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277 CAPITOLO 12 L’OBESITA’ E LO SPORT GIOVANILE 1. Introduzione Secondo la professoressa Alessandra Simonelli dell’università di Padova, oggi l’obesità esiste non solo nei cosiddetti Paesi sviluppati, ma anche in nuovi Paesi dove prima erano più frequenti malattie come la malnutrizione e le malattie infettive (es. l’Asia), arrivando a rappresentare una delle principali fonti di preoccupazione nella sanità pubblica di quei Paesi. Nel bambino, l’obesità aumenta drammaticamente nell’America del Nord ed in Europa. In Italia, un bambino su dieci è obeso. A questo problema sono interessati insegnanti, genitori e medici. Secondo alcune ricerche la progressione dell’obesità è tale (150% in 10 anni) che fa temere un’evoluzione americana. Ora, l’80% dei bambini obesi diventano adulti obesi. L’obesità rappresenta un vero problema di salute pubblica, in particolare nei giovani. Nel 1998, l’OMS ha definito l’obesità come un’epidemia globale, che coinvolge sia gli adulti, sia i bambini, ed è il risultato di fattori sociali e ambientali. In questi ultimi anni, il problema dell’obesità è diventato sempre più importante anche nel nostro Paese, giungendo all’attenzione di diversi operatori sanitari. Il Ministero della Sanità, per l’anno 2003, ha promosso una campagna per una sana alimentazione, finalizzata all’adozione di abitudini di vita che contrastino la crescente tendenza della popolazione al sovrappeso e all’obesità. Tali patologie, secondo diverse ricerche, hanno un’insorgenza sempre più precoce: mediamente, su 10 soggetti nella fascia di età 6-13 anni, 2 risultano sovrappeso e 2 obesi; ma il dato più preoccupante è che, al momento, tale prevalenza non sembra predire un’inversione di tendenza. La cura dell’obesità infantile è necessaria per prevenire l’obesità in età adulta, che è spesso associata a patologie quali diabete mellito (o di secondo tipo), cancro e malattie cardiovascolari. È lecito, secondo diversi autori, ritenere che gli insuccessi del trattamento dell’obesità possano essere riferiti anche ad un inadeguato equipaggiamento metodologico nell’impostazione diagnostica e nel trattamento stesso. Non è un caso, infatti, che il trattamento della maggior parte dei soggetti obesi richieda un impegno diagnostico e

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CAPITOLO 12

L’OBESITA’ E LO SPORT GIOVANILE

1. Introduzione

Secondo la professoressa Alessandra Simonelli dell’università di Padova, oggi l’obesità

esiste non solo nei cosiddetti Paesi sviluppati, ma anche in nuovi Paesi dove prima erano

più frequenti malattie come la malnutrizione e le malattie infettive (es. l’Asia), arrivando a

rappresentare una delle principali fonti di preoccupazione nella sanità pubblica di quei

Paesi.

Nel bambino, l’obesità aumenta drammaticamente nell’America del Nord ed in Europa. In

Italia, un bambino su dieci è obeso. A questo problema sono interessati insegnanti,

genitori e medici. Secondo alcune ricerche la progressione dell’obesità è tale (150% in 10

anni) che fa temere un’evoluzione americana. Ora, l’80% dei bambini obesi diventano

adulti obesi. L’obesità rappresenta un vero problema di salute pubblica, in particolare nei

giovani.

Nel 1998, l’OMS ha definito l’obesità come un’epidemia globale, che coinvolge sia gli

adulti, sia i bambini, ed è il risultato di fattori sociali e ambientali.

In questi ultimi anni, il problema dell’obesità è diventato sempre più importante anche nel

nostro Paese, giungendo all’attenzione di diversi operatori sanitari. Il Ministero della

Sanità, per l’anno 2003, ha promosso una campagna per una sana alimentazione,

finalizzata all’adozione di abitudini di vita che contrastino la crescente tendenza della

popolazione al sovrappeso e all’obesità.

Tali patologie, secondo diverse ricerche, hanno un’insorgenza sempre più precoce:

mediamente, su 10 soggetti nella fascia di età 6-13 anni, 2 risultano sovrappeso e 2 obesi;

ma il dato più preoccupante è che, al momento, tale prevalenza non sembra predire

un’inversione di tendenza.

La cura dell’obesità infantile è necessaria per prevenire l’obesità in età adulta, che è spesso

associata a patologie quali diabete mellito (o di secondo tipo), cancro e malattie

cardiovascolari.

È lecito, secondo diversi autori, ritenere che gli insuccessi del trattamento dell’obesità

possano essere riferiti anche ad un inadeguato equipaggiamento metodologico

nell’impostazione diagnostica e nel trattamento stesso. Non è un caso, infatti, che il

trattamento della maggior parte dei soggetti obesi richieda un impegno diagnostico e

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terapeutico che necessita dell’apporto di altre competenze specialistiche, in particolare di

quelle attinenti alla psicologia (Simonelli, 2002).

Infatti, è possibile indagarne anche gli aspetti psicologici, aspetti che, però, spesso

vengono trascurati. Importanti sono le percezioni del bambino riguardo alle figure di

riferimento, poiché influenzano l’immagine di sé, l’autostima e i legami familiari e di

attaccamento (Bilello, Bonomi, Bulf, Frezza, 2003).

Un importante lavoro degli anni ’60 di Stunkard e Mc Laren-Hume dimostra che la

maggior parte dei pazienti in trattamento non è in grado di perdere peso o di mantenere i

risultati ottenuti, e questo dimostra, secondo gli autori, che psicologi e psichiatri devono

iniziare a lavorare insieme ai clinici per trovare modalità terapeutiche appropriate ed

efficaci.

Di certo, uno degli effetti negativi più evidenti ed immediati è rappresentato dal disagio

psicologico che affligge i soggetti obesi, specialmente i bambini più grandi e gli

adolescenti, disagio causato dalla consapevolezza di non avere un aspetto gradevole e dal

timore di suscitare la critica o il giudizio negativo degli altri. Tale timore è tutt’altro che

infondato, dal momento che il bambino viene spesso deriso dai suoi compagni fin

dall’inizio della scuola, venendo talora escluso dalla vita di gruppo importantissima ai fini

di un normale sviluppo psico-fisico (Stunkard e Mc Laren-Hume).

La società attuale tende, d’altra parte, a considerare, come ideale di bellezza, la figura

snella e alta, motivo per il quale le implicazioni emotive che l’obesità comporta diventano

particolarmente avvertite in età puberale, aggiungendosi ai disagi già eventualmente

presenti e finendo con accentuare o costruire vere e proprie reazioni depressive, legate

soprattutto alla scarsa autostima (Bruch, 1970).

Infine, Daniele (2003) ricorda che, secondo la relazione sullo stato sanitario nel nostro

paese, diffuso dal Ministero della salute e relativo agli anni 2001 e 2002, gli obesi sono il

25% in più rispetto al 1994.

Inoltre, dallo stesso rapporto risulta che soltanto il 21% della popolazione adulta pratica

uno sport una volta alla settimana o più e che un bambino su cinque non fa alcuna attività

fisica.

In Europa, il 10-20% degli uomini è in sovrappeso. Quanto alle donne, la quota va dal 10

al 25%.

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2. Definizione di obesità

L’obesità rappresenta una condizione in cui esiste un eccesso di massa corporea, dovuto

essenzialmente ad accumulo di grasso. Comunemente è considerata quindi ECCESSO DI

MASSA GRASSA. È un complesso disordine della regolazione dell’appetito e del

metabolismo energetico, influenzato da differenze genetiche tra gli individui (Bilello,

Bonomi, Bulf, Frezza, 2003).

Gli studi riguardanti l’obesità si basano su criteri nazionali, sebbene a volte si tenti di

usare dati riferiti ad altri Paesi. In realtà, gli indici variano considerevolmente da Paese a

Paese, perciò, nonostante considerevoli problemi, la tendenza attuale è quella di migliorare

(o risolvere) questa situazione con un consenso internazionale che prescinda da incertezze

e compromessi.

Gli standard usati per definire l’obesità sono differenti di volta in volta anche in Italia,

rispetto a studi precedenti.

Secondo alcuni autori, l’obesità può essere vista come una condizione eguale e contraria

all’anoressia: entrambe sono collegate ad un’errata percezione della fame e del proprio

corpo, non sono riducibili ad un’unica causa, né si possono chiarire con un’unica

spiegazione, quanto piuttosto dipendenti dall’intrecciarsi di varie forze indipendenti

(mangiare troppo o mangiare poco sono due modi opposti, ma inseparabili, della stessa

ossessione verso il cibo).

La classificazione principale propone due tipi di obesità:

- ESSENZIALE (o PRIMARIA o SEMPLICE);

- SECONDARIA

Quest’ultima può essere originata da cause:

- endocrine: Sindrome di Cushing, ipotiroidismo, panipopituitarismo (deficit selettivo

dell’ormone GH), disfunzioni ipotalamiche, pseudoipoparatiroidismo, Sindrome di

Mauriac;

- genetiche: Sindrome di Cohen, Sindrome di Klinefelter, Sindrome di Down.

In Italia, dal 10% al 30%, i soggetti in età pediatrica sono in sovrappeso o obesi. Ciò non

va considerato solo per gli aspetti negativi legati a quel particolare momento della vita, ma

anche come condizione predisponente di obesità nell’età adulta (Bilello, Bonomi, Bulf,

Frezza, 2003).

Sebbene gli effetti a lungo termine del sovrappeso e dell’obesità sull’insorgere di malattie

e sulla mortalità nei bambini non sono ancora ben documentati, diversi studi suggeriscono

che l’obesità nell’infanzia è seguita da serie conseguenze nell’età adulta.

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Esistono una varietà di definizioni dell’obesità infantile, e non ci sono ancora standard

comunemente accettati. La definizione ideale, basata sulla percentuale di grasso corporeo

è inutile per un uso epidemiologico.

Nel primo anno di vita, il bambino presenta naturalmente un eccesso di massa grassa (12%

del suo peso corporeo). Questa diminuisce fino ai 5 anni, e mantiene un decremento fino ai

10 anni. Si verificano, infatti, delle modificazioni a livello degli adipociti, che si erano

enormemente moltiplicati negli ultimi mesi della vita intra-uterina. Gli adipociti, stabili nel

primo anno di vita, cominciano a ridursi di volume dal secondo al quinto. Nei bambini

obesi, gli adipociti subiscono variazioni numeriche e volumetriche diverse da quelle

suddette: manca la temporanea riduzione di volume di queste cellule dopo il primo anno di

vita e l’incremento numerico risulta di gran lunga superiore a quello del soggetto

normopeso. Tali modificazioni spiegherebbero, secondo alcuni autori, le difficoltà che si

incontrano nel tentativo di ridurre l’adiposità.

Dal momento che, raggiunta una certa età, il numero di adipociti non può diminuire le

obesità infantili, sono particolarmente resistenti alle terapie e maggiore è il rischio di

recidive (Simonelli, 2003).

Secondo il criterio ISTOLOGICO, si possono distinguere due tipi di obesità:

- obesità ipertrofica (aumento di volume degli adipociti);

- obesità iperplastica (aumento del numero degli adipociti)

In realtà, in entrambe le forme ci sarebbe un aumento in volume degli adipociti, perciò

sarebbe più corretto considerare un’obesità ipertrofico-iperplastica e un’obesità ipertrofica

pura.

La prima forma di obesità è particolarmente importante quando si parla di obesità

infantile, perché gli adipociti mantengono la capacità di moltiplicarsi. Nelle obesità

infantili e adolescenziali, l’aumento del tessuto adiposo avviene per un aumento

prevalentemente numerico degli stessi.

L’obesità in età pediatrica è definita come un sovrappeso superiore al 20% del peso ideale,

calcolato in base a sesso, altezza ed età. Tuttavia la definizione di obesità nell’infanzia e

nell’adolescenza non rimane chiara. Negli adulti la co-insorgenza di malattie insieme

all’obesità può essere usata per stabilire il cut-off, che viene fissato laddove il rischio per

la salute del paziente comincia a crescere drasticamente, ma nei bambini altre malattie

subentrano meno frequentemente e il ruolo della distribuzione del grasso corporeo non è

stato ancora studiato completamente all’interno dei processi di crescita (Simonelli, 2003).

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La definizione stessa di obesità infantile diventa prioritaria, anche se ostacolata da

numerose difficoltà. È necessario risolvere questa questione prima di poter parlare di

diffusione dell’obesità infantile a livello mondiale (Simonelli, 2003).

Poiché il BMI ha qualche svantaggio, sarebbe auspicabile ricorrere anche ad altri metodi,

quali il calcolo del peso relativo percentuale [ (Preale/Pideale) * 100] e la misurazione del

tessuto adiposo.

2.1 Definizione del DSM-IV

“I disturbi dell’alimentazione sono caratterizzati dalla presenza di grossolane alterazioni

del comportamento alimentare”.

Il DSM-IV inserisce l’obesità tra i disturbi ancora da validare, escludendola dai disturbi

dell’alimentazione, perché non ritenuta correlata in modo certo con sindromi psicologiche

o comportamentali.

Si parla di “disturbo di alimentazione incontrollata” (BED = Binge Eating Disorder),

definito come “episodio ricorrente di alimentazione impulsiva associato con indicatori

soggettivi e comportamentali di riduzione del controllo e di disagio significativo

concernenti l’alimentazione impulsiva, in assenza dell’uso regolare dei comportamenti

compensatori inappropriati, che sono caratteristici della bulimia nervosa”.

I pazienti affetti da BED presentano gravi difficoltà nel controllare il loro peso e nel

continuare una dieta; riferiscono che il mangiare senza controllo dipende da alterazioni

dell’umore quali depressione e ansia.

Tali pazienti si caratterizzano sulla base ad alcuni tratti:

- difficoltà di regolazione delle emozioni;

- depressione e ansia;

- insoddisfazione riguardo il proprio corpo;

- dissociazione (stato di trance);

- alexitimia (difficoltà nel descrivere e riconoscere le proprie emozioni).

Va sottolineato che non tutti i pazienti obesi presentano anche un disturbo

dell’alimentazione incontrollata e questo evidenzia la ristrettezza della categoria

diagnostica.

2.2 Definizione dell’OMS

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce l’obesità in base all’indice di massa

corporea (BMI = Body Mass Index).

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Grazie a questo indice, si distinguono vari livelli di obesità nell’adulto, ma non può

tuttavia essere utilizzato con l’anziano, poiché la sua statura si riduce a causa dello

schiacciamento delle vertebre o il curvarsi della colonna vertebrale.

Allo stesso modo, non può essere utilizzato per i bambini, a causa della diversa relazione

tra gli indici di peso e altezza, e così si utilizzano percentili in funzione dell’età e del

sesso.

La classificazione distingue 4 livelli di sovrappeso, 1 di normopeso e 3 di sottopeso.

3. Diagnosi (segni e sintomi) e rischi

Secondo la letteratura, i principali comportamenti alimentari anomali accompagnati

all’obesità sono:

• Iperfagia (mancato senso di sazietà, esagerato senso di fame):

comporta senso di soddisfazione o frustrazione;

• Assunzione di piccole quantità di cibo molte volte durante la giornata:

associato a depressione o ansia;

• Sonno interrotto per ricerca di cibo;

• Bulimia nervosa;

accompagnata da sensazione di perdita di controllo;

• Assunzione compulsava di particolari alimenti:

attuata con lo scopo di ottenere gratificazione.

L’ipotesi nota è che le persone obese soffrano di disturbi emotivi e abbiano valori più

elevati per la depressione, l’isteria, l’ipocondria e l’impulsività (Simonelli, 2003). Molti

autori concordano sul fatto che parte dei soggetti obesi soffra di una psicopatologia, ma

che questa sia secondaria all’obesità stessa e probabilmente collegata al pregiudizio e alla

discriminazione che tali soggetti subiscono.

Solitamente, le persone in sovrappeso non si arrabbiano quasi mai, perpetuando la favola

degli obesi allegri e paciocconi, invece dietro una facciata di contentezza sono nascosti

seri problemi emotivi che prendono il sopravvento nell’abbandono ad eccessi alimentari in

seguito a sconvolgimenti emozionali. Ciò potrebbe spiegare perché gli obesi hanno una

mortalità superiore alla media per via di numerose malattie collegate ad un’alimentazione

scorretta ad eccezione dell’incidenza al suicidio che risulta significativamente ridotta

(Bilello, Bonomi, Bulf, Frezza, 2003).

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4. Classificazione di Mayer

Mayer propone una classificazione delle obesità di tipo fisio-patologico, che tiene conto

della distribuzione del tessuto adiposo nella diverse parti del corpo. Così, distribuzioni che

coinvolgono parti diverse del corpo avranno alla base tipi diversi di obesità.

Il ricercatore suddivide le obesità in:

a) regolatrici-alimentari;

b) non combustive/non iperfagiche.

Le due categorie, con le sottocategorie corrispondenti, sono caratterizzate da particolari

distribuzioni morfologiche del tessuto adiposo.

Obesità regolatorie-alimentari: il sovrappeso si verifica a seguito di un eccessivo introito

energetico. Si dividono in:

- obesità alimentare da sovralimentazione (tipo 1). Caratterizzata da un disordine sia

qualitativo che quantitativo del comportamento alimentare, è la conseguenza di un eccesso

alimentare, con l’introduzione di enormi quantità di cibo ipercalorico, anche se tale

introduzione è regolare nei tempi di assunzione. Questi obesi sarebbero relativamente

insensibili agli stimoli interni verso il cibo e dipendenti, invece, dagli stimoli esterni: le

caratteristiche esteriori del cibo e le circostanze nelle quali viene consumato.

- obesità alimentare da crisi ipoglicemiche (tipo 2). Obesità conseguente ad iperfagia

per piccole assunzioni di alimenti a elevato valore calorico; è causata da una disfunzione

ghiandolare dovuta ad un’anomalia del metabolismo, che porta ad una caduta del livello di

glucosio ematico.

- obesità alimentare da bulimia nervosa (tipo 3). L’elemento eziologicamente

determinante è dato dalla struttura della personalità del paziente e dalla dinamica dei suoi

conflitti: si riconosce, quindi, un’origine psicologica dell’obesità. La bulimia può essere

accompagnata da senso di vuoto, di bisogno, che viene somatizzato come senso di fame.

Dopo le introduzioni coatte di cibo è presente un senso di colpa molto acceso. Queste

“orge alimentari” si svolgono principalmente durante un periodo della giornata, ad

esempio di notte o durante i fine settimana.

Obesità non combustive/non iperfagiche. Si fanno risalire ad un’alterazione metabolica

specifica, non essendo dimostrabile un’alterazione del comportamento alimentare.

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Mayer critica la concezione classica, secondo cui l’obesità viene considerata una malattia

e curata su questa base con diete ipocaloriche e farmaci anoresizzanti. L’effetto è quello di

un dimagrimento che spesso è temporaneo e che porta ad una corporatura disarmonica.

L’autore, invece, ritiene che l’obesità non possa essere considerata una malattia, ma un

sintomo di malattia, che, presentandosi in forme cliniche assai diverse, presuppone

l’intervento di momenti eziologici diversi, ciascuno caratterizzato dall’accumulo di tessuto

adiposo, ma in parti specifiche del corpo, con caratteri morfologici differenti..

Se, poi, ci si chiede cos’è una malattia, e la si definisce come un’alterazione dell’integrità

strutturale e funzionale dell’organismo, diventa imprescindibile per impostare una

diagnosi corretta un inquadramento morfometrico del paziente, cioè un’accurata disamina

morfometrica, con svariate misurazioni morfometriche che analizzino i diametri di vari

segmenti del corpo e delle pliche cutanee (Simonelli, 2003).

Accanto all’indagine morfologica, ci si avvale anche dell’indagine anamnestica,

dell’indagine sulle abitudini alimentari del paziente, delle analisi in laboratorio.

Infatti, ad esempio, l’obesità di tipo 1 di Mayer presenta caratteristiche morfologiche

sovrapponibili alle varie forme cliniche di obesità.

In questo caso, solo un’indagine anamnestica porterà ad una diagnosi differenziale

corretta.

I bambini obesi sembrano avere statura superiore ai coetanei ed un anticipo sulla

maturazione puberale e scheletrica (Simonelli, 2003).

Non esiste, invece, una struttura psicologica tipica per tutti i bambini obesi. Si evidenzia

un elevato grado di variabilità nei comportamenti di tipo:

- alimentare: iperfagia globale o selettiva, continua o limitata ai pasti principali;

- psicosociale: tendenza all'isolamento versus buone competenze sociali.

Nei bambini obesi si trova la difficoltà a vedere la madre come base sicura dalla quale

partire, e, pertanto, sono spesso bambini timidi e timorosi, che mostrano un minor

adattamento a situazioni nuove. A questo proposito, Bruch (1974) evidenzia come i

bambini obesi mostrino profonda incapacità a far da soli, in ogni aspetto della vita

quotidiana, legata ad un profondo sentimento di insicurezza e timore dei contatti sociali.

Questi bambini non manifestano apertamente comportamenti aggressivi: il mangiare

soddisfa i loro impulsi e la loro mole è un modo per farsi valere, come se nel loro essere

grassi trovassero il senso di sicurezza che non trovano altrove. Di fianco a questa visione

rassicurante c’è la visione negativa, cioè il senso di colpa e vergogna per la mancanza del

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dominio di sé e di volontà: l’esser grassi è la pubblica ammissione del loro fallimento.

L’avversione per la grassezza è il simbolo di tutto quello che il bambino detesta di sé.

Il bambino obeso ha una personalità caratterizzata dalla tendenza alla passività (maggiore

nei maschi che nelle femmine) e alla dipendenza dall’oggetto materno, dalla presenza di

vissuti depressivi, dalla credenza di essere responsabile della propria condizione.

L’autostima negativa determina una bassa considerazione del proprio valore globale e la

non accettazione di sé.

Gaspard sostiene che bambini obesi, proprio a causa della loro passività, non usano tutte le

potenzialità intellettuali a loro disposizione: dati di una sua ricerca dimostrano che il QI di

un bambino obeso varia da 87 a 117.

L’obesità infantile è in relazione a diverse forme di psicopatologia:

- depressione;

- tratti assimilabili ad una struttura nevrotica immatura;

- narcisismo;

- apatia;

- timidezza;

- aggressività;

- tratti ossessivi;

- tratti fobico-ossessivi;

- alexitimia.

Frequente è la presenza di tic nervosi, enuresi, insuccesso scolastico.

Un sovrappeso di modesta o media entità comporta solo disagi di tipo psicologico come

caduta dell’autostima, difficoltà relazionali di coppia e di gruppo, senso di vergogna e

frustrazione.

Con sovrappeso conclamato si associano disturbi di sovraccarico meccanico come abilità

diminuita, movimenti difficoltosi e minore tolleranza a sforzi fisici.

Aggravandosi l’obesità, i disturbi possono arrivare a limitare di molto le attività quotidiane

del soggetto (Simonelli, 2003).

5. Cause ed eziopatogenesi

Per quanto riguarda l’obesità, solo alcuni casi sono riconducibili ad un unico fattore noto,

mentre in tutti gli altri casi le cause non sono inequivocabilmente dimostrabili (Simonelli,

2003).

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Questo porta a suddividere l’obesità nel seguente modo (Bilello, Bonomi, Bulf, Frezza,

2003):

1. riconducibile ad un unico fattore

- obesità associate a SINDROMI PLURIMALFORMATIVE (alterazioni genetiche e

cromosomiche, es. Sindrome di Down)

- obesità ENDOCRINE PRIMITIVE (eccessiva o ridotta funzione ormonale, es.

ipotiroidismo)

2. riconducibili a più fattori: l’obesità è una condizione polifattoriale il cui studio

necessita la separazione dei vari aspetti che la compongono, senza dimenticare che

nessuno singolarmente può spiegarla:

- fattori genetici (studi sui gemelli monozigoti e analisi dei geni candidati confermano che

il rischio di obesità è maggiore in soggetti con familiari obesi). La più parte degli studi dà

a questi fattori la maggiore importanza.

- fattori ambientali (considerati diversamente dai vari autori: chi crede che l’obesità sia

una risposta all’ambiente si focalizza sulla modifica dell’ambiente considerato patogeno;

altri credono che l’interazione tra fattori genetici e ambientali possa portare allo sviluppo

dell’obesità). Il principale fattore ambientale è l’eccessiva introduzione di cibo spesso

accompagnata da ridotta attività fisica. Altro fattore non marginale è il lavoro sedentario.

L’obesità essenziale infantile si ritiene dovuta ad un’incapacità dell’organismo di regolare

il rapporto tra introduzione e dispendio energetico (Simonelli, 2003).

Le cause di questa incapacità sono:

fattori congeniti → es. iperalimentazione della madre in gravidanza;

fattori genetici → correlazione tra obesità dei genitori e del bambino;

fattori acquisiti → alimentazione eccessiva durante il primo anno di vita.

Secondo alcuni autori, esperienze traumatiche (es. separazione dei genitori, conflitti

familiari, malattie gravi del bambino, nascita di fratelli, eventi stressanti acuti o cronici)

porterebbero ad una disorganizzazione nel processo di attaccamento, per cui il bambino si

identifica con una figura depressa e prova un senso di vuoto affettivo. In questa situazione,

si instaura un’elevata sensibilità agli stimoli interni ed esterni, che porta a supplire le

emozioni incontrollabili con l’assunzione di cibo. Uno studio di Thomas e Chess ha

trovato una relazione tra difficoltà di temperamento, rapidità nell’assunzione di cibo ed

obesità nell’infanzia.

Secondo altri autori, particolarmente patogene per l’obesità infantile, sono le famiglie

caratterizzate da:

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-perfezionismo (le necessità e le ambizioni dei genitori sono al primo posto, per cui il

bambino ha la sensazione, crescendo, di non avere controllo sulla propria vita);

-disaccordo (comporta chiusura sociale, uso del cibo come strumento di premio/punizione,

incapacità di costruire un rapporto empatico con il bambino).

Kaplan e Kaplan, però, affermano che la struttura di personalità, la storia familiare e i

fattori psicologici che possono essere associati all’obesità non sono specifici della

patologia. Tuttavia è necessario individuare le caratteristiche psicologiche del bambino

obeso al fine di approntare programmi di educazione e terapia che tengano conto della

complessità dei fattori psicobiologici alla base della patologia alimentare.

Tra i fattori ambientali riconosciuti come rilevanti per l’emergere dell’obesità, molti autori

individuano la diffusione di internet, dei videogames e della televisione.

Riguardo a quest’ultima, la prima ricerca è del 1985, ad opera di Dietz e Gortmaker.

Il campione era costituito da bambini (6-11 anni) e da adolescenti (12-17 anni).

Il livello di obesità è stato misurato attraverso le pliche cutanee tricipitali, mentre le ore

passate davanti alla televisione o spese in altre attività rilevate attraverso questionari ai

genitori per i bambini e self-reports per gli adolescenti.

I risultati portarono alla conclusione che guardare più televisione aumenta la prevalenza di

obesità (la relazione è unidirezionale) rispetto al guardarne meno; l’associazione

persistette quando vennero controllate le variabili “terze” che normalmente influenzano

l’obesità infantile (un’obesità precedente, caratteristiche socioeconomiche).

Negli adolescenti, ogni ora in più davanti al televisore, aumentava la prevalenza di obesità

del 2%.

Il meccanismo, causa di obesità, può essere spiegato considerando che guardare tanto la

televisione influenza sia la spesa energetica (serve meno energia a guardare la televisione

che a giocare a nascondino!) che l’intake energetico (aumenta gli spuntini, aumenta il

consumo dei cibi pubblicizzati).

6. Determinanti psicosociali dell’obesità

Durante l’infanzia, le modifiche fisiche relative alla crescita sono solitamente lente e

graduali. I piccoli cambiamenti nell’aspetto e nell’aumento dell’altezza, generalmente, non

richiedono revisioni su larga scala dell’immagine che il bambino ha del proprio corpo.

Similmente, attraverso altri stadi della vita, il corpo cambia in maniera impercettibile e fa

l’immagine del corpo.

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Al contrario, i rapidissimi cambiamenti durante l’adolescenza, come l’aumento della

statura, le modificate proporzioni dei segmenti corporali, le caratteristiche sessuali

primarie e secondarie e l’aspetto del volto significano che piccole modifiche

nell’immagine del corpo, per alcuni individui, non sono sufficienti (Polmonari, 2001). È

anche importante ricordare che, mentre gli aggiustamenti e le imitazioni con i

cambiamenti nell’immagine del corpo sono importanti per molti giovani, l’immagine del

corpo non ha un’importanza e un significato uniformi per gli adolescenti attraverso

l’intero periodo di crescita (Bonino).

Secondo la letteratura, l’adolescenza è un periodo in cui la consapevolezza del proprio

aspetto e del proprio corpo può diventare molto importante. Tuttavia, questa

consapevolezza di sé può comparire molto prima, per esempio, all’inizio della scuola

elementare, e può provocare un deterioramento delle abitudini alimentari oppure della

partecipazione alle attività fisiche. L’influenza dei mass-media, come la televisione, può

essere molto determinante.

Come ricordano diversi autori, il confronto sociale, durante la pubertà e l’adolescenza, è

particolarmente rilevante.

L’adolescenza è un periodo di cambiamenti fisici e psicologici, che per molti implica una

stressante rivalutazione della concezione di sé e dei rapporti interpersonali (Polmonari,

1997). Molto prima dell’avvento della pubertà, addirittura durante gli anni delle scuole

elementari, gli individui imparano che la magrezza nelle donne e l’aspetto atletico negli

uomini sono considerate caratteristiche fisicamente attraenti e socialmente desiderabili.

Dietz ha affermato che la conseguenza principale dell’obesità nell’infanzia è psicosociale.

Secondo l’autore, esistono molti esempi di discriminazione verso le persone grasse di tutte

le età, ma, potenzialmente, la più dannosa conseguenza potrebbe essere per il benessere

psicologico dei bambini obesi.

Da diverse ricerche risulta che i bambini obesi sono sempre presi in giro dai loro coetanei

come pigri, sporchi, brutti, imbroglioni e bugiardi.

Altri studi, che hanno preso in considerazione le preferenze riguardo a diverse forme di

disabilità, inclusa l’obesità, hanno mostrato che bambini e adulti consideravano l’obesità

in maniera molto negativa. In generale, i bambini con altri tipi di disabilità venivano

considerati come vittime sfortunate dell’ambiente, mentre gli obesi erano considerati

“responsabili” della loro situazione.

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Il marchio sociale, che viene associato all’apparente goffaggine delle persone obese, è uno

dei problemi con cui queste persone devono confrontarsi ed è un problema pochissimo

riconosciuto e incompreso (Pařízkavá, Hills, 2001).

Nei paesi in cui, il corpo maschile, per essere considerato piacente e desiderabile, deve

possedere le qualità dell’altezza e della magrezza e deve essere atletico, gli obesi, spesso,

sono ridicolizzati e vengono trattati come vittime di un’emarginazione sociale. Questo è

particolarmente vero per i bambini e gli adolescenti (Polmonari, 1993).

Oltre al marchio sociale, gli obesi, comunemente, riferiscono un timore nel partecipare ad

attività sociali, sport e attività ricreative (Pařízkavá, Hills, 2001): molte persone obese

sono terrorizzate all’idea di essere visti in luoghi pubblici, o di indossare costumi da bagno

e abbigliamento sportivo.

Come già detto, i bambini obesi sono potenzialmente più sensibili e, perciò vulnerabili, ai

commenti dei coetanei. Di conseguenza, provano a evitare sia le attività fisiche che,

sovente, anche i contatti sociali (Pařízkavá, Hills, 2001).

Sempre secondo gli autori, la necessità del consenso degli altri per l’autostima e per il

proprio valore è un fattore di fondamentale importanza per essere una persona equilibrata.

Se queste caratteristiche venissero danneggiate, o mancassero del tutto, le persone obese

finirebbero con il considerare se stesse brutte e non attraenti per le persone che li

circondano, il che porterebbe all’infelicità e alla depressione. Questo scenario dà origine e

mantiene costante un circolo vizioso, a causa del quale la sofferenza e l’insoddisfazione

per il proprio aspetto fisico possono rendere l’assunzione di cibo come un conforto per il

malessere, con il conseguente aumento di peso e ulteriore malcontento.

Nel 1970, la Bruch sostenne che “gli atteggiamenti sociali verso il corpo, l’interesse totale

per l’aspetto fisico e una distruggente enfasi sulla bellezza”, nella nostra società erano i

fattori che contribuivano alla distorsione dell’immagine del corpo, in forme lievi, per le

persone non obese, durante la crescita. Questi fattori sono considerati, dall’autrice,

strettamente correlati con l’estesa condanna delle persone in soprappeso e degli obesi, che

sono visti come indesiderabili e brutti.

Questo illustra il contesto psicologico e sociale in cui i giovani con problemi di peso si

ritrovano.

Alcune recenti ricerche, infine, indicano che la preoccupazione degli adulti per il peso

corporeo, le diete restrittive e gli altri metodi, alquanti dannosi, per la regolazione del peso

sono pratiche comuni anche nell’infanzia e nell’adolescenza.

290

7. Definizione di “body image”

Secondo Schilder, per “body image” si intende la rappresentazione che ognuno ha del

proprio corpo. Si tratta di un concetto autoriferito, che è stato descritto in diversi modi.

Mentre il termine in se stesso è stato identificato come una definizione generica, la sua

interpretazione dipende dalle definizioni date dalle ricerche condotte.

In letteratura, l’immagine del corpo viene considerata come un complesso, dinamico e

multidimensionale aspetto della personalità (Pařízkavá, Hills, 2001). Di conseguenza,

esistono diverse critiche alla semplicistica definizione di Schilder, poiché si sostiene che

essa è alquanto imprecisa. Tuttavia, non sono ancora state proposte alternative adeguate.

Fisher, basandosi sulle ricerche effettuate sull’argomento, suddivise il concetto di body

image in nove aree focali. Queste sono:

- percezione e valutazione dell’aspetto fisico;

- esattezza della percezione delle dimensioni del corpo;

- sensibilità corporea;

- posizione spaziale;

- confini del corpo;

- distorsioni associate a psicopatologie e/o danni cerebrali;

- reazione a danni al corpo;

- alterazioni cosmetiche;

- identità sessuale.

Per quel che riguarda l’obesità e l’essere in soprappeso, secondo l’autore, fra queste

categorie, le più importanti sono la percezione e la valutazione dell’aspetto fisico e

l’esattezza della percezione delle dimensioni del corpo.

Alcuni autori si domandano se gli obesi hanno un’immagine del corpo disturbata. Per

alcuni, ciò è vero, ma non in tutti i casi. L’insoddisfazione per il corpo non è sempre un

fattore centrale (Pařízkavá, Hills, 2001). Alcuni individui che soffrono di obesità (in

particolar modo gli adulti) riescono a percepire il loro corpo in maniera realistica e

riconoscono di aver bisogno di dieta ed esercizio fisico, senza particolari coinvolgimenti

emozionali. Altri non considerano il loro corpo grasso come indesiderabile, nemmeno per

ragioni personali o culturali (Pařízkavá, Hills, 2001).

291

8. L’immagine del corpo correlata all’aspetto

L’immagine del corpo ha componenti sia autopercepite che soggettive (attitudinali e

affettive) (Garner and Garfinkel). I due autori hanno suggerito che l’immagine del corpo

potrebbe essere suddivisa in due elementi:

1) distorsione dell’immagine del corpo

2) insoddisfazione per il corpo.

La distorsione dell’immagine del corpo può essere considerata indicativa di un deficit di

percezione, mentre l’insoddisfazione per il corpo può derivare da un disturbo di pensiero

e/o affettivo riguardo al corpo. Per questo, esso viene spesso associato ad un desiderio di

modificare l’aspetto fisico (Garner and Garfinkel).

Williamson ha suggerito un’interpretazione alternativa di insoddisfazione per il corpo,

che, secondo l’autore, è composta da due parti:

1) distorsione della grandezza del corpo;

2) preferenza per la magrezza.

In questo modo, il disturbo dell’immagine corporea può derivare da un’incapacità

cognitiva di valutare esattamente l’aspetto fisico (body-image distorsion) o le dimensioni

del corpo (body-size distorsion). In alternativa, il disturbo può essere il risultato da una

valutazione soggettiva che il corpo non si avvicina all’ideale (body dissatisfaction) e, in

particolare, l’ideale magro (preference for thinness).

8.1 La distorsione della dimensione del corpo

La distorsione delle dimensioni del corpo, secondo Williamson e colleghi, coinvolge un

disturbo percettivo, in cui un individuo appare incapace di valutare accuratamente le

dimensioni del proprio corpo. La distorsione della percezione delle dimensioni del corpo

fu studiata per la prima volta da Slade and Russell. Questi autori notarono che i soggetti

anoressici sovrastimavano, in misura maggiore rispetto ai gruppi di controllo, le

dimensioni del corpo. Altri autori suggeriscono che la sovrastima delle dimensioni

corporee non è specifica dei soggetti con disturbi del comportamento alimentare.

Tuttavia, da alcuni autori, è stato proposto che l’incapacità cognitiva di valutare

correttamente le dimensioni del proprio corpo potrebbe rappresentare un importante

criterio diagnostico nella discriminazione fra l’eccessivo ricorso a diete e le abitudini

alimentari disordinate.

292

8.2 L’insoddisfazione per il corpo

L’insoddisfazione per il proprio corpo rappresenta una dimensione attitudinale o affettiva

in cui una persona esprime un certo livello di soddisfazione per il corpo o per una

specifica parte del corpo. L’insoddisfazione per il corpo è associata a diverse condotte

alimentari problematiche e ad alcuni tipi di comportamento che comprendono il sottoporsi

a diete restrittive, una preoccupazione eccessiva per il peso, il “binge eating” e il rischio di

sviluppare disturbi alimentari (Pařízkavá, Hills, 2001).

Nella valutazione dei disturbi alimentari, l’insoddisfazione per il proprio corpo è, secondo

gli autori, il miglior predittore di un regime alimentare fortemente restrittivo. Striegel-

Moore e colleghi hanno notato che, grazie alla presenza di insoddisfazione per il corpo, si

poteva prevedere, in maniera più accurata, gli studenti i cui sintomi alimentari sarebbero

peggiorati durante il primo anno di studi, in associazione alla presenza di stress,

inaffettività, perfezionismo e competitività. Valutando anche le ricerche riguardanti gli

atteggiamenti nei confronti dell’esercizio fisico, Striegel-Morre e colleghi sostengono che

l’insoddisfazione per il corpo può anche influenzare la motivazione alla pratica fisica, in

cui individui insoddisfatti del loro aspetto fisico praticheranno, più probabilmente, esercizi

per il controllo del peso e per aumentare il tono muscolare.

8.3 La preferenza per la magrezza

Il terzo tipo di disturbo dell’immagine corporea proposto da Williamson e colleghi è

indicativo di una personale “dimensione ideale del corpo”, o di una dimensione corporea

che era usata come uno standard per giudicare la soddisfazione per l’attuale dimensione

del corpo.

Alcune ricerche suggeriscono che gli individui che hanno fortemente paura di prendere

peso, preferiscono una dimensione del loro corpo che è significativamente più magra

rispetto a quelli che non hanno tali paure.

8.4 L’insoddisfazione per le dimensioni del corpo

L’insoddisfazione per le dimensioni corporee potrebbe essere il più valido predittore di

tutte le insoddisfazioni per il corpo e venire associato ai comportamenti per la

modificazione del peso corporeo (Pařízkavá, Hills, 2001). La suddivisione di questo

concetto in componenti separate ha reso possibile la ricerca sull’immagine del corpo

relativa all’aspetto esteriore per valutare, in diverse popolazioni, come l’aspetto fisico

viene percepito e gli atteggiamenti riguardo ad esso. Tuttavia, si sono verificati alcuni

293

errori sistematici nelle ricerche verso la valutazione di un certo campione. Le donne di

tutte le età sono state più frequentemente studiate rispetto ai maschi, e gli adulti e gli

studenti universitari sono stati valutati con maggiore regolarità rispetto ai bambini e agli

adolescenti. Di conseguenza, esiste ancora un’insufficienza di dati riguardo alle differenze

di genere durante l’infanzia e l’adolescenza. Dato che l’adolescenza è un periodo

comunemente associato con l’insorgere dei disordini del comportamento alimentare, come

l’anoressia e la bulimia nervosa (e l’obesità) (Polmonari, 2001), è importante cercare di

comprendere le differenze, legate all’età e al genere, relative all’immagine del corpo

correlata all’aspetto dei bambini e degli adolescenti (Pařízkavá, Hills, 2001).

9. Prevenzione

È possibile che il tempo trascorso dai bambini e dagli adolescenti in giochi e attività

ricreative sedentarie aumenti e si riduca il tempo dedicato all’attività fisica.

Si avverte il bisogno di sviluppare e mettere in atto interventi efficaci diretti alla

popolazione volti a prevenire l’obesità. Altrimenti, l’Italia e altri Paesi industrializzati

potranno assistere all’aumento della frequenza di malattie croniche debilitanti e costose

nelle loro popolazioni adulte ed anziane, la cui numerosità tende a crescere (Simonelli,

2003).

I primi interventi da attuare riguardano la prevenzione di cui si distinguono tre livelli:

PRIMARIA → controllo dello sviluppo dell’obesità

SECONDARIA → arrestare aumento del peso ed evitarne il recupero

TERZIARIA → prevenire lo sviluppo di complicanze e il loro aggravarsi

Edmunds, Waters e Elliot ritengono essenziale trattare e prevenire l’obesità nell’infanzia,

poiché i comportamenti che determinano e mantengono l’obesità in età adulta sono poco

definiti nel bambino e quindi più facilmente modificabili.

Ma il bersaglio privilegiato per la modificazione delle abitudini alimentari nell’infanzia e

la prevenzione dell’obesità è la scuola. Gli insegnanti sarebbero un nodo fondamentale per

trasmettere ai loro alunni le conoscenze nutrizionali corrette e per influenzare le scelta

alimentari degli stessi e delle loro famiglie (gli insegnanti di scuola materna, ad esempio,

hanno la possibilità di individuare bambini in sovrappeso ad uno stadio precoce). La

scuola, infatti, può diventare un ambiente sicuro, in cui sviluppare un programma

curricolare che assicuri pasti salutari e attrezzature per l’attività fisica seguita da personale

specializzato. Gli interventi di prevenzione prevedono un approccio multidimensionale al

294

bambino, che include attività fisica, dieta, ed altre componenti educative e psicologiche

incentrate sul rafforzamento dell’autostima.

Ci deve essere un rapporto privilegiato e positivo tra insegnanti, psicologi e nutrizionisti.

Questo certamente si ripercuote sulle scelte dei mass media, portavoce dell’industria

alimentare, che, essendo in una condizione di reciproca influenza con la popolazione, si

devono adeguare alle conoscenze nutrizionali degli utenti.

Questo condizionerebbe infine i comuni e le rispettive mense scolastiche, attraverso un

positivo “effetto cascata” (Bilello, Bonomi, Bulf, Frezza, 2003).

10. La denigrazione dell’obesità

Le attitudini negative nei confronti dei soggetti obesi costituiscono una delle ultime forme

di discriminazione socialmente accettate (Dalle Grave, 2003). Con il progressivo

incremento di persone affette da obesità, il numero delle persone potenzialmente affette da

questo discriminazione è enorme. Numerose ricerche hanno dimostrato che la

discriminazione dei soggetti obesi è un fatto reale ed è presente in molti ambiti e situazioni

Nei paesi ricchi, ci sono messaggi che enfatizzano in modo potente il fatto che essere

grassi significa avere scarse capacità di autocontrollo. Attitudini negative nei confronti

delle persone obese sono state trovate negli adulti e nei bambini, nel personale sanitario e,

paradossalmente, anche tra le persone obese stesse. I bambini di sei anni di età descrivono

un bambino obeso nel modo seguente: pigro, sporco, stupido, brutto, bugiardo e

imbroglione (Dalle Grave, 2003). Indagini di grandi dimensioni hanno mostrato che, in

confronto ai coetanei normopeso, quelli obesi tendono a interrompere la carriera scolastica

più precocemente e hanno più difficoltà a entrare in scuole prestigiose o a trovare lavori

gratificanti. Inoltre, è stato osservato che le donne inglesi e americane guadagnano meno

di quelle normopeso o con altre condizioni croniche e hanno più difficoltà a sposarsi. Le

attitudini negative del personale sanitario (medici, studenti di medicina, dietisti e

infermieri) nei confronti dell’obesità è di particolare importanza. I soggetti obesi che

percepiscono il pregiudizio nei loro confronti tendono a evitare di chiedere un aiuto

medico per la loro condizione. I medici, spesso, non sono molto interessati a gestire i

pazienti obesi, perché li credono deboli, incapaci di controllo e di beneficiare dei loro

consigli. Ad esempio, in uno studio si è osservato che la prescrizione di farmaci

ipolipemizzanti effettuata dai medici di famiglia inglesi era volutamente più bassa nei

soggetti obesi, rispetto a quelli normopeso. Altre forme di discriminazione non molto

studiate, ma spesso osservate, includono il ricevere commenti negativi sul proprio aspetto

295

durante le interazioni interpersonali, l’avere difficoltà a adottare un bambino ed essere

esclusi da una giuria perché si ha un eccesso di peso (Delle Grave, 2003).

Secondo la prospettiva ideologica sociale del dottor Crandall, i valori tradizionali e

conservativi di auto-determinazione, auto-disciplina ed individualismo nordamericani

rappresentano il nucleo centrale delle attitudini sociali negative nei confronti delle persone

obese. Secondo il dottor Crandall, il pregiudizio nasce principalmente dall’idea che

l’obesità sia la conseguenza di scarsa capacità di auto-controllo e auto-disciplina e che

perciò l’individuo obeso sia totalmente responsabile della sua condizione. Sebbene

numerose ricerche abbiano smentito questa interpretazione eziologia (l’obesità deriva

dall'interazione di fattori genetici ed ambientali) la visione moralistica nei confronti delle

persone obese è predominante (Dalle Grave, 2003).

Poiché nella nostra cultura il comportamento alimentare ed il peso corporeo sono

fortemente legate all’idea dell’auto-controllo (vedi sopra) è facilmente comprensibile

perché le persone che sono perfezioniste e che necessitino di forte auto-controllo per

valutare se stesse con più facilità di altre interiorizzino e facciano loro le attitudini sociali

nei confronti della magrezza e dell’obesità. Il processo di interiorizzazione dell’ideale di

magrezza e della denigrazione dell’obesità è favorito se l’individuo ha la tendenza a

conformarsi alle idee e alle convinzioni degli altri, e questo si verifica, in particolar modo,

negli individui con bassa auto-stima, caratteristica frequentemente presente nelle persone

che sviluppano i disturbi dell'alimentazione. Oltre ai tratti di personalità,

l’interiorizzazione dei messaggi socioculturali può verificarsi per l’azione di tre processi:

il rinforzo sociale, il modellamento e il confronto sociale (Delle Grave, 2003). Il rinforzo

sociale si riferisce al processo in cui le persone interiorizzano alcune attitudini e

comportamenti approvati dal rispetto degli altri. Ad esempio, una ragazza adolescente può

cercare di dimagrire con maggiore probabilità se i mass-media glorificano la magrezza. Il

rinforzo sociale dell’ideale di magrezza si può manifestare anche se, ad esempio, persone

famose (dello sport o dello spettacolo) sono preoccupate per il loro peso e forme corporee,

seguono delle diete ipocaloriche e criticano le persone obese.

Il modellamento si riferisce, invece, al processo in cui gli individui direttamente emulano i

comportamenti che osservano. Ad esempio, una donna può fare la dieta con più facilità se

vede una compagna o una persona dello spettacolo che adotta tale comportamento. Il

vedere alla televisione delle persone con disturbi dell’alimentazione o avere dei compagni

affetti da tali disturbi può favorire lo sviluppo negli adolescenti dell’idea che abbuffarsi,

vomitare o seguire delle diete sia una cosa normale. Tutto ciò può favorire l’emulazione di

296

questi comportamenti e lo sviluppo, in alcuni soggetti predisposti, di disturbi

dell’alimentazione.

Il confronto sociale sembra, infine, giocare un ruolo importante nel favorire lo sviluppo di

insoddisfazione corporea e preoccupazione per il peso e le forme corporee, nei soggetti

esposti alle immagine dei media che riportano figure di donne magre ed idealizzate.

Secondo questa prospettiva, gli individui quasi inevitabilmente tendono a confrontare se

stessi con queste immagini “ideali” e conseguentemente giudicano se stessi inadeguati e

difettosi; ciò favorisce lo sviluppo di insoddisfazione corporea e l’adozione di pratiche di

controllo del peso non salutari (Dalle Grave, 2003).

10.1 L’influenza dei mass-media

Numerosi studi hanno dimostrato che i mass-media favoriscono lo sviluppo di disturbi

dell’immagine corporea e dell’alimentazione. Le ragioni dell’effetto pernicioso dei media

sull'immagine corporee sono numerose:

1) L’analisi di contenuto hanno evidenziato che le dimensioni corporee delle modelle,

delle attrici e di altre icone culturali femminili ha dimostrato che esse sono diventate

progressivamente più magre nelle ultime decadi (vedi sopra studio su Miss America e

modelle centro pagina di Play boy). Un quarto circa delle modelle rappresentate nei

settimanali femminili hanno un peso corporeo che soddisfa i criteri diagnostici

dell’anoressia nervosa. La tendenza ad essere sempre più magri si correla con l’aumento

dei disturbi dell’alimentazione ed è stata la prima linea di evidenza che ha suggerito che i

media contribuiscono allo sviluppo dei disturbi dell’alimentazione. Oltre a ciò, nei media

ci sono poche persone sovrappeso, nonostante che nella popolazione occidentale si sia

verificato un aumento significativo nella prevalenza dell’obesità.

2) I dati delle ricerche suggeriscono che, oggi, c’è una maggiore enfasi sulla dieta e sul

controllo del peso corporeo nei giornali femminili, rispetto a quelli maschili e questo va in

parallelo con la differenza di prevalenza dei disturbi dell'alimentazione nei due sessi.

3) C’è abbastanza evidenza che l’uso di media che contengono immagini di donne

magre si correla con l’insoddisfazione corporea e disturbi dell’alimentazione correnti e

futuri.

4) Gli individui affetti da bulimia nervosa percepiscono una maggior pressione da parte

dei media ad essere magri, rispetto ai controlli, e spesso riferiscono di aver imparato

pratiche non salutari di controllo del peso corporeo dai giornali o dalla televisione (ad

esempio, l'indursi il vomito).

297

5) Studi controllati hanno documentato che l’esposizione acuta ad immagini nei giornali

o nella televisione di donne magre con un corpo “ideale” determinano un aumento

dell’insoddisfazione corporea e delle emozioni negative (ad esempio, depressione,

vergogna e rabbia). È interessante sottolineare che quest’effetto è maggiore se gli individui

hanno già elevati livelli di insoddisfazione corporea ed hanno elevati livelli di

interiorizzazione dell’ideale di magrezza.

10.2 L’influenza della famiglia

Per quanto riguarda le influenze familiari, numerosi studi, in parte già descritti nei fattori

di rischio familiari, che supportano l’ipotesi che alcune pressioni socioculturali sulla

magrezza e la dieta provenienti dalla famiglia favoriscono lo sviluppo di preoccupazione

per il peso e le forme corporee e di disturbi dell’alimentazione (vedi critiche dei familiari

sul peso e le forme corporee, familiari a dieta, e obesità dei genitori come fattori di rischio

dei disturbi dell’alimentazione).

10.3 L’influenza dei coetanei

Negli ultimi anni sempre più ricerche hanno osservato che anche i coetanei possono

contribuire a facilitare lo sviluppo dell’insoddisfazione corporea e dei disturbi

dell'alimentazione.

Le evidenze sono molteplici.

1) Gli individui con bulimia nervosa riportano di aver percepito una pressione più

elevata ad essere magri da parte dei loro compagni, rispetto ai controlli. Molti pazienti

affermano di aver iniziato ad avere comportamenti bulimici dopo aver iniziato una dieta

sotto la spinta di un’amica.

2) L’interesse dei compagni nei confronti della dieta e la presenza di amici con elevati

livelli di interiorizzazione dell’ideale di magrezza si correla con lo sviluppo dei disturbi

dell’alimentazione.

3) Le prese in giro dei compagni sul peso, come già detto, predicono lo sviluppo di

insoddisfazione corporea e disturbi dell’alimentazione.

4) Esiste l’evidenza di un effetto di modellamento diretto: uno studio, ad esempio, ha

evidenziato la presenza di una relazione positiva tra abbuffate e presenza di abbuffate nei

compagni; tale associazione diventa più forte quanto maggiore è il grado di amicizia.

Numerose persone con bulimia nervosa riferiscono, inoltre, di aver imparato a vomitare da

delle loro amiche.

298

5) La pressione dei compagni ad essere magri percepita predice lo sviluppo di

insoddisfazione corporea, comportamenti dietetici e bulimici ed emozioni negative.

In sintesi c’è una grande evidenza che i compagni e gli amici possono influenzare lo

sviluppo di ruolo del partner, ma alcune pazienti hanno riferito di aver iniziato a

restringere la loro alimentazione per perdere peso sotto la spinta del loro fidanzato.

11. Gli adolescenti obesi e lo sport

Secondo una recente ricerca della regione Piemonte (“Giovani piemontesi & salute”),

risulta che il 35% dei giovani piemontesi è in sovrappeso, il 40% non pratica attività

sportiva, il livello di efficienza fisica è inferiore ai dati della letteratura mondiale.

Sono alcuni dei dati annunciati durante la Conferenza programmatica sullo stato di salute

della popolazione giovanile piemontese nell’ultimo decennio, svoltasi nel 2002 presso il

centro congressi “Torino Incontra”, su iniziativa della Regione Piemonte e dell’Istituto di

Medicina dello Sport di Torino.

I lavori sono stati aperti dal Presidente della Giunta regionale, Enzo Ghigo, che ha

sottolineato “l’importanza della pratica sportiva come obiettivo educativo, che deve

coinvolgere i ragazzi, ma anche i genitori e gli allenatori”.

Carlo Gabriele Gribaudo, Direttore dell’Istituto di Medicina dello Sport, durante il

dibattito, si è soffermato sul fatto che “è opportuno esercitare un’azione preventiva sullo

sviluppo di patologie dismetaboliche e cardiocircolatorie, nonché articolari in rapporto a

posture e carichi alterati” e che “occorre indirizzare i giovani verso le attività più

confacenti alle loro caratteristiche fisiologiche, per sfruttare le potenzialità ma anche per

stimolare gli aspetti deficitari”.

Le relazioni sulle proposte per un’attività motoria programmata, sul livello di efficienza

fisica degli studenti, sull’attività sportiva scolastica, sull’alimentazione, sul ruolo della

medicina dello sport in ambito rieducativo e nella struttura sanitaria pubblica hanno reso

ancor più chiaro il quadro della situazione: i giovani analizzati nel corso degli anni hanno

una percentuale di superficie adiposa che va ben oltre i valori normali.

Da diverse parti, la pigrizia è una delle “accuse” maggiormente rivolte ai ragazzi obesi.

Spesso passano tutto il loro tempo davanti alla TV e alla playstation, e non sempre è facile

coinvolgerli in un’attività sportiva. Tuttavia, secondo diversi autori, può non trattarsi solo

di pigrizia, ma anche di insicurezza e vergogna nel non riuscire come gli altri nello sport a

causa del sovrappeso e di trovarsi ad esempio, in costume da bagno con i compagni.

299

Il ragazzo obeso può avere delle difficoltà nelle relazioni sociali, in particolare all’interno

del gruppo classe, dal quale può sentirsi rifiutato, preso in giro, escluso da giochi o altre

attività per la sua condizione di “ciccione”.

Lesne (2000), nel suo libro “Mamma, mi chiamano ciccione”, scrive che le lezioni di

ginnastica possono essere un vero e proprio tormento per i bambini e i ragazzi obesi o in

sovrappeso. Per diverse ragioni:

- Innanzi tutto, le critiche cui sono continuamente sottoposti non cessano all’entrata

degli spogliatoi, della palestra o della piscina. Anzi, raddoppiano. Secondo l’autrice, è

proprio in queste situazioni che tutta l’attenzione si concentra proprio sui corpi. I grassi

non osano mettersi in pantaloncini e, per camuffarsi, rimangono vestiti da capo a piedi

anche se gli sforzi li fanno sudare molto.

- In secondo luogo, più si è grassi e più è faticoso muoversi. “I grassi tossiscono,

ansimano, grondano sudore, diventano tutti rossi, hanno l’impressione che tutta la loro

ciccia ondeggi e ballonzoli. Sono sempre indietro rispetto agli altri. Hanno un solo

desiderio: sedersi e scomparire”. Gli sport di squadra potrebbero andare meglio, ma i

capisquadra non si battono per averli al loro fianco, anzi, talvolta li scelgono come

bersagli.

- Terzo, con tutte queste difficoltà messe insieme, spesso i grassi raggiungono un

basso livello di prestazioni. E a nessuno piacciono le materie in cui si va male. “Eppure,

certi professori usano tutta la delicatezza di cui sono capaci per cercare di coinvolgerli,

per occuparsi di loro o per dare una valutazione mentre gli altri sono assorti nei giochi

collettivi. Purtroppo, per riempire i registri, bisogna valutare le prestazioni, mentre

l’ideale sarebbe aiutare i ragazzi a sviluppare agilità e destrezza, incoraggiare i

progressi, insistere sull’educazione fisica più che sullo sport, vale a dire sulla scoperta e

la comprensione del corpo. Insomma, questi ragazzi hanno davvero tutte le ragioni di

detestare la ginnastica” (Lesne, 2000).

L’autrice, inoltre, ricorda come, ormai, a livello professionistico, in tutti gli sport ci

vogliono sempre più muscoli e niente grasso. Perfino pesisti e giavellottisti hanno

abbandonato le loro riserve di grasso nelle palestre di allenamento per sviluppare la loro

possente muscolatura. Soltanto gli orientali lottatori di sumo lo coltivano ancora come n

bene prezioso.

I grassi, insomma, non hanno possibilità di identificarsi con gli sportivi di alto livello.

Viceversa, vengono un po’ troppo facilmente immaginati come dei mollaccioni passivi,

ignorando che molti di loro hanno sviluppato una considerevole massa muscolare, anche

300

solo per potersi muovere normalmente nella vita di tutti i giorni. Ma la loro massa

muscolare è ricoperta, avvolta dal grasso, e quello che si guadagna in peso spesso perde in

dinamicità. Soprattutto sotto sguardi poco indulgenti (Lesne, 2000).

Come detto sopra, quindi, nelle attività che coinvolgono il corpo, i bambini in soprappeso

sono continuamente esposti a osservazioni e sguardi spietati. A forza di subire

l’atteggiamento negativo degli altri verso il loro corpo, possono arrivare a detestarlo.

Anche tutti gli adolescenti sono sensibili all’influenza dei modelli che vengono loro

proposti, all’immagine ideale del corpo promossa dalla pubblicità, dalla moda o dal

cinema. Ma nelle persone grasse, la cattiva immagine che hanno di sé rafforza

ulteriormente l’accettazione del modello esterno ideale. Questo li induce spesso a evitare

qualsiasi situazione possa rivelare più chiaramente l’abisso che li separa da quell’ideale

inaccessibile, come le attività sportive o le feste tra amici (Lesne, 2000).

Ed è proprio perché l’attività fisica li mette in difficoltà sul piano relazionale e di

autostima, che la maggior parte delle persone obese sono poco inclini a praticare uno

sport, mentre ne hanno ancora più bisogno degli altri per riequilibrare il loro bilancio

energetico e non sentirsi emarginate (Lesne, 2000).

11.1 La ricerca di Peri, Molinari e Valtolina (1991)

La ricerca di questi autori vuole analizzare, in modo preliminare, alcune differenze

psicologiche, comportamentali e motorie tra soggetti obesi e non, al fine di preparare un

adeguato programma terapeutico per i soggetti in eccesso ponderale.

11.1.1 Strumenti e metodi

Lo strumento utilizzato è stato un questionario proposto da Cairella e Jacobelli (1983),

composto da domande riguardanti aree ritenute di interesse dominante per la preparazione

di un programma terapeutico di attività fisica per l’obesità (percezione di sé, stile di vita,

percezione dell’attività motoria, ecc…).

Il questionario è stato somministrato ad un gruppo di 30 soggetti obesi, di età compresa tra

i 27 e i 48 anni. I soggetti, ricoverati preso un istituto ospedaliero per una terapia

dimagrante, presentavano un eccesso ponderale compreso tra il 44% e il 91%.

Il gruppo di controllo presentava le stesse caratteristiche, ad eccezione dell’eccesso

poderale, compreso tra l’1% e il 13%.

301

11.1.2 Risultati

La prima significativa differenza, tra i soggetti obesi e normoponderali, che è stato

possibile rilevare, riguarda il grado di soddisfazione circa la propria attività lavorativa o di

studio. Infatti, solo il 46% dei soggetti obesi si dichiara soddisfatto, rispetto al 73% dei

soggetti non obesi.

Accanto a questo, è possibile notare come gli individui obesi, rispetto agli individui

normopeso, si percepiscano tendenzialmente più ansiosi e più depressi. Ben il 76% degli

obesi, infatti, si definisce molto o abbastanza ansioso, contro il 30% dei normoponderali.

Risultati simili si sono ottenuti anche per quanto riguarda gli stati depressivi (vedere anche

Peri e Molinari, 1986).

Anche le risposte riguardanti la capacità di adattamento indicano come i soggetti obesi

assumano atteggiamenti più problematici nei confronti della realtà (“ansioso”,

“insoddisfatto”, “pauroso”, “svogliato”) rispetto ai soggetti normali (“sicuro”,

“tranquillo”, “tenace”, “riflessivo”).

Per quanto riguarda lo stile di vita, si è evidenziato come solo il 20% dei soggetti obesi

faccia attività fisica o abbia abitudini che comprendano il movimento, contro il 63% dei

soggetti con normale peso corporeo.

È interessante notare che, la maggior parte (70%) degli obesi del gruppo considerato dagli

autori, non modifica le abitudini motorie nemmeno con il cambiamento di stagione

(inverno/estate) o di attività (lavoro/vacanza) e non le modifica nemmeno se l’attività

fisica viene consigliata con motivazioni molto serie (al 60% era stato consigliato dal

medico e al 33% per motivi di salute), segno questo che “l’avversione al movimento” è

ben integrata nella dinamica della personalità e che per essere superata deve presupporre

un programma terapeutico che tenga conto anche del vissuto corporeo.

Per quel che riguarda il tipo di attività fisica e il luogo in cui viene svolta, i

normoponderali cercano maggiormente spazi stimolanti come ambienti naturali o

all’aperto, mentre il 90% degli obesi preferisce la palestra o in genere ambienti chiusi.

Importante, per entrambi i gruppi, risulta essere l’apporto sociale: sia i soggetti obesi che

normali ritengono più stimolante svolgere attività fisica in compagnia, in modo che

stanchezza o perdita di interesse non prevalgano e si decida così di abbandonare il

programma motorio.

In conclusione, i risultati dell’indagine indicano che esiste una notevole differenza di

atteggiamenti e di comportamenti nei confronti dell’attività motoria fra i soggetti obesi e i

soggetti normoponderali. A questo proposito può essere utile sottolineare che l’attività

302

fisica, oltre a benefici fisiologici, può indurre importanti cambiamenti di ordine

psicologico: una regolare e adeguata attività motoria, infatti, distrae dall’assillo del cibo,

riconcilia con il proprio corpo, ridà fiducia nelle proprie capacità (Bruch, 1977), dà

sensazione di benessere e a volte procura euforia (Stern, 1983).

11.2 Sport e adolescenti obesi: osservazioni psicologiche

Durante l’adolescenza il corpo acquista una risonanza del tutto particolare sia per le

modificazioni fisiologico-somatiche che per quelle psicologiche. Il Sé, comprendendo con

questo termine tanto il corpo quanto l’organizzazione psichica e i suoi aspetti, acquista

qualità e attributi che finora non possedeva: si trasforma. L’immagine del corpo ha dunque

un peso molto rilevante nel determinare una rappresentazione del Sé soddisfacente, tale da

permettere all’adolescente un progettarsi nel mondo ricco e articolato, un rapportarsi con

l’altro. Nel corso di questa fase evolutiva cambiano le attitudini verso il proprio corpo, la

soggettività ne accusa ora la statura, il peso, la voce a prescindere dal reale riscontro

fisico, dalla reale statura, dal reale peso: pensiamo ai frequenti disturbi dismorfofobici a

questa età (Andreani C., Belletti D., Ceraioli M.R., Devescovi S., Paolicchi R., Rolla M.,

1985).

Le modificazioni del corpo e i conseguenti spostamenti della libido narcisistica

producono nell’adolescente un senso di perdita e di lutto e fanno in modo che l’Io si

presenti fragile e confuso, impoverito a causa del disinvestimento degli oggetti d’amore

infantili e di pari od oggetti del Sé.

Prima che i nuovi oggetti possano prendere il posto di quelli abbandonati, l’Io può

ricorrere ad attività compensatorie quali sono le identificazioni transitorie di quest’età, e la

strutturazione di stati egoici che comportano un’acuta percezione intima del Sé: nella sfera

corporea, l’adolescente può dedicarsi ad eccessivi sforzi fisici, ad un eccessivo

movimento, nella sfera intrapsichica ad una percezione attenta e talvolta esasperata della

sua vita interiore (Andreani C., Belletti D., Ceraioli M.R., Devescovi S., Paolicchi R.,

Rolla M., 1985).

Questa fase della crescita è intrinsecamente legata ad un processo di disillusione, di

sofferenza e di conflittualità; l’adolescente sente che anche il suo rapporto con l’adulto

subisce un’enorme trasformazione, perché “crescere significa prendere il posto dei

genitori, nella fantasia inconscia crescere è implicitamente un atto aggressivo”, infatti, gli

adolescenti “non saranno contenti se non avranno trovato l’insieme di se stessi e ciò

comprenderà l’aggressività e gli elementi distruttivi che sono in loro così come gli

303

elementi che possono essere definiti d’amore” (Andreani C., Belletti D., Ceraioli M.R.,

Devescovi S., Paolicchi R., Rolla M., 1985).

Nell’adolescenza viene meno quella sicurezza conoscitiva che aveva caratterizzato il

periodo di latenza, quando il bambino pensa che gli sia sufficiente essere buono perché gli

adulti possano insegnargli tutto; s’incrina così l’immagine dei genitori come detentori

della conoscenza.

La profonda disillusione riguardo all’onniscienza dei genitori può condurre l’adolescente

ad atteggiamenti cinici, ad una forma di relatività morale per cui “si può fare quello che si

vuole” (Andreani C., Belletti D., Ceraioli M.R., Devescovi S., Paolicchi R., Rolla M.,

1985).

Questi ricercatori, lavorando al Centro adolescenti di Pisa, hanno rilevato che la dieta e

l’attività sportiva da noi prescritte a adolescenti obesi fra i 14 e i 18 anni non risultavano,

nella maggior parte dei casi, mezzi efficaci perché difficilmente osservati da questi

soggetti.

Tra gli adolescenti obesi, è stato enucleato, per questo studio, un gruppo caratterizzato da

segni di disagio psichico, da isolamento sociale e da inattività, cui non è stata consigliata

né dieta né attività sportiva. In questi soggetti, invece, sono state effettuate indagini

psicodiagnostiche, al fine di utilizzare le osservazioni emerse per un migliore approccio

all’adolescente obeso.

La ricerca preliminare si riferisce agli adolescenti obesi giunti all’osservazione dei

ricercatori nel periodo settembre ’84/aprile ’85, i quali rappresentavano il 28% dell’utenza

che si era rivolta al centro per un primo controllo nello stesso arco di tempo.

All’interno di questo campione, circa il 40% degli adolescenti obesi mostrava le seguenti

caratteristiche:

1. fallimento con la dieta anche nei casi in cui il soggetto stesso ne faceva esplicita

richiesta;

2. rifiuto della pratica sportiva;

3. segni di disagio psico-sociale (isolamento dal gruppo dei coetanei e inattività fisica).

Sono state approfondite le caratteristiche di personalità di questo gruppo di adolescenti e

soltanto il 30% ha accettato la proposta di approccio psicologico.

Come metodo di indagine, è stata utilizzata la tecnica psicodiagnostica e psicoterapica di

conoscenza del Sé e dell’immagine di sé elaborata da Senise, nel suo approccio

all’adolescente: lo psicoterapeuta rispecchia gradualmente l’immagine che l’adolescente

304

ha di sé per giungere ad enucleare le anomalie dei processi di individuazione e quegli

aspetti e parti dell’Io che prima erano rifiutate.

La relazione con l’adolescente è sempre stata preceduta da un incontro con la coppia dei

genitori per acquisire elementi relativi alle transizioni familiari e concordare con essi il

processo picodiagnostico e psicoterapico. Agli adolescenti di questo gruppo non veniva

somministrato alcun trattamento dietologico e non veniva prescritta alcuna pratica

sportiva.

Gli autori fanno alcune osservazioni preliminari, relative a questa fase iniziale del lavoro

di ricerca.

“L’immagine del Sé degli adolescenti obesi visti è ancorata al corpo, riflette poco i

pensieri, i desideri, gli atteggiamenti del Sé psichico; viene così a mancare

un’integrazione del funzionamento fisico e mentale. Tali soggetti non sembrano disporre

di strumenti appropriati per rispondere ai loro bisogni elaborando le loro esperienze

interiori”.

“Il rapporto madre-adolescente è caratterizzato da un atteggiamento invasivo della

madre. Nel primo colloquio, in presenza del figlio, le madri tendevano a occupare tutti gli

spazi comunicativi, riferendo informazioni non solo sulle attività e i comportamenti, ma

anche dati relativi al mondo interno, ai pensieri e agli affetti del figlio. I loro messaggi

avevano spesso il carattere dell’ambiguità e dell’incoerenza. Inoltre frequentemente sono

stati rilevati, nell’atteggiamento della madre, messaggi deprecatori e critici da cui

l’adolescente non può che dedurre di essere insoddisfacente e inaccettabile “cos’ì

com’è””.

“Questi adolescenti sembrano mettere in atto una negazione del mondo interno inteso

come insieme di stati d’animo, affetti, pensieri, con conseguente inadeguatezza

dell’autopercezione: è apparso carente il recesso di individuazione e di differenziazione

che si articola attraverso esperienze mediante le quali il bambino si sviluppa in un

individuo a se stante, riconoscendosi con esigenze ed impulsi chiaramente differenziati.

Tutto ciò conduce a una scarsa capacità di distinguere tra stimoli provenienti dal di

dentro e dal di fuori, dal corpo e dalla mente, tra i pensieri propri e altrui”.

“Vengono riferite esperienze sgradevoli riguardo al corpo che viene spesso avvertito come

deforme, vergognoso: questi adolescenti raccontano frequentemente di come sia doloroso

per loro essere guardati dagli altri. A questo si accompagna un senso di inadeguatezza e

disprezzo di sé che vengono compensati con l’indulgere nei sogni a occhi aperti, con

fantasticherie”.

305

“Le nostre osservazioni evidenziano, in questo gruppo di soggetti, la convinzione

irrealistica che l’eccedenza ponderale è la sola causa dei loro disagi e che una volta

divenuti magri magicamente si dissolverà ogni loro difficoltà. La convinzione è spesso

condivisa dai genitori, i quali si aspettano, come effetto della psicoterapia, il

dimagrimento dei figli e soltanto di questo si servono per valutare il successo o

l’insuccesso del trattamento. Ancora una volta è presente la negazione della realtà

psichica nella sua complessità”.

“La modalità costante utilizzata da questi soggetti nella situazione terapeutica consiste in

un “rapportarsi con l’altro” che difficilmente evolve in momenti di maggior contatto e

accettazione della relazione terapeutica che, come il cibo, viene ingoiata (consumata

senza elaborazione). Quello che colpisce è questo buttar giù le esperienze, buone o cattive

che siano, senza che esse vadano ad articolare e arricchire il sé psichico: quello che

cresce è sempre e solo il corpo”.

“L’isolamento sociale si evidenza come uno degli elementi di più acuta sofferenza.

Mancano quasi del tutto i rapporti con il gruppo dei coetanei, rispetto ai quali i soggetti si

sentono diversi e inadeguati. Essi sfuggono ogni situazione di gruppo che possa essere

occasione di confronto, e il rapporto con i coetanei è vissuto come fonte di frustrazione e

non come fonte di scambi affettivi e di acquisizione di conoscenza. Non si osserva il

passaggio da un’identità familiare caratteristica del bambino ad un’identificazione con il

gruppo dei coetanei”.

“Gli adolescenti obesi appartenenti a questo gruppo dimostrano una resistenza interiore

all’attività fisica che risulta essere ancora maggiore rispetto a quella relativa al

trattamento dietetico. Non si tratta soltanto di una mancata partecipazione ad uno sport,

quanto di un modello di inattività su cui si basa tutta l’organizzazione della loro vita. La

pigrizia è una modalità difensiva: evitando l’attività fisica si sottraggono dall’esporre il

loro corpo che è vissuto come vergognoso. Esiste, per questi adolescenti, una forma di

equivalenza tra l’attività fisica e l’esposizione del corpo allo sguardo impietoso degli

altri. Così ogni cosa viene fatta evitando lo spreco di energie. Così il rifiuto dell’attività e

dello sport esprimono non solo la tendenza a evitare situazioni di gruppo, ma anche la

mancanza di piacere nel vivere il loro corpo in attività e la profonda sfiducia nella loro

capacità di potersi muovere liberamente. I messaggi del corpo così come li recepiamo in

seduta, attraverso una postura rigida, comunicando una staticità che è il riflesso di una

sofferenza interiore la quale non riesce ad articolarsi”. (Andreani C., Belletti D., Ceraioli

M.R., Devescovi S., Paolicchi R., Rolla M., 1985).

306

La prescrizione di una dieta e di un’attività fisica non sembrano essere strumenti

terapeutici efficaci, poiché l’adolescente obeso con i segni del disagio, prima ancora di

poter intraprendere una dieta e un’attività sportiva, sembra dover acquisire maggiore

consapevolezza di sé. Sono soprattutto i processi di individuazione ad apparire inibiti e

deficitari, per cui nella relazione psicoterapica è fondamentale avvicinare quegli aspetti

dell’Io da cui dipendono i processi di individuazione per consentire all’adolescente un loro

uso più adeguato. D’altra parte, si constata che l’attività sportiva proposta come esclusiva

cura del corpo, attenzione alla sua estetica e deficienza, può consolidare l’estraneazione

dal mondo interiore: il movimento va allora recuperato come espressione della creatività

dell’individuo.

L’adolescente obeso deve, inoltre, confrontarsi con le immagini sociali dell’obesità che gli

pervengono dal suo interagire con gli adulti e i coetanei. L’obesità è uno stato del corpo

che viene recepito come messaggio. A questo proposito, si possono individuare due

diversi atteggiamenti sociali: il primo che identifica l’obesità come vergognosa. L’eccesso

ponderale viene così attribuito al libero sfogo delle pulsioni e alla mancanza di padronanza

e di volontà, soprattutto quando all’obesità si aggiungono inattività e passività (Andreani

C., Belletti D., Ceraioli M.R., Devescovi S., Paolicchi R., Rolla M., 1985).

Da altre ricerche, si evince come l’adolescenza sia, generalmente, caratterizzata da un

abbassamento della partecipazione alle attività fisiche ed una conseguente riduzione della

condizione fisica. Negli adolescenti la tendenza è particolarmente inquietante. Per

esempio, secondo l’Inchiesta Condizione Fisica Canada, solamente il 24% delle ragazze di

età tra i 15 ed i 19 anni potranno raggiungere un buon livello di forma aerobica.

12. Il bambino obeso e lo sport

Da sempre, l’eccesso ponderale anziché rappresentare disagio e patologie varie ha

simboleggiato stranamente la facondia, la paciosità, la gioia di vivere. Il prototipo

dell’obeso è il bonaccione, sempre contento, sempre pronto a godere della buona tavola e

quindi della bella vita (Cosmai, 1995).

Nella realtà, le condizioni sono ben diverse e l’individuo che soffre di obesità, cioè di una

proporzione molto alta di grasso corporeo, può ricavarne disagi non solo fisici, ma anche e

soprattutto psicologici, in virtù proprio dei significati simbolici attribuiti alla sua

condizione. “Naturalmente, l’aumento ponderale si evidenzia e si segnala soprattutto

quando esiste una qualsiasi attività fisica, lavorativa o meno, e il problema si delinea

pertanto impietosamente soprattutto nel bambino obeso alle prese con una qualsiasi

307

attività sportiva, più o meno istituzionalizzata. Se l’adulto obeso può, infatti, evitare o

programmare l’attività fisica o sportiva, non altrettanto si può dire per il bambino

sportivo, “costretto” e dalle istituzioni (per esempio la scuola) e dalla vita di relazione

stessa (giochi, compagnie, amicizie) a confrontarsi non solo fisicamente con se stesso e

con gli altri. Il “fisicamente” è relativo, perché toglierebbe tutta la parte emotiva e

comportamentale a quell’universale e incredibile fenomeno che è lo sport stesso”

(Cosmai, 1995).

Da quanto detto, secondo l’autore, è possibile affermare che il bambino obeso,

innanzitutto, è più sottoposto a stress e frustrazioni, in generale, dell’adulto obeso, in

quanto spesse volte “obbligato” a sostenere confronti e impegni fisici con i coetanei a

differenza dell’adulto che può non di rado abilmente glissare tra inviti e sollecitazioni vari.

Esistono, infatti, come visto, diverso tipi di obesità, dai quali, però, bisogna estrarre la

componente psicodinamica dell’obesità, indiscutibilmente presente e pesantemente

condizionante sia il decorso del disagio, sia la sua accentuazione, nonché il suo

progressivo incitarsi.

Come si può vedere da diversi studi, il bambino obeso, al di là della diagnosi legata ai

fattori organici, soffre di numerosi complessi nei confronti dei compagni con i quali ha un

continuo confronto frustrante. Lo sport, in quest’ottica, “quale componete fondamentale

dell’età evolutiva, può agire impietosamente nei riguardi di ogni bambino che vede

aumentare il suo disagio quasi quotidianamente” (Cosmai, 1995). Se questa in prima

istanza viene vista in fondo come crudeltà, si rivela però purtroppo necessaria come spia

della situazione anche se impietosa. In altre parole, lo sport pone in evidenza un problema

nonché la necessità di trattarlo, laddove in altre condizioni esistenziali il problema

potrebbe essere trascurato per anni, se non addirittura fino all’età adulta con tutte le

conseguenza psicofisiche del caso (Cosmai, 1995).

Nel 1998 è stato pubblicato uno studio statunitense sulla relazione tra attività fisica e

adiposità in età pediatrica. Questo lavoro venne presentato al Simposio sull’Obesità

Pediatrica tenutosi nel corso dell’Ottavo Congresso Mondiale sull’Obesità (Parigi,

settembre 1998).

Lo studio, opera di ricercatori dell’Obesity Research Center, St.Luke’s/Roosvelt Hospital,

Columbia University College of Physicians and Surgeons, New York and Island Trees

Middle School, Levittown, New York (USA).

La relazione tra la scarsa attività fisica e l’incremento dell’adiposità corporea è

ampiamente documentata in diversi studi in ambito pediatrico. Tuttavia, a detta degli

308

autori, l’incremento dell’attività fisica occupa un ruolo “critico” nel trattamento

terapeutico dell’obesità pediatrica.

Per poter promuovere l'attività fisica, viene ritenuta importante l’identificazione dei fattori

che influenzano l’inattività fisica ed, eventualmente, le attitudini dei bambini verso la

stessa.

Gli autori hanno somministrato un questionario, in presenza degli insegnanti, durante le

ore di solito dedicate allo studio della lingua inglese. Il questionario ha richiesto un tempo

di compilazione di circa 30 minuti. Servendosi di questo questionario i ricercatori hanno

interrogato un campione di soggetti (305 ragazzi e 269 ragazze) con una scolarità

corrispondente alle classi 3ª, 4ª, 5ª elementare italiana di una scuola della periferia di New

York. La scuola è situata in un quartiere della borghesia medio-bassa, quasi totalmente

bianca e a maggioranza d’origine italiana. Il campione preso in esame non era costituito

solo da soggetti obesi e sovrappeso, ma anche da soggetti normopeso.

Scopo dello studio è stato quello di analizzare l’associazione di due variabili: “stuzzicare”

[il prendere in giro] con battute che solitamente i ragazzi si scambiano durante l’attività

fisica ed il saper tenere testa a queste “critiche” [o battute pesanti] con la periodicità

dell’attività fisica, la sua intensità, la passione per lo sport praticato ed il modo di

comportarsi autocontrollandosi durante l’attività fisica. Tutto questo allo scopo di capire

come un bambino “cicciotello” è in grado di reagire alle critiche sul suo fisico ed alla sua

incapacità di primeggiare nello sport.

In letteratura (vedi gli studi di L. Epstein) si sottolinea che il bambino “grassottello” è

meno portato all’esercizio fisico.

Brevemente, gli autori riportano i risultati preliminari presentati a Parigi, nell’ambito del

Simposio

Sull’Obesità Pediatrica, svoltosi all’interno dell’ottavo Congresso Mondiale sull’Obesità.

I soggetti considerati sovrappeso/obesi avevano un’età media di circa 10 anni, un’altezza

di 152 ± 12.5 cm ed un peso di 45.2 ± 13.1 kg. Il loro Body Mass Index (indice di massa

corporea) era di 19.4 ± 4.2 kg/m2.

La presenza di uno “stuzzicare”, con battute che solitamente i ragazzi fanno ai coetanei, si

è mostrata correlata con la ridotta attività fisica, ridotta passione per lo sport praticato e

ridotto modo di comportarsi autocontrollandosi durante l’attività fisica. Questo dato è

apparso indifferentemente sia per i soggetti maschi che per i soggetti di sesso femminile.

In altre parole, i soggetti che ricevevano “maggiori critiche” [battute pesanti] dai coetanei

309

riguardo l’incapacità a primeggiare sono quelli che rinunciano allo sport e che perdono

entusiasmo per esso.

D’altra parte, i pediatri, non solo quelli americani, ma, ultimamente, anche italiani,

spingono i soggetti in sovrappeso verso una maggiore attività fisica. Esiste, tuttavia, una

differenza sostanziale: infatti, negli Stati Uniti viene data molta importanza allo sport “di

gruppo”, fatto insieme a ragazzi che hanno “lo stesso problema”, in questo caso, il

sovrappeso.

Alla luce di questi risultati preliminari gli autori suggeriscono che, se da una parte,

soprattutto nelle scuole, si spinge per una maggiore attività fisica, dall’altra non si deve

dimenticare l'attenzione verso quei soggetti in sovrappeso che si sentono “diversi” e

criticati dai loro coetanei.