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Capitolo 3 Il territorio Questa è la mia terra Anche se i bambini hanno ben presto le esperienze di cui si parla in questo capitolo, il tema si presenta difficile perché esistono buone ragioni in difesa dei due atteggiamenti che presentiamo. Li abbiamo definiti come l'atteggiamento dello Stanziale e quello dell'Errante, ovvero "amare la propria casa", e "andare in casa d'altri" (oppure "accogliere chi viene a casa nostra"). Si tratta di fare cogliere ai ragazzi i dati positivi di ogni punto di vista e di portarli a discutere i limiti di ciascuno. Dunque, su un tema apparentemente così semplice bisogna far cogliere l'idea che per certi problemi non c'è una sola risposta, bensì molte, che dipendono dal punto di vista, dalla situazione in cui si parla, eccetera. Alla fine della sezione Territorio vengono proposti alcuni spunti per la discussione volti a ricomporre l'apparente contraddizione e a mostrare come il bisogno di protezione e di privacy (enfatizzati dalla tesi stanziale) e l'impulso verso l'esplorazione (valorizzato dai discorsi del nomade) siano in effetti due aspetti della personalità umana, che questi due aspetti si implicano a vicenda e che, quindi, ciascuno di noi è un po' stanziale e un po' errante (sia pure in proporzioni diverse a seconda della cultura e del carattere). Date queste premesse si passa alla seconda sezione, dedicata al problema dei Confini, nella quale i ragazzi verranno invitati a considerare i conflitti territoriali nella propria area geografica. Siamo animali territoriali Tutti gli esseri umani hanno bisogno di un posto sicuro dove ripararsi dalle intemperie e dalle minacce del mondo esterno, dove potersi riposare senza temere di essere aggrediti, dove condividere alcune esperienze quotidiane con i membri della propria famiglia, e dove sentirsi parte di un gruppo più esteso a cui si è legati da un linguaggio comune, da una storia passata e da una serie di progetti futuri.

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Capitolo 3

Il territorio

Questa è la mia terra Anche se i bambini hanno ben presto le esperienze di cui si parla in questo capitolo, il tema si presenta difficile perché esistono buone ragioni in difesa dei due atteggiamenti che presentiamo. Li abbiamo definiti come l'atteggiamento dello Stanziale e quello dell'Errante, ovvero "amare la propria casa", e "andare in casa d'altri" (oppure "accogliere chi viene a casa nostra"). Si tratta di fare cogliere ai ragazzi i dati positivi di ogni punto di vista e di portarli a discutere i limiti di ciascuno. Dunque, su un tema apparentemente così semplice bisogna far cogliere l'idea che per certi problemi non c'è una sola risposta, bensì molte, che dipendono dal punto di vista, dalla situazione in cui si parla, eccetera.Alla fine della sezione Territorio vengono proposti alcuni spunti per la discussione volti a ricomporre l'apparente contraddizione e a mostrare come il bisogno di protezione e di privacy (enfatizzati dalla tesi stanziale) e l'impulso verso l'esplorazione (valorizzato dai discorsi del nomade) siano in effetti due aspetti della personalità umana, che questi due aspetti si implicano a vicenda e che, quindi, ciascuno di noi è un po' stanziale e un po' errante (sia pure in proporzioni diverse a seconda della cultura e del carattere).Date queste premesse si passa alla seconda sezione, dedicata al problema dei Confini, nella quale i ragazzi verranno invitati a considerare i conflitti territoriali nella propria area geografica.

Siamo animali territoriali Tutti gli esseri umani hanno bisogno di un posto sicuro dove ripararsi dalle intemperie e dalle minacce del mondo esterno, dove potersi riposare senza temere di essere aggrediti, dove condividere alcune esperienze quotidiane con i membri della propria famiglia, e dove sentirsi parte di un gruppo più esteso a cui si è legati da un linguaggio comune, da una storia passata e da una serie di progetti futuri.

L'istinto di protezione spinge le persone a cercare rifugio "a casa propria", e a difendere questo spazio familiare dall'ingresso degli estranei.

Tutti gli esseri umani si sentono attratti verso ciò che sta oltre il territorio conosciuto. Il richiamo verso un luogo lontano ignoto e affascinante induce le persone a distaccarsi dai propri luoghi di origine per mettersi in cammino verso mete più o meno distanti.

L'istinto di esplorazione è altrettanto vitale dell'istinto di protezione, dal momento che induce le persone ad allontanarsi dalla base sicura per scoprire com'è fatto l'ambiente esterno, quali risorse offre, e che cosa c'è da imparare da esso.

Siamo animali erranti

Tutti gli esseri umani si sentono attratti verso ciò che sta oltre il territorio conosciuto. Il richiamo verso un luogo lontano ignoto e affascinante induce le persone a distaccarsi dai propri luoghi di origine per mettersi in cammino verso mete più o meno distanti.

L'istinto di esplorazione è altrettanto vitale dell'istinto di protezione, dal momento che induce le persone ad allontanarsi dalla base sicura per scoprire com'è fatto l'ambiente esterno, quali risorse offre, e che cosa c'è da imparare da esso.

Approfondimenti

Lo spazio personale Essere legati al proprio spazio, al proprio luogo di origine, all'ambiente dove viviamo, e cioè al proprio territorio, si chiama territorialità. La territorialità è un fenomeno naturale, comune a molti animali, e riguarda in primo luogo la difesa dello spazio personale dall'intrusione degli estranei.

Se ci avviciniamo lentamente a un gatto randagio, giunti a una certa distanza vediamo che tutto di un tratto il gatto comincia a scappare. È come se avessimo varcato un limite invisibile per entrare in quello che il gatto percepisce come il suo spazio personale, e la fuga serve a ripristinare la "distanza di sicurezza". Se a questo punto impedissimo al gatto di fuggire, e continuassimo ad avvicinarci a lui, è probabile che, sentendosi minacciato, esso comincerebbe a manifestare dei comportamenti aggressivi nei nostri confronti: arrufferebbe il pelo, si inarcherebbe, soffierebbe, e via dicendo, nel tentativo di respingerci.

Gli etologi hanno constatato che molti uccelli e mammiferi si comportano in modo analogo, sia con i nemici di altre specie, sia (in certi casi) con i membri della propria stessa specie. Infatti, lo spazio personale non serve solo a difendersi dalle aggressioni dei nemici; per molti animali esso serve anche a scoraggiare l'eccessiva vicinanza dei membri della propria stessa specie, e dunque a evitare gli effetti del sovraffollamento (se si è in troppi non c'è cibo per tutti, ci si dà noia a vicenda, possono diffondersi delle malattie, eccetera). Di conseguenza, questi animali tendono a fuggire o ad assumere comportamenti aggressivi anche qualora il loro spazio personale venga "invaso" dai propri simili.

Anche gli esseri umani sono animali territoriali. Se un estraneo ci si avvicina molto, ci respira in faccia o ci pesta i piedi, ci sentiamo disturbati dalla sua presenza ravvicinata, e quasi vorremmo fare come gli animali, che mostrano subito i denti, o scappano. Di solito ci limitiamo a indietreggiare un poco e a stare un poco più distanti. Se lo spazio è troppo piccolo, come quando ci troviamo in ascensore con uno sconosciuto, cerchiamo di comportarci come se non ci fosse, per esempio voltandoci dall'altra parte, o guardando per aria. Quindi anche noi difendiamo il nostro spazio personale, anche se lo facciamo in modo diverso dagli animali.

Il contatto con l'altra gente Tra gli animali alcuni vivono in modo solitario, come certi uccelli, le tigri, le lucertole o le vipere. Altri invece vivono in branco, e cioè in gruppo, come i leoni, le zebre, i lupi, le aringhe, moltissimi uccelli. Lo fanno perché così possono aiutarsi a vicenda, cercare insieme il cibo, e difendersi meglio dai nemici. Quando incontrano dei propri simili, questi animali cercano in qualche modo di conoscersi e, se possibile, fare amicizia.

Per questo si scambiano dei segnali, e siccome non sanno parlare si mettono a fare movimenti con la coda, oppure si annusano a vicenda per sentire dall'odore se si tratta di un animale di cui possono

fidarsi, emettono dei suoni, qualche volta si leccano. Se, dall'odore o da altri segnali, un animale acquista fiducia nei confronti dell'altro, allora i due accettano di stare vicini, si comportano come se parlassero tra loro, talora giocano insieme.Sembra proprio di vedere due bambini che si incontrano, si avvicinano, si domandano "Chi sei?" oppure "vuoi giocare con me?" o uno offre un dolce o un giocattolo all'altro.

Infatti anche gli esseri umani hanno bisogno di sentire la presenza dei propri simili e ricercano il contatto con altre persone. Ogni giorno noi abbiamo questi contatti, e quando rimaniamo soli per troppo tempo ci annoiamo e cerchiamo qualcuno. La gente certe volte va in piazza o al bar solo per "fare quattro chiacchiere". Certe volte telefoniamo a qualcuno senza avere niente di particolare da dirgli, ma solo per sentire la sua voce (e per fargli sentire la nostra). Il contatto con gli altri può avvenire in diversi modi: certe volte ci si scambia uno sguardo, oppure ci si saluta, ci si mette a parlare, a giocare insieme. Persino fare la lotta può essere una forma di contatto. Quando entriamo in contatto ammettiamo gli altri entro il nostro spazio personale, e così fanno gli altri con noi.

• Come il bambino costruisce il proprio spazio personale Appena nato, il bambino non ha ancora il senso del proprio spazio personale e non vede dei confini tra se stesso e gli altri: durante i primissimi mesi di vita, l'ambiente esterno gli si presenta come qualcosa di confuso: il bambino non sa ancora di avere un corpo tutto suo, separato da quello degli altri e non riconosce gli oggetti e le persone come cose diverse da se stesso. Per lui stare al mondo vuole dire stare con la mamma che lo allatta e lo accarezza, e non c'è differenza tra lo spazio personale della mamma e quello del bambino.

Ma, tra il secondo e il sesto mese, il bambino comincia ad avvertire che lui e la madre sono due cose diverse. È così che egli inizia a prendere coscienza di uno strano "confine" tra se stesso e gli altri. Proprio per questo il bambino soffre se la madre (o la persona che si prende cura di lui) si allontana; il bambino la segue con lo sguardo, la chiama e, quando non la vede più, si dispera. Ma è proprio grazie alla "esperienza del distacco" che, tra i sei e i diciotto mesi, il bambino a poco a poco incomincia a riconoscersi come qualcuno di distinto dagli altri.

Allora lentamente comincia anche a riconoscere proprio spazio personale. Mentre quando era più piccolo chiunque poteva avvicinarsi a lui, andando avanti solo pochi intimi possono superare un limite di vicinanza senza creargli inquietudine o disagio. Intorno ai tre anni il bambino comincia a mantenere una distanza nei confronti delle persone adulte che non siano i suoi stretti familiari e amici (mentre questa distanza non esiste ancora nei confronti dei coetanei). Sempre in questo periodo, inizia a distinguere tra le distanze da mantenere rispetto ai maschi e alle femmine e solo così acquista anche coscienza del proprio "genere" (se cioè è un maschio o una femmina).

Riconoscendo il proprio spazio personale il bambino acquista anche il senso della proprietà. Nello suo spazio personale il bambino riconosce certi oggetti come suoi, e li difende dagli altri (dice di ogni cosa che gli piace: "è mio!"). Questo "senso di proprietà" è naturale e solo attraverso l'educazione si impara che non possiamo avere tutto ciò che vogliamo e appartiene ad altri, e che molte cose devono essere condivise. Imparare a rispettare ciò che è degli altri vuole dire, per il bambino, crescere come animale sociale, che accetta certe regole per potere vivere nel suo gruppo, sia esso la famiglia, la piazza, la scuola, il villaggio. Il bambino capisce che in certe situazioni alcune persone vanno tenute più a distanza di altre ( i genitori gli insegnano a non dare confidenza agli sconosciuti, che potrebbero essere "cattivi") ma anche che, così come lui pretende di difendere i suoi spazi e le sue cose dall'invasione degli altri, lui stesso deve rispettare gli spazi e le cose altrui.

• Come il bambino comincia a esplorare I neonati passano quasi tutto il tempo in uno stato di semisonno e semiveglia, svegliandosi quando hanno fame o quando hanno altri bisogni, e ripiombando nel sonno non appena questi bisogni vengano soddisfatti. Intorno ai sei mesi, però, essi cominciano a "esplorare" il mondo intorno a loro.

Le prime esplorazioni riguardano soprattutto il corpo della madre o di chi si prende cura di lui: il bambino le tira i capelli, il naso, le orecchie, le mette le mani in bocca, la osserva e la manipola da vicino. Una volta familiarizzatosi con il volto materno, e resosi conto che si tratta di un'entità fisica separata da sé, verso l'ottavo mese può rivolgersi con un misto di curiosità e di timore all'esplorazione dei volti delle altre persone, i cui tratti vengono confrontati con quelli della madre.A mano a mano che il bambino acquista capacità di movimento e consapevolezza di sé, esplora il mondo sempre di più. Da principio si limita ad afferrare, a succhiare, e a toccare ciò che gli capita sotto tiro. Più avanti, attraverso la vista e l'udito, osserva oggetti più distanti. Non appena è in grado di muoversi a quattro zampe, comincia ad allontanarsi per brevi periodi dalla madre: talora è così assorto nelle proprie attività che sembra dimenticarsi della sua presenza, ma poi viene colto da improvvise ansie di separazione e ritorna da lei. È come se facesse dei piccoli viaggi di andata e ritorno dalla madre all'ambiente circostante.

Così accade come se il bambino si costruisse una specie di "carta geografica" del mondo che conosce, imparando a riconoscere e a prevedere situazioni sempre più numerose, e nello stesso tempo impara a riconoscere meglio quello che sa e può fare. Ad esempio, il bambino impara che se afferra un oggetto fragile e poi molla la presa, l'oggetto cade per terra e si rompe; ma, così facendo, prende anche coscienza di cosa può fare con le sue mani.Quando, verso la fine del primo anno, il bambino impara a camminare, gli si aprono letteralmente nuovi orizzonti. Stando in piedi vede il proprio ambiente "dall'alto" e lo conosce meglio. Giocando fa nuove esperienze (impara che le palle rimbalzano, che certi oggetti rotolano, che altri fanno rumore se li si scuote, eccetera). Intanto impara a parlare, e a poco a poco è capace di condividere le proprie esperienze con altre persone. Se vede una cosa che lo impressiona o gli piace incomincerà a dire che è "grande" o che è "bella", se vede un oggetto o un animale che conosce ripeterà il suo nome indicandolo col dito, e cercherà di dirlo continuamente agli altri per far conoscere le sue impressioni e le sue scoperte.

Il territorio Spesso, gli animali vivono in un'area ben precisa nella quale essi costruiscono il nido o la tana, allevano i loro piccoli, trovano e conservano il cibo, giocano, e così via. Questo luogo è il loro "territorio", e viene difeso dall'ingresso degli estranei.Per comunicare la propria presenza nel territorio agli altri e per far sapere a chi potrebbe entrarvi dentro quali sono i confini dell'area protetta, molti animali marcano il territorio in vari modi: ad esempio possono emettere segnali acustici (come il canto degli uccelli o l'ululato del lupo), visivi (ad esempio, graffi sui tronchi degli alberi) o olfattivi (emettono odori attraverso delle ghiandole o con l'urina). Se un estraneo ignora questi segnali, scattano le reazioni di difesa da parte di coloro che si considerano i legittimi occupanti del territorio. Raramente nasce una lotta. Più spesso si assiste a una ritualizzazione del conflitto, per cui gli avversari si limitano a mostrare la propria aggressività con alcuni segni esteriori fino a quando uno dei due (generalmente l'invasore) batte in ritirata.

Anche gli esseri umani hanno bisogno di spazi familiari nei quali svolgere le loro attività e questi spazi sono la casa, la scuola, il quartiere, il villaggio, fino a territori di dimensioni più estese, come la regione o il paese in cui si abita. Questi luoghi vengono percepiti come parte del proprio spazio personale e, come tali, vengono "marcati" e difesi dagli intrusi. Queste marche di difesa possono essere di vario tipo: per una casa possono essere la porta chiusa, il cartello "attenti al cane", un cancello; per un grande paese ci saranno i confini, dove viene posta la bandiera e dei custodi che stanno attenti a chi varca il confine.

L'erranza La parola erranza viene da errare, e cioè vagare, andare in giro, talora senza meta, talora verso mete lontane e ancora incerte. L'erranza nasce dal desiderio di libertà, dalla curiosità, dal desiderio di superare, con la mente o con il corpo, i confini del proprio territorio noto.Certe volte, ed è accaduto molto in passato, un intero popolo si mette a errare perché a casa propria non c'è cibo sufficiente o dei cataclismi naturali (inondazioni, terremoti, pestilenze) hanno reso difficile vivere nel loro territorio. Allora si va alla ricerca di un paese diverso, in cui ci siano campi da coltivare, giardini pieni di frutti, acqua, clima dolce e tanti animali da cacciare e da allevare. Di queste forme di erranza da parte di un intero popolo parleremo nel capitolo sulla migrazione.L'attrazione per ciò che non conosciamo ancora si esprime in molti modi. Fin da piccoli proviamo interesse per tutto ciò che è nascosto o segreto. Il ripostiglio, il solaio, la camera nella quale è proibito entrare, sono i luoghi in cui maggiormente si sviluppa l'immaginazione e il desiderio di esplorazione. Su questi luoghi sconosciuti, prima di averli esplorati, noi sogniamo a occhi aperti, inventiamo storie, certe volte bellissime, certe volte spaventose (come quando crediamo che in cantina o in una certa stanza buia ci sia il babau, il lupo o qualche altro essere cattivo). Da adulti possiamo fantasticare di paesi lontani, ma sempre proviamo il bisogno di esplorare ciò che non conosciamo ancora. In tutti i paesi sono state inventate leggende su terre lontane, spesso popolate da creature fantastiche.Naturalmente ci sono persone più "stanziali", ovvero più legate al proprio territorio, che non desiderano muoversi da casa propria e soffrono se devono affrontare anche un piccolo viaggio. Ma ci sono persone che sono ansiose di esplorare che cosa c'è oltre i confini del loro territorio. Sono i viaggiatori. Certi viaggiatori del passato hanno intrapreso ardite spedizioni verso mete lontane.

La casa Per gli esseri umani, l'istinto di "marcare il territorio" non ha solo una funzione difensiva (tenere fuori gli estranei), ma serve anche a riconoscere quei luoghi come i nostri. Per questo decoriamo la casa secondo i nostri gusti, disponiamo in un certo modo i mobili, mettiamo sui mobili degli oggetti che ci piacciono. La casa dice così chi siamo noi, quali sono le nostre preferenze, e sovente vedendo la casa di una persona si capisce il carattere di chi ci abita.

Ci sono poi delle abitudini degli abitanti di una casa (compleanni, lo stare insieme alla sera davanti al televisore oppure davanti al camino) così come ci sono abitudini comuni a uno stesso villaggio o città. Tutte queste abitudini ci fanno sentire di appartenere a quel gruppo, famiglia o villaggio, tanto che quando siamo lontani da questi posti proviamo nostalgia.Ci sono tanti tipi di case e tanti tipi di villaggio, tanto che invece della parola casa, che suggerisce l'idea di quattro mura di pietre o di mattoni coperte da un tetto, potremmo parlare di abitazione. Noi siamo abituati alla abitazione dove viviamo noi e certe volte non riusciamo a capire come altre persone possano vivere in una abitazione diversa, ma dipende dalle abitudini di ogni popolo: ci sono

abitazioni fatte di legno, altre di fango, di pietra o di mattoni, di foglie o canne intrecciate e ci sono anche abitazioni costruite con blocchi di ghiaccio. Non è neppure indispensabile che l'abitazione stia in un luogo fisso, per cui ci sono popolazioni che si chiamano "nomadi" che si spostano continuamente da un territorio all'altro, quando arrivano in un luogo accogliente piantano le loro tende, e queste sono per un certo periodo le loro abitazioni. Ci sono oggi dei nomadi che si spostano con dei carrozzoni e delle roulottes, e abitano sempre in un luogo diverso dal precedente. Gli aborigeni australiani un tempo vagavano continuamente per il deserto, si fermavano la sera per catturare qualche piccolo animale da mangiare, e poi dormivano sotto il cielo. Tutto il deserto era la loro "casa", e sono vissuti tranquillamente così sino a che non sono arrivati gli europei a costruire i loro villaggi e le loro città. Allora gli aborigeni hanno sofferto molto perché non potevano adattarsi a quella trasformazione del loro territorio.

Al di là delle differenze, però, tutte le abitazioni hanno qualcosa che le ricopre (come un tetto) e di solito, ma non sempre, hanno anche finestre per fare entrare aria e luce. Però ci sono abitazioni che sorgono in luoghi così freddi o così caldi che si cerca di non aprirvi finestre, per proteggersi dal gelo o dal calore. Tutte le abitazioni hanno anche qualcosa (di solito le porte, ma talora anche solo un buco) da cui si entra e si esce. L'abitazione ci protegge dall'esterno ma ci permette anche di uscire e comunicare con gli altri.Ma ci sono delle regole. Innanzi tutto, l'accesso alla casa non è aperto a tutti. È il padrone di casa che decide chi può entrare e cosa deve fare per essere ammesso. Inoltre, all'interno della casa vengono stabilite alcune regole di comportamento che sia gli abitanti fissi, sia gli ospiti, sono tenuti a rispettare: i singoli individui accettano di sacrificare una parte della propria libertà personale in favore della convenienza e della maggiore sicurezza garantita dall'appartenenza al gruppo.Ogni cultura elabora un sistema di regole che prescrivono i comportamenti che ci si aspetta dall'ospite, e se l'ospite non osserva queste regole viene considerato un invasore. D'altra parte, i padroni di casa hanno il dovere di comportarsi in determinati modi nei confronti del visitatore.

L'ospite può essere qualcuno che arriva all'improvviso senza che lo si aspettasse, ma molte volte si desidera e si invita l'ospite. Proprio perché sono animali sociali e amano la loro abitazione, gli esseri umani voglio invitare degli ospiti, per fare vedere come è accogliente la loro casa e come vi si mangia bene. In certe culture l'ospite è sentito come un dono del cielo, e ci si fa in quattro per fargli onore, talora dividendo con lui un cibo già scarso. L'ospite riceve certamente un favore da chi lo accoglie, ma in parte lo ricambia, perché parlando racconta di altri luoghi e di altre abitudini. L'ospite mette in contatto diversi territori e favorisce la conoscenza reciproca.

Il viaggio In moltissimi racconti, il protagonista è colui (o colei) che si allontana dal suo luogo di origine e che affronta i pericoli dell'ignoto. Gilgamesh, Ulisse, Sindbad, Erik il Rosso , e innumerevoli altri personaggi appartenenti alle leggende e alle storie di tutto il mondo, non avrebbero mai avuto le loro mirabolanti avventure se fossero rimasti in casa propria. Sul loro cammino, i viaggiatori incontrano persone e creature strane, incappano in diversi ostacoli e affrontano varie prove difficili. Ma, quando ritornano dalle loro avventure, questi personaggi vengono considerati degli eroi, o in ogni caso persone che hanno acquistato esperienze straordinarie.

Questi primi viaggiatori incontravano genti "strane". Vale a dire che hanno incontrato persone che avevano aspetto fisico o abitudini diverse da quelli del gruppo da cui veniva il viaggiatore. Bastava che avessero una pelle di colore diverso o gli occhi tagliati in un diverso modo, oppure che vestissero pelli di animale che parevano una pelliccia che gli cresceva addosso, o che portassero

come cappello la testa scuoiata di un bue con le corna, e subito si parlava di esseri stranissimi, dal pelo come quello delle scimmie, con la coda, con le corna, con tre occhi o con denti lunghissimi. Ma altre volte dei viaggiatori più attenti, come per esempio Marco Polo si sono resi conto che erano esseri umani, solo in parte diversi da loro, e che avevano usanze diverse. Così molti viaggiatori da un lato hanno fatto credere che le terre lontane fossero abitate da mostri mai visti, ma dall'altro hanno aiutato i propri compatrioti a capire che al mondo esistono colori, lingue e culture diverse.

Naturalmente, apprendendo che fuori dal loro territorio esistono esseri umani diversi, quelli che abitano in un certo territorio incominciano a distinguere tra Noi e gli Altri. Questa distinzione può produrre reazioni opposte: si incomincia ad aver paura di una invasione degli Altri, oppure si incomincia a desiderare di fare una spedizione in quelle terre lontane per conquistare gli Altri. Ma talora si è deciso di fare nuovi viaggi per stabilire dei rapporti commerciali con gli Altri. Così già nel mondo antico e poi nel Medioevo, si facevano lunghi viaggi verso l'oriente per importare delle spezie che in Europa erano molto desiderate per dare sapore ai cibi e conservarli meglio, o per acquistare la seta, che si producevano solo laggiù. Spesso la conoscenza reciproca ha reso possibile un miglioramento delle condizioni di vita interne, e un arricchimento complessivo di entrambe le culture entrate in contatto.

Molti Europei hanno pensato che erano loro ad andare a scoprire gli Altri. Invece esistono dei resoconti di viaggi cinesi o arabi che ci dicono che spesso quelli che per gli Europei erano gli Altri facevano dei viaggi per scoprire gli Europei. Questo ci dice che ogni popolo è portato a distinguere tra Noi e gli Altri. Dobbiamo cercare di capire, ovunque viviamo, che Noi siamo gli Altri di coloro che noi consideriamo gli Altri.Non esiste un popolo 'scoperto' e un popolo 'scopritore', ma ognuno dei due è contemporaneamente sia l'uno che l'altro. Pensiamo a cosa accade quando noi riceviamo la visita di un Viaggiatore di altri paesi. Anche chi accoglie (bene o male) il viaggiatore fa l'esperienza di abitudini diverse. Le persone che vivono in un paese visitato da molti stranieri (emigranti, turisti o anche truppe di occupazione) imparano a conoscere delle persone diverse. Possono accettarle o respingerle, ma devono ammettere che in qualche modo sono diverse da loro.

Ciò che può sembrare naturale o bellissimo per l'abitante di un determinato luogo può sembrare bizzarro o terribile al visitatore, e viceversa. Gli europei non possono concepire che i cinesi mangino i cani, ma nei paesi musulmani non si concepisce che gli europei mangino la carne di maiale. Gli inglesi hanno per lungo tempo trovato stranissimo che i francesi mangiassero le rane (che in molti paesi sono considerate buonissime). Nella cucina italiana ci sono ottimi piatti di carne cruda, ma in America questo cibo era visto con diffidenza. Chi mangiava carne cruda in Europa non concepiva che i giapponesi mangiassero pesce crudo e i cinesi le pinne di pescecane. Eppure basta pensare come i viaggi reciproci (che hanno portato molti abitanti di un paese a conoscere le abitudini dell'altro), le immigrazioni (che hanno portato per esempio i cinesi in mezzo mondo) o i viaggi turistici, hanno cambiato le abitudini dei vari popoli. Ora si mangia pesce crudo anche negli Stati Uniti, così come si mangiano la pizza e gli spaghetti italiani, mentre in ogni città occidentale ci sono ristoranti cinesi. Certe abitudini sono rimaste, e gli occidentali non si rassegnano a mangiare i cani, ma molte diffidenze reciproche sui modi di mangiare si sono attenuate. Questo vuole dire che i viaggi aiutano le persone di diversi paesi a conoscersi meglio e a scambiare esperienze.

La patria

Abbiamo detto che il rapporto intimo che lega un individuo alla sua casa, e che fa sì che lo spazio domestico venga percepito come un'estensione dello spazio personale, può estendersi anche a territori di dimensioni più vaste, come il quartiere, il villaggio, la nazione. In tutti questi casi, il territorio si identifica con la comunità che lo abita, ossia con il gruppo più o meno allargato di persone che si sentono legate tra loro. Di solito si dice che queste persone appartengono alla stessa patria, alla stessa nazione, allo stesso paese. Per rappresentare questa comunità usano dei simboli speciali come per esempio le bandiere.

Che cosa hanno in comune gli abitanti di una stessa comunità nazionale? Innanzitutto una lingua: parlare la stessa lingua significa avere in comune un certo modo di pensare. Chi è vissuto in un piccolo paese dove la gente parla ancora il dialetto locale sa che certe cose che si possono dire bene in dialetto non possono essere dette nella lingua nazionale (o viceversa) e certe volte ci si rende conto che certi scherzi possono essere capiti solo da coloro che parlano lo stesso dialetto.

Per questo talora la gente di un posto rimane imbarazzata e disturbata quando vi arrivano persone (come immigrati) che parlano un dialetto che loro non capiscono. È importante talora riconoscere anche l'accento del proprio luogo di nascita. Capita certe volte di essere lontano da casa e di avere un senso di familiarità quando si sente qualcuno parlare e si capisce dall'accento che viene dalle nostre parti. Ma bisogna anche mettersi dal punto di vista di chi è ospite in un luogo che non è il suo, e si sente isolato perché non capisce il dialetto o la lingua locale. Il dovere di ospitalità ci suggerisce allora di mettere questo "forestiero" a proprio agio, così come vorremmo capitasse a noi se ci trovassimo lontano da casa.Inoltre, se il nostro dialetto ci pare interessante e bello, sarebbe importante capire anche quello degli altri.

Le persone dello stesso villaggio o della stessa nazione condividono anche una tradizione di leggende, storie su come è nata la loro città e il loro paese, o anche favole e racconti. Questa tradizione viene trasmessa di generazione in generazione. Le "storie" comuni contribuiscono a creare l'identità collettiva. Attraverso i racconti, la comunità si trova unita da un passato comune e tutti si propongono ideali e obiettivi da raggiungere insieme. I membri di una comunità condividono inoltre diverse pratiche sociali e culturali, credenze religiose, regole di comportamento, precetti alimentari, tradizioni culinarie e artistiche, modi di vestirsi, di decorare gli spazi, e così via: in breve, essi condividono una medesima cultura. La nazione, il paese, la patria è un luogo dove vive un insieme di persone legate da un sistema di tradizioni comuni, dalla stessa lingua, persino dallo stesso paesaggio, per cui gli abitanti di una città sul mare amano la grande distesa dell'acqua, ma gli abitanti di una regione desertica trovano familiari le grandi distese di sabbia e magari non riuscirebbero a vivere in una valle racchiusa tra monti coperti di neve, come accade a certe popolazioni di montagna. Tutti coloro che appartengono allo stesso paese hanno idee simili di bene e di male, di bello e di brutto (queste idee si chiamano valori comuni, e cioè cose che valgono per tutti).

La terra patria (che vuole dire "terra dei nostri padri") è il luogo dove siamo nati, dove sono nati i nostri genitori, dove ci auguriamo che cresceranno i nostri figli. È il luogo dove ci sentiamo circondati da persone amiche, con le quali ci intendiamo e collaboriamo per ottenere cose che tutti insieme desiderano. Però non bisogna mai dimenticare che anche gli stranieri hanno il loro sentimento della patria. Al mondo non c'è una sola patria, ve ne sono tante e ciascuno ama la propria. Bisogna rispettare anche il sentimento che della loro patria hanno coloro che parlano una lingua diversa dalla nostra. Non si può dire "la mia patria è l'unica buona e bella e la vostra non dovrebbe neppure esistere", perché altrimenti anche loro penseranno la stessa cosa. Da questo modo di pensare nascono quelle guerre in cui qualcuno, per imporre la lingua e i valori della propria patria, ha cercato di invadere distruggere quella degli altri.

Conoscete dei casi in cui questo è avvenuto?Quando la nostra terra viene minacciata da persone di un altro paese le quali ci invadono come se fossimo dei nemici, allora è giusto difenderci da questi attacchi. Per questo ogni paese ha un proprio esercito, che non deve servire per invadere i paesi altrui ma per difendere il proprio.

Però molte volte gli stranieri non vengono da noi come invasori ma come immigranti, per cercare da noi un lavoro che non trovano a casa loro.

Il viaggio In moltissimi racconti, il protagonista è colui (o colei) che si allontana dal suo luogo di origine e che affronta i pericoli dell'ignoto. Gilgamesh, Ulisse, Sindbad, Erik il Rosso , e innumerevoli altri personaggi appartenenti alle leggende e alle storie di tutto il mondo, non avrebbero mai avuto le loro mirabolanti avventure se fossero rimasti in casa propria. Sul loro cammino, i viaggiatori incontrano persone e creature strane, incappano in diversi ostacoli e affrontano varie prove difficili. Ma, quando ritornano dalle loro avventure, questi personaggi vengono considerati degli eroi, o in ogni caso persone che hanno acquistato esperienze straordinarie.

Questi primi viaggiatori incontravano genti "strane". Vale a dire che hanno incontrato persone che avevano aspetto fisico o abitudini diverse da quelli del gruppo da cui veniva il viaggiatore. Bastava che avessero una pelle di colore diverso o gli occhi tagliati in un diverso modo, oppure che vestissero pelli di animale che parevano una pelliccia che gli cresceva addosso, o che portassero come cappello la testa scuoiata di un bue con le corna, e subito si parlava di esseri stranissimi, dal pelo come quello delle scimmie, con la coda, con le corna, con tre occhi o con denti lunghissimi. Ma altre volte dei viaggiatori più attenti, come per esempio Marco Polo si sono resi conto che erano esseri umani, solo in parte diversi da loro, e che avevano usanze diverse. Così molti viaggiatori da un lato hanno fatto credere che le terre lontane fossero abitate da mostri mai visti, ma dall'altro hanno aiutato i propri compatrioti a capire che al mondo esistono colori, lingue e culture diverse.

Naturalmente, apprendendo che fuori dal loro territorio esistono esseri umani diversi, quelli che abitano in un certo territorio incominciano a distinguere tra Noi e gli Altri. Questa distinzione può produrre reazioni opposte: si incomincia ad aver paura di una invasione degli Altri, oppure si incomincia a desiderare di fare una spedizione in quelle terre lontane per conquistare gli Altri. Ma talora si è deciso di fare nuovi viaggi per stabilire dei rapporti commerciali con gli Altri. Così già nel mondo antico e poi nel Medioevo, si facevano lunghi viaggi verso l'oriente per importare delle spezie che in Europa erano molto desiderate per dare sapore ai cibi e conservarli meglio, o per acquistare la seta, che si producevano solo laggiù. Spesso la conoscenza reciproca ha reso possibile un miglioramento delle condizioni di vita interne, e un arricchimento complessivo di entrambe le culture entrate in contatto.

Molti Europei hanno pensato che erano loro ad andare a scoprire gli Altri. Invece esistono dei resoconti di viaggi cinesi o arabi che ci dicono che spesso quelli che per gli Europei erano gli Altri facevano dei viaggi per scoprire gli Europei. Questo ci dice che ogni popolo è portato a distinguere tra Noi e gli Altri. Dobbiamo cercare di capire, ovunque viviamo, che Noi siamo gli Altri di coloro che noi consideriamo gli Altri.Non esiste un popolo 'scoperto' e un popolo 'scopritore', ma ognuno dei due è contemporaneamente sia l'uno che l'altro. Pensiamo a cosa accade quando noi riceviamo la visita di un Viaggiatore di altri paesi. Anche chi accoglie (bene o male) il viaggiatore fa l'esperienza di abitudini diverse. Le persone che vivono in un paese visitato da molti stranieri (emigranti, turisti o anche truppe di

occupazione) imparano a conoscere delle persone diverse. Possono accettarle o respingerle, ma devono ammettere che in qualche modo sono diverse da loro.

Ciò che può sembrare naturale o bellissimo per l'abitante di un determinato luogo può sembrare bizzarro o terribile al visitatore, e viceversa. Gli europei non possono concepire che i cinesi mangino i cani, ma nei paesi musulmani non si concepisce che gli europei mangino la carne di maiale. Gli inglesi hanno per lungo tempo trovato stranissimo che i francesi mangiassero le rane (che in molti paesi sono considerate buonissime). Nella cucina italiana ci sono ottimi piatti di carne cruda, ma in America questo cibo era visto con diffidenza. Chi mangiava carne cruda in Europa non concepiva che i giapponesi mangiassero pesce crudo e i cinesi le pinne di pescecane. Eppure basta pensare come i viaggi reciproci (che hanno portato molti abitanti di un paese a conoscere le abitudini dell'altro), le immigrazioni (che hanno portato per esempio i cinesi in mezzo mondo) o i viaggi turistici, hanno cambiato le abitudini dei vari popoli. Ora si mangia pesce crudo anche negli Stati Uniti, così come si mangiano la pizza e gli spaghetti italiani, mentre in ogni città occidentale ci sono ristoranti cinesi. Certe abitudini sono rimaste, e gli occidentali non si rassegnano a mangiare i cani, ma molte diffidenze reciproche sui modi di mangiare si sono attenuate. Questo vuole dire che i viaggi aiutano le persone di diversi paesi a conoscersi meglio e a scambiare esperienze.

Immigrazione e migrazioni Bisogna distinguere tra immigrazione e migrazione. Le migrazioni avvengono quando un intero popolo abbandona la propria terra e va a insediarsi sulla terra di un altro popolo. Le migrazioni interessano enormi masse di persone che si spostano tutte insieme.Le immigrazioni avvengono quando una parte delle persone di un certo paese, per trovare lavoro, va a vivere in altri paesi. Non si sposta un intero popolo, che resta sul proprio territorio, ma solo una parte degli abitanti, e non vanno tutti insieme nello stesso luogo, ma si distribuiscono nei vari paesi dove sperano di trovare lavoro. Non vogliono conquistare il paese in cui vanno, ma solo trovarvi migliori condizioni di vita. • Migrazioni Nelle epoche antiche ci sono state molte migrazioni, e forse noi stessi e le nostre comunità siamo il risultato di una antica migrazione. Secondo molti scienziati, l'uomo come specie è nato milioni di anni fa in Africa e poi ha iniziato a migrare sugli altri continenti, dall'Europa all'Asia, sino all'America e all'Australia. Verso la fine dell'Impero romano ci sono state migrazioni di popoli del nord, che i romani chiamavano "barbari" (ma allora, barbari, dalla parola greca barbaros, voleva dire "straniero"), i quali qualche volta si sono insediati pacificamente nei territori romani, ma più spesso li hanno invasi. Dall'unione tra i romani (che allora dominavano tutta l'Europa) e questi nuovi popoli sono nate le lingue che molti di noi parlano oggi (come lo spagnolo, il francese, l'inglese, il tedesco, l'italiano, il romeno, eccetera). Poi essi sono diventati tutti cristiani e gli europei tutti discendono da quelle migrazioni.

Con Muhammad (o, come diciamo noi, Maometto) gli arabi, che prima vivevano solo nella penisola arabica, si sono spinti prima per tutta l'Africa del nord, arrivando sino in Spagna, poi hanno diffuso la loro religione in gran parte dell'Asia, e quello che conosciamo oggi come mondo musulmano nasce da quel grande spostamento di popoli. Anche le due Americhe erano all'origine popolate dalle sole popolazioni locali (indiani del nord America, Atzechi, Toltechi e Maja nella zona del Messico, Incas in Perù, varie tribù nelle foreste brasiliane). Gli europei hanno dapprima conquistato (e in modo molto feroce) i territori di quelle popolazioni, ma poi si è avuta nel corso dei secoli una grande migrazione di europei verso quelle nuove terre. Quindi non solo gli Stati Uniti e il Canada

ma anche tutti i paesi dell'America Latina, come li conosciamo oggi, sono il risultato di quella lenta e continua migrazione europea, che è durata quattrocento anni. Anche gli australiani di oggi sono il frutto di una migrazione.

Dunque molte volte le migrazioni sono state sanguinose, altre volte pacifiche, di solito sono state inarrestabili perché quando un intero popolo si muove è difficile fermarlo, e in complesso hanno cambiato la faccia del mondo e lo hanno fatto diventare come lo conosciamo oggi.

• Immigrazioni Le immigrazioni sono state e sono di solito un bene per il paese ospite. Per esempio gli Stati Uniti sono diventati un grande paese grazie all'arrivo di milioni di immigrati che hanno lavorato duramente e hanno contribuito a far crescere grandi città come New York. Col tempo questi immigrati sono diventati cittadini americani, che ancora portano nomi italiani, polacchi, irlandesi, latino-americani. Cinesi e indiani sono immigrati in varie zone del mondo e vi hanno creato delle comunità molto popolose. Oggi milioni di persone emigrano dalle Filippine, dalla Turchia, dall'Africa per andare a lavorare nei paesi europei. Ci sono state e ci sono ancora molte immigrazioni dai paesi dell'est europeo verso l'Europa dell'ovest (albanesi, polacchi, ucraini, romeni, eccetera).

Gli immigrati cercano di inserirsi nel paese d'arrivo e di trovarvi lavoro perché sono partiti dal loro paese dove non trovavano abbastanza per vivere decentemente. Certi, anche guadagnando pochissimo, fanno sacrifici per mandare un poco di denaro alla famiglia che hanno lasciato a casa propria. Molti di loro non trovano un lavoro regolare e si dedicano a mestieri umilissimi. Di solito, però, vediamo per strada quelli che chiedono l'elemosina o che cercano di vendere piccoli oggetti e non sappiamo che in molti paesi gli immigrati lavorano nelle campagne o nelle fabbriche, e a poco a poco guadagnano abbastanza da fare arrivare la loro famiglia. Tante cose che noi usiamo sono state prodotte grazie al lavoro degli immigrati.

Accade spesso che un paese non possa accogliere tutti gli immigrati che vorrebbero andarci, e molti cercano di entrarci clandestinamente, spinti dalla speranza di poter trovare un poco di benessere. Questi clandestini sono sfruttati da criminali che li trasportano di nascosto nell'altro paese e poi li abbandonano al loro destino. Oppure persone con pochi scrupoli, fingendo di aiutarli, li spingono ad azioni criminali e li sfruttano.

Quando molti immigrati arrivano nel paese ospite possono creare delle situazioni imbarazzanti. Quelli del paese ospite si vedono intorno persone che magari hanno il colore della pelle diverso, parlano un'altra lingua, hanno usi e costumi che sembrano strani. Alcuni cittadini del paese ospite si sentono come attaccati nel loro territorio, e certe volte reagiscono con la violenza, cercando di scacciare i nuovi arrivati. Di fronte a questi problemi, gli abitanti dei paesi ospiti devono fare due cose: cercare di capire che gli immigranti hanno abbandonato la loro patria, certe volte la loro famiglia, che si sentono soli tra gente diversa, e che tendono a ritrovarsi insieme perché si sentono respinti dall'ambiente circostante. Per permettere loro di sopportare questa difficile condizione bisogna cercare di dare loro modo di seguire le proprie abitudini, di parlare la propria lingua, di praticare la propria religione: in altre parole, bisogna garantire loro il diritto di coltivare la propria identità d'origine.I cittadini del paese ospite devono anche pensare che spesso gli immigranti si sono fatti un'idea falsata del paese in cui hanno deciso di trasferirsi, e che sono stati attratti da promesse illusorie di

felicità: ad esempio, in certi casi, quando erano ancora a casa loro, gli immigranti riuscivano a ricevere le trasmissioni televisive dei paesi più ricchi, e nelle trasmissioni questi paesi venivano presentati come dei luoghi meravigliosi in cui si possono vincere tanti soldi rispondendo a una domanda facile, mentre la pubblicità faceva continuamente vedere prodotti bellissimi, incitando a consumarli come se fossero davvero alla portata di tutti. È così che i paesi ospiti hanno promesso agli immigranti una felicità che poi essi non hanno trovato.

allo stesso tempo bisogna che i paesi ospiti diano agli immigrati modo di capire quali sono i valori della comunità ospitante, di apprenderne le regole della convivenza sociale, di permettere ai loro bambini di frequentare le scuole e di imparare la lingua locale, e dunque di aiutarli a inserirsi bene nel paese che li accoglie.Certe volte la convivenza è difficile. Può capitare che le abitudini degli immigrati risultino fastidiose per la comunità che li accoglie (e viceversa). Ci sono per esempio certi popoli che mangiano moltissimo aglio, e altri che lo mangiano con molta moderazione perché non ne sopportano l'odore. Se in un certo paese dove non piace l'aglio arrivano a lavorare, portando le loro famiglie e le loro abitudini alimentari, degli stranieri che mangiano molto aglio, si incomincerà a dire che costoro puzzano di aglio. Certamente convivere con gli odori che non ci piacciono può essere difficile, anche se il dovere di ospitalità consiglierebbe di non farci caso. Forse anche gli stranieri dovrebbero imparare a correggere un poco le loro abitudini alimentari per non urtare le persone del paese che li ospita. Basterebbe che a scuola, dove si ritrovano i bambini di paesi diversi, si parlasse onestamente di questo problema cercando insieme una soluzione buona per tutti.La maggiore difficoltà che gli immigrati trovano è quella della lingua. Sentono persone intorno a loro che parlano una lingua diversa e tendono a rimanere tra loro, tra persone che capiscono. Gli abitanti del paese ospitante d'altra parte sono spesso diffidenti verso chi parla una lingua che non comprendono, e sono portati a prendere in giro chi parla male la loro. Naturalmente lo stato deve preoccuparsi, come si è detto, di dare ai figli degli immigranti l'occasione di andare a scuola e di imparare la lingua del paese che li accoglie. Ma non si deve neppure costringerli a dimenticare la loro lingua e le loro tradizioni, così che la scuola dovrebbe riservare per loro delle ore in cui si parla anche del loro paese di origine.

Per approfondire questi argomenti, potete consultare gli esercizi

I confini

I confini nascono per portare pace, ma talvolta diventano causa di guerra.Quando due gruppi convivono nello stesso luogo può capitare che, per evitare conflitti, decidano assieme di fissare una certa linea di confine che separi i rispettivi territori. Dunque i confini nascono per garantire la convivenza pacifica tra gruppi diversi. Ma quando un gruppo, nonostante gli accordi presi, invade il territorio dell'altro, da strumenti di pace i confini diventano causa di guerra.

Che cosa sono i confini Molte persone vivono nei campi, e tra un campo e l'altro c'è una linea di confine, una stecconata, del filo spinato o anche soltanto delle pietre che segnano la fine del campo. In certi casi i confini coincidono con le barriere naturali: un ruscello, uno strapiombo, un filare di alberi dividono due proprietà. Altre volte, i confini vengono tracciati senza seguire alcuna barriera naturale: ad esempio, si possono erigere muriccioli o steccati per separare due case o due proprietà. Come ci possono essere confini tra abitazioni e campi, ci possono essere anche confini tra villaggi, città, o nazioni.

Anticamente la cerimonia con cui si tracciava il confine era qualcosa di sacro. La leggenda della fondazione di Roma dice che Romolo ha tracciato il confine della città e, quando Remo per provocazione lo ha superato, lo ha ucciso.Interi e grandissimi paesi hanno tracciato una barriera tra il proprio territorio e le terre sconfinate da cui potevano sopravvenire gli stranieri. Si pensi alla Grande Muraglia Cinese che correva per migliaia di chilometri per difendere quell'impero da eventuali invasori. Come si vedono ancora vasti tratti della Grande Muraglia così si possono vedere delle fortificazioni erette dai Romani in paesi che avevano conquistato, per segnare il limite oltre il quale non erano andati, e da cui potevano penetrare dei nemici. Per esempio, in Scozia, il Vallo di Adriano

• Barriere Naturali Il confine di un paese può essere un confine naturale come un largo fiume, una catena di montagne, il mare o un immenso deserto. Si dice allora che questi paesi sono protetti da barriere naturali. Per esempio le Alpi separano l'Italia dalla Francia, dalla Svizzera e dall'Austria. I Pirenei separano la Francia dalla Spagna. I confini di altri paesi sono segnati dal mare e questo accade alle isole, come il Giappone, l'Islanda, la Gran Bretagna. Ma proprio a causa delle varie migrazioni che si sono succedute nel corso dei secoli, molte volte genti che parlavano lingue diverse si sono trovate a vivere su dei territori dove non c'erano barriere naturali molto forti. Per esempio la Gran Bretagna comprende l'Inghilterra, la Scozia, il Galles e l'Irlanda del Nord. In certi casi, come quello della Gran Bretagna, della Svizzera, del Belgio e della stessa Spagna (dove ci sono popolazioni con lingua e tradizioni proprie come i paesi baschi, la Catalogna e la Galizia) genti di lingue originalmente diverse sono state riunite sotto uno stesso regno o repubblica. • Confini politici In altri casi sono stati tracciati dei confini politici. Se guardate una carta dell'Africa con i suoi vari paesi, come il Sudan, la Tanzania, o il Mali, vedete che i confini sono tracciati in modo quasi geometrico, senza seguire alcun confine naturale. Si è deciso per accordo internazionale che quel tale paese finiva lungo quella linea e dopo iniziava un altro. Tuttavia anche all'interno di questi paesi definiti per decisione politica possono vivere tribù o gruppi più ampi, con lingue e anche religioni diverse, spesso in lotta tra di loro.

Perchè i confini si spostano? Ci sono dei confini che nel corso dei secoli si spostano continuamente. Un paese tipico in questo senso è la Polonia. Quel territorio che oggi si chiama Polonia è stato coinvolto in guerre, conquiste da parte di popoli stranieri, e se guardate le cartine di un atlante storico in certi secoli è stata più grande che in altri e certe volte è addirittura scomparsa dalla carta geografica. E questo mentre continuavano a esistere milioni di persone che parlavano polacco e che si sentivano profondamente polacche. Talora i confini politici vengono tracciati dopo una guerra, dove il vincitore si prende anche delle parti di un altro paese. Oppure, siccome in una certa zona vivono comunità che parlano due lingue diverse, si decide di assegnare la zona a un paese piuttosto che all'altro. Così all'interno di un paese A possono esistere minoranze linguistiche, composte da persone che parlano la lingua del paese vicino B, ma che sono politicamente cittadini del paese A. Le minoranze linguistiche possono essere causa di tensione. Quelli che parlano la lingua A vorrebbero essere cittadini del paese che parla la stessa lingua. In ogni caso si creano incomprensioni e scontri tra i due gruppi. Il modo migliore per risolvere questi problemi è che un paese rispetti gli abitanti appartenenti a una minoranza linguistica, e dia loro la possibilità di educarsi secondo la lingua e le tradizioni di origine. Ma anche i membri dei due gruppi devono collaborare tra loro e pensare che la vicinanza di

un gruppo diverso più che una minaccia o un disturbo può essere occasione di un arricchimento culturale reciproco. Fa comodo a tutti conoscere una seconda lingua oltre alla propria: abitando in un paese con due comunità presenti nel territorio si possono imparare tante cose. Come si è legati al proprio villaggio e al proprio paese, si è anche legati alla propria regione, al dialetto di quella regione, a tante tradizioni locali. Questi legami sono importanti ma non devono essere visti come contrari all'unità del paese. Se da secoli in quel paese varie regioni sono vissute insieme, ciascuna dando qualcosa all'altra, isolarsi nella propria regione vuole dire perdere questi contatti. In una regione le città sono abitate anche (e da anni e anni) da cittadini provenienti da altre regioni che, pur appartenendo allo stesso paese, parlano dialetti diversi. Gli scambi tra le regioni sono una ricchezza per l'intero paese. Ma in certi casi il desiderio d'indipendenza regionale porta a conflitti sanguinosi. Per approfondire l'argomento, potete consultare gli esercizi.

A che cosa servono i confini? Quali sono le funzioni dei confini?

1. Anzitutto la difesa (segnare un limite entro cui non possono penetrare gli stranieri), e in questo caso molte volte i confini sono serviti a creare l'isolamento di un paese, che non aveva contatti con altre culture e altre civiltà. L'isolamento può essere dannoso perché impedisce di ricevere nuove esperienze da altri popoli.

2. La seconda funzione di un confine è quella di garantire la pace: se due popoli segnano di comune accordo il loro confine, si evitano intrusioni reciproche nel territorio altrui. Tuttavia molte volte i confini sono stati imposti da un conquistatore che voleva affermare "io sono arrivato sin qui e sin qui comando io", senza per questo essere accettati e riconosciuti dai popoli confinanti. E altre volte un confine, segnato dopo una guerra, e magari accettato malvolentieri dai perdenti, è stato in seguito rifiutato perché coloro che avevano perduto volevano riappropriarsi di una parte del territorio del vincitore, considerandola la loro. Quindi a causa dei confini, nati per favorire la pace, sono scoppiate nel corso dei secoli molte guerre, che hanno di nuovo spostato i confini e spesso hanno creato nuove occasioni di conflitto per altre guerre future. Di solito una guerra tra due popoli non porta alla pace definitiva ma crea le ragioni (odi, risentimenti, bisogno di rivincita) per altre guerre.Oggi molti accordi internazionali cercano di rendere stabili i confini di ogni paese e gli organismi sopranazionali come le Nazioni Unite autorizzano molti paesi a intervenire quando il confine di un paese è stato violato senza buone ragioni da un vicino aggressivo.

3. Una terza funzione dei confini è sempre stata la funzione doganale. Quasi tutti i paesi vogliono proteggere le merci che producono loro e imporre delle tasse su quelle che provengono dall'esterno. Per questo ai confini ci sono dei controlli sulle merci che escono ed entrano.

Si può fare a meno dei confini? I confini, anche quando sono nati per portare pace, hanno spesso prodotto isolamento e guerre. Potranno sparire i confini? Occorrerebbe che tutto il mondo fosse in pace e che non ci fossero odi di nessun tipo tra gli abitanti di due paesi vicini, e che le merci potessero circolare liberamente. Sino a

oggi è parso che fosse impossibile: per potere entrare in un altro paese (varcare il confine) uno straniero deve di solito mostrare il passaporto, o addirittura un visto, e cioè uno speciale permesso del paese in cui vuole entrare. Però negli ultimi anni istituzioni come l'Unione Europea, pur riconoscendo l'autonomia (la sovranità) dei paesi che la compongono, ha reso libera la circolazione da uno dei paesi dell'Unione all'altro, ha facilitato la circolazione delle merci e ha addirittura stabilito una moneta comune, l'Euro. Nell'Unione Europea, anche se si parlano lingue diverse, vari popoli si sentono legati da interessi e tradizioni comuni. Con l'Unione Europea non ci saranno più guerre tra i paesi che la compongono. Pensate che questo avviene per la prima volta dopo secoli e secoli di lotte sanguinose.Per approfondire l'argomento, potete consultare gli esercizi

Esempi

L'ascensore A volte ci capita di dovere condividere uno spazio ristretto con altre persone a noi estranee. In queste situazioni, siamo costretti ad accorciare le distanze personali che normalmente ci separano dagli altri. Un caso tipico è quello dell'ascensore (ma la descrizione che segue può applicarsi anche ad altri contesti analoghi, come un autobus affollato nell'ora di punta). Osservate il comportamento delle persone stipate nello spazio angusto.

La prossimità con gli altri suscita disagio e, in assenza di vie di fuga, ciascuno va a occupare il punto più distante possibile da tutti gli altri. Per neutralizzare alla meglio l'invasione del proprio spazio personale, le strategie impiegate possono essere diverse. La prima consiste nell'evitare di assumere una posizione frontale rispetto alle altre persone, e nel volgere lo sguardo altrove, ad esempio mostrando interesse per un dettaglio delle pareti, del soffitto, o del pavimento. In questo modo, l'intimità creata artificialmente dalla ristrettezza degli spazi viene compensata dall'assenza di contatti visivi. Un'altra strategia di difesa piuttosto comune consiste mantenere uno sguardo debitamente vacuo, come se si fosse profondamente assorti nei propri pensieri: in questo caso, la presenza degli altri viene semplicemente negata, come se essi fossero invisibili o trasparenti. Si può anche impiegare una terza strategia, considerata più educata: visto che gli altri ci sono, e non si può fare a meno di sottrarsi alla loro presenza, ci si fa forza e si affronta una conversazione. Ma, anche in questo caso, si bada bene di mantenere le distanze almeno per quanto riguarda i contenuti della conversazione che solitamente riguardano il tempo o altri argomenti poco compromettenti.

Gli sguardi Due passanti che si incontrano per strada possono scambiarsi uno sguardo, che è una prima forma di contatto perché in un certo senso "buca" le rispettive sfere personali, creando un canale di comunicazione tra esse. Attraverso lo scambio di sguardi è come se ciascuno dei due dicesse all'altro "ti vedo (e so che tu vedi me)" e, dunque, "riconosco che esisti (e so che tu riconosci che io esisto)". Nessuno può fare a meno di un simile riconoscimento: specchiandosi nello sguardo dell'altro, ciascuno si costruisce la propria identità personale.

Rifiutarsi sistematicamente di guardare qualcuno può essere interpretato come un segno di ostilità, o comunque di indifferenza nei suoi confronti. Istintivamente, saremmo portati a posare lo sguardo su

tutto ciò che ci incuriosisce, ed è solo la cultura, con le sue regole convenzionali, che ci impone di non guardare certe categorie di persone, trattandole come se fossero invisibili.

È ancora la cultura che prescrive i tipi di sguardo che sono considerati accettabili in determinate situazioni. In alcune culture, ad esempio, fissare insistentemente un estraneo può essere interpretato come un segno di aggressività, di sfida o di impertinenza, mentre per altre culture lo stesso sguardo può essere inteso come un segno di simpatia o di benevolenza. D'altra parte, l'intensità, la durata e la direzione dello sguardo sono soggetti a precise regole di comportamento a seconda delle situazioni: si può fissare un attore sul palcoscenico per tutta la durata dello spettacolo, si possono scambiare lunghe occhiate di intesa con la persona amata, ma con uno sconosciuto in treno ci si deve limitare a poche rapide sbirciate, a meno di non volere trasgredire le regole socialmente accettate le quali impongono di rispettare la sfera personale degli altri (con gli effetti imprevedibili che tale trasgressione comporta).

Ad ogni modo, all'interno di ogni cultura lo scambio più o meno prolungato di sguardi è un modo per comunicare all'altro la nostra disponibilità ad avviare un'interazione più approfondita, oppure a rafforzare un'interazione in corso. Durante una conversazione, ad esempio, ricerchiamo costantemente lo sguardo del nostro interlocutore per capire che effetto hanno su di lui o su di lei le nostre parole (è molto difficile dissimulare lo sguardo), quale atteggiamento ha nei nostri confronti, se è sincero oppure evasivo, e così via. E lo stesso fa l'interlocutore nei nostri confronti. Senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, raccogliamo indizi sul carattere e sulle disposizioni d'animo della persona che abbiamo di fronte, e d'altra parte ci esponiamo al suo giudizio su di noi. Così facendo, ammettiamo l'altro nella nostra sfera personale e ci impegniamo nella creazione di uno spazio sociale.

Il saluto

Tutte le culture hanno elaborato degli specifici rituali che accompagnano le fasi di esordio e di commiato di una relazione sociale. I saluti assumono forme diverse di cultura in cultura, dal cenno di capo allo strofinamento dei nasi, dalla mano aperta ai vari tipi di bacio e di abbraccio, anche a seconda del tipo di rapporto che vige tra le persone coinvolte nell’interazione.

In Occidente, la stretta di mano è una delle forme più comuni di saluto, almeno tra persone adulte. Quando facciamo la conoscenza di qualcuno, e gli stringiamo la mano, comunichiamo all’altro la nostra disponibilità a entrare in contatto con lui o con lei e ad avviare un’interazione fondata su basi amichevoli. Nei tempi antichi si tendeva la mano aperta per mostrare che non si aveva un’arma e che quindi non si voleva aggredire la persona a cui si tendeva la mano. Anche gli animali conoscono dei segni di amichevolezza: per esempio il cane si rivolta a pancia all’aria per attendere una carezza e nello stesso tempo comunica che non sta in posizione di diffidenza verso di noi perché ci offre la parte più vulnerabile del suo corpo.

Soffermiamoci sul significato sociale della stretta di mano. La distanza che ci separa dall’altra persona è abbastanza breve da permetterci di osservarne il volto da vicino, di sentirne il respiro e perfino l’odore. Attraverso il contatto delle mani la ammettiamo nel nostro spazio personale – e, naturalmente, l’altra persona fa lo stesso con noi. Il contatto delle pelli comporta uno scambio di umori corporei, sotto forma di sudore (ci sono culture in cui questo scambio di umori è rafforzato dal gesto di sputare sulla mano prima di tenderla). La stretta, più o meno vigorosa, trasmette all’altro un’indicazione della propria energia fisica (e ci sono regole culturali che associano diverse sfumature di significato ai vari tipi di stretta). Il palmo aperto della mano, una zona morbida e

privata del corpo che normalmente teniamo rivolta verso di noi, viene offerto all’altro quasi in segno di arrendevolezza. In questo modo, esprimiamo la vicendevole fiducia nelle buone intenzioni che nutriamo nei confronti dell’altro, e non è un caso che la stretta di mano sia anche il modo generalmente adottato per suggellare una promessa.

La casa Ci sono tanti tipi diversi di casa. In alcune parti del mondo, come in certe regioni alte delle Ande, le capanne sono scavate per metà o due terzi dentro la terra e hanno un tetto di paglia. Ci sono, ad esempio in climi tropicali (come nell'Amazzonia), delle case-tettoia, oppure tetti sostenuti da pali. Sono case "senza pareti" che producono al loro interno mirabili effetti di riduzione della temperatura esterna. Alcuni architetti hanno studiato l'effetto di circolazione dell'aria all'interno del tetto, provocata di solito da tetti di foglie di palma, dal culmine molto alto.

In altri casi, sempre in America meridionale, quando gli spagnoli giunsero nelle aree vicino all'attuale Mato Grosso si trovarono davanti a villaggi costituiti da enormi semisfere di paglia nelle quali solo a stento si trovava un pertugio per entrarvi. Chiamarono gli abitanti di quei villaggi, ancora prima di vederli, "Chiquitos" cioè "piccoli", assumendo che erano persone minuscole visto che si accontentavano di "porte" così piccole. Scoprirono presto che erano esseri umani come noi, ma che entravano e uscivano dalle loro case a carponi, per mantenere il clima più fresco costituito all'interno delle enormi semisfere di paglia.

I Dorze dell'Etiopia costruiscono case a forma di tronco di cono, al cui interno si muovono con un sistema di scale. Sono esempi di case-magazzino, in cui vengono anche conservate le derrate di cereali, necessarie alla sopravvivenza durante mesi e mesi.L'antico popolo conosciuto con il nome di "Anasazi", parola Navajo che vuole dire "gli antichi, gli antenati" vivevano (fino verso il 1200) su precipizi nelle rocce verticali che si trovano fra l'Arizona, il Colorano, lo Utah ed il Nuovo Messico. Si muovevano su e giù per le pareti con un sistema di scale. Le grandi capanne degli Jivaros dell'Amazzonia (un tempo famosi come "cacciatori di teste") erano, e spesso ancora sono, divise in due parti: quella riservata agli uomini ed ai visitatori, chiamata tankamash, e quella riservata alle donne della casa (un uomo può avere più mogli e a volte due o più nuclei famigliari vivono sotto uno stesso tetto), alle donne che accompagnano gli uomini in visita ed anche, specie durante la notte, agli uomini della casa. Questa parte è chiamata ekent che vuole dire "residenza".

Un'altra differenza fondamentale è quella della densità delle case. Ogni cultura ha regole diverse, solo in parte dettate dalle condizioni ambientali, dalle condizioni di sussistenza e dalla densità demografica, relative alla distanza reciproca fra le case. In molte culture non esistono "villaggi" ma solo case isolate. Ad esempio, gli Huave del Messico meridionale, che vivono fra le dune costiere (fra l'Oceano Pacifico e le Lagune) per lungo tempo hanno vissuto in capanne di foglie di palma sparse fra le dune a volte assai distanti le un e dalle altre. Dopo l'arrivo dei missionari, una parte degli Huave è stata convinta ad andare a formare dei villaggi. Alcuni dei loro villaggi si presentano come un agglomerato di capanne orientate ciascuna a modo suo (ma secondo una logica, in realtà abbastanza precisa) e non con strade più o meno dritte o con case allineate. Gli altri huave continuano a vivere in capanne disperse.

I viaggiatori

• Marco Polo Grande viaggiatore italiano, nato a Venezia o a Curzola nel 1254, Marco Polo aveva quindici anni quando intraprese con il padre Nicolò e lo zio Matteo un lungo viaggio nelle regioni asiatiche. Nel 1271 partirono da Venezia diretti alla corte del Gran Khan. Passarono attraverso l'Anatolia e il Caucaso, il regno di Mosul e di Baghdad, quello di Tauris, la Persia, il Pamir, Kashagor, Kotar, Cherchen, Lop e il grande deserto mongolico. Arrivati, dopo un viaggio di tre anni e mezzo, alla corte del Gran Khan, vi vennero accolti con grandissimi onori.

Il giovane Marco, apprese le principali lingue del vasto regno, ebbe dal sovrano numerosi incarichi che gli diedero modo di visitare regioni completamente sconosciute e di spingersi anche nella provincia del Tibet, dove si dedicò all'esplorazione vera e propria.

I Polo ripartirono dalla Cina nel 1292 con quattordici navi e seicento uomini, costeggiarono la Cina, l’Indocina, la Malesia, Sumatra, l’India meridionale, le coste persiane e giunsero a Hormuz. Dopo un viaggio di quasi tre anni, Marco Polo fece ritorno a Venezia. Nel 1298, mentre era imbarcato su una galera veneziana alla battaglia di Curzola, venne fatto prigioniero e fu portato a Genova. In carcere dettò i ricordi del suo viaggio al compagno di cella, Rusticiano de’ Balsani da Pisa, che li scrisse con il titolo di Livres des Merveilles du Monde. Tale opera, conosciuta poi come Il Milione, ebbe grande successo in tutta Europa e fu per lungo tempo la più importante fonte di notizie sull'Asia Orientale. Tornato a casa, morì a Venezia l’8 gennaio 1324. Per approfondire l’argomento, potete consultare le letture.

• Cristoforo Colombo Navigatore ed esploratore, probabilmente nato a Genova (ma molti paesi se ne attribuiscono la cittadinanza), nel 1470 Cristoforo Colombo cominciò a navigare per commerci e, nel 1486, si stabilì in Portogallo. Qui iniziò a coltivare il progetto di trovare la famosa via marittima più breve per raggiungere le Indie.

Nel 1492, dopo due tentativi falliti, i reali di Spagna approvarono il suo progetto, nominandolo ammiraglio delle tre caravelle allestite per lui: Pinta, Niña, S. Maria. Il 3 agosto partirono da Palo e l’11 Ottobre 1492 sbarcano sull’isola di Guanahani (nell’arcipelago delle Bahamas), battezzata da Cristoforo Colombo San Salvador. Giunse in seguito a Cuba, che credette essere la Cina; poi a Haiti, dove si stabilì formando una piccola colonia. Tornato in Spagna, organizzò un’altra spedizione con 17 navi, durante la quale raggiunse le Antille e la Giamaica, senza però trovare le ricchezze che sognava. Nel suo quarto viaggio costeggiò l’America Centrale dall’Honduras alla Colombia, pur convinto di trovarsi in Asia. Ormai stanco, tornò in Giamaica, dove rimase per 10 mesi, per poi tornare in Spagna nel 1504. Nel 1506 si spense nell’indifferenza generale. Per approfondire l’argomento, potete consultare le letture

• I viaggiatori non europei È molto diffusa in Occidente l’idea che siano stati gli europei a ‘scoprire’ il mondo e che i grandi viaggiatori siano tutti europei. In realtà, le cose stanno diversamente. Tutti i popoli hanno avuto dei viaggiatori: viaggiatori per necessità, per commercio, e anche per sete di conquista. Prima dell’era moderna e delle grandi conquiste in America, la pratica del viaggio era in effetti molto più diffusa in Oriente o in Africa che in Europa. Nuovi studi e nuove ricerche ci dicono che le terre che crediamo scoperte dagli europei erano in realtà già conosciute e frequentate da molti altri viaggiatori non europei. Prima di Colombo, ma anche prima dei vichinghi, navigatori e pescatori giapponesi si erano avventurati fino alle coste nordamericane del pacifico. L’Australia e la Nuova Zelanda erano ben conosciute alle navi indiane e giapponesi che avevano frequenti scambi con gli

aborigeni. Secoli prima che gli europei la esplorassero, l’Africa era stata attraversata in lungo e in largo dai carovanieri arabi. La civiltà islamica e quelle indiana e cinese avevano stabilito fiorenti traffici fra di loro, traffici che permisero anche all’Europa di conoscere nuove merci e nuove tecniche di navigazione.

Purtroppo sappiamo poco di questi viaggiatori. Da quel poco che sappiamo, però, emergono delle figure affascinanti di avventurieri e di studiosi. Fra questi, ricordiamo il marocchino Idris che, nel XII sec., compilò il Libro di Ruggero, una vera e propria guida per il mondo islamico dell’Italia e delle isole del Mediterraneo. Un’altra figura straordinaria è quella di Ibn Battutah. Era giovane quando iniziò i suoi viaggi con una carovana. Come Marco Polo, fu il desiderio di scoprire che lo spinse da una città all’altra. Per trent’anni, tra il 1324 e il 1354, Ibn visitò tutte le terre islamiche, spingendosi fino alla Persia e all’Oriente e arrivando a Sud fino alle coste Africane dell’Atlantico. Il suo racconto di viaggio è un incredibile resoconto non solo dei luoghi visitati, ma anche delle emozioni, personalissime, che Ibn provò nel visitarli.Spingendosi più a Oriente si trovano grandi figure di viaggiatori, come ad esempio il giovane coreano Ch’oe Pu che visse nel Cinquecento. Funzionario del regno, Ch’oe Pu intraprese una serie di ambasciate via terra e via mare che lo portarono a visitare le coste cinesi. Sopravvissuto a un naufragio, si incamminò verso Pechino e ci lasciò delle bellissime descrizioni della Cina del suo tempo.

Completamente diversi erano i motivi che spinsero all’erranza il più grande dei viaggiatori cinesi: Hsuan-tsang. Religioso buddhista, Hsuan-tsang era convinto che i libri sacri arrivati in Cina non contenessero il vero messaggio di Buddha Così, Hsuan-tsang si recò in Tibet e in India alla ricerca dei libri originali del maestro. Egli visitò tutti i luoghi sacri buddhisti da Vaisali a Sravasti Il viaggio di Hsuan-tsang fu una straordinaria avventura mistica, ma anche un viaggio di apprendimento e di formazione. Dopo aver visto l’albero della Bodhi, dove il Buddha Gotama aveva ricevuto l’illuminazione, decise di restare fra i Veda per apprendere il loro sapere. Ritornato in Cina, accolse nella sua casa decine di giovani a cui rivela il suo sapere. Era il 637 E. C.

Migrazioni

La storia dell’umanità comincia con un grande spostamento: l’Homo sapiens, partendo dall'Africa, circa 100.000 anni fa inizia il lungo percorso di ominazione.

Le migrazioni sono eventi complessi e difficili da descrivere in tutti loro aspetti. Però è bene ricordare che lo spostamento di grandi masse di popolazioni, se da una parte ha provocato conflitti inevitabili e crisi sociali, dall’altro ha contribuito in maniera determinante alla rinascita e al risorgere di culture e paesi.

Per esempio, noi siamo abituati a pensare al celebre crollo dell’Impero Romano d’Oriente nel V sec. E. C. come a un avvenimento secco e traumatico. In parte è vero, ci furono scontri e saccheggi, e anche Roma fu quasi distrutta dalle invasioni barbariche. Ma è anche vero che prima che l’Impero crollasse, da più di due secoli le popolazioni delle periferie delle immense province romane avevano iniziato un processo di assimilazione lenta ma inesorabile. Più il centro, Roma, anno dopo anno, decadeva, più le periferie acquistavano forza, e quelli che erano ‘barbari’ o stranieri dell’Impero divenivano cittadini romani e permettevano l’ingresso a nuovi popoli. Gli imperatori

più lungimiranti (come Costantino) permettevano ai barbari di entrare e di coltivare pacificamente pezzi dell’Impero. Al contrario, la nobiltà premeva per non concedere niente a coloro che premevano ai confini. Fu proprio perché l’Impero non seppe aprirsi abbastanza che venne distrutto. Inevitabilmente, ciò che era periferia era diventato centro e ciò che era centro era diventato periferia. Ma i nuovi arrivati non distrussero tutto, come spesso si crede. Al contrario, spesso conservarono e subirono l’influenza e la cultura romana.

Questo è un processo che si ripete spesso nella Storia. Basti pensare alla situazione della Cina subito dopo l’anno Mille, mentre le vecchie gerarchie del centro dell’Impero Cinese si stavano sgretolando, le periferie, i margini del territorio si andavano rafforzando anche grazie all’unione con le popolazioni migranti (i Mongoli). Il crollo e l’invasione mongolica erano alle porte. Ma questo non ha significato la fine della Cina. Al contrario, il paese è stato rafforzato da questi spostamenti.

I confini

A volte le linee tracciate sulle carte non si interessano di chi realmente vive nei territori. Così spesso succede che popolazioni, o gruppi di persone divengano sudditi o cittadini di altre nazioni senza volerlo, o senza nemmeno saperlo. All’inizio del ‘500, per esempio, i portoghesi e gli spagnoli che avevano ‘scoperto’ per primi l’America (ma noi sappiamo che queste terre erano già state abitate da millenni dagli indigeni) decisero di dividersi tutte le nuove terre. Quindi tracciarono una linea sulle loro mappe: da qui è terra nostra, da qui è vostra. Ma nessuno si preoccupò dei milioni di persone indigene che vivevano nelle Americhe. Così questi indigeni furono trasformati in sudditi (spesso in schiavi) senza saperlo.

A volte i confini politici servono invece a risolvere delle situazioni complicate che potrebbero trasformarsi in guerra. Se guardate la cartina dell’Europa potete vedere che la Russia (il più grande paese del mondo) non è una massa compatta, ma ha una piccolissima regione che è russa ma non è ‘attaccata’ al resto della nazione. È la regione di Kaliningrad sul mar Baltico. Questa piccola regione è staccata e lontana dal resto della Russia ma è rimasta russa perché le persone che vi abitano parlano russo e si sentono russe. Se fosse diventata polacca o lituana (i due paesi che confinano con questo territorio), la gente di questa regione si sarebbe sentita vittima di un’ingiustizia.

Proiezioni Geografiche DIDASCALIA:Mappamondo di Al-Idrisi (orientato con il sud in alto), XII secolo.

È sempre bene ricordare che le immagini che vediamo nelle carte geografiche appese nelle scuole o rilegate dentro i nostri atlanti non dicono tutto del paese rappresentato. Queste carte ci dicono solo come i cartografi rappresentano un determinato paese o un determinato territorio. Il territorio è sempre molto più complesso e non si riduce a questa immagine. Esistono altri tipi di carte che non rendono conto delle dimensioni geografiche di un paese, ma di altri suoi aspetti.

Per esempio, ci sono delle carte in cui un paese è grande secondo del numero di persone che vi abitano. Così paesi che di solito sembrano grandissimi (per esempio l’Australia o il Canada),

diventano piccoli piccoli poiché sono abitati da pochissime persone. Altre mappe ricostruiscono i vari paesi in base all’economia di quel paese. In queste carte, i paesi più ricchi (come quelli del Nord America o dell’Europa Occidentale) sono grandissimi anche se territorialmente sono piccoli: ad esempio l’Olanda e il Belgio sono grandi quanto il Congo.

Per approfondire l’argomento, potete consultare gli esercizi

Esercizi

Nota: se vi vengono in mente altri esercizi, o se volete mandarci un resoconto delle vostre esperienze in classe, scrivete alla redazione.

• L’uomo invisibile Provate a fare il gioco dell’“uomo invisibile”: durante le normali attività ricreative (ad esempio, nel corso di una partita di pallone o di un gioco), i ragazzi faranno a turno l’esperienza di essere trattati come se non esistessero dai propri compagni e dall’educatore.Alla fine, discutete insieme di come ci si sente a essere invisibili.

• La casa Tracciate una mappa della vostra casa: come sono suddivisi gli spazi? Cosa si fa in ciascuno spazio? Ci sono dei posti in cui non vi è permesso entrare? Ci sono posti dove preferite rimanere soli? Come “marcate” il vostro territorio? Come vi comportate quando in casa arriva un ospite? Come si deve comportare una persona che viene da fuori?Raccontate di casi in cui, ricevendo in casa un ospite, avete imparato cose nuove e curiose.

Il viaggio • Ricordi di viaggio Avete mai fatto un viaggio, o una gita fuori città? Raccontate ciò che avete visto e che cosa vi ha colpito di più. Se avete delle foto, provate a riguardarle senza curarvi del soggetto principale in primo piano. Controllate se ai bordi o sullo sfondo della foto si intravede qualche elemento caratteristico della città o del luogo visitato (qualche personaggio curioso, qualche particolare architettonico o naturale, qualche caratteristica locale).

Dite cosa non riuscivate a capire: cibo, abitudini, ecc.; ora provate a immaginare se i bambini di quel luogo venissero da voi: che cosa pensate che troverebbero difficile da capire? • Le immagini etnocentriche Queste immagini rappresentano momenti e modi di vita africani e sono state disegnate da artisti europei del XVI e del XIII secolo che non erano mai stai in Africa e che si basavano su ciò che era stato raccontato loro dai viaggiatori dell’epoca. Era difficile per questi artisti di rappresentare un mondo diverso dal proprio che non avevano mai visto con i loro occhi. È per questo che nelle illustrazioni ci sono molti errori e distorsioni. Le informazioni tratte dai resoconti dei viaggiatori si combinavano con falsi stereotipi, con rielaborazioni tratte dall’immaginazione degli artisti, e con

elementi tipici della cultura europea. Questo esercizio è frutto di un lavoro svolto dalla classe IIIC dell’ITSOS Albe Steiner di Milano. Multisud: una classe all’opera tra nuove tecnologie e nuove educazioni (a cura di Nicola Scognamiglio), Bologna: EMI, 1999.

• Le bandiere Conoscete le bandiere dei vari paesi? Disegnatene qualcuna e appendetele una accanto all’altra. Provate a scoprire che cosa simboleggiano i colori e le forme all’interno di ciascuna bandiera. Che effetto vi fa vedere la bandiera del vostro paese? Ritenete che tutti provino analoghi sentimenti per la propria bandiera? Guarda questo sito • I dialetti Se nel vostro territorio si parlano dialetti locali, fate una raccolta di espressioni tipiche, con la loro traduzione in lingua. Ci sono delle cose che si possono dire meglio in dialetto che nella lingua ufficiale? • Le storie Cercate di ricordare le storie e le leggende su cui si basa l’identità collettiva della vostra comunità. Se in classe ci sono ragazzi provenienti da paesi diversi, fatevi raccontare le loro storie. • La discussione È normale essere orgogliosi della propria identità collettiva. Ma conoscete dei casi in cui i sentimenti nazionalistici hanno portato alla distruzione di altri gruppi etnici? L’educatore può suggerire esempi storici che riguardano la propria area geografica e la storia locale. Trovate anche storie di massacri e di genocidi per cancellare la patria altrui. Quand’è che il sentimento nazionalistico diventa cattivo?

• Migrazioni

Studiate nel vostro paese i flussi migratori del passato. Possibilmente seguite su una cartina questi spostamenti di popoli. Provate a scoprire quanti popoli, quante culture hanno attraversato, occupato, invaso la vostra nazione o la vostra regione. Fate un elenco e indagate chi erano, da dove venivano e cosa hanno lasciato nel bene e nel male. Siete ancora capaci di riconoscere i discendenti dei migranti da quelli degli autoctoni, e cioè quelli che abitavano il paese prima della migrazione?

• Immigrazioni

1. Individuate i gruppi di immigranti che vivono nel vostro territorio e dite che lavori fanno. Cercate di scoprire da dove vengono, che lingua parlano, che religioni osservano, che usanze hanno, e così via. Se in classe c’è qualcuno che appartiene a uno di questi gruppi, fatevi raccontare la storia di come la sua famiglia è arrivata nel vostro paese.

2. Cosa si dice da voi degli immigranti? Avete mai sentito qualcuno dire che sono tutti criminali? Provate ad aprire il giornale e fate il conto dei delitti che vi vengono raccontati.

Sono tutti commessi da immigranti? Ci sono dei delitti commessi anche dai vostri concittadini? È giusto dire che tutti gli immigranti sono criminali?

3. Vedete se abitanti del vostro paese in passato hanno dovuto immigrare in paesi stranieri. Ne conoscete? Se potete, andate a trovarli e chiedete loro se sono stati trattati bene, se hanno sofferto, e se hanno poi migliorato la loro condizione. Cosa fareste voi se moriste di fame e se doveste immigrare? Cosa desiderereste trovare nel paese in cui andate?

4. Guardate a casa vostra la televisione, specialmente nei programmi di varietà e di pubblicità, e dite se in questo modo non si presenta a tutti il vostro paese come un paese di Cuccagna, dove tutti possono avere cose bellissime. Provate a immaginare che effetto fanno queste trasmissioni su popolazioni poverissime dove i bambini muoiono di fame.

5. L’educatore inviti i ragazzi a individuare situazioni in cui la presenza di immigrati suscita tensioni o disaccordi all’interno del territorio, non per via dei comportamenti di singoli individui, ma per le usanze che gli immigrati chiedono di poter osservare (si può partire da un articolo di giornale, ad esempio sulla questione del velo islamico o dell’osservanza delle festività religiose). I ragazzi cerchino di suggerire soluzioni ragionevoli per ridurre le occasioni di conflitto.

6. Insegnate il vostro dialetto e la vostra lingua ai ragazzi immigrati e fatevi insegnare il loro. Scrivete parole o frasi della lingua degli immigrati a casa vostra: come dicono “buongiorno”, “come stai?”, ecc.? E’ sempre utile imparare qualche parola straniera e potete farlo come se fosse un gioco.

7. Contemporaneamente, i ragazzi immigrati impareranno meglio la vostra lingua.

• Questo posto è mio L’educatore provi a organizzare un gioco di ruolo che coinvolga l’intera classe. In questo gioco, si simuli un conflitto territoriale, con due squadre di bambini (ciascuna delle quali si sceglie un nome, un simbolo, ecc.), di cui una fa la parte della comunità stanziale, e l’altra quella della comunità migrante. Una possibile situazione potrebbe essere quella di due gruppi di bambini che vogliono fare l’uno una partita di pallone e l’altro un gioco nella stessa strada o piazzetta. O, con i ragazzi più grandi, si può scegliere un tema tratto dalla realtà locale. Ognuna delle due squadre argomenti le proprie ragioni di fronte a una giuria. Poi, dopo avere dimostrato che un qualche negoziato conviene a entrambe le parti, si cerchi di indurre i due gruppi a negoziare le condizioni della convivenza. Non si suggeriscono qui le soluzioni possibili (fare tutti lo stesso gioco, dividere il tempo di gioco, decidere che mentre un gruppo gioca l’altro fa da spettatore-giuria, ecc.). Devono essere i ragazzi a trovare la soluzione più accettabile per tutti.

Un’altra modalità di dibattito, che può funzionare con i ragazzi più grandi, è quella suggerita dalla scuola indipendente di Novy Sacz (Polonia): anziché discutere a voce le ragioni pro e contro una certa posizione, lo si fa per iscritto. La classe viene divisa in due e ciascun membro di ciascuna squadra siede a un tavolo/scrivania di fronte a un membro della squadra opposta, senza la possibilità di parlare. A ogni coppia viene consegnato un foglio e uno dei due scrive un paragrafo in cui

sostiene le ragioni della propria posizione; poi passa il foglio all’altro, che lo legge e scrive la sua replica. Si procede così attraverso una serie di turni di discussione, fino all’esaurimento del tema. In questo modo, si impara ad argomentare in modo convincente e ragionato, ma rispettoso delle ragioni dell’altro. (Naturalmente può capitare che la discussione degeneri nell’invettiva: ma i ragazzi capiranno presto che con un simile approccio non si ottiene molto).

• Confini

1. Individuare i confini politici del proprio paese: in che misura coincidono con le barriere naturali? Chi e quando ha stabilito questi confini? Sono sempre stati lì oppure si sono spostati nel tempo? Che cosa li ha fatti spostare? Adattate l’esercizio alla vostra situazione particolare. Per i bambini africani sarà utile ricostruire i vari conflitti entro i confini di una stessa nazione. Lo stesso per i ragazzi che vivono in area balcanica. I ragazzi dell’antica Cecoslovacchia possono discutere le ragioni che hanno portato alla separazione tra repubblica ceca e repubblica slovacca. I ragazzi delle repubbliche baltiche possono studiare sulla carta come esse erano prima dell’annessione all’Unione Sovietica e come sono ora. Esempi analoghi possono essere fatti da ragazzi asiatici, e così via.

2. Discutete se nel vostro paese ci sono casi in cui il desiderio di indipendenza regionale ha portato a conflitti sanguinosi, come ad esempio è accaduto per gli autonomisti baschi in Spagna. Come potrebbero essere superati questi conflitti? Ci sono casi in cui ritenete che la regione che protesta debba davvero ottenere l’indipendenza?

3. Se siete cittadini dell’Unione Europea, provate a dire quali sono i paesi che la compongono. Individuatene le bandiere e provate a ricordare quali monete circolavano prima dell’Euro.

• Carte e stereotipi Le carte geografiche possono ingenerare stereotipi. Alcune proiezioni infatti restituiscono fedelmente le forme dei continenti, mentre distorcono in modo evidente le superfici. Altre rendono fedelmente le dimensioni, ma distorcono le forme. In effetti, nessuna mappa potrà mai essere perfettamente accurata, perché il modo in cui rappresenta il mondo dipende dai criteri adottati nella proiezione, e perciò dallo scopo che il cartografo si prefigge.

Questo esercizio, che mette a confronto la proiezione cartografica di Mercatore (XVI secolo) con quella di Peters (1974), è frutto del lavoro della classe IIIC dell’ITSOS Albe Steiner di Milano. Multisud: una classe all’opera tra nuove tecnologie e nuove educazioni (a cura di Nicola Scognamiglio), Bologna: EMI, 1999. Letture

Territorialità • Edward T. Hall, La dimensione nascosta La territorialità offre protezione dai predatori, esponendo invece ai pericoli dei rapaci gli inadatti, che sono troppo deboli per stabilire e difendere un territorio. Così, nel corso del processo selettivo,

essa rafforza le situazioni di predominio, giacché gli animali più deboli sono meno capaci di stabilire un proprio territorio. D’altro canto, la territorialità facilita la generazione e l’allevamento dei figli, fornendo una sfera di sicurezza ‘domestica’: aiutando a proteggere i nidi e i piccoli. In alcune specie, individua vaste disposizioni ambientali e inibisce o previene i parassiti. Ancora, una delle funzioni più importanti della territorialità è la costituzione di uno spazio proprio ad ogni individuo, che preserva dal supersfruttamento quella parte dell’habitat da cui una specie dipende per sopravvivere.

Oltre alla difesa della specie e dell’ambiente, sono associate alla territorialità anche funzioni personali e sociali. C. R. Carpenter ha provato che il vigore e la superiorità sessuali giocano uno scarso ruolo in un contesto territoriale, e ha scoperto che persino un piccione desessuato nel suo proprio territorio vincerà regolarmente, se impegnato in una lotta con un maschio normale, anche se la mancanza di sessualità comporta generalmente una perdita di posizioni nella gerarchia sociale. Così, mentre sono gli animali più forti a determinare la direzione generale in cui si evolve la specie, il fatto che i più deboli possano vincere (e dunque generare) a casa propria aiuta a conservare la plasticità della specie, incrementando la varietà e impedendo che gli individui più forti monopolizzino la linea dell’evoluzione, irrigidendone i caratteri.

La territorialità è anche associata alla posizione. Una serie di esperimenti condotti dall’ornitologo britannico A.D. Bain sulla cinciallegra ha mostrato come si modifichino, e addirittura si rovescino, le relazioni di dominio, al mutare della posizione delle ‘stazioni di nutrimento’, in rapporto con gli uccelli viventi in aree adiacenti: man mano che la ‘stazione di nutrimento’ si avvicinava al territorio proprio, ‘di casa’, dell’uccello, esso guadagnava vantaggi, che invece andava perdendo mano a mano che se ne allontanava.

Anche l’uomo ha la sua propria territorialità, e ha inventato molti modi per difendere quel che considera la sua terra, il suo campo o lo spazio di sua pertinenza. La rimozione dei segnali dei confini di proprietà e la violazione del terreno altrui sono reati nella maggior parte dei paesi occidentali. Da secoli, nel diritto consuetudinario inglese, la casa di un uomo è stata considerata inviolabile come un castello, e protetta con la proibizione di illegittimi sequestri e perquisizioni, anche da parte di pubblici ufficiali. Precisa è la distinzione fatta tra la proprietà privata, che è il territorio di un individuo, e la proprietà pubblica, che è il territorio del gruppo sociale.Questa rapida rassegna delle funzioni della territorialità dovrebbe essere sufficiente a stabilire che essa è un sistema base del comportamento, che domina tutti gli esseri viventi compreso l’uomo. Edward T. Hall, La dimensione nascosta, 1966, tr. it. Milano: Bompiani, pp. 17-18 • Edward T. Hall, La dimensione nascosta Gli animali che vivono in gruppo hanno bisogno di rimanere in reciproco contatto: la perdita di contatto col gruppo può riuscire fatale per una quantità di ragioni, fra cui il pericolo di esporsi agli animali da preda. La distanza sociale non è semplicemente la distanza oltre la quale l’individuo perderà i contatti col suo branco: cioè non potrà più vedere, udire o fiutare i suoi compagni; è piuttosto un limite psicologico, passato il quale l’animale comincia manifestamente a sentirsi ansioso. Possiamo pensarla come una fascia nascosta che tiene insieme il gruppo. La distanza sociale varia da specie a specie: è assai breve – di pochi metri soltanto, a quanto pare – tra i fenicotteri, e molto lunga per altre specie di uccelli. […]

La distanza sociale non è sempre rigidamente fissa, ma è parzialmente determinata dalla situazione. Quando i piccoli delle scimmie o degli uomini sanno muoversi da soli, ma non capiscono ancora la voce della madre, la distanza sociale è quell’intervallo a cui il piccolo rimane a portata di mano. Lo

si può vedere facilmente fra i babbuini in uno zoo: quando il piccolo raggiunge una certa distanza, la madre allunga una mano, lo prende per la coda e lo tira presso di sé. La distanza sociale diminuisce, inoltre, quando qualche pericolo richiede un più stretto controllo. A comprovarlo per quanto riguarda l’uomo, c’è solo da guardare come si comporta una famiglia con una nidiata di bambinetti per mano, quando attraversano una strada con molto traffico. Edward T. Hall, La dimensione nascosta, 1966, tr. it. Milano: Bompiani, pp. 23-24

Erranza • Elie Wiesel, “Prefazione”, Migrations et errances Per sua natura l’uomo si muove nello spazio oltre che nel tempo. Vivere è lasciare un luogo per un altro, un istante per il successivo, staccarsi da un’idea o da un’immagine per sostituirla con un’altra che lo porti più lontano, sempre più lontano, verso un altrove peraltro indefinito. L’immobilità, che non è la stessa cosa del riposo in senso mistico, non si concilia con la vita.Vivere è guardare, è proiettarsi verso le vette e talvolta verso gli abissi, è infiltrarsi nei sogni altrui, è desiderare, è volere raggiungere i cieli facendo un passo avanti o indietro sulla terra. Erranza del corpo, dalla culla alla tomba; erranza dello spirito,assetato di eternità. Erranza individuale o collettiva. Erranza nella gioia, vacillante nell’estasi. Erranza nella disperazione, attaccata ad essa come a una presenza.Perché l’uomo si lancia nell’avventura che, inevitabilmente, lo strappa da coloro che lo circondano e lo conduce lontano verso l’ignoto?Adamo ed Eva diventano umani quando lasciano il paradiso. Ma il primo nomade è il loro figlio maggiore Caino. Il primo comandamento che Dio trasmette ad Abramo è “vai”.Quanto a Mosé, non è tanto celebre come liberatore del suo popolo quanto piuttosto come colui che lo condusse fuori dall’Egitto. Ulisse dedica la vita a cercare Itaca e Edipo a delineare la sua verità. Cosa sarebbero la letteratura mondiale, l’arte e il pensiero, senza i loro grandi esploratori, gli espatriati, gli esuli? L’esempio di Immanuel Kant, che non si è mai mosso da Koenisberg, è raro. Cosa sarebbero le religioni se i loro fondatori – i grandi spiriti di questo mondo – non avessero scelto di vivere nella solitudine del deserto? Parola di un grande maestro chassidico: il rapporto tra Dio e l’uomo è come quello di due sconosciuti che si incontrano in una città straniera. Ognuno è per l’altro il solo sostegno, l’unica speranza. La cosa migliore per entrambi è perciò di camminare insieme. Camminando, si scoprono mondi invisibili e al contempo si scopre se stessi, accumulando maschere e abitudini, volti e situazioni, leggi e divieti. Spaesati, ci si sente liberati e perfino liberi, nulla è più familiare, dunque tutto è attraente. Di fronte allo straniero, si diventa stranieri prima di ritrovarsi ancora più fedeli a se stessi. In un certo senso, siamo tutti erranti, alla ricerca di segni, di gesti, di riferimenti. Paris: Grasset & Fasquelle, 2000 • S. Zweig, Il Candeliere sepolto Forse il nostro destino è quello di essere eternamente in cammino, rimpiangendo senza fine e desiderando con nostalgia, sempre assetati di riposo e sempre erranti. Benedetto è infatti soltanto il cammino di cui non si conosce la meta e che nondimeno ci si ostina a seguire, tale la nostra marcia in questo momento attraverso l’oscurità e i pericoli senza sapere ciò che ci attende. • Ugo da San Vittore

L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero. Il Viaggio • Ruggero Ragonese, I viaggiatori In Occidente, si è abituati a conoscere solo le imprese dei grandi viaggiatori europei in Oriente (Marco Polo) o nelle Americhe (Colombo, Vespucci). Ma molte altre civiltà hanno avuto nei secoli grandi viaggiatori. I mercanti indiani e cinesi per secoli si sono spinti in terre sconosciute agli europei come il Giappone, l’Indocina e sono arrivati fino alle sponde del Mediterraneo. Moltissimi eruditi ebrei e arabi ci hanno lasciato splendidi itinerari di viaggi compiuti fra l’India e la Spagna, coprendo migliaia di chilometri. Nelle stesse americhe precolombiane ci sono giunte frammentarie notizie di grandi viaggiatori capaci di attraversare longitudinalmente tutto il continente.

Il viaggio nell’antichità era un evento riservato a pochi. È vero che in tutte le epoche vi sono stati grandi spostamenti di massa (nell’antica Grecia, intere comunità si spostavano per costruire le proprie colonie), ma quelli erano più fenomeni di migrazione che viaggi in senso proprio. Il viaggio era riservato all’eroe e non poteva che essere una esperienza individuale. Un uomo, l’eroe, partiva per intraprendere un viaggio lunghissimo, ma allo stesso tempo era cosciente di dovere fare ritorno alla madrepatria, carico di quel bagaglio di esperienze che avrebbe fatto di lui un uomo saggio e venerabile.

Questa idea di viaggio filosofico che rende saggio chi lo compie cambia quando il ruolo del viaggiatore viene assunto non più dagli eroi, ma dagli scienziati e dagli eruditi. Erodoto e Plinio sono due figure emblematiche in questo senso. I nuovi studiosi viaggiatori cercano di raccogliere conoscenze che possano aiutare a capire e comprendere l’altro sia esso umano, animale o vegetale. Quello che si deve fornire alla comunità sono gli strumenti per una migliore conoscenza del mondo circostante.

La relazione fra il viaggio e la comunità nel territorio si indebolisce nel medioevo dove altri elementi inducono al viaggio. Spesso si tratta di motivi di origine religiosa. L’individuo si sposta e viaggia non per raccogliere conoscenze o saggezza, ma per salvare la propria anima. Nascono i grandi pellegrinaggi religiosi a Roma, a Gerusalemme, alla Mecca descritti splendidamente nelle varie mirabilia urbis. Anche quando i motivi del viaggio non sono religiosi, bensì commerciali, essi si confondono con gli interessi personali del viaggiatore. Un esempio perfetto in questo senso è costituito dal grande viaggiatore veneziano Marco Polo che dalla sua città giunge fine al grande impero del Katai (l’odierna Cina). Marco Polo, che ci ha lasciato le memorie di questo viaggio nel Milione, è sempre in bilico fra la nostalgia della propria città, lo stupore di fronte ai nuovi mondi, i nuovi luoghi attraversati, la necessità, comunque forte, di redigere una nota scientifica di ciò che vede e l’interesse personale per la buona riuscita degli affari di famiglia. Il viaggio inizia a diversificarsi come esperienza ora scientifica, ora formativa ora economica. Questi tre modi di viaggiare che coesistevano dentro il giovane Marco Polo si svilupperanno nei secoli fino ai nostri giorni. Innanzitutto, c’è il viaggio scientifico che è il più diretto discendente delle pratiche dei grandi eruditi classici. È il viaggio dello studio e dell’analisi dei territori esplorati. Francis Bacon, un grande filosofo inglese del XVI secolo, ci ricorda come il vero viaggio sia quello che registra, analizza in modo scientifico quello che vede, tocca, raccoglie. Poi, c’è il viaggio formativo, dove il percorso attraverso luoghi, genti nuove e sconosciute aiuta l’individuo a ‘conoscere il mondo’ e a diventare un buon cittadino. Questo tipo di viaggio si

sviluppa nei ceti alto borghesi e aristocratici delle grandi nazioni europee a partire dal Seicento. Un altro grande filosofo, John Locke suggeriva, nei suoi Some Thoughts Concerning Education, che il viaggio fosse quasi reso obbligatorio per ogni giovane di buona famiglia. In effetti, i giovani benestanti francesi e inglesi trovavano nel viaggio, che aveva quasi sempre come meta l’Italia, la loro iniziazione (artistica, amorosa, sessuale, culturale). Era il Grand Tour così magistralmente descritto da Sterne nel suo Il viaggiatore sentimentale. Lo spirito formativo del Grand Tour si espande in tutta l’Europa, in America e anche in altri paesi non occidentali (come la Turchia e il Giappone) ed è tuttora ravvisabile, in modo un po’ sbiadito, in una parte di quel turismo di massa che affolla i centri artistici europei.

Il viaggio economico non abbisogna di particolari spiegazioni. Le vie del commercio, la necessità di trovare nuovi mercati hanno sempre spinto uomini d’affari e mercanti ad attraversare mari e territori per stringere nuovi contatti e relazioni. Ma c’è un altro tipo di viaggio che non possiamo tralasciare per la sua importanza. È il viaggio della scoperta o della conquista. È quel tipo di viaggio che si sviluppa nell’Europa del XV e del XVI e continua fino alla fine del XIX secolo, quando in pratica non resta più nulla da scoprire o da conquistare. Abbiamo voluto associare i due termini ‘conquista’ e ‘scoperta’ per cercare di dare conto delle luci e delle ombre che questo imponente fenomeno ha comportato.

Bisogna infatti sottolineare come le grandi scoperte geografiche sono state un grande motore di sviluppo e conoscenza. Un enorme territorio (le Americhe) è divenuto noto agli europei, altri si sono aperti ai traffici commerciali. Si è potuto tracciare una visione completa del globo terrestre, smentendo definitivamente le teorie basate sulle credenze religiose. Soprattutto per l’Europa, l’esperienza dei grandi viaggi produsse enormi benefici economici che furono tramutati anche in invenzioni e scoperte scientifiche di cui ancora oggi beneficiamo. Ma i grandi viaggi furono anche viaggi di conquista. La scoperta di nuove comunità e di nuove culture non si tramutò quasi mai in reale curiosità, mai in vero scambio. La relazione che si instaurò fra ‘scopritori’ e ‘scoperti’ fu quasi sempre basata sulla logica della subordinazione e dello sfruttamento. Se nelle Americhe, intere popolazioni furono distrutte, decimate, private della loro identità, altre, come quelle africane, furono barbaramente deportate e ridotte in schiavitù.

Certo, le tragiche esperienze della ‘Conquista’ spagnola e dello schiavismo non sono imputabili ai grandi viaggiatori come Colombo, Vasco de Gama, Vespucci (anche se vale la pena ricordare che le varie spedizioni erano sempre finanziate e supportate da qualche potenza nazionale europea). È vero però che leggendo i diari di bordo di Cristoforo Colombo non si può non rilevare la differenza con Marco Polo. Colombo non crede che il viaggio possa cambiarlo interiormente, ma pensa che la scoperta possa dargli gloria. Ecco perché descrive minuziosamente le ricchezze del territorio scoperto ascrivendole già come proprietà dei re cattolicissimi di Spagna. Colombo ha bisogno di convincere che quella che lui ha fatto è una buona ‘scoperta’ perché nei nuovi territori c’è molto da prendere e da sfruttare.Non è un caso che proprio in quegli anni, grazie ai grandi viaggi, nasce in Europa la cartografia moderna. Le nuove carte descrivono il globo terrestre in modo geometrico e preciso, i territori diventano spazi geometrici.

Dietro il rigore scientifico, c’è la chiara volontà di rendere tutto equivalente, omogeneo e quindi più facilmente scambiabile e divisibile. Nascono in questo periodo le grandi spartizioni del mondo fra spagnoli e portoghesi, spagnoli e inglesi, francesi e inglesi. Si è cercato brevemente di ritrovare diversi modi del viaggiare e diversi tipi di viaggiatori. A ben guardare, molte figure di viaggiatori sono ancora ravvisabili anche nel contemporaneo turismo di massa. Il viaggiatore per affari, lo studente, o il ragazzo alla ricerca di nuove esperienze formative, si possono individuare fra le figure che affollano i grandi luoghi turistici. Esiste anche la figura del turista ‘consumatore’ che spesso si

limita a transitare nel territorio visitato come un semplice compratore di emozioni e di esperienze. Accetta spesso la visione superficiale del luogo che ha trovato nella guida o nelle bancarelle, segue un percorso stabilito dove tutto è già organizzato e previsto e torna a casa pieno di foto, ma, in fondo, è come se non si fosse mai mosso dalla sua poltrona. Sarebbe bene allora non ripetere in piccolo, gli errori dei conquistatori, ricordandosi che dietro la carta geografica, la mappa della città, la guida turistica esiste anche un territorio con la sua storia e le sue ricchezze. • Camus, Carnet Ciò che dà valore al viaggio è la paura. È il fatto che, in un certo momento siamo tanto lontani dal nostro paese... siamo colti da una paura vaga, e dal desiderio istintivo di tornare indietro, sotto la protezione delle vecchie abitudini. Questo è il più ovvio beneficio del viaggio. In quel momento siamo ansiosi, ma anche porosi, e anche un tocco lievissimo ci fa fremere fin nelle profondità dell’essere... Ecco perché non dovremmo dire che viaggiamo per piacere. Non c’è piacere nel viaggiare e io lo vedo come un’occasione per affrontare una prova spirituale... Il piacere ci allontana da noi stessi, come la distrazione nel senso pascaliano ci allontana da Dio. Il viaggio che è come una scienza più grande e grave ci riporta a noi stessi. • Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Ciò che Cortés vuole prima di tutto non è prendere, ma comprendere; sono i segni che lo interessano in primo luogo, non i loro referenti. La sua spedizione comincia con una ricerca di informazione, non con la ricerca dell’oro. Il primo atto importante che egli compie – ed è un gesto estremamente significativo – consiste nel cercarsi un interprete. Sente parlare di indiani che usano parole spagnole; ne deduce che vi sono forse degli spagnoli fra loro, naufraghi di precedenti spedizioni; si informa e le sue supposizioni risultano confermate. Ordina allora a due sue navi di aspettare otto giorni, dopo aver inviato un messaggio a quei potenziali interpreti. Dopo molte peripezie, uno di loro, Jeronimo de Aguilar, si unisce alle truppe di Cortés, il quale stenta a riconoscere in lui uno spagnolo. […]

Questo Aguilar, diventato interprete ufficiale di Cortés, gli renderà dei servigi inestimabili. Ma Aguilar parla solo la lingua dei maya, che non è quella degli aztechi. Il secondo personaggio fondamentale – in questa conquista dell’informazione – è una donna, che gli indiani chiamano Malintzin e gli spagnoli Doña Marina, senza che sia dato di sapere quale di questi nomi è la deformazione dell’altro; la forma che più di frequente questo nome assume è “la Malinche”. Essa viene offerta in dono agli spagnoli nel corso di uno dei primi incontri. La sua lingua materna è il nahuatl, la lingua degli aztechi; ma, essendo stata venduta come schiava ai maya, possiede anche la loro lingua. Vi è dunque, all’inizio, una catena un po’ lunga: Cortés parla ad Aguilar; questi traduce alla Malinche ciò che il primo gli ha detto; e la donna a sua volta si rivolge all’interlocutore azteco. Il suo dono per le lingue è evidente; in breve tempo impara anche lo spagnolo, e ciò accresce la sua utilità. Si può supporre che la Malinche nutra una certa ostilità verso il suo popolo o verso alcuni dei suoi rappresentanti; certo è che essa sceglie risolutamente il campo dei conquistadores. Infatti, non si limita a tradurre; è evidente che adotta anche i valori degli spagnoli e contribuisce con tutte le sue forze alla realizzazione dei loro obiettivi. Da un lato, essa compie una sorta di conversione culturale, interpretando per Cortés non solo le parole, ma anche i comportamenti; dall’altro, sa prendere – quando occorre – l’iniziativa e rivolgere a Moctezuma le parole adatte (soprattutto al momento del suo arresto), senza che Cortés le abbia pronunciate prima. […]

Dopo l’indipendenza, i messicani hanno – in genere – disprezzato e biasimato la Malinche, divenuta simbolo del tradimento dei valori autoctoni, della sottomissione servile alla cultura e al potere

europei. È vero che la conquista del Messico sarebbe stata impossibile senza di lei (o di qualcun altro che avesse svolto la medesima funzione), e che essa fu dunque responsabile di quanto avvenne. Ma io la vedo sotto una luce assai diversa: la Malinche è il primo esempio, e quindi il simbolo, dell’ibridazione delle culture; come tale, essa preannunzia il moderno Stato messicano e, al di là di esso, precorre una condizione che è oggi comune a tutti, poiché, se non sempre siamo bilingui, siamo tutti inevitabilmente partecipi di due o tre culture. La Malinche esalta la mescolanza a danno della purezza (azteca o spagnola) ed enfatizza il ruolo dell’intermediario. Non si sottomette puramente e semplicemente all’altro (caso, purtroppo, molto più comune: si pensi a tutte le giovani indiane, “offerte in dono” o meno, di cui si impadroniscono gli spagnoli); ne adotta anche l’ideologia e se ne serve per meglio comprendere la propria cultura, come dimostra l’efficacia del suo comportamento (anche se “comprendere” serve, in questo caso, a “distruggere”). 1982, tr. it. Torino: Einaudi • Furio Colombo, “I Grandi Viaggi” Ci sono soltanto due modi di organizzare il pensiero umano in modo da trarne rivelazione. Uno è il percorso interiore, dalla riflessione filosofica alla visione mistica. È uno scavare dentro, con ostinata e rigorosa organizzazione del lavoro intellettuale, oppure il soprassalto febbrile che permette il trapasso da un livello all’altro di emozione, percezione, conoscenza. L’altro è il viaggio, la narrazione del viaggio. Essa è insieme realizzazione e metafora del progredire della conoscenza, dell’espandersi dell’esperienza, dell’apprendimento per differenza e confronto, del rapporto che muta continuamente fra persone e cose, del trascorrere del tempo in relazione alla distanza e allo spazio. Persino nei colloquialismi diffusi in tutte le lingue e in tutte le culture, l’atto del viaggiare rappresenta allo stesso tempo la vita (o il suo senso) e la morte, o il suo esito fatale. Si parte per arrivare, partire è separazione (dunque il riferimento alla morte) e l’arrivare è segnato da quel senso di incertezza, pericolo, attesa, sorpresa, dislivello profondo che non è fuori posto chiamare “l’altra vita”.

***Nel corso dei millenni viaggiare ha sempre voluto dire avventura, rischio, morte, rinascita nella conoscenza del nuovo mondo. Più di tutto ha significato la differenza, alla cui sfida l’essere umano non può sottrarsi, fra il noto e l’ignoto. La linea di demarcazione fra moderno e pre-moderno, nella storia dell’umanità, è segnata dalla conoscenza di tutto il mondo fisicamente raggiungibile e sperimentabile, dal momento in cui esperienze immensamente diverse, alcune ignote altre note, cominciano a livellarsi, scambiandosi suoni, colori, persone, animali, prodotti della natura, manufatti. La nostalgia dell’altrove non ancora raggiunto o raggiungibile o noto, talmente forte che a lungo un mondo già moderno, già in possesso di tutte le nozioni e conoscenze di se stesso, coltiva l’”esotico”, per poter continuare a tenere vivo il senso della diversità, della distanza, del comunicabile solo con l’esperienza.

***Molto più indietro, nella storia dell’umanità, altre due linee di demarcazione nella storia e nel comportamento umano vanno notate. Una è l’epoca dello spostamento dei popoli. Precede gli insediamenti umani che conosciamo, avviene in epoche preistoriche. In essa c’è conquista ma non c’è conoscenza e non c’è narrazione, perché il luogo d’arrivo e di insediamento non è “il nuovo mondo”. È l’identificazione del luogo giusto, del territorio a cui quel popolo era destinato. L’altro riferimento è l’epoca della vita al centro che segna i tre millenni d’Oriente, di Grecia e di Roma. In quei millenni il mondo è grande ma non infinito. Muoversi vuol dire percorrere una raggiera. Il destino è di raggiungere l’estrema periferia per ritornare al centro e confermarne il senso e la superiorità. La gradazione sia di rischio che di valore è stabilita dalla distanza dal centro. Nel centro è insediata la civiltà che fornisce la misura di tutto. Nelle epoche della vita al centro viaggiare è

soprattutto tornare, come dimostra la vicenda di Ulisse. In queste epoche il movimento mercantile è soprattutto circolare, le specialità agricole e artigianali dei vari posti disposti intorno al centro è una “divisione del lavoro”, in cui ciascuno, in modo diverso, è tributario del centro. E circolare è anche l’immaginazione, fondata sul senso di permanenza del centro da un lato, sul regolare susseguirsi delle stagioni e delle fasi della vita agricola dall’altro.

***Il viaggio lineare, che consiste in uno spostamento verso il lontano e l’incerto, senza sapere quanto lontano e quanto incerto, richiede un mutamento profondo di cultura che si diffonde molto lentamente. È necessario infatti non soltanto che si indebolisca la permanenza e la forza d’attrazione del centro, ma anche che cambi la percezione del reale, sia spirituale che fisico. Per il mondo occidentale è il cristianesimo che apre la mente e la volontà umana a viaggi lunghi e senza ritorno (o almeno senza ritorno certo). Con la nuova fede, infatti, si spegne la forza egemone dei centri secolari e imperiali. E anche se la Chiesa ha un luogo dominante di residenza in Roma, lo spirito della nuova religione suggerisce che il luogo giusto è dovunque vi siano persone da raggiungere e anime da conquistare. Si forma così una motivazione molto forte al movimento fisico e all’allontanarsi verso l’ignoto, che procede attraverso un atto di fede, quella diversa concezione del cielo e della terra che, molto dopo la civiltà dei grandi viaggi, delle esplorazioni, delle scoperte, è conseguenza inevitabile di nuove visioni del mondo fisico.[…]

***Siamo nel XV secolo e la coscienza di un mondo ignoto e da scoprire, persino se il viaggio rischia di essere senza ritorno, si è diffusa. Il viaggio diventa il laboratorio della nuova cultura, ovvero di tutto ciò che vi è di nuovo nella matematica, nella scienza, nella conoscenza astronomica, nella immaginazione non letteraria, non religiosa, ma scientifica e sperimentale del mondo. Esemplare a questo proposito è il Viaggio in Oriente di Nicolò de’ Conti, una vera e propria linea di frontiera fra il prima e il dopo, nella concezione del viaggio. Nel suo scritto “gli estremi fini del mondo” sono allo stesso tempo l’antica, invalicabile frontiera del mondo classico, e un affascinante misterioso corridoio che porta lontano, dove c’è altra vita e altri mondi. La narrazione del viaggio mostra la costante preoccupazione di rapporto, confronto, riferimento, misurazione rispetto al già noto (soprattutto l’autorità della Chiesa, del Papa Re, visto come punto centrale dell’Universo). Ma affiora ormai la coscienza che altri popoli, altre visioni e organizzazioni della vita, altri ignoti e potenti regnanti costituiscono altri “centri”, in cui si è insediata e si esprime un altro modello dell’esistere, dell’associarsi, del credere, del comandare, del sottomettere. Il mondo affiora con l’intuizione, allo stesso tempo negata dalla disciplina della fede ed esaltata dalla coloritissima narrazione, che la parte conosciuta del mondo e della sua cultura sfuma in una vastità sconosciuta. E che ogni nuovo viaggio, ogni esplorazione, ogni accertamento di vita non è che una tappa di un percorso molto più grande. […]

***Il viaggio di Cristoforo Colombo e il senso e la percezione del mondo sono allo stesso tempo l’origine e il frutto di nuova cultura. Si impone l’idea dell’ipotesi scientifica o disegno astratto o impostazione teorica di un problema e la necessità della sua verifica in quel grande laboratorio che è l’oceano. Tutti i dati e le notizie minori (indicazioni di luoghi, nazioni, popoli) sono sbagliati. Ma le grandi ipotesi trovano conferma. Il mondo è esplorabile, immensi spazi nuovi e mai visti sono disponibili. E per quanto si attribuisca a questi viaggi il senso della vittoria militare, della conquista di ricchezza e la diffusione della fede (o sradicamento delle altre fedi, a seconda del livello di carità umana e cristiana dei missionari), traspare da ogni scritto, da ogni diario e documento di viaggio, la stupenda meraviglia del nuovo, l’esplorazione dell’ignoto come suprema avventura nel destino dell’uomo.[…] Questo atteggiamento traspare nella rozza ma interessantissima prosa di Michele de Cuneo, che segue, il 25 settembre 1493, il percorso del primo viaggio di Cristoforo Colombo. […] La sua narrazione ci parla di un mondo che ha due caratteri estremi, la lontananza e la diversità. La lontananza è rappresentata soprattutto dalla diversità. Il mondo come nelle narrazioni fiabesche ha aspetti portentosi o terribili che non corrispondono in nulla alle esperienze comuni. Il viaggio di

Michele de Cuneo, fra cannibali che evirano e ingrassano i maschi destinati a diventare pasto per la comunità e le loro donne che sono descritte come “bellissime”, giovanissime e che vengono prelevate dai marinai a seconda dei desideri e delle decisioni dell’ammiraglio – appare fantastico quanto l’avventura di Robinson Crusoe o le esperienze di Gulliver. Inizia, nella grande avventura della scoperta dei nuovi mondi, una oscillazione destinata a durare per almeno due secoli. Da un lato la realtà è talmente incredibile che diventa fiaba, perché la diversità viene interpretata nel modo colorito e fiabesco delle leggende popolari. L’estremo confine del mondo si rappresenta nella accettazione del fatto che tutto è possibile e che non c’è ragione di porre limiti alla fantasia visto che non ci sono limiti al mutare della realtà, al suo presentarsi in forme e modi inauditi. D’altra parte alcuni navigatori-narratori sono esportatori e importatori di cultura e di scienza. Si muovono, nella loro accurata e verificata esplorazione del mondo, come scienziati in laboratorio: presumono, provano, sperimentano, confrontano, verificano. La loro narrazione, cauta, sobria e precisa, non toglie nulla alla meraviglia dell’assolutamente diverso. Ma spinge questa meraviglia in uno stato mentale e psicologico simile a quello moderno degli astronauti del nostro tempo.[…]

***Padre Francesco da Bologna, coltissimo frate dell’Ordine dell’Osservanza, prima di parlare dell’opera di liberare tante migliaia di anime dalle mani dell’inferno, avverte: “farò parola del clima, dei prodotti della terra, degli animali, della costituzione degli uomini e delle donne e dei costumi”. Lo fa con una precisione che non fa velo alla meraviglia, e con una meraviglia che va bene al di là del senso di superiorità che era venuto a testimoniare. […] Nelle pagine di padre Francesco, il nuovo mondo diventa “il nostro” e il vecchio è ormai “il vostro”. La adesione alla nuova straordinaria realtà è intensa, appassionata. Si intravede qui uno dei due atteggiamenti destinati a segnare il comportamento moderno nei confronti di mondi nuovi, ignoti e conquistati. È quello di restare, del preferire, dell’adottare costumi e del preferire comportamenti e persino situazioni fisiche come il clima e il tipo di persone. È il “mal d’Oriente”, il “mal d’Africa”, che caratterizzerà nei secoli successivi il comportamento di molti europei trasferiti in mondi diversi. L’altro è il senso di diversità che diventa superiorità, dominio, discriminazione, razzismo. Peggio se travestito da pedagogico dovere di migliorare la situazione, la vita e i costumi degli “indigeni”.[…]

***“Una parte dei vostri danari vennero ad andar male e perdersi”, scrive Filippo Sassetti, nel riferire di un suo viaggio a Goa, a un Francesco Valori di Firenze, evidentemente suo finanziatore, nel dicembre del 1583. questa lettera, per la prima volta, ci mette di fronte a una situazione completamente moderna. Sassetti non va a Goa per scoprire un mondo ma per fare buoni commerci. […] È noto e ovvio che la componente economica non è mai stata assente nella scoperta dei nuovi mondi e che ne è stata anzi una motivazione primaria, benché a volte camuffata da ragioni di fede e da ragioni di stato. Ma tutta la fase della corsa alla scoperta del mondo è segnata da una genuina e appassionata ricerca verso l’ignoto, da vere ragioni scientifiche e, anche più in profondo, da quell’insopprimibile tratto della natura umana che spinge a scoprire ciò che ancora non si conosce. Cosicché tutte le relazioni di viaggio, tutte le relazioni dei nuovi mondi sono colpi di vera meraviglia, vero stupore e genuini slanci descrittivi persino quando la materia di fede dovrebbe dominare. L’emergere di un interesse quasi solo economico, in cui l’impresa è privata, l’avventura è personale e il rischio visto quasi solo in chiave di costi, e vita e morte di confrontano con quanto rende un investimento, ci dicono che lo slancio della scoperta del nuovo mondo sta giungendo alla fine e sta emergendo il capitalismo moderno, in cui il capitale, l’impresa, il lavoro, il profitto o la perdita sono termini e momenti separati, un modo nuovo di associare e contrapporre gli interessi di diversi livelli e nature umane.

***La “congettura” come modo di comunicare una realtà imprecisa da un mondo lontano entra nella relazione di un padre de Angelis al Padre Francisco Pacheco, suo superiore, nel 1620, e segna un grado molto più moderno di riflessione su mondi non ancora completamente noti. Muovendosi fra Corea, Giappone e Indocina, padre de Angelis deve stabilire se il “regno di Yezo” sia isola o

penisola. Raccoglie e confronta dati sulle correnti, i mari, i fiumi locali e la loro impetuosità, i modi di navigazione e i tipi di pesci e offre tutto il materiale raccolto e sondato con buon metodo logico al destinatario della sua relazione, cercando di non trarre conseguenze che non può trarre. Anche le misurazioni, sia di tempo che di spazio, sono soggette allo stesso atteggiamento critico. Le oscillazioni sul numero di giorni necessari per uno spostamento e di conseguenza sulle distanze, vengono indicate con cautela, senza mai fornire un solo numero, in modo da evitare l’errore e la falsa informazione. Ciò che il padre de Angelis non sa per esperienza personale viene scrupolosamente attribuito alle varie fonti (“i giapponesi dicono che ci sono ottanta leghe, andando per mare”) non tanto per prudenza quanto per precisione. In luogo della misurazione esatta, che è impossibile, viene offerta la fonte certa e viene detto perché tale fonte appare attendibile. Soltanto dopo il relatore trae conclusioni, ma senza privare il destinatario di un suo diverso parere sui dati e le notizie che gli sottopone. Tutto ciò ci dice di un ulteriore graduale cambiamento sia della nozione di viaggio dei nuovi mondi, sia sul modo di riferire di tali viaggi. L’incontro non è più con l’ignoto. Si tratta piuttosto di chiarire, interpretare, organizzare e rappresentare nel modo più completo possibile una realtà lontana per la quale c’è più desiderio di sapere che meraviglia o soprassalto. La relazione non è più diario di viaggio, non è più testimonianza di suddito, non è più verbale di presa di possesso e non è necessariamente pagina di bilancio, o lo è solo se è necessario. La scrittura del personaggio lontano che sta rendendo testimonianza, la più documentata e accurata possibile, di una coerente realtà lontana, all’inizio del diciassettesimo secolo sta diventando giornalismo. […] Il giornalismo […] è nato quando al viaggio-favola, al viaggio-conquista e al viaggio-commercio è subentrato il viaggio di riconoscimento e verifica di realtà lontane e non più misteriose, narrabili ma non incomprensibili, diverse ma soggette al confronto, se chi opera questo confronto è uno specialista delle due culture.

***È in questo quadro che si situa la missione di padre Matteo Ricci in Cina. Siamo ad un passaggio ulteriore del rapporto fra paesi e culture. L’italiano Matteo Ricci entra nella cultura cinese come personaggio di rilievo, così come si fa portavoce e rappresentante della cultura cinese presso il mondo occidentale che lo ha mandato. Nasce qualcosa di più del giornalismo culturale. Nasce il riconoscimento reciproco fra culture diverse, la capacità di trattare con rispetto e alla pari, una capacità che non diminuisce la meraviglia ma fa accadere cose straordinarie in luoghi che dovrebbero essere estranei e incomunicabili. Matteo Ricci porta il senso della prospettiva nella cultura cinese. Ne cambia dunque il punto di vista estetico ma anche della percezione e della rappresentazione della realtà. Con scambi culturali come questi il colonialismo è superato prima ancora di materializzarsi. Anche se le guerre di potere militare e di potere economico non sceglieranno questo percorso, nasce con Matteo Ricci il multiculturalismo, considerato il grande esito della lotta per i diritti civili e i diritti umani alla fine del ventesimo secolo. L’autorevolezza del viaggiatore Matteo Ricci persuade i cinesi del valore e anzi della inevitabilità del suo insegnamento. Matteo Ricci studia, conosce, approfondisce e accoglie, accanto alla sua, la cultura cinese di cui capisce subito la grandezza, portata, radici, eguale dignità, pieno valore. Il ponte così costruito attraverso il mondo è un caso isolato e grandioso nel percorso per la scoperta di un nuovo mondo non ancora del tutto svelato: quello della civiltà, della tolleranza, della accettazione reciproca, del riconoscimento del valore dell’altro. introduzione a La scoperta dei nuovi mondi, Roma: Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2001

I viaggiatori • Il libro di viaggi di Benjamin da Tudela

Attorno al Mille, la Spagna era quasi completamente sotto il dominio degli arabi. In questo territorio di confine fra due civiltà spesso ferocemente contrapposte (cristiana e musulmana) si sviluppa una delle culture più raffinate del medioevo. Nacquero qui le splendide architetture moresche di Cordova o di Granada e qui si svilupparono alcune fra le più importanti scuole filosofiche e teologiche del mondo mediterraneo. La cultura di questa regione nasce proprio dalla capacità di mischiare e confondere la tradizione romana, greca, araba e giudaica. Grandi filosofi come Avicebron e Averroé traducono i testi di Platone e Aristotele e li commentano. Come spesso succede, i confini posti fra le culture non bastano a sbarrare il passo alle idee. Così anche i nemici cristiani rileggeranno la filosofia greca attraverso i commenti arabi.

Vero e proprio collante fra le diverse culture è la comunità ebraica che in Spagna si sviluppa e fiorisce senza restrizioni di sorta e persecuzioni (alcuni secoli dopo gli ebrei spagnoli saranno invece cacciati dai re ‘cattolicissimi’ spagnoli). All’alba del nuovo millennio, molti ebrei per i motivi più svariati viaggiano per tutto il mondo conosciuto portando poi indietro la loro esperienza e condividendola non solo con gli altri ebrei, ma anche con gli arabi. Proprio in Spagna si sviluppa una delle maggiori scuole ebraiche. Vengono studiati i testi sacri (in particolare il Talmud) e vengono messi in relazione con quelli della filosofia greca e araba. Studiosi come Abulafia, Maimonide, Levi di Toledo avranno una grandissima importanza nel pensiero successivo in Oriente come in Occidente.

Personaggio esemplare in questo senso è Benjamin da Tudela. Non sappiamo perché, nella seconda metà del XII sec., Benjamin inizia il suo lungo viaggio. Sappiamo però che quella che lascia è una delle più belle testimonianze di vita medievale nel mediterraneo medievale. Benjamin non si interessa tanto dei luoghi sacri o degli affari, ma quello che descrive è la vita che si conduce nelle grandi città che vede. Passando per la Francia e soprattutto per l’Italia, questo viaggiatore instancabile arriva fino al Medio Oriente, cercando con forza di mantenere uno sguardo obiettivo, quasi scientifico, dei luoghi che vede. Lo spazio del suo itinerario non è abitato da mostri o da personaggi fantastici, ma è lo spazio vitale in cui le persone vivono con le loro esperienze e i loro racconti. Benjamin ci riporta le storie che ascolta e non ne accresce mai i toni. Non è interessato al meraviglioso, ma a ciò che storicamente è successo. Ecco perché Benjamin parte sempre da un elemento del paesaggio (un palazzo, una tomba, un monte) per poi risalire attraverso le testimonianze alla storia di una comunità. Le uniche sottolineature sono per le comunità giudaiche che egli enumera e elenca con cura e con orgoglio ricordando i luoghi santi e le reliquie del suo popolo. Ma in un mondo cristiano dilaniato dalle crociate e dalle eresie, impressiona questa suggestiva figura di viaggiatore che cerca di ritrarre con precisione il mondo conosciuto, di carpirne delle informazioni senza arrogarsi giudizi e vede il mondo occidentale con quegli stessi occhi indagatori che aveva Marco Polo quando vedeva l’estremo Oriente. Quello che segue è un brano in cui Benjamin da Tudela descrive la città di Roma.

Da qui occorrono sei giornate di viaggio per arrivare alla grande città di Roma, la capitale del regno di ‘Edom [l’Impero Romano e per estensione la cristianità per gli ebrei sefarditi.] Vi sono circa duecento Ebrei, in posizioni onorevoli ed esentai da tributi, e fra loro si trovano anche dei funzionari del papa Alessandro, il capo spirituale di tutti gli ‘Edom. Roma è divisa in due parti dal fiume Tevere: da un lato c’è la grande chiesa chiamata di S. Pietro di Roma. In città si trova il grande Palazzo di Giulio Cesare; vi sono molti splendidi edifici, diversi da tutti gli altri del mondo. Considerando le zone abitate e quelle in rovina, Roma ha una circonferenza di circa ventiquattro miglia.

In centro ci sono ottanta palazzi appartenuti agli ottanta re che vissero qui, chiamati imperatori, a cominciare con il re Tarquinio fino a Nerone e Tiberio, vissuti al tempo di Gesù il Nazareno, fino al regno di Pipino il padre di Carlomagno, che liberò Safarad dagli Ismaeliti.

Fuori città c’è il palazzo che pare fosse di Tito; egli non godette del favore del Console e dei suoi trecento senatori perché riuscì a conquistare Jerusalajim solo dopo tre anni, quando gli era stato ordinato di farlo in due.....

Nella chiesa di S. Giovanni in Laterano vi sono due colonne di bronzo prese dal Tempio, opera di re Salomone, la pace sia con lui, ed ogni colonna porta inciso “Salomone figlio di Davide”. Gli ebrei di Roma mi hanno detto che ogni anno, il nono giorno del mese di ‘Ab, le colonne trasudano un umore simile all’acqua. 1982, tr. it. Torino: Einaudi • Marco Polo “E com’abbiamo detto disopra, questi popoli sono idolatri, e per suoi dei tutti hanno una tavola posta alta nel pariete della sua camera, sopra la qual è scritto un nome che rappresenta Dio alto, celeste e sublime: e quivi ogni giorno col turibulo dell’incenso l’adornano in questo modo, che, levate le mani in alto, sbattono tre volte i denti, pregandolo che li dia buon intelletto e sanità, e altro non li domandano. Dopo, giuso in terra, hanno una statua che si chiama Natigai, qual è dio delle cose terrene che nascono sopra tutta la terra, e li fanno una moglie e figliuoli, e l’adorano nell’istesso modo, col turibulo e sbattendo i denti e alzando le mani, e a questo li domandano temperie dell’aere e frutti della terra, figliuoli e simil cose. Dell’anima la tengono immortale, in questo modo, che, subito morto l’uomo, l’entri in un altro corpo, e secondo che in vita s’ha portato bene o male, di bene in meglio e di male in peggio procedano: cioè, se sarà pover’uomo e s’abbi portato bene e modestamente in vita, rinascerà dopo morto nel ventre d’una gentildonna e sarà gentiluomo, e poi del ventre d’una signora e sarà signore, e così sempre ascendendo, finché sarà assunto in Dio; ma se s’averà portato male, essendo figliuol d’un gentiluomo rinascere figliuol d’un rustico, e d’un rustico in un cane, descendendo sempre a vita più vile.

Hanno costoro un parlar ornato, salutano onestamente con volto allegro e giocondo, portansi nobilmente e con gran mundizia mangiano. Al padre e alla madre portano gran riverenza, e se si trova ch’alcun figliuolo faccia qualche dispiacere a quelli, overo non li sovegna nelle loro necessità, v’è un officio publico che non ha altro carico se non di punir severamente li figliuoli ingrati, quali si sappino aver commesso alcun atto d’ingratitudine verso di quelli”… LIBRO II - Della religione de’Tartari, e delle opinioni ch’hanno dell’anima, e usanze loro. CAP. 26

• Cristoforo Colombo, Diario del primo viaggio Giovedì, 11 Ottobre 1492 [Colombo è sbarcato sulla nuova terra e ha i primi contatti con gli indigeni]

“....Io affinché ci accogliessero in grande amicizia, giacché mi ero reso conto che era gente che meglio si sarebbe affidata e convertita alla nostra santa fede con l’amore che non con la forza, regalai ad alcuni di essi berretti colorati e collanine di vetro che si mettevano intorno al collo e tante altre cose di poco valore, delle quali furono assai contenti e divennero tanto amici nostri che era una meraviglia.

Essi poi venivano a nuoto alle barche dei navigli dove noi ci trovavamo, e ci portavano pappagalli, matasse di filo di cotone, zagaglie e tante altre cose e le scambiavano con altre che noi davamo loro,

come granelli di vetro e sonagli. Insomma, prendevano tutto e davano di quanto avevano con buona volontà. Mi parve tuttavia che fosse gente molto povera di tutto. Vanno tutti nudi come la madre li partorì, e anche le donne, sebbene di queste ne vidi soltanto una che era assai giovane.

E tutti quelli che io vidi erano giovanissimi, e non ne scorsi alcuno che fosse di età superiore ai trent’anni; son tutti di bella figura, bellissimo corpo e gradevoli nella fisionomia. Hanno i capelli grossi, che sembrano crini di coda di cavallo, e corti. Li portano ricadenti sulle sopracciglia, salvo qualche ciuffo gettato indietro, lungo, che non accorciano mai. Taluni si dipingono di colori scuri e sono del colore dei canariani, né negri, né bianchi, altri si dipingono di bianco, altri di rosso, altri del colore che trovano; taluni si dipingono la faccia, altri tutto il corpo, altri ancora solo gli occhi o solo il naso.

Non portano armi, né le conoscono: perché mostrai loro le spade ed essi, per ignoranza, prendendole per il taglio, si ferivano. Non hanno alcuna sorta di ferro. Le loro zagaglie sono certe verghe senza ferro e alcune hanno all’estremità un dente di pesce, e, altre, altre cose. Generalmente sono di buona statura, di bei movimenti, e ben fatti. Ne vidi alcuni che sul corpo avevano tracce di ferite, e a forza di gesti chiesi di che si trattasse; ed essi mi fecero capire che a volte venivano lì genti da altre isole con l’intenzione di catturarli, ed essi si difendevano.

Io pensai e penso che giungano qui delle genti dalla terraferma per prenderli come schiavi. Devono essere buoni e ingegnosi servitori, perché osservo che ripetono subito quello che io dico loro e credo anche che possano facilmente diventare cristiani, poiché mi è parso che non appartengano a nessuna religione. Piacendo a Nostro Signore, partendo di qui porterò con me sei di questi uomini alle Vostre Altezze, affinché imparino a parlare. In quest’isola non ho visto bestie di nessuna specie, salvo pappagalli.” • Michele de Cuneo: Lettera a Girolamo Annari [dal resoconto del secondo viaggio di Colombo (1493); la parte che segue è una descrizione degli indigeni di Santa Maria di Guadalupe]

15 ottobre 1495“… Ditta la natura e qualità de li animali bruti, ora resta a dire de lì omini. Dico adonca che li òmini de uno e d’altro sexo sonno di colore uliviegno, a modo de quelli di Canaria; hanno la testa piata e il volto atartarato [dai lineamenti mongoli]; sono di picola statura; ut plurimum, hanno pochissima barba e belissime gambe, e sono duri di pelle. Le femine hanno le mamelle molto tonde e dure e ben fatte. Le quale, ut plurimum, quando hano parturito, portano di subito li figlioli a l’acqua a lavarli e a lavarse loro stesse, né per il parto se li ruga il ventre, ma li sta quasi sempre tirato, e cossì le mamelle. Vanno tuti nudi, ma è vero che le femine, quando hanno conosciuto lo omo se coprano davanti o di foglia d’arbore o d’uno pecio de panno di cotone o di branche del ditto panno. Mangiano ogni animali bruti e velenosi, como sono serpenti da XV in XX libre l’uno; e quando incapano ne li grosissimi, sono mangiati da loro; e ditti serpenti, quando li vogliano mangiare li coxeno, in megio de dui legni, a rosto; e noi, mancandone da mangiare, ne abiamo manzato, e ne sono simigliati bonissimi, e hanno la carne bianchissima. Mangiano etiam cani, chi non sono troppo boni. Item, mangiano bisse, lacerte e aragni, li quali sono grossi como polastri…” • Amerigo Vespucci: Lettera a Piero di Tommaso Soderini [Amerigo Vespucci descrive le abitudini dei nativi del ‘nuovo continente’, incontrati nel corso di un viaggio avvenuto nel 1497]:

4 settembre 1504“El modo del lor vivere è molto barbaro, perché non mangiano a certe ore e tante volte quante vogliono, e non si dà loro molto che la voglia venga loro più a meza nocte che di giorno, ché a tucte ore mangiano. El loro mangiare è nel suolo senza tovaglia o altro panno alcuno, perché tengono le lor vivande o in bacini di terra che lor fanno o in mezze zucche.

Dormono in certe rete fate di bambacia molto grande sospese nell’aria; e ancora che questo lor dormire paia male, dico che è dolce dormire in epse, e miglior dormavamo in epse che ne’ coltroni [materassi]. Son gente pulita e netta de’ lor corpi, per tanto continovar lavarsi come fanno; quando vaziano [vuotano] con riverenzia el ventre, fanno ogni cosa per non essere veduti; e tanto quanto in questo sono netti e schifi, nel fare acqua sono altretanto sporci e senza vergogna, perché, stando parlando con noi, senza volgersi e vergnarsi lasciano ire tal brutteza, ché in questo non tengono vergogna alcuna”.

• Padre Girolamo de Angelis [dalla lettera “Al padre Alfonso de Lucena”] luglio 1618 “Nel periodo in cui rimasi a Yezo, parlai molto con degli indigeni, con alcuni attraverso l’interprete, con altri, che sapevano la lingua del Giappone, senza interprete, e mi accorsi che non sapevano niente sulla salvezza. Adorano il sole, la luna, non per la loro salvezza ma perché sono cose vantaggiose per la vita umana. Seppelliscono i morti esattamente come fanno i cristiani; i ricchi preparano una cassa dove pongono il carattere e poi lo seppelliscono. I poveri mettono il morto in un sacco e nello stesso modo lo sotterrano.

Odiano le camicie e i turbanti giapponesi. Sono persone coraggiose e buoni lavoratori, inclini alle liti, nonostante subito dopo facciano pace, e non attaccano mai briga, quando incontrano i loro nemici, senza prima avvertirsi a vicenda. Bevono il vino senza mai rifiutare gli inviti a bere, tuttavia non si ubriacano mai, cosa che mi ha stupito molto. Usano l’arco, frecce avvelenate, corti pugnali curvi e anche dei bastoni di legno chiodati, con i quali si picchiano gli uni gli altri, e restano tutti insanguinati a causa di questi colpi. Una volta, ero presente ad una lite, e ho visto che dopo tutto questo non c’è bisogno di medici per curarli, perché curano le ferite con sale e acqua di mare. Sono uomini piccoli di corpo, robusti, pelosi, con barbe lunghe fino alla vita, rasano metà della testa, e l’altra parte è uguale a quella dei giapponesi. Sia gli uomini che le donne usano anelli alle orecchie. Sono abili a cavalcare; sono ingenui e tuttavia saggi.”

Migrazioni • Luca e Francesco Cavalli-Sforza, Chi siamo. Per oltre un milione di anni, teatro della storia dell’uomo è l’Africa, come del resto era stato previsto, con lucida intuizione, da Darwin e Huxley fin dal secolo scorso. Il ragionamento era semplice: gli esseri viventi più simili all’uomo sono scimpanzé e gorilla, che vivono in Africa; dev’essere quindi in Africa che ha avuto origine la specie umana.Da quanto si è potuto ricostruire, i nostri antenati umani, e già gli australopitechi prima di loro, avevano lasciato la foresta dove abitano ancor oggi le grandi scimmie, e vivevano in ambienti affini all’odierna savana: una prateria tropicale con alte erbe e arbusti e macchie di alberi sparsi, popolata da grandi quadrupedi e da una ricca varietà di specie vegetali e animali. A partire da poco più di un milione di anni fa l’homo erectus si mette in cammino, per così dire, e nelle centinaia di migliaia di anni che seguono si diffonde in Asia e in Europa, praticamente a tutto il Vecchio Mondo.

Probabilmente questa espansione è resa possibile dalla capacità di adattarsi ad ambienti diversi, dalle tecniche di caccia più progredite e dalla maggiore intelligenza associata a un cervello più sviluppato (che in erectus ha una dimensione più che doppia rispetto a quello degli australopitechi). ...

Una data di origine per l’uomo moderno?

L’idea è che tutto ha avuto inizio in Africa. Effettivamente l’Homo habilis è comparso in Africa. Anche l’Homo erectus è apparso in Africa, poi si è diffuso al Vecchio Mondo. Le osservazioni archeologiche sull’uomo moderno suggeriscono che anch’esso abbia avuto origine in Africa, o forse in Israele, e che di qui si sia espanso a tutto il mondo. Quindi un inizio africano o vicino all’Africa c’è sempre. Il problema è quando. Per l’habilis, si parla di due milioni e mezzo di anni fa; l’erectus ha lasciato l’Africa almeno un milione di anni fa; per il sapiens sapiens (l’uomo moderno), pensiamo a 100.000 anni fa o più, poiché a partire da questa data troviamo uomini moderni in Africa e anche in Medio Oriente. Milano, Mondadori, 1995 • Umberto Eco: da “Le migrazioni, la tolleranza e l’intollerabile”, in Cinque scritti morali Ritengo che si debba distinguere il concetto di “immigrazione” da quello di “migrazione”. Si ha “immigrazione” quando alcuni individui (anche molti, ma in misura statisticamente irrilevante rispetto al ceppo di origine) si trasferiscono da un paese all’altro (come gli italiani o gli irlandesi in America, o i turchi oggi in Germania). I fenomeni di immigrazione possono essere controllati politicamente, limitati, incoraggiati, programmati o accettati.

Non accade così con le migrazioni. Violente o pacifiche che siano, sono come i fenomeni naturali: avvengono e nessuno le può controllare. Si ha “migrazione” quando un intero popolo, a poco a poco, si sposta da un territorio all’altro (e non è rilevante quanti rimangano nel territorio originali, ma in che misura i migranti cambino radicalmente la cultura del territorio in cui hanno migrato). Ci sono state grandi migrazioni da est a ovest, nel corso delle quali i popoli del Caucaso hanno mutato cultura ed eredità biologica dei nativi. Ci sono state le migrazioni di popoli cosiddetti “barbarici” che hanno invaso l’impero romano e hanno creato nuovi regni e nuove culture dette appunto “romano-barbariche” o “romano-germaniche”. C’è stata la migrazione europea verso il continente americano, da un lato dalle coste dell’Est via via sino alla California, dall’altro dalle isole caraibiche e dal Messico sino all’estremo del Cono Sur. Anche se è stata in parte politicamente programmata, parlo di migrazione perché non è che i bianchi provenienti dall’Europa abbiano assunto i costumi e la cultura dei nativi, ma hanno fondato una nuova civiltà a cui persino i nativi (quelli sopravvissuti) si sono adattati.

Ci sono state migrazioni interrotte, come quella dei popoli di origine araba sino alla penisola iberica. Ci sono state forme di migrazione programmata e parziale, ma non per questo meno influente, come quella degli europei da est verso sud (da cui la nascita delle nazioni dette “post-coloniali”), dove i migranti hanno pur tuttavia cambiato la cultura delle popolazioni autoctone. Mi pare che non si sia fatta sinora una fenomenologia dei diversi tipi di migrazione, ma certo le migrazioni sono diverse dalle immigrazioni. Si ha solo “immigrazione” quando gli immigrati (ammessi secondo decisioni politiche) accettano in gran parte i costumi del paese in cui immigrano, e si ha “migrazione” quando i migranti (che nessuno può arrestare ai confini) trasformano radicalmente la cultura del territorio in cui migrano. Noi oggi, dopo un XIX secolo pieno di immigranti, ci troviamo di fronte a fenomeni incerti. Oggi – in un clima di grande mobilità – è molto difficile dire se certi fenomeni sono di immigrazione o di migrazione. C’è certamente un

flusso inarrestabile da sud verso nord (gli africani o i medio-orientali verso l’Europa), gli indiani dell’India hanno invaso l’Africa e le isole del Pacifico, i cinesi sono ovunque, i giapponesi sono presenti con le loro organizzazioni industriali ed economiche anche quando non si spostano fisicamente in modo massiccio.

È ormai possibile distinguere immigrazione da migrazione quando il pianeta intero sta diventando il territorio di spostamenti incrociati? Credo sia possibile: come ho detto, le immigrazioni sono controllabili politicamente, le migrazioni no; sono come i fenomeni naturali. Sino a che vi è immigrazione i popoli possono sperare di tenere gli immigrati in un ghetto, affinché non si mescolino con i nativi. Quando c’è migrazione non ci sono più i ghetti, e il meticciato è incontrollabile. I fenomeni che l’Europa cerca ancora di affrontare come casi di immigrazione sono invece casi di migrazione. Il Terzo Mondo sta bussando alle porte dell’Europa, e vi entra anche se l’Europa non è d’accordo. Il problema non è più di decidere (come i politici fanno finta di credere) se si ammetteranno a Parigi studentesse con il chador o quante moschee si debbano erigere a Roma. Il problema è che nel prossimo millennio (e siccome non sono un profeta non so specificare la data) l’Europa sarà un continente multirazziale, o se preferite, “colorato”. Se vi piace, sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso. Milano: Bompiani, 1997

• K. Kavafis, Aspettando i barbari, 1908

Che cosa aspettiamo così riuniti sulla piazza?Stanno per arrivare i Barbari oggi.Perché un tale marasma al Senato?

Perché i Senatori restano senza legiferare?E’ che i barbari arrivano oggi.

Che leggi voterebbero i Senatori?Quando verranno, i Barbari faranno la legge.

Perché il nostro Imperatore, levatosi sin dall'aurora,siede su un baldacchino alle porte della città,

solenne e con la corona in testa?E' che i Barbari arrivano oggi.

L'Imperatore si appresta a ricevere il loro capo.Egli ha perfino fatto preparare una pergamenache gli concede appellazioni onorifiche e titoli.

Perché i nostri due consoli e i nostri pretori sfoggiano la loro rossa toga ricamata?Perché si adornano di braccialetti d'ametista e di anelli scintillanti di brillanti?

Perché portano i loro bastoni preziosi e finemente cesellati?E' che i Barbari arrivano oggi e questi oggetti costosi abbagliano i Barbari.

Perché i nostri abili retori non perorano con la loro consueta eloquenza?E' che i Barbari arrivano oggi. Loro non apprezzano le belle frasi né i lunghi discorsi.

E perché, all'improvviso, questa inquietudine e questo sconvolgimento?Come sono divenuti gravi i volti!

Perché le strade e le piazze si svuotano così in frettae perché rientrano tutti a casa con un'aria così triste?

E' che è scesa la notte e i Barbari non arrivano.E della gente è venuta dalle frontiere dicendo che non ci sono affatto Barbari...

E ora, che sarà di noi senza Barbari?Loro erano comunque una soluzione.

Interventi

• Un conflitto territoriale Nel giardino di un asilo alcuni bambini stavano giocando in un piccolo recinto di sabbia. Giocavano tutti un po' per conto loro, e ciascuno era impegnato a modellare piccole costruzioni. Uno dei bambini espandeva progressivamente le dimensioni del suo castello, fino a che si trovò a invadere lo spazio di un altro bambino; imperterrito continuò a giocare fino a che l'altro bambino non ebbe più spazio per le sue costruzioni.

Dopo qualche tentativo di riprendersi pacificamente lo spazio, il bambino invaso passò decisamente all'azione, distruggendo con furia le torri che il bambino invasore aveva costruito sul territorio dell'altro. Scoppiò inevitabile un grande litigio, una vera e propria rissa, con i due bambini che si rotolavano nella sabbia prendendosi a pugni, e gli altri bambini che li incitavano a menarsi e parteggiavano per l'uno o per l'altro.

All'improvviso, prima che un qualsiasi "grande" potesse intervenire, arrivò a sedare la rissa un altro bambino che con calma si rivolse ai due: "dai, finitela, su". Quel bambino, sebbene non fosse particolarmente grosso, riuscì ad esercitare la sua autorevolezza assoluta, al punto che i due litiganti finirono immediatamente la loro rissa e iniziarono invece a urlare le loro ragioni e la loro ricostruzione dell'accaduto.

Dopo un po' il bambino intervenuto disse con grande tranquillità e sicurezza: "tu hai fatto male a distruggergli il castello" e poi all'altro "ma tu non lo hai lasciato giocare. Perché non lo hai lasciato giocare?". La domanda era senza risposta, ma servì come giudizio definitivo. I due bambini ripresero a giocare, ciascuno nella propria parte, e così tutti gli altri. Filippo del Corno

• Il mito di Ulisse Sono uno studente italiano di dottorato presso il dipartimento di italiano del Royal Holloway, University of London. La mia tesi analizza una collezione di relazioni di ambasciatori, in una prospettiva che sta tra la letteratura cinque e seicentesca sulle relazioni e descrizioni di popoli e paesi, e il dibattito su la "ragion di stato" che si sviluppa in quel periodo. Il mio intervento verte sul mito di Ulisse all'interno dello spazio intitolato "Questa e' la mia terra".

Tuttavia ritengo che se anche quello non e' lo spazio piu' adatto, il mito di Ulisse dovrebbe essere affrontato. Ulisse e' un eroe mitico le cui caratteristiche sono fondamentali per capire la cultura occidentale. Sia che si legga il mito di Ulisse attraverso Dante Alighieri, sia che lo si legga direttamente nell' Odissea, Odisseo rappresenta l'uomo che viaggia, che conosce e che impara dall'esperienza.

In Dante in particolare Ulisse e' colui che si spinge fino a sfidare Dio. Ora, mi sembra molto importante notare che una simile figura non risulta centrale in molte altre culture millenarie. Stando alle mie conoscenze non vie e' un corrispondente di Ulisse nella cultura cinese, cosi' come non vi e' un corrispondente in quella indiana. Se vi sono culture che hanno conosciuto il mito di Ulisse (o

qualcosa di simile) nella loro storia, sarebbe bello vederne le differenze e le similitudini con la cultura occidentale.

La domanda che mi pare importante e' la seguente: la curiosita' di Ulisse, la sua spinta a conoscere e a sapere, e' dannosa per altre culture? E' quella di Ulisse una spinta improntata alla tolleranza? Oppure porta in se' il germe della intolleranza? Spero che il mio contributo possa essere uno spunto per questo sito, che mi pare di fondamentale importanza e, per quanto ho visto finora, estremamente stimolante. Con i migliori auguri Simone Testa

• Apolide Credo di essere un apolide, nel senso proprio di questo termine, non nel senso moderno ripreso dai giuristi per indicare le persone senza cittadinanza. Da sempre eventi drammatici, principalmente carestie e guerre, hanno causato migrazioni di massa. Nel novecento, l'intolleranza del nazionalismo esasperato degli stati europei ha voluto certificare e classificare questo particolare stato.In senso tecnico, quindi, io non sono un apolide per il semplice fatto che i miei genitori, pur essendo italiani, dovettero optare per ottenere la cittadinanza italiana, in caso contrario avrei acquisito lo stato di apolide.

Ciononostante, la mia terra è rimasta l'Istria e la mia città Pola, anche se le conosco solo per i racconti, per le storie familiari e qualche breve visita.Senza dubbio sono un profugo, senza sentimenti di rivalsa e di nostalgia, ma con una complessa sensazione di amputazione traumatica di una parte del mio essere. A volte quasi di mancanza di un qualcosa di molto intimo, più spesso di liberazione da un vincolo. Vivo, con qualche distacco, la cittadinanza italiana, sento con forza la costruzione di un'Europa unità. Oggi, questa è la mia terra.Nel mondo e in Europa sono molte le persone in questa situazione.

Perciò vi scrivo, affrontando il tema del capitolo, mettete in evidenza questo fenomeno in termini positivi, senza rimarcare la drammaticità di quello spietato crogiolo europeo ormai passato. Per esempio, l'accostamento delle storie nazionali nel tempo in modo non separato, la nascita dei miti, gli eroi, leggere insomma la storia europea o mediterranea in forma più comprensibile e unitaria.

Una chiave di lettura sulla quale Furio Colombo potrebbe lavorare per lungo tempo, con divertimento e soddisfazione di molti, sviluppando la collaborazione d'intere classi di giovani studenti. Internet è proprio lo strumento giusto. Congratulazioni per il vostro progetto e tanti, tanti auguri di buon lavoro. Bruno Fabretto

• Il legame con la terra Sento molto forte il legame con la mia terra, ma non saprei spiegare perche'. E' forse un tema banale, ma credo che molti siano in questa situazione. Come spiegare cos'e' il legame con la propria terra e da dove nasce?

Riccardo ReitanoP.S. In un mondo che ha improvvisi sussulti barbarici (non nel senso greco del termine!!), la vostra iniziativa e' ammirevole.

• Pensiero di Nicola Il fatto che un cittadino non voglia uno straniero, peggio se di diversa pelle o religione, penso sia un comportamento naturale dell'essere umano: egli, non solo osserva che quello nel suo territorio è un infiltrato, ma anche afferma di essere superiore. Questo comportamento è in realtà un atteggiamento del tutto ricorrente nel comportamento umano: infatti quando una persona si confronta con un diverso, pensa subito di essere superiore a lui. Come si può superare questo ostacolo?

• Guerra a Nairobi Nairobi e’ una citta’ simbolo della realta’ moderna: un monumento all’ingiustizia sociale, al contrasto tra culture e alla deriva della politica. Girando per le strade della citta' si ha l’impressione che vi sia una guerra in corso, una guerra non tra le numerose culture presenti ma tra ricchi e poveri, tra esclusi ed inclusi dal sistema che ha invaso questa terra africana.

Gli esclusi sono la netta maggioranza e si articolano in differenti gruppi culturali e religiosi che convivono pacificamente l’avventura per la sopravvivenza. Gli inclusi sono invece una esigua minoranza che vive chiusa in se stessa nella perenne preoccupazione per la propria sicurezza e sotto la minaccia dagli esclusi. Vivono separati e le loro case sono blindate con inferriate e munite di allarmi quasi come se la costante security paranoia fosse la giusta condanna per coloro che messe da parte le ambizioni di un mondo migliore hanno deciso di barricarsi in casa fregandosene.

I due fronti in guerra, inclusi ed esclusi, corrispondono a gruppi culturali in quanto il proprio livello di reddito e benessere dipende dalla propria conformita’ al sistema di mercato. I gruppi culturali che agiscono secondo principi di efficienza ed efficacia produttiva sono i piu’competitivi e quindi quelli che si garantiscono maggiore accesso alle risorse; i gruppi che invece attribuiscono priorita’ad altri valori come spiritualita’o socialita’ vengono esclusi dal sistema.

Il problema sorge nella convivenza tra sistema di mercato e modelli alternativi perche’ una cultura che oggi non si conforma all’illusione materialista occidentale e’ destinata all’emarginazione e alla poverta’. Lo scontro tra gruppi culturali nasce quindi dal fatto che il meccanismo di mercato di per se’ non consente di rifiutare la sua legge, chi non compete per le risorse ne viene escluso senza appelli. L’ingiustizia sociale causata dalla distribuzione del reddito propria della logica di mercato e’ la vera e unica causa della guerra tra culture non la differente visione del mondo. Lo strumento per gestire una tale polveriera non puo’ che essere la politica ma se Democrazia significa assecondare il volere della maggioranza popolare allora dovrebbero essere gli esclusi a governare Nairobi. Il punto e’ di distinguere se la maggioranza degli esclusi lo sia per scelta o per forza.

Se la maggioranza degli esclusi lo e’ in quanto conseguenza delle loro caratteristiche culturali (per scelta) allora il sistema di mercato va semplicemente eliminato per dare spazio ad una politica che rappresenti la realta’ sottostante. Ma se invece la maggioranza degli esclusi, come avviene in Occidente, lo e’ solo perche’ sconfitta da una minoranza piu’ competitiva, allora e’ giusto che le redini della politica siano in mano al potere economico attraverso il sistema delle lobby. La cultura occidentale a dato vita ad una societa’ basata sulla legge di mercato diretta da una politica al servizio di quelle logiche che di per se’ creano ingiustizia.

Ecco perche’ la responsabilita’ della guerra in corso ricade interamente sugli inclusi, su chi per ignoranza o indifferenza non comprende le conseguenze causate dal proprio modello di vita. Affinche’ le culture possano convivere in pace e’ necessario che gli inclusi si assumano le proprie Responsabilita’ Sociali invece di blindarsi in casa, essi devono scendere in strada per trattare un nuovo compromesso che permetta una degna sopravvivenza anche a chi ha una diversa visione del mondo. Tommaso

• I limiti della tolleranza Ho appena visto il vostro sito. Mi piace e mi pare potenzialmente utile. Vorrei però che questo tentativo aiutare l'educazione alla tolleranza affrontasse anche gli aspetti più spinosi del problema. La culture sono anche, alla loro radice, visioni del mondo e quindi, pure, definizioni differenti e (in casi estremi inconciliabili) dell'idea di "bene" e di "male".

Esistono culture e religioni (p.es. la guimbanda in Brasile) che richiedono sacrifici umani. Dal punto di vista antropologico sono interessantissime e verrei quindi difenderle. Sarebbe una grossa perdita "culturale" se scomparissero. Ciononostante il governo brasiliano, per quanto ne sappia io, tenta di contenere e reprimere la guimbanda. Possiamo biasimarlo? Può sembrare forse meno drammatico, ma non credo che lo sia, il caso delle religioni islamica ed ebraica che richiedono l'uccisione rituale (brutale e dolorosa) di animali destinati al cibo.

Qui in Svizzera si sta discutendo se il "macello rituale" debba essere consentito in nome della libertà di religione e della tolleranza tra le culture o se, invece, si debba far valere il diritto dell'animale ad essere almeno ucciso nel modo meno doloroso possibile. Come comporre differenze di questo genere? In quale cultura andiamo a prendere il metro per giudicare queste situazioni senza fare torto ad altre culture? Mi piacerebbe se il vostro sito pilotasse la discussione verso le situazioni estreme, perché è in queste situazioni che il problema - io penso – va affrontato.

Le differenze cosmetiche tra culture (mangiare, vestire, ballare), possono forse infastidire persone predisposte all'intolleranza, ma su questi valori periferici (che facilmente diventano esotismo e folklore) transazioni e scambi reciproci sono sempre avvenuti. Un cordiale saluto e un augurio per il proseguimento del suo lavoro. Marcello Sorce Keller

• La rete per la pace Sono l'ideatrice e coordinatrice del sito www.lareteperlapace.it realizzato con il contributo della Regione Basilicata. Nato in seguito ai fatti dell'11 settembre in funzione dal 5 ottobre ha totalizzato 2650 visite. Raccoglie le esperienze compiute da docenti e alunni di varie scuole della regione Basilicata e di altre regioni d'Italia.

Il materiale è stato catalogato in base alla progettazione modulare inserita nella seconda pagina. Il progetto ha avuto i primi risultati importanti perché ci hanno scritto per chiedere e-mail per Sayfa Husseini, collaborare con Medici Senza Frontiere e attualmente per chiede libri di testo per i figli degli emigrati in Argentina di cui vi allego copia. Considerato il numero delle visite e dei lavori statistici compiuti a sei mesi dall'ideazione, alla fine dell'anno e il numero delle interviste 465 sui

temi della guerra e dell'accoglienza degli stranieri ci farebbe piacere mettere a disposizione del vostro sito il nostro materiale e di collaborare con voi.

docente referente prof. Egidia Perretti - docente di Lettere della scuola media

• Cos’è il razzismo? Il razzismo è la convinzione che gli uomini siano diversi tra loro a seconda della razza cui appartengono, che vi siano razze superiori alle altre, che le razze inferiori debbano essere discriminate e dominate da quelle superiori. Il razzismo è antico come l’uomo e nel corso della storia la maggior parte dei gruppi etnici ha cercato di imporsi sugli altri. Spesso una presupposta superiorità della propria razza è stata utilizzata come alibi o pretesto per il perseguimento di interessi economici e politici.

La teorizzazione di livelli razziali differenti ha permesso di giustificare fenomeni come la schiavitù e il colonialismo ed ha fornito un importante contributo all’intolleranza prodotta dalle differenze religiose e ideologiche.Numerose componenti concorrono a formare un atteggiamento razzista, ma la base teorica che lo sostiene deriva dalla convinzione che, nella loro diversità, alcuni gruppi siano più sviluppati ed evoluti di altri. Gli uomini si considerano diversi per molteplici aspetti: biologico, culturale, religioso, ideologico, filosofico, tecnologico, ecc. Queste diversità non sono però separate tra di loro, ma ognuna deriva dalle altre ed alle altre è strettamente connessa. Oggi, più di ieri, sembra che la percezione della diversità tra le varie popolazioni mondiali sia connessa principalmente allo stile di vita e alla cultura in generale.

Se però proviamo ad approfondire i sentimenti di ostilità che le singole culture avvertono le une rispetto alle altre, ci accorgiamo che spesso le differenze di tipo culturale vengono ricondotte a un’ipotetica diversità biologica e genetica che avrebbe creato, nel corso della storia, sostanziali differenze tra i gruppi (questo può avvenire, come è stato nel caso del nazismo, anche all’interno di una stessa civiltà e di uno stesso gruppo religioso). La maggior parte dei pregiudizi “razziali” deriva quindi da supposte differenze “costituzionali” che in quanto tali sono giudicate insuperabili (il razzista non violento e buonista dichiara con fatalismo che le differenze “strutturali” delle persone non sono superabili neppure con la buona volontà).Sottraendo al razzismo la sua base biologico-genetica crediamo sia possibile eliminare buona parte del pregiudizio che governa ancora molte relazioni umane e smascherare parte delle argomentazioni razziste che costituiscono il fondamento ideologico per prevaricazioni e soprusi. Il razzismo spogliato della sua veste “scientifica” mostra più facilmente il suo nocciolo di banalità ed appare per quello che in realtà è: un semplice sentimento negativo verso una parte del proprio prossimo.

Come per qualunque altro sentimento nocivo, anche contro il razzismo sembra possibile agire per ottenerne la rimozione o semplicemente un superamento.

Da dove ha origine il razzismo biologico?Fino al XVIII secolo le differenze tra i gruppi umani non furono esaminate con un’ottica scientifica. Dal 1700 si è cominciato a studiare le differenze somatiche tra i singoli gruppi senza però poter approfondire le basi biologiche di queste differenze. Si confrontavano semplicemente gli aspetti esteriori delle persone raffrontandoli con quelli degli altri mammiferi o con i canoni estetici di quel periodo. Alcuni scienziati come Camper, Winckelmann e soprattutto Lavater contribuirono allo sviluppo di una disciplina, la fisiognomica, che cercava di giustificare il carattere e l’indole di una

persona in rapporto ai suoi tratti esteriori (in particolare il viso). Gall fu l’ideatore della frenologia; essa mirava a dimostrare che dalla forma della testa derivavano le capacità dell’encefalo. Nel 1800 Carus cercò di dimostrare come il colore chiaro della pelle e degli occhi determinassero l’appartenenza di un individuo al popolo “solare”, che ovviamente si supponeva superiore al popolo “notturno” di colore scuro. Nel 1853 il conte de Gobineau sintetizzò le conoscenze scientifiche dei due secoli precedenti e dette alle stampe il suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane.Gobineau utilizzò argomenti antropologici, linguistici, storici e culturali per dimostrare che il mondo era abitato da tre razze principali e che ognuna di queste razze era caratterizzata da aspetti fisici e caratteriali specifici. L’obiettivo era di dimostrare che la razza tedesca era superiore alle altre e che per mantenerla pura era necessario evitare incroci e contaminazioni con le razze inferiori.

La strumentalizzazione politica e sociale da parte di alcuni governi europei dell’opera di Gobineau permise una diffusione capillare di queste teorie, sottraendole a qualunque revisione e critica scientifica. Le conoscenze in campo genetico di quel periodo erano comunque insufficienti per un vero approfondimento di queste teorie. Lapouge, e poi Knox, riuscirono ad integrare le teorie razziste di Gobineau con le teorie evoluzioniste di Darwin, mettendo in guardia dal pericolo della contaminazione tra razze diverse. I nuovi concetti sulla selezione naturale vennero utilizzati per sostenere la necessità di eliminare gli individui affetti da malformazioni congenite e da malattie ereditarie.All’inizio del 1900 Galton fondò in Inghilterra il Laboratorio di Eugenetica Nazionale per studiare un sistema che incrementasse la riproduttività degli individui migliori e riducesse quella degli inadatti. All’inizio del secolo in tutta Europa si cominciò a studiare l’eugenetica e l’ereditarietà con finalità espressamente e volutamente razziste. Si sentenziò che le influenze ambientali incidono solo minimamente sulle caratteristiche umane.

Come le teorie di Darwin anche quelle del Lombroso vennero strumentalizzate dai gruppi europei che in politica e nell’ambiente accademico lavoravano per fornire al razzismo biologico una base scientifica, gettando così le fondamenta ideologiche per le grandi dittature del XX secolo.

In particolare i teorici del nazismo avevano spianata la strada per giustificare qualunque violenza e discriminazione: il problema razziale, analizzato su basi biologiche secondo i principi suddetti, veniva sviluppato a piacimento coinvolgendo aspetti religiosi e filosofici, giungendo addirittura a giustificare la discriminazione delle donne, degli zingari e degli handicappati. E’ importante ricordare che le teorie maturate in Europa tra il 1700 e l’inizio del 1900, non erano il prodotto di un piccolo gruppo di esaltati, ma rappresentavano sostanzialmente le idee ufficiali sull’argomento e, almeno nella loro struttura centrale, erano condivise dal mondo accademico. I ceti più poveri e incolti della popolazione non erano in grado di avere opinioni personali sull’argomento e subivano le idee del mondo più istruito. In parte il razzismo scientifico confermava l’ignoranza e i pregiudizi che la maggior parte della popolazione manifestava sull’argomento. La generazione più anziana della popolazione odierna ha vissuto e studiato nel clima di razzismo biologico fin qui descritto. In buona parte inconsciamente la loro educazione infantile e giovanile ha subito questa impronta indelebile ed ogni aspetto della loro vita ha dovuto fare i conti con questa impostazione, dallo studio della letteratura classica agli avvenimenti sportivi; la stessa cultura cattolica, almeno fino agli inizi degli anni ’60, ha purtroppo contribuito a rafforzare queste idee.

Cosa indicano le recenti scoperte scientifiche?Dal 1960 ad oggi le conoscenze scientifiche sulla specie umana hanno subìto una potente accelerazione per merito della ricerca genetica; nel contempo discipline quali la paleontologia e l’antropologia hanno permesso di chiarire in dettaglio l’evoluzione della specie umana nei vari continenti nell’arco degli ultimi tre milioni di anni; anche le influenze ambientali e geografiche

sulla nostra specie sono state profondamente indagate portando sull’argomento un ulteriore contributo.

Sebbene ancora molto debba essere capito e studiato, disponiamo oggi di dati sufficienti per riesaminare la questione alla luce delle scoperte più recenti, elaborando un’ipotesi antitetica alla teoria del razzismo biologico. La strada intrapresa dalla scienza attuale sull’argomento difficilmente condurrà ad una deviazione dalle presenti conoscenze: è più probabile prevedere ulteriori conferme alle teorie attuali. Prima di esaminare in dettaglio le recenti scoperte portate dalla genetica, è utile sottolineare che tali conoscenze non sono ancora di dominio comune e, per ora, non hanno ottenuto la capillare diffusione che meriterebbero. Questo potrebbe dipendere forse dal fatto che parte dell’attuale classe dirigente è nata e vissuta nel clima “razzista” del secolo che si è chiuso (comprese le guerre anche ideologiche e razziali che si sono consumate nella prima metà del secolo); in parte potrebbe essere dovuto alla stessa scienza genetica che, essendo una materia difficile e specialistica, necessita divulgatori e semplificatori abili. Inoltre il mondo politico e dell’informazione sembra sottovalutare l’importanza di diffondere queste conoscenze e non lavora attualmente per incrementare la cultura collettiva sull’argomento.

E’ importante quindi che almeno le nuove generazioni possano crescere con conoscenze utili a formare una cultura più aperta e tollerante. Lo studio del genoma umano (DNA nucleare e mitocondriale), oltre alle scoperte della paleontologia moderna (studio scientifico dei resti fossili umani), ha permesso di stabilire che la diffusione della specie umana ha avuto origine in un unico punto del pianeta, l’Africa centro orientale, circa 100000 anni fa. Da lì sarebbe avvenuta una migrazione inizialmente verso il Medioriente e il resto dell’Asia, successivamente verso l’attuale Europa (circa 40000 anni fa); in seguito l’Homo sapiens sapiens avrebbe migrato negli altri continenti (Americhe e Australia). Ad oggi non esistono conoscenze che contestino l’origine unica della specie umana: questo primo dato pone quindi seriamente in dubbio che per l’uomo si possa parlare di razza anziché di specie.

Ma procediamo con ordine: in Medioriente la nostra specie si arricchisce dell’agricoltura (siamo a circa 10000 anni fa), passa cioè dalla attività della semplice raccolta dei frutti spontanei della terra alla produzione pianificata del cibo. La nuova attività porta la popolazione ad aumentare velocemente di dimensione (circa mille volte in un periodo relativamente breve). I dati ottenuti da diversi studi indicano che questa conquista non è stata ottenuta per opera di una ristretta popolazione con capacità superiori, ma è stata realizzata per merito delle caratteristiche della zona geografica nella quale quella popolazione era venuta a trovarsi.

Geneticamente tutti gli esseri umani erano predisposti a sfruttare le risorse ambientali ottenendo vantaggi utili al proprio sviluppo; ogni conquista ottenuta da un gruppo, se veramente utile, ha potuto diffondersi agli altri gruppi con tempi dipendenti dai diversi ostacoli geografici; alcuni fattori di progresso hanno subito rallentamenti nella loro diffusione quando sono stati esportati in zone geografiche nelle quali non erano vantaggiosi. Queste scoperte sono perfettamente in linea con la teoria evoluzionista e il principio della selezione naturale. Da milioni di anni la nostra specie ha mostrato di interagire fortemente con l’ambiente in parte sfruttandolo e in parte subendolo; e questo indipendentemente dalla struttura genetica della popolazione. Ma se deriviamo tutti da un unico ceppo genetico, perché (come gli scienziati hanno osservato nei secoli scorsi) morfologicamente siamo così diversi ? E quanto siamo diversi ? Lo studio del genoma umano ha permesso di scoprire che le differenze tra due individui della specie umana sono estremamente piccole, anche tra un uomo e una donna, e sono differenze individuali e non di popolazione. In pratica differenziamo per idee, cultura, abitudini, ecc. ma non per struttura biologica; Ghandi e Hitler possedevano sostanzialmente lo stesso patrimonio genetico.

Lo studio del genoma è recente perché richiede una certo livello tecnologico, ma già 40 anni orsono una ricerca realizzata tramite lo studio dei gruppi sanguigni aveva portato alla scoperta che gli individui della nostra specie differiscono pochissimo dal punto di vista biologico. Esistono solo quattro gruppi ABO e due Rh; da ciò deriva ad esempio che un nero del Senegal 0+ ha sangue identico ad un bianco 0+ Irlandese.

Studiando i gruppi sanguinei, già nel 1962 un gruppo di studiosi guidato da Luca Cavalli-Sforza è riuscito a costruire un primo albero genealogico dell’umanità, stabilendo le “parentele” tra le varie popolazioni.Lo stesso gruppo di ricercatori ha confrontato i dati dei gruppi sanguigni con i dati antropometrici (statura, forma del cranio, colore della pelle, lunghezza degli arti, ecc.) trovando molte discrepanze tra i due parametri. Negli anni successivi lo studio genetico ha permesso di capire che i gruppi sanguigni sono strettamente dipendenti dalle leggi dell’ereditarietà genetica, mentre i parametri antropomorfi dipendono in larga misura dall’ambiente e dallo stile di vita della popolazione considerata (oggi ne abbiamo un esempio nell’innalzamento della statura dell’ultima generazione che non ha seguito lo schema genetico dei genitori, bensì le variazioni delle abitudini alimentari degli ultimi anni). Tra il 1978 e il 1991 il gruppo di ricerca di Cavalli-Sforza, in collaborazione con gli scienziati italiani Paolo Menozzi e Alberto Piazza, esaminando 110 geni umani di 42 popolazioni sparse in tutto il mondo, è riuscito a costruire uno schema ancora più dettagliato e preciso dell’albero evolutivo della specie umana. In base ai dati di queste ricerche non sembra possibile, in termini scientifici, parlare per la specie umana di razze diverse; eventualmente bisognerebbe parlare di popolazioni diverse e introdurre pertanto parametri non più costituzionali ma di tipo acquisito come sono quelli ambientali. In base alle regole scoperte da Darwin sappiamo che qualunque mutazione (casuale) si verifichi anche in un solo individuo può diffondersi (nell’arco di alcune generazioni) a tutta la popolazione a patto di essere vantaggiosa per quel determinato ambiente.

Per questo oggi si ritiene che in origine la nostra specie aveva la pelle olivastra e successivamente, con la diffusione nei vari ambienti, si è selezionato il colore di pelle più vantaggioso; il colore bianco è risultato svantaggioso in Africa (pericolo di eritemi e di tumori cutanei da raggi ultravioletti) e lì si è estinto, mentre è apparso vantaggioso nel Nord Europa dove i pochi raggi del sole dovevano penetrare la cute e permettere la produzione della vitamina D (indispensabile per l’assorbimento del calcio e quindi per l’ossificazione). Anche la differenza di forma delle narici tra un africano e uno svedese non dipende da fattori genetici, ma ancora da motivi ambientali: la dimensione delle narici comporta vantaggi e svantaggi per la respirazione in relazione alle temperature e al tasso di umidità presente nelle regioni nelle quali la singola popolazione si è evoluta. Pertanto la mutazione casuale “narici-larghe”, vantaggiosa in Africa, lì si è diffusa, mentre si è estinta la caratteristica svantaggiosa delle narici strette. Viceversa è successo nelle fredde regioni del Nord Europa.

Oltre ai motivi geografici anche lo stile di vita e le abitudini alimentari possono provocare importanti differenze tra le popolazioni. Prima della diffusione dell’allevamento l’unico latte disponibile per la nostra alimentazione era quello materno ed era riservato ai neonati: pertanto solo loro possedevano gli enzimi necessari alla digestione del latte. 10000 anni fa, con lo sviluppo dell’allevamento, anche l’adulto ha potuto utilizzare il latte come alimento: gli adulti che per caso possedevano l’enzima lattasi erano avvantaggiati e questa caratteristica ha potuto diffondersi. Ancora oggi le popolazioni del nord che consumano molto latte possiedono lattasi intestinali, mentre le popolazioni orientali che non lo utilizzano non possiedono questo enzima; bisogna considerare che nel Nord Europa il latte è un alimento indispensabile perché la ridotta esposizione solare (nonostante la pelle chiara degli individui) riduce la produzione cutanea di vitamina D e

pertanto è necessario un alimento ricco di calcio per compensarne il ridotto assorbimento intestinale.

Abbiamo capito che in definitiva la forma esterna del corpo può dirci molto sulla situazione geografica e climatica nella quale è vissuta una determinata popolazione, ma molto poco sulla sua storia genetica. Ma allora quanto differiscono tra loro le varie popolazioni dal punto di vista genetico ? Oggi sappiamo che ogni cellula del nostro organismo possiede circa 1 milione di geni, e solo 3 o 4 di questi determinano variazioni del colore della pelle. Se consideriamo il patrimonio genetico di intere popolazioni, dal punto di vista qualitativo, non troviamo praticamente mai due geni completamente diversi in popolazioni diverse. Se poi consideriamo che le varie popolazioni non sono rimaste isolate nei loro continenti, ma nel corso dei secoli si sono sempre più mescolate tra di loro, diventa evidente che tra le cosiddette “razze” umane (da un punto di vista strettamente biologico) le differenze sono insignificanti.

E’ utile considerare che all’interno di una singola nazione è praticamente impossibile individuare un unico ceppo biologico; anche nel nostro Paese non possiamo parlare di una razza italiana. Gli studi del gruppo di ricerca di Alberto Piazza, relativi al panorama genetico italiano, hanno individuato la presenza di ceppi greci, celtici, etruschi, antichi liguri (preindoeuropei), osco-umbro-sabellici. In Francia sono stati individuati ceppi bretoni, germani, baschi e greci. Solo quando una popolazione è rimasta chiusa agli influssi esterni la variabilità delle caratteristiche fisiche è rimasta molto bassa; è il caso degli ebrei che hanno mantenuto matrimoni chiusi all’interno del gruppo anche durante la diaspora e la migrazione in continenti diversi.

Dal punto di vista genetico però anche per gli ebrei non è possibile parlare di razza, le differenze che potremmo trovare tra ebrei e palestinesi (o qualunque altro popolo del Medioriente) risulterebbero biologicamente insignificanti. Anche se volessimo suddividere il mondo in migliaia di razze (e l’operazione scientificamente non sarebbe assolutamente corretta) ci troveremmo nell’impossibilità di individuare una razza pura, troveremmo invece quello che viene definito polimorfismo genetico; ognuno di noi possiede singole variazioni che ci impediscono di considerarci parte di una razza pura.Se poi qualcuno volesse provare a creare una razza pura dovrebbe considerare che, oltre a dover impiegare parecchie generazioni per riuscirvi, arriverebbe alla fine a creare individui sterili e ad altissima probabilità di malformazioni congenite. Da tempo lo studio genetico ha dimostrato che (al contrario di quanto si credeva nel secolo scorso) l’incrocio tra popolazioni differenti rappresenta un vantaggio biologico che rafforza la specie.Fino agli anni 70 si credeva che la misura del QI valutasse una caratteristica innata e quindi trasmessa geneticamente dai genitori; si pretendeva pertanto di stabilire a priori il valore intellettivo di un individuo. Negli Stati Uniti le misurazioni fatte sugli studenti davano ai neri un QI medio di 15 punti inferiore a quello dei bianchi.

Negli studi degli anni successivi è stato possibile dimostrare che il test di intelligenza in realtà comprendeva numerose componenti culturali. I test eseguiti su ragazzi neri adottati dopo la nascita da famiglie borghesi hanno mostrato valori sovrapponibili ai controlli su ragazzi bianchi dello stesso ceto sociale; anche i test svolti all’interno degli orfanotrofi non hanno mostrato differenze tra studenti bianchi e neri. La differenza di QI risultava invece significativamente differente quando si confrontavano soggetti che vivevano agli estremi della scala sociale, indipendentemente dal colore della loro pelle. A tutt’oggi non è ancora stato possibile stabilire se il QI è determinato da fattori genetici o ambientali; la maggior parte dei ricercatori ritiene che l’intelligenza sia determinata per un terzo da fattori genetici, per un terzo da fattori ambientali individuali di crescita e per un altro terzo da fattori culturali derivati dall’ambiente sociale.

ConclusioniIn questo contesto abbiamo esaminato soltanto l’evoluzione genetica della nostra specie; è evidente che, soprattutto in un periodo storico a noi più vicino, si è verificato anche un sviluppo tecnologico che ha ridotto le influenze dell’ambiente sul nostro organismo. La scienza dei secoli passati aveva comunque erroneamente interpretato gli effetti dell’ambiente nel determinare le differenze biologiche all’interno della nostra specie, attribuendo ai dati somatici un’importanza che non possiedono; il giudizio sulla civiltà di un popolo risentiva di questo errore fondamentale e risultava perciò incapace, o quantomeno disturbato, nel giungere ad una valutazione obiettiva.

Le conoscenze scientifiche attuali indicano che non esistono vere e proprie differenze biologiche o costituzionali tra gli uomini, ciò che ci differenzia sono sostanzialmente fattori acquisiti come la lingua, la religione, le idee, le abitudini, lo stile di vita. Su questi elementi acquisiti è necessario il confronto, ma solo dopo essersi liberati dai molti pregiudizi che ancora rendono difficile un giudizio razionale e critico (e come brillantemente argomenta Norberto Bobbio il pregiudizio è per definizione acritico e irrazionale). Solo possedendo le necessarie informazioni scientifiche (per quanto possono offrirci le attuali conoscenze) le nuove generazioni hanno la possibilità di costruire una mentalità e una visione della realtà più aperta e disponibile, per comprendere meglio l’umanità che li circonda ed essere in grado di capire il veloce sviluppo del mondo d’oggi.

Bibliografia essenziale- J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi 1998.- L. Cavalli-Sforza, P. Menozzi, A. Piazza, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi 1997.- L. e F. Cavalli-Sforza, Chi siamo, Mondadori 1993.- N. Bobbio, Elogio della mitezza, Linea d’Ombra, 1994.- P. R. Sabbadini (a cura), La cultura ebraica, Einaudi, 2000.- J. P. Sartre, L’antisemitismo, Mondadori, 1990.Alessandro Volta [email protected] • Un’esperienza indimenticabile La classe 7ABG/ BRG Mössingerstraße A - 9020 Klagenfurte-mail : [email protected]

Nel settembre 2001 siamo andati per una settimana a Treviso, dove siamo stati accolti nelle famiglie dei ragazzi di due classi del Liceo Canova. Poi, in aprile, i nostri colleghi sono venuti qui da noi. Alla partenza per la nostra avventura in una famiglia sconosciuta eravamo molto eccitati e anche, per dire il vero, nervosissimi. Ma le giornate sono state molto interessanti, perché abbiamo imparato diverse cose sulla vita quotidiana dei nostri amici italiani con cui abbiamo parlato molto. Eravamo molto curiosi.

La mattina siamo andati a scuola, dove abbiamo saputo per esempio che in Italia, a differenza dall’Austria, non esiste nelle scuole superiori la materia Musica come materia scolastica. Abbiamo lavorato in piccoli gruppi, 2 italiani e 2 austriaci. Questa pratica rende più facile la comprensione (soprattutto quando si trattava di testi e temi difficili da svolgere) e si può imparare di più. Abbiamo parlato di diversi temi, p.e. sulla storia di Treviso e di Venezia con i suoi munumenti più importanti. Poi abbiamo fatto anche dei giochi per conoscerci meglio. Una mattina abbiamo realizzato insieme dei cartelloni sulla città che poi abbiamo portato con noi a Klagenfurt. I nostri compagni italiani ci hanno mostrato anche in piccoli gruppi la loro città. Durante due gite abbiamo visitato Burano Murano e Torcello, e anche naturalmente Venezia, studiando con dei ragazzi del posto la cultura della loro regione.

Il pomeriggio sportivo ha anche migliorato la socializzazione e la comprensione reciproca. Di sera siamo usciti spesso e abbiamo parlato molto della nostra situazione a scuola e a casa scambiandoci le nostre esperienze. In quell’occasione abbiamo appreso molte cose sul carattere degli altri e ci siamo divertiti tantissimo.L’ultima sera abbiamo fatto una festa d’addio in presenza dei genitori, dove abbiamo cantato e suonato insieme. Gli italiani ci hanno regalato medaglie come segno della loro amicizia. Anche i genitori erano entusiasti. È stato molto triste partire, ma già in aprile ci siamo incontrati di nuovo, questa volta a Klagenfurt.Come già a Treviso abbiamo lavorato in gruppi misti, questa volta con temi diversi, p.e. sui metodi d’insegnamento e di valutazione nelle nostre scuole. In quest’occasione abbiamo anche constatato che gli italiani devono studiare più di noi. È stato molto divertente scrivere insieme un testo ironico con delle espressioni figurate.

Un giorno abbiamo interpretato diverse scene tratte dal “Faust” di Goethe, e anche gli italiani hanno preso parte con gran divertimento di tutti. Sentire che anche loro hanno dei problemi con frasi molto difficili è stata una consolazione per noi. Durante le gite a Salisburgo e in diversi posti in Carinzia in autobus abbiamo avuto occasione di divertirci molto. Alla fine abbiamo avuto un’altra volta un incontro sportivo che ha contribuito ancora di più a migliorare il rapporto con gli italiani.

Dopo questa competizione è cominciata la festa finale in presenza dei genitori e degli insegnanti. Abbiamo preparato una messa in scena di “Chicchibio” di Boccaccio per mostrare la nostra conoscenza dell’italiano. Dopo un balletto delle nostre ragazze e i testi divertenti scritti dagli italiani, austriaci e italiani hanno cantato e suonato, in parte insieme. Ciò ha mostrato che la musica è la stessa per tutti noi.

Abbiamo riso e pianto quando sono partiti. Era molto tranquilla la classe, quando sono partiti i nostri ospiti, e anche strano a casa, da soli…

Le differenze esistono

Il cibo: In Austria si mangia più carne che in Italia, dove si mangiano più panini e pasta. Poi gli orari non sono gli stessi. Noi mangiamo prima. A colazione mangiamo di più.Lingua: Naturalmente abbiamo due lingue diverse. Ma spesso parliamo in dialetto e questo rende difficile la comprensione. Ma dopo aver usato le mani e i piedi (e l’inglese) tutto era chiaro. Per esempio b’oh che significa non lo so non era comprensibile per noi. Anche la velocità nel parlare è stata pure un problema. E anche quando mi sembrava che la mia famiglia ospitante a Treviso litigasse, mi sono spaventata solo all’inizio. Parlavano solo ad alta voce.Famiglia: A Treviso la famiglia ha più importanza che in Austria. Lo hanno notato molti di noi. I membri della famiglia mangiano sempre insieme, la domenica vengono anche i nonni e gli zii. Tutti sembrano più legati. Lo sport: Lo sport è molto importante in Italia. Ogni giorno inizia con uno dei vari giornali sportivi (che in Austria non esistono) Soprattutto la Formula Uno e il calcio sono gli sport preferiti. Anche agli austriaci piace il gioco con il pallone, ma la gente è molto meno entusiasta. In modo simile ci comportiamo forse con lo sci (dove siamo più bravi).Emozioni: Hanno creato solo una volta dei problemi: in corriera italiani e austriaci erano separati e ogni gruppo si è divertito per conto suo. In quest’occasione gli austriaci non hanno avuto comprensione per il divertimento degli altri e ne è nato un conflitto che presto abbiamo risolto parlando in 2 della situazione spiacevole. Benché ci siano delle differenze fra gli studenti italiani e austriaci, siamo tutti ragazzi con gli stessi problemi, a cui piace la stessa musica, che hanno gli stessi desideri per il futuro. Quindi ci siamo divertiti molto insieme. Resta per noi una grande

esperienza indimenticabile. Non ne abbiamo approfittato solo culturalmente, abbiamo trovato anche nuovi amici superando confini e pregiudizi.