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MORTI & FERITI GENNAIO 2006 Morire in miniera nel profondo della potenza Usa West Virginia, la tragedia dei tredici lavoratori intrappolati a 80 metri di profondità riporta alla memoria una lunga tradizione di sfruttamento al limite dello schiavismo. Poeti-minatori, romanzieri e cantautori nel corso di due secoli hanno raccontato la storia di questo pezzo di America sconosciuto ALESSANDRO PORTELLI. «Quando arriverò in cielo, parlerò a Dio del West Virginia». Così diceva nei primi anni del secolo Mother Jones, la leggendaria sindacalista ribelle. Mother Jones parlava di feudalesimo industriale, di un regno del terrore dominato dalle squadracce degli eserciti privati delle compagnie minerarie, di istituzioni asservite ai padroni. E' passato un secolo, le cose sono un po' cambiate, un po' sono rimaste le stesse. Annidato sulle alte colline degli Appalachi, il West Virginia nasce con la guerra civile: i montanari non vogliono combattere a fianco degli schiavisti, e si separano (il motto dello stato è ancora «Montani semper liberi»...). E' lo stato del carbone, delle fonderie, delle ferrovie; è qui che nel 1861 Rebecca Harding Davis ambienta il primo romanzo operaio americano (Life in the Iron Mills); qui, nel 1870, l'operaio nero John Henry muore nella sfida tra il suo martello e la perforatrice meccanica nel tunnel ferroviario di Big Bend, ed entra direttamente nella leggenda delle ballate (nonché in uno sconsolato romanzo, John Henry Days, di Colson Whitehead, 2002). E' in West Virginia che gli Hatfield e i McCoys danno vita a uno dei grandi racconti dell'immaginario nazionale, una sanguinosa faida familiare - destinata a ripercuotersi negli scioperi di mezzo secolo dopo (e in una dozzina di film fino ai tempi nostri: uno con Jack Palance del 1975, uno con Brad Pitt in uscita nel 2007...). A cavallo del secolo, l'America scopre il carbone degli Appalachi, e cominciano i disastri: nel 1886 a Newburg, 39 minatori uccisi in un'esplosione; non meno di 7 disastri con 56 morti nel solo 1905; 85 morti a Stuart nel 1907; 361 nella più grande tragedia mineraria americana, la Fairmont Coal di Monongah... Molti minatori sono italiani; li caricavano a New York su treni coi finestrini dipinti di verde perché non vedessero dove andavano, e li scaricavano direttamente in West

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MORTI & FERITI GENNAIO 2006

Morire in miniera nel profondo della potenza Usa

West Virginia, la tragedia dei tredici lavoratori intrappolati a 80 metri di profondità riporta alla memoria una lunga tradizione di sfruttamento al limite dello schiavismo. Poeti-minatori, romanzieri e cantautori nel corso di due secoli hanno raccontato la storia di questo pezzo di America sconosciuto

ALESSANDRO PORTELLI. «Quando arriverò in cielo, parlerò a Dio del West Virginia». Così diceva nei primi anni del secolo Mother Jones, la leggendaria sindacalista ribelle. Mother Jones parlava di feudalesimo industriale, di un regno del terrore dominato dalle squadracce degli eserciti privati delle compagnie minerarie, di istituzioni asservite ai padroni. E' passato un secolo, le cose sono un po' cambiate, un po' sono rimaste le stesse. Annidato sulle alte colline degli Appalachi, il West Virginia nasce con la guerra civile: i montanari non vogliono combattere a fianco degli schiavisti, e si separano (il motto dello stato è ancora «Montani semper liberi»...). E' lo stato del carbone, delle fonderie, delle ferrovie; è qui che nel 1861 Rebecca Harding Davis ambienta il primo romanzo operaio americano (Life in the Iron Mills); qui, nel 1870, l'operaio nero John Henry muore nella sfida tra il suo martello e la perforatrice meccanica nel tunnel ferroviario di Big Bend, ed entra direttamente nella leggenda delle ballate (nonché in uno sconsolato romanzo, John Henry Days, di Colson Whitehead, 2002). E' in West Virginia che gli Hatfield e i McCoys danno vita a uno dei grandi racconti dell'immaginario nazionale, una sanguinosa faida familiare - destinata a ripercuotersi negli scioperi di mezzo secolo dopo (e in una dozzina di film fino ai tempi nostri: uno con Jack Palance del 1975, uno con Brad Pitt in uscita nel 2007...).

A cavallo del secolo, l'America scopre il carbone degli Appalachi, e cominciano i disastri: nel 1886 a Newburg, 39 minatori uccisi in un'esplosione; non meno di 7 disastri con 56 morti nel solo 1905; 85 morti a Stuart nel 1907; 361 nella più grande tragedia mineraria americana, la Fairmont Coal di Monongah... Molti minatori sono italiani; li caricavano a New York su treni coi finestrini dipinti di verde perché non vedessero dove andavano, e li scaricavano direttamente in West Virginia. Racconta Frank Majority, scalpellino (il suo nome è l'americanizzazione di Mongiardo): «Mio padre diceva che scesero dal treno, ed era notte. Nel buio, si vedevano solo i fuochi dei forni del coke sulla collina, e gigantesche figure nere che li alimentavano. Lui non aveva mai visto un nero. Credette di essere arrivato all'inferno, e che quelli fossero i diavoli». All'inferno ci stava davvero, ma per altre ragioni: nel 1903, il console d'Italia a New York avanzò una protesta ufficiale al governo americano per il trattamento semischiavistico a cui erano sottoposti i minatori italiani nelle città private delle compagnie minerarie in West Virginia.

Se uno prende oggi la strada che scende da Pittsburgh in Pennsylvania verso Charleston in West Virginia, passa accanto a luoghi simbolici della lotta di classe: Paint Creek, Cabin Creek, dove i minatori, nativi e immigrati, neri e bianchi, si ribellarono in lotte sanguinose. O può fare una deviazione e andare a cercare Matewan, che dà il titolo a un grande film di John Sayles. Fu qui che i minatori cercarono - come dice il titolo di un bel romanzo della scrittrice appalachiana Denise Giardina, Storming Heaven - di dare l'assalto al cielo: non la rivoluzione proletaria, ma i diritti elementari di libertà personale e di contratto collettivo. Sui minatori armati in marcia verso Blair Mountain, gli

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aerei delle compagnie, con la complicità del governo statale e federale, scaricarono decine di bombe. «Leggi sui giornali, e ti dice la radio, di mandare anche i tuoi figli a fare i minatori» - così canta Hazel Dickens, splendida voce country proletaria del West Virginia: «Ti dicono quanto sono sicure oggi le miniere: fai come tuo padre e porta a casa una bella paga».

Nel 1968, dopo una dozzina di inutili ispezioni, la miniera di Mannington, della Consolidated Coal Company, salta in aria. Continua Hazel Dickens: «Ma tu non stargli a credere, ragazzo mio; ricordati della tragedia della miniera di Mannington, dove 78 uomini sono stati sepolti vivi - per la mancanza di sicurezza in miniera è morto tuo padre». La sicurezza è l'ultima preoccupazione dei padroni e del sindacato, interessati al profitto e alla monetizzazione; ma è in cima ai pensieri dei minatori. Ricordo Mildred Shackelford, poetessa e minatrice: «Tu vieni qui a raccogliere conoscenze e non ci vuoi insegnare niente, perciò la gente ti aiuta volentieri; ma se eri un minatore del Galles che ci spiegava come funziona la sicurezza in miniera, allora ti starebbero a sentire». «Miniere, miniere, vi siete prese troppe vite; quando sarete soddisfatte e smetterete di strappare i nostri uomini dalle nostre vite?», canta Becky Ruth Brae, di Harlan, moglie di minatore: «Ve ne state lì sul fianco della collina e aspettate il momento, quando un altro poveraccio verrà a rischiare la vita facendo la sola cosa che gli avete insegnato a fare».

Mannington è il più tremendo ma non l'ultimo dei disastri in West Virginia: in altre miniere della Consolidation Coal, muoiono per esplosioni in galleria 9 operai nel 1972, 4 nel 1992. Eppure Hazel Dickens, operaia emigrata a Baltimore, canta anche «West Virginia, my home», casa mia: «Nel silenzio della notte scivolo via come un uccello in volo, verso le colline dove sono nata». Perché «le verdi morbide colline del West Virginia sono la cosa più vicina la paradiso che ho mai visto». Il West Virginia, l'Appalachia tutta, anche se sta dentro il grande Nord, somiglia a tutti i Sud del mondo: uccide ed espelle la sua gente, ma gli lascia un senso doloroso di identità: «Questa vita di città mi ha quasi distrutta, non mi ricordo più perché me ne sono andata, ma mi ricordo bene da dove vengo». E Merle Travis: «Quando morirò il mio corpo si indurirà e diventerà carbone; e dalla mia casa nel cielo guarderò giù, verso qualche povero minatore che scava le mie ossa».

Il Manifesto 4/01/06

LETTERA «APERTA» DI UN SINDACALISTA AL PREFETTO GIUSEPPE ROMANO, COMMISSARIO STRAORDINARIO PER LA BONIFICA DELLO STABILIMENTO CHIMICO DI CENGIO «Aiutate chi ha lavorato tra i veleni dell’Acna» L’appello riguarda i 200 ex dipendenti esclusi dai benefici della legge sull’amianto

Lo stabilimento Acna di Cengio come si presenta oggi dopo che ha cessato la produzione ed è in corso la bonifica CENGIO

Lettera «aperta» al commissario per la bonifica dell'Acna, il prefetto Giuseppe Romano, da parte di Luigi Giovanni Pregliasco, sindacalista ed ex rappresentante della Rsu dello stabilimento chimico cengese. Una lettera di denuncia non solamente sulla questione dei mancati benefici legati alla legge sull'amianto per i circa 200 ex lavoratori di alcuni vecchi reparti, ma anche un'inequivocabile denuncia su quanto interrato nella discarica di Basso Piave, a Pian Rocchetta. Scrive Pregliasco: «Chiediamo come mai i benefici

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amianto all'Acna terminano nel 1991 mentre nei bilanci dell'azienda in liquidazione al 31 dicembre 1996, a pagina 7, si legge che sono stati spesi 3 miliardi delle vecchie lire per lo smaltimento di materiali contenenti amianto». Prosegue: «Ci rivolgiamo a lei commissario che, trascorsi diversi mesi all'Acna, saprà ormai tutto: dove sono interrati i fusti di 3-4 di cloronitrobenzolo, dove vi sono i catrami della 5Ct, dell'Acido H, del Bon,del Betanaftolo, del Metamisofenolo, e saprà anche quante tonnellate di amianto vi sono nella discarica di Basso Piave, sistemato lì, dopo la demolizione avvenuta negli Anni Settanta e Ottanta dei reparti Basi Bleu Anilina, Pen, Aminazioni V.I, Anidride ftalica, Fenolo Anisoli, Benzaldeide, Clorobenzolo. Sodacloro, Cloruro alluminio, solamente per citarne alcuni». Scrive ancora Pregliasco, sempre rivolgendosi al commissario Romano: «Faccia giustizia lei: dichiari che quantificando la diversità dei rifiuti tossici e dell'amianto presenti in Acna si deve dire all'Inail- Contarp e a tutta l'Italia che l'Acna era una fabbrica diversa dalle altre chimiche, e che il beneficio amianto, oltre ai lavoratori delle Officine, deve venire esteso anche ai lavoratori degli altri reparti perchè hanno respirato e ingerito amianto per 30-35 anni, e prima che si ammalino di mesotelioma pleurico faccia dare loro tale riconoscimento». Aggiunge il sindacalista, a nome di «200 operai arrabbiati, esposti all'amianto ed esclusi dal beneficio» che «Gli attuali dirigenti che hanno avuto contatti e magari dato suggerimenti all'Inail-Contarp non hanno neppure visto i reparti di cui le abbiamo scritto perché erano stati demoliti prima del loro arrivo in azienda. Una questione alla quale sono interessati i lavoratori la cui assunzione era avvenuta a partire dal 1953 e i pensionati dal 1992». Una lettera «aperta» con cui Luigi Giovanni Pregliasco entra in polemica anche con l'Ala, Associazione lavoratori Acna, di cui peraltro ha fatto parte, che non più tardi della scorsa settimana, attraverso una nota del Consiglio di amministrazione, ha dichiarato che «pur consapevole che la conquista del rischio chimico ha anche reso possibile l'ottenimento di alcuni riconoscimenti di esposizione all'amianto, la questione amianto tuttavia non rientra e non è mai rientrata nei nostri obiettivi, essendo l'argomento di esclusiva sfera sindacale».

La Stampa – Sezione Savona 4/01/06

Operaia schiacciata da macchina

Stava spostando una macchina quando questa le è rovinata addosso schiacciandola. È stata ricoverata in gravi condizioni al Cto Cinzia Tordella, la ragazza poirinese di 37 anni vittima ieri pomeriggio di un tragico incidente sul lavoro. Teatro dell'infortunio la Oslat Srl, ditta specializzata nella lavorazione di componentistica per auto e lo stampaggio di viti e bulloni speciali, che ha sede in via Alta 30 a frazione Marocchi di Poirino. Secondo le prime indiscrezioni sull'accaduto, tutto sarebbe successo attorno alle 15,30. La donna stava spostando insieme ad un collega un pesante macchinario, di quelli utilizzati per la lavorazione dei metalli. Non è chiaro se alcune ruote su cui poggiava la struttura abbiano ceduto, o se la stessa sia stata sbilanciata da un movimento troppo brusco. In un attimo la macchina si è coricata su un lato, schiacciando l'operaia. I colleghi si sono subito precipitati a chiamare i soccorsi. Tordella ha ricevuto le prime cure sul posto, quindi è stata trasferita a Torino con un elicottero del 118. Avrebbe riportato traumi alle gambe e al viso. Al momento i medici preferiscono non sciogliere la prognosi. Bocche cucite intanto tra gli operai della Oslat, nessuno vuole dare conferma o parlare di quanto è successo. A chiarire l'accaduto saranno i carabinieri della stazione di Poirino, che già nella giornata di ieri hanno effettuato un primo sopralluogo, e hanno ascoltato il racconto di

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chi era presente al momento dell'incidente. Insieme a loro anche i tecnici dell'Asl 8, che dovranno valutare se era stata rispettata ogni norma di sicurezza. f. gen.

La Stampa – Sezione Torino 5/01/06

La miniera non fa miracoli . Dopo due giorni di angoscia, una prima notizia: 12 minatori su 13 sono vivi. In West Virginia la gioia e la festa dei parenti delle vittime, ma dopo qualche ora la verità: tutti morti, solo un sopravvissuto grave. L'America con il fiato sospeso davanti alla tv

GIULIA D'AGNOLO VALLAN. NEW YORK . «Miracolo in miniera», «Vivi!», «Salvi i 12 minatori della Virginia», dicevano i giornali della mattina. Ma dalla radio e dalla tv si sapeva già che l'annuncio di un miracolo che in realtà non si era verificato era il frutto di quanto è stato descritto come un «tragico errore di comunicazione». Sfilze di insulti, lacrime, svenimenti e una vera rissa nella chiesa battista dove gli abitanti di Sago e le famiglie dei minatori intrappolati sotto terra da un'esplosione a partire da lunedì attendevano di ricongiungersi con i propri cari. Chiamando a raccolta la gente del paese - una piccola comunità mineraria in uno stato tra i più poveri dell'unione - le campane della chiesa avevano iniziato a suonare in segno di festa verso mezzanotte e mezza dopo l'annuncio che 12 dei 13 minatori erano sopravvisssuti oltre 40 ore in un labirinto di gallerie piene zeppe di anidride carbonica. Erano stati proprio i livelli dell'anidride, misurati martedì dai team di soccorso che cercavano invano di raggiungere i minatori, a far sì che tutti i pronostici sulla loro sorte fossero molto pessimitici. «Miracolo» è infatti la parola usata dal governatore del West Virginia, Joe Manchin III e dalle autorità dell'International Coal Group, proprietario della miniera, quando hanno annunciato che gli uomini erano stati trovati e che tutti meno uno erano vivi. Ci sono volute più di tre ore perché la folla festante, e il circostante carosello mediatico che da oltre due giorni seguiva la storia, scoprissero che la notizia era sbagliata: il superstite era uno solo, Randall McCloy, e si trovava all'ospedale in condizioni critiche. Gli altri erano morti.A detta delle autorità, l'incredibile equivoco sarebbe nato da una prima telefonata dei soccorritori al momento del ritrovamento dei minatori: «Apparentemente intendevano dire che ne avevano localizzati 12 e che stavano verificando se erano vivi o meno», ha detto in una conferenza stampa Bannett Hatfield, il Ceo dell'International Coal Group. Ma quando, dopo una seconda telefonata in cui il misunderstanding sarebbe stato chiarito, Hatfield ha inspiegabilmente aspettato ore prima di dare la notizia per essere sicuro di avere il numero esatto delle vittime. A posteriori, ha dichiarato l'executive alla Associated Press, forse è stato un errore: «Le famiglie hanno delle basi per essere frustrate essendo state sottoposte a questo ottovolante emotivo».

«Frustrate» probabilmente è un eufemismo - già si parla di cause e, da Washington, George W. Bush ha annunciate che il governo intende promuovere l'apertura di un'inchiesta. Passata sotto il controllo dell'International Coal Group solo qualche mese fa, la miniera di Sago ha un pessimo record in fatto di misure di sicurezza. Solo nel 2005 è stata multata dalla Mining Safety and Health Administration per una cifra pari a 24 mila dollari per 202 violazioni ai codici. Tra le più serie di tali violazioni 16 erano problemi ricorrenti di cui si sapevca l'esistenza ma che non erano stati corretti. «Sotto l'amministrazione Bush, le citazioni di questo tipo sono diminuite radicalmente. Vederne così tante in una miniera sola è un segno di problemi di sicurezza molto seri», ha dichiarato al New York Times Tony Oppegard, dell'uffico federale per le miniere dell'amministrazione Clinton. Tra i problemi citati alla Sago, al cui impiago lavoravano 145 persone, tetti delle gallerie pericolanti, difetti di ventilazione e accumulo di materiale

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infiammabile o esplosivo nei tunnel. Tutti dettagli che verranno analizzati nei prossimi giorni, anche perché la causa dell'esplosione che ha bloccato i 13 minatori sotto terra, e che sarebbe avvenuta in una parte abbandonata della miniera, non è ancora stata chiarita. Solo il 5 dicembre scorso, il tetto di una delle gallerie era crollato improvvisamente.Non essendo implicati in questa fuga di notizie sbagliate, i giornalisti tv che seguivano la storia, hanno cercato disperatamente di attribuire l'equivoco a un colpevole. Secondo i medici dell'ospedale locale dove è stato ricoverato, Randall McCloy dovrebbe riuscire a riprendersi.

Il Manifesto 5/01/06

IVREA INFORTUNIO SUL LAVORO IN UN CANTIERE EDILE Grave un operaio caduto da sei metri

Stava tentando di sollevare un sostegno quando è scivolato cadendo nel vuoto. Un volo di circa sei metri che gli ha causato ferite al volto, al torace e altri traumi. Miai Moresan, non ha nemmeno 18 anni ed è ricoverato in prognosi riservata all'ospedale di Ivrea. E' accaduto ieri mattina in via Belmonte, una stradina secondaria che taglia corso Vercelli. E' qui che l'impresa «Due fratelli» sta effettuando alcuni lavori per la costruzione di una palazzina. Miai, operaio di origine romena residente a Banchette in via Roma, si trova sopra un'impalcatura assieme ad altri colleghi. Non è ancora chiara la dinamica dell'incidente, forse il ragazzo è scivolato, forse ha eseguito una manovra avventata: resta il fatto che ha perso l'equilibrio cadendo da un'altezza di sei metri. Gli operai che erano con lui lo hanno visto cadere nel vuoto: «Abbiamo sentito le urla, poi quel rumore sordo di un corpo che cadeva a peso morto» raccontava ieri uno che era presente sul luogo dell'incidente. E' stata immediatamente avvertito il 118: «Non c'era tempo da perdere - raccontano altri testimoni - il ragazzo ha riportato brutte ferite nella caduta, eravamo molto preoccupati per le sue condizioni». L'autoambulanza con medico e infermieri a bordo è arrivata nel giro di una manciata di minuti. Le condizioni di Miai Moresan sono apparse subito gravi ed è stato disposto il ricovero all'ospedale di Ivrea. Fortunatamente non corre pericolo di vita: ciò che preoccupa maggiormente i medici sarebbero le ferite che il ragazzo ha riportato al volto. Sul posto sono intervenuti anche i carabinieri a cui toccherà adesso ricostruire l'esatta dinamica dell'incidente. Dovranno essere ascoltati anche i titolari dell'impresa che stava effettuando i lavori e verificare lo stato del cantiere. Sarà infatti necessario capire se sono state rispettate tutte le leggi relative alla sicurezza. Purtroppo, però, gli incidenti sul lavoro, in particolare nei cantieri edili, sono sempre più frequenti. Tempo fa i sindacati di categoria in Canavese avevano lanciato un segnale d'allarme: «Il problema - avevano sottolineato - è che mancano spesso le garanzie di lavoro su impianti e strutture sicure al cento per cento. Dovrebbe esserci maggiore attenzione su questo aspetto». gp. mag.

La Stampa – Torino Cronaca 6/01/06

BIELLA L’UOMO E’ GRAVE . Ruspa travolge operaio romeno in un cantiere

Grave infortunio sul lavoro ieri alla periferia della città. Un operaio romeno, residente a Olcenengo, nel Vercellese, è stato travolto da una macchina per movimento terra. La disgrazia è avvenuta in un cantiere stradale di via Camandona, al Villaggio La Marmora. Andrei I., 24 anni, stava lavorando accanto alla ruspa che in quel momento spostava

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alcuni pesanti tubi. Il conducente ad un certo punto ha fatto retromarcia e non si è accorto che a pochi passi c’era l’operaio romeno. A sua volta Andrei I. non si è reso conto che la macchina gli stava venendo addosso: la disgrazia è stata inevitabile. Trasportato al Degli Infermi, l’operaio è stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico; i medici si sono riservati la prognosi. f. p.

La Stampa – Torino Cronaca 6/01/06

BIANDRATE OPERAIO DI 42 ANNI, APERTA INCHIESTA Stroncato da tumore Il sospetto: l’amianto

Lavorava in una ditta che si occupava di manutenzioni in aziende a rischio. Durante l’attività sarebbe venuto a contatto con l’amianto. La diagnosi, mesotelioma pleurico, indica un decesso causato dall’amianto: ha fatto aprire il fascicolo alla procura di Novara. L’inchiesta è condotta dal pm Giovanni Caspani. Si ipotizza il reato di omicidio colposo. Sarebbe stata una malattia professionale a causare il decesso di Claudio Deugenio, 42 anni, deceduto il 29 dicembre all’ospedale Maggiore di Novara dopo un lungo calvario. Sedici mesi fa gli era stato diagnostico un mesotelioma pleurico, un tipo di tumore dovuto all' esposizione alle polveri di amianto. Deugenio abitava con la moglie e le due figlie a Biandrate. Lavorava per una ditta specializzata in manutenzioni industriali e probabilmente proprio nel corso di questa attività è venuto in contatto con materiali in amianto. In un primo tempo il fascicolo era stato aperto per «lesioni colpose»; la pratica si è trasformata in omicidio colposo (con nuovi termini di prescrizione rispetto alle lesioni). L’iter dell’inchiesta si presenta lungo in quanto l' uomo ha lavorato in diverse aziende nel corso della sua vita. Agli inquirenti il compito di stabilire dove e come abbia contratto il tumore e se si tratti di una malattia professionale. c. m.

La Stampa – Sezione Novara 7/01/06

Infortunio Operaio 36enne all’ospedale

GALEATA - Un altro infortunio sul lavoro. Questa volta a Galeata in un’azienda che lavora pietre. un giovane operaio di 36 anni è caduto da un solaio ed è rimasto ferito. In un primo momento sembrava un incidente molto grave, ma poi per fortuna le condizioni del ferito sono migliorate durante il corso della giornata. L’allarme è scattato ieri mattina alle 11 tra Civitella di Romagna e Galeata dove è stato inviato anche un elicottero del soccorso regionale. Il 36enne è stato trasportato al Pronto soccorso e ricoverato per i traumi.

Corriere Romagna – Cronaca di Forlì 12/01/06

Tetto di fabbrica in eternit l’Inail risarcisce un operaio Per la prima volta riconosciuta l’esposizione «passiva»

CASALE MONFERRATO . Per la prima volta l'Inail riconosce a un lavoratore il nesso tra l'esposizione «passiva» (quando non si tratta di esposizione professionale) all'amianto e l'insorgere della malattia, tanto da conferire al lavoratore casalese dal prossimo mese un indennizzo mensile che potrà aggirarsi sui 1500/2000 euro, indennizzo che arriverà alla famiglia anche dopo l'eventuale morte dell'assicurato. «È una decisione storica - dice Nicola Pondrano, responsabile della Camera del Lavoro di Casale - perché finora, e a fini pensionistici, veniva solo riconosciuta l'esposizione

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professionale». Questa volta invece la decisione dell'Inail ribadisce che le fibre d'amianto sono cancerogene anche per chi non le lavora direttamente, come il casalese in questione, che ha svolto la sua attività per 18 anni in un capannone che aveva le coperture in amianto. «Nonostante le coperture fossero protette da controsoffittature - dice Giuseppe Costantino, responsabile dell'Inail di Casale - le fibre sono filtrate ugualmente, provocando la malattia al lavoratore». Non è infatti la quantità di fibre che possono essere inalate a scatenare il terribile mesotelioma, ma anche tumore al polmone, malattie polmonari. Purtroppo è sufficiente una sola fibra a generare il male. «Non esiste una soglia di sicurezza al di sotto della quale il rischio si annulla - dice l'oncologa, Daniela Degiovanni -. Già venti anni fa l'Oms (Organizzazione Mondiale alla Sanità) ribadiva che il rischio cancerogeno dell'amianto si azzera solo in assenza di fibre». Ecco perché le associazioni che lottano contro l'amianto, hanno sempre osteggiato la revisione della legge che riguardava l'esposizione professionale alla terribile fibra, che prevede che l'esposizione sia a 100 fibre per 8 ore al giorno e per 10 anni continuativi. «È stata la Contarp (Consulenza Tecnica Regionale per l'accertamento dei rischi professionali) - aggiunge Costantino - a interpellare eminenti specialisti in materia e ad arrivare a questa decisione, che si lega sempre più al Dna dell'Inail che ha appunto il compito di tutelare gli assicurati». Dietro alla decisione però un ampio lavoro a più mani da parte di chi da anni lotta su questo fronte. Proprio oggi alla Cgil di Alessandria, durante il Congresso provinciale, Pondrano proporrà un ordine del giorno sull'amianto. Purtroppo, a causa della finanziaria, non si sono ancora risolti i gravi problemi di mancanza di personale della Contarp. Solo due sono le persone a Torino incaricate di esaminare le pratiche dei lavoratori, contro circa 2000 domande avanzate in provincia, il cui numero è esponenzialmente aumentato dopo il 15/6/2004 termine ultimo per la presentazione delle domande. Si tratta di tanti lavoratori, che, se avessero parere positivo dall'Inail potrebbero andare prima in pensione, vista la previsione di una loro vita breve, a causa della malattia contratta. Indennizzi anche a chi si ammala pur senza aver lavorato direttamente l’amianto

Domani e dopodomani Bruno Pesce del Comitato Vertenza Amianto, accompagnato dagli avvocati che da anni seguono la vertenza casalese(Paolo Pissarello di Genova e Sergio Bonetto di Torino) parteciperà a una riunione a Parigi nello studio dell'avvocato Jean-Paul Teissoniere per coordinare quanto a livello europeo è stato fatto al proposito. Verranno trattati i temi dell'indennizzo alle vittime da amianto, si esamineranno le azioni legali già in corso e lo stato delle procedure contro l'Eternit in ogni Paese e la possibilità di coinvolgere istituzioni internazionali. Saranno infatti presenti esponenti di Francia, Svizzera, Belgio, Olanda, Spagna, oltre all'Italia, con cui il Comitato ha già intessuto in passato stretti contatti, per mettere a confronto esperienze più positive che potrebbero essere «esportate» in altri paesi. In Francia per esempio esiste un fondo (75% messo a disposizione dalle imprese e 25% dallo Stato) per risarcire chi è stato colpito da malattie correlate all'amianto, un'iniziativa richiesta anche in Italia. f. n.

La Stampa – Sezione Alessandria 12/01/06

Cade dal bancale Grave un operaio

FORLI’ - Infortunio ieri mattina alle 9 alla ferramenta “Salpef” di via Meucci 69. Un operaio di 43 anni, probabilmente caduto da un bancale, ha riportati seri traumi agli arti. Il ferito è stato trasferito al Pronto soccorso e successivamente sottoposto ad intervento chirurgico nel Reparto di Traumatologia.

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Corriere Romagna – Cronaca di Forlì 13/01/06

Muore un operaio, altri due feriti

Omicidio colposo e lesioni gravissime: sono i reati ipotizzati dal procuratore aggiunto Gianfranco Amendola nell'inchiesta attualmente nella fase preliminare contro ignoti scaturita dalla morte avvenuta ieri a Roma, nella zona della Bufalotta di un operaio di 53 anni, Giorgio Biferi e nel ferimento di due romeni che attualmente sono ricoverati all'ospedale Gemelli. Al centro dell'indagine del magistrato c'è l'attività di quattro ditte che operavano su un terreno di almeno sei ettari per conto della Soprintendenza alle opere archeologiche che aveva disposto un sondaggio del terreno prima che fosse concessa l'autorizzazione ad un piano di edificazioni. Dalle indagini si deve stabilire in base a quali accordi fosse stato dato il via ai lavori e di chi siano le responsabilità.

Il Manifesto 13/01/06

LA CLEMENCEAU PIENA DI AMIANTO VIAGGIA VERSO LO SMANTELLAMENTO L’Egitto blocca a Port Said la portaerei dei fantasmi

C'è una nave che non vuole morire, non si riesce a infliggerle il colpo di grazia, che sfugge alla ingiustizia del tempo. Si chiama «Clemenceau», una portaerei monumento (arrugginito) della «grandeur» marittima ormai poco eroicamente nuancé dai bilanci in rosso. Proprio quando ormai galleggia a mala pena, ha tutti gli oblo sigillati, è inerme, è diventata il sogno di ogni ammiraglio: la nave inaffondabile. E' protetta dalle tonnellate di micidiale amianto sciaguratamente distribuite nella sua carcassa meglio che dalle possenti corazze delle fiancate. Intoccabile, definitivamente avvelenata, burocraticamente in eterna quarantena, ecologicamente micidiale. Vaga per i mari grottesco simbolo dello sperpero militare e dell'insipienza come un vascello fantasma, respinto da ogni porto e da ogni cantiere, preso in ostaggio dai vendicativi corsari di Greenpeace, perseguitata dalle sentenze giudiziarie. C'è una grottesca epopea nella crociera di quella che era una fierezza nazionale galleggiante e ora è un rimorso che imbarazza la Francia. Radiata nel 1997 dopo quasi 40 anni questo colosso accudito ai bei tempi da duemila uomini di equipaggio non ha trovato un compratore, al contrario della gemella Foch svenduta al Brasile per meno di 15 milioni di euro. Ormeggiata a Tolone, privata delle armi e dei 40 aerei, arrugginita aspettava paziente di essere definitivamente disossata. Ma c'era il problema dell'amianto mortifero, 160 tonnellate. La Francia si è accorta che distruggere la vetusta balena di acciao era costosissimo. Alla fine, dopo anni di polemiche, si è fatto avanti un cantiere di Alang in India. Qui il criterio di rischio è più elastico, l'ecologia un lusso sconosciuto, gli operai affamati non discutono, la pospettiva di un ghiotto guadagno in ferraglia annienta qualsiasi rimorso. Un po' rossa di vergogna, la Francia ha incassato il denaro e esportato il suo incubo al Terzo Mondo,. Un classico del tartufismo occidentale, un caso da manuale. Sembrava finita. Ma gli ecologisti hanno braccia lunghe. Un ricorso alla Corte suprema indiana ha denunciato che le cifre erano false, che a bordo le quantità di amianto era molto più elevata e pericolosa di quanto giuravano i documenti francesi. In attesa di una sentenza definitiva si decide di salpare lo stesso. Poi si vedrà. L'ultimo viaggio è iniziato il 31 dicembre: le catene che la tenevano legata alle banchine dell'arsenale di Tolone si sono sciolte come una liberazione. Il gigante ormai si muove trascinato da un rimorchiatore, al massimo il monumento che filava a 23 nodi può arrancare a cinque. Lo aspettano ben quattromila miglia e due mesi di mare, una lenta interminabile agonia marinara. Deve passare arrancando al traino il Mar Rosso, Bab el Mandeb, Aden, i mari che

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aveva orgogliosamente pattugliato. Ma sulla via dell'India l'ultimo agguato: prima uno scenografico arrembaggio di Greenpeace. Poi il veto del governo egiziano: «La nave non può entrare nelle acque territoriali e neppure passare il canale di Suez, ci vuole un documento che attesti la assenza di scorie pericolose». la Clemenceau è ferma a Porto Said. Ormai a Parigi si è rassegnati a sperare nella pietosa eutanasia di un naufragio.

La Stampa 13/01/06

Sciopero per la sicurezza, una lotta tra le minacceRiesce a metà l'agitazione del «Coordinamento 12 gennaio». Sotto accusa azienda e Commissione di garanziaLa precettazione fantasma e il silenzio dei media hanno bloccato nell'incertezza molti ferrovieri. La solidarietà dei passeggeri alle prese con incidenti, cancellazioni, sporcizia e ritardiFRANCESCO PICCIONI«Viste le premesse, è stato comunque un successo». Il tam-tam tra i ferrovieri del «Coordinamento 12 gennaio», a proposito della riuscita dello sciopero di otto ore effettuato ieri, è un misto di sospiri di sollievo per aver evitato un flop che sarebbe stato politicamente grave e di consapevolezza che i numeri, stavolta, sono stati inferiori a quelli delle altre occasioni. La guerra delle cifre tra azienda e scioperanti, abituale, stavolta tocca limiti davvero ignoti. Le Ferrovie parlano di una «adesione insignificante», addirittura di «90 addetti su 97.000 dipendenti». Lo scenario offerto dalle stazioni - tra le 9 e le 17, orario fissato per l'agitazione - raccontava un'altra realtà. Molti i treni cancellati, ma nessuna rabbia tra i passeggeri rimasti a piedi. Anzi, alcuni di loro, intervistati dalla Rai, hanno espresso con nettezza la solidarietà ai lavoratori per l'incredibile stato di degrado in cui versano le ferrovie italiane. Le ragioni dello sciopero, infatti, non riguardavano «rivendicazioni salariali», ma semplicemente la sicurezza del trasporto su rotaia. Un tema che unisce chi sui treni lavora e chi ci viaggia. Gli incidenti mortali, quelli mancati per un soffio, gli innumerevoli casi di carrozze infestate da zecche e parassiti, la soppressione di numerose corse sulle tratte dei pendolari... Tutto contribuisce da tempo ad avvicinare viaggiatori e lavoratori.

Se così è, perché la partecipazione stavolta è stata minore? Molto ha pesato «la disinformazione», visto che i media - fino a ieri mattina - davano lo sciopero per revocato, vietato, illegittimo... Insomma, non si riusciva a capire se era confermato o meno. Questo, per un organismo spontaneo (supportato da due sindacati di base, Sult e Cub, con un numero di iscritti non eccelso), composto da delegati che hanno in tasca tessere di sindacati diversi, senza una vera organizzazione ben rodata, costituisce sempre un limite. Che si aggiunge alle vere e proprie intimidazioni. Dice infatti Savio Galvani, macchinista di lungo corso, «le pressioni psicologiche, le telefonate a tappeto fatte ai singoli ferrovieri, sono state devastanti e in molti casi hanno avuto effetto; ma non biasimiamo certo i colleghi che hanno lavorato».Alla radice di tutto, però, c'è l'operato della cosiddetta «Commissione di garanzia sul diritto di sciopero nei servizi pubblici», che da tempo agisce in modo da impedire qualunque azione di sciopero. Neppure Lunardi, stavolta, se l'è sentita di ordinare una precettazione, per evidente mancanza di appigli (la piattaforma era stata inviata, le procedure erano state rispettate, ecc); eppure la parola «precettazione» ha continuato a muovere l'aria fino all'ora dello stop. L'incertezza (e le «intimidazioni dell'azienda») hanno fatto il resto, impoverendo in parte la mobilitazione. Ma non fino al punto di provocarne l'insuccesso.«Ci stanno smontando le ferrovie sotto i piedi - aggiunge Dante De Angelis, del

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Coordinamento - e siamo noi ferrovieri quelli che si fanno carico di far funzionare l'azienda, perché gli attuali dirigenti, fra due anni, saranno da un'altra parte». Un'azienda, dice ancora Galvani, «che si scontra ormai quotidianamente con i propri dipendenti, nega i diritti contrattuali, ovunque può introduce forme di precariato, non genera prospettive per la qualità, l'efficienza e la sicurezza del servizio pubblico». Sul degrado del materiale rotabile - gli intervalli di tempo previsti per la manutenzione sono stati quasi quintuplicati, «per risparmiare» - parla il recente incidente di Loreto; in cui un treno è deragliato per la rottura dell'asse di una ruota e nonostante il macchinista avesse eseguito alla lettera tutte le procedure previste in caso di «surriscaldamento» del pezzo.Lo sciopero nella regione Lazio, che doveva tenersi oggi, è stato spostato dai sindacati (Cgil, Cisl, Uil, Orsa, ecc) al 26-27 gennaio, data della mobilitazione nazionale. Il prossimo appuntamento del Coordinamento è invece per il 20, a Roccasecca, a un mese dall'incidente in cui hanno perso la vita due passeggeri, per un'assemblea con le autorità locali che protestano a loro volta per il degrado e le corse cancellate. Ma il problema principale, ormai, si pone a livello politico. E' chiaro che i trasporti pubblici - dalle ferrovie ad Alitalia, agli autobus urbani - sono il settore usato come test per attaccare frontalmente il diritto di sciopero e la natura «pubblica» del trasporto collettivo. Su questo, la politica di sinistra, non può più tardare ad esprimersi in modo convincente.

Il Manifesto 13/01/06

Lucca, si incastra la sciarpa, operaia muore strozzata

Un'operaia della Cartotecnica Effeci Charta di Capannori, in provincia di Lucca, di 34 anni, è morta ieri perché la sciarpa che aveva al collo si è incastrata nell'albero rotante della macchina e l'ha strozzata. In un cantiere edile di Roma un'ingegnere di 35 anni è caduta in una buca profonda tre metri. La donna è stata trasportata all'ospedale per ferite alle gambe e alle braccia, ma non è in pericolo di vita.

Liberazione 14/01/06

Anche cinque feriti nello scoppioRomania, esplode miniera di carbone: sette minatori perdono la vita

Sette minatori romeni hanno perso la vita a causa di un'esplosione avvenuta in una miniera di carbone nella provincia di Caras Severin. Altri tre sono rimasti feriti. La miniera era situata ad Anina, 500 chilometri ad est di Bucarest e dà lavoro, a più di mille metri sotto terra, a circa 200 minatori. Dopo l'esplosione, la miniera è stata chiusa ed è stata avviata un'inchiesta. Sembra che le cause dell'esplosione siano da ricercare in un accumulo di gas. Nella foto, la madre di una delle vittime piange all'entrata della miniera.

Liberazione 15/01/06

Incidenti sul lavoro, operaio ferito a Roccasecca

Grave incidente sul lavoro ieri a Roccasecca, dove un operaio di 49 anni è caduto da un'impalcatura al terzo piano di una palazzina in costruzione. L'uomo ha riportato un grave trauma cranico. A Termini Imerese un operaio edile ha rischiato la vita travolto dal

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crollo di una parete fangosa. L'uomo è finito sotto i detriti ed è rimasto sepolto fino al busto e per liberarlio è stato necessario l'arrivo dei vigili del fuoco.

Liberazione 17/01/06

LA DECISIONE Un operaio residente nel Veneto morì per mesotelioma pleurico, decesso che la procura ha messo in relazione con la lavorazione in una azienda di Basiliano «Protezioni carenti per affrontare il pericolo amianto» Poco più di due mesi dalla sentenza di condanna di due imprenditori per omicidio colposo, il giudice ha depositato le motivazioni

Salvatore Panetta, di origine calabrese morì il 23 luglio del 2000 a San Donà di Piave a 48 anni. Ucciso da un mesotelioma pleurico. Per la procura la morte è in relazione con l'attività svolta in fabbrica e in particolare con l'amianto. Sono seguiti imputazione e processo nei confronti di due imprenditori. Il 24 ottobre del 2005 la sentenza di condanna, la prima pronunciata in materia di morte per amianto dal tribunale friulano. Ora il giudice Piervalerio Reinotti ha depositato le 28 pagine di motivazione in cui si analizza il fenomeno della lavorazione dell'amianto e dei rischi per il lavoratore e si spiegano le ragioni che hanno determinato la condanna a 8 mesi di reclusione, condizionale, di Giuseppe Mascarin, 60 anni, Cinto Caomaggiore legale rappresentante della Tecnoimpianti srl e l'ingegner Felice Rivalta, 75, Torino, dirigente operativo della Fusa, Fonderie udinesi srl di Basiliano. Salvatore Panetta operò dal 1984 al 1989 alla Fusa come addetto al montaggio di caldaie e prima ancora dal 1982 al 1984 come dipendente della Tecnoimpianti, ditta che operava con proprio personale all'interno della Fusa: utilizzò guarnizioni di corda e fogli d'amianto; per l'accusa senza che venissero adottate precauzioni per evitare l'inalazione e l'aspirazione delle fibre.

«Il nesso tra assunzione di fibre di amianto e mesotelioma pleurico - ha scritto il giudice - è stato riconosciuto dall'Inail che riconobbe al Panetta dal novembre del 1998 una rendita diretta del 100 per cento». Tipo di lavorazioni cui venne adibito. «Mentre diverse - si legge nella motivazione - sono le interpretazioni di accusa e difesa riguardo alla incidenza in termini quantitativi del maneggio dell'amianto da parte del lavoratore e delle protezioni adottate nell'ambiente di lavoro, le specifiche attività cui era adibito dal 1982 all'aprile del 1989 non sono poste in discussione». Accanto alle testimonianze dei colleghi di lavoro, il giudice ha ritenuto di valorizzare quella dello stesso Panetta all'ispettore dell'Usl: «Non mi sono mai stati forniti mezzi di protezione per le vie respiratorie da utilizzare; saltuariamente per le operazioni di verniciatura mi sono state fornite mascherine di carta senza filtro». «In ogni caso - scrive il giudice - pare indubbio che nessuna istruzione specifica fosse stata data in ordine alla pericolosità dell'amianto».

Il giudice ha poi affrontato il problema dell'insorgenza della patologia, se fosse riconducibile a un momento lavorativo antecedente rispetto a quello svolto alle dipendenze delle due società e se le lavorazioni cui venne adibito presso le stesse abbiano aggravato il decorso. La difesa ha insistito sull'attività pregressa del lavoratore che operò in Germania nella demolizione di fabbricati con la possibilità di contatto con materiali a base di fibre di amianto. Dopo essersi richiamato a sentenze della Cassazione e alla perizia medico legale, il giudice ha ritenuto che «tutte le esposizioni successive del Panetta, e non pare dubitabile vi siano state, sia sotto l'amministrazione Tecnoimpianti sia sotto la Fusa, rispetto a un'insorgenza eventuale e antecedente della

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malattia, hanno avuto effetto su di essa anche condizionandone il tempo di latenza e così accelerando tanto il suo insorgere che il susseguente decesso del lavoratore». Sulla prevedibilità dell'evento e sulla codificazione all'epoca dei rischi, il magistrato richiama quanto affermato dal perito: «si può dire che nella seconda metà degli anni '60 il tumore al polmone e il mesotelioma alla pleura sono neoplasie certamente attribuibili, in base alla conoscenze a quel punto acquisite, all'esposizione ad amianto al punto che tale conoscenza trova diffusione anche in organi di informazione non specialistici».

«Che si tratti - scrive ancora il dottor Reinotti - di un prodotto tanto efficace sotto il profilo tecnologico quanto micidiale per la salute è provato oltre che dal totale abbandono in ogni produzione, dal fatto che la sua pericolosità permane anche in situazioni lavorative del tutto marginali». E conclude: «Orbene che le condizioni lavorative nelle quali era impiegato Panetta fossero del tutto carenti per fronteggiare il pericolo della respirazione di fibre di amianto e circostanza ad avviso del giudicante, incontrovertibile».Il Gazzettino – Cronaca di Udine18/01/06

Sofia: due operaie colpite da ictus. «Condizioni estenuanti»Morte di fatica in fabbrica (e la fabbrica è italiana)

di Andrea Milluzzi. Due morti, una dietro l'altra, nel giro di due settimane. Due sorelle bulgare, dipendenti della Euro Shoes, una fabbrica di Dupnitsa, a sud-est della capitale del Paese, Sofia, hanno perso la vita, secondo l'agenzia di stampa della capitale Sna, a causa delle condizioni di lavoro nella fabbrica. Fabbrica che è di proprietà italiana. La prima delle due sorelle, 48 anni, è morta due settimane fa in seguito ad un ictus sul posto di lavoro ed è morta poche ore dopo il suo trasporto in ospedale; l'altra invece, di dieci anni più piccola, è stata vittima di un collasso lunedì. Sempre secondo l'agenzia bulgara, l'azienda è stata oggetto di indagini degli ispettori del lavoro che avrebbero trovato «decine di violazioni delle regole di lavoro», come nessuna pausa pranzo e nessun riposo settimanale, tanto da far vivere gli impiegati in «condizioni estenuanti». Senza contare che, come riportano i mezzi di informazione locali citando gli ispettori, agli operai non viene nemmeno corrisposta paga per gli straordinari svolti. Ma il presidente dell'Euro Shoes, Claudio Marocchi smentisce le accuse e si dice «sicuro che le autorità competenti metteranno in piena luce la nostra estraneità ai decessi, perché noi siamo a norma in tutto e per tutto e mi stupisco dell'enfasi sollevata dai media». Tutto questo ha provocato un acceso dibattito anche in rete, nel forum che la stessa Sna tiene sul suo sito. La maggior parte dei lettori hanno reagito a questa notizia chiedendosi se «è questo il modello di sviluppo che serve alla Bulgaria» e esortando a tenere in considerazione «prima le persone, poi tutto il resto». E in Italia? Qua si è mossa Rifondazione comunista, con il capogruppo al Senato, Gigi Malabarba che ha presentato un'interrogazione al ministro del wellfare Roberto Maroni per sapere «quali iniziative intenda promuovere per garantire che un'azienda italiana in Bulgaria sia rispettosa delle leggi e dei contratti collettivi stipulati in quel paese, nonché delle disposizioni dell'Organizzazione internazionale del lavoro». La Euro Shoes ha sede in Bulgaria ed è quindi difficile risalire dall'Italia a qualche notizia sui suoi effettivi comportamenti nei confronti dei lavoratori. Anche perché i suoi 2000 (circa) impiegati lavorano tutti a Dupnitsa, dove producono giornalmente 18mila paia di tomaie e 3mila di paia di scarpe. Prodotti che alla fine vengono re-importati in Italia tramite la Linea Moda S. r. l. (di cui è amministratore delegato sempre Claudio Marocchi) che riconsegna le tomaie al cliente, con carichi che partono anche due volte

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a settimana. Insomma, una vera e propria delocalizzazione del lavoro alla ricerca del minor costo. Anche a spese, come si è visto, della sicurezza dei dipendenti.

Liberazione 19/01/06

Un operaio di 39 anni è morto ieri in un incidente sul lavoro

Verona . Un operaio di 39 anni è morto ieri in un incidente sul lavoro all'interno di un cantiere edile a Pescantina (Verona). L'uomo, dipendente di una ditta di Castel d'Azzano - secondo una prima ricostruzione dell'incidente - stava smontando una gru assieme ad alcuni suoi colleghi in cima al mezzo. Improvvisamente, durante un tentativo di sganciare un contrappeso che si era incastrato, c'è stato uno sbilanciamento della struttura che ha avuto una oscillazione. L'operaio è stato sbalzato all'esterno ed è precipitato al suolo da 25 metri d'altezza. Vani i soccorsi da parte del personale del 118, intervenuto sul posto subito dopo l'incidente: l'uomo è morto all'istante. Sul posto sono intervenuti per i rilievi dell'incidente anche gli ispettori dello Spisal. L'incidente di ieri conferma l'elevato indice di rischio per il comparto edile: nel 2004, secondo i dati resi noti dall'Inail nel Veneto, si son overificati 71,31 infortuni ogni mille addetti. Elevato anche il tributo pagato dalla provincia di Verona: sempre nel 2004 sono stati venti gli incidenti mortali, come denunciato anche dai sindacati che chiedono norme più severe per tutelare la sicurezza nei cantieri di lavoro, soprattutto nel comparto edile dove l'elevata presenza di addetti stranieri chiede agli stessi addetti e ai datori di lavoro una maggiore consapevolezza dei rischi e delle norme di sicurezza.

Il Gazzettino – Cronaca di Verona 21/01/06

Infortuni sui lavori "in itinere", dal 2000 l'Inail li riconosce. Ma spesso si va dal giudice

di Sante MorettiCara Liberazione, oltre che iscritto, elettore e militante attivo di Rifondazione, sono il segretario della sezione di Bari di Federisf, una associazione di Informatori Scientifici del Farmaco che si prefigge, tra le altre priorità, l'obbiettivo di divulgare una cultura dell'etica di questa professione (e ce n'è veramente bisogno!) e di diffondere tra i lavoratori una coscienza collettiva delle proprie responsabilità e dei propri diritti che fino ad oggi è stata estremamente carente. La maggior parte degli ISF lavora con contratto a tempo indeterminato collegato al contratto nazionale di lavoro dei chimici. Tuttavia il ricorso sempre più frequente, da parte delle aziende farmaceutiche, alle varie forme di precarizzazione del lavoro previste dalla legge 30, il ritorno massiccio a contratti di tipo commerciale (es. Enasarco) che sembravano in via di estinzione, l'uso diffusissimo del mobbing, l'estrema flessibilità che ci viene richiesta in termini di orari e disponibilità, mi consentono di affermare con forza che i vecchi privilegi, di cui spesso si favoleggia, sono ormai un lontano ricordo di quei colleghi che, per loro fortuna, sono alle soglie della pensione (io lavoro da oltre 24 anni e non ne ho mai avuto sentore diretto!). Il problema che voglio porti riguarda i rischi di infortunio collegati all'orario di lavoro giornaliero. Pur essendo, per la maggior parte, lavoratori dipendenti, non è possibile quantificare in modo reale le ore di lavoro svolte ed i momenti di inizio e fine attività. In più, ma questo è noto, impieghiamo buona parte del tempo lavorativo in percorrenze automobilistiche, con tutti i rischi che ne conseguono. Mi sono sempre chiesto: un

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incidente d'auto, anche con conseguenze fatali (recentemente è morta una giovane collega brindisina e nei miei 24 anni di lavoro ricordo almeno altri sette episodi analoghi avvenuti dalle mie parti!), viene classificato come banale incidente d'auto o come infortunio sul lavoro? Non è solo una questione di gelide statistiche della morte, ma di garanzie assicurative, di copertura Inail, di diritti per gli eredi, di diritti per se stessi in caso di infortunio grave con invalidità permanente ecc. Il problema me lo pongo perché spessissimo ci capita di essere in macchina in momenti in cui l'azienda dalla quale dipendiamo è ufficialmente chiusa (al mattino molto presto o la sera molto tardi, a volte anche in piena notte magari rientrando da una riunione conclusasi con una cena di lavoro). Ti sarei veramente grato per i chiarimenti che vorrai darmi. Antonio Manginelli

Soggetto della lettera non è la pensione, ma gli infortuni. Anzi una particolare tipologia di infortuni cioè quelli che coinvolgono lavoratori e lavoratrici che si recano al lavoro (tragitto) o che per ragioni aziendali vengono inviati in missione, nel nostro caso conferenze, convegni etc. fuori della sede riconosciuta come luogo di lavoro. L'Inail riconosce in questi casi l'infortunio per il percorso più breve da casa al lavoro o in missione naturalmente se documentato. Gli infortuni che possono capitare in questi casi sono definiti in "itinere". Dopo il 2000 è stato normato l'infortunio in itinere e quindi precisate le condizioni che ne prevedono il risarcimento. L'Inail, per non riconoscerli, si fa forte di quanto scritto nella normativa, come: "mezzo necessitato" per andare e tornare dal lavoro; "deviazioni", "interruzioni brevi". Quindi quasi sempre per ottenere il riconoscimento dell'infortunio è necessario un procedimento legale. In ogni caso sarebbe opportuno, stante la particolarità del lavoro che svolgete, definire un protocollo, un accordo con l'azienda e con l'Inail. Certo, non sarà facile, ma per un diritto si può anche lottare. Ogni anno più di un milione e 300mila lavoratori o lavoratrici sono vittime di infortunio, 70mila rimangono menomati permanentemente e più di mille muoiono, una strage, un prezzo di sangue ingiustificato e quindi insopportabile. La tecnologia ha limitato gli infortuni in alcuni settori, ma la precarizzazione del lavoro, il cottimo, gli orari massacranti nonché la spasmodica ricerca di risparmio sulle misure di sicurezza da parte delle aziende fanno sì che in Italia il numero e la gravità degli infortuni sia il più alto in Europa.

Liberazione 21/01/06

Lavoro, due incidenti ad Ariano in pochi giorni

Un edile di 45 anni, di Ariano Irpino, è stato ricoverato in prognosi riservata dopo un grave incidente sul lavoro. L'uomo stava tinteggiando un capannone quando ha perso l'equilibrio cadendo violentemente dalla scala sull'asfalto. Pochi giorni fa si èverificato un caso molto simile proprio nella stessa città. Un uomo di 53 anni è precipitato finendo infilzato da alcuni paletti di ferro.

Liberazione 22/01/06

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BORGO VERCELLI «CHIEDO DI POTER LAVORARE» Invalido minaccia sciopero della fame

Si chiama Massimo Insalaco, ha 40 anni, ed è pronto ad iniziare uno sciopero della fame e della sete, «perchè - scrive in una lettera spedita a giornali, tv e istituzioni - se uno non muore nessuno se ne accorge». Racconta di aver avuto, il 9 febbraio del 2004, un infortunio sul lavoro: «Sono caduto da quattro metri di altezza all’interno di una palazzina in costruzione, dove la legge 626 manco sanno che cosa sia». Da allora è stato l’inferno. Cammina con la stampella, ha pezzi di ferro nella gamba destra, una protesi all’anca e un ginocchio ricostruito. E’ stato operato il 3 ottobre dello scorso anno. Vive a Borgo Vercelli in una casa da cui presto dovrà andarsene perchè non può pagare l’affitto e il poco riscaldamento arriva da una stufa alimentata da una bombola che riempie l’aria di un fortissimo odore di gas. Insalaco, che quando stava bene aveva fatto l’elettricista e pure l’agente di commercio, chiede un lavoro compatibile con le sue condizioni: «Sono invalido al 46 per cento e l’Inail si è disinteressato al mio caso». Racconta di trovarsi con l’acqua alla gola: «Non ho una lira, non ho una pensione e mi stanno per staccare la luce. L’assistente sociale, poveretta, più di tanto non può fare. Ho documenti che provano che l’infortunio mi ha portato a questo, ma nessuno ha interesse a darmi una mano. Mi aiuta solo il mio vicino di casa». Il pranzo lo va a prendere alla Casa di riposo e l’acqua calda gliela devono portare. Massimo Insalaco, ieri, spiegava di aver spedito la sua lettera di disperazione a mezzo mondo, ma di aver ricevuto solo due risposte: la prima dal presidente della Provincia, Renzo Masoero, che lo incontrerà stamane alle 10, la seconda dal giornalista Vittorio Feltri. Poi più nulla. Conclude l’uomo: «Se devo incatenarmi in piazza lo farò e smetterò di bere e di mangiare. Non credo di dover fare il barbone: vorrei solo un lavoro adatto a me, visto il problema motorio che ho, e una casa, anche una stanza e un bagno, dove poter vivere».

La Stampa – Sezione Vercelli 24/01/06

Usa, le miniere della morte sono un business da sfruttare

Nel 2005 c'erano stati 22 minatori morti, quest'anno sono già 15, di cui ben 12 nella tragedia del West Virginia. Per gli Usa è allarme rosso sul tema degli incidenti mortali sul lavoro. L'ondata di incidenti ha innescato tutta una serie di provvedimenti sui requisiti di sicurezza delle miniere. E' sceso in campo lo stesso Parlamento del West Virginia che si è preoccupato di dotare i minatori, pagati pochissimo e pochissimo tutelati, di una strumentazione adeguata. Fin qui nulla di strano. Anche in paesi come gli Usa dove il sindacato viene tenuto a debita distanza dal luogo di lavoro e dove la protesta dei minatori in genere viene fermata a colpi di fucile sapere che c'è qualcuno che si occupa della loro sicurezza è confortante. Ma a ben vedere non è così. Il Parlamento ha disposto che i minatori vengano dotati di congegni che permettano di individuarli sotto terra in modo che si sappia dove sono quando bisogna cercarli. Non è importante rendere più sicure le miniere, quindi. Non è importante evitare che le tragedie non accadano, ma è importante che le conseguenze non siano troppo onerose per le casse dello Stato federale che deve organizzare i soccorsi. Business is BusinessFabio Sebastiani

Liberazione 25/01/06

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Amianto, protesta degli operai ex Brea di Sesto

Sono tornati a protestare sotto gli uffici dell'Inail i lavoratori dell'ex Breda di Sesto San giovanni. Dopo 75 morti per tumori polmonari, decine di ammalati e 300 domande per godere della copertura prevista per le malattie professionali, hanno deciso di manifestare in piazza. «L'amianto ha fatto gravi danni e le malattie professionali è difficile farsele riconoscere».

Liberazione 26/01/06

Morti sul lavoro, in edilizia sono 350 ogni anno

Con una media di 4 vittime al giorno, il numero dei morti sul lavoro in Italia «è ancora, drammaticamente elevato». A ricordarlo è Antonio Pizzinato, vicepresidente della Commissione istituita un anno fa in Senato per fare il punto sull'attuazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro. «Nel solo settore dell'edilizia sono circa 330-350 gli incidenti mortali ogni anno».

Liberazione 27/01/06

VALENZA EX PRESIDE E ORAFO . A giudizio per la morte da amianto

ALESSANDRIA . Si può morire per mesotelioma contratto per aver respirato polvere d'amianto in un'azienda orafa? Sì, per l'accusa. Lo dimostra il provvedimento firmato ieri dal gip Magrini che ha mandato a giudizio per concorso in omicidio colposo (il processo sarà celebrato il 10 luglio) Bruno Abre, 84 anni, spalto Borgoglio, dal '61 al '64 preside dell'istituto professionale orafo «Cellini» di Valenza, e Danilo Ficalbi, 67, di San Salvatore Monferrato, via Cavalli, socio accomandatario dell’omonima ditta (chiusa da 20 anni), dove lavorava la vittima, Paolo Martinotti, classe 1946, prima allievo della scuola, poi operaio nell'oreficeria. L'accusa: esposizione a fibre d'amianto. In particolare, contenute in supporti ignifughi utilizzati per le operazioni di saldatura, guanti per movimentare cilindri durante le operazioni di microfusione e guarnizioni di tenuta dei portelli montati su forni. Il gip ha accolto la tesi del pm Michele Di Lecce e dell’avvocato Paolo Cavalli, parte civile per moglie e figlio dell'operaio («Abbiamo preso questa decisione per un dovere morale verso il defunto e cercare di capire che cosa è avvenuto esattamente in fabbrica»). Il ministero dell’Istruzione è citato come responsabile civile a garanzia del risarcimento danni. I difensori degli imputati (Tino Goglino, Giorgio Rosso, Giuseppe Lanzavecchia e Vittorio Spallasso) hanno chiesto il proscioglimento sostenendo, fra l'altro, che all'epoca non era provata la pericolosità dell'amianto, che secondo Ficalbi, oltrettuto, mai fu utilizzato nell'azienda dove si ricorreva a mattoni refrattari e altro. Inoltre Martinotti era disegnatore di modelli. La difesa di Abre poggia sul fatto che al «Cellini» svolse solo funzioni amministrative e la malattia della vittima è insorta, come riferito dai periti, fra il '64 e il '70 quando Abre non era più preside. La causa è nata da una denuncia d'ufficio presentata dopo la morte di Martinotti (aprile 2004); la malattia resta in incubazione anche per 20 anni e solo da poco più di 10 l'amianto è stato messo al bando.

La Stampa 27/01/06

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VIGODARZERE Il giudice del lavoro Caterina Santinello ha condannato la Edilit a pagare i danni alle famiglie Morte per amianto, risarciti due operai La sostanza killer arrivava in azienda in sacchi di carta o di juta e veniva conservata anche nei capannoni

Lavoravano a stretto contatto con l'amianto killer senza maschere protettive o sistemi di aspirazione delle polveri. Il giudice del lavoro Caterina Santinello ha riconosciuto l'esistenza del nesso causale tra le patologie tumorali e le condizioni di lavoro in cui erano costretti ad operare due dipendenti dell'Edilit di Vigodarzere, di proprietà della multinazionale belga Etex. L'azienda è stata condannata a riconoscere cospicui risarcimenti alle due vittime. L'operaia A.S. aveva lavorato per dieci anni - tra il 1973 ed il 1983 - nello stabilimento di via Lungargine Muson come addetta alla sfornatura dei pezzi lavorati, al trasporto della pasta di cemento-amianto e alla rifinitura manuale del prodotto. La donna ha contratto una neoplasia polmonare. Il giudice le ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno biologico e dei danni morali per circa 180 mila euro oltre agli interessi legali. Sorte ancora peggiore è toccata all'operaio L.S., alle dipendenze dell'Edilit per quasi 34 anni (1947-1981) come addetto al reparto produzione. L'uomo è deceduto nel 2001 per mesotelioma. Alla vedova e alla figlia di L.S. sono stati riconosciuti danni per un ammontare complessivo di circa 400 mila euro oltre agli interessi. In entrambi i casi le perizie medico-legali effettuate dal dottor Maurizio Banfi hanno accertato l'esistenza del nesso di causalità tra le malattie e la prolungata esposizione dei due lavoratori ad ingenti quantità di fibre di amianto disperse nell'aria. Il mesotelioma é una patologia purtroppo ricorrente tra gli esposti alla sostanza killer. Si manifesta anche a trent'anni di distanza dal contatto con le polveri. Dagli atti acquisiti durante la causa è emerso come fino all'inizio degli anni Ottanta nessun dipendente fosse dotato di maschere protettive o di dispositivi anti-polvere. L'Edilit non era dotata di sistemi di aspirazione. Non solo. Spesso i sacchi di amianto si rompevano provocando fuoriuscite di notevoli quantità di prodotto. Della pulizia dei locali si occupavano gli stessi dipendenti con scope e ramazze a secco che provocavano un'ulteriore dispersione delle polveri. Nel 2001 gli ex responsabili dello stabilimento Franco e Paolo Salomoni avevano patteggiato davanti al pretore di Padova una pena di dieci mesi di reclusione ciascuno per alcuni decessi e malattie professionali contratte da ex-dipendenti esposti all'amianto . Le cause sono state promosse dall'avvocato Giancarlo Moro. Gli operai si erano rivolti al patronato Inca-Cgil per una tutela sia sul piano previdenziale che sotto l'aspetto del risarcimento. Fino ai primi anni Ottanta all'Edilit, azienda specializzata nella produzione di onduline per tettoie, sifoni, serbatoi e tubi in cemento amianto , non sono state garantite le condizioni minime di igiene e di sicurezza nell'ambiente di lavoro, nonostante fosse notorio almeno da quarant'anni prima che l'amianto è altamente nocivo per la salute umana. Si realizzavano quantità di impasto a base di polvere di amianto , che venivano lavorate, messe in forma, cotte e poi sfornate e rifinite. La sostanza killer arrivava in azienda in sacchi di carta o di juta e veniva stoccata in parte nei locali produttivi ed in parte nel magazzino. Nel 1978 era stato stimato un uso di circa 2400 tonnellate all'anno di amianto .Luca Ingegneri

Il Gazzettino 28/01/06

Cremona, operaio muore schiacciato dal muletto

Un operaio è morto schiacciato dal muletto che stava manovrando per sistemare un carico nella sua azienda di San Giuliano Milanese, in provincia di Cremona. L'uomo, 37

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anni, si stava spostando da un locale all'altro ma non si è accorto di essere in prossimità di un'apertura e ha urtato violentemente contro lo stipite della porta: il muletto si è ribaltato.

Liberazione 28/01/06

Ex nuova Sacelit, 87° morte per l'amianto. Aveva 81 anni

A 38 giorni dall'ultimo decesso, un altro operaio della ex nuova Sacelit, Francesco Saraò, 81 anni, è morto. Aveva trascorso oltre 25 anni nella fabbrica di San Filippo del Mela che produceva eternit trattando amianto e che è stata chiusa nel '93. Saraò è l'ottantasettesimo, da quando l'azienda ha smesso l'attività, dei 214 operanti in fabbrica a morire per cause forse legate alla professione.

Liberazione 29/01/06

Operaio morto sul lavoro, 5 indagati

Primi risultati per le investigazioni sull'incidente di cui rimase vittima, a Casal Boccone, il 12 gennaio scorso, Giorgi Biferi, 53 anni. Nel mirino tre responsabili di ditte, un custode e un assistente del direttore dei lavoriRoma, 31 gennaio 2006 - Ci sono cinque indagati per omicidio colposo in seguito alla morte dell'operaio Giorgi Biferi, 53 anni, ed il ferimento di due romeni, avvenuti il 12 gennaio scorso nel crollo di una parete di terra arenaria in un cantiere di scavi archeologici preventivi in via Casal Boccone, nel quartiere Nomentano.Si tratta, secondo quanto si e' appreso, di tre responsabili di ditte impegnate nei lavori, un custode dell'area ed un assistente del direttore dei lavori. In base a quanto ricostruito dal pm Roberto Cavallone e dalla sezione Ambiente della procura, i tre operai stavano lavorando in una zona di 12 ettari nella quale erano state realizzate delle trincee di grandi dimensioni alla ricerca di eventuali reperti archeologici. I lavori servivano per destinare l'area ad una attività industriale. I sopralluoghi eseguiti dalla magistratura hanno portato alla scoperta della totale assenza di 'sbatacciatore', ossia di protezioni laterali che impediscono il crollo della terra. Tutte le ditte operanti fanno riferimento ad un unico gruppo e gli accertamenti dell' autorità giudiziaria fanno riferimento anche le modalità di assunzione e di impiego degli operai.Biferi, insieme gli altri due colleghi romeni, rimase sommerso da una parete di terra in una buca di 4 metri di profondità.

http://redazione.romaone.it 31/01/06