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MORTI & FERITI – MARZO/APRILE 2014 Solo i diritti alla vita e alla salute non si possono barattare. Un tarantino racconta la requisitoria del PM nel processo "Amianto" ai Riva e Capogrosso “Gravi, manifeste e ripetute violazioni” delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, secondo il Pubblico Ministero. Fulvia Gravame. Nell'ultimo anno, alcuni tarantini assistono alle udienze del processo "Amianto" a carico di Emilio e Fabio Riva, Luigi Capogrosso e di 26 ex dirigenti del Siderurgico di Taranto (nella gestione dell'ILVA e dell'Italsider). Assistere alle udienze è stato ed è una forma di solidarietà per le vittime dell'inquinamento da amianto e di protesta civileconttro la mancanza di tutela in un luogo di lavoro dove sono morti per incidenti tanti operai e altri si sono ammalati per comportamenti che sono oggetto di valutazione da parte della magistratura. Francesco Picca ha voluto lasciarci questa testimonianza. I capi d'accusa contro Emilio e Fabio Riva, Luigi Capogrosso e di 26 ex dirigenti del Siderurgico sono omicidio colposo e l'omessa cautela di precauzioni necessarie per tutelare l'integrità fisica dei lavoratori e altri reati in relazione alla morte di ben 26 operai che lavoravano a contatto con l'amianto e altri cancerogeni, deceduti per malattie professionali. Nell'ultima udienza, quella del 28 febbraio, c’è stata la lunga requisitoria del PM Raffaele Graziano, conclusasi con le richieste di condanna a 4 anni per i principali imputati, ovvero Emilio Riva, Fabio Riva e Luigi Capogrosso. Non trascurabili, però, le richieste con pene comprese tra i 2 e i 9 anni per altri 26 imputati coinvolti a vario titolo nella conduzione dello stabilimento dai primissimi anni ’70 sino ad oggi. L’esordio del PM è stato netto e perentorio, parlando di “gravi, manifeste e ripetute violazioni” delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro. Quindi Graziano ha proceduto a delineare l’evoluzione del quadro normativo in materia di amianto, un cammino giurisprudenziale e ancor prima dottrinale strettamente correlato con le nuove risultanze della ricerca scientifica. Più volte il PM ha sottolineato la mancata adozione dei dovuti provvedimenti da parte dell’azienda, evidenziando come il primo quadro normativo in materia risalga al 1992, mentre la prima procedura operativa di sicurezza specifica per l’amianto adottata dall’azienda è del 2003. Fondamentale il riconoscimento, ormai acclarato dall’antologia medica, dell’esposizione alle fibre e alle polveri di amianto come fattore scatenante di patologie quali sarcomi e mesoteliomi. Altrettanto importante il riconoscimento dell’esposizione prolungata a tali materiali come fattore acceleratore delle suddette patologie. Il PM ha poi effettuato una dettagliata descrizione delle attrezzature, degli impianti e degli apparati che

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MORTI & FERITI – MARZO/APRILE 2014

Solo i diritti alla vita e alla salute non si possono barattare.Un tarantino racconta la requisitoria del PM nel processo "Amianto" ai Riva e Capogrosso“Gravi, manifeste e ripetute violazioni” delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, secondo il Pubblico Ministero.Fulvia Gravame. Nell'ultimo anno, alcuni tarantini assistono alle udienze del processo "Amianto"  a carico di Emilio e Fabio Riva, Luigi Capogrosso e di 26 ex dirigenti del Siderurgico di Taranto (nella gestione dell'ILVA e dell'Italsider). Assistere alle udienze è stato ed è una forma di solidarietà per le vittime dell'inquinamento da amianto e di protesta civileconttro la mancanza di tutela in un luogo di lavoro dove sono morti per incidenti tanti operai e altri si sono ammalati per comportamenti che sono oggetto di valutazione da parte della magistratura.Francesco Picca ha voluto lasciarci questa testimonianza. I capi d'accusa contro Emilio e Fabio Riva, Luigi Capogrosso e di 26 ex dirigenti del Siderurgico sono omicidio colposo e l'omessa cautela di precauzioni necessarie per tutelare l'integrità fisica dei lavoratori e altri reati in relazione alla morte di ben 26 operai che lavoravano a contatto con l'amianto e altri cancerogeni, deceduti per malattie professionali.  Nell'ultima udienza, quella del 28 febbraio, c’è stata la lunga requisitoria del PM Raffaele Graziano, conclusasi con le richieste di condanna a 4 anni per i principali imputati, ovvero Emilio Riva, Fabio Riva e Luigi Capogrosso. Non trascurabili, però, le richieste con pene comprese tra i 2 e i 9 anni per altri 26 imputati coinvolti a vario titolo nella conduzione dello stabilimento dai primissimi anni ’70 sino ad oggi.L’esordio del PM è stato netto e perentorio, parlando di “gravi, manifeste e ripetute violazioni” delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro. Quindi Graziano ha proceduto a delineare l’evoluzione del quadro normativo in materia di amianto, un cammino giurisprudenziale e ancor prima dottrinale strettamente correlato con le nuove risultanze della ricerca scientifica. Più volte il PM ha sottolineato la mancata adozione dei dovuti provvedimenti da parte dell’azienda, evidenziando come il primo quadro normativo in materia risalga al 1992, mentre la prima procedura operativa di sicurezza specifica per l’amianto adottata dall’azienda è del 2003. Fondamentale il riconoscimento, ormai acclarato dall’antologia medica, dell’esposizione alle fibre e alle polveri di amianto come fattore scatenante di patologie quali sarcomi e mesoteliomi. Altrettanto importante il riconoscimento dell’esposizione prolungata a tali materiali come fattore acceleratore delle suddette patologie. Il PM ha poi effettuato una dettagliata descrizione delle attrezzature, degli impianti e degli apparati che contenevano fibre di amianto e ha svolto una puntuale ricostruzione delle condizioni di lavoro e delle modalità operative dei tecnici manutentori.Preziosa è stata la ricostruzione effettuata attraverso le deposizioni rese dagli stessi ex lavoratori in fase dibattimentale. Il dato comune emerso è quello di una totale assenza o, nel migliore dei casi, di una non idoneità dei dispositivi di protezione individuale (indumenti da lavoro specifici e mascherine protettive delle vie respiratorie). Per alcune mansioni, caratterizzate dalla prossimità a fonti di calore, i dispositivi di protezione erano addirittura realizzati in fibra di amianto; parliamo di guanti, ghette, mantelline e copricapo. Frequente anche la scarsissima salubrità degli ambienti adibiti alle lavorazioni, spesso sprovvisti di impianti di riciclo dell’aria. In quegli stessi ambienti, in numerosi casi, i lavoratori consumavano persino i propri pasti. Colpevole e inspiegabile la condotta dell’azienda, costantemente in ritardo nel recepire le novità normative. Così come appare oggi deleteria la lentezza esasperante nell’ottemperare ai verbali prescrittivi degli organi ispettivi (come nel caso delle prescrizioni SPESAL del 2000 attuate soltanto nel 2003). Deprecabile, poi, la condotta di numerosi dirigenti e capi reparto finalizzata a reprimere con atteggiamenti dissuasivi non proprio ortodossi le lamentele delle maestranze per la mancanza dei dispositivi di protezione o per le pessime condizioni dei luoghi di lavoro. Il PM, nella sua requisitoria, si è soffermato anche su di un’altra sostanza riconosciuta come cancerogena, ovvero l’apirolio, impiegato per 30 anni in enormi quantità negli apparati elettrici e, purtroppo, spesso utilizzato come solvente, sgrassante e persino come detergente per le mani.Un altro dato sconcertante emerso dalle deposizioni degli ex lavoratori è la mancanza di formazione e informazione sui rischi specifici. Per lungo tempo l’azienda, oltre a non ottemperare

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al suddetto obbligo, ha persino negato la presenza dell’amianto al fine di evitare il riconoscimento dei benefici Inail e scongiurare così il conseguente prepensionamento dei lavoratori.In aula è intervenuto anche il Procuratore Franco Sebastio. Mostrando al giudice la prima sentenza di condanna dell’Italsider risalente al 1982 ha detto: “È un ciclo che si ripete , ma a differenza di allora, oggi sento parlare di ‘tenere insieme salute e lavoro’; ma ancora no ho trovato nessuno in grado di spiegare come si fa. La speranza è che questa sentenza possa rappresentare una risposta a questo interrogativo”. E poi ancora: “sono 30 anni che stiamo in viaggio e il viaggio continua. La costituzione parla di diritti. I diritti sono tali quando non ledono altri diritti. Solo i diritti alla vita e alla salute non si possono barattare. Non capisco come si possa contrapporre la vita con il lavoro. Il lavoro oltre a non ledere la salute deve essere dignitoso”.Il calendario processuale prevede altre cinque udienze. La sentenza è prevista per il 23 maggio. La stagione del riscatto sembra intravedersi. Sarà fondamentale una presa di posizione netta e incondizionata da parte di tutta la comunità tarantina.Per informazioni vedi anche il profilo Facebook di Contramiantohttps://www.facebook.com/pages/Contramianto-e-altri-rischi-onlus/123358797731114?fref=ts

Peacelink – 2 marzo 2014

Eternit, l'inchiesta arriva in Brasile L'AMIANTO continua a far piangere Casale: il paese dell'Eternit si è trovato ancora una volta sconvolto dalla morte: il mesotelioma si è portato via Valerio Bernasconi, 48anni, il 22 febbraio, e a distanza di una settimana anche sua madre, Anna Montiglio.La Repubblica – 3 marzo 2014

Alla Cokeria-Ilva un altro grave infortunio - un anno fa nello stesso reparto moriva Ciro Moccia Un operaio di 28 anni, Gabriele Scialpi, dipendente di una dittadell'appalto Ilva, ieri verso la 14,30 è rimasto coinvolto in unincidente sul lavoro all'interno dello stabilimento di Taranto, subendola frattura delle gambe.Il lavoratore, dipendente della ditta «Semat», secondo fonti sindacali,è caduto mentre era all'interno di un cestello ed eseguiva nella zonadella 12/a batteria coke un'operazione di stuccaggio ad un'altezza dicirca tre metri.Probabilmente a causa della rottura di una delle catene di sollevamento,il cestello si è piegato rimanendo sospeso nel vuoto e determinando lacaduta del lavoratore. Il 28enne è stato soccorso e portato all'ospedale«Santissima Annunziata», dov'è attualmente ricoverato. Sull'episodioindagano i funzionari dello Spesal, il Servizio di prevenzione esicurezza negli ambienti di lavoro dell'Asl.Poche settimane fa l'ennesimo incidente al siderurgico: un giovane di 20anni ha subito l'amputazione di una gamba a seguito del ribaltamento diun muletto.Un anno fa, il 28 febbraio, proprio nel reparto cokerie precipitava, epurtroppo quella volta, moriva l'operaio Ciro Moccia, dipendente diretto dell'Ilva.LA DINAMICA DEGLI INFORTUNI MOSTRA CHIARAMENTE CHE NON SI FA LA MESSA INSICUREZZA DEGLI IMPIANTI*MA NON SI FA NEANCHE LA MANUTENZIONEORDINARIA.*GLI OPERAI RISCHIANO LA VITA ANCHE PER LA "ROTTURA DI UNACATENA DI SOLLEVAMENTO"...L'azienda attiva nuove procedure che sono in realtà più catene per unintervento immediato (Il SIL deve verificare nella prime 24 ore dalladenuncia la sua fondatezza, e nelle successive 24 ore il responsabile diarea e il caporeparto devono individuare gli interventi necessari arimuovere i fattori di rischio denunciati... e per l'intervento concretobisogna ancora spettare...); Bondi scarica tutto sulle dittedell'appalto, minacciando l'esclusione dall'assegnazione di appalti senon rispettano le regole della sicurezza (della serie: il bue dicecornuto all'asino); ma poi non si cambia una catena di sollevamento... onon si rimuove una passerella vecchia e improvvisata (come fu per lamorte di Ciro Moccia).ANCORA UNA VOLTA SI GIOCA CON LA VITA DEGLI OPERAI!Slai cobas per il sindacato di classe- Taranto http://bastamortesullavoro.blogspot.it – 05 marzo 2014

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Le pensioni all'amianto La procura: "Processate gli operai" A SETTE anni di distanza dall'inizio di un'indagine difficilissima, sia per la mole di atti da analizzare che per le ricadute sociali e politiche, la procura di Genova ha chiesto il rinvio a giudizio per una prima tranche dei circa 600 operai di Ansaldo Energia, indagati per truffa nell'ambito dell'inchiesta sui benefici previdenziali per l'esposizione all'amianto. Ma in queste ore sta per arrivare alla chiusura delle indagini anche un altro filone della maxi inchiesta: quella che vede indagati una mezza dozzina tra dirigenti e manager, alcuni ex, dell'azienda della galassia Finmeccanica. Anche la società avrebbe infatti beneficiato - ne parliamo più approfonditamente in un altro articolo in queste pagine - dell'esodo di massa di centinaia di lavoratori. Ma procediamo con ordine. E' di ieri la notizia che il pm Luca Scorza Azzarà ha chiesto che vengano processate 15 persone per il reato di truffa ai danni dello Stato, in questo caso le casse dell'Inps. Si tratta dell'ex direttore provinciale Inail Pietro Pastorino e della ex funzionaria Cinzia Rotella (entrambi già imputati in un primo processo) di un caporeparto, Angelo Michelini e di 12 operai attualmente in pensione. Michelini con la complicità dei dirigenti Inail, avrebbe falsamente certificato che gli operai indagati lavoravano in quei settori della fabbrica esposti all'amianto presenti nei cosiddetti atti di indirizzo, cioè l'accordo con cui vennero individuati parametri e modalità per il riconoscimento del bonus. Ma per l'accusa, come avrebbero accertato le indagini della procura sviluppate dagli agenti del commissariato di polizia di San Fruttuoso, in realtà questi operai erano addetti alle cosiddette "Macchine utensili", ossia reparti - ad esempio tornitori espressamente esclusi dai benefici negli atti di indirizzo. Complessivamente, i dodici indagati avrebbero incassato circa un milione di euro non dovuti. Le cifre oscillano a seconda dell'anzianità e del periodo di pensionamento già trascorso. La procura, anche attraverso il capo dell'ufficio Michele Di Lecce ha tenuto a sottolineare che l'inchiesta non ha mai messo né vuole oggi mettere in discussione la presenza dell'amianto nei capannoni di Ansaldo né i casi di malattia e i decessi. Piuttosto l'indagine ha fin dall'inizio inteso svelare un "sistema" cui avrebbero partecipato funzionari Inail, sindacalisti, patronati e vertici aziendali, che, facendosi scudo della drammaticità dei numero dell'asbestosi ha garantito uno scivolo di gruppo a centinaia di persone che pur lavorando duramente - non tutte - non rientravano tra quelle "a rischio" e ha regalato ad Ansaldo (ma l'inchiesta riguarda anche altre aziende, ad esempio l'Ilva) un risparmio di milioni di euro di stipendi e contributi. Per Ansaldo la procura aveva individuato 950 posizioni sospette, ma di queste 300 corrispondono a lavoratori ancora in attività, che quindi non hanno ancora materialmente potuto godere dei benefici. Per gli altri 600 circa il periodo di lavoro preso in esame va dal 1974 fino al 1987. Il maxi fascicolo è stato suddiviso in tanti faldoni quanti sono appunto i capi squadra, ovvero una trentina. Ognuno contiene i nomi dei lavoratori, per i quali il caporeparto ha garantito con la propria firma l'appartenenza ad un settore a rischio amianto. Nel corso delle indagini i presunti falsi erano stati scoperti quando gli investigatori avevano sequestrato le schede aziendali dei lavoratori in cui era annotato il loro percorso professionale, oppure attraverso i registri degli infortuni o ancora grazie agli interrogatori degli stessi operai. Marco PreveLa Repubblica – 05 marzo 2014

Cgil: "Tocca al governo risolvere questa tragedia" NADIA CAMPINI LE INCHIESTE giudiziarie fanno la loro strada, ma sull'altro piatto della bilancia ci sono i morti, tanti, 2500 dal 2006 a oggi, per l'amianto in fabbrica. Lo ricorda il sindacato, quando a distanza di quasi otto anni dall'apertura della prima inchiesta i fulmini dei magistrati iniziano ad abbattersi anche su quelli che in fabbrica ci hanno lavorato. «La nostra linea non cambia — spiega Antonio Perziano, segretario Cgil che da anni segue la vicenda amianto — per Genova l'amianto è soprattutto una grande tragedia, a fronte del 3% della popolazione lavorativa italiana abbiamo il 15% dei casi di mesotelioma registrato in tutto il paese, sono numeri ufficiali del registro, qualcosa vorrà ben dire? Per noi parlano i 132 morti di mesotelioma dell'Ansaldo, i 149 dell'Italsider, i 173 della Fincantieri, le oltre 100 donne, mogli di operai, che si sono ammalate di mesotelioma lavando i panni o stirando la biancheria utilizzata dai rispettivi mariti e compagni in fabbrica». Perziano snocciola i numeri della tragedia, l'altra faccia dell'inchiesta, che è arrivata ai rinvii a giudizio. A Genova spetta il triste record dei malati di mesotelioma, il tumore ai polmoni provocato dalle fibre di amianto, uno dei più terribili, che ha tempi di latenza lunghissimi, può insorgere anche a distanza di vent'anni, tanto che ancora oggi ogni anno i nuovi casi a Genova

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sono 180. E la Procura ha 450 fascicoli aperti per le morti da amianto in fabbrica. In compenso in seguito all'inchiesta ci sono oggi a Genova 600 lavoratori che si sono visti revocare i certificati di accredito dei contributi e che potrebbero essere in pensione se questi certificati non fossero stati bloccati. «Di questi abbiamo parlato con l'ultimo governo — ricorda ora il segretario Cgil — e stiamo cercando di prendere contatti con il nuovo governo per proseguire il discorso avviato, serve una soluzione che affronti anche questi casi, dove tra l'altro si presenta un'evidente disparità di trattamento. Se questi lavoratori fossero stati a Taranto o a Novi Ligure, impiegati negli stessi reparti, oggi sarebbero già in pensione, senza nessuno che venisse loro a contestare i diritti acquisiti». La Repubblica – 05 marzo 2014

Morti per amianto nei capannoni Alfa Romeo, Arese parte civileLa richiesta del Comune al processo ai sette ex dirigenti Fiat al via il 31. Per tutti l'accusa è di omicidio colposo per le 21 morti legate all'esposizione all'amianto presente nei capannoni Alfa di Aresedi Monica GuerciIl silos ex Alfa ricoperto di amianto e ora rimosso Arese, 5 marzo 2014 - Il Comune di Arese si è costituito parte civile nel processo penale contro l’ex ad di Fiat, Paolo Cantarella e altri sei indagati, tutti ex manager di Fiat, per 21 decessi legati all’esposizione all’amianto negli anni Ottanta e Novanta. Cantarella risponde di omicidio colposo in relazione alle sue cariche di ex presidente di Alfa Lancia spa e Lancia Industriale nel 1991 e amministratore delegato di Fiat Auto tra il 1991 e il 1996.Gli altri indagati sono Corrado Innocenti (ex Ad di Alfa Romeo), Piero Fusaro (ex presidente ed ex ad di Lancia Industriale spa), Luigi Francione (ex presidente di Lancia spa), Giorgio Garuzzo (ex presidente di Fiat Auto spa), Vincenzo Moro (ex ad di Alfa Romeo), Giovanni Battista Razelli (ex ad di Lancia Industriale spa). Per tutti l’accusa è omicidio colposo. Sulla richiesta di rinvio a giudizio ha deciso il gup Simone Luerti.L'udienza preliminare è fissata per il 31 marzo al Palazzo di Giustizia di Milano. «Questa mattina è stata depositata la nomina del nostro legale - commenta il sindaco Michela Palestra -. Potremo entrare così nel merito della procedura e capire in quale misura l’amministrazione e il territorio sono coinvolti nel procedimento. Si tratta di esposti e denunce che risalgono a 13 anni fa. Abbiamo fin da subito ritenuto doveroso costituirci parte civile come amministrazione comunale, in quanto “parte offesa”: potremo così accertare come parte in causa nell’intera vicenda le conseguenze che le lavorazioni sotto accusa, quelle legate all’utilizzo dell’amianto negli ex stabilimenti dell’Alfa Romeo, hanno potuto procurare al territorio ed eventualmente ai cittadini».La delibera di Giunta che avallava la decisione è stata anticipata durante l’ultimo consiglio comunale. Queste le motivazioni: «Per la tutela della salute pubblica, dell’ambiente e per il danno di immagine derivante, tra l’altro, dalla stretta connessione tra l’Alfa Romeo e la realtà territoriale aresina, il cui sviluppo economico e demografico ha visto nella presenza degli stabilimenti Alfa Romeo il principale elemento propulsore». «Costituirci parte civile in questo processo non è solo un atto dovuto, sarebbe stato clamoroso il contrario», sottolinea Giuseppe Augurusa, sindacalista, assessore allo Sviluppo del territorio e dell’area dell’Ex Alfa Romeo. La vicenda processuale aveva preso il via nel maggio 2011, con l’apertura di un fascicolo contro ignoti. [email protected] Giorno – 5 marzo 2014

I 27 morti dimenticati della porcilaia di PotenzaPOTENZA - Ventisette di loro sono morti e tredici vivono con un’invalidità permanente. Sono i lavoratori della Cip Zoo di Potenza, la porcilaia zeppa d’amianto che ancora oggi costituisce una delle emergenze ambientali. Nessuno di loro ha mai avuto un soldo, quel risarcimento previsto dall’articolo 29 comma 4 della legge 677/1991. Tutto questo nonostante il sequestro del sito da parte della magistratura, la certificazione, da parte dell’Azienda sanitaria, della presenza di fibre d’amianto e il verbale di sopralluogo dell’Arpab, datato 2006, in cui si parla di amianto aerodisperso.E rischia di essere dimenticata anche la più volte annunciata operazione di bonifica del sito: l’impresa Pellicano verde di Muro Lucano si è aggiudicata da tempo la relativa gara d’appalto (che

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rientra nell’accordo quadro per lavori di bonifica e copertura di cemento amianto su immobili di proprietà della Regione) ma non ha ancora messo mano al sito. Il problema è che al momento non c’è la copertura finanziaria. Si aspetta l’approvazione del bilancio regionale.La Gazzetta del Mezzogiorno – 6 marzo 2014

«La neve velenosa che ci uccide» A Terni tra livelli record di nichel cromo e arsenico, centraline disattivate e una galleria sotto la discarica di Amalia De Simone . A Terni nevica. In dieci minuti la telecamera diventa bianca. C’è il sole, ma la neve non si scioglie perché non è di ghiaccio ma di granelli di polvere. «Quando l’acciaieria Ast Thyssenkrupp “spara”, tutto diventa bianco. Ma qui di candido non c’è nulla. - spiega Andrea Liberati di Italia Nostra – Questa polvere contiene veleni che ci stanno uccidendo nel silenzio generale. I valori ufficiali dell’Arpa di nichel, cromo e arsenico sono ben sopra la soglia benchmark tedesca (max 15 microgrammi/mq per il nichel; max 4 per l’arsenico). Abbiamo infatti registrato un superamento della soglia di 15 microgrammi al metro quadro fino a 23 volte rispetto a questa soglia di riferimento e per il cromo anche punte di 2500 microgrammi al metroquadro. Ci chiediamo se sia eticamente giusto che un’azienda tedesca in Italia non rispetti i limiti che nel proprio paese sarebbero tassativi?». LE ACCIAIERIE - Prisciano, quartiere di Terni a ridosso delle acciaierie, potrebbe essere un borgo di casette e campagna. Solo che qui le piante diventano grigie, come le auto, i tetti delle case, i pavimenti. Gli abitanti della zona mostrano le tegole nuove che dovranno sostituire quelle ormai inservibili corrose dalla polvere. «Io compro litri di acido al mese. Per me è come se fosse acqua minerale. Lo uso per pulire ma riesco solo a tamponare. Questo grigio non va mai via», racconta un’abitante della zona mentre solleva taniche di acido. Alcuni di loro hanno fatto causa alle acciaierie e hanno ottenuto dei risarcimenti ma ora questo non basta più: «In ognuna delle nostre famiglie ci sono ammalati di cancro. Ci stiamo ammalando tutti. Devono dirci cos’è questa polvere, bonificare, smetterla di spararcela addosso. Le acciaierie ci stanno togliendo la vita. Stiamo diventando come il quartiere Tamburi di Taranto». I RILEVAMENTI - La centralina di Prisciano da fine dicembre 2012 è disattivata. Si trova accanto ad un parco giochi per bambini. «La centralina era di per sé già obsoleta e registrava valori tra il 25% e il 30% più bassi di quelli effettivi, come attestato a seguito di interrogazioni comunali. - precisa Liberati - L’eliminazione del misuratore è stata determinata dalla scelta della Regione di scorporare le centraline industriali da quelle urbane. Faccio presente che ancor oggi né quella di Prisciano, né quella di Maratta (dove insiste un inceneritore), sono state riavviate e noi non sappiamo nulla di quello che avviene nell’aria. La Thyssenkrupp conformemente alle disposizioni dell’Aia, è stata delegata all’acquisto del nuovo impianto, fatto che a noi ambientalisti non piace molto. Questa centralina caratterizzerà finalmente i metalli pesanti: finora a Terni ciò veniva fatto soltanto tramite un’unica centralina collocata a c.a km 3 dai forni fusori (differentemente da quanto avviene ad Aosta, per esempio: lì ne hanno messe tre tutt’attorno allo stabilimento Cogne Acciai Speciali). Comunque con il dispositivo di Prisciano registrammo anche 123 giorni di PM 10 oltre la soglia di legge. Poi è stato deciso di cliccare su off». I METALLI E LE EMISSIONI - Andrea snocciola i dati di una classifica da brividi: «Secondo il rapporto Mal’Aria-Legambiente 2012, siamo primi in Italia per cromo prodotto: kg. 968. Siamo certamente ai vertici anche con riferimento al nichel, sebbene la rete di monitoraggio sia molto carente, come detto. Secondi in Italia per mercurio nell’aria; terzi per cadmio». Gli ambientalisti denunciano che non è stata mai eseguita un’analisi delle emissioni diffuse dell’acciaieria, quelle cioè non captate. A guardare dall’alto gli impianti dell’acciaieria si resta impressionati: è una struttura enorme che fa lavorare tantissima gente. Lo stupore viene però annientato alla visione della discarica di scorie dello stabilimento: due montagne di strati a cielo aperto in mezzo agli ulivi e sopra le strade a scorrimento veloce. E’ uno dei cosiddetti siti Sin (siti di interesse nazionale ndr.) da bonificare, operazione che spetterebbe anche al comune di Terni che l’ha utilizzata anche per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani. LE BONIFICHE MAI AVVIATE - Come nella maggior parte dei casi dei siti Sin la bonifica non è mai stata avviata. In discarica c’è un continuo via vai di camion che scaricano scorie. «Siamo in una situazione paradossale - spiega Giuseppe Rinaldi del Wwf – la Tyssenkrupp anziché favorire la bonifica della discarica, ha chiesto al Ministero dell’Ambiente una sua ulteriore espansione in direzione della Valnerina e della Cascata delle Marmore, con un evidente impatto paesaggistico e

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ambientale in un’area che è candidata a diventare patrimonio dell’Unesco. La capienza complessiva che la Tyssenkrupp otterrebbe se il Ministero assecondasse la loro pretesa, è pari a ben 7.000.000 di tonnellate di rifiuti -scorie di acciaieria». LA GALLERIA DEI VELENI - Il paradosso più grande di tutta questa storia è però un’opera che sembra essere un caso unico in Europa: una galleria, costata un centinaio di milioni di euro circa che si trova esattamente sotto la discarica. Nella galleria Tescino piove acqua contaminata con metalli e cromo esavalente. L’autorità giudiziaria ne ha disposto il sequestro per alcuni periodi e il corpo forestale dello stato ha eseguito i rilievi sul liquido che cade lungo la galleria. «Siamo stati noi a fare le denunce – spiega Liberati – ma il problema è la discarica che andrebbe bonificata e che invece sta infiltrando un’opera, come la Tescino, costata tanti soldi». In effetti, nonostante una serie di evidenti rinforzi applicati alle pareti continuano a venire giù liquidi sia lungo le pareti che direttamente sull’asfalto. Della tossicità di quel liquido se ne è accorto Alessandro Ridolfi che lavorava in galleria come tecnico per la prevenzione degli esplosivi e che asciugandosi il viso con una manica impregnata di quel liquido ha cominciato a sviluppare ulcere negli occhi e su tutto il corpo. «Da allora tutti i giorni mi alzo tra lenzuola insanguinate: secondo i medici dell’asl di Arezzo ho sviluppato una sensibilità ai metalli pesanti e al cromo. Ma queste sostanze sono contenute in tutti i prodotti, circa 1200 e così non posso avvicinarmi a nulla. Sono costretto a vivere isolato ad avere pochissimi contatti umani. Nessuno mi fa più lavorare perché prendere uno come me è una responsabilità enorme. Come vengo in contatto con una sostanza che contiene gli agenti immediatamente comincio a sanguinare e si aprono delle ulcere. La mia non è più vita. Ovviamente devo stare lontano dalla galleria e dalle acciaierie. Vorrei che fosse fatta giustizia: so che la procura sta svolgendo un’inchiesta. Spero che si vada avanti anche per i cittadini di Terni. Molti si stanno ammalando e non si accorgono di nulla».

Corriere della Sera - 11 marzo 2014 | 21:28

“Suicida ma ennesima vittima dell’amianto”Muratore per 33 anni in Cmc colpito da tumore che aveva costretto i medici ad asportargli un polmone. Quattro ex dirigenti a processoRAVENNA - Si era suicidato dopo avere perso la speranza per quel mesotelioma pleurico maligno che lo aveva colpito fino a costringere i medici ad asportargli un polmone. E se per l'Inail è chiaro che quel decesso va ricondotto a una malattia professionale con relativa rendita già riconosciuta ai familiari, l'esatta causa della morte dell'uomo - un pensionato di 72 anni ex dipendente della Cmc e i cui familiari sono ora tutelati dall'avvocato Fabio Fanelli - è emersa in mattinata durante il dibattimento del processo che vede i quattro responsabili della cooperativa ravennate per il periodo che va dal '67 al '96 imputati per omicidio colposo. Si tratta di un ottantacinquenne, di un settantacinquenne e di due sessantaquattrenni difesi dagli avvocati Roberto Fariselli e Mirca Tognacci. Alla luce della novità emersa durante la deposizione del medico igienista dell'Ausl che da decenni custodisce il registro della mortalità in azienda, il pm Cristina D'Aniello ha ottenuto dal giudice monocratico Rossella Materia un rinvio di una settimana per potere acquisire ulteriore documentazione. Non è escluso che possa essere ascoltata anche la psichiatra che negli ultimi tempi, dopo la diagnosi, aveva seguito il lavoratore. L'operaio, che da giovane aveva fatto il mezzadro e che nel '62 era stato assunto dalla Cmc come muratore, era andato in pensione nel '95. Nel febbraio 2009 gli era stata diagnosticata la malattia; nel maggio 2011 era stato operato, e nel settembre di quello stesso anno si era tolto la vita. Già nella primavera 2010 gli era stata attribuita una menomazione pari al 90%. Si era attivata pure l'Inail visto che tra le mansioni specifiche che gli erano state affidate durante i 33 anni in Cmc, figurava anche il taglio di manufatti in cemento-amianto oltre alla potenziale esposizione a materiali contenenti piombo. Dalla relazione del medico legale Anna Vercelli incaricato dal gip per l'incidente probatorio, che era stato fatto quando l'uomo era ancora vivo, era emerso tuttavia che non è possibile affermare con certezza che la patologia fosse strettamente professionale. Valutazione analoga è stata espressa oggi in aula pure dal consulente tecnico di parte, il medico legale Adriano Tagliabracci noto tra le altre cose per i rilievi sul corpo di Melania Rea. http://www.romagnanoi.it, 13 marzo 2014

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Ricordate le vittime della Mecnavi a 27 anni dalla tragediaFoto Corelli. A giorni il rinnovo del protocollo per la sicurezza delle attività portuali.Alla presenza dei familiari delle vittime, dei rappresentanti delle istituzioni, dei sindacati, dei partiti, delle forze dell'ordine e di una delegazione di studenti dell'Itis, si è svolta questa mattina in piazza del Popolo la cerimonia per ricordare il ventisettesimo anniversario della strage della Mecnavi. In quel terribile incidente sul lavoro persero la vita tredici lavoratori: Filippo Argnani, Marcello Cacciatori, Alessandro Centioni, Gianni Cortini, Massimo Foschi, Marco Gaudenzi, Domenico Lapolla, Moahmed Mosad, Vincenzo Padua, Onofrio Piegari, Massimo Romeo, Antonio Sansovini e Paolo Seconi. Dopo la deposizione della corona di fiori alla lapide ai piedi dello scalone del Municipio, sono intervenuti  il  sindaco di Ravenna, Fabrizio Matteucci, Nevio Zaccarelli, primo cittadino di Bertinoro dove vivevano cinque delle tredici vittime e il segretario generale della Cgil, Costantino Ricci a nome delle tre organizzazioni sindacali. «Morire di lavoro per incuria, perché non si rispettano le regole  è una cosa inaccettabile. - ha esordito Matteucci .  È il sintomo, la spia che qualcosa  si è inceppato  nel delicato ingranaggio che tiene insieme una comunità. Il  disprezzo per la vita umana, la ricerca del profitto ad ogni costo, la violazione delle regole e delle leggi, furono la scintilla che ventisette anni fa innescarono la terribile tragedia della Mecnavi». Il giorno dopo quell'evento terribile, ha proseguito il sindaco di Ravenna,  «tutta la nostra comunità gridò all'unisono: "Mai più".  Oggi  rinnoviamo quella  solenne promessa: le difficoltà  che stiamo vivendo oggi non ci faranno tornare indietro  a quel 13 marzo di 27 anni fa. In questa giornata  ci stringiamo affettuosamente ai familiari, ma ritroviamo anche  la "bussola" del nostro vivere civile, recuperiamo quei valori profondi che sono il collante di una comunità coesa e solidale, una comunità dove deve prevalere  il rispetto della vita delle persone. In questi 27 anni abbiamo lavorato insieme Comune,  istituzioni, sindacati, associazioni di categoria e degli imprenditori, per recuperare il valore della sicurezza del lavoro. Abbiamo firmato  protocolli, nei prossimi giorni rinnoveremo quello sul lavoro portuale,  abbiamo istituito tavoli di  confronto per affrontare insieme l'emergenza lavoro nella nostra comunità. I quattro fronti di impegno che ci vedono insieme sono sempre quelli: regole, controlli, formazione e una cultura diffusa della sicurezza». Il sindaco Matteucci anticipando il tema del convegno "la cultura della sicurezza inizia dalla scuola" che si è svolto dopo la cerimonia a sala D'Attorre, ha ricordato che, per onorare  la memoria di  Raffaele Rozzi, il giovane ingegnere chimico  che morì nell'eroico tentativo di salvare  i suoi colleghi il Comune di Ravenna insieme a Flaminia ha promosso  a partire dal 2007  «sei iniziative tra corsi di alta formazione per laureati e lavoratori, bandi per borse di studio dedicate ai ragazzi degli istituti superiori. L'anno scorso siamo riusciti a coinvolgere in un'esperienza bellissima ed originale 16 classi degli istituti superiori della nostra città e 400 studenti. Noi vogliamo continuare su questa strada e coinvolgere sempre di più i ragazzi in questo percorso. È  questo il modo migliore per ricordare i 13 morti della Mecnavi e tutti coloro che hanno perso la vita sui luoghi di lavoro». «Sono orgoglioso di essere qui  per onorare la memoria delle 13 vittime della Mecnavi - ha detto il Sindaco di Bertinoro, Nevio Zaccarelli -. Mi ricordo bene Marco e Onofrio: furono i più giovani fra le vittime di quella tragedia. Li rivedo ogni volta che un ragazzo viene da me per chiedere un lavoro, un aiuto, una speranza. Qual è il modo migliore per ricordare? Dare una risposta che si chiama lavoro, lavoro buono, fatto di solidarietà e rispetto delle regole. Impegniamoci perché i nostri giovani e tutte le persone abbiano un lavoro». La cerimonia è stata conclusa dall'intervento del segretario della Cgil Costantino Ricci. «La sicurezza sul lavoro  è una priorità per le organizzazioni sindacali, per le istituzioni, per tutti gli attori che intervengono nel ciclo produttivo. La cultura della sicurezza nel lavoro è un aspetto imprescindibile. Come sono fondamentali le azioni da compiere e le resistenze da vincere affinchè la cultura della sicurezza diventi una prassi quotidiana di tutti i soggetti che interagiscono nei luoghi di lavoro.Questo - ha ricordato Costantino Ricci - è un impegno che si rinnova ogni 13 marzo, e che una società civile, la nostra Ravenna, le istituzioni, le imprese e le parti sociali devono assumere come priorità e diffondere in ogni luogo di lavoro. Questo era alla base del grido "Mai più" che si levò da Ravenna, questo deve essere il nostro impegno per sempre.

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Di fronte all'alto tasso di mortalità e malattia dovuto agli infortuni sul lavoro e alle malattie professionali, è fondamentale rivalutare il ruolo educativo e formativo della scuola nel fornire gli strumenti culturali e le competenze relazionali utili all'inserimento in una futura realtà lavorativa e, in generale, nella società. Oggi ci approntiamo al secondo rinnovo del protocollo per la sicurezza delle attività portuali, che dalla prima stesura del 2008 è stato esteso alle altre attività, collegate alle prime, effettuate anche oltre il perimetro delle banchine portuali.Dobbiamo però rimarcare come, specialmente nell'ambito della cantieristica, della logistica e dei servizi, ci risulta essere ancora diffuso, nelle ditte appaltatrici, spesso pseudo cooperative, il ricorso alla paga globale, al non rispetto dei contratti di lavoro, al non rispetto delle norme sulla sicurezza ad un abuso degli straordinari, che permettono quindi l'aggiudicazione di appalti al massimo ribasso penalizzando non solo i propri lavoratori ma anche le imprese rispettose delle regole.La precarietà del lavoro, la ricattabilità dei lavoratori stranieri, il frazionamento del processo produttivo, la pratica di appalti e subappalti al massimo ribasso, sono sempre più fattori di rischio che creano le condizioni per infortuni e malattie professionali». http://ravennanotizie.itm giovedì 13 marzo 2014

AMIANTO, 20 MORTI ALFA ROMEO: REGIONE CHIEDE ESSERE PARTE CIVILE A PROCESSOSono numerose le istituzioni, le associazioni e i sindacati che hanno chiesto di costituirsi parte civile accanto ai familiari delle presunte vittime all'udienza preliminare cominciata oggi a carico del consigliere di Finmeccanica Paolo Cantarella e altri sei imputati accusati dal pubblico ministero Maurizio Ascione di concorso in omicidio colposo per la morte di 21 operai dell'Alfa Romeo di Arese che sarebbero stati esposti all'amianto negli anni Ottanta e Novanta senza le necessarie misure di sicurezza. Oltre al Comune di Arese e alla Regione, hanno chiesto di essere parte civile l'Asl, l'Inail, Fiom-Cigl, i comitati di base, Medicina Democratica e l'Associazione italiana esposti ad amianto. Su tutte le richieste il giudice per l'udienza preliminare Simone Luerti deciderà in occasione della prossima udienza, fissata per il 10 giugno, quando sono previste anche le discussioni di accusa e difesa. Un'altra udienza è fissata per il 15 giugno. Cantarella è coinvolto nel procedimento in qualità di ex presidente di Alfa Lancia spa e di Alfa Industriale e di ex amministratore delegato di Fiat Auto spa tra il 1991 e il 1996. Rispondono in concorso per lo stesso reato i vari vertici del gruppo che si sono succeduti in quegli anni: Corrado Innocenti, ex ad Alfa Romeo spa; Piero Fusaro, ex presidente di Lancia Industriale spa ed ex ad di Lancia Industriale spa; Luigi Francione, ex presidente Alfa Lancia spa; Giorgio Garuzzo, ex presidente Fiat Auto spa; Vincenzo Moro, ex ad Alfa Romeo; e Giovan Battista Razelli, ex ad Alfa Lancia Industriale. (Omnimilano.it)La Repubblica – 31 marzo 2014

Rana Plaza, le operaie aspettano BenettonEmanuele Giordana. Un anno fa il crollo. In Italia una delegazione di lavoratrici da Dacca: il «marchio» deve pagare i risarcimenti per la strage del tessile, più di 1.100 morti. Oggi assemblea a Treviso«Facciamo appello a tutto il sistema manifatturiero italiano, alle cittadine e ai cittadini, a senatrici e senatori e a tutte le istituzioni, oltre alle aziende coinvolte con le filiere produttive collegate a Rana Plaza, affinché si attivino non solo in un’opera di sensibilizzazione e sostegno verso le vit-time di Rana Plaza, ma contribuendo al Fondo internazionale negoziato e gestito direttamente dall’llo che consente alle imprese e a chiunque desideri, di contribuire alla raccolta fondi in favore delle vittime di Rana Plaza, il palazzo di otto piani costruito senza il rispetto degli standard ade-guati di sicurezza che, in Bangladesh, ospitava 5 fabbriche tessili e che è costato la vita a 1138 persone». Firmato: Valeria Fedeli, Luigi Manconi.Alla famiglia Benetton, uno degli imperi del tessile italiano che con Manifattura Corona e Yes Zee lavoravano con le fabbriche del Rana Plaza, devono essere fischiate le orecchie. Anche perché si sono ben guardate dal contribuire al Fondo cui allude l’appello-dichiarazione della vicepresidente del Senato e del presidente della Commissione Diritti Umani, diffuso dopo l’incontro con gli attivisti della campagna internazionale Clean Clothes (in Italia Abiti Puliti) e con Shila Begum, la lavoratrice

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bangladese che oggi scrive sul manifesto la sua rabbia per essersi sì salvata dalla morte, ma anche per non aver ancora ricevuto alcun risarcimento. Forse a Benetton le orecchie fischiano già da un pezzo perché la Campagna ha invitato i responsabili dell’azienda di Treviso a partecipare alla tappa del tour europeo che ieri era a Roma ma oggi è nella città che ospita il marchio noto in tutto il mondo grazie alle immagini shock create dalla genialità artistica di Oliviero Toscani. Allo shock del Rana Plaza Benetton ha però risposto solo a metà. Ha firmato l’accordo che prevede controlli rigorosi nelle fabbriche del tessile del Bangladesh ma per ora non ha ancora aperto i for-zieri della multinazionale per alimentare il Fondo risarcimenti.Il tour europeo ha avuto il suo battesimo italiano a Ravenna sabato scorso, con un seminario orga-nizzato dal coordinamento «Il Sud siamo noi» e dal locale circolo de il manifesto, il giornale italiano che si è più occupato, da quel 24 aprile 2013, di quanto emerse, con i cadaveri di oltre mille vit-time, dalle macerie del Rana Plaza. Dove i lavoratori erano del Bangladesh ma i marchi erano europei e americani. Italiani anche. Ad animare il seminario di Ravenna, la conferenza stampa a Roma con Shila, gli incontri istituzionali con Laura Boldrini, la sottosegretario Teresa Bellanova e la Commissione diritti umani del senato, l’instancabile Deborah Lucchetti e il manipolo di attivisti che anima la sezione italiana della Campagna. A cui va il merito di aver fatto fischiare le orecchie a Benetton, Manifattura Corona e Yes Zee scoprendone gli altarini asiatici. Ora però bisogna vedere se Benetton accetterà la sfida, partecipando all’incontro pubblico di stasera alle 21 nella Casa dei Beni Comuni di Treviso. Con la delegazione dei lavoratori e del sindacato bangladese e la campagna Abiti Puliti, ci saranno diverse organizzazioni del Veneto e il sociologo Devi Sac-chetto dell’Università di Padova. Benetton ci sarà?Lucchetti spiega che il Rana Plaza Donors Trust Fund, fondo internazionale negoziato e gestito dall’Ufficio del lavoro dell’’Onu di Ginevra (Ilo), consente alle imprese «e a chiunque lo desideri», di fare donazioni. «È un avvenimento di portata storica, che consentirebbe alle migliaia di vittime di ricevere un equo risarcimento per la perdita di reddito e per le cure mediche. In tempi certi. Occor-rono — ricorda Lucchetti — 40 milioni di dollari e nessuna impresa italiana ha finora deciso di contribuire».La campagna mondiale Pay Up!, lanciata dalla Clean Clothes Campaign con i lavoratori del Ban-gladesh e i sindacati locali e internazionali, chiede ai marchi della moda che si rifornivano (e conti-nuano a rifornirsi) nel Paese di fare subito i versamenti necessari a raggiungere i 40 milioni di dol-lari previsti dal Trust Fund. Il Fondo infatti raccoglie i contributi che serviranno per risarcire tutte le vittime (solo i feriti sono stati 2mila), come stabilito da un accordo – il Rana Plaza Arrangement – siglato sotto l’egida dell’Ilo. Ma non tutti hanno dato retta alla Clean Clothes Campaign e all’Ilo. Qualcuno invece lo ha fatto.Da ieri le famiglie delle 1.138 persone uccise dal crollo e i sopravvissuti rimasti inabili al lavoro possono inviare le domande per il risarcimento per perdita di reddito e cure mediche, importi calco-lati secondo quanto previsto dall’Arrangement. Inizialmente tutti dovrebbero ricevere un anticipo di 50mila taka (circa 450 euro per un totale di 2 milioni di dollari) entro il primo anniversario del 24 aprile. Nove marchi, fra cui Mango, C & A e Primark hanno già pagato. Quest’ultimo ha dato un primo contributo al Fondo di 1 milione di dollari ma, una volta calcolati i pagamenti da fare, ci si attende un saldo finale vicino ai 9 milioni. Molti altri campioni del tessile o della distribuzione, come Benetton, Childrens Place, Adler o Auchan, invece latitano. Una stima di quanto dovrebbe Benet-ton si aggira sui 5 milioni. Durante l’audizione in Commissione, Manconi ha detto che si potrebbe pensare a un’incontro con i marchi che accettassero di venire in parlamento ad affrontare l’argomento. Ma se stasera a Treviso Benetton scegliesse la strada della trasparenza e del con-fronto (va ricordato che inizialmente negò di aver avuto affari in corso con le ditte del Rana Plaza), la cosa sarebbe ancora più forte che un’audizione in parlamento. La piazza della polis per dire che l’assegno è pronto varrebbe cento immagini shock del buon Toscani. *Lettera22Il Manifesto – 2 aprile 2014

Crollo del palco di Laura Pausini: 7 indagati per omicidio colposoA poco più di due anni dall’incidente che causò la morte di Matteo Armellini la Procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria ha chiuso nei giorni scorsi le indagini decidendo di chiedere il rinvio a giudizio e quindi il processo per sette persone alle quali viene contestato il reato di omicidio colposo e il mancato rispetto della normativa sulla sicurezza durante la fase di

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costruzione del palco sul quale, il 5 marzo 2012, si sarebbe dovuta esibire Laura Pausini all’interno del Pala Calafiore di Reggio Calabria.L’avviso di conclusioni delle indagini preliminari è stato notificato a sette persone coinvolte a vario titolo nell’organizzazione e nella realizzazione di quel tragico evento, tra cui i rappresentanti legali delle due società committenti dell’opera; i vertici della società costruttrice incaricata; l’ingegnere che ha curato la redazione del progetto di costruzione della struttura; il coordinatore della sicurezza per l’esecuzione dei lavori e infine un dirigente del comune di Reggio Calabria. A diffondere la notizia sono stati Paola Armellini, madre di Matteo, e il suo avvocato Alicia Mejía Fritsch. Entrambe auspicano che entro breve tempo il Pubblico Ministero possa esercitare l’azione penale nei confronti di tutti coloro che in maniera diretta o indiretta abbiano contribuito alla morte di giovane rimasto vittima del crollo del palco.La morte di Armellini non fu l’unica all’interno dell’industria dei tour. Qualche tempo prima a Trieste, durante il tour di Jovanotti, morì il giovanissimo montatore Francesco Pinna in un incidente analogo.Contropiano - 4 Aprile 2014

Cambogia: le fabbriche di abbigliamento uccidono Un gran numero di operai di manifatture tessili sono intossicati ogni anno da solventi, collanti e vernici. Una realtà poco nota, emersa oggi per il ricovero di 118 dipendenti di due aziende che producono per importanti marchi internazionali, tra cui Puma e Adidas.A segnalarlo sono all'agenzia di stampa Misna fonti della polizia di Phnom Penh, a conferma della precarietà delle condizioni d lavoro nel paese asiatico, tra i preferiti dai brand internazionali che terziarizzano sovente a imprese di proprietà cinese, come Shen Zhou e Daqian Textile, dove lavoravano gli intossicati di oggi nella capitale. Un ulteriore colpo per l’immagine del paese e un ulteriore rischio che le multinazionali delle calzature sportive o dell’abbigliamento si allontanino verso mete forse meno lucrose ma più accettabili per i loro clienti. Puma e Adidas hanno già annunciato un’inchiesta sui malori odierni.Nessuna certezza sull’accaduto, salvo che le testimonianze parlano di operai caduti a terra senza ragioni apparenti o più probabilmente diverse rispetto ai rischi abituali. Fonti sindacali parlano di 200 lavoratori svenuti solo in questa settimana, con 53 sicuramente intossicati dalle vernici utilizzate.Situazioni come quelle di oggi non sono infrequenti nel paese, data la scarsa ventilazione degli ambienti di lavoro e l’uso di prodotti tossici. Iniziative governative e private per limitare queste patologie del lavoro hanno portato a pochi risultati, dato il contemporaneo aumento delle iniziative produttive. Le sole manifatture dell’abbigliamento danno lavoro a 600.000 cambogiani e garantiscono alla modesta economia cambogiana un introito indispensabile di oltre 5 miliardi di dollari all’anno.Contropiano - 4 Aprile 2014

Molfetta rivive la tragedia. Padre e figlio muoiono mentre lavano cisternaBARI - Tragedia a Molfetta in un'azienda di prodotti ittici. Nicola e Vincenzo Rizzi, 50 e 28 anni, padre e figlio, entrambi addetti di un'azienda di pulizie esterna, la ditta Di Dio, sono deceduti mentre lavavano una vasca. I due operai sono morti dopo essersi calati in una cisterna per soccorrere l'altro figlio, Alessio, che era intento a pulirla e che era stato colto da malore. Quest’ultimo si è salvato ed è ora ricoverato a Bisceglie con riserva di prognosi. È accaduto questa mattina a Molfetta, all’interno di una azienda che commercializza prodotti ittici. Stando ad una prima ricostruzione dei fatti i tre, titolari della ditta Ecologia Rizzi di Bitonto (Bari) dovevano svuotare con il loro camion-autospurgo un tombino per la raccolta della acque reflue dell’azienda ittica Di Dio in via Olivetti nella zona industriale di Molfetta. Alessio ha sollevato il coperchio del tombino, che è precipitato all’interno della cisterna sottostante che è profonda circa tre metri. E nel tentativo di recuperare il pesante coperchio Alessio è caduto nella cisterna. Il padre, per tirare fuori il figlio è caduto a sua volta, e così anche Vincenzo nel disperato tentativo di salvare il padre e il fratello. Nicola e Vincenzo Rizzi – stando a questa ricostruzione al vaglio dei carabinieri – sono probabilmente morti per annegamento, mentre Alessio è riuscito ad uscire dal tombino e si è quindi salvato. Non si esclude però che le esalazioni abbiano avuto il loro ruolo nel malore di Alessio e nella successiva morte di padre e figlio.

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l pubblico ministero, della procura di Trani Mirella Conticelli, uscendo dal luogo dell'incidente ha detto che «potrebbe essersi trattato di una imprudenza perché gli operai probabilmente non indossavano una mascherina».L'episodio ricorda un altro triste incidente avvenuto a Molfetta: il dramma del 3 marzo del 2008, quando il titolare dell'azienda Truck Center e quattro operai morirono asfissiati mentre lavavano una cisterna. L'azienda Di Dio di Molfetta si trova nella zona industriale della cittadina, proprio a poca distanza dalla Truck Center, ditta che si occupa di lavaggio di mezzi industriali e dove, appunto mel 2008, cinque operai morirono nello stesso modo durante la pulizia di una cisterna, inalando acido solfridico mentre tentavano di soccorrersi l’un l'altro.LA DISPERAZIONE DEI PARENTI Urla, pianti e scene di disperazione dei parenti delle vittime davanti all’azienda ittica Di Dio di Molfetta (Bari) dove stamani sono morti in un incidente sul lavoro i due titolari di una ditta di autospurgo: Nicola e Vicenzo Rizzi, padre e figlio, entrambi di Bitonto (Bari). Tra i primi ad arrivare sul posto la sorella di Nicola, che ha urlato disperata il proprio dolore per la perdita del fratello e del nipote 28/enne.Subito dopo è giunto Daniele, un altro fratello di Nicola, anche lui titolare di una ditta di autospurgo e per diversi anni socio del fratello nell’azienda che entrambi avevano ereditato dal padre. Davanti all’azienda Di Dio c'è stato, per circa un’ora, un mesto via vai di parenti e conoscenti delle vittime.DICHIARATO IL LUTTO CITTADINOIl sindaco di Molfetta, Paola Natalicchio, ha proclamato il lutto cittadino per la morte dei due operai di un autospurgo di Bitonto, caduti in una cisterna. «Ci sentiamo addosso l’orrore della Truck Center – ha detto - sgomento, senso di ingiustizia, fragilità. Con Michele Abbaticchio, sindaco di Bitonto – conclude – siamo accanto alle famiglie delle vittime e in segno di rispetto e cordoglio dichiareremo il lutto cittadino».

La Gazzetta del Mezzogiorno- 8 Aprile 2014

Quella tavolata di operai e il brindisi ai 200 colleghi uccisi dall'amianto all'Ogr BEPPE PERSICHELLA COME vecchi compagni di scuola, "i ragazzi del '70" ieri hanno brindato a chi non c'è più. Solo chi c'era ha potuto alzare il calice e ricordare i colleghi uccisi dall'amianto. Sono una piccola comunità malata gli operai delle Officine grandi riparazioni, sopravvissuti ad una strage che conta quasi duecento morti. «Serve una targa, come quella che ricorda le vittime del 2 agosto» propone qualcuno al convegno che è poi una festa, che è poi un modo per contarsi: da una parte i vivi, dall'altra i morti. Oggi sono quasi tutti signori di sessant'anni in pensione i ferrovieri dell'Ogr. Ascoltano gli esperti, abbracciano le vedove e i figli senza più un padre, piangono i colleghi scomparsi, ma rinviano giorno dopo giorno maledetta lastra che potrebbe annunciare un mesotelioma pleurico che uccide ogni speranza. È l'amianto il convitato di pietra nella lunga tavola allestita con cura e divisa per settori (falegnami, lamierai, elettricisti). A sedere ci sono un centinaio di operai dentro alla Casa del Popolo di Casalecchio di Rene, Su tremila lavoratori passati dalle Ogr di via Casarini, ne sono morti almeno duecento per colpa del mesotelioma pleurico, il tumore dell'amianto. Arriva all'improvviso, può nascondersi per anni e poi esplodere da un momento all'altro. Quando i lavoratori l'hanno capito, hanno smesso di controllarsi. «La lastra l'ho fatta un anno fa, non hanno trovato nulla. Ma non significa niente, ho le stesse percentuali di ammalarmi di una persona che per trent'anni ha fumato 30 sigarette al giorno ». Giuseppe Daini in compenso non ha mai fumato, eppure dal suo campione di saliva i dottori, quando ancora era giovano. hanno trovato fibre di amianto. Aveva una quarantina di anni e fu subito mandato in pensione anticipata: l'azienda aveva paura che si ammalasse. A distanza di anni, sa ancora tutto di amianto e mesoteliomi. «Fui assunto nel '72, avevo vent'anni» racconta dopo aver mangiato con i suoi colleghi tagliatelle al ragù e scaloppine ai funghi. Veste solo di jeans, pantaloni, camicia e giacca. Pare un Donald Trump proletario, con quei cisposi capelli biondi e gli occhi chiari. «Subito mi occupai di amianto. Con altri colleghi andammo a Roma nell'archivio della Cgil nazionale per documentarci. Sa cosa c'era dentro il fascicolo? Nulla». Presero allora un altro treno i riparatori di treni. «Arrivammo al porto di Genova, anche lì c'era molto amianto, ma al ritorno avevamo capito una sola cosa: quegli operai stavano messi peggio di noi». Serviva una svolta e arrivò: i colleghi delle Ogr di Foligno avevano appena avviato una vertenza giudiziaria. Daini si fece coraggio e si mise addirittura in contatto con un medico americano. E quello raccontò agli increduli lavoratori

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bolognesi che sin dal dopoguerra sapeva dei pericoli provocati da quel materiale. «Per un po' il gruppo di Ferrovie dello Stato ha ripetuto in tutte le sedi, compresa quella giudiziaria, che nulla sapeva. Abbiamo però fatto passi avanti: ora, seppur in ritardo, è passato il concetto che non potevano non sapere» racconta l'avvocato Massimo Vaggi. Difende per conto di uno studio associato legato alla Cgil molti operai della Ogr. «Sono loro che vengono da noi, spesso però tra i familiari è tanta la voglia di lasciar perdere tutto. Nessuno, ci dicono, può ridarci indietro un padre o un marito ». E la rassegnazione che vince sulla speranza. Comprensibile, è successo anche ieri mattina al convegno. Ad un certo punto un operaio si è alzato in piedi, ha preso il microfono perché ci teneva troppo a dire a tutti che a lui non gli importa nulla di sapere se ha un tumore terminale. Accade spesso tra i lavoratori delle Ogr, così come accade spesso che qualcuno provi a rincuorarli. Per Daini non è facile. Ogni giorno che lavora il suo orto vede i volti dei suoi colleghi morti. «Il primo si chiamava Ghedini, me lo ricordo come se fosse ieri. E mi creda non c'è pietra, non c'è una sentenza che possa mettere fine a questo fastidio ». La Repubblica – 13 Aprile 2014

Morì per l’amianto, storica sentenza: risarcita la famiglia di un pompiereTiziano Ivani. La Spezia - Per quasi trent’anni ha fatto parte della squadra operativa del comando dei vigili del fuoco della Spezia. Era sempre in prima fila nelle emergenze, ad aiutare la gente. Nel 1995 si guadagnò la pensione. La sua vita però fu stroncata da un mesotelioma poco più tardi, nel 2010, all’età di 72 anni. Claudio Sampiero è stato uno storico volto dei vigili del fuoco spezzini. Da ieri, ancora di più. Per la prima volta il ministero degli Interni è stato condannato a risarcire un vigile del fuoco, a causa della prolungata esposizione all’amianto. La sentenza è del tribunale civile di Genova. Nel promuovere la causa la parte civile, rappresentata dagli avvocati fiorentini Piero Frisani e Elena Moretti, aveva parlato di un uomo «esposto all’amianto anche a causa di tute, guanti, teli ignifughi in amianto usurati, con evidente spolverio». Il tribunale genovese gli ha dato ragione, dando così una chance a quei 58 pompieri che in tutta Italia sono morti per mesotelioma, malattia provocata dall’esposizione ad amianto. Si tratta di una patologia con una lunga incubazione, che si manifesta dopo decine di anni. «Con questa vittoria, questa sentenza, intendiamo lanciare un messaggio di speranza e giustizia a tutte le famiglie di vigili del fuoco vittime dell’amianto – spiega Davide Sampiero, figlio del defunto Claudio, anche lui pompiere in servizio a Spezia – si tratta di un verdetto storico, al di là dei quattrini che non sono nulla rispetto a quello che stiamo soffrendo. A nome della mia famiglia intendo ringraziare tutti i colleghi che ci sono stati vicini, che ci hanno appoggiati. La stessa cosa vale per gli avvocati Frisani e Moretti, i primi a credere in questo ricorso». La notizia della sentenza ha scosso il mondo dei vigili del fuoco. Quelle uniformi, con particelle di amianto, sono state utilizzate da tutti coloro che sono stati in servizio fino alla fine degli Anni ’80. Solo più tardi il ministero si è accorto del rischio a cui venivano sottoposti i pompieri. «Accogliamo con favore la sentenza del tribunale civile di Genova, che ha condannato il ministero dell’Interno al maxi risarcimento di 600 mila euro in favore degli eredi del vigile del fuoco spezzino deceduto nel 2010 – si legge in una nota a firma di Antonio Brizzi, segretario generale della Conapo, sindacato autonomo dei pompieri – i nostri avvocati hanno saputo portare a termine una difficile battaglia legale, che costituisce un precedente favorevole per i familiari dei pompieri deceduti a causa dell’esposizione nel corso del servizio alla fibra killer». La famiglia di Sampiero ha aderito alla costituzione di un osservatorio per i vigili malati. «Purtroppo il problema non è superato – spiega Brizzi – ancora oggi l’amianto è diffusissimo nei materiali da costruzione, noi vigili del fuoco ne veniamo a contatto inconsapevolmente durate incendi o terremoti, eppure lo Stato non ci riconosce come categoria esposta a questo pericolo». Il Secolo XIX, 17 Aprile 2014

Thyssen, nuovo processo. Vanno riviste le pene dei managerLa decisione della Cassazione: un nuovo processo sul rogo scoppiato nello stabilimento torinese della Thyssenkrupp: persero al vita sette operai.Pm Guariniello: “aumentare le pene”.Ci sarà un nuovo processo sul rogo scoppiato nello stabilimento torinese della Thyssenkrupp, in cui persero al vita sette operai. Lo ha deciso la Cassazione, a sezioni unite penali, che ha disposto il rinvio degli atti alla Corte d'Assise d'Appello di Torino per la «rideterminazione delle pene».

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La Suprema Corte ha riconosciuto la responsabilità dei sei imputati - tutti alti dirigenti della Thyssenkrupp - ma ha disposto un processo d'appello-bis a Torino affinché le pene vengano riviste. La Corte, infatti, ha annullato, senza rinvio la prima sentenza d'appello «limitatamente alla ritenuta esistenza» di una delle circostanze aggravanti contestate agli imputati. Bisognerà attendere le motivazioni, che per legge vanno depositate entro 90 giorni, per chiarire tutti i punti della decisione dei supremi giudici. «La decisione della Cassazione non significa che le pene debbano essere rimodulate al ribasso. Noi chiederemo un aumento delle pene»: lo dice il pm di Torino Raffaele Guariniello commentando la sentenza sul caso Thyssen della Cassazione che ha rinviato alla Corte d'Appello per ridefinire le pene dei dirigenti condannati per omicidio colposo con colpa cosciente. «Il considerare il reato di omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche separato dal reato di disastro - specifica il pm - implica che si possa chiedere un aumento di pena. Anche se non c'è il dolo eventuale siamo soddisfatti che sia rimasta la colpa cosciente. L'aspetto negativo è che a oltre sei anni di distanza dalla tragedia non c'è una sentenza definitiva nonostante le indagini vennero chiuse in soli tre mesi». I giudici delle sezioni unite penali della Cassazione erano chiamati a decidere se confermare o meno le condanne inflitte dalla Corte d'assise d'appello di Torino il 28 febbraio 2013 ai sei imputati - tutti alti dirigenti della Thyssenkrupp - nel processo sul rogo scoppiato nello stabilimento torinese nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, in cui persero la vita sette operai.Il collegio, presieduto dal primo presidente Giorgio Santacroce, ha esaminato i ricorsi presentati dalla Procura generale di Torino e dagli imputati. Per tutti gli imputati in appello le pene erano state notevolmente ridotte rispetto al primo grado, poiché era stato derubricato il reato di omicidio volontario con dolo eventuale in quello di omicidio colposo con colpa cosciente. Il sostituto pg di Cassazione Carlo Destro stamani ha sollecitato la conferma del verdetto d'appello. Numerosi i familiari delle vittime che, con alcuni operai sopravvissuti al rogo erano al Palazzaccio ad attendere la sentenza. Nell'aula Magna della Cassazione, davanti alle sezioni unite, è stato esaminato uno dei processi più discussi degli ultimi anni: quello per il rogo della Thyssenkrupp. La tragedia avvenne nell'acciaieria di Torino, sulla linea 5 della fabbrica di corso Regina Margherita, nella notte del 6 dicembre 2007. Giuseppe Demasi, Rosario Rodinò, Bruno Santino, Antonio Schiavone, Rocco Marzo, Angelo Laurino e Roberto Scola morirono a causa delle ustioni provocate da un'enorme fiammata divampata all'improvviso che li bruciò fino a ucciderli dopo ore di agonia in ospedale. L'unico superstite è Antonio Boccuzzi, oggi parlamentare del Pd. Oggi i familiari dei morti sono tornati davanti alla Cassazione. E a Rainews 24 hanno denunciato: «Qui con noi ci sono associazioni come quella delle vittime di Viareggio e da tutta Italia, i sindacati, la Cgil, ma è vergognoso che non ci siano le istituzioni torinesi. Bastava ci fosse un loro rappresentante».La Corte d'Assise in primo grado aveva condannato l'amministratore delegato, Harald Espehnhan, a 16 anni e sei mesi di reclusione per omicidio volontario con dolo eventuale: era la prima volta in Italia. I giudici d'appello, invece, non ravvisarono l'omicidio volontario con dolo eventuale, bensì quello colposo aggravato dalla colpa cosciente. Già ieri i familiari si erano riuniti in un presidio di fronte al 'Palazzaccio'. «La Corte d'appello di Torino ha rubato il nostro sogno - hanno scritto in un cartello - giustizia per i nostri figli». In uno striscione sono ritratte le foto degli operai morti nella «strage». I familiari sperano che i supremi giudici ribaltino il verdetto d'appello, che ha notevolmente diminuito le pene inflitte agli imputati. Quella pronunciata in secondo grado «è una sentenza che dà ragione ai potenti che hanno torto - si legge in un altro cartello esposto - e torto ai deboli che hanno ragione».Il collegio delle sezioni unite presieduto dal primo presidente della Suprema Corte Giorgio Santacroce era chiamato a dirimere questo principio di diritto: «Se la irragionevolezza del convincimento prognostico dell'agente circa la non verificazione dell'evento comporti la qualificazione giuridica dell'elemento psicologico del delitto in termini di dolo eventuale». In ogni caso per tutti gli imputati nel processo sul rogo scoppiato alla ThyssenKrupp si aprirebbero le porte del carcere. Le pene inflitte in appello, infatti, benchè più lievi rispetto a quelle pronunciate dai giudici di primo grado, sono comunque tanto alte da non permettere una misura alternativa alla detenzione in cella. Daniele Moroni, Marco Pucci, Raffale Salerno e Cosimo Cafueri, residenti in Italia, sarebbero in caso di condanna già pronti a costituirsi, riferiscono fonti delle difese, e ci sono

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già stati contatti con la Procura in tal senso. PG IN CASSAZIONE CHIEDE CONFERMA CONDANNE«Grandissima sconsideratezza» nella gestione dello stabilimento Thyssen di Torino, ma non ci fu omicidio volontario. Lo ha sostenuto il procuratore generale Carlo Destro, che ha chiesto oggi al processo Thyssen in Cassazione la conferma delle condanne, emesse dalla corte d'assise d'appello di Torino nel febbraio 2013 per l'ex a.d. della multinazionale dell'acciaio, Herald Espehnhan e 5 manager.In secondo grado Espehnhan era stato condannato a 10 anni di reclusione. Mentre le altre pene erano state: 8 anni all'allora responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri; 8 anni e mezzo al responsabile dello stabilimento Raffaele Salerno; 7 anni ciascuno ai membri del Comitato esecutivo Gerald Priegnitz e Marco Pucci e 9 al diigente Daniele Moroni. Il tribunale di Torino in primo grado e per la prima volta in Italia aveva condannato l'allora amministratore delegato della Thyssenkrupp, Espehnhan, a 16 anni e 6 mesi per omicidio volontario con dolo eventuale. In appello però non fu riconosciuto l'omicidio volontario con dolo eventuale, ma l'omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente. Una gestione quella dello stabilimento di Torino «senza adeguate misure di sicurezza» al risparmio, in vista dell'imminente chiusura, che sarebbe dovuta avvenire due mesi dopo il tragico rogo del dicembre 2007 in cui persero la vita 7 operai, ha detto il Pg Destro nella requisitoria davanti alle sezioni unite. Ma in sostanza i manager agirono nella speranza di evitare incidenti e quindi non possono aver voluto la morte dei 7 giovani. Quindi non ci fu omicidio volontario. La sentenza d'appello di Torino oltre a diminuire le condanne del primo grado, riformulò il reato per Espenhan da omicidio volontario con dolo eventuale a omicidio colposo con l'aggravante della colpa cosciente.

L’Unità – 24 aprile 2014

Thyssen, pg Cassazione: “Non fu omicidio volontario. Ridurre pene”Con queste motivazione l'accusa ha chiesto ai giudici di confermare le pene ridotte agli imputati per il rogo della notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, per il quale morirono sette operai. "I manager e i dirigenti chiamati a vario titolo a rispondere della morte dei sette operai nello stabilimento Thyssenkrupp di Torino facevano affidamento sulla capacità dei lavoratori di bloccare gli incendi che - dice il pg - quasi quotidianamente si verificavano"C’è stata una “grandissima sconsideratezza” nella gestione dello stabilimento della Thyssen di Torino, ma non si è trattato di “omicidio volontario“. Con queste motivazione il pg di Cassazione Carlo Destro ha chiesto ai supremi giudici di confermare le pene ridotte agli imputati per il rogo della notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, per il quale morirono sette operai. In primo grado la corte d’Assise aveva condannato l’ad Espehnhan a 16 anni e sei mesi di reclusione per omicidio volontario con dolo eventuale. Una vittoria per il pool dell’accusa, costituito dai pm Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso della procura di Torino e per i familiari delle vittime, sempre presenti a ogni udienza. Al banco degli imputati, oltre all’amministratore delegato, c’erano anche Cosimo Cafueri, responsabile della sicurezza, Giuseppe Salerno, responsabile dello stabilimento torinese, Gerald Priegnitz, membro del comitato esecutivo dell’azienda, assieme a Marco Pucci, e un altro dirigente Daniele Moroni, accusati a vario titolo di omicidio e incendio colposi (con colpa cosciente) oltre che di omissione delle cautele antinfortunistiche. Secondo i giudici di primo grado fu una “scelta sciagurata” dell’ad “di azzerare ogni scelta di prevenzione”.   In secondo grado però la sentenza era stata ribaltata. Il primo marzo 2013 la corte d’Assise d’Appello ha stabilito che alla Thyssen non ci fu omicidio volontario riducendo a dieci anni la pena per Espehnhan, con riduzioni anche per gli altri imputati. Nelle motivazioni i magistrati scrissero che l’ad era stato “imprudente” ma che non c’era stato dolo. Oggi il pg di Cassazione segue di fatto lo stesso solco. ”I manager e i dirigenti chiamati a vario titolo a rispondere della morte dei sette operai nello stabilimento Thyssenkrupp di Torino facevano affidamento sulla capacità dei lavoratori di bloccare gli incendi che quasi quotidianamente si verificavano: chi agisce nella speranza di evitare un evento evidentemente, se l’evento si verifica, non può averlo voluto”. D’altro canto, riconosce il magistrato dell’accusa, c’è stata una “grandissima sconsideratezza” nella gestione dello stabilimento, dove “si è voluto continuare a

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produrre senza adeguate misure di sicurezza ma risparmiando quanto più possibile in vista dello smantellamento dell’impianto che sarebbe dovuto avvenire nel febbraio 2008, due mesi dopo il tragico rogo”.I giudici si riuniranno in camera di Consiglio intorno alle 18. Davanti al palazzo della Cassazione una delegazione dei parenti delle vittime chiede giustizia. Nell’Aula di Piazza Cavour c’è anche Antonio Boccuzzi, sopravvissuto al rogo e diventato poi parlamentare Pd. “In caso di conferma delle condanne gli imputati italiani sono pronti a costituirsi in base ad accordi già presi con la Procura di Torino. Per i due imputati tedeschi, invece, sarà necessario chiedere l’estradizione e prima la sentenza di condanna, nel caso sia emessa, dovrà essere delibata in Germania” ha detto l’avvocato Cesare Zaccone, legale della Thyssen, parlando a margine dell’udienza.Il Fatto Quotidiano – 24 Aprile 2014

Alle Ogr nasce il muro del pianto dei 200 operai uccisi dall'eternit BEPPE PERSICHELLA COME ogni anno anche ieri, in occasione della Festa della Liberazione, gli operai delle Officine grandi riparazioni di via Casarini hanno aperto i cancelli della fabbrica alla città. In particolare il museo dove vengono custoditi tanti ricordi e fotografie dei colleghi uccisi dall'amianto. Per i lavoratori questo è stato un anno difficile: solo nei primi mesi del 2014 due di loro sono morti in questo modo, il caporeparto Valter Nerozzi e il tecnico Enzo Sermenghi. Altri sette stanno lottando proprio in questi giorni tra la vita e la morte. Per chi si ammala, è il mesotelioma pleurico il tumore killer da combattere. Qui, dove ancora si continuano ad aggiustare i treni, ma chissà fino a quando visto che il gruppo Fs è intenzionato a dismettere il sito bolognese entro il 2016, ieri ha fatto visita la vice presidente della Regione Simonetta Saliera, per ricordare non solo i caduti della Resistenza ma anche quelli del lavoro, le cosiddette "morti bianche". «Una regione senza amianto è un obiettivo vero, non un'utopia. Dal 2008 al 2012 in Emilia Romagna – ha ricordato la Saliera – abbiamo aumentato i controlli, le bonifiche e le tonnellate di amianto rimosse, da 25 mila a 74 mila». E sul futuro lavorativo a rischio per i circa 350 attuali dipendenti delle Ogr, le officine che aggiustavano tutti i treni delle Fs, l'impegno della numero due di viale Aldo Moro a non chiudere lo stabilimento passa dal prossimo bando del trasporto ferroviario regionale. «Non ha alcun senso dismettere, dobbiamo rilanciare. La gara in corso per l'appalto dei servizi regionali è l'occasione per le imprese di giocarsi le proprie carte, le proprie strategie industriali, compresa la necessità di mantenere nel tempo la qualità dei mezzi». Terminato il ricordo davanti al cippo dei caduti, la cerimonia si è spostata dentro al museo, tra le foto dei lavoratori scomparsi, vecchie macchine per la riparazione delle carrozze e le tante lettere degli operai inviate nel corso degli anni all'azienda per segnalare la presenza di amianto, trovato fin dentro agli asciugacapelli degli spogliatoi aziendali. In queste due sale che i lavoratori, su tutti il combattivo delegato sindacale Salvatore Fais, hanno ricavato dentro le officine di via Casarini, ieri si aggiravano anche tanti parenti delle vittime, figli che attaccavano sui muri le foto dei padri e piccoli nipoti che per la prima volta hanno avuto la possibilità di osservare da vicino gli strumenti di lavoro dei loro nonni prematuramente scomparsi. Lunedì 28 aprile, in occasione della giornata mondiale contro l'amianto, Fais e gli altri ferrovieri hanno dato appuntamento a tutti nel primo pomeriggio, lavoratori e familiari delle vittime, proprio davanti alla fabbrica per depositare un fiore o un santino di chi non c'è più. L'idea di Fais è di creare una specie di «muro del pianto» per ricordare i 200 operai delle Org uccisi dall'amianto, prima di arrivare in piazza Maggiore attorno alle 14 e 30. La manifestazione si concluderà poi a Palazzo D'Accursio, dove i ferrovieri contano di incontrare una delegazione di consiglieri comunali o magari anche il sindaco Virginio Merola, per chiedere assicurazioni sul futuro dello stabilimento bolognese e sulla nascita di uno sportello amianto che potrebbe aiutare molto i lavoratori che si ammalano di tumore. La Repubblica Cronaca di Bologna – 24 Aprile 2014

Amianto al Comunale, chiesto rinvio a giudizio per l'ex sovrintendenteGiorgio Vidusso, 88 anni, accusato di lesioni colpose gravissimedi MASSIMO MUGNAINI La Procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio di Giorgio Vidusso, 88 anni, sovrintendente del Teatro Comunale e di quello della Pergola dal 1986 al 1990. Lesioni colpose gravissime l’accusa che gli contesta il pm Filippo Focardi, sulla base di una denuncia del 2012 in cui un ex dipendente

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del Comunale, oggi 73enne, chiedeva di verificare le responsabilità dell’ente all’epoca presieduto dal musicologo triestino in merito alle gravissime malattie polmonari contratte lavorando a contatto con l’amianto di cui erano ricoperte, in particolare, la centrale termica, i bagni, le caldaie e i centralini del teatro del Maggio. Vidusso è difeso dall’avvocato Marco Bianca del foro di Trieste. Nella denuncia dell’ex dipendente afflitto da asbestosi (una patologia respiratoria legata appunto all’aspirazione di fibre di amianto) sono citati anche i casi di altri tre colleghi del Comunale che si sarebbero ammalati per lo stesso motivo. Uno di questi denunciò già nel 2001 di essere stato colpito da adenocarcinoma sul posto di lavoro: il procedimento venne però archiviato e l’uomo è morto alcuni anni fa. Gli altri due hanno intenzione di costituirsi parti lese qualora Vidusso venga rinviato a giudizio. “Nessuno ci ha mai avvertito della pericolosità del materiale con cui venivamo quotidianamente a contatto, né siamo stati forniti delle strumentazioni per limitarne i danni da esposizione tranne che nell’ultimo anno in cui lavorai, il 1988”. L’amianto venne rimosso dai due teatri a fine anni ’90 quando l’ex dipendente, assistito dagli avvocati Mattia Alfano e Simone Ferradini, era già in pensione. La Repubblica Cronaca di Firenze– 29 Aprile 2014

Marchesini: "Con l'amianto giocavamo, poi girarono i primi sospetti e oggi combatto il cancro"Per vent'anni vetraio alle Ogr, operato tre volte: "Morivano tutti dello stesso male e non ci fu mai nessun controllo"di BEPPE PERSICHELLA Ruggero Marchesini (eikon) "ABBIAMO iniziato a preoccuparci quando gli addetti esterni alla coibentazione cambiavano di continuo, perché morivano tutti dello stesso male. Noi l'avremmo scoperto solo dopo, ma da quel momento abbiamo capito che c'era qualcosa che non andava".

Per più di vent'anni, dal '73 al '95, Ruggero Marchesini era per tutti il vetraio delle Ogr. Apre le porte di casa sua di domenica mattina, un appartamento al secondo piano a Corticella, in una via fitta di condomini costruiti negli anni del boom. Vive assieme alla moglie che, un po' per discrezione e un po' per pudore, resta in disparte per tutto il tempo dell'intervista. Dopo avere per anni respirato amianto, Marchesini oggi lotta contro un tumore ai polmoni. Ha subìto tre delicate operazioni equandoparladeveogni tanto fare una pausa e riprendere fiato. "L'esposizione più forte l'ho avuta nei primi 8 anni di lavoro ".Marchesini, nessuno di voi sapeva quanto fosse pericoloso?"Nessuno. Addirittura ci scherzavamo. Per gioco facevamo dei sacchetti con dentro polvere di amianto da far cadere in testa al malcapitato di turno. Per noi ai tempi era una goliardata, dopo abbiamo scoperto il pericolo".Nemmeno il medico di fabbrica vi diceva di stare attenti?"Macché, nulla. Qualcosa ci è stato detto solo a metà degli anni '90, quando l'amianto fu bandito e si iniziò a sospettare della sua nocività".E cosa accadde?"Mi ricordo che a un certo punto, era il 1995, il medico dell'Ogr con insistenza mi chiese di andare da lui per la visita periodica. Ero stupito da questa richiesta, perché fino a poco tempo prima ero stato ricoverato in ospedale per un incidente d'auto. E allora gli dissi: ma scusa, fino a ieri sembrava che avessi respirato aria di montagna, ora che fretta c'è? Niente da fare, urgente, dovevo fare la Tac".Quale fu il responso?"Asbestosi, che è la malattia polmonare cronica proprio di chi ha inalato fibre di amianto. Solo a quel punto fui allontanato dai siti contaminati. Poco tempo dopo sono andato in pensione".Come entrò alle Ogr?"Con un concorso da operaio. Ero già sposato con due figli. Lavoravo in un'altra ditta, ma avevo litigato con il capo. Decisi così di andare via".Lo stipendio era buono?"Mica tanto, circa 160 mila lire rispetto alle oltre 200 mila che guadagnavo prima. Appena mi arrivò la prima busta paga volevo già andarmene via. Ma mia mamma si impuntò: questo qui, mi diceva, è un lavoro sicuro, hai famiglia, non puoi rinunciare al posto fisso. E così rimasi".Quando la sua salute è peggiorata?

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"Nel 2007 mi hanno detto che c'era qualcosa che non andava al polmone destro, poi a quello sinistro. Ho subito tre operazioni negli ultimi tre anni. Mi hanno asportato mezzo polmone perché hanno riscontrato un adenocarcinoma. Non ho contratto il mesotelioma, il tumore che colpisce la pleura. Mi hanno detto che il mio carcinoma è più lento".In questi anni nessun risarcimento dallo Stato?"L'Inail si è fatta viva quando mi hanno diagnosticato il tumore. E mi hanno pure sgridato".Perché?"Ma come, mi dissero, è ammalato dal '95 e si presenta solo adesso? Secondo me però era compito dell'azienda certificare che il mio lavoro fosse avvenuto a stretto contatto con l'amianto. Solo nel 2008 questo è successo, prima non avevo strumenti per rivendicare questo diritto ".Il 2014 è un anno terribile per le Ogr. Solo nei primi due mesi sono morti due operai, Valter Nerozzi e Enzo Sermenghi."Enzo era il mio capo, si è operato dopo di me. L'ho chiamato dopo l'intervento per vederci. Non ci siamo riusciti".È rimasto in contatto con gli altri colleghi?"Con alcuni sì. Ci sono colleghi che vorrei vedere più spesso, ma se ne sono già andati. Ne ho persi tanti. Uno di loro mi sgridava sempre perché fumavo, lui che era un podista attento alla salute. È morto dieci anni fa".È una strage quella dell'Ogr?"È una strage che nessuno ha voluto, ma che nessuno ha fermato. Non è stato lanciato un missile, per intenderci. Dietro però c'è l'inefficienza e l'incapacità dei dirigenti delle Ogr che non hanno fatto nulla per anni. Si sono attivati quando gli operai li hanno messi contro un muro. Solo a quel punto non hanno più potuto dire di no".La Repubblica Cronaca di Bologna – 29 Aprile 2014