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universolocaleVolumi già pubblicati:

Pontremoli, di Luigi CampolonghiCucina e salute con le erbe di Lunigiana, di Gian Battista Martinelli

, a cura di Caterina RapettiI librai pontremolesi, di Gian Battista MartinelliNovelle di Valdimagra, di Pietro FerrariLeggende della Lunigiana storica, di Ettore CozzaniIn bicicletta, di Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini)La lanterna di Diogene, di Alfredo PanziniNella tormenta, di Luigi Campolonghi

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Carlo Caselli

LUNIGIANA IGNOTA

TARKA

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Lunigiana ignota

di Carlo Caselli

Prima edizione 1933

Nuova edizione luglio 2017

Tutti i diritti sono riservati

© 2017 Tarka edizioni srl

Piazza Dante 2 - Mulazzo (MS)

www.tarka.it

ISBN: 978-88-99898-76-2

Finito di stampare nel mese di luglio 2017

presso Mediagraf SpA - Noventa Padovana (PD)

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INDICE

Avvertenza XI

Capitolo I Da Bolano al Pian di Madrignano - La corona di Nerone - Il teschio di Bruscarolo - I diamanti di Venturot-to 1

Capitolo II Dal torrente Usurana al monte Beverone - La Buca dell’oro - Un museo di pietre - Tre giganti vegetali - La caverna dei morti 6

Capitolo III Veppo – Campo di battaglia – Castellaro – Boc-chignola – Un cimitero di giganti – Statue-menhirs 11

Capitolo IV Da Zignago ad Antessio - Serò - La sassaia del Dragnone - Castello di Serra Maggiore - Torpiana - Una fab-brica di ceramiche 16

Capitolo V A Zeri - Un casale inghiottito - Un nano fra gigan-ti - Leggenda del gatto - Usanza carnevalesca - Storia d’una strada e d’una carrozza 21

Capitolo VI Rossano - L’albergo d’uno spezzino - Una festa misteriosa - Monte di Lama - Un paese senza sole - Zeraschi contro Francesi 28

Capitolo VII Da Bosco a Montereggio - Il piano delle vipe-re - Il litantrace di monte Carbone - Gente col senso del libro 35

Capitolo VIII A Mulazzo - La casa di Dante – L’asino destina-to a trasportare al supplizio i condannati - Dante ospite dei Malaspina 40

Capitolo IX Vignola - Un tempio pagano - La festa dei “Pi-pin” - Il castagno santo della Madonna della Neve a Poden-zana 46

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VI

LUNIGIANA IGNOTA

Capitolo X Apua. - Una lettera politica inedita del Cantù - La strada della Cisa - Il passaggio di Galeazzo Maria Sforza da Pontremoli e Sarzana 50

Capitolo XI Il poeta Ceccardi agli amici - Il tesoro di Gravagna - L’acqua solfurea di Cavezzana - Il segreto di Cargalla 55

Capitolo XII Valdantena - L’anello del castellano di Previdè – Pracchiola - I “Sarasin” 60

Capitolo XIII Al passo del Cirone - Come nasce la Magra - Le “Libie” di Montelungo - Il mistero di monte Zucchetto - S. Zita 66

Capitolo XIV Filetto - La Selva dei suicidi – Il “Macerione” dei morti - Malgrate - Bonaventura Pistofili 71

Capitolo XV Treschietto - Un Marchese Malaspina detto il Mostro -Danza delle nudiste a Pallerone - Danze e convi-vium alla Borgia - Un sepolto vivo 75

Capitolo XVI Un lago presso Bagnone - Castiglione del Ter-ziere - Segalara, capitano delle Bande Nere - Il passaggio di S. Rocco 82

Capitolo XVII Terrarossa - Igino Cocchi - Il “Masero” - La leggenda della chioccia coi pulcini d’oro - Avanzi romani - Costamala 86

Capitolo XVIII Barbarasco - Domenico Marsili - Una quercia dell’epoca del diluvio - Un paese che non esiste - Tresana -Il granito - Zecca e monete false 90

Capitolo XIX Monti di Licciana – L’antica Venelia - Tradizio-ni popolari - Una notte nel Castello del Marchese Malaspina -L’abate Bastiani - I Medici di Panicale - Il Panicalese 96

Capitolo XX La più bella e graziosa donna lunigianese - La chiesa di Crespiano - Comano, colonia estiva - Campora-ghena 102

Capitolo XXI Sassalbo - Un lembo carsico – Monte Cunella – Saxo-albo primitivo 107

Capitolo XXII La strada modenese - Le tre campane piene di zecchini - Una fabbrica di fucili da pietra - I Sassalbini - Il fidanzamento - Il malocchio 112

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VII

INDICE

Capitolo XXIII La Pieve di S. Paolo di Vendaso - Mommio - Armonie di silenzi - Verrucola-Bosi - La strage degli inno-centi 118

Capitolo XXIV La Firenze di Lunigiana - Il Conte Giuseppe Maria Felicini -Lucia Lemmi - Come fu arrestato il Felicini - I suoi delitti 122

Capitolo XXV Il Castello dell’Aquila - Assedio di soldati fio-rentini - La Pieve di Codiponte - La leggenda di Cillà - Un pago -Prima coltivazione della patata 127

Capitolo XXVI Monte dei Bianchi - Equi - Un monastero fondato da un nobile bandito - La Contessa Matilde di Ca-nossa -I Biassa - Carlo del Prete 131

Capitolo XXVII Vinca - Chi insegnò a fare la ricotta - La casa dei 13 - L’influenza di Firenze - Animali creati dal demonio - Le Capanne del Giovo 135

Capitolo XXVIII Cecina - Iscrizioni votive a Nerone - Statue-menhirs - La tecchia di Tenerano - Il Castellaro - La tradizio-ne delle tre campane 142

Capitolo XXIX Marciaso - La Torretta - La Casa dei Buona-parte - La Selva di Marciaso - Marmo rosso - Grotta delle fate - Pulica -Antiche usanze 146

Capitolo XXX La Città Imperiale - Marchesi fratricidi - Una laurea pagata con guanti - Monte Forca - Gli Auguri di Giuccano -Un pasto annuale nel camposanto 152

Capitolo XXXI S. Terenzo - Il Moro e la leggenda del serpen-te - Sculture e quadri - Posterla - Il ballo delle streghe nella Piana di Maledo 159

Capitolo XXXII Colla - Una scuderia del Vescovo di Luni - Gallogna e il Bozzo di Sparnocchia - Una testa di Nerone - Viano -Giorgio Viani - Una strada romana 164

Capitolo XXXIII Olivola - Il Mastodonte - Due marchesi uc-cisi per una bella donna - La fine di Spinetta presso Gorasco - Collecchione 169

Capitolo XXXIV Bibola - Il Castello di Burcione - Belle luni-gianesi - Il sepolcro della vedova del Conte Ugolino - Acqua di Lavaggi e vino di Vecchietto 175

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VIII

LUNIGIANA IGNOTA

Capitolo XXXV S. Stefano di Magra - Una scuola d’eloquenza - Uomini d’acciaio - La grande chiesa - Opere d’arte 181

Capitolo XXXVI Nicola – Il piano di Luni - Dodici Santi ba-rattati con del vino - Un miracolo di S. Guglielmo 187

Capitolo XXXVII La città del mistero: Luni – La sua distru-zione secondo la “Saga” nordica 191

Capitolo XXXVIII Bocca di Magra - La Grotta del Drago - Dante e Frate Ilario - Montemarcello - Ameglia - La strana usanza carnevalesca del “Bozzo” 198

Capitolo XXXIX Vezzano Ligure - Ossa d’uomini giganti - Bastremeli, paese dove si comanda alle bisce - Tivegna - L’A-ia della Corte - Il Solco del Diavolo 204

Capitolo XL Beverino - Giacomo Della Porta - Una chiesa in-terrata dal Graveglia - Lorenzo Costa - Borghetto - Pio VII - Pogliasca - Una fucina di Vulcano 211

Capitolo XLI Brugnato - La Badia di S. Colombario - L’Epi-scopio - Una pianeta regalata da Napoleone - Una lettera di F. Redi 217

Capitolo XLII Godano - Il diritto della prima notte - La Sesta - Varese -Le Cento Croci 223

Capitolo XLIII Carro - I Paganini - Ziona - Deiva - Un antico porto interrato 229

Capitolo XLIV Il Marmo rosso di Levanto - Il monte Bardel-lone - La leggenda d’una città distrutta - La necropoli di Campodonia - Un gran mistero 235

Capitolo XLV Madonna di Soviore - Vernaccia di Corniglia – Albereto distratto da Rótari - Pignone - Crovara 240

Capitolo XLVI S. Cristoforo - Ponzò - Riccò del Golfo - Ciuf-fardi - S. Gottardo - La Madonna dell’Agostina 245

Capitolo XLVII Carpena e la sua distruzione - Il più bel golfo dell’universo. Una visione del passato da Marinasco 251

Indice 257

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IX

AVVERTENZA

Il giorno 27 luglio 1930 scrivevo al giornale quotidiano “Il Telegrafo”:

Domani partirò dalla Spezia a trotto d’asino per iscoprire la Lunigiana. Questa regione, sebbene nota da secoli, ha lembi, perché non toccati da comodi mezzi di comunicazione, lonta-ni da strade rotabili, ancora sconosciuti ed ignorati dai più. S’elevano colli fioriti d’ulivi, di viti e di pascoli odorosi, che nascondono necropoli dell’età del bronzo; s’ergono aspri e nudi monti con cavità che furono rifugio de’ neolitici lunigianesi; s’incontrano fenomeni fisici non ancora studiati; s’aggruppano casali e villaggi con usanze che vanno scomparendo; affiorano dal suolo coltivato vestigio della romanità, nascoste dal passo dell’edera seguace; s’ammirano mirabili quadri non ancora fis-sati da nessuna tavolozza; vi sono isole esostoriche abitate da giganti ancora ignorati dagli studiosi. Vi sono tratti della re-gione percorsi da sentieri, che segnano strade per le quali passò la nostra prima civiltà, si stendono centri abitati con bisogni ed aspirazioni non ben note a coloro che fortemente vollero la provincia della Spezia. Per questa Lunigiana, che mai sarà scoperta dall’auto; per questo lembo misterioso e suggestivo del-la regione, partirò “pedibus calcantibus”, pazientemente per-correrò mulattiere e sentieri, sostando in ogni punto eloquente di memorie e di bellezze. A mezzo della stampa quotidiana darò un esteso resoconto di ogni tappa per giovare in qualche modo agli studiosi nostri, che non possono uscire dall’archivio, perché affetti da reumatismi.

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Avvertenza dell’Editore: nel testo sono evidenziati in gras-setto i nomi dei luoghi e punti di interesse che si possono visitare ancora oggi.

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Capitolo I

Da Bolano al Pian di Madrignano -

La corona di Nerone - Il teschio

di Bruscarolo - I diamanti di Venturotto

Lasciato l’ospitale BOLANO, che, da 321 m sul mare, guarda fra gli ulivi e le viti l’incantevole qua-dro del Vara, che rimpetto a Vallerano muore nella

Magra; attraversati boschi secolari di castagni, profumate pinete e giardini fioriti di ginestre e di gerani selvatici, sono giunto a un gruppo di case grigiastre per vecchiaia. Genic-ciola è casale sperduto, nella parrocchia di Montedivalli comune di Podenzana, aggruppato ai piedi del monte Ca-stellaro (m 644), il cui nome conforta l’ipotesi, che la sua cima pianeggiante, cinta da diversi grossi muri a secco, sia stato un sicuro rifugio a capanne dei primitivi Liguri pa-stori. A Genicciola bisogna sostare, perché tutti gli abitanti sono usciti di casa a curiosare. Un vecchio con folta barba leonardiana, che si confonde coi capelli color di stoppa, dopo aver chiesto chi sono e dove vado, racconta che laggiù nella costa di Sermazzana verso Bruscarolo, fu sotterrata la corona d’oro massiccio dell’imperatore Nerone. Tutti credono a questa tradizione e lo stesso vecchio, con certo Vincenzo Tamburini, nel 1870, per diverse notti lavorò a fare scavi ma, dicono i più esperti cercatori di tesori, per-ché non si lavorò solo in cert’ore della notte il diavolo vi mise le corna e cambiò la corona in carboni e ceneri. Così dopo tanta fatica invece d’un tesoro, vennero in luce più

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LUNIGIANA IGNOTA

di 70 pentole ricolme d’ossa incenerite, protette entro cas-sette fatte con lastroni calcarei. Nei coperchi delle pentole, fatti a ciotole, si trovarono oggetti metallici: anelli, monete, fibule, pendagli di bronzo e d’argento, tutto fu venduto per pochi soldi. Molte di quelle pentole, urne cenerarie, furono mandate in cocci a colpi di piccone, e delle poche, salvate dal prof. Chierici, qualcuna si conserva nel Civico Museo della Spezia ed altre nel Museo Spallanzani di Reg-gio d’Emilia. A Genicciola non fu interrata certo la corona di Nerone, come credono gli abitanti vecchi e giovani, ma i ritrovamenti, tutti d’età romana, dimostrano che quivi, ai tempi di Luni, e forse anche prima, passava una strada che i Romani percorsero colle loro legioni quando diedero guerra ai Liguri Apuani. Qui in luogo d’una corona d’oro, forse, furono sepolte le ceneri d’un prode capitano, prezio-so quanto un’aurea corona imperiale per l’esercito romano, battuto e sconfitto dai Liguri dall’alto del monte Castella-ro, dove s’erano preparati a impedire l’avanzata.

***La strada mulattiera prosegue, toccando Bruscarolo, casa-le quasi disabitato, con 1’Oratorio di S. Croce, sorto nel 1500, entro al quale si conserva un nero teschio umano. Una vecchietta carica d’anni e d’acciacchi, che tiene le chia-vi dell’oratorio, racconta che quel teschio, disotterrato più di ceni’anni addietro in un vicino terreno coltivato, dove in tempo antico si trasportavano per la sepoltura i morti di paesi lontani, e persino di Parana, si tiene per devozione, giacché un giorno fu visto muoversi ed agitarsi come se fosse invaso da uno spirito. Qualche giovane spregiudicato invece, sorridendo aggiunge che il miracolo fu dovuto ai topi, che dentro al teschio avevano nidificato e fuggirono d’improvviso pel calore dell’accensione dei vicini ceri.

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CAPITOLO I

La costa di Sermazzana non solo fu sepoltura dei pa-gani, ma continuò a essere camposanto, e perciò centro importante anche nei primi tempi del cristianesimo. Forse l’oratorio s’initolò a S. Croce come manifestazione più elo-quente della vittoria della Croce sugli dei falsi e bugiardi, che in questo luogo fino a tardi ebbero culto e adorazione.

Da Bruscarolo la mulattiera scende per risalire a Pegui,villaggio bianco, che fra il verde dei castagni, par un branco di pecore pietrificate. Ma contrariamente all’ipotesi etimo-logica, Pegui, da pecora, non si trova nel villaggio un solo di questi animali. Esso tutt’intorno è fertile di viti e d’ulivi. La mulattiera prosegue sempre attraverso un tratto triango-lare di territorio massese il quale s’addentra nella provincia della Spezia, rompendone la linea di confine.

***In mezz’ora sono al Piano di Madrignano ai piedi del col-le (m 365), che porta in vetta il vetusto castello di Madri-gnano destinato a cadere presto in rovina.

Ricordo che qui nel Piano, un par d’anni addietro, all’ombra d’un pergolato, sedeva sempre dalle otto a mez-zogiorno un vecchio con baffi grigi alla carabiniera, ornanti una faccia angolosa, che pareva quella d’una statua fusa in onore d’un filosofo antico. Quel vecchio era Venturotto. L’avvicinai un giorno di domenica tutto agghindato a festa con una paglietta in testa, annerita dall’ingiuria di mol-ti anni, indossante un’antica giacca da soldato, un largo fazzoletto giallastro al collo e luccicante in ogni parte del corpo di diamanti, com’egli diceva, alcuni grossi quanto una noce e trasparenti come la più bell’acqua di sorgente. Il buon vecchio credeva in fede di possedere diamanti d’al-tissimo pregio e interrogato, spiegava a tutti che quel po’ po’ di ricchezza nasce e cresce in un punto del colle di Ma-

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LUNIGIANA IGNOTA

drignano, in un tratto di terra ch’egli possedeva. Bastava manifestare il più piccolo dubbio, per farlo tirar fuori di-versi sacchettini di pietruzze luccicanti e s’affrettava subito a confessare che anch’egli pure un tempo non vi credeva, quando una notte toccò con mano la verità. L’indicazione del luogo, che il Venturotto solo conosceva, l’ebbe dalla bocca d’un vecchio pastore mentre moriva, il quale fu pri-mo a trovare i diamanti da una sola manata dei quali trasse un favoloso guadagno. Il Venturotto dai diamanti passava poi a parlar con lo stesso calore d’altre cose minerali, ch’egli sapeva trovarsi nei monti di sinistra della Magra, minerali di manganese, di rame, di ferro e d’argento, dei quali non faceva alcun mistero. Parlava pure di marmo rosso simi-le a quello di Levanto e ne presentava delle schegge, che egli stesso aveva fatto saltare col martello da banchi messi a nudo sul dorso del colle di Madrignano. Il buon vecchio era stato all’estero, ora facendo il minatore e ora il piccapie-tre, aveva letto molto, i suoi discorsi filavano bene, meno quelli riguardanti i diamanti, intorno all’esistenza dei quali non ammetteva discussione di sorta e si accendeva in volto quando si sentiva dire che si trattava di semplici quarzi o cristalli di monte. Egli non si ostinava no, sperando trarne lucro, giacché non avrebbe venduto a nessun prezzo nes-suno dei mille e più diamanti che mostrava, egli era preso come da una diamantite acuta e nessuno sapeva guarirlo. Egli era lieto quando poteva convincere qualcuno che nei vicini monti si trovano tesori i quali un giorno saranno messi in luce e formeranno la ricchezza della vallata. E s’ac-calorava a ripetere che ciò gli aveva assicurato il misterioso pastore al letto di morte, e lo gridava alto, perché più pre-sto si fosse scavato seriamente. La convinzione dell’uomo dei diamanti è convinzione ancora di tutta la gente della

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CAPITOLO I

vallata; vi sono tesori nel seno di questi monti. No, tesori credo che si possano avere con sicurezza, coltivando mag-giormente i bruni uliveti e i vitigni rosseggiani d’uva che già rivestono questo territorio.

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Capitolo II

Dal torrente Usurana al monte Beverone -

La Buca dell’oro - Un museo di pietre -

Tre giganti vegetali - La caverna dei morti

Appena fu nota al pubblico la mia partenza per la scoperta della Lunigiana a trotto d’asino, il Vecchio Falco della Rupe, cav. avv. F. Pini, mi scriveva dalla

sua villa Morella: “Ammiratore del paziente quadrupede del buon tempo antico, aderisco ‘tote corde’ alla tua idea e nella dolorosa impossibilità di prendervi parte per ragione di età e di salute, mi permetto di offrirti, vecchio amico, una modesta colazione nella mia verde macchia (Villa Mo-rella), prima tappa della escursione per salire sul Cornovi-glio, quasi centro della Regione dalla cui magnifica vetta la dotta e valorosa comitiva potrà orientarsi per lo svolgimen-to del brillante programma”.

Dal Piano di Madrignano, in quattro passi sono alla Morella dall’amico a consumare la colazione offertami tan-to cortesemente. Il Falco della Rupe, con signorile ospitalità, mi trattiene fino al mattino del giorno dopo, quando parto di buon’ora per guadare il torrente Usurana e toccare Gam-betta, piccolo casale fondato sopra uno sperone di roccia verde e gialla come la pelle di serpente. Le poche case sono mute di memorie, ma gli abitanti parlano tutti della Buca dell’oro, una vicina galleria aperta da circa un par di secoli, dalla quale si sperava vedere uscire oro in abbondanza, ma che invece diede solamente un minerale povero di rame.

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CAPITOLO II

Per un sentiero, che lascia alla sinistra il villaggio di Ca-stiglione, scendo a Cavanella, abitato di tre casali stesi quasi ai capovalle del rio Grande, che muore nel Vara. Cavanel-la è uno dei centri più dimenticati del territorio spezzino. Esso par sorto per attendere: attende paziente una strada rotabile, attende fiducioso un ponte in muratura, che pres-so Padivarma allacci la sua mulattiera alla strada Aurelia e attende, esortando, che dal capoluogo del comune, Roc-chetta di Vara, non sia sempre dimenticato. In questo vil-laggio la cosa che più interessa è il greto di rio Grande. Esso è un vero museo petrografico dovuto all’acqua corrente che scende a precipizio dai monti della fertile vallata, aperta a ventaglio, coltivata con profitto dagli industri abitatori di Cavanella. Non descriverò le mille pietre d’ogni colore che, combinate dal caso, formano i disegni più svariati e più bizzarri. Una tavolozza da pittore, la più ricca: ogni tinta formata da un ciottolo, da un frammento angoloso di roccia, da un sasso, che può narrare la sua storia la quale si connette a quella dei monti da cui fu tolto dal morso dell’acqua piovana, mentre dilavando precipita a valle. Tut-to ciò che la natura ha preparato di bello e a tinte vivaci, si può vedere da ognuno su questo greto. Sono certo che Cavanella un tempo aveva il suo Castello posto dove ora sorge la modesta chiesa parrocchiale, e così son certo che molti alla vista delle mille pietre in belle tinte calpestate, guardando rio Grande, si sentiranno presi dalla voglia di risalire il corso d’acqua stesso per vedere come sono fatti gli strati della roccia dalla quale i ciottoli furono staccati. Così deve aver fatto un giorno, quarant’anni addietro, il PoetaAgostino Falconi di Marola, tipo bizzarro di studioso, che sputava sopr’ogni pietra per vederne meglio le sfumature di colore e giudicare se poteva servire per uso decorativo.

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Certo egli deve aver risalito il corso di rio Grande e, preso dal fascino di tanta bellezza petrografica, tracciò e fece co-struire una strada onde trasportare sul mercato edile vari campioni di rocce dal verd’erba al rosso fuoco.

***Da Cavanella, in tre quarti d’ora salgo al Fornello, un grup-po di cinque case, meta di cacciatori, che trae nome da un antico forno per la fusione di minerali cupriferi, che par si trovassero nella roccia serpentinosa, fiancheggiante il sen-tiero per Manzile, casale questo noto da più di trent’anni per tracce di caolino scoperto dal Ratti, allora pretore a Ca-lice al Cornoviglio. Da qui bisogna fare una punta al vicino Stadomelli, dove sono tre rari cipressi secolari, catalogati fra le bellezze naturali d’Italia, che meritano d’essere fotogra-fati. Essi giganteggiano in gruppo meraviglioso presso la chiesa di S. Giovanni, la quale può interessare non poco gli esperti d’arte antica per un arco, da poco messo in luce dei primi tempi del cristianesimo. Col sacco ripieno di cam-pioni di diaspri e serpentine color della pelle di ranocchia, prendo la mulattiera che sale ripida al monte Beverone. La fatica non è lieve ma grandissimo è il premio quando si tocca il cocuzzolo. Il sentiero è ripido, malagevole, ma in parte ombreggiato da castagni e da pini silvestri. Di quassù lo spettacolo è indescrivibile. Se l’occhio, potere magico, si trasformasse nell’obiettivo d’una macchina fotografica, potrebbe fissare un quadro dei più eloquenti per mostrare quanto sarebbe utile allacciare con una strada i paesi del-la vallata del Vara, onde popolarli nella canicola d’agosto. Seduto sul muro che cinge il piazzale della chiesetta di S. Giovanni dal lato più scosceso del monte, che si eleva a 702 metri, formato di diaspro rosso, mentre s’ammira l’ampia distesa, armonia dei toni verdi del bellissimo quadro, s’ode

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CAPITOLO II

un misterioso concerto di lamenti. Sono suoni d’arpe eoli-che formate dai fili che uniscono i parafulmini della chie-setta e del campanile, discosto pochi metri, misti e intonati coi fremiti delle tre campane schiaffeggiate dal vento che mai non tace. Nella fantasia d’un poeta potrebbero essere i lamenti dei morti, cha fino verso il 1900 venivano calati in una cavità ai piedi del campanile, tutti senza cassa e spogli d’ogni cosa terrena, senza un segno che li distinguesse nel putrido carnaio, chiuso da una lastra d’arenaria. Il cocuz-zolo del Beverone è quasi calvo come la testa di chi ha sfi-date le intemperie di numerosi inverni; nell’ampia e calva spianata vi sono tracce evidenti d’antiche capanne, forse abbandonate prima del mille, quando fu eretta la chiesa, una delle più antiche della regione. L’abitato, addossato al monte dalla parte di levante, è formato di pochi e poveri tuguri con tetti d’arenaria, e sembra di vedere una strana teoria di chiocciole rossastre salire dirette a guadagnare la vetta per raccogliersi in chiesa devote di S. Giovanni. Gli abitanti al mio apparire sono tutti fuori dalle nere gole, che servono da camino e da porta delle case; i vecchi con faccia quasi del color della roccia del monte, incorniciata da barba e capelli incolti, mi chiedono che cosa vendo; le donne e i bambini, pallidi con occhi sbarrati, seduti nel sentiero che pare lastricato di letame di stalla, ascoltano le domande che rivolgo ai pochi giovani, che mi forniscono notizie dei numerosi fulmini che cadono a ogni temporale alla sommità del monte, e mi additano un vecchio rima-sto completamente depilato dal capriccio d’una delle tante saette, che non fecero mai vittime per miracolo del santo adorato nella chiesetta.

Sostando per una giornata quassù, si potrebbe diventa-re amici di tutti, alti e piccini, si potrebbero avere focaccet-

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te e latte, ma resterebbe pur sempre un nemico invincibile, l’esercito di mosche, che sembrano quassù convenute per assalire i passanti con costante ferocia e ardimento. A evita-re ogni pericolo prendo la mulattiera che scende a Veppo.

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Capitolo III

Veppo – Campo di battaglia – Castellaro

– Bocchignola – Un cimitero di giganti –

Statue-menhirs

VEPPO è un aggregato di quattro ville: Piazza, Ser-ra, Montale e Castello, fondate sul terreno alba-rese scistoso con isolette di serpentina e oficalce.

Chi raggiunge Piazza e sosta con le spalle volte al monte di Suvero (m 687), portante in groppa il castello e il paese omonimo, che paiono in pericolo di precipitare a valle, ab-braccia con lo sguardo le altre ville di Veppo, che salgono in dolce declivio fertile di vigneti e di campi, guardati dall’a-spra vetta del monte Bastia (m 815).

Questo monte sta a significare un punto di difesa in tempi preistorici e anche storici. I vecchi narrano di fatti che lassù un tempo si trovavano massi sovrapposti non ce-mentati circoscriventi un piazzale ellittico, nel quale anco-ra oggi rimangono tracce d’opera umana. Qualcuno parla persino d’un certo Marchese Beducciano, che dalla Bastia avrebbe sbaragliata gente nemica venuta di lontano per conquistare il territorio. Questo scontro è documentato dal nome rimasto al luogo ai piedi della Bastia, dove si sarebbe svolto, una spianata detta Campo di battaglia, non segna-to in nessuna carta e non accennato da alcun documento scritto. A circa 200 metri più sotto, s’indica ancora il Piano dei cavalieri, dove la tradizione vuole fossero infissi nelle masse rocciose anelli per legare cavalli e muletti.

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Veppo dunque un tempo sarebbe stato centro di gran-de importanza e, forse, teatro di un’azione decisiva fra due popoli? Chi è abituato a muoversi sempre appoggiato a documenti scritti e a memorie registrate, risponderà tosto negativamente; ma chi s’è fisso in testa di raccogliere nu-merosi documenti parlati per distillarli ai fini di fare un po’ di luce nelle tenebre preistoriche lunigianesi, accetta l’ipotesi che Veppo sia stato teatro importante della vita d’un popolo passato, e per questo mi studio di raccogliere fatti e leggende. Veppo non è soltanto guardato a Est dal-la Bastia, ma è vigilato a Sud dal Bric Castellaro (m 692) e da un Castrovecchio a Ovest (m 480). Il nome di Bric Castellaro documenta la notizia d’un antico sbarramento di vallata, sul quale i vecchi ricordano misteriose vestigia d’un lontanissimo passato e si citano ritrovamenti di frecce e di lance. Così pure Castrovecchio, attualmente indicato col nome di Selva, su cui si stende un vigneto, ricorda, con avanzi di muri messi in luce alla sommità, che un tempo doveva guardare e difendere dalle insidie la incassata valle del Fosso di Veppo.

***Dalla vetta di Castrovecchio, guardando verso Rocchetta Vara e oltre il sottostante rio Pradolino, si mostra una costa, ora rivestita di castagni, sulla quale la leggenda narra che in certe notti si radunavano misteriose donne che poi, dispo-ste in largo cerchio, ballavano, girando attorno a un punto fisso e agitando fiaccole di luce viva. Era la Menada, dicono gli abitanti tutti, spettacolo spaventoso che ancora si cita ai bimbi per impaurirli e chiamarli all’obbedienza. Questa leggenda della Menada, ballo di donne, agitanti fiaccole, la ricordano pure i vecchi nonni della Spezia e la racconta-no ai nipoti. In una notte della settimana dei morti le vie

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CAPITOLO III

dell’allora borgo spezzino, erano percorse da fantasmi di donne, che ballavano agitando tizzoni accesi. Si tratta for-se della sopravvivenza del ricordo d’una festa bacchica, del ballo delle Menas, baccanti che al tempo del basso impero celebravano feste in determinati centri e in prossimità alle strade? Veppo certo in tempi lontani che s’accostano a quei di Roma antica, aveva il suo centro più in alto dell’attuale e attorno all’oratorio di Bocchignola o Bucchignola (m 607). Questo è posto sulla mulattiera che sale da Piazza di Veppo, tocca il Montale, e passata la Focetta, da cui si vede il golfo della Spezia, prosegue per Calice. A Bocchignola, con l’oratorio dedicato alla Madonna del Carmine, attual-mente non si trova che l’antica canonica.

La tradizione vuole che quest’antica pieve e poi par-rocchia di Veppo, fino al XVII secolo, fino a quando cioè sorse l’attuale chiesa presso la villa della Serra, dedicata a S. Michele, fosse un antico tempio pagano. Nelle vallate di Zignago, Zeri e Rossano, Bocchignola è indicata come antichissimo camposanto al quale conduceva la Strada dei morti di cui si trovano ancora vestigia presso Sasseta, alle falde del monte Dragnone, presso Pergola. Nel 1900, fa-cendo restauri all’oratorio, si confortò la tradizione che corre intorno all’antichissimo camposanto, giacché furo-no ritrovate numerosissime ossa umane giudicate di oltre mille anni con alcune tibie di gigantesche proporzioni. Quest’impressione la ripetono diversi vecchi, che confron-tarono quelle ossa con altre tibie umane. Si ha ragion di credere che Bocchignola, fra il Monte Bastia e Bric Castel-laro, di fronte alle Porte di Veppo, (nome dato alla sommità d’un monte a due vette tra le quali passava la strada dei morti), centro dell’antico Veppo, tempio pagano, sia pure stata nota agli antichi Liguri. Com’ era loro antico costu-

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me, trasportavano di lontano i morti per accompagnarli buon tratto della strada che dovevano percorrere onde pas-sare nel mondo d’oltre tomba.

***Se si prende il sentiero che segna l’antica strada dei morti, da Veppo, frazione del comune di Rocchetta di Vara, si raggiunge Sasseta, capoluogo di Zignago, il più montuo-so comune della provincia della Spezia, formato di diverse borgate.

Zignago da più d’un secolo tiene occupata la mente dei grandi archeologi nostri e stranieri. Nel 1827 un con-tadino, nel fare uno scavo a Novà, presso la Pieve, dissep-pelliva un cippo di pietra arenaria scolpito in forma d’una rozza figura umana e portante una breve scritta in caratteri arcaici incisi dall’alto al basso e da diritta a sinistra. Del ritrovamento, ora conservato nel Museo Civico di Genova, si occuparono: l’abate padre Spotorno, Giambattista Zan-noni, Francesco Orioli, il Micali, il Mommsen e tant’altri studiosi. Il cippo fu giudicato una pietra sepolcrale della più antica maniera, tanto per la scrittura, quanto per la scultura. Primo l’Orioli lesse, com’egli disse, con sicurezza la scrittura Mezunemusus, nome e prenome di un defunto in memoria del quale la pietra era stata scolpita: Mezu Ne-musus. Col ritrovamento di altri cippi consimili, a Filetto, a Compoli, a Malgrate, a Moncigoli, a Cecina. Ubaldo Maz-zini giudicò trattarsi di Statue-menhirs1, monumenti fune-

1 Si tratta di una statua stele, la prima di una lunga serie di ritrovamenti. Le state stele lunigianesi, uno degli esempi più importanti della megalitica eu-ropea, sono rappresentazioni astratte di figure umane. Scolpite nella pietra arenaria dalle popolazioni vissute tra il IV e il I millennio a.C., sono state classificate dagli archeologi in tre gruppi tipologici (A, B,C), dal periodo più antico al più recente, furono realizzate tra l’età del rame e l’età del ferro; i ritrovamenti hanno avuto luogo in tutta la valle del Magra. La Stele di Zignago fa parte delle statue del gruppo C, ma si ritiene sia il frutto

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CAPITOLO III

bri dei Celti, che un tempo avrebbero abitata la Lunigiana. Il Mazzini pensò dapprima a un’immigrazione celtica in Lunigiana, con passaggio degli Appennini, seguendo il cor-so della Magra verso il mare; ma, non avendo poi trovata alcuna traccia del passaggio di gente celtica per la valle del Po, avanzò una seconda ipotesi e cioè che la loro infiltra-zione fosse avvenuta per via di mare e che dal golfo della Spezia si fosse estesa, risalendo i fiumi. Le tenebre in cui è avvolto il cippo di Zignago, come tutti gli altri ritenuti opera di gente celtica vissuta nella nostra regione, non sono ancora dissipate, e dagli studiosi si sussurra che presto sarà fatta un’altra ipotesi.

di una rielaborazione di una statua stele dell’età del Rame. L’iscrizione è in caratteri etruschi, e potrebbe indicare il nome di un certo “Mezio Menisco”. Ancora oggi è conservata nel Museo di Archeologia Ligure di Villa Durazzo Pallavicini a Genova Pegli, ma se ne può ammirare un calco nel Museo delle Statue Stele di Pontremoli, che ne raccoglie il maggior numero (Castello del Piagnaro www.statuestele.org).

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Capitolo IV

Da Zignago ad Antessio - Serò - La sassaia

del Dragnone - Castello di Serra Maggiore

- Torpiana - Una fabbrica di ceramiche

L’aggregato dei casali di: Sasseta, Debbio, Pieve,Sommovezzola, Vezzola, Bozzolo, Serò, Valgiunca-ta e Torpiana, che nell’insieme s’estendono per più

di 3200 ettari di terreno, formano il comune di Zignago. Questo territorio, bagnato dai torrenti: Mangia, Cassarola e Brugnato, sebbene in gran parte boschivo, produce vino, frumento, olio, legnami e funghi, ma non può aver com-mercio causa la mancanza d’una strada rotabile. A Sasse-ta, capoluogo, sono ospitato con cortesia dal podestà, cav. Venturelli. Il borgo, che mostra d’essere sorto nel XV seco-lo, non presenta nessun interesse. Alcuni vogliono tragga il nome dalla grandiosa sassaia formatasi per disfacimento di massi rocciosi precipitati dal vicino aspro e nudo monte Dragnone (m 1014), in seguito a un antico franamento. L’abitato s’allinea lungo una viuzza, presso una modesta chiesa con un’alta torre campanara, che ricorda un antico torrione ligure di difesa. Dalla borgata di Serò, verso la Se-sta, si delinea la verde costa Castellaro (m 602), terminata in piano ellissoidale, portante ancora vestigia d’antichi muri a secco, ricordo di lontane opere di difesa erette da gente, che non ha lasciato alcuna traccia nella storia. In località Pignora s’addita una spianata con diversi massi cementa-ti, in parte sepolti e nascosti dal fitto fogliame d’erbacce

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CAPITOLO IV

selvatiche, che la tradizione vuole avanzi d’un’antichissima corte di giustizia, e la località è tutt’ora nota col nome di Pian di Corte.

Di fronte a questo, e poco più distante di cento passi, si trovano altri ruderi indicati da tutti i vecchi come avanzi d’un convento di Benedettini. La tradizione completereb-be la notizia dell’esistenza in Zignago d’un possedimento con chiesa che nel 1014 avrebbe avuta l’Abazia di Leno, come ha ultimamente dimostrato Ubaldo Formentini. Egli dice che l’imperatore Corrado II conferma all’Abazia di Leno, fondata da Re Desiderio, gli antichi possedimenti, fra i quali questi in Griniacula con una chiesa. Griniacula può essere Zignacula, così chiamato Zignago nel Medioe-vo. Certamente si tratta del convento con chiesa indicata dalla tradizione presso Pignora di Serò.

Si vuole che sul monte Zignago, che si eleva al sud del-la Pieve, esistesse in altri tempi un castello da cui avrebbe preso nome il territorio e il comune. Alcuni vecchi di Serò raccontano che i loro nonni parlavano di vestigia di muri e archi grandiosi rimasti testimoni del sontuoso Castello, che la tradizione vorrebbe distrutto da gente nemica venuta di lontano.

Il Castello di Zignago avrebbe avuta la stessa sorte dell’altro castello detto di Serra Maggiore, che al dir dei vecchi, sorgeva tra Torpiana e Valgiuncata, dove ancora si additano pochi avanzi di muri nascosti da sterpi e rovi.

Nel Castello di Zignago, si vuole sia stato ucciso il Mar-chese mentre stava sulla porta e con un sasso lanciato dalla balestra di certo Bogo, per cui i discendenti del liberatore della tirannide, si chiamarono e si chiamano ancora col so-pranome dei Balestra.

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CAPITOLO IV

A Torpiana faccio una sosta in casa del gentilissimo signor Carlo Sottanis. Le più antiche abitazioni di questa borgata, secondo le iscrizioni scolpite sugli architravi d’arenaria del-le porte, datano dal 1500; la chiesa parrocchiale è modesta con un altare in marmo di fattura recente. La popolazione coltiva poco grano e alleva molto bestiame, che sverna col fieno raccolto dalle praterie di monte Fiorito. Il paese mo-desto, e con sole due o tre case moderne, sorge tra un bosco di castagni il cui prodotto in parte viene raccolto per i bi-sogni del paese e il rimanente si lascia in pascolo ai maiali, giacché non conviene trasportarlo a dorso di mulo, né a Borghetto, né alla Sesta. Come in altre frazioni di Zignago, a Torpiana, i giovani sono in America e in Scozia.

Prima di partire di qua mi trovo col procaccia postale, un tipo veramente singolare che caratterizza gli abitanti di queste terre. Egli conta 82 anni, dico ottantadue, ed eser-cita il suo mestiere da 45 anni, percorrendo in media per giorno circa 40 km. Il bel vecchio, simbolo della robustezza montanara, Andrea Muzzo di Debbio, oltre ad avere anco-ra gambe da lepre, ha pure occhi da lince.

Varcato il monte Porcia (m 800), seguendo un sentie-ro inciso fra la nera serpentina, scendo a Pignona, dove posso ammirare due meravigliosi bassorilievi in marmo, uno nell’altare maggiore e l’altro nell’altare di sinistra della chiesa parrocchiale di S. Croce. Raccolgo campioni di mar-mo somigliante al rosso di Levante, tocco Airola e salgo ad Antessio, sempre nel territorio di Sesta Godano. In questo ridente paese, che s’aggruppa sul fianco (m 500) del mon-te omonimo, m’attende una scoperta. In casa Bontemps, dove sosto, posso riposarmi per la cortesia della signora, trovo pregiate ceramiche dipinte artisticamente, fabbricate in questo stesso paese da Francesco Bontemps, morto nel

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1921. Egli era architetto, scultore e pittore; nacque a Massa da famiglia francese e là trapiantata più di cent’anni addie-tro. Dopo un lavoro paziente durato una diecina d’anni, il Bontemps riuscì a trovare il modo di fabbricare cerami-che tali, sulle quali riproduceva paesaggi e figure, che per ricchezza di colori rendevano gli stessi effetti dei dipinti a olio. Egli disponeva d’una tavolozza ricchissima di colori in tutte le loro gradazioni e sfumature, uguale a quella usata nella pittura a olio o a tempera, ciò che è impossibile col sistema per la ceramica sotto vernice, sistema che permette solamente 1’uso d’un limitato numero di tinte e a tratti netti e secchi, senza sfumature. Il Bontemps si serviva di terra argilla di Sesta Godano e di Pignona, ch’egli stesso decantava. Si fabbricò un piccolo forno, tutt’ora esistente qui nella casa d’Antessio, ora abitata dalla vedova, signora Ricci e dalle figlie, le quali possiedono una pregiata raccolta di queste ceramiche dipinte con arte.

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Capitolo V

A Zeri - Un casale inghiottito -

Un nano fra giganti - Leggenda del gatto -

Usanza carnevalesca - Storia d’una strada

e d’una carrozza

Da Antessio salgo il ripido dorso del monte omo-nimo, guadagnando in un’ora il punto più eleva-to, le Rocche bianche. Quivi bisogna fermarsi per

ammirare lo spettacolo veramente grandioso, dove pare che la natura abbia voluto stabilire un osservatorio di bellezze per il viandante. Sono a 1200 metri, nel mezzo d’un alto-piano tutto erboso, senza alberi e capanne, da cui si vede da una parte il monte Castellare di Zignago, che si erge acutissimo; accanto il colossale e nudo Dragnone, il quale porta in vetta il celebre santuario, poi, sparsi per la verdis-sima conca di castagni, i paesi di Pieve, Sasseta, Torpiana, S. Maria, Scogna, Godano, Pignona. Nell’altro versante, all’ombra del monte Gottero, si stende la fertile vallata del torrente Gordana con i casali di Adelano, Bergugliara, Pati-gno, Castello, Serra lunga e Coloretta, terre di Zeri.

Varcato il monte e passata la maestà della Feeta, la ma-lagevole mulattiera scende, ombreggiata da castagni e cerri, fino a Coloretta. Qui c’è ufficio postale e telegrafico, ci sono trattorie, si può mangiare e dormire comodamente; qui ci sono mille bellezze naturali da osservare, ci son ricor-di di altri tempi, ci sono costumanze nuove, qui bisogna

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fare lunga sosta, perché si possono avere impressioni fedeli di questa Valchiusa di Lunigiana mancante di strade rota-bili.

Un territorio fertile, chiuso da una cerchia di alti mon-ti, senza strade che lo mettano in comunicazione coi centri civili lontani, resta fuori del movimento civile: così è di Zeri, il paese più esostorico della Lunigiana, il quale per-ciò conserva caratteri e costumanze tutte proprie e forse un po’ difficili a essere comprese. Zeri è un aggregato di piccoli villaggi e casali a breve distanza l’uno dall’altro, alle falde del monte Rotondo sulla sponda destra del torrente Gordana. I castagni rivestono ora la grande conca nel cui centro s’eleva il misterioso e sinistro monte Greta, d’aspet-to vulcanico, ma d’aspetto solo, in altri tempi popolato d’abeti. Il territorio è fertile di cereali, di pascoli e prati. Gli abitanti, per indicare che non hanno gran fatto biso-gno di ciò che non produce, dicono, e ripetono con or-goglio, che Zeri mangia del proprio pane e veste del proprio pelo. La popolazione si mantiene di belle forme, di robu-sta complessione e quasi di gigantesca statura; si contano moltissimi ottantenni e si additano donne di 90 anni, che cuciono e attendono ai lavori domestici, senza bisogno di occhiali. Sono d’animo gagliardo, di poche parole, fruga-li, ospitalissimi, ma intolleranti di ogni più piccola offesa. Bisogna vivere qualche giorno quassù, vivere com’io ho fatto, ed entrare nelle case di Coloretta, Noce, Patigno, Adelano, Bergugliara e Castello, per poter comprendere la psiche di questa popolazione.

A Coloretta, dove s’aprono mille fonti con dolci, chiare e fresche acque, manca la vite, e non alligna in nessun altro palmo di territorio zerasco; non mancano però il vino, e i bevitori. In epoca andata si provvedeva la bevanda bacchica

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