo scambio, per via diretta

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«Un pensiero di frontiera: la riflessione di A. J. Greimas e la ricerca in semiotica strutturale»

Roma, 8, 9, 10 maggio 2017

Abstract Luca Acquarelli - Cristina Addis - Giuditta Bassano - Massimiliano Coviello - Cristina Greco - Stefano Jacoviello - Valentina Manchia - Francesca Polacci - Daniele Salerno - Giacomo Tagliani Luca Acquarelli Lo sguardo imperfetto della ‘camera analitica’. Su Pays Barbare di Gianikian e Ricci Lucchi Partendo dall’oggetto teorico Pays Barbare (2013), ultimo film della coppia di cineasti Yervant Gianikian et Angela Ricci Lucchi, nel mio intervento mi propongo di ritornare su alcuni punti teorici cari ad una semiotica dell’“imperfezione”. In particolare: la temporalità densa delle immagini legata al caso specifico delle re-enunciazioni dei film di montaggio di archivi; i modi di esistenza come meccanismo epistemologico per comprendere l’articolazione dello spessore discorsivo; in generale i rapporti fra narrazione, storia e tempo della memoria. Il caso delle re-enunciazioni di filmati d’archivio può essere illuminante per trattare “la temporalità plurale delle immagini” e i rapporti figurali che esse costituiscono all’interno di montaggi che sembrano lavorare più per contagio che per giustapposizione di iconografie. All’interno di un complesso processo di re-enunciazione, i montaggi “fotogrammatici” di Gianikian e Ricci Lucchi e lo sguardo sulla pellicola della loro camera analitica sembrano dunque aiutarci nel perlustrare lo spessore discorsivo dei fotogrammi, altrimenti depotenziati nella logica del cinema a 24 immagini al secondo. Se questa posizione analitica ci porta ad allargare lo sguardo ad una vasta teoria dell’immagine che reinterroga dai bordi disciplinari la semiotica delle arti, l’attenzione si porta anche sulle “sequenze” verbali del film: recitazione di testi in voce-off, letture di testi documentari, intertitoli con marche di discorso storico etc. Questo “testo” cinematografico complesso mette così in opera strategie enunciazionali contrastanti: da una parte tendenti a costruire una solidificazione del senso intorno ad aspettualizzazioni spaziotemporali stabili, dall’altro a far esplodere il potenziale analitico del materiale d’archivio. In questo contesto il figurativo (audiovisivo o verbale che sia) è una porta d’accesso al figurale. Scriveva Greimas: “la figuratività non è un semplice ornamento delle cose: essa è quello schermo dell’apparire la cui virtu’ consiste nel dischiudersi, nel lasciarsi intravedere, grazie o a causa della sua imperfezione, come una possibilità di senso ulteriore”. L’imperfezione ci introduce dunque nella complessità del senso: un modo per affermare che in uno stesso discorso coabitano diverse formazioni semiotiche all’interno di un regime di modi di esistenza molteplici. Come scrive Jacques Fontanille: “la co-presenza discorsiva non si riduce alla co-occorrenza. I modi di esistenza, il virtualizzato, l’attualizzato, il potenzializzato e il realizzato, convertono in qualche modo la co-presenza in uno spessore discorsivo, e proiettano delle articolazioni modali sul campo del discorso”. Questa tipologia ci permette di analizzare il testo aprendolo al suo spessore temporale e culturale, intendendolo come luogo di tensioni fra possibili traiettorie di senso. In fondo si tratta di lavorare un testo secondo gli stessi meccanismi che regolano una semiosfera. Allo schema proposto da Fontanille per i modi di esistenza dovremmo però aggiungere una variabile di fluidità processuale, allo scopo di rendere conto di opere come quella dei due cineasti. I modi di esistenza delle differenti “formazioni semiotiche” possono in effetti coesistere a diverse intensità, essere destinati a brusche inversioni di tendenza, attivare delle tensioni irrisolvibili fra elementi che si avvicinano o si allontanano dalla loro realizzazione, dando vita a momenti di saturazione o di svuotamento che non smettono di rinnovarsi. Insomma se i quattro poli-processi scanditi dai modi di esistenza sono necessariamente destinati a interdefinirsi e a coabitare in coalescenza su assi di movimenti di attrazione o di respingimento, allo stesso tempo essi, come in un cristallo poliedrico insieme trasparente e riflettente, si rendono sempre visibili in un continuo scambio, per via diretta

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oppure per via sghemba, obliqua, o riflessa. A questi piani di riflessione si deve necessariamente aggiungere un riferimento trasversale al rapporto fra tempo e storia e soprattutto al loro interstizio che è la narrazione. Le immagini analizzate tendono ad emanciparsi dalla logica unificatrice dell’azione, aprendo il loro spessore «cristallino» alle aporie della temporalità. Domandiamoci allora, se la narratività sia veramente «le gardien du temps» o meglio se, come scriveva Ricoeur nelle sue conclusioni al lungo percorso intellettuale di Temps et Récit, “l’ambizione di saturare le differenti aporie del tempo per mezzo della poetica del racconto può effettivamente incontrare dei limiti”. Uno spazio di manovra si apre al di fuori della storia e, ciononostante, esso si produce come luogo critico all’interno di un testo che richiama con cadenza regolare la cornice storica e quella narrativa. Tale è la piega di senso del film e questa tensione sarà oggetto di riflessione del nostro intervento, non senza una serie di considerazioni sulla rielaborazione di un fenomeno storico, il fascismo e il suo colonialismo, nel presente.

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Maria Cristina Addis Ogni Individuo al suo posto, ogni posto ha il suo individuo. Senso e valore dello spazio fra indagine biopolitica e analisi semiotica Nel celebre Sorvegliare e Punire. Nascita della prigione (1975) Michel Foucault conia il termine disciplina per indicare un genere di controllo sociale sempre meno ancorato a soggetti, luoghi e ruoli sociali specifici e circoscritti e sempre più affidato a un regime continuo e capillare di sorveglianza che dipende dalla capacità dello spazio di ripartire, discriminare e individuare univocamente i corpi e normarne le condotte. Com’è noto, una figura architettonica, in particolare, è accolta da Foucault quale diagramma per eccellenza dello spazio disciplinare: il Panopticon, carcere criminale ideato dal giurista Jeremy Bentham alla fine del XVIII secolo. Alla periferia una costruzione anulare ripartita in celle di uguali dimensioni, separate da spesse mura e dotate ognuna di due finestre, una ampia volta verso l’interno della costruzione e una più piccola esposta verso l’esterno; al centro una torre tagliata da larghe finestre oscurate che si aprono sull’interno dell’anello, tali per cui chiunque si trovi al suo interno vede senza essere visto. La disposizione delle celle, ognuna di fronte alla torre centrale, impone al detenuto una visibilità assiale, e le mura che le separano nettamente le une dalle altre implicano una invisibilità laterale. A latere del nutrito dibattito filosofico e storico-antropologico sul panottismo, il nodo fra vedere, sapere e potere indicato dall’analisi foucauldiana dischiude una batteria di “buone domande” suscettibile di orientare un’analisi discorsiva della spazialità nel quadro di un’interrogazione più generale sulle forme, i dispositivi e le condizioni d’esercizio del controllo sociale. In primo luogo, in generale, l’ideale disciplinare invita a guardare al soggetto come effetto e funzione di discorso, e a interrogare la soggettività a livello dei loci discorsivi «che ogni individuo può e deve occupare» (Foucault 1969) per istituirsi in quanto tale. Principio abitativo e dispositivo teatrale, ratio di distribuzione di corpi e sguardi e meccanismo di spettacolarizzazione del comportamento, il Panopticon impone di interrogare simultaneamente le regole di distribuzione e interazione dei corpi e il rapporto fra la coscienza riflessa e l’orizzonte del visibile e del conoscibile. Sul primo versante, la struttura di detenzione ideata da Bentham opera per evitare l’istituirsi stesso di un altro: il corpo recluso è altrettanto isolato percettivamente, cognitivamente e pragmaticamente dagli altri reclusi e dall’eventuale controllore, laddove il campo di visione ritagliato dalla finestra assiale rifrange ogni tensione scopica e conoscitiva sul vetro scuro della torre, il cui sguardo cieco non è suscettibile di istituirsi in un tu. Sul secondo, il recluso così impossibilitato a costituirsi come soggetto di una comunicazione è sottomesso a un’interazione costante e senza interruzioni che lo istituisce come oggetto di sapere, corpo suo malgrado continuamente comunicante ma senza possibilità di negoziare il senso della propria azione o di misconoscere le categorie che lo “significano” dall’esterno. L’originaria relazione conflittuale fra controllore e controllato è così dissolta nel rapporto fra un attante ridotto a mero oggetto di informazione, e un attante ridotto a funzione scopica e conoscitiva disincarnata, che il recluso dalla «solitudine sequestrata e scrutata» (Foucault 1975 : 219 tr. it.) introietta riflessivamente divenendo a un tempo soggetto e oggetto di un’ingiunzione. Nei termini della teoria attanziale, la “macchina per dissociare la coppia vedere/essere visti” agisce sui due ordini di relazioni inter-soggettive: quelle fra attanti-soggetto « simmetrici », che per quanto investiti di competenze diverse e animati da valori distinti ed eventualmente opposti partecipano di un medesimo spazio d’azione, e quelle, logicamente anteriori, fra Destinatario e Destinante dei valori perseguiti attraverso l’azione e interazione. Perno di conversione del governo dei corpi nel governo delle anime, la macchina panottica lavora contemporaneamente a sventare l’interazione fra soggetti e a produrre l’interazione continua e senza scarti fra ognuno e l’istanza trascendente in grado di vederne e giudicarne costantemente l’azione. La metafora teatrale adottata da Foucault — che paragona le celle a « tanti piccoli teatri in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile » — mette efficacemente in luce la duplice valenza della cella come gabbia e come palco, strumento di contenzione delle forze e

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individualizzazione dei corpi e scena di una performance, di un comportamento di secondo grado, esito della manipolazione riflessiva indotta nel recluso dalla coscienza di essere costantemente suscettibile di visione e giudizio. Quest’ultimo aspetto caratterizza, com’è noto, quelle che Foucault designa come tecnologie «governamentali», ovvero quelle forme di controllo, caratteristiche delle società democratiche, che mirano alla normalizzazione dei valori sociali piuttosto che alla loro imposizione forzata. Nel celebre saggio “Post-scriptum sur les sociétés de contrôle”, Gilles Deleuze teorizza a tal proposito un’ulteriore evoluzione del governo biopolitico imperniata sulla «fluidificazione» degli spazi e dei ruoli che scandiscono lo spazio sociale, che consumerebbe l’assoggettamento delle «potenzialità e abilità» dei corpi, comprese quelle irriflesse del piacere e della propriocezione, ai fini della produzione. Laddove le società disciplinari procedono per reclusione e individuazione e trovano nella fabbrica il proprio dispositivo esemplare, le seconde, di cui l’impresa costituisce l’apparato paradigmatico, procedono per differimento illimitato fra l’io e il qui attuali e l’io e il qui simulacrali prefigurati dagli obiettivi incrementali di una produttività generalizzata, che investe pervasivamente l’insieme dei domini dell’esperienza. Salario al merito, gerarchia piramidale fondata su obiettivi e traguardi incrementali, sollecitazione costante e continua all’ottimizzazione delle proprie prestazioni, predispongono una forma di assoggettamento di cui è emblema, secondo Deleuze, la pratica del surf, nei termini del rapporto al mondo di un individuo preso in un circuito riflessivo di adattamento continuo in cui un individuo plastico si riconfigura costantemente alle determinazioni aleatorie e in perenne variazione di un ambiente liscio e amorfo. L’idea parabola fra disciplina e controllo totale dischiude una serie di interrogativi e indicazioni di lavoro che guideranno l’analisi di due spazi per molti versi estremamente eterogenei: il Padiglione Conolly, Panopticon attivo all’interno della cittadella manicomiale senese del San Niccolò dalla fine del XIX secolo agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, e il modello di call-center inaugurato gli inizi degli anni Duemila dalle multinazionali di servizi informativi. L’obiettivo è quello di calare l’insieme di domande scaturenti da una rilettura sub specie semiotica del panottismo nella densità e stratificazione di materiali culturali - tecnologie architettoniche, regolamenti giuridici e professionali, condotte, documenti di diverso genere e natura - convocati da due dispositivi complessi, che a dispetto della patente differenza di funzione, natura e epoca condividono la duplice natura di spazio fisico e ideale astratto, curativo nel primo caso e produttivo nel secondo, di tecnologia architettonica che traduce esplicitamente una politica di governo e gestione dei corpi. La comparazione fra le funzioni assolte dai due spazi nell’economia della cura psichica e della produzione “immateriale”, fra gli attori, gli spazi e i tempi che assegnano e i rapporti attanziali che traducono, fra il valore che assumono rispetto all’insieme della società e le relazioni che intrattengono con il più ampio campo politico-giuridico e economico-sociale in cui si inscrivono tenterà di mettere in luce altrettanti modelli di ordine sociale di cui i due spazi sembrano fungere a un tempo da emblema e matrice. Bibliografia Deleuze, Gilles 1990 «Post-scriptum sur les sociétés de contrôle», Pourparlers (1972-1990), Paris: Minuit, pp. 240-247. Foucault, Michel 1975 Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard (tr. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1993). 2001 «Des espaces autres», In Architecture, Mouvement, Continuité, 5, 1984 (tr. it. Spazi Altri. I luoghi delle eterotopie, Milano, Mimesis Edizioni, 2001). Greimas, Algirdas Julien

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1976 Sémiotique et sciences sociales, Paris, Seuil (tr. it. Semiotica e scienze sociali, Torino, Centro Scientifico Editore, 1991). Landowski, Eric 2005 Les interactions risquées, Limoges, Pulim, 2005 (tr. it. Rischiare nelle interazioni, Milano, FrancoAngeli, 2010) Marsciani, Francesco 2012 Ricerche semiotiche, Voll. I e II, Bologna, Esculapio.

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Giuditta Bassano Costruzione di oggetti, astrazione di modelli. Problemi antropologici e semiotici sulle sanzioni. Forse mai abbastanza attuale, il problema di considerare la semiotica come disciplina molto giovane, anziché datata, è al centro delle note che seguono. Lavorare nel solco della semiotica greimasiana, della sua funzione di organon tra saperi e prospettive delle scienze umane, significa prima di tutto stare nel mezzo fra teoria e analisi. È solo costruendo oggetti da analizzare, in senso hjelmsleviano, cioè, che si vaglia il portato euristico dei modelli metodologici ed epistemologici su cui la teoria semiotica si fonda. È d’altra parte solo affinando e definendo quelli, che si è in grado, con l’analisi, di restituire a un oggetto descritto la porzione dei suoi effetti di senso immanenti (Barthes 1966). Mi è capitato di riflettere per alcuni anni su certi processi penali di fama mediatica. Casi di cronaca nera al centro di inchieste giudiziarie lunghe e costose e di non meno impressionanti processi di mitizzazione popolare. Si trattava così di riunire forme di testualità molto diverse tra loro, i testi tecnici delle sentenze e quelli di commento culturale sulle vicende. C’era da una parte l’interesse verso il lavoro dedicato da Greimas e poi da Landowski ai problemi di una semiotica del diritto. Da un’altra parte, alla prova del lavoro sui testi, le due nozioni di attante destinante e di sanzione narrativa apparivano meno piane del previsto, e meritavano un’esplorazione dedicata. Ancora per un altro verso, entrava in questione la vocazione antropologica della teoria semiotica, perché sanzioni e norme sono modi attraverso i quali un gruppo umano valorizza propri limiti, forme e articolazioni interne. In che modo si può descrivere il senso semiotico del giudicare giudiziario e del giudicare antropologico? Se era pressappoco questa la domanda generale che orientava la ricerca, i suoi risultati sono stati naturalmente ben più umili. Conservo quattro punti fermi. I primi tre riguardano l’opportunità di separare le nozioni di senso normativo, senso giuridico e sanzione. Il quarto dà il titolo a questo intervento ed ha a che fare con la consapevolezza che la ricerca semiotica può talvolta porre in tensione tra loro due suoi elementi precipui, l’antiessenzialismo e la costituzione di modelli strutturali. 1. Eric Landowski aveva fatto parte dell’équipe che con Greimas, in una sola occasione, aveva lavorato all’analisi di un testo giuridico francese; è lui il maggiore interprete dell’idea di un ulteriore sviluppo dello studio semiotico del diritto. In un saggio del 1989 Landowski parla di una distinzione obbligata. Ci sarebbero due livelli di esistenza e di apprensione della norma: uno profondo, dove la norma è universale, è una «pura regola di sintassi», e uno «più superficiale, dove si vede la norma investirsi nelle strutture del linguaggio giuridico stricto sensu». Così in una cultura si «potrebbe tematizzare “giuridicamente” quel che un’altra società collocherà su un altro piano in funzione della diversità dei sistemi di categorizzazione semantica propri alle differenti culture». Non solo, cioè, il diritto comparato insegna che ogni sistema giuridico è diversissimo dagli altri sia nel tempo che nello spazio, ma è chiaro che quello che viene tematizzato da un discorso giuridico può per esempio riguardare territori esclusi da un altro, come esclusi, per noi, sono «le regole della morale, del saper vivere o della pratica religiosa». Così si può perfino immaginare, in una prospettiva antropologica, una società che non isolasse del tutto il “fenomeno giuridico” in quanto tale, che per esempio non rendesse autonome sotto forma di istituzioni particolari e specializzate le funzioni “legislativa” o “giudiziaria”, che non comportasse “professioni giuridiche” riconosciute […]: in breve una società che facesse a meno del “diritto” come categoria semantica autonoma. Non per questo, una tale società potrebbe fare a meno, se esistesse, di un minimo di regole, anche implicite, capaci di organizzare le relazioni - di scambio, parentela, ecc. - fra i suoi membri: il diritto sarebbe bensì assente dal dizionario concettuale, ma una presenza del giuridico sarebbe nondimeno rintracciabile sotto forma di un qualche sistema di regole sintattiche, vale a dire grammaticali, capaci di reggere i rapporti sociali (Landowski 1999, 80). Questa distinzione è convincente, ma a patto, forse, di ribaltarne il portato antropologico: quello che è complesso da spiegare non è il normativo, ma il giuridico. Si può cioè tornare alle definizioni del dizionario di regola e costrizione semiotica, o si può riflettere a partire dalla nozione hjelmslevianadi apprezzamenti collettivi: qualunque gruppo antropologico assiologizza un numero indeterminato di

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categorie semantiche, ogni assiologia è normativa. Tutte le assiologie, in altre parole, aprono ad effetti retributivi. Questo vale sia se pensiamo alle assiologie logiche del dover fare - con la sua proiezione sul quadrato nell’universo semantico del prescritto e dell’interdetto, e del dover essere, sia - con l’idea di Wittgenstein dell’unità di etica ed estetica (1997, 6.421) - se pensiamo ad assiologie elementari come quelle che riguardano il colore della pelle, il genere sessuale, l’età umana, la salute. Dunque, tornando alle parole di Landowski, non occorre un esperimento mentale che ipotizzi l’esistenza di una cultura dotata solo di regole implicite: è al contrario banale dire che tutte le culture ne hanno un’inesaurita quantità a disposizione, e tutte se ne avvalgono in ogni istante. In una cultura occidentale di quelle a cui la nostra appartiene, ad esempio, la negoziazione delle parti del corpo che devono o non devono essere esposte in pubblico, caratterizza una serie di sfere discorsive: tutte sono normative, solo una è giuridica. Si può stare nudi in una sauna e in certe spiagge, in costume su tutte le altre, con braccia, gambe e parti del torace scoperti d’estate in vacanza, in certi tipi di locali, nelle palestre e sui campi da calcio, su un palcoscenico. Il fatto che per essere condannati a pagare una multa occorra adottare un comportamento che deve essere ricondotto a una certa norma scritta che parla di “pubblica decenza” non esclude una vasta serie di altre retribuzioni negative, implicite o esplicite. Si può essere fisicamente interdetti da un luogo di culto, invitati a lasciare una spiaggia, nonché, a volte più grave, giudicati in modo negativo, in un’aula di tribunale, in una gerarchia professionale, su un treno o in una piazza. Un secondo punto riguarda l’estensione del concetto di collettivo. Che differenza c’è tra senso normativo esplicito e senso giuridico? Solo quella dell’estensione intersoggettiva dell’assiologia. È utile, cioè, forse, ripensare le definizioni del dizionario di giustizia e vendetta come i due lati di una retribuzione negativa, secondo l’asse sociale/individuale. I gruppi umani sono attraversati da incessanti processi di riarticolazioni normative interne, non occorre pensare a una normatività privata. Michel Foucault ha firmato un saggio indimenticabile sullo scontro tra cultura giuridica francese del primo Ottocento e cultura contadina normanna (1973). La camorra è un esempio di sistema normativo non giuridico condiviso da un gruppo molto consistente di individui; lo stesso vale ad esempio per certe regole familiari e matrimoniali che lo Stato italiano reputa inaccettabili tra gruppi di persone immigrate da poco. 2. Così viene il problema di come si possa parlare di senso giuridico. Si può assumere per prima cosa che si debba trattare di un sistema di apprezzamenti collettivi esplicito, che riguarda il confine - in senso lotmaniano - di un preciso gruppo culturale, e che comporta delle retribuzioni. Ma siamo ancora molto lontani dalla corrispondenza tra questo concetto e quello di un sistema di diritto come il nostro. Siamo, cioè, ancora davanti a questioni antropologiche, al modo in cui in un luogo o in un altro, in un tempo o in un altro, si dà forma alle pratiche che potremmo anche chiamare “di legge”. Lévi Strauss ricordava per esempio che avrebbe senso introdurre un discrimine tra tipi di retribuzioni pragmatiche molto generali, come sono quelle che in genere noi identifichiamo con il sistema penale e carcerario. Si potrebbe pensare cioè a cosa distingue società che praticano l’antropofagia, cioè che vedono nell’assorbimento di certi individui dotati di forze pericolose il solo modo di neutralizzare queste ultime e anche di metterle a profitto; e quelle che, come la nostra, adottano ciò che potrebbe chiamarsi anthropoémia (dal greco émein, vomitare): poste di fronte allo stesso problema, esse hanno scelto la soluzione inversa, consistente nell’espellere questi esseri pericolosi dal corpo sociale, tenendoli temporaneamente o definitivamente isolati, fuori da ogni contatto con l’umanità, in stabilimenti destinati a questo scopo. Alla maggior parte delle comunità che noi chiamiamo primitive, quest’uso ispirerebbe un orrore profondo; esse ci giudicherebbero barbari, come noi siamo tentati di fare a loro riguardo, in ragione dei loro costumi simmetrici (Lévi-Strauss 2008, 332). Ancora, sulla scorta del lavoro di Franz Boas sui Kwakiutl, Lévi Strauss richiama il caso di alcune popolazioni delle pianure dell’America nord orientale, che avevano un sistema particolare per risolvere l’infrazione di una regola. La giustizia era amministrata da un corpo speciale di polizia, che in caso di reato distruggeva tutti i beni del colpevole, la sua tenda e i cavalli. Ma così facendo contraeva con lui un debito, che tutta la collettività aiutava poi a estinguere. Così il punito riceveva cure e regali, ma si trovava a quel punto a sua volta in debito con il gruppo. Il sistema era tale per cui

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«dopo una lunga serie di regali e contro regali, il disordine precedente veniva progressivamente cancellato e restaurato l’ordine iniziale». In un saggio molto critico verso la sociologia delle organizzazioni, anche Mary Douglas, nel 1992, affronta un tema connesso a quello della legge, ovvero il modello dell’attribuzione della colpa. Si potrebbero raggruppare le culture in tre categorie diverse. Ci sarebbe un tipo di culture che - come la nostra - concepiscono la trasgressione individuale; un altro tipo darebbe forma alla minaccia esterna; un terzo tipo all’idea di perdita di potere di un membro del gruppo. Le culture del primo tipo sarebbero orientate alla colpa morale e alla punizione, quelle del secondo al complottismo, in tutte le sue forme, e dunque a rituali che rinsaldano il gruppo ‘definendo’ l’identità del nemico esterno da identificare, quelle del terzo tipo alla faida personale o familiare e al rafforzamento della competizione tra singoli. Se può apparire bizzarro dover rileggere il nostro concetto di legge dentro quadri antropologici così vasti, vale la pena ricordare il lavoro di un giurista statunitense come Oscar Chase, che da vent’anni conduce studi su alcuni istituti del processo civile nordamericano a partire dal lavoro di Evans-Pritchard. Come noto l’antropologo inglese aveva scritto un importante saggio etnografico su una popolazione diffusa sul territorio di diversi stati centroafricani, gli Azande (Evans-Pritchard, 1937). Chase recupera in particolare le note di Evans-Pritchard sull’oracolo benge, descrivendo un processo per adulterio. Il benge è un rito oracolare che prevede un pulcino e del veleno. Si interpella l’oracolo attraverso una domanda con una precisa forma, poi si somministra il veleno. Le prove prevedono due somministrazioni (e quindi in qualche caso due pulcini). La sopravvivenza o la morte dell’animale corrispondono a risposte diverse a seconda del quesito iniziale. L’oracolo del veleno è inserito in un sistema altamente organizzato: una casta nobile con un principe riceve e valuta i responsi del benge ed esiste un sistema di ricorso, per cui ci si può appellare al benge del principe, e, in casi estremi, del re. Da questo Chase trae un parallelo con il sistema nordamericano della prova, in particolare rispetto alla giuria popolare. La ritualità, il fatto che si debbano accertare fatti di un passato inconoscibile, l’autorevolezza, l’essere inseriti in un sistema più complesso di procedure e passaggi, sono tutti elementi che permettono a Chase di sostenere che la giuria popolare sia un oracolo del sistema processuale moderno, esattamente come noi chiamiamo oracoli gli strumenti giurisprudenziali degli Azande. L’organizzazione dei nostri sistemi processuali, afferma ancora, non viene mai assunta come un modo culturalmente determinato di risolvere le controversie, ma di solito è posta come «semplicemente logica» o «semplicemente giusta» (Chase 2009, 42). Il lavoro di Chase, senza dubbio pioneristico, permette di passare anche al terzo problema, quello che riguarda la sanzione. 3. Come attribuiamo valore veridittivo alla confessione di un accusato in un’aula di tribunale (e non a un oracolo che si esprime attraverso l’avvelenamento di un pulcino)? Ma questa non è l’unica questione. Chi giudica chi? Secondo quali carichi modali? In quali programmi? Sia Greimas (1976) che Landowski (1989) si occupano di semiotica del diritto rispetto al modello attanziale. Greimas elabora una sorta di sintassi ‘speciale’ che mette alla prova nell’analisi del testo della legge francese sulle società commerciali. Landowski pone una posta più alta e mette a punto un’architettura di destinanti ad hoc per rendere conto di come funzionerebbero globalmente i nostri sistemi di diritto. Poco spazio è stato dato al concetto di sanzione, che appare un termine acquisito e di pronto utilizzo. Ma lavorando su fenomeni come quelli dei casi penali ‘ipernarrati’ è difficile aderire senza perplessità. Le sentenze, testi finali che giustificano, almeno a un certo grado di giudizio, la ‘chiusura’ delle vicende processuali con l’assegnazione di una precisa retribuzione, costruiscono resoconti molto complessi. Vengono installati tutta una serie di attori - la corte, i pubblici ministeri, gli accusati, i testimoni, i periti, le vittime, che sono di volta destinanti e destinatari di valutazioni, detentori di competenze parziali, manipolatori e manipolati. Le sentenze non sono fatte se non dello stesso senso narrativo grazie al quale gli stessi attori compaiono nella narrazione giornalistica e di commento sul processo e sulle vicende a partire da cui ha preso forma. Come nella riflessione di Baetens sul fallo nel fatto sportivo contemporaneo (Baetens 2010) il problema del giudizio epistemico di un destinante

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finale, nel caso dell’analisi di certe vicende giudiziarie, si pone con una nuova urgenza. Secondo Bernard Jackson, semiologo e giurista inglese, occorre riflettere sulla differenza fra gradienti del giudizio mediatico e giuridico sugli imputati nel caso di reati gravi come l’omicidio. Jackson afferma che a un primo livello è la questione della colpevolezza a essere interessante, non la possibilità di trovare una risposta (1998, 241). Anche la sanzione della corte di un tribunale gioca sempre intorno a una domanda sugli accusati «l’ha fatto o non l’ha fatto?», ma è legata sin da subito a questioni di pertinenza della semantica giuridica, che affinano il problema della colpevolezza. Su questo hanno lavorato, da posizioni molto diverse, anche Carlo Ginzburg ed Eric Landowski. Il primo si concentra sul ruolo del Pubblico Ministero. Questo attore tanto particolare ‘dell’accusa pubblica’, secondo Ginzburg, lavora di fatto come un antropologo (1991, 52; 2006, 278): se nel caso delle imputate contadine da riconoscere colpevoli di stregoneria i magistrati «traducevano, o per meglio dire trasponevano in un codice diverso, e meno ambiguo, credenze sostanzialmente estranee alla loro cultura», nel processo penale contemporaneo il ruolo dell’accusa è quello di dare senso a cose insensate, tracciando, attraverso gli interrogatori, dei ritratti di fatti e soggetti abbastanza completi, consistenti, capaci di rimediare all’inconoscibilità di un passato irripetibile. Landowski guarda all’universo della competenza cognitiva del giudice. Anche per lui il ‘senso comune’ è una parte fondamentale del sapere di questo altro attore del diritto. Ma il problema è esaurire una tipologia di saperi: «come fa il giudice a riconoscere la prova giudiziaria, quella che nello stesso tempo è tenuto a giustificare come oggetto di un riconoscimento corretto?». (Landowski 1988, 66). La risposta è che collaborano quattro regimi di veridizione: quello dell’evidenza empirica, quello dei fatti giuridici, quello della verosimiglianza sociale (che ho chiamato senso comune), quello della prova scientifica. Si può pensare per esempio per ognuno al caso di una confessione dettagliata, a quello in cui un reato cade perché un magistrato dimentica di trascrivere l’imputazione in un documento nel passaggio fra la fase preliminare al processo e quella del procedimento vero e proprio, a quello per cui, nella nostra cultura, l’omissione di soccorso rende più probabile la colpevolezza, a quello, infine, in cui un esame biologico confermi l’identità tra tracce di polvere da sparo su un cadavere e il tipo di tracce trovate sull’indumento di un accusato. Landowski ha scritto anche un altro saggio, che illumina la questione della fiducia intersoggettiva - questione cruciale in tutti gli interrogatori giudiziari, da quelli predibattimentali, fin dalle prime indagini, a quelli in udienza. La sua idea è che, trattando di credibilità, occorra prendere in considerazione sia la distanza o la possibile sovrapposizione tra credibilità dell’enunciatore e credibilità dell’enunciato, sia quella tra capacità del soggetto credibile e desiderio di realizzare il progetto dell’enunciatario (Landowski 1989, 209). Dall’analisi delle sentenze su cui ho lavorato emerge un altro elemento che riguarda la costruzione dell’idea di prova (Cordero 2006; Cortelazzo 2003): ovvero la polarizzazione tra l’impegno dell’accusa nel restituire un quadro del movente e quella legata alla possibilità di conoscere i dettagli del reato. In linea con l’idea di Landowski che a determinare gli assetti della credibilità sia di volta in volta la messa in gioco di modalità ora virtualizzanti, ora attualizzanti, la polarizzazione diventa quella tra l’importanza di restituire un volere/dovere dell’accusato - uno sfondo sociale, una serie di dettagli che denuncino le sue cattive intenzioni rispetto alla vittima, e un saper/poter fare rispetto al gesto che si giudica: una ricostruzione minuziosa dei segni sul corpo della vittima, (o di una frode commerciale, o di uno scasso), degli strumenti utilizzati, del tempo in cui si sono verificati i fatti. 4. Che cos’ha dunque di problematico il concetto di sanzione fissato dal dizionario per quello a cui si rimanda qui? Che cosa intendeva Greimas quando al quarto paragrafo di quella voce insinuava il bisogno di elaborare una semiotica della sanzione capace di rispondere alla descrizione «delle pratiche semiotiche sociali»? Abbiamo riflettuto a sufficienza sulla possibilità che uno o tutti e quattro i sintagmi dello schema narrativo canonico siano una parte ‘provvisoria’ della teoria semiotica? La difficoltà mi sembra legata al rischio di eccedere dallo scopo e dalla forma di un’assiomatica, come caratteristiche che riconosciamo al metalinguaggio semiotico. Detto con le parole di Paolo Fabbri, siamo al problema di discutere il nesso tra epistemologia e teoria, al livello di quella congiunzione

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che è uno degli ‘anelli (spesso) mancanti’ della teoria semiotica (Fabbri 1998, 25). A ben guardare, il modo in cui l’attante destinante e la sanzione sono concepiti, apre alla questione se non si tratti di figure discorsive, anziché di operatori logici. Ci si può chiedere allora anche se sia opportuno mantenere sullo stesso livello nozioni come quelle di modalità, di enunciati di stato e di trasformazione, di ruoli attanziali - nozioni, cioè, del tutto sintattiche, e quelle ottenute dalla ‘riduzione sintagmatica’ delle ricerche proppiane. La genesi del concetto di sanzione contribuisce a motivare dubbi di questo tipo. Nel 1976 Greimas, introducendo un volume scritto da Courtés, mette a punto la versione completa dei sintagmi narrativi di superficie e fa il primo riferimento alla sanzione narrativa (Courtés, 1976, 24). Basandosi sulle analisi realizzate con la sua équipe su testi folclorici di vario genere e sulla lettura di lavori di Dumézil, Lévi-Strauss e Propp, Greimas propone che il fare narrativo della performanza debba essere inquadrato dentro una cornice contrattuale. È un notevole guadagno strategico per la teoria, perché la sanzione risolve il problema narratologico di definire una qualche ‘unità minima del racconto’ e nello stesso tempo permette di prendere in considerazione quella dimensione dell’agire umano per la quale gli oggetti di valore circolano come componenti di sistemi assiologici complessi e comuni a un gruppo di persone (“come le regole di una lingua lo sono a un gruppo di parlanti”). Ma ecco come ne sono descritti i termini. È lui il giudice della conformità del fare e dell’essere: le azioni dei soggetti conformi ai modelli prestabiliti sono giuste, i giudizi di esistenza che i soggetti gli sottopongono, se sono conformi alle norme previste, divengono veri. La struttura modale che caratterizza questo Destinante allora è il saper fare. Il secondo tipo di fare, che segue la conformità stabilità attraverso il riconoscimento, lo scopriamo nel termine sanzione, termine complesso e ambiguo, dal momento che designa nello stesso momento sia il giudizio di conformità considerato come atto cognitivo, l’esercizio del potere (la retribuzione) e il far sapere (il riconoscimento pubblico degli atti del soggetto) - a reggere l’insieme di queste modalità c’è un volere originale. [...] Qui, ci si trova in presenza di [...] un Destinante epistemico, solo detentore della giustizia e della verità, che domina l’insieme del percorso. Ma i termini del problema possono facilmente essere ribaltati e la stessa istanza epistemica relativizzata. Se al posto di un Destinante dotato di un sapere e di un saper fare certi si immagina un destinante che si trova alla ricerca del saper vero e che per questo esercita un fare interpretativo permanente, ne traiamo un percorso narrativo che è ben lontano dall’essere dominato dalla verità assoluta, ma che piuttosto sarà caratterizzato dalla ricerca delle condizioni di verità e la sanzione [...] apparirà come una delle forme possibili di adesione che sanziona la ricerca del detective, il lavoro del ricercatore scientifico e la domanda del credente” (ibid.: 25; trad. mia). Greimas sta parlando di un doppio fare, che riguarda il riconoscimento e l’azione, e che rileva anche aspetti molto diversi dell’azione stessa, per poi trasformarsi nell’idea di un percorso di ricerca. Non proprio chiarissimo; la sanzione pare essere in qualche modo il momento meno ordinato e meno risolto dello schema narrativo canonico, a partire dalla sua genesi. Cercheremo di discutere della possibilità di ripensare questo sintagma nelle due direzioni di un approfondimento o, viceversa, di un superamento, distinguendo cinque tracce: (i) la costruzione del senso degli elementi che l’essere - come mancanza - produce rispetto a una questione di verità o foria; (ii) la costituzione di un mandato virtuale rispetto a una retribuzione di qualsiasi tipo rispetto a questo squilibrio; (iii) l’identificazione del senso di questa mancanza con una precisa serie di assiologie (morali, giuridiche etc.); (iv) il riorientamento della retribuzione e della sanzione (come forma finale di costruzione della credenza) alla luce dell’identità dell’oggetto appena posta in essere; (v) un’eventuale messa in pubblico della sanzione - un far sapere. Siamo davanti a un problema che ricorda la continua tensione fra i due fuochi tra cui siamo presi nel lavoro sugli oggetti. Da una parte la fiducia nella forza dei nostri modelli d’analisi, dall’altra il radicale scetticismo che la semiotica nutre verso tutti gli essenzialismi. Ma discutere di questioni come quelle che si cerca di portare al dibattito significa confrontarsi con il senso di quello che facciamo. Baetens, Ian, 2010, “Il fallo come paradosso necessario”, in Cervelli, Romei, Sedda, a cura di, Mitologie dello sport. 40 saggi brevi, Roma, Edizioni Nuova Cultura. Barthes, Roland, 1966, Introduction à l'analyse structurale des récits, Communication, n. 8. Boas, Franz, 1911, Handbook of American Indian Languages, trad. it. Cardona, Giorgio, a cura di, Introduzione alle lingue indiane d'America, Torino, Universale Scientifica Boringhieri, 1979.

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Cervelli, Pierluigi, Romei, Leonardo, Sedda, Franciscu, a cura di, 2010, Mitologie dello sport. 40 saggi brevi, Roma, Edizioni Nuova Cultura. Chase, Oscar, 2005, Law, culture and Ritual. Disputing Systems in Cross-Cultural Context, trad. it. Gestire i conflitti. Diritto, cultura, rituali, Roma-Bari, Laterza, 2009. Cordero, Franco, 2006, Procedura penale, Milano, Giuffré. Cortelazzo, Michele, 2003, “La tacita codificazione della testualità nelle sentenze”, in Mariani, Marini, Alarico, a cura di, La lingua, la legge, la professione forense, Milano, Giuffré. Courtés, Joseph, 1976, Sémiotique narrative et discursive. Méthodologie et application, Paris, Hachétte. Douglas, Mary, 1992, Risk and Blame; trad. it. Rischio e colpa, Bologna, Il Mulino, 1996. Evans Pritchard, Edward Evan, 1937, Witchcraft, oracles and magic among the Azande; trad. it. Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Milano, Raffaello Cortina Editore. Fabbri, Paolo, 1999, La svolta semiotica, Laterza, Roma-Bari. Fabbri, Paolo & Marrone, Gianfranco, a cura di, 2000, Semiotica in nuce. Volume 1, Roma, Meltemi. Fabbri, Paolo & Marrone, Gianfranco, a cura di, 2001, Semiotica in nuce. Volume 2, Roma, Meltemi. Foucault, Michel, 1973, Moi Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma soer et mon frère,..; trad. it. Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello.., Einaudi, Torino, 1973. Ginzburg, Carlo, 1991, Il giudice e lo storico, Torino, Einaudi. Ginzburg, Carlo, 2006, “L’inquisitore come antropologo”, in Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Milano, Feltrinelli. Greimas, Algirdas Julien, 1970, Du sens. Essais sémiotiques; trad. it. Del senso, Milano, Bompiani, 1996. 1976, Sémiotique et sciences sociales; trad. it. Semiotica e scienze sociali, Torino, Centro Scientifico Editore, 1996. Algirdas Julien; Courtés, Joseph et al., 1979, Sémiotique, Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Paris Hachette; trad. it. Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Firenze, La casa Usher, 1987. 1986, Sémiotique, Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, tome II; trad. it. Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Milano, Mondadori, 2007. Jackson, Bernard, 1998, “Truth or proof? The criminal verdict”, International Journal for the semiotics of Law, XI, 33. Landowski, Eric, 1989, La societé réfléchie; trad. it. La società riflessa, Roma, Meltemi, 1999. 1998, “Verité et véridiction en droit”, Droit et Societé, 8, pp. 47- 63. Lévi-Strauss, Claude, 1955, Tristes Tropiques; trad. it. Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008. Lotman, Jurij, 2006, a cura di Sedda, Franciscu, Tesi per una semiotica della cultura, Roma, Meltemi. Mariani, Marini, Alarico, a cura di, 2003, La lingua, la legge, la professione forense, Milano, Giuffré. Wittgenstein, Ludwig, 1921, Logisch-Philosophische Abhandlung, trad. it. Tractatus Logico-Philosophicus, Torino, Einaudi, 1997.

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Massimiliano Coviello Interrogare il Mediterraneo: fenomeni migratori, tracce liquide e documenti probatori Gli spostamenti per mare dei migranti dai paesi nordafricani al canale di Sicilia sono sottoposti da alcuni anni a meccanismi di rivelazione a distanza da parte della NATO e degli organismi Europei preposti al controllo delle frontiere. Un complesso sistema di sorveglianza ha trasformato il Mediterraneo in una frontiera pressoché invalicabile – lungo la quale molto spesso si rischia di morire – e l’Europa in una fortezza in cui l’accesso è regolato da ferree regole giuridiche, normative umanitarie, accordi politici ed economici non sempre trasparenti tra i vari paesi che circondano il mare. Nel marzo del 2011 settantadue passeggeri a bordo di una piccola imbarcazione partono dalla Libia, nel tentativo di raggiungere l’isola di Lampedusa. La guerra civile che porterà all’assassinio del dittatore Mu'ammar Gheddafi è scoppiata da appena un mese e il paese è dilaniato da scontri interni. Carica fino all’eccesso, l’imbarcazione non riesce a percorrere nemmeno la metà del tragitto. Terminato il carburante, i migranti vanno alla deriva per due settimane. Nonostante i numerosi segnali inviati per identificare la loro posizione, la sorveglianza della NATO su quelle acque e le interazioni avvenute in mare, nessuna autorità interviene per prestare i soccorsi necessari e solo nove passeggeri riescono a sopravvivere. La memoria e le responsabilità connesse alla “Left-to-Die Boat” – la vicenda appena descritta – rischiano di inabissarsi nei fondali del Mediterraneo, un mare che, proprio in virtù dei sistemi che lo sorvegliano, può essere considerato un insieme complesso di tracce e memorie dei viaggi migratori. Il video Liquid Traces (Tracce Liquide, 2014), realizzato da Charles Heller e Lorenzo Pezzani, prodotto all’interno del progetto “Forensic Oceanographic” del Centre for Research Architecture della Goldsmiths di Londra (http://www.forensic-architecture.org/case/left-die-boat/)ricostruisce il tragitto della “Left-to-Die Boat” in modo peculiare. Infatti, le tracce degli spostamenti, le azioni di controllo su questi ultimi e le testimonianze dei migranti sono risignificate all’interno del video attraverso operazioni di manipolazione, montaggio e ricontestualizzazione volte a interrogare il Mediterraneo al fine di ri-costruire un racconto dell’evento tragico. In primo luogo, l’intervento si propone di indagare le modalità di ricostruzione dello spazio e della mappa del Mediterraneo prodotti da Liquid Traces. Infatti, il video elabora ed espone un discorso sul mare che utilizza specifiche strategie enunciative e mette in gioco molteplici sintassi narrative. Per quasi tutta la durata del video, l’inquadratura è suddivisa in due parti di differente ampiezza (quella di sinistra più larga rispetto a quella di destra) che dialogano costantemente tra loro in virtù dello sfondo comune – la mappa del Mediterraneo – e di una continua interazione tra le tracce che via via vengono visualizzate. La mappa ha una funzione descrittiva, sinottica, e quindi una struttura enunciativa in cui l’oggetto cartografato si offre allo sguardo dando l’impressione che non ci sia nessun enunciatore a doverlo descrivere, come se si trattasse della simulazione di un discorso pienamente oggettivato. Il discorso sul territorio – marittimo in questo caso – prodotto dalla mappa rende possibili alcuni percorsi e ne esclude altri. Si tratta di un modello di rappresentazione e presentazione dello spazio che organizza quest’ultimo secondo le modalità del dovere, del poter fare e del non poter fare. Dunque, la mappatura del Mediterraneo si configura come un’istanza del potere che decide ed enuncia cosa si può rappresentare di una specifica porzione dello spazio; un potere che si presenta nel momento in cui organizza lo spazio su cui esso si esercita; un potere che ritrae e schematizza il territorio attraverso indicatori di possibilità e di interdizione. In secondo luogo, si mostrerà come le tracce del naufragio – documenti, immagini e interviste appartenenti a diverse forme dell'espressione – vengano convocate e collocate in nuovi sistemi significanti. Il sincretismo audiovisivo e il montaggio garantiscono alle tracce – rispettivamente a

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livello paradigmatico e sintagmatico – un’efficacia probatoria di cui si valuteranno gli effetti. Codificate sotto forma di diagrammi e rappresentazioni grafiche, messe in evidenza e montate sulla mappa, queste tracce sono visualizzate in quanto insieme coerente di prove e soprattutto ridistribuiscono le forme di potere e le modalità del sapere tra vedente e visto. Mettendo in relazione il tragitto della “Left-To-Die Boat” con le diverse linee di confine, il campo del dicibile e del visibile si espandono a tal punto da ottenere le prove del mancato soccorso da parte degli organismi di sorveglianza che non hanno risposto alle diverse richieste di soccorso provenienti dall’imbarcazione e da chi aveva intercettato questi segnali di sos.

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Cristina Greco Dell'altro e dell'altrove. Spazi intermedi e percorsi del confondere. Sul caso MAAM

Sulla base di una ricerca in corso sulle strategie di riconversione degli spazi pubblici, questo contributo propone una riflessione sull’approccio metodologico di matrice strutturale nell’analisi di manifestazioni complesse come il MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia. Sito nella periferia est di Roma, Metropoliz nasce nel 2009 con l’occupazione dell’ex stabilimento Fiorucci. Reso noto come progetto artistico, oggi è sede del MAAM, terzo museo di arte contemporanea di Roma, uno spazio che ingloba le opere di centinaia di artisti di livello internazionale.

Il fatto di scegliere come caso di riferimento il MAAM comporta la presa in carico di una questione che riguarda problemi fondamentali e di attualità per il semiotico. Lontano dal negare i tratti della fabbrica e il suo passato, il MAAM attiva un processo di tipo traduttivo entro cui ritrovare manifestazioni multiple che costruiscono nuovi ambiti di senso, tra memoria del luogo - non più orfano -, memoria collettiva e memoria intima.

Questa ricerca ha come obiettivo di riflettere sul modo in cui l’approccio metodologico di ispirazione greimasiana si interroga sull’articolazione di una manifestazione complessa come il MAAM e sulle strategie d’uso dell’atto creativo e dell’abitare, influenzate dal progetto originario.

Associata alla discussione teorica sul valore degli oggetti, la questione è di sapere in quale misura l’esperienza del visitatore che si aggira all’interno degli spazi irregolari del MAAM e i modi di presenza dei soggetti che lo abitano contribuiscono alla costruzione del valore, in particolare nel processo di appropriazione e assunzione di una nuova destinazione d’uso, quella del “museo”, non così definita e definibile, che a partire da una strategia di nominazione conferisce effetti di senso inediti in percorsi pluri-isotopici. Il visitatore si muove all’interno di questi spazi alla ricerca di tracce che gli indichino cosa ricordare, si imbatte nell’inatteso, gioca al testo e con il testo, definisce di volta in volta il proprio ruolo nel discorso dell’arte, e non solo, del fare creativo in relazione alla memoria della fabbrica, del privato in relazione al pubblico, con il quale si confonde in modo imprevedibile tra scena e retroscena, del Sé in relazione all’altro e del qui in relazione a un altrove.

Il metodo etnografico, attraverso l’osservazione partecipante, la raccolta di informazioni, le interviste e i colloqui informali, realizzati a più riprese e in diverse fasi, ha permesso di avanzare un’ipotesi di senso su una testualità non stabilizzata, di comprenderne le trasformazioni e, d’altra parte, di contribuire al dialogo della semiotica con altre discipline, che ha luogo di più nell’impiego di strumenti comuni. Bibliografia

Calvino, I. (1972). Le città invisibili, Torino: Einaudi.

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Ricoeur, P. (2000). La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris: Éditions du Seuil ; trad. it. La memoria, la storia, l’oblio, Milano: Raffaello Cortina Editore, 2003.

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Stefano Jacoviello E quindi uscimmo a riveder Solaris - Stile, immagine, strutture, musica Le metafore che associano i suoni musicali alla dimensione spaziale sono solitamente banali e spesso talmente generiche che finiscono per non dire niente circa la significazione di specifici testi musicali, e la possibilità di esprimere una spazialità attraverso configurazioni discorsive. In effetti la figuratività musicale dipende da un complesso sistema di sincretismi che associano schemi astratti a figure del mondo passando attraverso la sintassi figurale: è dunque il risultato dell’articolazione di un processo e della relativa istanziazione di un soggetto dell’estesia, piuttosto che una semplice codifica fra due forme espressive. Il cinema di Andrei Tarkovskij sembra essere devoto ad un principio poetico fondamentale: trasformare l’orizzontalità del montaggio classico nella verticalità di un’inquadratura che contiene al suo interno una serie di piani sequenza sovrapposti. L’obiettivo è quello di trasformare la generale comprensione del sintagma cinematografico in una sorta di contemplazione che ha lo stile della speculazione mistica: infatti, dopo aver affondato lo sguardo nella profondità di campo, lo spettatore vede emergere la superficie dell’immagine che si offre allo sguardo come una sostanza sensibile da esplorare, su cui cercare fratture e discontinuità da colmare attraverso una ri-articolazione gravida di un senso secondo. Tarkovskij usa lo spazio della rappresentazione dell’immagine cinematografica per esprimere la durata della sua esperienza: le sue inquadrature sono come dei dipinti in lento movimento. Non a caso cita molti esempi dalla pittura di Peter Brueghel e Leonardo, artisti che hanno provato, ognuno a suo modo, ad esprimere la durata della visione nell’immagine fissa. Partiremo dall’analisi di alcune sequenze di Solaris (1972) per seguire il modo in cui il film ispirato all’omonimo romanzo di Stanislaw Lem è servito da base per la riscrittura di una nuova colonna sonora, che si è poi staccata dal film originale per “suonare” insieme ad una rielaborazione digitale di una serie di alcuni suoi fotogrammi. Il riferimento è a We Don’t Need Other Worlds. We Need Mirrors – Music for Solaris, opera composta da Ben Frost e Daniel Bjarnason nel 2011, con la collaborazione di Brian Eno e Nick Robertson. Molto più di una semplice “trasposizione” intersemiotica, seguendo il processo creativo che ha portato alla realizzazione dell’opera ispirata al film di Tarkovskij e al romanzo di Lem, proveremo a osservare come il dispositivo temporale dell’immagine filmica originale trova un corrispettivo nella resa di uno spazio sonoro da contemplare attraverso le forme dell’ascolto, davanti a nuove visioni del pianeta Solaris.

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Valentina Manchia Sulla traccia dei dati. Dispositivi di visione tra fotografia e dataviz, tra visibilie e invisibile

Portraits of Power di Alejandro Almaraz, argentino che lavora tra fotografia e arti visive, è un progetto che si articola in più ritratti. Ognuno di questi immortala la situazione politica di un paese ed è costruito per layers, ovvero attraverso una serie di immagini traslucide poste su livelli successivi e sovrapposte le une alle altre: ogni livello rende conto della permanenza al potere dei capi di stato nell’intervallo considerato – intervallo che varia da paese a paese. Tanto più sfumati si fanno i contorni, quanto più numerosi sono gli avvicendamenti politici nel paese.

Open Shutter è invece una serie del tedesco Michael Wesely, ed è composta da fotogrammi singoli dedicati a grandi insediamenti urbani, ottenuti attraverso una tecnica di esposizione straordinariamente lunga, fino a tre anni. I fotogrammi documentano cantieri in costruzione da metà degli anni ’90 in poi, e catturano in time-lapse lo sviluppo temporale di una porzione di spazio.

Questi e altri lavori sono alle origini di una delle attuali tendenze nel campo della visualizzazione dei dati, chiamata con il nome ibrido di photoviz: l’imbricazione, sempre più stretta, del data display e del linguaggio fotografico che sta spostando le pratiche di visualizzazione sempre più verso la rappresentazione figurativa e sempre meno verso la schematizzazione diagrammatica pura.

Il fenomeno della visualizzazione dei dati, infatti, ormai consolidato ai nostri occhi di fruitori di contenuti mediali, sembra ora ricercare nuove forme e nuove retoriche espressive – e lo fa esplorando possibilità inedite in un continuum che è quello delle immagini non artistiche (non-art images) descritte da James Elkins nel suo The Domain of Images.

Con la photoviz siamo costretti a confrontarci con delle immagini fortemente ibride, in cui sfumano i confini tra figurativo e diagrammatico.

Cosa comporta l’interazione di pratiche di rappresentazione così differenti? E com’è possibile rappresentare quello che di per sé stesso è invisibile (il dato bruto, numerico, statistico) per mezzo del linguaggio fotografico, potente generatore di presenza? (“Ogni fotografia è un certificato di presenza”, annotava Barthes nella Camera chiara.) Che cosa significa, per un sguardo che si vuole semiotico, una simile commistione tra linguaggi e, soprattutto, tra dispositivi di visione?

Per poter esplorare questi interrogativi occorrono innanzitutto due passi indietro: il primo, in direzione delle pratiche di visualizzazione dei dati (senza dimenticare l’apporto degli studi sulla visualizzazione scientifica, da Latour e Bastide fino a Galison e ai cultural analytics di Manovich); il secondo, sulle pratiche di produzione delle immagini fotografiche (che non possono che passare attraverso Benjamin e la sua teorizzazione della Nuova Visione). Tutto questo per capire cosa significhi rendere visibile l’invisibile, nel primo caso, e testimoniare la presenza, nel secondo.

A partire da qui, guardare alle ibridazioni contemporanee tra dataviz e fotografia di Wesely e Almaraz può servire per riflettere sui confini, in continuo movimento nella produzione visuale e mediale contemporanea, tra rappresentazione dell’invisibile e rappresentazione del visibile.

E, non da ultimo, ragionare su oggetti di frontiera come questi può essere anche l’occasione di riflettere nuovamente sulle modalità di quella “lettura umana del mondo” (Greimas, Semiotica figurativa e semiotica plastica) che offre una direzione – e un senso – a quello che vediamo, e di farlo a partire da un punto di vista incentrato non più sulla sola rappresentazione figurativa ma anche sugli altri “linguaggi di rappresentazione”.

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Francesca Polacci Repliche scultoree e fotografiche: le serie di Medardo Rosso

L’intervento vuole mettere a fuoco alcuni problemi teorici che nascono dall’incontro tra fotografia e scultura. Le relazioni tra le due arti sono molto strette sin dalle origini della fotografia, e ciò principalmente a causa della fissità e della bianchezza delle statue che le rende un modello privilegiato per i primi apparecchi fotografici. Celebri, a tal proposito, le foto del busto di Patroclo pubblicate in The Pencil of Nature (1844-1846) di Talbot. La foto di scultura nasce come foto documentaria per trasformarsi poi, in talune circostanze, in foto d’arte. Alcuni scultori, non soddisfatti delle riproduzioni delle proprie opere, tra fine XIX e inizio XX secolo, fotografano le proprie creazioni, valorizzando le potenzialità del nuovo medium ottico. Non si tratta pertanto di immagini tese a documentare quanto prodotto in tre dimensioni, ma a riflettere, rispettivamente, sulle qualità di scultura e riproduzione fotografica. Nel corso dell’intervento vorrei mostrare come i vincoli espressivi che segnano il passaggio dalle tre alle due dimensioni divengano luoghi produttivi, attraverso cui la traduzione tra le due arti assume un carattere specificamente teorico. Attraverso le foto, lo scultore può ripensare e mettere a punto il proprio lavoro, come anche indagare i limiti e le potenzialità del nuovo mezzo espressivo. La traduzione tra testi con sostanze espressive differenti sarà dunque al centro dell’intervento. La complessità dell’operazione traduttiva, nel passaggio tra un testo ab quo, di partenza, a uno ad quem, di arrivo, è tratteggiata in seno alla voce “Traduction” del secondo tomo del Dizionario di Semiotica (1979), per poi essere sviluppata da autori che, ponendo in valore l’apparato teorico della semiotica generativa, si sono confrontati con operazioni di traduzione intersemiotica1. La trasformazione da un testo source a uno target chiede di prendere in esame i vincoli espressivi dei due testi oltre che confrontarsi con la necessaria imperfezione traduttiva, che può porre in luce la specificità e l’unicità di ciascuna opera. La variazione traduttiva può, infatti, nella proposta di Calabrese (2000), concorrere a rispondere a un problema più generale, centrale per l’estetica e la teoria delle arti e di cui la semiotica si è occupata molto poco, concernente la singolarità e l’unicità dell’opera d’arte. A proposito del caso in analisi, nel momento in cui lo scultore fotografa le proprie creazioni, introduce delle restrizioni che concernono la fruizione delle stesse: stabilisce la distanza, l’angolatura, la luce, attraverso la quale la scultura deve essere percepita, nonché sottrae allo spettatore possibilità di movimento, lo trasforma in puro sguardo. Potremmo dunque chiederci: come la lente del fotografo “media” l’accesso alle sculture? Quali “istruzioni” di lettura sono offerte al soggetto osservatore? L’operazione di costruzione del soggetto osservatore assume particolare rilievo, poiché esito di una mediazione realizzata dall’artista che riscrive, per mezzo del medium fotografico, una delle sue creazioni. Al contempo tali “restrizioni” restituiscono, nel risultato della fotografia, un’interpretazione della scultura stessa. E allora può essere interessante porre in rilievo quale commento le singole foto suggeriscono delle sculture che ritraggono. La fotografia si configura così come strumento creativo e critico insieme, attraverso cui lo scultore mostra come guardare le proprie opere, offrendoci un’interpretazione delle stesse. Al centro dell’intervento saranno alcune foto di Medardo Rosso, serie di immagini esito di una complessa operazione traduttiva. Una delle specificità del modus operandi di Rosso consiste nel fare foto di foto, mettendo a punto un movimento di secondo grado grazie al quale rilavora e modifica quanto inquadrato dall’obiettivo. Il risultato sono serie di immagini delle quali non conosciamo la successione cronologica né quella immaginata dall’artista, ma le cui pertinenze visive impongono un lavoro di messa in sequenza.

1 Anche se non citati esplicitamente dalla voce del Dizionario, i lavori che inaugurano la ricerca sulla traduzione intersemiotica sono quelli di Jakobson (1959; 1960; 1970). In seno alla semiotica greimasiana sono poi centrali i contributi di Fabbri (2000) e Calabrese (2000). In stretta consonanza con la semiotica di Peirce, cfr. Eco (2003).

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La figuratività sarà dunque un luogo di riflessione privilegiato, in quanto è nelle minime variazioni figurative che si incista la variazione. La complessità figurativa di tali immagini sarà indagata accuratamente anche perché le modulazioni figurative di ciascuna fotografia concorre a indicare il punto di vista dal quale prende forma l’immagine. Il venir al mondo di una forma è processo quanto mai elaborato, che Rosso tende a occultare o svelare, a seconda della strategia discorsiva perseguita. Ma non solo, Rosso fotografa anche stampe di operatori professionisti, appropriandosene e traducendole all’interno del proprio sistema estetico. Dal 1906, poi, l’artista è sempre meno interessato a realizzare nuove opere, quanto piuttosto a riprodurre e rilavorare repliche, e ciò vale sia per le sculture — in tal caso interviene con variazioni dagli stampi originali — sia per le foto, appunto rifotografando stampe. Come cercherò di argomentare nel corso dell’intervento, i problemi, di ordine teorico, sono molteplici, tra cui: a) la riproducibilità della forma artistica, quale tematizzata in alcuni scatti fotografici, e la sua relazione con la qualità di multiplo della scultura; b) la traduzione tra forme semiotiche distinte, capace di restituire un commento da parte del produttore dell’opera sui media in gioco; c) il ruolo della figuratività, sia per quanto concerne le serie di foto e la possibilità di riconoscere la minima variazione in seno alla ripetizione, sia per quanto concerne il punto di vista costruito, dal quale una forma può prendere corpo o viceversa negare qualsiasi possibilità di riconoscimento; c) il ruolo, teorico e empirico, svolto dal margine dell’immagine, in particolare là dove questo è rilavorato tale da porre in causa i limiti dell’enunciato artistico. Parte importante della presentazione sarà dunque consacrata alle forme di “ri-mediazione” dell’immagine, nel passaggio dalla scultura alla fotografia — e viceversa (considerando, in taluni casi, la ricaduta che la pratica fotografica può avere sul lavoro scultoreo). Indagare i dispositivi di traduzione tra forme semiotiche diverse implica un’attenzione portata a differenti strategie di messa in forma della scultura attraverso il nuovo medium ottico. Ecco allora che le operazioni tese a “smaterializzare” la consistenza volumetrica dell’oggetto, o la realizzazione, con la fotografia, di un “effetto disegno”, denunciano, almeno questa una delle ipotesi che vorrei provare a sviluppare, una riflessione che Rosso sviluppa, attraverso le proprie opere, sullo statuto dell’immagine.

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Daniele Salerno Per una semiotica dei soggetti collettivi. Terrore e politiche della massa 1. Perché una semiotica dei “soggetti collettivi”? Nel mio percorso di ricerca ho spesso incrociato, ma mai pienamente approfondito, il tema dei “soggetti collettivi”: dalla risegmentazione dello spazio sociale nella Londra post-attentati del 2005 alle masse delle manifestazioni politiche; dalle masse migranti e delle commemorazioni pubbliche al “popolo” del discorso politico (es. Salerno 2012; 2016a; 2017). In tutti questi casi d’analisi ho affrontato il tema dei soggetti collettivi usando quegli strumenti che la semiotica, specie quella greimasiana, ci dà per descrivere i modi in cui essi si formano, si trasformano, assumono significato (soprattutto sui media) e si dissolvono. Obiettivo del mio intervento è riflettere su questi strumenti, prima attraverso un breve stato dell’arte, semiotico e interdisciplinare, sul tema e poi analizzando le politiche della massa nelle immagini degli attentati di Parigi del 2015 e la rappresentazione dei recenti flussi migratori. 2. Stato dell’arte (semiotica) Il tema delle formazioni sociali collettive è stato affrontato da Greimas nel corso degli anni settanta per l’analisi del discorso giuridico (sulla legge commerciale su società e gruppi di società), in collaborazione con il centro di ricerca del diritto della camera di commercio e dell’industria di Parigi e con un gruppo di ricerca che comprendeva Paolo Fabbri, Claude Chabrol e Eric Landowski (Greimas 1976). Il lavoro ha generato un noto capitolo di Sémiotique et sciences sociales, scritto con la collaborazione di Landowski, che sviluppa il tema a partire dalle nozioni di attante collettivo come articolazione di una “collezione di attori individuali” dotato di una competenza modale comune e/o di un fare comune a tutti gli attori che sussume. Come Aldama (2000) afferma in un numero monografico di Nouveaux Actes Sémiotiques dedicato al tema, la nozione di attante collettivo solleva più domande e problemi di quanti ne risolva. In particolare lascia inevasa la questione su come un attante collettivo si formi: quali forze e quali meccanismi socio-culturali trasformano una serie di attori individuali in un attante collettivo? Attraverso quale processo di individuazione un soggetto si forma (un tema su cui, sempre su Nouveaux Actes Sémiotiques, si era precedentemente soffermata Pozzato 1991) e viene riconosciuto? Su questa questione Landowski (2004) ha in parte lavorato, per esempio discostandosi da un approccio “intenzionalista/contrattualista” al problema dell’attante collettivo che ignorava la dimensione del sensibile e passionale. Tuttavia una riflessione sui modi di costituzione, organizzazione e dissolvimento di soggetti collettivi rimane a oggi non adeguatamente sviluppata in semiotica. Per interrogarsi su alcune forme del discorso politico (per esempio la categoria di populismo) o per uno studio dei media digitali (qual è il “soggetto collettivo” della rete?), il tema non può che ritornare in agenda, riprendendo il cantiere greimasiano. 3. Dibattito interdisciplinare Negli ultimi decenni il dibattito attorno alla formazione di “soggettivi collettivi” anima diverse discipline: Virno (2001), Hardt e Negri (2004), Esposito (1998 e 2002) e Laclau (2005) hanno portato il dibattito in primo piano tra la fine degli anni novanta e gli inizi dei duemila; una raccolta attorno all’idea di popolo con testi, tra gli altri, di Badiou, Rancière e Butler (Badiou et al. 2013) ha posto il tema della moltitudine come “popolo” al centro del dibattito filosofico. L’ultimo libro di Butler (2015) è una riflessione proprio su soggetti collettivi e di protesta. Il tema è fondativo soprattutto per la teoria politica. A partire dal frontespizio del Leviathan di Thomas Hobbes, su cui è recentemente tornato Ginzburg (2015), il rapporto tra ordine politico e massa (e passioni) è stato sempre considerato fondamentale per illuminare la dimensione del vivere collettivo. Anche in ambito sociologico il tema della molteplicità e delle “politiche della folla” è ritornato in auge (Borch 2012; Brighenti 2014), con il recupero della sociologia e della psicologia delle folle (non a caso sorte nel pieno delle rivolte ottocentesche europee) e di un testo fondamentale come Massa e potere di Canetti (1960). Nell’estetica e negli studi visivi, Didi-Huberman ha recentemente dedicato al tema due opere (2012;

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2016) che approfondiscono sia il tema delle forme estetiche del “popolo” che il rapporto tra protesta, lutto (su cui ha aperto un interessante dibattito Judith Butler all’indomani dell’11 settembre) e forme della moltitudine (a cui più recentemente è stata dedicata una mostra sul tema delle sollevazioni popolari). Infine Mirzoeff (2011) ha cercato di rendere conto dei modi in cui la piantagione, il governo dell’impero e il dispositivo bellico e industriale regolano la massa, un tema di ascendenza foucaultiana (Foucault 2009, tuttavia molti dei lavori del filosofo francese sulle istituzioni totali possono essere riletti come politica della massa). 4. Una proposta Nell’analisi di Greimas, lo studio della costituzione attoriale viene presentato come valido per qualsiasi universo di discorso: esso rende conto di aspetti sintattici e formali rinvenibili in fenomeni sociali diversi. Tuttavia l’aspettualizzazione attoriale, così come è pensata in quel testo, non esaurisce affatto tutte le modalità di costituzione, organizzazione e anche dissolvimento di una molteplicità. Ciò che sostengo è che dobbiamo necessariamente tener conto di tre dimensioni: affettiva, estetica e politica. La dimensione affettiva riguarda le modalità di costituzione, tenuta, organizzazione e dissoluzione della molteplicità rispetto alla passione collettiva che le genera: terrore e lutto, gioia e indignazione sono alcune delle passioni che tengono insieme o dissolvono le masse. La dimensione estetica riguarda le modalità di apparizione della massa e riesce a tenere conto di sostanze semiotiche diverse (come si materializza la “folla del web”?, per esempio o come un “effetto di folla” viene generato?). La dimensione politica riguarda le modalità di partizione del corpo sociale, che si realizzano anche a livello della massa: una folla può costituirsi come “popolo”, come “plebe”, oppure essere costituita sulla base di categorie strutturanti (es. “razza”). La metodologia semiotica può rendere conto e descrivere questi diversi livelli ponendosi al centro di diversi saperi disciplinari e in particolare: della teoria politica, degli studi visivi e della sociologia. 5. Casi di studio: terrore e politica della massa Gli attacchi terroristici avvengono soprattutto in posti affollati: metropolitane, mercati urbani, strade dello shopping, eventi o manifestazioni. Il terrore quindi molto spesso è generato e ha come suo obiettivo la folla ma, molto più spesso, nell’epoca dei media, esso mira al “pubblico”, così come affermano Schmid e Jongman (1988): Terrorism is an anxiety-inspiring method of repeated violent action, employed by (semi-) clandestine individual, group or state actors, for idiosyncratic, criminal or political reasons, whereby - in contrast to assassination - the direct targets of violence are not the main targets. The immediate human victims of violence are generally chosen randomly (targets of opportunity) or selectively (representative or symbolic targets) from a target population, and serve as message generators. Threat- and violence-based communication processes between terrorist (organization), (imperilled) victims, and main targets are used to manipulate the main target (audience(s)), turning it into a target of terror, a target of demands, or a target of attention, depending on whether intimidation, coercion, or propaganda is primarily sought. Abbiamo quindi diversi soggetti collettivi coinvolti: il pubblico-spettatore e le vittime dirette o potenziali. Questa caratteristica del terrorismo come violenza su un corpo collettivo genera delle “politiche della massa”, ovvero nuovi modi di emergenza e governo di formazioni sociali collettive nello spazio pubblico e mediatico. Momenti commemorativi, manifestazioni, politiche di sicurezza, a partire dallo stato di emergenza e dal divieto di assembramento, sono politiche ed estetiche che formano (o impediscono di formare) aggregazioni con diversi ruoli attanziali. Oggi è soprattutto la semantica del rischio (Salerno 2016b) a modellare i modi di emergenza e di attribuzione di significato alle masse. Le masse sono a rischio perché potenziali obiettivi di attacchi, ma sono anche rischiose perché possono nascondere potenziali nemici (è il caso del modo in cui sono rappresentate le masse migranti). Strette tra esigenza comunitaria e necessità immunitaria, le masse tendono a riconfigurarsi, a presentarsi prepotentemente sulla scena oppure a (essere costrette a) scomparire. Quando oggetto di pratiche securitarie, viene loro impedito di emergere come soggetto politico; in pratiche politiche (protesta) o di lutto collettivo sembrano emergere come soggetti di passioni e di parola. A partire da alcuni casi d’analisi (gli attentati di Parigi e la copertura giornalistica dei “soccorsi in mare”) fornirò

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esempi di “politica della massa” in Europa come reazione al terrore, cercando di sviluppare la riflessione sui “soggetti collettivi” in semiotica e in un dibattito interdisciplinare. Bibliografia Aldama, Juan Alonso 2000 “Le social instable”, Nouveaux actes sémiotiques 71-72: 50-64. Badiou, Alain, Pierre Bourdieu, Judith Butler, Georges Didi-Huberman, Sadri Khiari e Jacques Rancière 2013 Qu’est-ce qu’un peuple?. Paris: La Fabrique. Borch, Christian 2012 The Politics of Crowds. An Alternative History of Sociology. Cambridge: Cambridge University Press. Brighenti, Andrea 2014 The Ambigous Multiplicities. Basingstoke, UK: Palgrave Macmillan. Butler, Judith 2015 Notes Towards a Performative Theory of Assembly. Cambridge (Mass.): Harvard University Press. Canetti, Elias 1960 Masse und Macht. Hmburg: Claassen Verlag (trad. it Massa e potere, Milano: Adelphi, 1981). Didi-Huberman, Georges 2012 Peuples exposés, peuples figurants. Paris: Les éditions de Minuit. 2016 Peuples en larmes, peuples en armes. Paris: Les éditions de Minuit. Esposito, Roberto 1998 Communitas. Origine e destino della comunità. Torino: Einaudi. 2002 Immunitas. Protezione e negazione della vita. Torino: Einaudi. Foucault, Michel 2009 Securité, territoire, population: cours au Collège de France (1977–78). Paris: Seuil-Gallimard. Ginzburg, Carlo 2015 Paura, reverenza, terrore. Milano: Adelphi. Greimas, Algirdas Julien 1976 Sémiotique et sciences sociales, Paris: Seuil. Hardt, Michael e Antonio Negri 2004 Multitude: War and Democracy in the Age of Empire, New York: Penguin Books. Laclau, Ernesto 2005 On Populist Reason. London: Verso. Landowski, Eric 2004 Passions sans nom. Paris: PUF.

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Mirzoeff, Nicholas 2011 “The right to look”, Critical Inquiry 37 (3): 473-496. Pozzato, Maria Pia 1991 “Le monde textuel”, Nouveaux Actes Sémiotiques, 18. Salerno, Daniele 2012 “Lo smartphone che guida il popolo. Rivoluzioni 2.0 e orientalismo nel racconto mediatico della rivolta iraniana e della primavera araba”, Studi Culturali 9 (2): 249-268. 2016a “Memorializing Boat Tragedies in the Mediterranean. The Case of the Katër i Radës”, in Lynda Mannik (ed.) Migration by boat. Discourses of Trauma, Exclusion and Survival, Oxford-New York: Berghahn Books. 2016b “Risky subjects in time of terror. A semiotic perspective on the security discourse in Europe”, Versus 123: 363-384. 2017 “The politics of response to terror: the reshaping of community and immunity in the aftermath of 7 July 2005 London bombings”, Social Semiotics 27 (1): 81-106. Schmid, Alex P. e Albert J. Jongman 1988 Political Terrorism: a New Guide to Actors, Authors, Concepts, Data Bases. Theories and Literature. Amsterdam: North-Holland Publishing. Virno, Paolo 2001 Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee. Soveria

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Giacomo Tagliani IL MONTARE E IL CREDERE. Strategie di veridizione nelle immagini contemporanee È nella tensione tra il sapere e il credere, scrive Greimas, che prende forma il rapporto tra il soggetto e il mondo. Sapere e credere che compongono una “struttura elastica che, nel momento dell’estrema tensione, polarizzandosi, produrrebbe un’opposizione categorica, mentre invece, quando si allenta, arriverebbe sino a confondere i due termini” (Greimas 1983: 112). Le implicazioni di questo assunto sono altrettanto note e assodate: la verità consisterebbe in un effetto di senso sottoposto a un contratto tra due attanti e la sua produzione sarebbe regolata da un discorso la cui funzione consisterebbe in un sembrare-vero condizionato in primo luogo dalla rappresentazione che il destinante fa dell’universo assiologico del destinatario. E tuttavia, chiosa il semiologo in una postilla dalla “coloritura moralistica”, la precessione dell’uno sull’altro non sarebbe determinato solamente dalle condizioni singolari di ogni discorso, ma verrebbe dettata da condizioni storico-culturali più ampie e generali: “Viviamo in un’epoca di manipolazione in cui lo scarto tra verità e certezza, tra sapere e credere, è particolarmente visibile. Lo sforzo critico ha cercato, con maggiore o minore successo, di smantellare e mettere in luce le procedure che permettono la costruzione di un dire-vero. In questo senso si è tacciato di ideologismo il discorso scientifico, provocando l’ispessimento dei discorsi utopici che basati sul credere allo stato quasi puro. La società dell’incredulità si lascia sommergere da ondate di credulità, si lascia catturare dai discorsi politici, didattici, pubblicitari e il sapere acquisito sulle trappole del sapere è un antidoto del tutto inefficace”. (Greimas 1983: 109-110). Oggi che i discorsi sono sempre più audiovisivi e che l’autorità – intesa come istanza dell’enunciazione credibile, riconosciuta e riconoscibile – preposta alla loro produzione si è infinitamente parcellizzata in una pluralità eterogenea (è l’epoca della cosiddetta “cultura prosumer”), come si articola questa tensione elastica tra il sapere e il credere? Di fatto, e salvo casi particolari, ogni immagine è un’immagine di qualcosa: la prestazione referenziale è ancora la funzione fondamentale assolta dal visivo e le modalità di fruizione di questa mole crescente di opere o frammenti video assecondano anzitutto tale principio. E tuttavia, la possibilità di testimoniare il mondo sembra essere esposta a un duplice rischio: da un lato, grazie alla diffusione delle tecnologie leggere, emerge l'illusione di una coincidenza tra immagine e realtà; dall’altro, a causa della manipolabilità completa di ogni riproduzione digitale, si affaccia uno scetticismo radicale nell'efficacia testimoniale dell'immagine. Di fronte a questo panorama, è possibile recuperare una forma di fiducia tanto nell'immagine quanto nel mondo, conservando allo stesso tempo un atteggiamento critico verso le rappresentazioni visive? Quali sono le principali modalità enunciative del far-credere articolate all’interno dei discorsi audiovisivi? Al di là di ogni fraintendimento sull’estensione della referenza seguita al dibattito tra analogico e digitale, la risposta fornita dalla teoria semiotica e dalla riflessione estetica individua nelle forme del montaggio il presupposto della coerenza e dell'efficacia del discorso stesso. E tuttavia, sarebbe sbrigativo liquidare la questione referenziale senza prenderla seriamente in esame, come del resto già Barthes indicava ne La camera chiara, nel momento in cui ipotizzava che al fondo della riproduzione fotografica risiedesse un “certificato di presenza”, garante del mondo catturato dall’apparecchio fotografico. Nelle immagini contemporanee, è proprio tale funzione referenziale a svolgere un ruolo dirimente, momento propedeutico e spesso sottotraccia per l’emersione di quella dimensione patemica che – dal versante opposto – sembra costituire la finalità esibita di ogni rappresentazione (audio)visiva. Terreno d’elezione della sinergia tra questi due diversi aspetti è la testimonianza degli eventi bellici e più in generale della “sofferenza a distanza”, nella quale lo spettro delle passioni convocate non può prescindere dalla piena credenza dello spettatore alla verità dell’enunciato. Ma la verità di tale enunciato può essere declinato in forme divergenti, a seconda dell’atteggiamento nei confronti del linguaggio (di ogni linguaggio) che lo spettatore decide di tenere, o che l’enunciatore decide di seguire: l’immagine può dunque essere vista come medium opaco o diaframma trasparente per la conoscenza del mondo rappresentato. Più che essere autentiche, le immagini devono insomma essere autenticate, per riprendere una formulazione incisiva recente di Pietro Montani; tuttavia, questa

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autenticazione può procedere su almeno due binari, che nello specifico sono espressioni contrapposte della dualità del linguaggio appena richiamata: a processi di autenticazione “intermediale” – secondo i quali il mondo è inseparabile dalle immagini che lo (ri)producono e dunque il senso può essere colto solo in una sintassi del visibile che è sempre non-lineare, anacronistica ed eteroclita – si oppongono processi di autenticazione “amediale” – secondo i quali l’immagine è un semplice tramite alla verità del mondo e garantirebbe il massimo possibile (ma non necessariamente assoluto) di trasparenza e oggettività e la cui sintassi sarebbe necessariamente lineare e in continuità. L’estensione di queste retoriche – in un certo senso declinazioni attuali della grande opposizione proposta dalla teoria cinematografica tra “montaggio sovrano” e “montaggio proibito” – ha un risvolto ampio che, come evidenziato, non è affatto esente da rischi: se l’intermedialità è una delle caratteristiche salienti della produzione filmica del presente (da Valzer con Bashir a Redacted, da Vincere a La bocca del lupo), la ripresa in continuità è il mezzo espressivo dei testimoni improvvisati di eventi sparsi per il globo, la cui testimonianza digitale è spesso l’unico elemento probatorio per cercare di carpire il senso di fatti controversi o drammatici. L’intervento cercherà di portare alla luce le strategie di veridizione sottese alle produzioni audiovisive contemporanee in relazione ai regimi di credenza implicati. La ricognizione delle strategie manipolatorie del far-credere e delle conseguenti tattiche interpretative del creder-vero sembrerebbero dunque costituire un luogo privilegiato di diagnosi dei gradienti di “credulità” che regolano la diffusione e l’efficacia dei discorsi all’interno del tessuto sociale. Nell’epoca della “post-truth”, tale compito assume un peso rilevante, a patto di restare fedeli (e dunque di credere con convinzione…) all’ammonimento greimasiano appena menzionato, secondo il quale appunto il “sapere acquisito” non costituirebbe più un antidoto efficace (trasformandosi dunque, platonicamente, in veleno) sulle “trappole” tese dal sapere stesso: una strada proficua – e oggi assolutamente trascurata – per riuscire a ritracciare i confini di un “senso in comune” che appaiono abbastanza sbiaditi dall’azione convergente di saperi (falsamente) condivisi e post-fattualità. Un’azione lenitiva – se non propriamente terapeutica – potrebbe al contrario essere individuata nell’analisi e nella decostruzione delle retoriche (che nel caso cinematografico si sovrappongono a delle estetiche) veridittive; assecondando il precetto lotmaniano secondo il quale “l’analisi semiotica di un documento dovrebbe sempre precedere quella storica” (Lotman 1995: 47), potremmo affermare che l’analisi semio-estetica dovrebbe precedere il fact-checking. Integrando teoria semiotica, teoria filmica e teoria estetica, l’obbiettivo è quello di mostrare come le due grandi polarità del montaggio filmico siano una declinazione visiva della doppia manipolazione discorsivo proposta da Greimas: il mascheramento soggettivante – proprio del discorso rivelato – e il mascheramento oggettivante – tipico del discorso scientifico. Tuttavia, la corrispondenza non è dettata a priori, ma stabilita su basi storico-culturali, ponendo in relazione dimensione critica ed efficacia analitica. In questo senso, sembra possibile parlare di “autorità mediali”, responsabili e garanti della coerenza del discorso e delle condizioni della sua credibilità, che si manifestano come concatenamenti sintattici e forme del contenuto. Bibliografia Barthes, Roland, La camera chiara, Torino, Einaudi, 2003. Casetti, Francesco, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Milano, Bompiani, 1986. Greimas, Algirdas J., Del senso 2, Milano, Bompiani, 1983. Lotman, Jurij M.; Uspenskij, Boris A., Tipologia della cultura, Milano, Bompiani 1995. Montani, Pietro, L’immaginazione intermediale, Roma-Bari, Laterza, 2010.