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K—01 ambiente analogico/digitale funzione linguaggio post-digitale storia In questo capitolo: — Le avanguardie — La deriva situazionista e il détournement — Controcultura, punk e post-modernismo — Copy art — Mail art — Net art USO SPERI- MENTALE DEI MEDIA NELLA STORIA by Grazia Dammacco data di creazione 21/01/16 19:13 ultima modifica 15/02/16 11:45 capitoli / parte complementare http://www.postdigitaltribe.org/dt/2015/06/15/uso-sperimentale-dei-media/ tribù/società

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K—01

ambiente analogico/digitale funzione linguaggio post-digitale storia

In questo capitolo:

— Le avanguardie— La deriva situazionista e il détournement— Controcultura, punk e post-modernismo— Copy art — Mail art— Net art

U S O S P E R I -M E N TA L E D E I M E D I A N E L L A S T O R I Aby Grazia Dammaccodata di creazione 21/01/16 19:13ultima modifica 15/02/16 11:45

c a p i t o l i / p a r t e c o m p l e m e n t a r e

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I l r ipensamento cri t ico dei media e le prat iche di appropriazione, così come i processi di r imedia-zione e di combinazione di me-dia, sono f igl i del le precedenti sperimentazioni storiche. La sto-r ia ci regala diverse notevol i an-t icipazioni r iguardo l ’ut i l izzo non convenzionale del le tecnologie. Inizialmente l ’approccio è stato quel lo del la sperimentazione — sempre più spinta — piuttosto che un vero e proprio uso improprio del medium. Questo processo è legato inizialmente al l ʼuso del-la stampa per diffondere idee di dissenso pol i t ico, sociale e cul-turale, dando avvio a movimenti

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artistici e di protesta. Il modo in cui le pubblicazioni vengono realizzate — in particolare le riviste — diventa così inconsueto, perché questo medium viene ora impiegato non più come portavoce della società contemporanea, ma al fine di distribuire contenuti differenti o di opposizione alla società dominante.

L E AVA N -G U A R D I E

I movimenti artistici d’avanguardia del Novecento nascono con l’intento di cambiare la società, il mondo del progresso e dello sviluppo dell’industria. Tutti questi movimenti — differenti per ideologie — hanno un elemento in comune: l’uso della stampa per la diffusione delle proprie idee, e l’utilizzo dei media al fine di rivoluzionare l’ordine esistente. Il Futurismo, con il suo intento di staccarsi da ogni forma di passatismo e di cultura tradizionale, fa esplodere il proprio pensiero con una tipografia visiva ed espressiva. Nel 1913 Giovanni Papini e Ardengo Soffici fondano “Lacerba”, la cui missione è di distruggere la cultura. Nella rivista la tipografia si fa portavoce del cambiamento, della rottura, della distruzione e dell’esplosione. Nel 1915 Marinetti pubblica “Parole in Libertà”, una pubblicazione in formato mini-tabloid realizzata per “I paroliberi Futuristi”, una serie di manifesti futuristi che sarebbero dovuti uscire regolarmente. “Parole in libertà” contiene una serie di esempi di scritti futuristi che identificano uno stile grafico/letterario in cui vengono sfidati i limiti della stampa litografica in bianco e nero. Le lettere sono disposte liberamente nella pagina, in diagonale o ricurve, a dimensioni diverse. Viene eliminata la sintassi, la punteggiatura, la simmetria, le lettere diventano giochi di parole, onomatopee che evocano i rumori delle macchine, i suoni delle battaglie, delle città.

Anche il movimento Dada fa largo utilizzo di materiale stampato, pubblicando varie riviste, tra le quali “Dada”, fondata a Zurigo da Tristan Tzara nel 1917. Dada nasce come movimento non-sense anti-arte, come un amalgama di idee provenienti da gruppi di persone partite da Zurigo e New York. Ma il significato di Dada è indefinito e le sue intenzioni cambiano da persona a persona, da gruppo a gruppo. Il movimento si sviluppa inizialmente attorno a Cabaret Voltaire (Zurigo) aperto nel 1916 da

Hugo Ball. Lì molti si esibiscono come atto di liberazione dalle intossicazioni della società, per liberarsi da ogni forma di orrore della guerra tramite la musica, la poesia, l’arte, la performance. A Cabaret Voltaire viene attaccato il buon senso comune, l’opinione pubblica, l’educazione, le istituzioni,i musei, tutto ciò che fa parte dell’ordine prevalente. Attraverso le sue pubblicazioni Dada vuole attaccare le convenzioni della pagina stampata e rompere l’ordine sequenziale della linea di testo, andando così a trasformare radicalmente l’ordine classico, il bilanciamento e l’equilibrio della composizione razionale della pagina. I dadaisti rigettano anche il desiderio di esprimere un’idea tramite l’uso della tipografia, e se proprio si vuole stabilire un senso, lo si può cercare tra le lettere, tra le parole, deve essere costruito tra un marasma di elementi non-sense. Le riviste dadaiste — nate quindi con l’obiettivo di diffondere le idee e i princìpi generali del movimento — possono considerarsi le antenate delle zine perché sono molto spesso effimere — in quanto pubblicate in uno o pochi numeri — e sfidavano le convenzioni giornalistiche dell’epoca, utilizzandola stampa in modo sperimentale. La grafica diqueste riviste rispecchia le idee rivoluzionariee anticapitaliste, nichiliste, portando al limite le possibilità tecniche della stampa.

Anche i dadaisti, come i futuristi, sperimentano le possibilità della macchina da stampa utilizzando diverse dimensioni di carattere, integrando linee

Filippo Tommaso Marinetti, “Parole in Libertà”, 1915

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ed altri elementi per separare i contenuti grafici. Iniziano a creare anche fotomontaggi e collage, rompendo con le regole tradizionali di impaginazione e riappropriandosi del proprio contenuto in maniera totalmente libera ed espressiva, spesso con lettere o parole disposte alla rinfusa, parole prive di senso. La tipografia non-sense riprende così la società dell’epoca, la stessa che ha portato alla guerra, priva di senso logico. Anche la freddezza spesso presente nei lavori dadaisti è un eco della società contemporanea, quella della macchina. A differenza dei futuristi però, non viene espresso l’ottimismo per il presente e l’attesa ansiosa del futuro, ma qui la macchina, l’automa, è diventata già parte del nostro mondo. Bisogna fornire una rappresentazione logica, la pittura diventa così non adatta alla

rappresentazione di un dato impersonale, e Duchamp predica l’anonimato tramite i ready-made. Un aspetto interessante è che tutte le tecniche dada nascono sotto il segno dell’alea dell’artista, dell’imprevedibilità. Qui la novità è che il medium e la tecnica non vengono scelti per un motivo legato al significato del medium stesso, ma perché esso serve per dire delle cose o per negarne altre. Nel 1920 Schwitters afferma che il medium è poco importante, quello che conta è la possibilità di formare attraverso la materia:

«Poichè il mezzo non conta, io prendo ogni e qualsiasi materiale che può essere richiesto dal quadro». [ “Dada”, http://www.treccani.it/enciclopedia/dada_(Enciclopedia-del-Novecento)/, ultima consultazione 2015 ]

Ed è quello che fa, ad esempio, nei suoi

“Merz”. Così, Ernst realizza collage e frottage, Man Ray gli “Oggetti d’affezione” — vicini ai ready-made, intitolati con giochi di parole — e Duchamp, appunto, i ready-made. Significativi sono i rayograph inventati da Man Ray, ovvero fotografie ottenute appoggiando oggetti sulla carta fotosensibile e poi esposti alla luce per qualche istante. In questo modo l’artista ottiene fotografie senza l’uso della macchina fotografica, stampando le ombre degli oggetti direttamente sulla carta, definendo un nuovo metodo ed un uso sperimentale dei mezzi a disposizione.

Altro esempio che potrebbe essere definito come nuovo mezzo espressivo sviluppato dai dadaisti è quello della “poesia fonetica”. La scoperta di questo tipo di poesia è da attribuire a Hausmann, ma la prima

Tristan Tzara, “Bulletin Dada” n.6, 1920, retro cover

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raccolta importante è di Schwitters, l’“Ursonate”. La recitazione di parole e suoni privi di senso, rievoca la libera composizione tipografica di matrice futurista.

Man Ray, Rayographs, 1922 circa

“Kurt Schwitters - Ursonate”, https://www.youtube.com/watch?v=6X7E2i0KMqM, pubblicato da Laurent Cournoyer il 24 ottobre 2010

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I primi decenni del Novecento sono anni di forte innovazione, e mentre da una parte vediamo la spinta alla sperimentazione, da un altro versante si cerca di stabilire una regola per la composizione visiva. Negli anni Venti Moholy Nagy parla di “typophoto”, concetto di sintesi tra tipografia e fotografia, che diventerà il medium centrale del graphic design:

«What is typophoto? Typography is communication composed in type. Photography is the visual presentation of what can be optically apprehended. Typophoto is the visually most exact rendering of communication».[“László Moholy-Nagy”, http://www.iconofgraphics.com/laszlo-moholy-nagy/, ultima consultazione 2015]

Diverse sono le pubblicazioni che sperimentano l’uso della fotografia e della tipografia, come “Lef” (1923) che poi diventa “Novyj Lef” (1927), rivista d’avanguardia sovietica. La rivista viene fondata da Majakovskij con la volontà di diffondere un tipo di arte che si opponesse al passato imperiale e alla cultura capitalista. Rodchenko lavora alla rivista soprattutto utilizzando la fotografia — come ripresa del dato oggettivo — combinata alla tipografia, secondo una funzione sia iconica che narrativa. A sperimentare la tecnica del typophoto ci saranno anche altre riviste, tra le quali la ceca “Zijeme” (1931), in cui Sutnar crea fotomontaggi ritagliando le foto in silouette che poi vengono ridimensionate in modo da creare un senso di profondità, e combinandole poi con la tipografia, come se quest’ultima facesseparte della composizione fotografica, quindi anchedella realtà fisica.

L A D E R I VA S I T U A Z I O -N I S TA E I L D É T O U R N E -M E N T

Dagli anni Cinquanta ci sarà un altro gruppo che si occuperà di proseguire le sperimentazioni dadaiste e di creare nuove forme di comunicazione: l’Internazionale Situazionista, nato dalla fusione di due piccoli gruppi, l’Internazionela Lettrista (1952-

57) — guidato da Guy Debord, poi teorico principale dell’IS — e il Bauhaus Immaginista (1954-57) — guidato da Asger Jorn, poi artista principale dell’IS. Il Bauhaus immaginista deriva da un altro gruppo, Cobra (1948-51), acronimo di Copenhagen, Bruxelles e Amsterdam, le città dei vari membri. Questi gruppi, così come molti altri, si sono sviluppati nel secondo dopoguerra e condividono alcuni ideali, evidenti soprattutto nei legami con Surrealismo e Marxismo.

L’Internazionale Situazionista nasce su questo terreno nel 1957 — e rimane attivo fino al 1972 circa — per opera del francese Guy Debord. Viene criticata la nuova società dei consumi, sostenendo che all’interno di questa cultura si sia sviluppato uno “spettacolo” che nega la nostra vera vita e che ha trasformato la nostra stessa alienazione in merci di consumo. Secondo Jorn gli artisti sperimentali devono impossessarsi degli strumenti industriali, ma devono assoggettarli ai loro fini non utilitari, perciò il gruppo si concentra molto sulla sperimentazione dei nuovi materiali in pittura e ceramica. Jorn rifiuta la proposta di Max Bill di fondare una nuova Bauhaus nel 1953, in quanto la sua idea di Bauhaus è sperimentale, non tecnocratica, perciò con questo spirito fonda il Bauhaus Immaginista. Ma il movimento non dura molto, e ben presto i suoi esponenti incontrano quelli dell’Internazionale Lettrista, dando vita alla coalizione. L’Internazionale Lettrista deriva invece dal Gruppo Lettrista, influenzato a sua volta dal Dadaismo. I lettristi mettono in scena azioni per scandalizzare i borghesi e spingono la scomposizione dadaista della parola e dell’immagine ancora più avanti, in poesie che distruggono la lingua e in collage che mescolano frammenti visivi e verbali.

Allʼinterno dellʼInternazionale Situazionista, i membri portano avanti alcune idee lettriste e riformulano la loro poetica secondo un neomarxismo impegnato nella “critica della vita quotidiana” — secondo le idee del sociologo marxista Henri Lefebvre — attraverso la costruzione di “situazioni” sovversive — derivanti da Jean-Paul Sartre. Il loro intento è quello di portare avanti la lotta di classe attraverso la “battaglia del tempo libero”. Diversi dissidi ideologici interni al gruppo portano ad uno scisma nel 1962, tuttavia si può dire che fino al 1972 il gruppo prosegue con l’attivismo politico, anche grazie alle lotte politiche che si sviluppano dagli anni Sessanta. Nel 1966 l’IS viene coinvolto nella prima rivolta degli studenti francesi all’università di Strasburgo, ispirata ad un pamphlet situazionista “Della miseria dell’ambiente studentesco” di Mustapha Khayati. Altre pubblicazioni

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di critica al capitalismo che hanno influenzato le rivolte sono il “Manuale del saper vivere ad uso delle giovani generazioni” di Raoul Vaneigem e “La società dello spettacolo” di Debord, entrambe pubblicate nel 1967.

“La società dello spettacolo” raccoglie le analisi della cultura capitalista già sviluppate dall’Internazionale Lettrista, in cui si citano o elaborano, contestualizzandole ai nostri tempi, le teorie di Marx, György Lukács, Sartre e Lefebvre. Debord analizza i primi progressi di questa società capitalista rivolta al consumo di massa, informando Marx sugli effetti feticisti della merce e Lukács sugli effetti della frammentazione della produzione di massa:

«Con la divisione generalizzata del lavoratore e del suo prodotto, si perde ogni punto di vista unitariodell’attività svolta, si perde ogni comunicazione personale diretta tra i produttori. Seguendo il progresso dell’accumulazione dei prodotti divisi e della concentrazione del processo produttivo, l’unità e la comunicazione divengono attributo esclusivo del processo produttivo, l’unità e la comunicazione divengono attributo esclusivo del sistema. Il successo del sistema economico della separazione è la proletarizzazione del mondo. […] L’origine dello spettacolo è la perdita dell’unità del mondo».[Debord Guy, “La société du spectacle”, Buchet/Chastelm, Parigi, 1967]

Debord definisce la società di massa — del mercato, dei media e della cultura — come “spettacolo”, afferma che in questa società ormai preferiamo l’immagine alla cosa reale, la copia all’originale, la rappresentazione, l’apparenza dell’essere. Così l’illusione diventa realtà, e la realtà, tutto ciò che è direttamente vissuto, si allontana in una rappresentazione. Lo spettacolo è così non semplicemente un insieme di immagini, ma è identificato come il rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini. Lo spettacolo riprende la realtà, ma nella sua rappresentazione la falsifica, così, nel mondo falsamente rovesciato, il vero, piuttosto che essere vissuto, diventa un momento del falso. Il carattere fondamentale dello spettacolo è che utilizza gli stessi mezzi che sarebbero poi i suoi scopi, primi fra tutti il consumo e l’apparenza. Lo spettacolo diventa, nel mondo dei consumi, ciò che è stata la religione per lungo tempo: narrando la sua storia attraverso le immagini, ci fornisce un’illusione entro la quale viviamo e che consideriamo reale, più reale della nostra stessa

esistenza. Il credo religioso viene ora ridotto ad un credo materialista, più terreno. Lo spettacolo produce isolamento grazie ai mezzi stessi che utilizza:

«Dall’automobile alla televisione, tutti i beni selezionati dal sistema spettacolare sono anche le sue armi per il rafforzamento costante delle condizioni d’isolamento delle “folle solitarie”. Lo spettacolo ritrova sempre più concretamente i propri presupposti. […] L’alienazione dello spettatore a vantaggio dell’oggetto contemplato (che è il risultato della propria attività incosciente) si esprime così: più esso contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio. […] Il lavoratore non produce più se stesso, egli produce una potenza indipendente. Il successo di questa produzione, la sua abbondanza, ritorna al produttore come abbondanza dell’espropriazione».[Debord Guy, “La société...”, op. cit.]

In questo modo tutto il mondo diventa per il lavoratore un insieme di immagini estranee, perché è formato da un accumulo di prodotti alienati, che non riconosce come propri:

«Lo spettacolo della società corrisponde a una fabbricazione concreta dell’alienazione. […] L’uomo separato dal proprio prodotto sempre più potentemente produce esso stesso tutti i dettagli del proprio mondo. Quanto più la vita è ora il suo prodotto, tanto più è separata dalla propria vita. Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine».[Debord Guy, “La société...”, op. cit.]

Sulla base di queste fondamentali idee esposte da Debord nel suo libro, si sviluppa il pensiero situazionista. L’IS elabora quattro strategie principali per riflettere la propria filosofia: la deriva, la psico-geografia, l’urbanismo unitario e il détournement. La deriva è intesa come un rapporto sovversivo con la vita quotidiana nella città capitalista, nella quale il situazionista passa il suo tempo libero, ovvero l’altra faccia del lavoro alienato. Dalla deriva può risultare una psico-geografia, ovvero uno studio degli effetti che un ambiente geografico specifico può avere sulle emozioni e sui comportamenti individuali. Un esempio fornito da Debord in tal senso è “The Naked City” (1957), consistente in una mappa di Parigi sezionata in diciannove parti secondo un ipotetico itinerario:

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«Le frecce rappresentano delle pendenze che collegano naturalmente le differenti unità ambientali; vale a dire le tendenze spontanee di orientamento di un soggetto che attraversa questo ambiente senza tener conto delle concatenazioni pratiche — per dei fini lavorativi o di svago — che condizionano abitualmente la sua condotta».[Autori vari, introduzione di Salaris Claudia, “La rivoluzione tipografica”, Sylvestre Bonnard, Milano, 2001]

La deriva e la psico-geografia portano all’urbanismo unitario, ovvero all’uso combinato delle arti e delle tecniche per la costruzione integrale di un ambientesecondo un rapporto dinamico, attraverso esperimenti di comportamento [ ibridazione ambiente ]. Un’esempio importante è il progetto “New Babilonia” (1956-1974) di Constant, che definisce un’idea di progettazione urbana proponendo megastrutture high-tech in varie città europee, che possono essere trasformate a piacere dai residenti. Il progetto si presenta come un’utopica città anti-capitalista, in cui vengono create forme alternative di esperienze di vita, ovvero “situazioni”. Inizialmente chiamata “Deriveville”, è stata pensata come una deriva continua degli abitanti su scala mondiale, non valida solo per le ore di tempo libero, ma parte di un progetto di vita globale. Questa

città non genera alcune rendita economica, non è soggetta al giudizio del mondo dell’arte o di una commissione urbanistica comunale. Per quasi vent’anni Constant ha realizzato modelli in scala, disegni e collage del progetto, il cui cuore è il concetto di proprietà collettiva, in cui il lavoro è svolto dalle macchine e l’uomo ha la libertà di utilizzare il proprio tempo per attività creative.

La deriva fa parte di un’attitudine alla sovversione di

chi esplora la città, non semplicemente al modo dei flâneries surrealisti. L’atto del camminare, indagato dai surrealisti, si sviluppa in opposizione allo sviluppo della società industriale, in cui il camminare è rilegato come atto necessario: camminare per andare a lavoro, per andare a comprare. Inoltre la crescente disponibilità di mezzi di trasporto e l’espanzione dei tessuti urbani, ha reso la camminata un’esperienza sempre meno frequente. In questo mondo l’uomo ha perso il contatto diretto con la propria città, è ormai estraniato dallo spazio in cui vive. Per queste ragioni nasce la figura del flâneur, l’esploratore urbano, che cammina per la città abbandonandosi senza controllo alla complessità del tessuto urbano, tra palazzi, strade, monumenti, in mezzo alla folla. Prima dei surrealisti già i dadaisti, negli anni Venti a Parigi, decidono di compiere un’escursione

Guy Debord, “The Naked City”, 1958

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nella città “banale”, ordinaria. I dadaisti vogliono connettere arte e vita, e organizzano nella città letture, azioni improvvisate, distribuzione di doni e coinvolgimento dei passati in attività. Nel suo testo “Teoria della deriva” (1956), Debord si preoccupa di stabilire fin dall’inizio la distinzione tra dadaisti e flâneries:

«Tra le diverse norme situazioniste, la deriva si definisce come tecnica di passaggio prematuro attraverso vari ambienti. Il concetto di deriva è indissolubilmente legato al riconoscimento degli effetti della natura psicogeografica e all’affermazione di un comportamento ludico-creativo, cosa che si oppone totalmente alle nozioni classiche di viaggio e passeggiata».[Debord Guy, “Théorie de la dérive”, “Les Lèvres nues”, 1956, n.9, Bruxelles]

Quindi non c’è semplice contemplazione, inattività, godimento estetico della città, ma i situazionisti compiono degli sforzi per uscire dalla contemplazione organizzata — dallo “spettacolo” — per realizzare il contenuto stesso che l’arte si limita a guardare impotente. La città diventa un territorio in cui si può intervenire attivamente.

Constant, ad esempio, lavora ad una serie di dipinti, disegni e modelli architettonici che descrivono

la forma della nuova società post-rivoluzionaria. Le strutture sarebbero abitate dall’Homo Ludens — “Homo Ludens” (1938) è anche il titolo di un libro dello storico tedesco Johan Huizinga — e le regole della borghesia legate al lavoro, alla famiglia, alle responsabilità civiche sono trasformate radicalmente. L’individuo è ora libero e vaga nella città per divertirsi, per provare nuove sensazioni, per creare, mangiare, dormire, procreare, auto-realizzarsi e auto-soddisfarsi. Secondo Constant l’architettura può trasformare la realtà quotidiana, perché capace di rispondere alle esigenze dell’Homo Ludens, può facilitare il suo bisogno di mobilità, di divertimento, incrementando la creatività generalizzata, all’interno di una nuova società non più comandata dall’orologio e dall’imperativo di una fissa dimora.

La “deriva” si colloca così all’interno dell’esperienza del primo surrealismo che intende inventare un nuovo modo di vivere il quotidiano, anziché produrre semplicemente oggetti artistici. Per Debord e gli altri del gruppo la deriva diventa un modello di vita permanente, che può durare anche più giorni o un’intera vita, e non essere semplice esplorazione temporanea della città. I deriveurs sono pronti ad attaccare, ad attuare una trasformazione, rivelando quindi un atteggiamento aggressivo con il mondo circostante. Qui l’aspetto più poetico e magico della scoperta surrealista della città è meno importante,

Constant Anton Nieuwenhuys, “New Babylon”, (1956-1974), Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía (esposizione a Madrid, ottobre 2015-febbraio 2016)

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bisogna agire materialmente per cambiare la società, cambiando l’ambiente — e quindi gli uomini — attraverso “situazioni”. Debord parla di “un’etica della deriva”, che non è quindi né “un’esperienza estetica” né una “tecnica” applicabile ad ogni contesto. Alcune città si prestano meglio di altre alla deriva, altre invece, magari prive di una importante storia e memoria, risultano inappropriate. Non volendo essere definita come azione artistica, nel 1962 Debord sancisce definitivamente la rottura dell’Internazionale Situazionista con ogni pratica artistica. Più che pratica artistica, quella situazionista si pone come introduzione dell’arte stessa nella vita quotidiana, in ambienti stimolanti: è l’incontro tra lʼ‟avventura” — più prossima allo spirito surrealista — e la scienza, con osservazioni sistematiche delle città e la realizzazione di piani psicogeografici. L’uso di sostanze come l’alcool inoltre, permette ai deriveurs di mettersi nella giusta prospettiva e predisposizione d’animo, affrontando un’avventura non puramente casuale, ma costruita seguendo i propri sensi e i propri desideri. Una deriva quindi non è identificabile con un semplice vagabondare, ma con una interpretazione degli spazi e dei simboli urbani, che porta a sua volta verso un’altra importante pratica situazionista: il détournement. Questo processo viene definito come:

«L’integrazione della produzione artistica presente o passata nella costruzione superiore di un ambiente».[Bois Yve-Alain, Buchloh Benjamin H., Foster Hal, Joselit David, Krauss Rosalind, “Arte dal 1900. Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo”, seconda edizione, Zanichelli, 2013]

Il détournement trae origine dai collages dadaisti e surrealisti. Détourner significa “deviare”, perciò immagini e testi preesistenti vengono riutilizzati nel presente ma sovvertendone il senso, con l’obiettivo di una svalutazione o rivalutazione dell’elemento deviato. Il primo numero di “Internazionale Situationniste” del giugno 1959 dichiara:

«Non ci possono essere pittura o musica situazioniste ma solo un uso situazionista di questi mezzi».[“Internazionale Situationniste”, giugno 1959, n.1]

I media vengono quindi completamente sovvertiti, ribaltati, per esprimere un significato altro, secondo una doppia azione: viene esposta la natura ideologica di un’immagine mass-mediale o il suo statuto non funzionale e poi la si rende nuovamente funzionale usandola per scopi politici o critici.

Diversi sono i media deviati: immagini e testi, film, fumetti. La prima collaborazione tra Jorn e Debord è rappresentata dal libro “Fin de Copenhague” (1957), in una pagina si legge:

«What do you want? Better and cheaper food? Lots of new clothes? A dream home with all the latest comforts and labour saving devices? A new car... a motor launch... a light aircraft of your own? Whatever you want, it’s coming your way — plus greater leisure for enjoying it all. With electronics, automation and nuclear energy, we are entering on the new Industrial Revolution which will supply our every need, easily... quickly... cheaply... abundantly».[Debord Guy, Jorn Asger, “Fin de Copenhague”, Edition Allia, Parigi, 1957]

In questo libro Debord collabora come consigliere tecnico per il détournement: ritagli di stampa e di romanzi, pubblicità, avvisi, segni e colate di inchiostro, fumetti, slogan e parole formano delle composizioni libere in cui ogni elemento è estrapolato dal suo contesto originale. Viene ritrovato il senso perduto dei simboli della società, oppure ne vengono trovati di nuovi, e spesso i simboli stessi vengono messi in ridicolo. [Per approfondimenti: http://designobserver.com/article.php?id=37720].

“Mémoires” (1959) è un altro libro realizzato da Jorn e Debord. Lʼopera è un esempio di psico-geografia, realizzato in un periodo particolare della vita di Debord, in cui stava lasciando i lettristi e creando l’Internazionale Lettrista. L’opera è divisa in tre parti: “Giugno 1952”, che inizia con una citaziona di Marx, “Dicembre 1952”, che cita Hiuzinga e “Settembre 1953”, che riprende Soubise. Il libro contiene due livelli separati, distinguibili per l’uso di colori diversi. Il primo è stampato con inchiostro nero e riproduce testi e grafica presi da giornali, mappe di Londra o Parigi, illustrazioni di conflitti. Il secondo livello è stampato a colori spruzzati, macchie che abitano le pagine e che collegano testi e immagini oppure li coprono. Altre pagine riguardano il processo della deriva, mentre il détournement viene utilizzato per spiazzare il lettore, creando accostamenti inaspettati. Un’elemento interessante è la copertina,Jorn infatti, spinto dal desiderio di utilizzare un materiale particolare che gli permettesse di capire se le persone avessero tenuto in mano il libro, realizza la cover in carta vetrata.

Un altro momento per il détournement è rappresentato dalle “modificazioni” di Jorn. L’artista riprende dei quadri kitsch da mercatini — soprattutto con scene di paesaggi e vedute urbane

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— e li modifica tracciando nuovi segni, gesti espressionisti, primitivi e astratti. Secondo alcuni le modificazioni nascono come modo per rivalutare i generi tradizionali che sono stati etichettati come kitsch, per farli rivivere ora come opere contemporanee. Secondo altri invece, trattandosi di segni che rimandano alle avanguardie artistiche, il senso delle modifiche sarebbe quello di giudicare adesso anche le avanguardie stesse come passate, kitsch, appunto. Ma in “Paris by night” (1959) — in cui un borghese affacciato ad un balcone osserva la città — la sovrapittura gestuale di Jorn sembra in realtà conferire maggiore intensità e concentrazione

al quadro, introducendo nella scena l’Espressionismo astratto e la cultura del dopoguerra. Qui il kitsch originario e il gesto d’avanguardia si annullano a vicenda perché sono storicizzati, non più contemporanei, così viene eliminata la distanza critica con cui lo spettatore giudica l’uno o l’altro stile. Ma il modo migliore per comprendere le modificazioni di Jorn è leggere le sue parole, tratte da una dichiarazione sul catalogo che accompagnava la sua mostra di “Modificazioni” del 1959:

«La pittura è finita. Puoi darle il colpo di grazia. Appropriatene e deviala. Lunga vita alla pittura».[“Asger Jorn”, https://en.wikiquote.org/wiki/Asger_Jorn, ultima consultazione 2015]

La pittura può continuare a vivere, ma non come categoria ideale, piuttosto come un cadavere materialista che si decompone, e lo fa in maniera

sovversiva, accumulando i gesti e i segni che si sviluppano nel corso della sua esistenza. Nel 1962 — periodo di rottura dell’IS — Jorn realizza un gruppo di modificazioni dette “nuove sfigurazioni”, consistenti soprattutto in ritratti sfigurati da scarabocchi.In “L’avant-garde ne se rend pas” (L’avanguardia non si arrende) (1962) una ragazzina che sembra vestita per la sua comunione, ha in mano una corda per saltare, e Jorn le disegna dei baffi e il pizzetto, così come Duchamp aveva fatto con la “Gioconda” nel 1919. Infatti Debord sostiene che da quando la negazione della concezione borghese dell’arte e del genio artistico è diventata antiquata, il disegno di un

Asger Jorn e Guy Debord, “Mémoires”, 1959

Guy Debord , Asger Jorn , “Fin de Copenhague”, 1957

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paio di baffi sulla “Gioconda” non è più interessante della versione originale di quel quadro. In pratica la negazione di arte annunciata dalle avanguardie, è ora

diventata arte, e perciò le avanguardie dovrebbero arrendersi.

I l d é t o u r n e m e n t n e l c i n e m a

Un esempio importante di détournement sono i sei film realizzati da Debord dal 1952 al 1978, per la maggior parte utilizzando fotografie, pubblicità, clip e spezzoni di film, testi e suoni rubati. Debord inizia dapprima con una forte sperimentazione audio-visiva in “Hurlements en faveur de Sade” (1952): qui non ci sono immagini, ma solo schermo bianco quando c’è la voce e schermo nero quando c’è silenzio. Il film dura sessantaquattro minuti, le sequenze bianche non superano i venti minuti mentre quelle nere arrivano anche a quaranta minuti. Lunghi silenzi intercorrono tra le parti parlate, e il film termina con ventiquattro minuti di buio silenzio. I discorsi sono tratti da varie fonti: il codice civile e romanzi di altri autori, che in sé hanno significato ma montati tra loro danno forma ad una narrazione non-lineare. Si tratta di esercizi sul positivo/negativo, ma soprattutto è un lavoro che fa da eco alle parole stesse di Debord quando afferma che il cinema è morto. La percezione del montaggio e quindi dell’esperienza di discontinuità nella visione, viene accentuata dall’alternarsi di lunghe sequenze in cui lo schermo è bianco o nero.

Ma il détournement delle immagini della società contemporanea viene ampliamente attuato nel film “La Société du spectacle” del 1973, tratto dal libro scritto dallo stesso Debord nel 1967. Nel film viene recitato in parte il testo del libro, montato su immagini di film di vari registi, e così Debord decide di fare un nuovo cinema partendo dalle immagini stesse del cinema già fatto. Lo spettacolo capitalista che nega la vita viene così rovesciato a sua volta, riutilizzandone le immagini ora decontestualizate, in cui si riconosce lo stato di alienazione in cui viviamo. Debord non giustappone a caso degli elementi incongrui, ma sviluppa una critica coerente sul mondo esistente allo scopo di indurre nello spettatore delle riflessioni lucide riguardo le tendenze e le contraddizioni della società in cui viviamo. Non solo descrive la società attuale in cui vive, ma le sue parole diventano attuali anche oggi, e sembra ben consapevole di questa sua premonizione:

«Dal primo momento, ho trovato giusto dedicarmi al rovesciamento della società, ed ho agito di conseguenza. Ho preso questo partito in un momento in cui quasi tutti credevano che l’infamia

Asger Jorn ,”Paris by night”, 1959

Asger Jorn , “L’avant-garde ne se rend pas”, 1962

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esistente, nella sua versione borghese o nella sua versione burocratica, avesse il più roseo futuro. E da allora, non ho, come gli altri, mutato avviso una o più volte, con il cambiare dei tempi; sono piuttosto i tempi che sono cambiati secondo le mie idee. Vi è in questo di che dispiacere ai contemporanei».[Debord Guy, “Guy Debord: Complete Cinematic Works: Scripts, Stills, Documents”, AK Press, Oakland (CA), 2003]

Debord riutilizza elementi contenenti in sé la propria critica e il proprio superamento, al fine di condurre il cinema verso un nuovo dominio di natura critico-sociale. Attraverso l’uso del détournement il cinema diventa quindi un mezzo di propaganda, che ha l’obiettivo di combattere la società attraverso le immagini che la rappresentano, come un processo di auto-denuncia non voluta. Accostando frammenti che derivano da opere diverse, se ne nega il

“Hurlements en faveur de Sade - Guy Debord - 1952”, https://www.youtube.com/watch?v=oZBKgYgc7mw, pubblicato da D. A. F. de SADE. il 22 ottobre 2006

“La Société du Spectacle / Society of the Spectacle by Guy Debord part 1”, https://www.youtube.com/watch?v=UqUXJM2t7IM, pubblicato da https://www.youtube.com/watch?v=UqUXJM2t7IM il 18 febbraio 2013

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significato originario, oppure questo viene ampliato o negato per associazione ad un altro elemento. Come già accennato il collage, reso famoso dal cubismo e in seguito dalle altre avanguardie, diventa un primo esempio di détournement: indica lo spostamento, l’infedeltà dell’elemento, in quanto gli elementi presi da ritagli di giornali, fumetti, libri, vengono accostati tra loro per generare un senso nuovo. Il détournement è dominato perciò dal processo di devalorizzazione-rivalorizzazione dell’elemento, in cui difatti viene ribaltato il ribaltamento della vita: vengono espropriati gli espropriatori, attraverso l’appropriazione delle immagini della “società dello spettacolo”. Con l’obiettivo di smascherare la menzogna dello spettacolo, Debord libera anche le immagini spettacolari che la rappresentano, grazie al détournement unito al commento che attinge al libro dall’omonimo titolo. Debord rivendica il già avvenuto — sul quale non abbiamo alcuna possibilità di intervento — ma che siamo sottoposti a rivedere, e a vedere in un montaggio nuovo, che mette insieme immagini mai accostate insieme in quel modo accompagnate da un pensiero che le rinnega. Tutto questo ci spinge inevitabilmente a pensare, e per Debord il cinema diventa perciò un modo per:

«Proiettare la potenza e la possibilità verso ciò che è per definizione impossibile, verso il passato».[Laura Polluzzi, “Guy Debord: il détournement come metodo compositivo”, http://www.effettonotteonline.com/news/index.php?option=com_content&task=view&id=1523&Itemid=67, ultima consultazione 2015]

Il compito dello spettatore diventa impegnativo, infatti egli deve riuscire a comprendere sia il significato dell’immagine originaria e quello del pensiero espresso dalle parole, che comprendere il nuovo messaggio che scaturisce dal loro incontro. Fidel Castro intento a parlare di fronte alle telecamere e poi davanti ad una folla viene associato a:

«Là dove il mondo reale si muta in semplici immagini, le semplici immagini diventano esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico».[Debord Guy, “Guy Debord: Complete..., op. cit. ]

Il discorso sul feticismo della merce viene affiancato da pubblicità con ragazze in costume da bagno, mentre come esempi di vedette spettacolari Debordmostra i Beatles, François Mitterrand e Marilyn Monroe. La falsa lotta spettacolare delle forme apparentemente rivali del potere è invece rappresentata da una scena in cui Nixon visita Mao

Tse-tung. La definizione di potere a spettacolare concentrato viene associata a Hitler, mentre quella di potere a spettacolare diffuso ad una serie di sequenze di merci pronte per essere messe sul mercato. Ma Debord sa che il suo appello è un appello rivolto ad un popolo che non esiste, il quale non è intenzionato a liberarsi dalla propria condizione di consumatore e lavoratore, e come scrive Deleuze:

«Se esistesse un cinema politico moderno, si fonderebbe su questa base: il popolo non esiste più, o non ancora… il popolo manca. […] per questa ragione l’arte cinematografica, deve partecipare a questo compito: non rivolgersi a un popolo presupposto, che c’è già, ma contribuire all’invenzione di un popolo».[Laura Polluzzi, “Guy Debord...”, op. cit.]

Guarda il film completo “La Société du spectacle”: https://www.youtube.com/watch?v=IaHMgToJIjA.

C O N T R O -C U LT U R A , P U N K E P O S T- M O -D E R N I S M O

Tutte le riflessioni introdotte dall’Internazionale Situazionista, in particolare il rifiuto e la critica alla società e il détournement, vanno ad influenzare profondamente i movimenti di protesta che si sviluppano dai tardi anni Sessanta in poi. Questi gruppi diffondono le loro idee principalmente attraverso le riviste underground, che diventano territorio fertile per una forte sperimentazione nell’uso dei media.

Anche se esplodono effettivamente dagli anni Sessanta, questi movimenti iniziano a sedimentarsi, lentamente, già dopo il 1945, indirizzati come sono contro la cultura di massa o popolare, in particolare contro la loro natura plastificata e non autentica. Si tratta di una cultura effimera, sostitutiva delle emozioni reali e della vera vita, dominata dalle star hollywoodiane e dai nuovi cantanti — primo tra i quali Elvis Presley — che sembrano orchestrare lo spettacolo dei consumi

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— così come indicherà Debord nella “Società dello spettacolo”. La cultura commerciale che acceca le masse e le “americanate” che drogando le nazioni nei tardi anni Quaranta e Cinquanta iniziano a suscitare scontento. La cultura inglese in particolare subisce l’influenza americana: già nel tardo Ottocento con la pubblicità, il cinema, la musica leggera, il ballo, e poi la Coca-Cola e il chewing-gum. Con la Seconda Guerra Mondiale la presenza delle truppe americane in Inghilterra, lo swing e le commedie dell’American Forces Network, provvedono ancor di più alla diffusione della cultura americana, scatenando però anche una serie di reazioni anti-americane. Nuovi gusti che mettono in discussione le abitudini culturali iniziano a generare un rifiuto generalizzato.

La ricostruzione del dopoguerra accompagnata dal consumismo di fine anni Cinquanta, e più in generale tutta l’industria tecnologica, vengono accolti da alcuni con grida di protesta, perché accusate di distruggere la cultura e i valori del mondo intero. La cultura viene infatti sostituita dal commercio, da prodotti di consumo globalizzati. La cultura e l’industria si intrecciano e lo sviluppo di una nuova estetica mette in evidenza anche una accentuata divisione del lavoro, sempre più crescente con l’avanzare delle tecnologie. Mentre prima uno scrittore, un pittore o un cantante avevano piena autonomia sul proprio prodotto e sui processi di produzione, le nuove tecnologie nel campo della televisione, della radio, del cinema, della musica, che comportano una forte divisione e specializzazione del lavoro, rendono difficile identificare una figura autoriale, un unico punto di origine da cui l’opera scaturisce. Non esiste più un’unica fonte identificabile, ma una pluralità di autori. Questo concetto si percepisce in modo inquietante nelle parole di Glyn Johns — musicista, tecnico del suono e produttore discografico inglese — quando afferma:

«Così, quando tutti sono andati a casa, prendi quello che hai registrato e lo cambi completamente».[Chambers Iain, “Ritmi urbani. Pop music e cultura di massa”, Costa & Nolan, Genova, 1996]

La cultura di massa si mostra commerciale nella sua organizzazione, e urbana nel carattere: attraverso il cinema, la radio, i dischi, si infiltra in ogni settore della nostra vita quotidiana andando a colpire la cultura popolare più sana e genuina, tradizionale e autoctona. Ma prima ancora dell’americanizzazione dell’Europra, in Gran Bretagna già verso la seconda metà dell’Ottocento molti aspetti della vita commercializzata entrano

già in campo — ad esempio con i music hall — ed inizia così a conformarsi la società dello spettacolo, grazie alla trasformazione del divertimento in merce. Difatti al mutamento del rapporto tra il mondo della produzione e quello del tempo libero del lavoratoreche si sta sviluppando già nel tardo Ottocento, viene aggiunta — dal secondo dopoguerra — una importante espansione economica e dei consumi.

In questo contesto quindi, non è affatto difficile comprendere i motivi per cui gruppi di artisti, musicisti e attivisti abbiano sviluppato un tipo di cultura controcorrente, che si oppone alla società mainstream. Rinnegando la società in cui si vive, diventa necessario rifiutare anche i mezzi che la società stessa adopera — al contrario di quello che fanno invece i situazionisti, che criticano un mezzo o simbolo utilizzando il mezzo o simbolo stesso — perciò la sperimentazione nell’uso dei media e la ricerca di nuovi mezzi diventa cruciale. Questo rifiuto avviene soprattutto quando — in particolare nella cultura punk — vengono rifiutati i media tradizionali e le pubblicazioni vengono prodotte manualmente, attraverso la scrittura manuale o usando macchine da scrivere, fotocopiatrici e serigrafia. Avendo forti connotazioni anti-sociali, anti-politiche, anti-commerciali, questi gruppi sentono la necessità di diffondere le proprie idee, perciò i medium prediletti in questo contesto — oltre alla musica — sono poster e soprattutto riviste.

Le riviste underground sono innanzitutto influenzate dalle riviste d’avanguardia — in particolare dalle riviste Fluxus — tuttavia i periodici dei movimenti artistici, nonostante avessero a volte contenuti politici, erano mossi da intenti perlopiù legati al movimento a cui facevano parte, l’arte era il mezzo utile per cambiare il mondo. Nell’editoria underground invece, anche se spesso si supporta o si parla di arte contemporanea, questa non occupa una posizione centrale. A prevalere sono i contenuti e le ideologie socio-politiche (movimenti pacifisti e di protesta contro la guerra in Vietnam, di liberazione sessuale, di uguaglianza razziale, per la liberalizzazione delle droghe, contro la censura di musica e arti). Le riviste di questo genere sono dette “underground” perché differiscono — sia nei contenuti che nell’aspetto — da quelle mainstream, esponendo contenuti spesso non trattati da altre pubblicazioni, ma soprattutto perché l’intento è fare in modo che qualcosa accada, che le folle si fomentino così da determinare un vero cambiamento sociale. Eppure in “Merz to Emigre and Beyond: Avant-Garde Magazine Design of the Twentieth Century” Steven Heller afferma

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che gran parte della stampa underground degli anni Sessanta è stata una frode, perché di rado le riviste venivano realizzate in anonimato all’interno di scantinati clandestini, ma più spesso venivano stampate in uffici di tutto rispetto con il logo ben in vista. Più che altro si può parlare di “underground” come uno stato mentale associato alle proteste sociali di quegli anni, di cui le riviste — soprattutto negli Stati Uniti — si sono fatte portavoce. Tuttavia il Dipartimento di Giustizia americano e le forze armate — FBI e polizia — dichiarano alcuni tra questi “giornali di contrabbando”, e non sono pochi gli editori arrestati per le idee sovversive e troppo rivoluzionare annunciate tra le pagine delle loro riviste.

Le riviste a maggiore circolazione sono “Los Angeles Free Press” (1964), “The San Francisco Oracle” (1966) e “The East Village Other” (1965). Ad attrarre i giovani e quindi ad incrementare le vendite sono i contenuti sessuali, le informazioni spesso omesse dai giornali mainstream, gli scontri della polizia, le Black Panther, la guerra del Vietnam, le droghe. Quindi la rivista diventa in questo ambito un medium che svolge una funzione alternativa rispetto a quella usuale, in quanto espone dei contenuti mai distribuiti da tale mezzo. Il medium viene perciò utilizzato — per via delle sue caratteristiche — per uno scopo ora diverso rispetto a prima, per esporre delle idee rivoluzionarie e delle tematiche che si muovono al di sotto della società “per bene”. Anche l’aspetto grafico fornisce alle pubblicazioni una funzione nuova, soprattutto quella di attirare i giovani e di istigarli alla protesta e ad aggregarsi alla nuova cultura. Sono le illustrazioni e, per determinate riviste, i colori e le immagini psichedeliche ad affascinare di più.Infatti da una parte il movimento underground si esprime soprattutto per la protesta sociale e per l’attivismo politico, dall’altra invece la radice è quella hippie, quindi un movimento perlopiù apolitico e interessato alla liberalizzazione delle droghe e della sessualità. Le riviste underground sono così definite anche perché chi le produce è innanzitutto un attivista e poche volte si tratta di professionisti scrittori, giornalisti o grafici, anche se molti tra gli artisti e fotografi hanno mostrato grande talento. La scrittura è sciatta ma fatta con passione.

Ma la stampa underground non gode delle stesse risorse finanziarie e quindi delle stesse tecnologie delle riviste tradizionali. Prima della diffusione della fotocomposizione — a metà degli anni Sessanta circa — i caratteri erano realizzati in acciaio e poi composti, e tutto questo richiedeva

l’abilità di un artigiano. Questo significa che, nonostante il testo stampato sia controverso, il suo aspetto rischia di essere monotono. Ciononostante, quando il testo deve essere pubblicato, le limitazioni economiche portano ad adottare il principio del fai da te, alterando così la percezione delle riviste underground rispetto a quelle tradizionali, facendole spiccare tra la massa. Il layout tradizionale è infatti anche più costoso rispetto ai metodi alternativi. Con la diffusione poi della fotocomposizione, anche gli editori underground iniziano ad utilizzare la nuova tecnologia, che permette di produrre composizioni sperimentali ed effetti speciali in maniera più semplice e veloce. In questo modo è possibile anche lavorare più agevolmente in fase di pre-stampa, potendosi permettere un grado di sperimentazione prima non possibile perché richiedeva più tempo e denaro. In questo modo, per lanciare un nuovo giornale, non sono più necessarie grandi risorse finanziarie o esperti tipografi di caratteri al piombo, ma solo persone capaci di fotocopiare, usare la stampante e controllare e manipolare gli effetti ottici, a budget minimi.

Le riviste hippie vogliono che il cambiamento della società includa ogni aspetto della vita e di ciò che ci circonda, anche quello grafico delle riviste. Rifiutano le regole della composizione: le colonnedi testo presentano spesso forme irregolari, titoli e testi sono composti in caratteri differenti. La composizione delle pagine è molto libera, si è spesso lontani dai layout del giornalismo tradizionale, anche perché spesso più persone lavoravano sulla stessa pagina contemporaneamente, ognuno con un proprio stile. “The Oracle”, fondata nel 1966 a San Francisco, è la rivista underground americana che ha introdotto lo stile psichedelico. La rivista è finanziata da Augustus Owsley Stanley III, produttore leader di LSD (legale in America fino al ‛67). L’aspetto dominante dello stile psichedelico sono i colori modificati, detti caleidoscopici. Ed è in questo momento che il mondo delle riviste underground compie un passo importante nell’appropriazione di un medium, andando a modificare il funzionamento di uno strumento, alterandone la sua originale fruizione e di conseguenza il prodotto finale. Per ottenere l’effetto caleidoscopico e quei colori sgargianti infatti, i calamai delle stampanti offset vengono riempiti con strati di inchiostri diversi, che al momento della stampa si fondono. I cilindri della macchina infatti, girando ad alta velocità producono le combinazioni prismatiche dei colori. Per un numero di “The Oracle” nei calamai è stato inserito del ketchup, che però si è sbiadito poco dopo.

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Le illustrazioni vengono spesso realizzate sotto effetti di allucinogeni: vortici, linee eteree, collage, serpentine che avvolgono i blocchi di testo. Lo stile delle immagini ci riporta senza dubbio alla Secessione Viennese e allo Jugendstil, ma traggono ispirazione anche dal “Libro tibetano dei morti”, dalla cultura indù e degli indiani d’America, oltre che dall’immaginario onirico. L’effetto dato è quello di un trip allucinogeno all’interno delle pagine di una rivista. “The Oracle” chiude nel 1967 ed ha avuto una forte influenza sulle altre riviste underground, soprattutto nella diffusione dello stile psichedelico.

Tra le riviste underground americane, grande successo hanno avuto quelle erotiche. Inizialmente i “sex paper” vengono spesso inseriti come inserti in riviste underground, ma gli editori si rendono presto conto che il sesso vende molto più rispetto ai contenuti politici o culturali. “Screw”, la più originale tra le riviste erotiche, viene fondata nel 1968 dagli stessi editori di “New York Free Press”, Al Goldstein e Jim Buckley. I primi numeri della rivista mostrano un layout molto trasandato, non solo a causa della giovane età dell’art director, ma anche perché le tecnologie di pre-stampa sono inadeguate e il budget limitato. Così, per realizzare la pubblicazione i grafici hanno dovuto adattarsi e sperimentare: i titoli sono composti con lettere ritagliate da libri, le fotografie sono crudamente incollate sulle pagine per poi passare alla fotocomposizione.

Anche il gruppo Fluxus pubblicò una propria rivista di influenza dadaista. Ma fatto più importante è che ha influenzato “SMS (Shit Must Stop)”, il “periodico in scatola” lanciato nel 1968 in un totale di sei uscite dall’americano William Copley. La rivista contiene i lavori degli artisti delle avanguardie, tra cui dada, surrealisti, artisti pop e membri del gruppo Fluxus. È una rivista che rimuove i confini tra i media, infatti ogni artista può esprimersi liberamente scegliendo il mezzo che preferisce: disegno, fotografia, audio, scrittura, etc. I numeri vengono spediti tramite posta agli abbonati, all’interno della scatola ogni elemento è così un’opera d’arte indipendente dalle altre, inoltre non è imposto un tema. Ogni numero contiene contributi di diversi artisti, lʼintervento di Lichtenstein è un cappello di carta fatto con uno dei suoi fumetti di parodia sull’arte moderna. “Mend Piece for John” di Yoko Ono è una scatola contenente materiale e istruzioni per riparare una tazza rotta con “questa colla e questa poesia in tre strofe dedicata a John”. Per l’uscita numero due Duchamp progetta il fronte e il retro della cover inserendovi una registrazione di sette minuti intitolata “Contrepèterie”, un gioco di parole basato sula trasposizione di parole e lettere. Copley crede nell’unità delle arti, e nell’unità tra arte e vita, e non è stato l’unico ad utilizzare il formato della scatola o la posta, ma ha dimostrato

“San Francisco Oracle”, 1967, vol.1 n.7, cover

Al Goldstein, “Screw: The Sex Review”, 29 dicembre 1969, n.43

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quanto la forma data possa essere importante come significato nella distribuzione dell’arte.

In linea generale comunque, dagli anni Sessanta si assiste al fenomeno del design non più praticato soltanto da professionisti consapevoli delle regole. Il filosofo scientifico Paul Fayerabend sostiene che gli errori e le deviazioni sono essenziali precondizioni del progresso: “anything goes”. Dapprima gli esponenti della controcultura, che con il desiderio di far sentire la propria voce — spesso privi di esperienza, delle tecnologie e di budget adeguati — si sono dati alla sperimentazione editoriale, in seguito anche gli esponenti della cultura punk e post-modernista hanno seguito il loro esempio.

A metà degli anni Settanta si sviluppa il fenomeno punk, che attacca il design ordinato, educato e convenzionale, accogliendo le deviazioni, l’errore in quanto elemento positivo. Il punk porta alla distruzionie di tutti i valori, i suoi esponenti contestano la società, sono anarchici, nichilisti e dediti al “fai-da-te” come soluzione ai problemi. L’idea dominante è che tutti possono esprimere le proprie idee, e possono farlo nel modo in cui preferiscono. Jamie Reid è una figura chiave in questo movimento. Realizza le copertine per i Sex Pistols e si occupa della rivista “Suburban Press”. In questa rivista Reid mette insieme testi situazionisti

con testi sulla politica e sulla corruzione locale e sperimenta svariate tecniche utilizzando una macchina copiatrice, la Multilith 1250. Come gli artisti della stampa underground degli anni Sessanta, egli si appropria di articoli di giornale e ritaglia i titoli e la tipografia, servendosene poi per deviarne il senso, applicando il messaggio ad un nuovo contesto. Reid utilizza anche i media in maniera sovversiva, per ottenere un risultato opposto o diverso rispetto al motivo per cui sono stati creati. Ad esempio realizza una serie di stickers stampati su carta fluorescente nello stile delle promozioni in saldo che attacca di notte sui negozi di Londra, che però comunicano un messaggio nuovo e inaspettato per quel tipo di rappresentazione: “Save petrol, burn cars” e “Special Offer. This store welcomes shoplifters”.

Come molti degli esecutori delle riviste underground, Jamie Reid è un grafico improvvisato che vuole esprimere idee politiche e sovversive, contro la società borghese e capitalista. Per il punk farsi sentire all’interno della cultura mainstream non è facile, isolato com’è dalla società e dai media più diffusi. Un medium estremamente importante e utile per il punk è stato il poster, tramite il quale è riuscito a diffondere le idee e comunicare i concerti e gli eventi. I poster vengono realizzati spesso in garages, stampati al momento con

William Copley, “SMS (Shit Must Stop)”, 1969, n.1-6

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materiali poveri o fatti a mano, oppure serigrafati e poi disseminati nella città, attaccati in giro. Le immagini graffianti, rudi, mettono in evidenza come tutti possono esprimersi attraverso la grafica e che ogni tipo di stile e di errore è ben accetto. I poster che Frank Edie realizza per gruppi musicali come The Dils, Negative Trend e altri, sono realizzati come puzzle di intrigrati frammenti tipografici ritagliati da giornali, creando uno sfondo confuso dal quale emergono i dettagli con forte chiarezza. Nel punk si lavora a mano usando penne, fotocopie, collage, forbici e colla in maniera totalmente libera. Si

diffondono le zine — pubblicazioni indipendenti, fatte a mano o con macchine da scrivere, fotocopiate e a bassa circolazione — realizzate da individui che desiderano diffondere le loro idee e condividerle con altri.

Negli anni Ottanta questo tipo di stile che va oltre l’uso tradizionale delle tecnologie e si spinge alla sperimentazione e alla fusione delle tecniche, inizia ad essere accettato anche dal mondo professionale. In Gran Bretagna Terry Jones — art director di “Vogue” inglese — adotta lo stile punk per la

Jamie Reid, “Suburban Press”, 1977, stickers collage

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sua rivista “i-D” (1980), che documenta la cultura popolare e le mode di strada. Jones conia il termine instant design per descrivere il modo di lavorare rapido e senza mezzi importanti, che adotta anche nella sua rivista: segni fatti a mano usando colla,

matite, penne o pennelli; stencil e timbri; macchine da scrivere manuali o elettriche; lettering al computer (ancora a bassa tecnologia e rudimentali); montaggi; fotocopie; effetti pittorici spesso sviluppati da errori. Carta dai margini strappati ed errori tipografici sono gli equivalenti della musica rumorosa e tagliente e dei vestiti strappati punk. La rivista newyorkese “Punk” (1976) non ha a disposizione i fondi per permettersi una stampante, così il lettering — sia per i titoli ma anche per tutti gli articoli e le pubblicità — è realizzato a mano, in uno stile comic-book, da John Holmstrom (co-fondatore e designer della rivista). Holmstrom vuole distaccarsi dallo stile hippie, così la grafica è spoglia, semplice, in bianco e nero, il look è quello dei graffiti. Nonostante l’aspetto sciatto, rimane importante il contenuto, così fa spesso uso di linee che separano e rendono più ordinato il testo, e rimane importante il legame con la musica: veloce, primitivo e rumoroso.

Mentre il punk americano è stato più culturale che politico, il punk inglese è più indirizzato alla sinistra. “Sniffin’ Glue” nasce in Inghilterra nel 1977, edita da Mark Perry, e diventa l’archetipo del punk inglese. È una zine assolutamente non professionale, scritta a mano in maniera ruvida e scarabocchiata per i titoli e a volte anche per i testi, certe volte composti con la macchina da scrivere. “Sniffin’ Glue” è impaginata a caso utilizzando la fotocopiatrice, senza interesse per la leggibilità. Lo stile deve essere imprevedibile, così come in “Punk”, il cui editore ha affermato:

«Voglio che il giornale sia imprevedibile come i primi fumetti MAD — non devi mai sapere in quale formato verrà stampata Punk, o quali strane cose appariranno al suo interno».[Heller Steven, “Merz to Emigre and Beyond: Avant-Garde Magazine Design of the Twentieth Century”, Phaidon, New York, 2003]

“MAD” prima e i fumetti underground dopo, hanno infatti aiutato “Punk” a sviluppare una propria personalità. MAD nasce molto prima del punk, nel 1952, ed è

Frank Edie, “The Dils”, 1978, USA, concert poster

“Punk Magazine”, aprile 1976, n. 3, articolo sui Ramones, fotografie di Roberta Bayley

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innovativo per il periodo grazie al suo stile violento che sradica i luoghi comuni: il grottesco e la satira incupisocno i toni, esorcizzando i superpoteri degli eroi e ribaltando gli stereotipi. MAD spiana la strada per la cultura e l’editoria underground, rivolto com’era verso una radicalità allora sconosciuta.

Nei fumetti underground, a grottesche rappresentazioni delle violenze e della repressione esercitata dalla polizia, si alternano situazioni familiari scurrili e diseducative. Droga, sesso, violenza, politica, comicità pungente, effetti pschedelici, linguaggio da strada si mescolano in questi nuovi fumetti. Negli anni Sessanta il fumetto controcorrente si diffonde inizialmente negli Stati Uniti, con Ron Cobb e Vaughn Bodè che iniziano ad inserire tematiche controculturali nei loro lavori. Con la

nascita di “Zap” (San Francisco, 1967-1974) di Robert Crumb, il fumetto underground si definisce appieno, grazie ai comix (o underground comics) di artisti come Victor Moscoso, Rick Griffin, S. Clay Wilson, Robert Williams, Spain Rodriguez, Gilbert Shelton.

In Italia l’ondata dei comix arriva negli anni Settanta, grazie alle nuove riviste che lanciano artisti come Andrea Pazienza, Tanino Liberatore, Filippo Scozzari, Stefano Tamburini, Massimo Mattioli. Nel 1971 Max Capa fonda e realizza la fanzine “Puzz”, ispirata alle tattiche situazioniste con pagine intere di soli fumetti detournati. Questo avviene anche in altre riviste, come “A/traverso” (Bologna, 1975-79), “Wow” (Milano, 1977), “Zut” (Roma, 1976-77), in cui compaiono nella scrittura infrazionidi logica e sintassi, uso del paradosso e dell’ironia, non-sense, détournment di fumetti e fotografie. Altre importanti riviste italiane sono “Il Male” (Roma, 1977-1982) e “Cannibale” (Roma, 1977-1979) di satira e fumetti, “Frigidaire” (1980) che tratta soprattutto fumetti, musica e cultura. Un’attenzione particolare la merita Stefano Tamburini quando nel 1980 lancia tra le pagine di “Frigidaire” le storie di un nuovo personaggio: “Snake Agent”. Questa è considerata l’opera più punk di Tamburini, il fumetto infatti è realizzato tramite il recupero di un vecchio fumetto americano degli anni Quaranta: l’“Agente Segreto X-9”, disegnato da Mel Graff. Tamburini ha ripreso il fumetto, ha cancellato i testi dei dialoghi con un bianchetto e li ha riscritti a mano, creando storie prive di senso, di sesso e droga, complotti e

“Sniffin’ Glue”

Robert Crumb, “Zap”, 1974, n. 8, Apex Novelties, San Francisco (CA)

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inseguimenti. In seguito ha scansionato il fumetto ormai completamente trasformato e realizzato delle distorsioni spostandolo al momento della scansione. Anche dal punto di vista visivo, in questo modo, la sensazione è quella di uno stato di continua accelerazione anfetaminica, di un trip che non finisce mai.

C O P Y A R T La tecnica attuata da Tamburini di fotocopiare immagini in movimento riprende le sperimentazioni di Bruno Munari, le sue xerografie. Le prime macchine fotocopiatrici vengono infatti commercializzate dalla Xerox a partire dal 1947, e Munari è uno dei primi artisti ad utilizzare la macchina fotocopiatrice in maniera totalmente sperimentale già dagli inizi degli anni Sessanta. Egli sovverte il senso stesso per cui la macchina è stata inventata, ovvero riprodurre copie tutte uguali di un’immagine originale, andando invece a creare pezzi unici. Munari non fa altro che metterein movimento — durante il tempo della scansione — le immagini che sta fotocopiando, ottenendo così immagini deformate, che diventano opere

uniche, determinate da un atto compiuto in un preciso movimento che non è ripetibile in modo identico. Realizza ad esempio “Motociclista” (1966), sei xerografie a colori che forniscono all’immagine il movimento che la fotografia non riesce a rappresentare pienamente. Le “Xerografie originali” di Munari rappresentano un’operazione in cui l'artista si pone in maniera critica di fronte al medium, riflettendo sulle possibilità creative che esso offre, così come fece Man Ray negli anni Venti con i rayogrammi. Munari si è chiesto:

«Cosa succede se muovo questo originale sulla lastra di vetro?».[“L’arte di Bruno Munari”, http://www.munart.org/index.php?p=20, ultima consultazione 2015]

Nelle xerografie la luce si muove sotto il vetro di esposizione in modo che il toner si fissi sulla carta formando sulla stessa le immagini, che nel caso di movimenti del foglio si distorcono. Ma Munari afferma anche che:

«Lo scopo della sperimentazione è quello di ottenere il massimo dei dati, proprio per un eventuale uso».[“L’arte di Bruno Munari”, http://www.munart.org/index.php?p=20, ultima consultazione 2015]

Stefano Tamburini, “Snake Agent”, “Frigidaire” 1984, n.40

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Si pone perciò l’obiettivo di analizzare i diversi processi che si celano dietro la produzione di un’immagine, l’uso della fotocopiatrice, dei toner, i diversi effetti di texture che si possono ottenere con fogli forati, retini, materiali diversi. Gli effetti ottenuti sono sempre diversi, e dipendono dal tipo di movimento effettuato (sempre durante il passaggio del laser): in direzione della luce, in diagonale, perpendicolare, ondulatorio o rotativo. Interessanti effetti sono dati dall’uso di immagini colorate, di materiali diversi o pattern. Una lezione fondamentale che insegna Munari è che non bisogna essere soggiogati dalla macchina, dai processi che ci vengono imposti dalle tecnologie, ma la capacità di mettere in gioco noi stessi e gli strumenti a nostra disposizione ci possono aprire un mondo di nuove opportunità espressive. Come Munari stesso ha dichiarato durante la XXXV Biennale di Venezia del luglio 1970, davanti al Padiglione Centrale in cui era installata una Rank Xerox di cui il pubblico poteva fruire:

«Le possibilità tecnologiche del nostro tempo permettono a tutti qualche genere di attività, e permettono a chiunque di produrre oggetti di valore estetico. Rendono possibile a tutti di superare i propri complessi di inferiorità artistica per esercitare il proprio istinto creativo a lungo umiliato. Uno dei compiti dell’operatore visivo deve essere quello

di sperimentare, di cercare gli strumenti adatti per il loro uso generale e di andare oltre a questo, con tutti i “segreti del mestiere” che facilitano il loro funzionamento. La macchina Rank Xerox può aiutare chiunque ad esprimere se stesso. Inventata per riprodurre immagini, oggi le si possono produrre. Naturalmente, come tutti gli altri mezzi, ha i suoi limiti, ma se uno pensa ai limiti meccanici del pianoforte, ad esempio, con cui una nota lunga

Bruno Munari, “Xerografia originale”, 1977

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è impossibile… eppure nessuno può negare che il pianoforte è uno strumento adatto per la produzione di opere d’arte sonore. Così come qualsiasi altro mezzo, si tratta della questione di operare entro certi limiti, e di non aspirare direttamente al capolavoro».[“L’arte di Bruno Munari...”, op. cit]

L’uso della fotocopia prosegue con la tradizione underground e si instaura perfettamente in quella punk, perché è facile e veloce da utilizzare, per i suoi bassi costi e anche per gli effetti imprevedibili e spettacolari che con essa si possono ottenere. Una sperimentazione ulteriore viene ottenuta cambiando il tipo di supporto — lucidi, acetati, tele, poliestere, etc. — o intervenendo in altri modi: lavorando sull’immagine, magari colorandola, prima o dopo la fotocopia, oppure modificandola utilizzando i dispositivi e i comandi in dotazione alla macchina. Molte sono le mostre di copy-art organizzate in città come Venezia, Ferrara, Senigallia, Cattolica, Lucca, Bologna, Parigi, Digione, Mulheim, New York, Barcellona e Valencia. La copy-art deriva da un processo in cui la novità, il cuore del lavoro si sviluppa durante il processo stesso, in cui il dato di ingresso non corrisponde a quello in uscita, tramite un approccio nuovo e attivo nei confronti del medium riproduttivo. Mentre in Italia è Munari a condurre questa ricerca poi documentata in “Xerografie Originali” (edito da Zanichelli nel 1977), nello stesso periodo in America alcune personalità — tra le quali Ray Johnson — esplorano le possibilità

offerte dalla fotocopiatrice al fine di ottenere nuove forme di espressività. Sonia L. Sheridan sperimenta la miscelazione di toner colorati, l’uso di carte diverse e trattate e la tecnica chiamata “presa diretta”, nella quale oggetti o parti del corpo vengono posti sul piano luce. Esta Nesbitt modifica le immaginimanipolando materiali riflettenti posti sul piano luce del fotoriproduttore.

Ma ci sono molte altre tecniche che vengono eseguite con la fotocopiatrice, ad esempio in Italia Celeste Baraldi realizza le “xeropitture”, in cui la fotocopia viene integrata a tecniche pittoriche. In questo caso il supporto viene trattato con tecniche e materiali — collage, frottage, chine, etc. — prima di essere sottoposto al processo fotostatico. In altri casi si parla invece di “pittura a dito” o “xerosfumato”, quando si interrompe il ciclo di copiatura — provocando un inceppamento voluto — un attimo prima del fissaggio del toner. In questo modo l’immagine può essere lavorata liberamente e fissata con fissanti acrilici o vapori di trielina, reinserendola poi nel processo di fissione della fotocopiatrice. Nella tecnica della “pittura luminosa” invece, vengono creati effetti di chiaro/scuro grazie a giochi di luce ottenuti usando specchi e altri materiali, alzando e abbassando il coperchio del piano luce. Altro intervento che agisce sul colore è il “multitoner”, un insieme di inchiostrature xerografiche ottenute utilizzando sullo stesso supporto macchine diverse per sensibilità e densità di stampa. Vengono usati elementi

Sonia Landy Sheridan, “The Magic Finger (Self Portrait with Pointing Finger)”, 1970, Hood Museum of Art, Dartmouth College, Hanover (New Hampshire)

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aggiuntivi nella “monocromatizzazione”, che consiste nell’anteporre davanti all’obiettivo della fotocopiatrice a colori un acetato colorato, ed esponendo sul piano luce un originale in bianco e nero. Nel processo di “retinatura” si usano texture e superfici trasparenti o semi-trasparenti posti tra il piano luce e l’immagine.

Alcuni processi portano ad una distruzione dell’immagine, progressiva o più rapida. Nella “sovrapposizione”, ad esempio, vengono effettuate diverse xerografie sullo stesso supporto. Nella “sgranazione” la stessa immagine viene fotocopiata ripetutamente fino a che non si spezza in punti e linee, e nell’“ingrandimento reiterato” una parte dell’immagine viene ingrandita più volte fino ad ottenere una gigantografia. Il “xerograffito” invece consiste in un’operazione che precede la fotocopia, ovvero la solcatura — tramite una punta — nel fondo di un cartoncino, prima di introdurlo nella fotocopiatrice. In questo modo il colore non va ad occultare il disegno lì dove il supporto è stato solcato. Altri processi di alterazione dell’immagine fotocopiata sono legati a funzioni implementate nella macchina stessa. Lo “xerobassorilievo” si ottiene con una macchina che possiede il dispositivo di sovrapposizione, nella quale viene fotocopiata la stessa immagine in negativo e in positivo, imprimendo alle due immagini delle forti differenze nella densità del toner o applicando retinature. La “decomposizione”, come l’effetto “mosso” prevede lo spostamente dell’immagine, ma in questo caso lo spostamento avviene prima di ognuna delle tre o quattro riprese del ciclo della xerocopia a colori, in modo da scomporre i colori primari.

Nella copy-art l’artista si serve del medium come canale di trasmissione di quello che sarà l’incontro tra l’immagine reale e quello che l’artista immagina. In questo caso la fotocopiatrice permette un ampio range di operazioni che permettono di conferire una forma espressiva all’immagine trattata, in cui la manualità dell’artista e il suo intervento diretto si fondono con la riproduzione meccanica non controllata. Artisti italiani come Celeste Baraldi, Marcello Chiuchiolo e Giuseppe Denti conducono da anni sperimentazioni xerografiche. Le opere di Chiuchiolo giocano spesso sul riutilizzo di pattern, andando ad agire sul funzionamento della macchina fotocopiatrice. Giuseppe Denti lavora spesso con le sovrapposizioni, in cui l’immagine non è più oggettiva, ma fluisce nello spazio-tempo, è labile e soggetta ad interpretazioni. Baraldi invece utilizza diversi materiali come carte colorate, collages, frammenti di rotocalchi, china, pastelli,

per poi fotocopiare il tutto. Le sue xeropitture sono fortemente espressive, egli mette in luce un aspetto intrinseco della sua operazione: la stretta relazione che si crea tra un artefatto “primitivo” ed espressivo, puramente artistico, e la riproduzione esatta, fredda, della macchina. Il segno materico e grafico che diventa casuale, discontinuo, ricalca l’esperienza dell’essere e dell’esistenza primordiale, valore che si oppone a quello dell’artificio, della storia e della civiltà. Lo strumento diventa però anche messaggio: il medium esprime — nel suo stesso processo di funzionamento — l’appartenenza al mondo contemporaneo, quello della riproduzione continua, e allo stesso tempo rappresenta un contenuto a sé stante, identificabile nel riconoscimento dell’immagine riprodotta. La xerografia in sé include un altro messaggio, nel senso che la riproduzione è un inscindibile esercizio per conoscere il mondo, per capirlo e identificarlo nelle sue molteplici sfumature.

Baraldi, Chiuchiolo e Denti sono figure importanti nella divulgazione di questo tipo di arte, hanno infatti dato vita a laboratori di ricerca e informazione di copy-art presso il centro di riproduzione “Eliorapid” di Milano, hanno organizzato la mostra-laboratorio al Palazzo dei Diamanti a Ferrara e avviato un centro permanente di documentazione di copy-art presso il Museo dell’informazione di Senigallia (MUSINF). Negli anni Settanta Sonia Landy Sheridan organizza diverse esposizioni e pubblica articoli sulla copy art, e nel 1978 appare la “Guida completa di Copy Art” (ed. Marek, New York); nel 1979 per la prima volta in Europa quest’arte viene presentata all’interno del “Premier Festival International de la Carte Postale d’Avant-Garde” (Parigi).

M A I L A R TUn altro mezzo di comunicazione che è stato inglobato nel mondo dell’arte è la cartolina. La mail art porta alla creazione di una rete di scambi tra persone, così come accade nel web. Nella mail art però lo scambio non avviene solo virtualmente, ma vengono scambiati degli oggetti reali tramite il servizio postale, creando un feedback tra mittente e destinatario. La mail art nasce intorno agli anni Cinquanta grazie a Ray Johnson che la codifica e che viene a sua volta influenzato da gruppi precedenti — futurismo con i collage postali di Ivo Pannaggi (1920), i dadaisti e Fluxus — estendendosi fino agli anni Novanta. Dopo aver inviato per posta

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le sue opere-messaggio in tutto il mondo, Johnson fonda la New York Correspondance School of Art, una scuola virtuale in cui idealmente i corrispondenti diventano gli studenti. Inizialmente l’arte postale nasce con creazioni artistiche realizzate sulla busta da lettere, ma in seguito viene introdotta la cartolina, più facile da illustrare rispetto alla busta perché si tratta semplicemente di un foglio rettangolare piatto, e non, come nel caso delle buste, di un foglio tagliato e ripiegato che richiede quindi almeno due processi consecutivi.

La cartolina in sé quindi, si presta bene a questo tipo di fenomeno. Essa nasce in Austria nel 1869, e diventa, per gli editori, un modo per farsi vedere, adottando i temi più bizzarri e le tecniche più svariate. La cartolina è uno strumento che proprio per la facilità di produzione e di consumo si rivolge a classi sociali diverse ed è diventata il veicolo per i messaggi più disparati. Diversi sono gli artisti delle prime avanguardie che hanno realizzato cartoline o che si sono dedicati a questo tipo di arte agli inizi della loro carriera. Le cartoline liberty di Mucha sono soprattutto il frutto del riciclaggio di altre sue opere. Quelle satiriche di d’Orens sono cartoline

realizzate in incisioni numerate destinate nel primo Novecento ad un pubblico colto che preferiva conservarle piuttosto che spedirle. Quasi tutti gli espressionisti e artisti come Franz Marc, Nolde, Balla, Sironi, Alberto Martini, Kokoschka, Schiele, i surrealisti, gli artisti della Bauhaus, realizzavano cartoline dipinte o disegnate e scritte dall’autore e poi spedite. Ma eccetto i futuristi, questi artisti non impiegano il mezzo della cartolina secondo la sua natura e le sue possibilità funzionali, ma la usano per esprimere il proprio stile artistico, per creare un’opera artistica.

Dagli anni Cinquanta, mentre da una parte si sfruttano le possibilità offerte dalle nuove tecnologie — fotocopiatrici a colori che offrono ampie possibilità di intervenire sul contrasto, saturazione ed altro dell’immagine — che consentono grande libertà espressiva a costi contenuti rispetto alla quantità di stampe, dall’altra questa rimane una produzione limitata ad occasioni specifiche, ufficiali. Allo stesso tempo alcuni artisti, che intendono separarsi dall’arte ufficiale delle gallerie e del mercato, sviluppano il movimento della mail art avvalendosi di supporti poveri e accettando nei loro prodotti i segni del

Alphonse Mucha, Postcard, fine ‘800-inizio ‘900

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passaggio postale, come timbri ed altri segni. Spesso le cartoline sono indirizzate ad ignoti, destinatari scelti a caso. In realtà, dalla fine degli anni Settanta queste opere iniziano ad essere esposte nei musei più prestigiosi, prima fra tutte la mostra di Mail Art tenuta al Whitney Museum di New York nel 1970. I lavori spediti sono svariati: oltre a cartoline, francobolli, buste, copy-art, libri d’artista, fotografie, collage, che siano opere realizzate a mano o stampate. Gli artisti postali superano i canali tradizionali di galleria, critico e mercante, diffondendo la loro arte attraverso una rete globale alternativa basata sul concetto di baratto piuttosto che di scambio basato sul denaro. Essa infatti presuppone che ci sia sempre un feedback da parte del mittente, una comunicazione biunivoca. I progetti possono seguire una tematica specifica, ma la libertà di espressione è illimitata e si va anche ad abbattere il concetto di selezione da parte del mercato perché tutte le opere vengono “esposte”. La mail art mette in evidenza i principi di democrazia, condivisione, collaborazione e diffusione capillare dell’informazione.

Quando negli anni Novanta nasce la e-mail art, i mail artists iniziano a riferirsi alla posta tradizionale come “rete cartacea”. Si sviluppa infatti il concetto di “Mail Art Network”, ovvero un gruppo di artisti connessi tra loro dalla proprie opere — cartoline, timbri, francobolli, buste — illustrate o autoprodotte. Allo stesso tempo vengono spediti anche oggetti più grandi e difficili da trasportare, in cui il mezzo diventa il messaggio. Chuck Welch, conosciuto come Cracker Jack Kid, si connette con i primi artisti online e crea una rete di lavoro. Da quel momento inizia a prendere forma l’e-mail art, che si riferisce alla comunicazione artistica che utilizza la posta elettronica: grafica al computer, animazioni, scansioni,screensaver, arte ASCII. Le opere di e-mail art possono essere visualizzate a schermo oppure stampate. Nel 1988 nasce lo IUOMA (International Union of Mail Artists) [ http://iuoma-network.ning.com/ ], che ha un proprio forum online, non ha un leader e chiunque può unirsi al gruppo. Si viene a costituire progressivamente una rete sempre più complessa di artisti, ogni artista infatti ha una propria mailing list che con il tempo, attraverso gli scambi, va ad incrociarsi con quelle di altri artisti e in questo modo si vanno ad ampliare le connessioni, costituendo il circuito internazionale della Mail Art.

Non è mancato il dibattito intorno all’e-mail art: si può considerare e-mail art ogni genere di opera artistica inviata tramite e-mail? [ Mimi Cabell,

Jason Huff, “American Psyco” (2012) ]. D’altra parte ci si può chiedere quanto abbiamo davvero in comune la mail-art e l’e-mail art. L’arte postale ha un carattere fisico intrinseco, l’oggetto autoprodotto si sposta fisicamente nello spazio, sorpassa dei confini, si può deteriorare, può subire delle trasformazioni durante il viaggio, impiega del tempo per arrivare a destinazione, e innanzitutto presuppone un uso improprio del mezzo postale, qui usato come canale puramente artistico. In realtà è facile pensare alla posta — e alla mail art — come anticipatrice del concetto di rete, una struttura invisibile che collega più persone distanti tra loro e che le permette di comunicare e condividere delle informazioni.Comunque, entro la fine degli anni Novanta molti mail artists, a causa dell’aumento delle tariffe postali e dei bassi costi dell’accesso a internet, cominciano a migrare verso il web e verso le nuove forme di comunicazione digitale. La rete facilita la diffusione e la rapidità delle call per la mail art, si sviluppano blog e siti di mail art per mostrare i contributi e documentazioni online. Nel 2006 Ramzi Turki, artista tunisino, riceve una e-mail contenente il lavoro scansionato dell’artista belga Luc Fierens. Ha poi mandato questo lavoro per e-mail a circa 7000 artisti sollecitando la loro interazione. Ha ricevuto circa 200 risposte di contributo.

Tramite la posta elettronica un utente può inviare un messaggio nel cyberspazio, poi un altro utente o più utenti contemporaneamente possono accedere e rispondere al messaggio, o cambiarlo, o aggiungere un commento o inserire il messaggio in un contesto nuovo e più ampio, in un processo senza fine. Il messaggio chiuso, come identità di un unico soggetto che spedisce l’opera intesa come pezzo unico ad un solo altro soggetto, viene dissolto progressivamente, man mano che l’interazione aumenta, con il sovrapporsi delle trasformazioni e degli scambi. Eduardo Kac in “Aspects of the aesthetics of telecommunications” [ http://www.ekac.org/telecom.paper.siggrap.html ] parla dell’arte delle reti e dei suoi precursori, e scrive che questo tipo di arte mette in discussione i valori culturali in quanto vengono sfidate le strutture che privilegiano una cultura rispetto alle altre, portando invece alla ribalta le differenze culturali. La e-mail art infatti si inserisce nel più ampio e variegato contesto della net.art, che si sviluppa in molteplici forme e attività.

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N E T A R TNegli anni Novanta internet apre le sue porte a tutti, stimolando la creatività di coloro che appartengono a campi disciplinari anche molto diversi tra loro: arti figurative, musica, cinema e letteratura, teatro, danza, performance, architettura. Si sviluppa un fenomeno artistico e sociale che fa riferimento alle avanguardie e neoavanguardie (Concettuale e Fluxus) ma allo stesso tempo, grazie alla natura stessa della rete, si definisce sempre più un’infrastruttura tecnosociale sempre più ampia. Esplode così la net.art, la New Media Art e nuovi generi come Software Art e Game Art, anche grazie alla disponibilità, in rete, di un archivio immenso di immagini e contenuti di cui appropriarsi e da trasformare, comporre. Questo fenomeno è legato anche alla nascita di gruppi di pensiero che sostengono l’attivismo in rete e in particolare ideologie di contenuti open source. La net.art definisce quelle opere d’arte create tramite i linguaggi della rete, che usa e si diffonde attraverso la rete stessa di internet. Spesso le opere di net.art presentano delle caratteristiche particolari: sono create con linguaggi di programmazioni o software; nascono da un’intenzione estetica che connette più contenuti multimediali; sono spesso lavori con cui l’utente può interagire; sono accessibili globalmente attraverso qualsiasi connessione internet; sono spesso open source, quindi possono essere liberamente modificate da chiunque. Il termine “net.art” nasce nel 1995, quando l’artista Vuk Ćosić riceve una e-mail anonima, probabilmente scritta con un software non compatibile con il suo e perciò visualizzata come una lista di caratteri ASCII. L’unico frammento con un significato è “net.art”. Da quel giorno il termine inizia ad essere utilizzato da artisti che usano la rete come strumento per i propri lavori.

Diversi sono i precursori nella net.art, che possono essere individuati al di fuori del mezzo tecnologico informatico, se si considera invece un genere di arte open source basato sulla condivisione, sull’uso della rete, sull’interattività e sulla smaterializzazione. Con la mail art si sviluppa un tipo di arte che porta alla progressiva costruzione di una rete di artisti e opere, in continua crescita e collaborazione secondo dinamiche open source. Ma esistono precursori della net.art ancora più indietro nella storia, che hanno adottato espedienti concettualmente più contemporanei, come la smaterializzazione dell’opera d’arte e l’uso delle nuove tecnologie — per l’epoca — nell’operazione artistica in atto.

Eduardo Kac in “Aspects of the aesthetics of telecommunications” [ http://www.ekac.org/telecom.paper.siggrap.html ] scrive riguardo la storia e la teoria della telecommunications art pre-web, dai primi utilizzi della radio da parte delle avanguardie alle immagini telefoniche di Moholy-Nagy, fino ai lavoriinternazionali collaborativi. Kac sostiene che negli ultimi quindici anni — considerando che l’articolo è stato scritto nel 1992 — un numero crescente di artisti di tutto il mondo ha iniziato a lavorare in collaborazione con le telecomunicazioni. Le opere sono considerate “eventi”, in cui l’obiettivo finale non è avere un prodotto finito, ma attraverso l’uso di diversi strumenti e media — telefono, fax, scan, e-mail, video, immagini, computer, internet, etc. — questi artisti utilizzano le immagini come mezzo interattivo di comunicazione bidirezionale. Le immagini nascono non per essere semplicemente trasmesse da un artista ad un altro, ma servono come strumento per dare inizio ad un dialogo visivo coinvolgendo partecipanti da tutto il mondo. In questo modo le immagini vengono modificate continuamente, diventano il linguaggio per un dialogo artistico. Quando un evento è terminato, l’artefatto a cui si è giunti non è da considerarsi come “risultato”, bensì come parte della documentazione di tutto il processo di dialogo visivo costruito dai partecipanti. La telecommunications art diventa il culmine del processo di smaterializzazione dell’oggetto artistico, avviato da Duchamp e perseguito da artisticoncettuali come Joseph Kosuth. Se ora sia l’oggetto artistico che l’artista vengono eliminati, ciò che rimane è il processo e l’atto artistico, fondati su rapporti e interazioni tra i membri di una rete. Allo stesso modo, se le telecomunicazioni rappresentano gli strumenti che avvicinano le persone — sviluppando il cosiddetto “villaggio globale” — allo stesso tempo le mantengono distanti [ i new media sostituiscono gli old media, o no? / caratteristiche e funzioni analogiche / identità e rapporti sociali ]. Kac afferma che il modello lineare di comunicazione privilegia l’artista come codificatore di messaggi (dipinti, sculture, testi, fotografie, etc.), la telematica invece sviluppa un modello multidirezionale di comunicazione, in cui l’artista è il creatore di un contesto che facilita o complicail processo [ ibridazione ambiente / la posizione degli attori coinvolti ]. Se nel primo caso l’apertura dell’opera può essere intesa solo nella facoltà dell’utente di interpretare l’opera stessa, nel caso della telematica l’apertura dell’opera consiste nel fatto che all’utente vengono forniti gli strumenti per trasformare l’opera, i codici che ha usato l’artista in modo che il significato possa essere negoziato tra

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più persone, diventando membri di una rete. È chiaro come questo tipo di arte conduca alla dissoluzione della figura dell’artista, perché creatore e fruitore non sono più distinguibili. Si va a distruggere la gerarchia che da sempre caratterizza l’arte, andando ad offuscare l’idea di individualità, genio artistico, ispirazione e personalità, a favore di una conoscenza amplificata e condivisa [ il digitale ci ha reso più sapienti? ] e probabilmente non tutti sono disposti a rinunciare ai privilegi dell’artista tradizionale e all’idea di arte come attività redditizia. Inoltre l’artista è, in genere, una persona che ha qualcosa da dire e che sia importante — anche solo dal suo punto di vista — da trasmettere agli altri. In realtà, il fatto di aver concepito un “evento”, di averlo avviato, potrebbe ripristinare, in parte, la paternità artistica di un opera. L’artista è la figura centrale da cui la rete si irradia, ma mentre un regista cinematografico — che lavora in collaborazione con decine o centinaia di persone — non rinuncia alla responsabilità del lavoro e lo supervisiona dall’inizio alla fine, l’artista che produce eventi di telecomunicazione dà inizio ad una rete, che poi non controlla più, mettendo in piedi un processo paragonabile all’Happening.

P r e c e d e n t i

L’uso della telematica come medium per le operazioni artistiche trova dei precedenti già agli inizi del Novecento. Nel corso del Ventesimo secolo questo genere di sperimentazione ha vissuto diverse fasi: l’impatto dei nuovi media su quelli più vecchi, come l’influenza della radio sul teatro; l’uso sperimentale dei nuovi mezzi; l’uso maturo dei nuovi media da parte degli artisti che ne esplorano il potenziale interattivo e comunicativo. Il primo mezzo di comunicazione di massa in grado di mettere in contatto un gran numero di persone distanti fisicamente è stato la radio. La radio — che si diffonde commercialmente negli anni Venti — può essere considerata il primo vero mass medium, perché è capace di comunicare in contemporanea a milioni di persone molto distanti tra loro, a differenza del cinema, disponibile soltanto per un pubblico locale e circoscritto in uno spazio specifico. La radio avvolge gli ascoltatori in uno spazio sonoro capace di evocare immagini mentali. Nel 1928 il regista tedesco Walter Ruttmann viene invitato dal Broadcasting System di Berlino a creare un pezzo per la radio. Ruttmann aveva già ricevuto dei riconoscimenti per i suoi film d’animazione astratti “Opus I, II, III, IV” [ https://www.youtube.com/watch?v=od0MxuD4xxQ ], considerati i primi film

astratti mostrati pubblicamente. Il primo film astratto è stato realizzato dal dadaista Hans Richter, “Rhythmus 21”, [ https://www.youtube.com/watch?v=fe_Vs4BSVQ8 ] nel 1921. Importante e di risonanza mondiale è il suo documentario “Berlin, Symphony of a Great City” (Berlin: Die Sinfonie der Großstadt) [ https://www.youtube.com/watch?v=yinYbHDDGxk ] del 1927, che riprende, in un montaggio di scene mute, la vita cittadina della Berlino post Prima Guerra Mondiale e alle porte dell’ascesa del Nazismo. Il film ha influenzato un’intera generazione di cineasta nella creazione di sinfonie per la città. Se i suoi film sono da considerarsi “musica ottica”, per la radio Ruttmann realizza il primo “film acustico”. In “Weekend” (1930) adotta un processo analogo a “Berlin, Symphony of a Great City”, ma ribaltato: realizza un film senza immagini, un racconto discontinuo che si basa sulle immagini mentali che si vengono a creare ascoltando l’audio. “Weekend” viene registrato con quello che era il migliore sistema usato nel mondo del cinema, il processo Triergon. Il film dura quindici minuti e racconta l’atmosfera sonora di lavoratori che inizialmente stanno lavorando — si sentono rumori di macchine e treni — e che poi lasciano la città e vanno in campagna dopo una giornata di lavoro. Diventano infine predominanti i suoni della campagna: il cinguettio degli uccelli, l’abbaiare dei cani, il canto delle persone e i bambini che parlano. “Weekend” si presenta come un montaggio audio concepito per la trasmissione radio, ha anticipato e influenzato la musica sperimentale di personaggi come John Cage e Karlheinz Stockhausen.

Anche i futuristi sono stati ispirati dalla radio, essendo dei forti promotori delle nuove tecnologie contro le forme tradizionali di comunicazione. Nel 1933 pubblicano il “Manifesto della Radio” o “La Radia”, firmato da Marinetti e Pino Masnata e pubblicato nella “Gazzetta del Popolo” (Torino) a settembre e ad ottobre nel loro periodico “Futurismo” (Roma). Nel Manifesto propongono che la radio venga liberata dalla tradizione artistica e letteraria, sviluppando un tipo di radio che parte dall’arte dei rumori di Russolo. Marinetti propone l’utilizzo e la trasfigurazione delle vibrazioni emesse dagli esseri viventi e da diversi materiali, arrivando a suonare oggetti inanimati come fiori o diamanti. Lʼartista della radio, il “radiasta” deve utilizzare

“Walter Ruttman - Weekend”, https://www.youtube.com/watch?v=KVZVpAVfZ6M, pubblicato da yulogarcia il 5 maggio 2011

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le parole così come i futuristi stessi utilizzano la tipografia nelle parole in libertà: parole prese dalla vita di tutti i giorni ed espresse velocemente, energicamente e sinteticamente. Così il 24 novembre 1933 Fortunato Depero e Marinetti tengono la prima trasmissione futurista su Radio Milano. C’è da tener presente che la radio negli anni Trenta diventa molto popolare, si possono sintonizzare i canali e vieneutilizzata sia a scopo di intrattenimento che di informazione e propaganda politica.

Moholy-Nagy, che negli anni Venti vive a Berlino e lega con i dadaisti, inizia a sperimentare l’uso del telefono per realizzare opere artistiche: una persona descrive l’immagine per telefono e l’interlocutore la esegue. Realizza così le “Telephone Pictures”, esposte alla sua prima personale nel 1924 presso la galleria Der Sturm a Berlino. Nel 1922 infatti Moholy-Nagy ordina per telefono ad una fabbrica cinque dipinti in porcellana smaltata, munendosi della cartella colori dell’azienda e di una bozza che aveva realizzato su carta millimetrata. Dall’altro capo del telefono il direttore dell’azienda aveva lo stesso tipo di carta divisa in quadratini, sulla quale disegnava le forme dettate da Moholy-Nagy, quadratino per quadratino, come in una sorta di gioco a scacchi per corrispondenza. Il dipinto è stato poi consegnato in tre diverse dimensioni, in modo da poter studiare le piccole differenze che si creano nelle relazioni tra i colori dovute agli ingrandimenti e alle riduzioni. In questo modo l’artefatto realizzato perde il suo carattere artigianale, per inserirsi nella dimensione di oggetto industriale, riprodotto meccanicamente. Le tre opere risultanti sono così concepite come copie senza un originale, ma il progetto diviene volatile, può essere materializzato in diverse dimensioni che però restituiranno un esemplare specifico, relativamente alla sua grandezza. La scala relativa è infatti una

caratteristica della computer art, in cui esiste il lavoro che il progettista concepisce utilizzando un determinato schermo ma che poi viene visualizzato in modalità differenti a seconda del dispositivo di visualizzazione. Moholy-Nagy inoltre, tramite questo processo, ha permesso all’ascoltatore di creare un’opera costruttivista, e ha voluto quindi dimostrarel’esistenza di valori visivi oggettivi, concreti, che esistono al di là dell’ispirazione dell’artista.L’immagine è costituita da forme geometriche piane nello spazio formate da pixel (così come nella computer art) e l’artista opera trasformando l’entità fisica dell’immagine in una descrizione verbale della stessa. Moholy-Nagy ha anticipato anche il concetto della figura dell’artista non come esecutore ma come direttore, che l’artista può anche essere fisicamente distante dall’oggetto artistico creato. Esistono comunque dei dubbi sul fatto che Moholy-Nagy abbia effettivamente ordinato i “Telephone Pictures” tramite telefono, la sua prima moglie infatti ha scritto che gli ha ordinati di persona, e dopo averli ricevuti ha affermato che avrebbe potuto ordinarli per telefono. Rimane il fatto che ha fatto realizzare le opere a degli operai limitandosi a descriverle.

Tramite questa esperienza Moholy-Nagy viene riconosciuto dal Museum of Contemporary Art di Chicago come precursore dell’arte concettuale degli anni Sessanta, e nel novembre-dicembre del 1969 viene organizzata la mostra “Art by Telephone”. Per questa esposizione è stato chiesto a trentasei artisti di fare una telefonata al museo e di dare istruzioni — ad un personale incaricato di rispondere — riguardo ciò che dovevano fare come contributo. Le opere realizzate diventano il frutto dell’interazione tra l’artista e un’altra persona incaricata di compierla, che quindi opera secondo la propria interpretazione. Robert Hout coinvolge tutti gli spettatori della mostra e anche un partecipante che non si aspettava di partecipare. Per ogni lettera dell’alfabeto sceglie una città americana il cui nome inizia con quella lettera. Per ogni città è stato scelto il primo Arthur il cui cognome inizia con la stessa lettera della città (per esempio Arthur Bacon a Baltimora). Nel museo viene visualizzata la lista di tutte le città e di tutti i nomi e i visitatori vengono invitati a chiamare uno di quei numeri e a chiedere di “Art”. L’opera si compie come una conversazione inaspettata tra “Art” e il visitatore della mostra, diventando un’operazione non più passiva ma dinamica, che si compie nell’interattività dell’utente e sfruttando il tempo reale. Interventi di questo genere anticipano certe esperienze online e interattive organizzate in seguito e facilitate dalle nuove tecnologie.

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Lásló Moholy-Nagy, “Telephone Pictures”, 1924, galleria Der Sturm (Berlino)

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Dal 1982, vengono svolte ulteriori attività di telecomunicazione da Bill Bartlett, Stan Vanderbeek, Liza Orso, Bruce Breland, Matt Wrbican e da altri membri del gruppo Dax (Digital Art Exchange) con sede a Pittsburg — che ha ora un’estensione a Washington. Il gruppo viene fondato da Breland nel 1979 come Gekko (Generative Energy/Kinetic Knowledge/ Order) e nel 1985 diventa DAX Group. È un’organizzazione no-profit costituita da artisti,ingegneri e collaboratori che hanno come obiettivo quello di permettere una connessione tra le persone nel mondo attraverso le reti analogiche e digitali, utilizzando come media artistici soprattutto faxe slow-scan TV. Dax ha creato e partecipato a eventi di telecomunicazione in cui le linee telefoniche erano sature di segnali che scorrevano in varie direzioni e che trasportavano informazioni grafiche. Queste interazioni spesso includono anche altri media, come danza, musica al computer, abbracciando più fusi orari di diverse zone geografiche e stabilendo vari tipi di rapporti tra i partecipanti. Bruce Breland, direttore del gruppo, afferma:

«Il concetto di sistemi interattivi ha cancellato i vecchi confini del regionalismo o della nazionalità artistica. La telematica ha creato la possibilità di una nuova impostazione di partecipazione interattiva tra individui e gruppi. La telematica fornisce un significato per la diffusione instantanea e immediata dell’informazione garantendo all’individuo una scelta tra il semplice recupero e gli intrigati eventi artistici collaborativi». [Eduardo Kac, “Aspects of the aesthetics of telecommunications”, http://www.ekac.org/telecom.paper.siggrap.html, 1992]

Una della prime attività alle quali partecipano è stata “The World in 24 hours” (1982), una rete globale organizzata da Robert Adrian per l’Ars Eletronica Biennale in Austria, che collega sedici città in tre continenti per 24 ore (un giorno e una notte). Gli artisti hanno a disposizione slowscan, fax, computer e trasmittenti sonore. Seguendo il sole di mezzogiorno lungo la rotazione terrestre, gli artisti si collegano per circa un’ora ciascuno con il festival di Linz. Tre anni dopo Dax estende il concetto di interazione globale con il progetto “The Ultimate

Contact”, un lavoro di slow-scan TV creato su radio FM in collaborazione con lo space shuttle Challenger, in orbita attorno alla terra. DAX ha utilizzato una combinazione di computer e dispositivi di telecomunicazione per trasferire informazioni avanti e indietro a lunga distanza.

Artisti brasiliani come Mario Ramiro, Gilberto Prado, Paulo Bruscky e Carlos Fadon lavorano con le telecomunicazioni dai primi anni Ottanta. Gli eventi che creano comprendono scambi su scala sia nazionale che internazionale. Carlos Fadon realizza un pezzo di slow-scan TV, “Natureza Morta ao Vivo” (natura morta dal vivo) del 1988, un processo in cui un artista (A) manda un’immagine ad un altro artista (B), e l’immagine ricevuta diventa il contesto per uno still life creato dal vivo. L’artista B posiziona gli oggetti davanti all’immagine digitale e la combinazione di oggetti e immagine viene catturata da un fermo immagine che viene poi mandato all’artista A. Quest’ultimo usa poi questa nuova immagine come base per creare una nuova composizione di oggetti e ripete la stessa operazione dell’artista B. Questo processo può ripetersi all’infinito, generando un dialogo visivo continuo.

A Parigi ad operare maggiormente nel campo delle telecomunicazioni è il gruppo Art Reseaux, formato da Karen O’Rourke, Gilberto Prado, Christophe Le François e altri. O’Rourke sviluppa il progetto “City Portraits” (1989-92), invitando partecipanti da undici città del mondo a creare il ritratto della propria città attraverso lo scambio di immagini fax, andando così a costruire una rete di viaggio in città immaginarie.

Il progetto comporta, all’inizio, la creazione di un paio di immagini — l’ingresso e l’uscita — che altri artisti poi useranno come gli estremi del percorso che esploreranno durante la metamorfosi che si attua nello scambio di immagini tramite la linea telefonica del fax. Gli artisti creano l’ingresso e l’uscita utilizzando le immagini delle città in cui vivono, manipolando altre immagini per creare un paesaggio sintetico o combinando aspetti di esperienze dirette o del proprio immaginario sul territorio urbano. Gilberto Prado lavora al progetto “Connect”, in cui

Carlos Fadon, “Natureza Morta ao Vivo”, 1988

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vengono utilizzate almeno due postazioni con due fax ognuna. Gli artisti presenti in una postazione sono invitati a non tagliare la carta termica del fax quando l’immagine inizia ad apparire, ma ad inserire quel rotolo in un altro fax che andrà ad interferire nel processo dell’immagine. Si viene così a creare un processo in loop, connettendo non solo gli artisti ma anche le macchine. Karen O’Rourke scrive:

«La maggior parte di noi oggi non utilizza i dipinti (o le fotografie) come punto di partenza per le proprie immagini, ma il telefono. Lo usiamo non solo per inviare immagini ma anche per riceverle. Questo feedback quasi istantaneo trasforma la natura del messaggio che inviamo, così come la presenza dal vivo di un pubblico modula il modo in cui gli attori interpretano il loro ruolo o i musicisti i loro spartiti». [Eduardo Kac, “Aspect of...”, op. cit.]

Mettere in connessione le persone diventa un tema dominante in questo periodo, e non mancano le sperimentazioni per creare delle connessioni a più livelli. Nel 1977 Galloway Kit e Rabinowitz Sherrie sviluppano una serie di progetti chiamati “Aestethic Research in Telecommunications”, tra questi progetti c’è “Satellite art project”, nel quale creano uno spazio senza confini geografici, che riunisce in un unico schermo le performance separate di tre ballerini. Nell’era in cui il satellite viene utilizzato solo per le trasmissioni televisive di alta qualità video attraverso l’oceano (il contesto globale), gli artisti creano uno spazio virtuale in cui si svolge l’azione completa,

il vero atto artistico, che nasce dalla fusione di azioni che si svolgono a migliaia di chilometri di distanza tra loro. L’indagine principale che sta alla base di “Satellite art project” è la ricerca estetica che si avvale della performance artistica per investigare le possibilità e i limiti delle tecnologie al fine di creare ed ampliare i nuovi contesti e gli ambienti dell’arte tele-collaborativa.

Nel 1980 Kit Galloway e Sherrie Rabinowitz realizzano l’installazione “Hole in space”, collegando visivamente due punti da una costa all’altra degli Stati Uniti — il Broadway Store di Los Angeles e il Lincoln Center di New York — creando così un’opera che connette le persone attraverso lo spazio. In questi due spazi vengono situati due schermi collegati via satellite che per tre sere consecutive riproducono in tempo reale le immagini provenienti dall’altra costa. I passanti possono così ascoltare e vedere, a figura intera, le persone dell’altra città, ma non se stessi, creando così un contatto virtuale che rende la tecnologia trasparente grazie alle riprese in tempo reale. Il primo giorno è caratterizzato dalla scoperta casuale dell’evento e dallasperimentazione spontanea di quellʼatto nuovo. Il secondo giorno, grazie al passaparola, vede un’affluenza più alta di persone, e il terzo giorno la forte pubblicizzazione mass-mediatica dell’evento produce la partecipazione di una folla incontrollabile: le persone spingono per entrare nella ripresa.

[Guarda la cronologia sui progetti di

“Excerpts from A Hole in Space -- the mother of all video chats”, https://www.youtube.com/watch?v=QSMVtE1QjaU, pubblicato da Larry press il 15 marzo 2008

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telecomunicazione: http://www.edueda.net/index.php?title=Cronologia_e_indagine_di_lavoro_dell%27attivita%27_di_telecomunicazione ]

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Su questo terreno si sviluppa, nel corso degli anni Novanta e con la diffusione nelle case di internet, la net.art, che inizia così ad inserirsi nel sistema dell’arte e a ricevere spazi presso i festival di arte contemporanea.

Agli inizi la tecnologia non permette di creare lavori di alta qualità, ma essendo uno strumento ancora poco conosciuto, la rete viene utilizzata in maniera sperimentale, gli artisti si concentrano non tanto sui contenuti quanto sulle possibilità offerte dal nuovo medium e sul suo carattere interattivo capace di rendere il fruitore partecipe all’opera d’arte. Successivamente gli artisti iniziano a riflettere anche sul contenuto e sul nuovo linguaggio sviluppato dalla rete, sulla possibilità di trasformare ogni segno in link che porti a qualcos’altro [ ibridazione linguaggio ].

In quest’ambito nasce in America l’ASCII art, che si basa sull’uso esclusivo dei caratteri ASCII (American Standard Code for Information Interchange) per realizzare opere artistiche. L’ASCII art nasce come progetto pionieristico del newyorkese Kenneth C: Knowlton. Un file ASCII è in realtà un file di testo con estensione .txt privo di formattazione, in cui usando i caratteri e i simboli della tastiera è possibile realizzare delle immagini. È un genere di arte che nasce come prodotto esclusivo del medium che viene utilizzato, il quale non deve imitarne un altro — come la pittura, o la fotografia — ma sviluppa un proprio genere artistico nuovo, che dipende dal linguaggio sul quale è strutturato. Vuk Cosic insieme al Ljubljana Digital Media Lab crea una macchina fotografica a caratteri ASCII, l’Instant Ascii Camera, presentata nel marzo del ‘99 al Next 5 Minutes 3 ad Amsterdam. La macchina si presenta come una colonnina per le foto tessere, la foto prodotta è un autoscatto in ASCII emesso su uno scontrino fiscale. In questo senso l’arte diventa metalinguistica e referenziale, essa studia i meccanismi stessi della rete e il suo linguaggio.

Questo stesso approccio viene adottato dalla software art, che si sviluppa verso la metà degli anni Novanta, un genere artistico in cui il software viene creato da un artista e viene inteso come

opera d’arte. In questo genere di arte i codici di programmazione vengono manipolati in maniera sperimentale, ne vengono valorizzati gli aspetti creativi, per cui i programmi non sono semplici insiemi di algoritmi progettati per compiere una specifica funzione, ma sono costituiti da codici binari, pixel, caratteri ASCII, immagini bitmap, animazioni, video, stringhe di linguaggio html, indirizzi IP, etc. Così, mentre la Apple nel 1984 con la GUI(Graphical User Interface) nasconde all’utente il software tramite un’interfaccia grafica — quando prima di allora era necessario apprendere una serie di istruzioni nell’interfaccia a linee di comando, e solo pochi erano in grado di farlo — la software art ci rende consapevoli che il codice digitale è semplicemente un set di istruzioni attraverso le quali la macchina compie delle operazioni. Questo tipo di arte si sviluppa soprattutto nell’estetica dell’errore e

Vuk Cosic, immagine realizzata con Instant Ascii Camera, 1999, Next 5 Minutes 3 (Amsterdam)

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del low-tech, e Florian Cramer è uno dei maggiori teorici della software art. In “Anti-Media” Cramer cita le parole di Matthew Fuller, che propone come alternativa a “software art” il termine “speculative software”:

«Software il cui lavoro è in parte quello di indagarein maniera riflessiva su se stesso come software,software come scienza narrativa, come epistemologia mutante».[Cramer Florian, “Anti-Media, Ephemera on Speculative Arts”, nai010 publisher, Institute of Network Cultures, Rotterdam, 2013]

Un importante esempio di Software art è “Auto-illustrator” di Adrian Ward, che vince il premio per il software artistico al festival d’arte Transmediale01 di Berlino nel 2001, il primo premio di questo genere. Auto-Illustrator è un software che presenta la stessa interfaccia grafica di Adobe Illustrator, ma genera degli elaborati finali che sono frutto di un mix tra il controllo dell’utente e il caso, autogenerato dal software. Auto-Illustrator devia i percorsi e modifica le opzioni dell’utente, può anche decidere di terminare la sessione di lavoro perché non è ispirato dagli input che gli forniamo.

Il fatto di usare gli strumenti di un software del generepresuppone che identifichiamo certe icone con dellefunzioni, ma in questo caso le icone non corrispondono

alle azioni che crediamo di fare, perché in realtà non è il programma che sceglie, ma il programmatore. La software art, come idea di atto artistico che nasce da un codice e dalle istruzioni date dal programmatore, può essere individuato anche in alcune esperienze Fluxus. Un esempio è la composizione del 1961 di La Monte Young “Draw a straight line and follow it”, considerato uno dei primi esempi di musica minimale e una delle prime istruzioni per performance Fluxus che può essere impartita sia ad un essere umano che ad una macchina. La software art può essere considerata unʼevoluzione — dovuta allo sviluppo del computer — dell’arte cinetica e programmata, in cui la macchina e l’uomo si vengono incontro e cercano di parlare lo stesso linguaggio.

Nell’ambito della net.art si vengono a creare piattaforme in cui gli artisti si incontrano per la comunicazione e lo scambio critico di idee. Nel 1995 nasce Nettime [ http://www.nettime.org/ ], una mailing list con testi in diverse lingue, creata da Pit Schultz con la collaborazione di Geert Lovink. Questo progetto si propone di formulare un discorso a livello internazionale sui linguaggi della rete e dei new media, costruito da persone

preparate in discipline differenti e provenienti da tutto il mondo in grado di sviluppare un discorso critico sulle implicazioni politiche e culturali dei media

“Auto-Illustrator Demonstration - version 1”, https://vimeo.com/16023289, pubblicato da Gareth Foote il 20 ottobre 2010

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e della tecnologia. Allo stesso tempo Nettime si interessa alla produzione di libri in diverse lingue, in modo da diffondere la conoscenza sia online che offline. La prima riunione con l’omonimo nome viene organizzata nel giugno del ‘95 alla Biennale di Venezia, come parte dell’evento del Club di Berlino. La lista decolla in autunno, e una prima raccolta cartacea viene lanciata del gennaio del 1996. Nel 1999 viene pubblicata un antologia di Nettime di 556 pagine “Readme! Ascii Culture and the Revenge of Knowledge” (edito da Autonomedia, New York). Nettime organizza anche incontri, festival e congressi ai quali vengono associate pubblicazioni periodiche (ZKP), e i ZK sono le riunioni internazionali del Medien Zentralkomittee, avvenute finora a Venezia, Budapest e Amsterdam. Gli argomenti ricorrenti di cui si discute nelle riunioni ZK sono legate alla cultura delle reti, in particolare le politiche della telecomunicazione, la metafora della città, il tribalismo all’interno della rete, l’arte. Infatti Nettime diventa un luogo di scambio di informazioni su eventi di arte e per la distribuzioni di testi tra artisti, programmatori, giornalisti. Questo archivio raccoglie discussioni sviluppate dal 1995 ad oggi, e diventa una raccolta importante circa la teoria e le pratiche della net.art, includendo testi teorici ed interviste ai net.artisti.

Si vengono a definire, attraverso la rete, delle vere e proprie comunità che si muovono attorno ad interessi comuni [ come le tecnologie cambiano la società / il villaggio globale e la ri-tribalizzazione

nella società elettrica ]. Un altro esempio in tal senso è Rhizome [ http://rhizome.org/ ], che nasce come organizzazione no profit — dal 2002 Rhizome è diventato a pagamento per la fruizione dei contenuti — che connette l’arte contemporanea all’uso dei nuovi media, con un’attenzione particolare alla net.art. Rhizome nasce per opera di Mark Tribe in Germania nel 1996, e ne fanno parte oltre 6000 membri/artisti che grazie ad una mailing list hanno la possibilità di commentare, discutere e scambiarsi idee sulle opere proprie o di altri e sul tema di internet. Contiene un archivio di progetti (ArtBase), un calendario di eventi legati alla new media art, corsi online e offerte di lavoro.

Nel 1996 nasce il progetto “Refresh” per opera di vari autori — Cosic, Shulgin e Broeckmann — per dare visibilità agli artisti: una pagina web che si auto-rigenera ospitando le opere dei net artisti di tutto il mondo. Il progetto sovverte il refresh dei siti usati per gli aggiornamenti della pagina, il refresh in questo caso non aggiorna il sito ma ricombina e propone siti e opere di net artisti di tutto il mondo, dando vita ad una comunità cosmopolita.

Alexei Shulgin è il padre della Form art. Nel 1997 Shulgin lancia la competizione Form art, dove <form> è una tag del linguaggio html che consente di creare finestre di inserimento dati nelle pagine web. In questocaso quindi, come avviene anche nella ASCII art, un elemento funzionale tipico del linguaggio informatico viene utilizzato come oggetto di indagine estetica,

le barre vanno a riempire il monitor sviluppando un nuovo linguaggio figurativo. Prova: http://archive.rhizome.org/artbase/48528/.

Uno degli aspetti più interessanti e potentidella net.art è il fenomeno del plagiarismo. Essendouno spazio virtuale, la rete diventa un luogo in cui ognuno può facilmente assumere un’identità diversa rispetto a quella che vive nel mondo reale, o vivere molteplici personalità che si fanno beffe degli altri utenti

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“Form Art”, https://vimeo.com/10027255, pubblicato da Per Platou il 9 marzo 2010

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[ i new media sostituiscono gli old media, o no? / caratteristiche e funzioni analogiche / identità e rapporti sociali ].

Il web rende ambigua la nostra identità, non si può mai effettivamente essere certi al cento per cento di chi si trova dall’altra parte dello schermo. Ed è con questo concetto giocano molti net artists,tra i primi il duo bolognese nato verso la fine degli anni Novanta 0100101110101101.org [ http://0100101110101101.org/ ]. Il gruppo — il cui nome sta per la lettera “K” nel codice binario e viene abbreviato in 0.1.org — è costituito da Eva e Franco Mattes. Gli artisti scelgono l’arte come forma di critica sociale, e i nomi fittizi mantengono anonima la loro identità, come critica al diritto di proprietà e al copyright. Hanno usato spesso altri nomi falsi, come Renato Posapiani e Tania Copechi, Luther Blisset — ricavato dal nome del centravanti inglese di origine giamaicana Luther Loide Blissett — che diventa uno pseudonimo collettivo apparso per la prima volta a Bologna nel 1994 e poi diffuso in tutto il mondo; Darko Maver, con cui sono riusciti a prendersi gioco della Biennale di Venezia. Nel 1999 infatti l’artista serbo Darko Maver viene selezionato dalla Biennale di Venezia, ma prima dell’esposizione viene annunciata la sua morte sotto un bombardamento NATO. La Biennale allestisce comunque la sua esposizione, ma poi si è scoperto che quell’artista non era mai esistito. Hanno impersonato anche istituzioni come il Vaticano, la Nike, l’Unione Europea, prendendole in giro e lasciando emergere una profonda critica sociale, e molto spesso sono stati denunciati.

0.1.org lavora infatti con i mass media per raggiungereun vasto pubblico in maniera rapida sviluppando e diffondendo argomenti politici. In “Nike Ground” (2003), ha diffuso attraverso brochure, il sito e un chiosco informativo, la notizia che la piazza più famosa di Vienna, Karlsplatz, era stata acquistata dalla Nike e si sarebbe chiamata Nikeplatz. La loro diventa in questo caso una performance di “allucinazione collettiva” che fa riflettere sulla potenza delle multinazionali e sull’influenza che hanno sulla nostra vita.

0.1.org ha hackerato diversi siti di net.art, come la galleria di net.art Hell.com (privata e non accessibile), scaricando il sito dalla rete e mettendolo a disposizione sul loro sito. Nel 1988 apre il sito vaticano.org [ http://0100101110101101.org/files/vaticano.org/phome_it.html ] in cui clona il sito ufficiale del Vaticano e vi aggiungono commenti improbabili della Santa Sede, con affermazioni eretiche e una lunga citazione di una band pop italiana. 0.1.org si pone l’obiettivo si liberare l’arte dal sistema di mercato, l’opera può infatti essere riutilizzata, può essere modificata dagli utenti, decostruita, per creare arte nell’arte. La loro è la battaglia del copyleft, operazione che la rete ha reso estremamente semplice, infatti lavorano spesso ai confini dell’illegalità, si appropriano di opere di arte digitale e le remixano. Diffondono anche un virus informatico per la Biennale di Venezia nel 2001 (biennale.py).

Un progetto importante che portano avanti dal 2000al 2003, sul filone della condivisione e dell’hackeraggio, è “Life Sharing” (anagramma di file sharing), un sistema per condividere file basato sul sistema operativo Linux — sistema operativo che a differenza di Microsoft e Machintosh è open source, in quanto fornisce anche il codice del programma che può quindi essere modificato dai programmatori che lo usano. Tramite Life Sharing 0.1.org. dà agli utenti del loro sito libero e illimitato accesso a tutti i contenuti dei loro computer — testi, immagini, posta privata — trasformando un sito in un “personal media” per la condivisione totale della vita digitale dell’artista. Gli utenti possono cercare di tutto sul computer degli artisti, leggerlo e copiarlo liberamente, inclusi i software free.

0100101110101101.org., “Nike Ground”, 2003, Karlsplatz (Vienna)

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Questo tipo di arte che si pone obiettivi etici e sociali, trova subito riscontro con la cultura hacker. Un hacker, in informatica, è una persona esperta di sistemi informatici che è in grado di introdursi in reti informatiche protette ed essere in grado di modificarle a proprio piacimento. Il termine viene utilizzato la prima volta negli anni Cinquanta nei laboratori MIT di Boston, usato dagli studenti per descrivere le loro bravate, quindi era paragonabile ad atti di goliardia studentesca. L’hacking era il frutto della curiosità e della competizione studentesca. L’istituto del MIT aveva una miriade di corridoi e tunnel sotterranei, così gli studenti presero ad utilizzare il termine “tunnel hacking” per indicare queste incursioni sotterranee non autorizzate. Tramite degli esperimenti, gli studenti iniziarono anche a fare scherzi utilizzando il sistema telefonicodel campus, battezzando questa attività “phonehacking”, in seguito “phreaking”. Questa combinazionedi curiosità, sperimentazione e disobbedienza verso l’autorità, ha portato allo sviluppo dell’hacking informatico. Spesso il termine viene utilizzato con unʼaccezione negativa, viene perciò utilizzato il termine “cracker” per indicare chi decide di infrangere un sistema di sicurezza informatico per rubare o manomettere dati per creare danno.

La carica ideologica che sta alla base dell’hacking porta alla nascita dell’hacktivism (hacker e attivismo)

e dell’hacker art, sottoinsieme della net.art in cui l’operazione artistica è rivolta nello specifico all’attivismo politico, al sabotaggio del capitalismo e del potere. L’arte diventa uno strumento per trasformare i processisociali e culturali, favorendo la cooperazione e la condivisione decentrata del sapere. È Tommaso Tozzi a definire il termine “hacker art” nel 1989 e scrive, tra gli altri, il libro “Happening Interattivi Sottosoglia” (Firenze, 1989). Come spiega in questo libro, essendo la vita immersa in sistemi interattivi, inseriti ormai nella normalità della vita

quotidiana, l’arte dovrà consistere in un’interazione tra cose e individui, così da poter confondersi con la vita di tutti i giorni. Questi interventi devono però agire sottosoglia, come dei virus, fare arte come hackers, lavorare negli interstizi che il sistema lascia scoperti. L’arte diventa così un intervento collaborativo per abbattere il sistema capitalista, i centri del potere, le gerarchie culturali e sociali, l’autorità, per creare delle relazioni alla pari, per cooperare al fine di sviluppare nuove forme di conoscenza aperte a tutti tramite l’uso di nuove tecnologie finalizzate al miglioramento dell’uomo. L’hacker art si presenta come un sistema aperto e anonimo, in continuo sviluppo, che offre piena libertà espressiva e che promuove un’etica del rispetto tra gli individui.

Nel 1995 Tozzi realizza Netstrike — o corteo virtuale — una forma di protesta realizzata tramite la rete e le mail nata contro gli esperimenti nucleari di Mururoa. Prima dell’estate del 1995 tra i messaggi del network ECN viene inviato un messaggio che invita ad organizzare uno sciopero, e nel messaggio vengono inserite le scritte “SCIOPERO” una affianco all’altra. Al messaggio rispondono altre persone che aggiungono altre scritte “SCIOPERO”, che alla fine diventano innumerevoli. In quel periodo infatti erano in atto forme di protesta in rete contro i test nucleari francesi di Mururoa, la gente mandava in massa

0100101110101101.org., “Life Sharing”, 2000-2003, homepage

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e-mail alla casella postale del Governo francese per intasarne la mailbox. Tozzi si interessa alla questione e dopo uno scambio di messaggi con Mafalda Stasi sulle pratiche delle catene di Sant’Antonio riguardo la questione francese, nell’agosto del ‘95 — periodo in cui è Sysop (operatore di sistema, ovvero amministratore di un sistema informatico multi-utente) della BBS Virtual Town TV — spedisce un messaggio nella lista telematica “Idee in movimento” della rete “Cybernet”, cui la BBS è collegata. In questo messaggio Tozzi propone l’idea del Netstrike, spiegandone il meccanismo generale e proponendo di realizzare il primo netstrike contro i test nucleari di Mururoa. Nel messaggio Tozzi definisce tale pratica “Cyber strike”, ma in seguito la modificherà in “Netstrike”. Egli inoltre spiega che lo sciopero deve essere diffuso in rete con la spiegazione delle motivazioni. L’idea è di costruire una rete di relazioni tra siti web, mailing list, gruppi e singoli che siano in grado di diffondere in modo capillare il messaggio di sciopero. Per realizzare questo genere di scioperi viene lanciato un messaggio con l’invito a collegarsi in unʼora di un giorno determinato al sito web responsabile di determinate azioni contro cui si vuole scioperare, con il risultato di paralizzare l’attività di tale sito per il periodo prestabilito dello sciopero. Lo sciopero può funzionare solo se la partecipazione è massiccia, andando a bloccare l’attività di comunicazione tra i soggetti dell’attività che si vuole attaccare, così come avviene negli scioperi tradizionali che bloccano il traffico cittadino.

Così il 21 dicembre del 1995 l’Associazione Culturale Strano Network — di cui Tozzi è membro fondatore insieme a Stefano Sansavini, l’allora presidente —organizza il primo netstrike mondiale contro dieci indirizzi in contemporanea, per protestare contro gli esperimenti nucleari francesi. Vengono invitati a partecipare, tra gli altri, gli invitati al convegno Metaforum II — che si era tenuto nell’ottobre del ‛95 a Budapest — e la mailing list Nettime. Vengono ingolfati dieci siti del Governo francese, dimostrando come un nuovo medium possa andare a ricalcare anche un’attività tanto diffusa nel mondo fisico come la protesta sociale e politica, assumendone forme nuove. (1)

Ma l'obiettivo non è semplicemente il blocco dei siti vittime del netstrike, ma lʼattuazione di un atto simbolico: le persone in rete ora prendono coscienza di fatti reali, questioni importanti, e decidono di agire. Così ne parla A. Carola Freschi in “Comunità virtuali e partecipazione. Dall’antagonismo ai nuovi

diritti” (2000):

«I netstrike, sia su questioni “locali” che su temi “globali”, evidenziano abbastanza bene come la rete diventi uno strumento di partecipazione civile che non riconosce i modelli della rappresentanza politica territoriale. Il netstrike è, di fatto, una forma di protesta che produce esiti a partire dal coordinamento di singoli individui, indipendentemente dalla loro appartenenza a organizzazioni e, soprattutto, in assenza di un controllo organizzativo sull’azione. Come è stato osservato a proposito delle potenzialità partecipative più generali della rete, emerge qui lo spazio per una “presa di parola” diretta degli individui. Il netstrike rappresenta una proposta, una sperimentazione, un tentativo in questa direzione, verso forme di partecipazione e di impegno civile che passino per l’agire degli individui. A questi la rete, soprattutto attraverso nuove forme di relazioni comunitarie, potrebbe forse restituire una dimensione di azione come individui “sociali”, al posto della condizione di individui “atomizzati” — o perché totalmente isolati rispetto a riferimenti di tipo collettivo, o perché del tutto intrappolati nelle dinamiche massificanti delle organizzazioni di tipo verticistico».[“Netstrike (1995)...”, op. cit.]

Nel 1998 la pratica del netstrike viene utilizzata anche da altri attivisti, come Riccardo Dominiguez che realizza il software Floodnet [ come le tecnologie cambiano la società / il villaggio globale e la ri-tribalizzazione nella società elettrica ].

L’obiettivo principale dell’hacktivism è infatti quello di mettere in contatto il mondo attraverso l’uso della tecnologia per diffondere la conoscenza, promuovere la circolazione delle idee e ostacolare ogni strumento che invece tende a censurarle. Ognuno ha il diritto a venire a contatto con le informazioni liberamente, senza alcuna interferenza, perciò il medium elettronico viene impiegato allo scopo di difenderei diritti umani. Il medium da sempre utilizzato per comunicare le forme di potere viene ora corrotto per aprire le porte alle conoscenza, processo questo non dissimile da quello attuato dai situazionisti e dagli attivisti degli anni Sessanta che si ribellano al capitalismo e alla cultura dominante, e nel comunicare le proprie idee i mass media vengono utilizzati in maniera sperimentale o adottando il sistema del cultural jamming, in cui i simboli del potere vengono utilizzati e rovesciati per diffondere nuovi pensieri. In questo senso un esempio importante è la finta corporation di artisti ®TMark che attacca i sistemi

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informatici delle vere corporation, imitandone l’aspetto ma sovvertendo i messaggi dell’azienda. Sul sito ®TMark [ http://www.rtmark.com/index.html ] vengono mostrati i loro progetti.Dopo la dissoluzione dell’oggetto, i net artisti propongono di portare avanti nuove sfide morali, l’arte sociale, l’arte come critica della società e contro il controllo dell’individuo da parte dei media, dei poteri forti e delle multinazionali; l’arte dell’utopia che combatte contro le logiche del mercato e che tuteli i diritti del singolo individuo. L’individuo, da sempre controllato dalla società, si prende una rivincita e irrompe nelle piattaforme stesse di controllo, alterandole, violandole. La rete può diventare uno strumento democratico attivo di arte ed etica, da trovarsi nella TAZ (zone temporaneamente autonome) teorizzate da Hakim Bey, ed evidente ad esempio nel sapere condiviso dei collettivi artistici come Rhizome o Nettime.

La net.art prevede l’interazione tra l’opera e lo spettatore in forma virtuale. In tal modo il sapere può essere facilmente distribuito ed è facilmente accessibile a tutti, ognuno può ricevere e al tempo stesso condividere il proprio sapere. L’opera è così in continua evoluzione e trasformazione, diventa un campo in cui si incontrano le conoscenze e si uniscono, per opporsi insieme ai poteri della società e dell’economia globalizzata, giungendo ad una forma di controinformazione più espanso. La net.art può anche essere considerata come il passaggio chiave all’arte immateriale, divulgata nel cyberspazio. Bisogna però ribadire che già nel 1969 (e ancora prima, con Moholy Nagy) la rete telefonica è stata utilizzata per atti artistici: gli artisti dettavano al telefono le opere che venivano ridisegnate dagli allestitori della mostra, quindi reinterpretate.

Nel 1985 Jean-François Lyotard cura la mostra “Les Immateriaux” al Centro Pompidou di Parigi [leggi l’intervista sulla mostra: http://www.art-agenda.com/reviews/les-immateriaux-a-conversation-with-jean-francois-lyotard-and-bernard-blistene/ ].Lyotard vede nelle nuove tecnologie digitali la possibilità di smaterializzazione dell’opera d’arte, il mutamenteo del ruolo dell’autore che non è più singolo ma diventa un autore collettivo, e l’interazione elettronica dello spettatore che perciò diventa autore egli stesso. Un pensiero simile era stato già portato avanti da movimenti degli anni Sessanta, tra i quali Fluxus, che parlava già di sapere in divenire e collaborativo, al fine di ampliare la conoscenza generale. Anche l’idea di multidisciplinarietà, della collaborazione tra artista

e scienziato, o della confluenza di diverse competenze in un unica personalità, trova dei precedenti. Robert Rauschenberg concepisce — insieme agli ingegneri Billy Klüver e Fred Waldhauer e all’artista Robert Whitman — nel 1967 il progetto “E.A.T.” (experiment in art & technology), un’organizzazione no-profit che si propone di far collaborare ingegneri e artisti.

Nella parte conclusiva di “Aspects of the aesthetics of telecommunications” Eduardo Kac afferma che i ruoli dell’artista e del pubblico stanno diventando sempre più intrecciati, la nozione di opera d’arte come oggetto artistico che impegna la percezione dello spettatore perde la sua posizione centrale, così come la figura dell’artista, lasciando il posto all’esperienza della comunicazione [ ibridazione ambiente / la posizione degli attori coinvolti ]. L’arte delle telecomunicazioni offre un contesto nuovo per il dibattito postmoderno. I nostri scambi sono stati relativizzati dalle nuove tecnologie: dalla segreteria telefonica al telefono cellulare, dal Bancomat all’interfaccia vocale del computer, dai sistemi di sorveglianza al satellite, dalla radio alle reti wireless, dalle reti di trasmissione alle reti e-mail, dal telegrafo allo spazio libero di comunicazione. Questi strumenti, che promuovono la comunicazione tra persone, secondo Kac non sono da guardare né in modo totalmente negativo né assolutamente positivo. Questi media ci allontanano dall’idea di comunicazione come semplice trasmissione di un messaggio, come distributori di un significato predefinito e stabile. L’uso sperimentale delle telecomunicazioni da parte degli artisti punta verso nuove problematiche culturali e verso un nuovo tipo di arte. Oggi due o più persone possono videochiamarsi, quindi le loro voci possono sovrapporsi, possono guardarsi e sentirsi. Kac si chiede:

«Dopo l’arte minimal e concettuale, è sufficiente tornare agli elementi decorativi della parodia e della pittura come pastiche? E l’ibridazione dei media, che ora comprime al massimo la capacità del processo di informazione in uno spazio minimo? Come affrontare i nuovi ipermedia che si uniscono in un solo apparecchio telefonico, televisore, segreteria telefonica, dischi video, registratore di suoni, computer, fax/e-mail, videotelefono, elaboratore di testi e molto altro? Come possono un ricevitore o un trasmettitore essere considerati come valori certi, se è solo nell’atto della connessione, se è solo nell’intreccio tra gli scambi telefonici che tali posizioni si costituiscono temporaneamente?

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Gli artisti contemporanei devono osare lavorare con i mezzi materiali ed immateriali del nostro tempo e affrontare l’influenza pervasiva delle nuove tecnologie in ogni aspetto della nostra vita, anche se questo comporta di interagire a distanza, di rimanere fuori dalla portata visiva, a distanza dal mercato dell’arte e dai suoi complici».[Eduardo Kac, “Aspects of...”, op. cit.]

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B i b l i o g r a f i a c o n s u l t a t a

Autori vari, introduzione di Salaris Claudia, “La rivoluzione tipografica”, Sylvestre Bonnard, Milano, 2001

Baraldi Celeste, Chiuchiolo Marcello, Denti Giuseppe, "Copy-art, la funzione creativa della fotocopiatrice", Ulisse Edizioni, Bologna, 1991

Bois Yve-Alain, Buchloh Benjamin H., Foster Hal, Joselit David, Krauss Rosalind, “Arte dal 1900. Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo”, seconda edizione, Zanichelli, 2013

Celant Germano, "OffMedia. Nuove tecniche artistiche: video, disco, libro", Dedalo Libri, Bari, 1977

Chambers Iain, “Ritmi urbani. Pop music e cultura di massa”, Costa & Nolan, Genova, 1996

Cramer Florian, “Anti-Media, Ephemera on Speculative Arts”, nai010 publisher, Institute of Network Cultures, Rotterdam, 2013

Debord Guy, “Guy Debord: Complete Cinematic Works: Scripts, Stills, Documents”, AK Press, Oakland (CA), 2003

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Nel messaggio inviato da Strano Network il 21 dicembre del 1995 si legge:

«Diffondi e promuovi questo messaggio. a) Il giorno 21-12-1995 dalle 18:00 alle 19:00 (data e ora cambiano a seconda del fuso orario; consulta la tabella n.2 in fondo al messaggio) collegati ai siti web del governo francese (vedi elenco indirizzi nella tabella n.1 in fondo al messaggio, oppure ritaglia e usa l’home page che trovi nella tabella n.3 in fondo al messaggio). b) Ripeti l’operazione più volte (a intervalli di pochi secondi) per un’ora».[“Netstrike (1995)”, http://www.tommasotozzi.it/index.php?title=Netstrike_(1995), ultima consultazione 2015]

Il messaggio prosegue con le motivazioni della manifestazione.Nel gennaio del 1996 Strano Network organizza un netstrike contro il Governo messicano per protestare a sostegno dei chiapas e della lotta zapatista. Nel maggio del 1996 organizza un netstrike contro il sistema americano per protestare in favore di Mumja Abu Jamal e di Silvia Baraldini, provocando il blocco del server della Casa Bianca per circa 12 ore. Nell’agosto del 2001 il sito www.netstrike.it viene sequestrato, e Tommaso Tozzi invia in rete un messaggio:

«[…] Il netstrike è un corteo telematico che avviene grazie al fatto che un massiccio numero di persone si collegano contemporaneamente per “camminare” nelle “strade digitali” di un sito. Il collegamento di molte persone ad un sito ha lo stesso effetto che avviene nelle strade di una città reale quando c’è una manifestazione: il traffico si rallenta fino a bloccarsi per la durata della manifestazione. I netstrike durano un’ora, sono annunciati precedentemente con comunicati diffusi pubblicamente ai media. Non c’è violenza nel collegarsi collettivamente ad un sito: niente viene alterato o distrutto, sebbene non sia più possibile visionare i contenuti del sito per l’intera durata del netstrike. Così avviene nelle strade del mondo reale. Così avviene nelle strade del mondo digitale. […] Ecco perché nel 1995 ho inventato il netstrike: per dimostrare che attraverso la rete internet esiste la possibilità di avere una pratica che fa uso di uno “spazio”, sebbene virtuale, in cui riunirsi a livello “globale” per protestaresu questioni legittime. Il netstrike è un evento di massa. Permette, questa è la novità, di effettuare con facilità proteste internazionali su temi scottanti per l’intera umanità consentendo ai popoli di riconoscersi in un ideale comune al di là delle barriere geografiche o dei confini politici. Il netstrike è un’opera d’arte collettiva in grado di esprimere e dare voce ai sentimenti di una comunità».[“Netstrike (1995)...”, op. cit.]

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