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COMPORTAMENTI E CONSUMI SOCIALMENTE RESPONSABILI NEL SISTEMA AGROALIMENTARE a cura di Lucia Briamonte e Sabrina Giuca

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COMPORTAMENTI E CONSUMI SOCIALMENTE RESPONSABILI NEL SISTEMA AGROALIMENTARE

a cura di Lucia Briamonte e Sabrina Giuca

ISBN 978-88-8145-202-6

collana STUDI SULL’IMPRESA

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ISTITUTO NAZIONALE DI ECONOMIA AGRARIA

Comportamenti e Consumi soCialmente responsabili

nel sistema agroalimentare

a cura diLucia Briamonte e Sabrina Giuca

Il presente documento è stato elaborato nell’ambito del progetto “Studio preparatorio alla conferen-za nazionale dell’agricoltura” – linea A “La responsabilità sociale d’impresa tra nuovi rapporti di fi-liera e aspettative del consumatore” realizzato dall’INEA e finanziato dal MIPAAF con D.M. 14541 del 31/10/2008.

Responsabile Progetto: Lucia Briamonte

Comitato scientifico: Lucia Briamonte (Responsabile INEA), Prof. Luciano Hinna (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”), Francesco Zecca (Università di Perugia), Fabio Monteduro (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”), Maria Assunta D’Oronzio (INEA), Raffaella Pergamo (INEA), Ester Dini (Censis).

La segreteria del progetto è stata curata da Novella Rossi e Anna Caroleo.

Per l’impostazione e la progettazione dello studio ha operato il seguente gruppo di lavoro:Lucia Briamonte (INEA), Sabrina Giuca (INEA), Maria Assunta D’Oronzio (INEA), Ester Dini (Censis), Paolo Biraschi (MEF), Saverio Scarpellino (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”).

La revisione del testo è stata curata da Lucia Briamonte e Sabrina Giuca.

I contributi al testo sono di: Introduzione: Lucia BriamonteCapitolo I: Sabrina GiucaCapitolo II: Lucia Briamonte (2.1, 2.2), Maria Assunta D’Oronzio (2.3), Elisabetta Capocchi (2.4), Ester Dini (2.5), Sabrina Giuca (2.6)Capitolo III: Paolo Biraschi e Saverio ScarpellinoCapitolo IV: Fabio MonteduroCapitolo V: Marco Livia

Il contenuto del CD-ROM è stato curato da Gabriele Cassani

La consulenza editoriale è di Moira Rotondo

Segreteria tecnica: Gabriele Cassani

Impaginazione grafica: Pierluigi Cesarini

Pubblicazioni INEA sul tema Responsabilità sociale nel sistema agroalimentare: La responsabilità sociale delle imprese del sistema agroalimentare, a cura di L. Briamonte e L. Hinna, Studi e Ricerche INEA, 2008.Linee guida Promuovere la Responsabilità Sociale delle imprese agricole ed agroalimentari, INEA 2007.Le esperienze italiane di imprese del settore agricolo ed agroalimentare, a cura di L. Briamonte INEA 2007.I metodi di produzione sostenibile nel sistema agroalimentare, a cura di L. Briamonte e R. Pergamo, INEA 2010.La responsabilità sociale d’impresa: un’opportunità per il sistema agroaolimentare.Percorsi di responsabilità sociale d’impresa nei rapporti di filiera, L’ortofrutta e la zootecnia da carne, a cura di L. Briamonte e A. D’Oronzio, INEA 2010

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Presentazione

Negli ultimi anni le questioni socio-ambientali sono diventate parte inte-grante degli obiettivi della politica agricola. La sempre crescente richiesta di quali-tà, salubrità e genuinità dei prodotti alimentari, gli shock climatici ed energetici e le problematiche sociali e ambientali riconducibili al tema dello sviluppo sostenibile hanno contribuito ad accelerare questo processo.

Ci troviamo, così, di fronte a un nuovo modello di sviluppo in cui la compe-titività dell’impresa agricola deriva anche dal suo impegno a garantire adeguati livelli di sostenibilità economica, sociale e ambientale nel contesto territoriale in cui opera.

Ne consegue che il successo dell’agricoltura rispetto alle nuove attese del-la società risiede nella capacità dell’impresa agricola di produrre alimenti sani e genuini e concorrere allo stesso tempo alla protezione delle risorse naturali e allo sviluppo equilibrato del territorio, creando occupazione e riservando maggiore at-tenzione alla qualità del lavoro.

Oggi il consumatore è sempre più attento e orientato verso acquisti consape-voli e include nel concetto di qualità dei prodotti agroalimentari anche valori quali la sostenibilità ambientale e sociale della produzione. L’agricoltura, quindi, riserva grande attenzione a temi trasversali quali sicurezza alimentare, tracciabilità delle produzioni, qualità dei prodotti, rispetto dell’ambiente e delle risorse umane. Tali aspetti hanno contribuito a declinare il concetto di produzione in una dimensione più ampia di filiera e di territorio, affiancata dalla promozione e dalla rintracciabilità delle produzioni agroalimentari e da forme di comunicazione istituzionale volte a valorizzare e a dare riconoscibilità alla qualità dei prodotti agroalimentari italiani, a creare la consapevolezza dell’evoluzione dell’agricoltura fra tradizione e innovazio-ne e a promuovere il “made in Italy” quale stile di vita e di consumo.

Il consumo sostenibile, in particolare, diviene l’oggetto di studio della pre-sente pubblicazione. Ciò nasce dalla necessità di approfondire la conoscenza di questo argomento così attuale e dibattuto, soprattutto per via delle numerose mo-dalità con cui esso si riflette nella vita reale (dal commercio equo e solidale ai GAS, passando per i farmers’ market, ecc.).

In tal senso, l’auspicio dell’INEA è quello di contribuire con la sua attività a

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promuovere una nuova forma mentis e un nuovo modo di fare impresa secondo un approccio integrato (triple bottom line) che tenga conto di aspetti economici, am-bientali e sociali.

On. Lino Carlo Rava Presidente INEA

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Un consumatore può essere definito etico se haargomenti altruistici nella sua

funzione di utilità (Maietta, 2004)

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indice

Introduzione 11

PARTE PRIMA - resPonsabilità sociale e modelli di consumo

capitolo i - l’evoluzione dei consumi alimentari 15

1.1 Introduzione 15

1.2 I consumi alimentari delle famiglie italiane dal dopoguerra a oggi: le dinamiche socioeconomiche 16

1.2.1 Il consumatore degli anni Duemila 21

1.3 Il consumatore sensibile all’etica agroalimentare basata sulla sostanza (qualità) del prodotto 26

1.3.1 I consumi dei prodotti DOP/IGP 28

1.3.2 I consumi dei vini di qualità 35

1.3.3 I consumi di prodotti biologici 37

1.4 Conclusioni 44

capitolo ii - i profili di responsabilità sociale da parte del consumatore 45

2.1 Introduzione 45

2.2 La riscoperta del valore della territorialità nei consumi alimentari 47

2.3 Il recupero delle tradizioni alimentari 52

2.4 Il valore etico del consumo 56

2.4.1 I confini del consumo etico e la responsabilità sociale di impresa 58

2.4.2 La sensibilità ambientale nel consumo agroalimentare 61

2.4.3 Le implicazioni sociali nella catena di fornitura: il commercio equo e solidale 63

2.5 Il neo soggettivismo del consumo alimentare 68

2.6 Il principio di equità e solidarietà applicato agli acquisti: il caso dei GAS 74

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PARTE SECONDA - resPonsabilità sociale e modelli di Produzione

capitolo iii - il ruolo della comunicazione della rsi nel settore agricolo e agroalimentare 83

3.1 Introduzione 83

3.2 L’evoluzione della comunicazione della RSI alla luce delle nuove tendenze del consumo 85

3.2.1 La modifica della struttura dei consumi: il nuovo profilo del consumatore 85

3.2.2 Peculiarità della comunicazione nelle aziende che praticano la RSI 86

3.3 Aspetti rilevanti della comunicazione della RSI 88

3.3.1 Caratteristiche e funzioni: da informazione a coinvolgimento 90

3.3.2 I soggetti destinatari della comunicazione della RSI 94

3.3.3 Gli strumenti 96

3.4 Limiti e opportunità nell’attuazione della comunicazione della RSI 98

3.4.1 Limiti 98

3.4.2 Opportunità 99

3.5 Conclusioni 100

capitolo iV - Gli strumenti di rsi per le imprese agroalimentari 103

4.1 Introduzione 103

4.2 La valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali 106

4.2.1 L’attuazione pratica degli strumenti di responsabilità sociale per la valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali 108

4.3 Il rispetto ambientale 111

4.3.1 L’attuazione pratica degli strumenti di responsabilità sociale per il rispetto ambientale 112

4.4 Miglioramento delle condizioni di lavoro 112

4.4.1 L’attuazione pratica degli strumenti di responsabilità sociale per il miglioramento delle condizioni di lavoro 114

4.5 Conclusioni 116

PARTE TERZA - l’indagine ireF

capitolo 5 - le famiglie e la crisi: stili di vita e politiche di consumo responsabili 119

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5.1 Introduzione 119

5.2 L’indagine IREF 122

5.3 L’orientamento dei cittadini verso forme di consumo alimentare responsabile: alcune riflessioni 132

bibliografia 139

sitografia 147

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introduzione

Le recenti tendenze nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa (RSI) sem-brano confermare il carattere estremamente dinamico di tale tematica, che coinvolge tutti i portatori d’interesse, con specifico riferimento ai consumatori e alle imprese. In particolare, nel settore agricolo e agroalimentare, la tipicità dei beni e dei servizi offerti impone al consumatore scelte che sembrano dipendere sempre più da fattori non ricon-ducibili esclusivamente al rapporto qualità/prezzo, ma che, invece, coinvolgono anche aspetti direttamente legati all’etica, alla salvaguardia dell’ambiente e alla tutela del la-voro. D’altra parte, oggi, le imprese non si limitano solo a intraprendere azioni di RSI, ma decidono spesso di portare gli stakeholder a conoscenza di tali condotte nel tentativo di migliorare la reputazione aziendale e i risultati economici. Pertanto, pur in modo talvolta inconsapevole, si va a delineare una sinergia tra imprese e consumatori: le scelte di con-sumo di questi ultimi condizionano le politiche aziendali, le quali, se opportunamente comunicate, sono in grado di influenzarne gli acquisti.

Il presente lavoro parte da un duplice obiettivo: da un lato, evidenziare le dinami-che che hanno portato a tracciare un nuovo profilo del consumatore, oggi attento alle conseguenze delle sue scelte d’acquisto dal punto di vista sociale, etico e ambientale; dall’altro, individuare quelle strategie di comunicazione di RSI da parte delle imprese che più di altre riflettono queste dinamiche, soffermandosi sugli strumenti più efficaci che l’impresa può adottare riguardo agli ambiti nei quali può tradursi la sua azione di responsabilità sociale.

Il volume, strutturato in tre parti, si propone di individuare gli aspetti salienti del comportamento dei principali attori economici (consumatori e imprese) nell’ambito dell’attuazione delle pratiche di RSI.

La prima parte analizza le azioni socialmente responsabili intraprese dagli indivi-dui, coerentemente alla diffusione di un nuovo modello di consumo che va oltre le tradi-zionali variabili del prezzo e della qualità e si fonda sui valori etici, sociali e ambientali dei prodotti acquistati. Nello specifico, il primo capitolo esamina l’evoluzione dei consumi agroalimentari dal dopoguerra a oggi, caratterizzato da un aumento della sensibilità nei confronti di sicurezza alimentare, tipicità dei prodotti, salvaguardia delle tradizioni loca-li, riduzione dell’impatto ambientale e tutela dei lavoratori. Tale evoluzione, acutizzata dagli effetti delle diverse crisi del settore agroalimentare, manifestatesi a partire dalla seconda metà degli anni Novanta (BSE, influenza aviaria), risulta in gran parte legata a ragioni di carattere culturale e socio-demografico, tra cui il livello di istruzione della

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popolazione, il contesto sociale di riferimento, l’età e la disponibilità di informazione, soprattutto grazie allo sviluppo sostenuto di alcuni mezzi di comunicazione di massa (si pensi, in particolare, al ruolo svolto da internet). Il secondo capitolo declina il nuovo profilo di responsabilità sociale da parte del consumatore, soffermandosi sulle diffe-renti modalità che sono alla base delle sue scelte d’acquisto: boicottaggio, consumo critico, consumo equo e solidale, costituzione dei gruppi di acquisto solidale, ecc. Oggi, infatti, la figura del consumatore-cliente che si preoccupa solo di scegliere l’opzione migliore in relazione al rapporto qualità/prezzo, viene progressivamente sostituita dal consumatore-cittadino, il quale è interessato a conoscere le dinamiche che giacciono dietro il prodotto.

La seconda parte del volume affronta i temi chiave della RSI dal lato dell’offerta, esaminando gli strumenti di cui dispongono le imprese per veicolare le scelte effettuate in linea con i principi e i valori della responsabilità sociale. Il terzo capitolo, infatti, deli-nea le strategie di comunicazione di RSI attuate dalle imprese. Alla luce del nuovo profilo del consumatore, infatti, la comunicazione assume un ruolo centrale, che non si limita a informare i soggetti acquirenti, ma intende anche renderli partecipi indicando loro il percorso intrapreso e i relativi strumenti. A ciò si aggiunga il fondamentale ruolo che la comunicazione svolge all’interno dell’impresa, mirando a coinvolgere direttamente la-voratori e fornitori in alcune delle principali scelte di politica aziendale. Il quarto capitolo, invece, si concentra sull’analisi degli strumenti che le imprese hanno a disposizione per porre in essere le loro strategie di RSI, distinguendo tre ambiti specifici: la valorizzazio-ne del territorio e dei rapporti con le comunità locali, la salvaguardia dell’ambiente e le condizioni del lavoro. In particolare, la scelta di una molteplicità di strumenti rispecchia largamente la dimensione multifunzionale dell’attività agricola, fonte di potenziali op-portunità di sviluppo.

Infine, la terza parte del volume riporta un contributo dell’Istituto di ricerche edu-cative e formative (IREF) che, partendo da un’indagine condotta tra settembre 2009 e febbraio 2010, approfondisce alcune espressioni del consumo socialmente responsabi-le, alla luce degli effetti provocati dalla recente crisi economico-finanziaria sull’attività produttiva. Riallacciandosi alle osservazioni emerse nella prima parte del volume il ca-pitolo conclusivo riflette sulla possibilità, da parte delle famiglie italiane, di continuare a perseguire le loro scelte di acquisto nel campo etico, sociale e ambientale.

Il volume è corredato da un CD-ROM contenente un glossario sui principali ter-mini utilizzati in materia di RSI e consumo responsabile nel sistema agroalimentare.

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

Parte prima

resPonsabilità sociale e modelli di consumo

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

Capitolo i

l’eVoluzione dei consumi alimentari

1.1 Introduzione

Le trasformazioni socio-demografiche connesse allo sviluppo economico - esodo dalle campagne, inurbamento, diffusione dell’occupazione femminile, pen-dolarismo - l’aumento del reddito delle famiglie, la crescita e la differenziazione della domanda hanno stimolato, da un lato, profonde innovazioni di prodotto e di processo e, dall’altro, una significativa trasformazione dell’organizzazione pro-duttiva, passata da modelli artigianali e locali a modelli industriali e delocalizzati (Belliggiano, 2009; Belletti, Marescotti, 1995). L’inurbamento, in particolare, ha al-lontanato i consumatori dai luoghi della produzione, facendo perdere i riferimen-ti fiduciari e inducendo, a fronte della maggiore disponibilità di alimenti (security food), un aumento della sensibilità in termini di sicurezza (safety food). Tale sensi-bilità, peraltro, è stata acuita dagli scandali alimentari e dalle emergenze sanitarie a cavallo tra vecchio e nuovo millennio che hanno duramente colpito il settore agri-colo e agroalimentare su scala globale.

Tuttavia, non solo il rischio alimentare quanto piuttosto le tendenze e le sen-sibilità diffuse verso tematiche strettamente connesse al cibo e alla sua lavorazio-ne (che include il trattamento delle materie prime, la fasi di preparazione e con-fezionamento del prodotto)-dall’inquinamento dell’eco-sistema alla perdita della biodiversità, dalle condizioni di allevamento degli animali alla manipolazione gene-tica, dalle nuove forme di sfruttamento del lavoro all’aumento delle disuguaglianze sociali - alimentano altrettante nicchie di mercato da soddisfare. Ne consegue che la componente propriamente soggettiva della domanda riconducibile al gusto per-sonale del consumatore, considerata in passato residuale, diviene oggi subordinata a fattori di natura culturale e socio-demografica (istruzione, età, contesto sociale), assumendo un ruolo di primo piano nel mercato. Questa componente consente un’attenta interpretazione della domanda - non solo alimentare - e della sua tra-sformazione, dal momento che le tradizionali variabili esplicative - prezzo, prezzi

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relativi e reddito - non sono più in grado, da sole, di farlo (Belliggiano, 2009). In effetti, da almeno tre decenni i mercati sono strutturati in base alle diverse

variabili su cui il consumatore di volta in volta può convergere: la convenienza in termini di prezzo, l’occasione di acquisto, la facilità di utilizzo, la durata del pro-dotto, il confezionamento (packaging), la qualità, l’ecologia, l’etica e il rispetto dei diritti dei lavoratori, il piacere, la salute, la dieta, la golosità,.

Nel capitolo si indaga su come il consumatore stesso compone e scompone le proprie aspettative in più dimensioni, in conseguenza delle dinamiche socioeco-nomiche che hanno investito l’Italia da oltre mezzo secolo, ricostruite dal Censis su dati Istat in una recente ricerca della quale si propone una rilettura (Censis/Coldiretti, 2010). In particolare, si riflette su alcuni item dell’indagine Censis-Swg sulle abitudini alimentari degli italiani, alla luce delle principali analisi di valenza nazionale sui consumi alimentari (Ismea, Istat, Fabris/Osservatorio sui consumi degli italiani). Ciò che emerge nel secondo paragrafo, è uno scenario in evoluzione, in cui il cittadino-consumatore è spinto a cercare nei prodotti alimentari soddisfa-zione a una molteplicità di bisogni. Tali bisogni vanno dalla sicurezza alimentare, in termini di caratteristiche igieniche e nutrizionali, alla sostenibilità ambientale, in termini di uso prevalente di risorse locali e rinnovabili, di utilizzo di prodotti e pro-cedimenti naturali, di rispetto per le condizioni di vita degli animali allevati, fino a tutta una serie di componenti etiche, dalla sicurezza sui luoghi di lavoro alla tutela dei lavoratori, dalla coesione sociale della comunità locale alla valorizzazione delle aree rurali di produzione e delle tradizioni enogastronomiche locali. In particolare, nel terzo paragrafo l’indagine verte sul consumo significativo dei prodotti di qualità DOP/IGP e su quello crescente dei prodotti biologici, espressione della sensibilità di un consumatore attento e responsabile al metodo di preparazione dei prodotti che consuma, alla loro origine e al loro contenuto non solo nutrizionale ma anche di valori.

1.2 Iconsumialimentaridellefamiglieitalianedaldopoguerraaoggi:ledinamichesocioeconomiche

È facile intuire come nel periodo della ricostruzione post bellica (1946-1961) l’economia si sia rimessa in moto con un aumento sensibile del reddito: i consumi degli italiani, secondo i dati Istat, sono cresciuti in termini reali del 293,6%, a fronte di una crescita comunque significativa nei 15 anni precedenti il conflitto mondiale (+14,3%), in cui aveva preso avvio la modernizzazione del Paese. L’Italia “contadina”,

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

investita da trasformazioni sociali “traumatiche” che avevano portato all’abbando-no delle campagne da parte di migliaia di famiglie, si trovava a vivere grandi cam-biamenti con la riforma agraria degli anni Cinquanta. Le nuove politiche agrarie, con un diverso uso del suolo, sono state finalizzate a rimuovere la società contadina tradizionalmente associata al latifondo e ai baronati - e legata alla diffusione della monocultura - a favore di una classe di contadini proprietari; tutto ciò sullo sfondo delle spinte verso l’industrializzazione e l’urbanizzazione del Paese che hanno se-gnato proprio l’esodo dalle campagne (Giuca, 2009a).

In pieno “boom economico”, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, esplodeva l’Italia “cittadina” creciuta e assoggettata a fini urbanistici, industriali e speculativi e iniziava la “dissoluzione” dell’Italia agricola: nel 1970 gli occupati in agricoltura scendevano a 4 milioni, poco più del 20% della popolazione attiva. In questo periodo, secondo il Censis (op. cit., 2010, p. 24) «decolla la corsa al benesse-re come motore dello sviluppo e della trasformazione socioeconomica del Paese; le famiglie conquistano quote crescenti di reddito e i consumi alimentari cominciano a evolversi anche in relazione agli impatti della rapida diffusione di nuove oppor-tunità tecnologiche, come gli elettrodomestici, e la disponibilità di cibi in lattina, omogeneizzati e surgelati».

Il Censis, che ha fotografato l’evoluzione delle abitudini alimentari e dei con-sumi degli italiani degli ultimi quaranta anni, ha enucleato le caratteristiche e gli indicatori economici principali suddividendoli in cinque tappe, ciascuna corrispon-dente ad altrettanti periodi (Prospetto 1). La definizione data a ciascuna tappa, di cui si riportano alcuni flash in questo e nel prossimo paragrafo, è di per sé una chiave di lettura.

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Prospetto1-Letappedell’evoluzionedelrapportoconiconsumialimentariinItalia:1970-2009*

Periodo e definizione

Caratteristiche prevalenti Principali indicatori economici

Fino agli anni Settanta:

“La fine delle povertà di massa”

- Progressiva soddisfazione dei bisogni di base

- I consumi crescono del 293% in termini reali dal 1946 al 1961

Anni Settanta:

“Il grande balzo in avanti”

- Cresce il reddito come aggregato di più redditi

- Crescono consumi e risparmi

- Dominano i consumi alimentari in casa

- Il 41% delle famiglie ha 2 percettori di reddito, il 18,3% più di due

- La spesa alimentare è pari al 20,9% del totale della spesa

- Aumento nel decennio della spesa alimentare pro capite reale del 12,1%

Anni Ottanta:

“L’era del pieno consumo”

- Cresce la quota patrimoniale e finanzia-ria dei redditi

- Si avviano i consumi di nuova acquisi-zione (seconda casa, seconda macchina, vacanze) tra i quali il mangiare fuori casa

- Nei consumi alimentari c’è sperimenta-zione del nuovo e segnali di eccessi

- Il reddito da capitale sale dal 12,3% al 19% del 1990

- Aumento nel decennio della spesa alimentare pro capite reale del 6,8%

- La spesa alimentare fuori casa sale a quasi il 38% del totale della spesa

Anni Novanta:

“Di tutto, sempre di più”

- Decollano i redditi finanziari

- I consumi continuano a crescere, inclusi quelli alimentari, ma a ritmo più rallenta-to

- Irrompe la Grande distribuzione organiz-zata (GDO)

- La quota delle azioni e dei fondi sul reddito pro-dotto sale dal 5,7% del 1990 al 21,7% del 2000

- Aumento nel decennio della spesa alimentare pro capite reale del 4,2%

- Il 44,1% della distribuzione avviene attraverso la GDO

Anni Duemila:

“Più qualità che quantità”

- Si blocca la corsa a più alti consumi

- Cresce l’attenzione alla qualità, alla sicu-rezza, all’impatto eco-sociale

- Il fuori casa conta come il mangiare in casa

- La GDO è il principale canale di vendita

- Diminuzione nel decennio della spesa alimenta-re pro capite del 4,3%

- 49,8% il valore della spesa alimentare fuori casa

- Oltre il 70% il valore della quota della GDO nel-la distribuzione commerciale

* Dato relativo all’ultimo anno del decennio .

Fonte: elaborazioni Censis su dati Istat

Il benessere economico generalizzato accompagna le famiglie italiane dal dopoguerra fino agli anni Settanta (Figg. 1.1 e 1.2), quando la spesa alimentare complessiva è pari al quinto del totale dei consumi e la spesa alimentare pro-capite raggiunge 1.626,00 euro nel 1979 (in valori dell’anno 2000), con un incremento ri-

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

spetto al decennio precedente del 12% in termini reali. Gli anni Settanta sono segnati, da un lato, dalla modernizzazione socioe-

conomica (imprenditoria, mobilità sociale, inurbamento, scolarizzazione di massa, femminilizzazione del lavoro) e, dall’altro, dalla prima grande crisi globale, causata dalla dipendenza energetica dall’estero e dal rialzo del prezzo del petrolio. «Con la crescita del reddito disponibile per la spesa - osserva il Censis (op. cit., 2010, p. 24)

- si avvia il passaggio verso una società dei comportamenti individuali e dei consumi come fattore primo caratterizzante gli individui». In questo decennio il Prodotto interno lordo (PIL), così come i consumi complessivi, crescono a un tasso medio annuo di quasi il 4%, mentre i consumi alimentari sfiorano un tasso di crescita del 2%. Seppure in aumento in termini reali, la spesa agricola subisce, però, una con-trazione; l’aumento dei prezzi al dettaglio di prodotti deperibili e freschi - salumi, caseari, latte, pesce - a forte rischio di inflazione accentua la tendenza dei con-sumatori a cercare il massimo risparmio sulle merci grocery dure e sulla piccola spesa quotidiana (Fabris, 2003).

Figura1.1-Tassomedioannuodicrescitarealedellaspesaalimentare,dellaspesatotaleedelPILinItalia(val.%)

Fonte: elaborazioni Censis su dati Istat

A cavallo tra questo decennio e gli anni Ottanta, prende avvio il processo di modernizzazione e di diversificazione dei canali commerciali. È l’epoca dell’orien-

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tamento al mercato in termini di spazio e non di presidio, superato l’ostacolo delle concessioni amministrative con una nuova legislazione, al fine di creare una rete, fino ad allora inesistente, di supermercati e ipermercati. Nel 1980 il peso della distribuzione moderna, in Italia, è del 30% contro il 70% della distribuzione tradi-zionale; tale rapporto si ribalta dieci anni dopo, quando il peso della distribuzione moderna è del 70% contro il 30% di quella tradizionale (AA.VV., 1994).

Negli anni Ottanta, secondo il Censis (op. cit., 2010, p. 25), «i consumi in generale, anche quelli alimentari, beneficiano di un raggiunto benessere che si esprime in nuova capacità di spesa, con la corsa al pieno consumo, e con una mag-giore attenzione alla capacità individuale di scegliere, di differenziarsi, di ritagliare i consumi sulle proprie esigenze». In questo decennio (Figg. 1.1 e 1.2) la quota della spesa alimentare sul totale scende al 17,2%, anche se si registra un incremento percentuale significativo del consumo alimentare pro capite, appena inferiore al 10%. Tuttavia, la spesa alimentare pro capite scende al 6,8% e praticamente si di-mezza rispetto agli anni Settanta. Il tasso medio annuo di crescita del PIL scende al 2,4%, al di sotto del tasso medio annuo di crescita della spesa alimentare (2,7%).

All’inizio degli anni Novanta le nuove tendenze nel comportamento di ac-quisto dei consumatori italiani per effetto dello sviluppo della distribuzione verso forme moderne e avanzate (si sviluppa la GDO), rendono necessaria, per l’industria alimentare e per il commercio (trade), una rivalutazione del punto di vendita come mezzo imprescindibile di differenziazione nel contesto competitivo (Fornari, 1994). Per tutto il decennio (Figg. 1.1 e 1.2) la spesa alimentare pro capite cresce a un ritmo piuttosto contenuto rispetto agli anni Ottanta (4,8%), mentre il suo incremen-to complessivo è del 4,2%. Si riduce al 15,4% la spesa alimentare come quota del totale dei consumi per effetto della diversa intensità di crescita dei vari aggregati. Si riducono ancora i tassi medi di crescita del PIL, dei consumi complessivi e dei consumi alimentari: i primi due scendono addirittura al di sotto del 2%.

Gli anni Novanta, osserva il Censis (op. cit., 2010, p. 26), sono caratterizza-ti «dalla moltiplicazione del consumo, dalla destrutturazione dei pasti in casa e da una ricerca ancora esplorativa di beni e servizi tendenzialmente esclusivi, non standard, riconoscibili che rappresentano una vera sfida per il mercato dell’offer-ta». I consumatori sono più esigenti, informati, orientati su molteplici direzioni e si presentano in più dimensioni combinabili, con esigenze e comportamenti com-plessi e variati (Zancani, 1993; Fabris, 2003). È esplicativa l’osservazione di Fabris (op. cit, 2003, p. 25): «dal consumatore unidimensionale della società di massa, o da soggetto rigido della società segmentata, si passa a un soggetto complesso, flessibile, multidimensionale, in cui le diversità coesistono, e che vive un’esistenza

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

a opzioni multiple, secondo la logica dell’iperscelta che si realizza in tutte le sfere che coinvolgono i consumi». I consumatori mostrano la tendenza a una maggiore razionalizzazione nelle scelte e alla ricerca di una comunicazione essenziale, guar-dano al primato della sostanza del prodotto a discapito dell’immagine (Calvi, 1994).

È interessante osservare che, in tale contesto, le strategie di comunicazio-ne commerciale basate essenzialmente sulla sostenibilità, sul valore ambientale della merce (green marketing) e sulla valenza salutistica del prodotto alimentare (cura del corpo e prevenzione) fanno leva sulle scelte di acquisto dei consumatori verso i prodotti biologici, che incarnano questi valori; le imprese che differenziano la propria produzione nel biologico o entrano nel settore, pertanto, guadagnano posizione in questa nuova nicchia di mercato (Giuca, 2009b).

Figura1.2-Quotadellaspesaalimentaresultotaleevariazioneinciascunde-cenniodellaspesaalimentareprocapiteinItalia(val.%evar.%)

Fonte: elaborazioni Censis su dati Istat

1.2.1 IlconsumatoredeglianniDuemila

Nel nuovo millennio (Figg. 1.1 e 1.2) si registra quello che il Censis ha defini-to un “mutamento epocale”, con il tasso medio annuo di crescita del PIL dello 0,9%, i consumi alimentari sostanzialmente fermi (+0,1%) e un modesto incremento me-

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dio annuo della spesa totale (+0,6%). Si allungano i tempi di sostituzione di beni come automobili ed elettrodomestici e la variazione percentuale nel decennio della spesa alimentare pro capite e di segno negativo (-4,3%), mentre comparti come quello dei prodotti alimentari biologici (oggi pari a circa il 3% della spesa alimenta-re complessiva delle famiglie italiane) e quello dei prodotti del benessere sembra-no andare controcorrente. Nel decennio risulta praticamente dimezzato, secondo l’Istituto di studi e analisi economica (ISAE)1, il potere d’acquisto della moneta e dal 2003 si registra un gap crescente tra reddito effettivo e reddito necessario per mantenere invariato il potere d’acquisto.

Sono gli anni della globalizzazione, dove i comportamenti di acquisto e di consumo sono sempre più soggettivi ed eterogenei, mentre si modifica il rapporto che le persone hanno con l’alimentazione. «Una certa insicurezza si installa nel cuore del sociale» osserva il Censis (op. cit., 2010, p. 26) e «a contare non sono più le dinamiche incrementali dettate dalla logica del di più è sempre meglio» ma le dinamiche espressione di nicchie altamente motivate dove la sicurezza e la genu-inità diventano obiettivi essenziali: dai prodotti di origine controllata e protetta, ai prodotti biologici, a quelli equo-solidali.

I prodotti grocery hanno subìto un processo di progressiva banalizzazione, in quanto l’attività di acquisto ha assunto, per il consumatore, un carattere di rou-tine alla quale dedicare poco tempo, privilegiando la scelta del punto di vendita a quella della marca dei prodotti e manifestando una forte propensione agli acquisti self service. Nel settore food le diverse modalità di consumo (e quindi degli atteg-giamenti nei confronti dei prodotti e delle singole marche), la molteplicità delle formule distributive e l’abbondanza dell’offerta hanno finito per incitare fortemente la clientela all’infedeltà, sia di marca (brand) sia di punto di vendita (store). Conse-guenza, anche, del ricorrente e spesso esclusivo uso, da parte delle singole azien-de di produzione e distribuzione, di azioni tattiche a breve termine, a discapito di azioni strategiche a lungo termine.

Ma, d’altra parte, se le strategie di comunicazione2 consentono di individuare i comportamenti di acquisto dei consumatori, riconducendoli a tipologie con carat-teristiche più o meno omogenee, è pur vero che oggi l’analisi del comportamento dei consumatori non poggia più su criteri socio-demografici o di stili di vita, ma sul tipo di acquisto legato al gusto - tra l’altro, eterogeneo e mutevole - e sulle ca-ratteristiche del punto di vendita, conseguenza di un allargamento delle opzioni e

1 Dati disponibili on line (www.isae.it).

2 Cfr. capitolo 3.

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

della libertà di scelta per le famiglie. I consumatori degli ultimi anni, pertanto, non sono più classificabili in target definiti, in quanto i loro comportamenti di consumo presentano aspetti anche contraddittori.

Certo, i consumatori di oggi sembrano apprezzare stili di vita improntati alla condanna degli sprechi, alla sostenibilità ambientale e a privilegiare prodotti a mar-chio che si distinguono per una maggiore attenzione alla dimensione etica (Fabris, 2010). La crisi economica internazionale - e le conseguenze sul settore agroalimen-tare, soprattutto a partire dall’ultimo trimestre del 2009 -, però, non sembrano aver indotto il consumatore, come osserva il Censis (op. cit., 2010, p. 3), a «rassegnarsi a una qualità non adeguata dei prodotti alimentari o rinunciare in alcuni momenti o per alcuni specifici bisogni a togliersi qualche sfizio spendendo qualche soldo in più». Anzi, Fabris (op. cit., 2010) mette in discussione il mito del PIL come indicatore assoluto di sviluppo perché il consumatore, anche se spende meno - nel 2009 la spesa media mensile per generi alimentari e bevande, pari a 461 euro, si è ridotta del 3% rispetto al 2008 (Istat, 2010a), si è accorto che può spendere meglio3, rispet-tando gli altri e l’ambiente senza rinunciare alla qualità, soprattutto grazie al web, che si sta rivelando un moltiplicatore di informazioni.

Il consumatore odierno finisce, allora, per incasellarsi in più dimensioni combinabili, con esigenze e comportamenti complessi e variati che oscillano tra l’attenzione alla salute e la gratificazione del palato, tra la responsabilità sociale e il consumismo, privilegiando la qualità alla quantità. Si tratta di un soggetto polie-drico che si mostra nomade e disorientato ma pragmatico e competente, selettivo e curioso, attento ai dettagli, esigente in quanto a prodotti e servizi personalizzati e attento al sociale, essendo disposto a pagare di più per un prodotto di qualità, la cui produzione rispetta l’ambiente e i diritti dei lavoratori (Fabris, 2009).

Le più recenti ricerche (Censis, Ismea, Istat, Fabris/Osservatorio sui consu-mi degli italiani) tracciano il profilo di un consumatore italiano che affianca pasti tradizionali e completi a pasti frammentati ed extra-domestici, con quote di consu-mo alimentare in linea con il resto dell’Europa, secondo i più recenti dati Eurostat

3 Nel 2009, il 35,6% delle famiglie italiane ha ridotto la quantità e/o la qualità dei prodotti alimentari acquistati; tra queste, il 63% ha diminuito solo la quantità, mentre il 15% ha ridotto, oltre alla quan-tità, anche la qualità. Rispetto al 2008, la spesa media mensile delle famiglie è diminuita soprattutto per pane e cereali, oli e grassi, patate, frutta e ortaggi, zucchero, caffè, bevande, con contrazioni più accentuate nelle regioni del Centro-Sud (Istat, 2010a). Secondo le rilevazioni ISMEA/Nielsen (Ismea, 2010) solo alcuni prodotti del fresco (ortaggi, ittici, avicoli) e i salumi hanno fatto segnare una cre-scita nel 2009, mentre altri prodotti sono suscettibili di un’espansione dei consumi di medio periodo; su tali tendenze incidono non solo fattori congiunturali legati agli effetti della crisi (prezzi) ma anche fattori strutturali connessi ai diversi stili di vita delle famiglie (ad esempio ricerca di prodotti a forte contenuto salutistico e di servizio).

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(Tab. 1.1); si tratta di un consumatore “polivalente” che acquista prodotti freschi, a denominazione di origine, biologici ed equo-solidali ma anche snack, surgelati, scatolame e semipronti. Il consumatore odierno, secondo la definizione del Censis (op. cit., 2010, pp 1-2) è, dunque, «un “io che decide” la combinazione di luoghi di ac-quisto, il contenuto del carrello (Tab. 1.2) e le portate sulla tavola in base alle proprie preferenze, abitudini, prassi, aspettative e, ovviamente, alle risorse di cui dispone».

Tabella1.1-SpesadellefamiglieperconsumialimentariinalcuniPaesiUEQuota % consumi

alimentari

su totale

Quota pasti % extradomestici su

domestici

Var %

media annua2002-07

2007 2007 domestici extradomestici

Grecia 27,6 61,5 3,7 4,9

Ungheria 25,8 15,0 3,9 6,3

Italia 22,8 48,0 2,2 3,1

Finlandia 21,8 37,7 2,5 4,2

Francia 19,5 33,5 1,7 2,9

Austria 19,4 66,3 2,7 2,5

Belgio 19,1 31,4 2,2 2,2

Germania 17,2 36,6 0,7 1,1

Paesi Bassi 16,7 38,1 1,4 1,7

Totale UE-27 21,5 51,5 2,6 3,5

Fonte: Eurostat

Tabella1.2-Iprodottisentinellaacquistatidallefamiglieitaliane*Val. %

Prodotti surgelati 69,6

Prodotti a marchio commerciale, del distributore (es. prodotti Coop) 65,0

Scatolame 58,7

Acquisto diretto dal produttore (inclusi i mercati del contadino) 41,4

Verdure lavate e tagliate già pronte (insalate, carote, pomodorini) 38,7

Prodotti DOP/IGP 29,1

Frutta e verdura da agricoltura biologica (non trattata con pesticidi o conservanti) 28,6

Cibi precotti, già pronti 20,3Prodotti del commercio equo e solidale (es. cioccolata, caffè e altri prodotti alimentari provenienti da Paesi in via di sviluppo) 19,4

Cibi etnici, diversi da quelli tradizionali del proprio Paese (es. cucina orientale, cibi messicani, cibi indiani)

11,3

* Si tratta di prodotti particolarmente rappresentativi di comportamenti di acquisto e consumo, nonché del contenuto

del rapporto con gli alimenti. Il totale non è uguale a 100 poiché erano possibili più risposte.

Fonte: Indagine Censis-Swg, 2009

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

A corollario di ciò, è interessante notare come, nel nuovo millennio, sia au-mentata l’incidenza dell’alimentazione extradomestica sui consumi alimentari (Tab. 1.1) per esigenze lavorative, voglia di convivialità o semplicemente per gusto e golosità, con i consumatori che rinunciano occasionalmente al salutismo che pure caratterizza l’ultimo biennio. Allo stesso tempo cresce, nell’alimentazione domestica, l’orientamento verso prodotti meno cari, succedanei di quelli abitualmente acquistati o a marchio del distributore, ma senza rinunciare alla qualità. Come evidenziato nella tabella 1.3, gli acquisti domestici degli ultimi anni interessano maggiormente i canali di vendita della GDO, all’insegna della convenienza e dei servizi; secondo le stime Ismea (2009c), il canale discount è l’unico che, nel 2008, ha fatto segnare incrementi sostenuti delle vendite a fronte di una variazione media annua dei prezzi inferiore a quella degli al-tri canali di vendita, mentre nel 2009 si assiste alla riscoperta degli esercizi di prossimità (liberi servizi)4 e alla marginalizzazione del dettaglio tradizionale (Ismea, 2010d).

Tabella 1.3 – Quantità e prezzi dei prodotti alimentari acquistati dalle famiglieitalianepercanaledivendita(variazioni%)*

Quantità ** Prezzi **

Var. %Var. % media

annuaVar. %

Var. % media annua

2009/08 2008/07 2004-2009 2009/08 2008/07 2004-2009

Supermercati ipermercati 1,0 0,1 1,9 -2,9 4,7 1,8

Discount 10,1 10,9 7,8 -0,7 6,2 2,0

Liberi servizi 9,2 -6,5 -3,3 2,2 4,9 2,6

Dettaglio tradizionale -8,3 -2,8 -5,1 2,8 4,4 3,3

Altri (***) -7,5 -1,2 -3,2 6,0 6,3 4,3

Totale canali di vendita 0,8 0,5 0,5 -1,5 4,4 2,1

* In ordine decrescente secondo il peso percentuale della quota sul totale dei canali di distribuzione.

** Indici concatenati, 2000 = 100.

*** Cash & Carry, ambulanti, mercato rionale, produzione propria, porta a porta, ricevuto in regalo, altre fonti.

Fonte: Ismea

Riguardo alla frequenza degli acquisti alimentari, l’indagine Censis (op. cit., 2010) ha rilevato che il 61% degli italiani fa la spesa settimanalmente, il 27% ef-fettua acquisti giornalieri e il 2% addirittura una volta al mese. La convenienza in termini di prezzi (38,5%) e la disponibilità di promozioni, offerte e sconti (37%) sono i criteri prevalenti che spiegano la preminenza della GDO nella scelta del canale di

4 Strutture di piccoli commercianti con un’area di vendita al dettaglio che va dai 100 m² ai 400 m², inferiore a quella dei supermercati (classificazione Nielsen: http://it.nielsen.com).

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acquisto da parte dei consumatori: infatti, si reca al supermercato/minimarket più frequentemente il 53% del campione indagato, seguito dall’ipermercato (43,4%) e dal negozio specializzato (19%).

1.3 Ilconsumatoresensibileall’eticaagroalimentarebasatasullasostanza(qualità)delprodotto

Negli ultimi anni, sulla spinta emozionale di eclatanti episodi di sofisticazione, adulterazione e contraffazione alimentare e di emergenze sanitarie di rilevante portata, come l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE) e l’influenza aviaria, il cibo ha assunto un ruolo primario nel rapporto con l’ambiente in cui il cittadino-consumatore si trova a vivere. Pertanto, oggi, i prodotti alimentari sono chiamati a rispondere sempre più – alle regole del mercato e ai consumatori -,da un lato, in termini di igiene, trasparenza e rintracciabilità5 e, dall’altro, in termini di provenienza, metodi di coltivazione, processi di produzione, confezionamento e distribuzione, proprietà nutrizionali, nuove tendenze e valori (ecologici, etici, culturali, sociali, ecc.).

I consumatori odierni esigono sempre più qualità e tipicità. La qualità è perce-pita attraverso l’informazione esterna (pubblicità, passaparola), attraverso una serie di indicatori intrinseci (gusto, aspetto, salubrità) e estrinseci (marca, origine dei prodotti, marchio di qualità) e, soprattutto attraverso tutti quegli elementi attrattivi, come la convenience (rapporto qualità attesa/prezzo) e il servizio, come la conservabilità e la facilità d’uso (Giuca, 2010a). La “tipicità alimentare” è anch’essa ben nota al consuma-tore, che ne associa significati differenti ma comunque riconducibili alla presenza di un legame tra prodotto e territorio; tale legame può trovarsi nell’origine geografica delle materie prime oppure nella localizzazione delle attività di trasformazione, lavorazio-ne, conservazione o stagionatura o, ancora, nelle metodiche di lavorazione consolidate nella tradizione e nella cultura dei territori di origine (Nomisma, 2001; Pencarelli, For-lani, 2006). Tra l’altro, il territorio come patrimonio della comunità, fonte di identità e di sicurezza, è un elemento riconducibile anche all’accorciamento della filiera (Sassatelli, 2010), con prodotti ottenuti e commercializzati all’interno della medesima fattoria o

5 Tutti gli Stati membri dell’Unione europea possono contare su un sistema disciplinare unitario, or-ganizzato per principi e finalità, e su strumenti innovativi condivisi, in grado di garantire al consu-matore europeo livelli di protezione elevati e prodotti alimentari sicuri lungo l’intero percorso “dai campi alla tavola”; gli elementi caratterizzanti il sistema, in cui l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) svolge un ruolo fondamentale, sono: il controllo di filiera; la responsabilizzazione del produttore; la rintracciabilità dei percorsi di alimenti, mangimi e loro ingredienti; i sistemi di allarme rapido sui rischi alimentari; l’informazione al consumatore (INEA, 2009).

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

agriturismo, nelle fiere o presso strutture locali (negozi, ristoranti, scuole).In un mercato ormai globalizzato che propone prodotti spersonalizzati

dall’industria, con etichette indicative di prodotti generici (ad esempio 100% italia-no), privi di identità tipica certifica e rintracciabile, il consumatore si mostra par-ticolarmente sensibile all’etica agroalimentare, basata sulla sostanza (qualità) del prodotto, forte del recupero delle tradizioni olfattive e gustative legate alle origini territoriali o aziendali, rilevate nella certificazione o ereditate da una tradizione pro-duttiva (Fonseca, Ruggieri, 2009). L’attenzione delle stesse aziende e del marketing per la zona di origine di un prodotto, considerata da sempre elemento influente nel processo decisionale di acquisto dei generi alimentari6, è andata crescendo con il riconoscimento giuridico delle denominazioni di origine DOP e IGP7.

Ugualmente, il metodo naturale di produzione, la valenza ambientale, l’as-senza di organismi geneticamente modificati (OGM), la “sanità” del prodotto - ov-vero l’assenza di residui di sostanze nocive e l’assenza di coloranti e conservanti nei prodotti confezionati, aumentano la percezione di questi prodotti come alimenti di elevata qualità e ne determinano l’attrattività per i consumatori. Si tratta di un insieme di elementi che i consumatori associano ai prodotti biologici, come di-mostrano numerose ricerche (Berardini et al., 2006; Ismea, Area & Studio Cresci, 2006; Cicia, 2007; Van Der Borg et al., 2007; Ismea, 2008).

Nel complesso, l’andamento del mercato delle DOP/IGP, dei vini DOC-DOCG e dei prodotti biologici (Fig. 1.3), seppure segnato dalla recente congiuntura ne-gativa che ha ridotto il potere di acquisto delle famiglie, è trainato dalla voglia di riscoprire le cosiddette “buone cose di una volta”, di guardare alle origini culturali eno-gastronomiche, alla valenza salutistica e ambientale e, in genere, a tutti quei requisiti con una forte componente etica e sociale in quanto valorizzano e promuo-vono le risorse locali. Allo stato attuale i consumi di questi prodotti, e in particolare dei prodotti biologici, che saranno approfonditi nei paragrafi seguenti, testimonia-no la propensione dei consumatori, consapevoli e sensibili, a spendere meno ma meglio (poco ma di qualità), a razionalizzare (ad esempio nei vini di qualità) senza rinunciare, tuttavia, ai valori intrinseci e all’etica agroalimentare dei cibi che scel-gono di portare sulle loro tavole.

6 In Italia, ad esempio, la tutela delle produzioni tipiche - che ha contribuito a rendere famosi in tutto il mondo i nostri prodotti - vanta un’esperienza, anche normativa, di oltre mezzo secolo: il ricono-scimento della denominazione di origine controllata (DOC) ha riguardato i formaggi già negli anni Cinquanta, con la legge 125/54, i vini nel decennio successivo, con la legge 930/63, e poi salumi, olio, ortofrutticoli negli anni Ottanta e Novanta.

7 Il riconoscimento della denominazione di origine e dell’indicazione geografica dei prodotti agricoli è avvenuto con il regolamento CEE 2081/92, abrogato e sostituito dal regolamento CE 510/2006.

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Figura1.3-Evoluzionedell’andamentoinvaloredegliacquistidomesticidipro-dottiagroalimentariadenominazionediorigineebiologiciconfezionatiinItalia*

* Variazioni % sull’anno precedente. ** Primi dieci mesi del 2009.

Fonte: Ismea/Nielsen

1.3.1 IconsumideiprodottiDOP/IGP

Nei prodotti tipici certificati DOP/IGP è, dunque, il territorio che genera la qualità, le caratteristiche o anche la semplice rinomanza del prodotto (Albisinni et al., 2007). Il riconoscimento comunitario ha così rappresentato, all’interno del mercato unico euro-peo, uno strumento innovativo per la tutela e la valorizzazione delle produzioni agricole e agro-alimentari mediterranee, caratterizzate dalla vocazione del territorio, dalla tradi-zionalità dei saperi e artigianalità delle tecniche. Tale strumento, infatti, si è inserito in un contesto internazionale in cui alla produzione di massa dei beni alimentari è subentrata una produzione differenziata, limitata e flessibile alle esigenze di mercato, esitata da nuo-vi format commerciali (ipermercati, centri commerciali) e soddisfacente nuovi modelli di consumo e nuove modalità di vendita, frutto del processo di modernizzazione e diversifi-cazione in atto nel sistema distributivo internazionale.

Alcuni prodotti DOP/IGP hanno caratteristiche e dimensioni di mercato simili ai prodotti di largo consumo indifferenziati, con una reputazione consolidata, soprattutto per quanto riguarda i prodotti trasformati come formaggi, salumi, olio e vini8, che sono

8 Con l’entrata in vigore, il 1° agosto 2009, della riforma del settore vitivinicolo - reg. CE 479/08, reg. CE 491/09 - i vini DOC, DOCG e IGT transitano automaticamente nel nuovo registro comunitario delle DOP e IGP (reg. CE 607/09, reg. CE 401/10). La disciplina sulla tutela delle denominazioni di origine dei vini è dettata, in Italia, dal d.lgs. 61/10 che ha abrogato la legge 164/92.

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

esportati in tutto il mondo. Altri, invece, rappresentano eccellenze di nicchia, con una forte specializzazione tanto delle materie prime quanto della localizzazione della trasfor-mazione; alcuni di questi prodotti sono a “filiera chiusa”, ovvero consumati nell’ambito della ristretta area di produzione9 oppure sono conosciuti e consumati da una fascia “eli-taria” di estimatori nazionali e persino internazionali. Tutti i prodotti DOP e IGP, però, si caratterizzano come “arte del particolare” ed anche quando presentano caratteristiche di commodity (pasta, pane, conserve di pomodoro), essendo legati a territori di eccellenza paesaggistica, culturale e artistica in grado di esprimere valori materiali e immateria-li riconoscibili dal consumatore, possono contribuire allo sviluppo di determinate aree rurali nel rispetto dell’eco-sistema, soprattutto se valorizzati in sede locale (agriturismo, vendita diretta, ristorazione).

Il mercato nazionale dei prodotti DOP/IGP è in continua crescita, sia come nu-mero di denominazioni e di prodotti in attesa di riconoscimento, sia per valore e quan-tità prodotte, con un maggiore orientamento verso il mercato interno, in particolare per il consumo domestico, e un buon andamento della domanda estera. Nel quinquennio 2005-2009 (Istat, 2010b) il settore ha fatto segnare un consistente incremento (Tabb. 1.4-1.6) sia del numero delle specialità riconosciute (+26%) e attive (+27,7%)10 sia dei pro-duttori (+41,6%) e delle strutture produttive (+61,5% gli allevamenti e +27,6% le superfici coltivate), con un aumento più contenuto dei trasformatori (+6,1%) dovuto alla riduzione del loro numero nel 2008. Complessivamente, si contano 77.427 produttori e oltre 47.200 allevamenti nel 2009, per una superficie totale di 138.900 ettari.

Tabella1.4–DOP/IGP:prodotti,struttureproduttiveesuperficiinItalia,2005-09* Anno Var. 2009/2005

2005 2006 2007 2008 2009 assolute %

Prodotti DOP/IGP (n.) 154 156 166 175 194 40 26,0di cui attivi 141 153 161 167 180 39 27,7

Produttori (n.) 54.678 62.539 75.448 75.963 77.427 22.749 41,6

Trasformatori (n.) 5.718 5.681 6.034 5.812 6.065 347 6,1

Allevamenti (n.) 29.287 33.802 44.390 46.290 47.291 18.004 61,5Superfici (ha) 108.824 124.258 128.100 132.250 138.900 30.076 27,6

*Un’azienda agricola può condurre uno o più allevamenti e un trasformatore può svolgere una o più attività di

trasformazione.

Fonte: Istat

9 In alcuni casi questi prodotti si avvalgono di specifiche forme di vendita diretta, come la vendita per corrispondenza, l’e-commerce, la consegna a domicilio a singoli o a gruppi organizzati di consuma-tori (Carbone, 2006).

10 I prodotti attivi sono quelli per cui viene effettuata, controllata e certificata la produzione e/o la tra-sformazione nell’anno di riferimento.

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Tabella1.5-DOP/IGP:produttorietrasformatoripercompartoinItalianelbien-nio2008/09*

Produttori Trasformatori

Var. % Var. %Comparto 2008 2009 09/08 2008 2009 09/08

Carni fresche 3.696 5.746 55,5 872 866 -0,7

Preparazioni di carne 4.274 4.123 -3,5 678 695 2,5

Formaggi 33.999 32.749 -3,7 1.671 1.695 1,4

Altri prodotti di origine animale 114 64 -43,9 28 18 -35,7

Ortofrutticoli e cereali 15.450 15.776 2,1 573 706 23,2

Oli extravergini di oliva 18.167 18.708 3,0 1.565 1.537 -1,8

Aceti diversi dagli aceti di vino 149 150 0,7 313 445 42,2

Prodotti di panetteria 8 9 12,5 23 21 -8,7

Spezie 76 73 -3,9 79 74 -6,3

Oli essenziali 30 30 - 10 8 -20,0

Totale 75.963 77.427 1,9 5.812 6.065 4,3

* Un’azienda agricola può condurre uno o più allevamenti e un trasformatore può svolgere una o più attività di trasformazione.

Fonte: Istat

Tabella1.6-DOP/IGP:allevamentiesuperficipercompartoinItalianelbiennio2008/09

Allevamenti (n.) Superfici (ha)

Var% Var %Comparto 2008 2009 09/08 2008 2009 09/08

Carni fresche 3.727 5.818 56,1 - - -

Preparazioni di carne 5.245 5.158 -1,7 - - -

Formaggi6t 37.204 36.250 -2,6 - - -

Altri prodotti di origine animale 114 65 -43,0 - - -

Ortofrutticoli e cereali - - 42.921,5 45.315,0 5,6

Oli extravergini di oliva - - 88.814,3 92.981,0 4,7

Aceti diversi dagli aceti di vino - - 202,9 200,1 -1,4

Prodotti di panetteria - - 84,6 178,7 111,3

Spezie - - 7,1 9,7 35,5

Oli essenziali - - 219,7 215,8 -1,8

Totale 46.290 47.291 2,2 132.250 138.900 5,0

Fonte: Istat

Nel 2008 il fatturato alla produzione ha toccato i 5,3 miliardi di euro e il fattu-rato al consumo ha totalizzato 9,8 miliardi di euro, il 20% circa realizzato sui mer-

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

cati esteri, per un totale di 1,8 milioni di tonnellate di produzione e 106.000 aziende certificate11 coinvolte (Osservatorio Qualivita, 2010); il 93% delle strutture operative è rappresentato da aziende agricole e allevamenti e solo il 7% da strutture di tra-sformazione artigianali e industriali. Per effetto del riconoscimento assegnato da pochi anni alle mele del Trentino, il settore ortofrutticoli e cereali si è collocato per il terzo anno consecutivo, secondo l’Osservatorio Qualivita (op., cit., 2010), al primo posto per quantità certificata (62,7% del totale delle produzioni DOP/IGP), seguito da formaggi (25,1%), prodotti a base di carne (11,3%) e oli extravergini di oliva (0,5%).

L’Italia si distingue a livello europeo per numero di prodotti DOP/IGP12, con denominazioni di alta reputazione a livello internazionale come il Parmigiano Reg-giano, il Grana Padano e il Prosciutto di Parma. Tuttavia, la produzione complessiva dei prodotti certificati continua a essere trainata da meno del 9% dei prodotti che hanno ottenuto il riconoscimento comunitario; se si guarda ai primi 15 prodotti di qualità certificata per produzione e fatturato nel 2008, questi rappresentano, complessivamente, oltre il 90% della produzione totale DOP/IGP e realizzano oltre il 90% del fatturato al consumo totale. Si tratta, però, di certificazioni che stori-camente rappresentano le grandi produzioni tipiche italiane (formaggi e salumi) e che, complessivamente, realizzano l’80% del fatturato alla produzione totale di DOP/IGP, e di 2 prodotti ortofrutticoli con un forte peso sul mercato dei prodotti a marchio collettivo: la “Mela Alto Adige” che ha ottenuto l’IGP nel 2005 e la “Mela Val di Non” che ha ottenuto la DOP nel 2003. A seguire, tra le oltre 180 denominazioni che rappresentano, insieme, meno dell’8% della produzione totale DOP/IGP e circa il 5% del fatturato alla produzione totale, vi sono prodotti di grande potenzialità come l’Arancia Rossa di Sicilia IGP che, da sola, costituisce il 50% della produzione nazionale di arance.

Nel 2008 quasi il 47% delle vendite in volume è confluito alla GDO, il 33% ai grossisti e il 9,3% ai negozi tradizionali, con situazioni differenziate a seconda dei comparti; i prodotti a base di carne sono esitati attraverso la GDO per quasi il 62% della quantità prodotta e attraverso il dettaglio tradizionale per quasi il 24%, mentre ortofrutticoli e cereali sono confluiti ai grossisti per il 59% (Ismea, 2010a). Quote contenute di prodotti DOP/IGP, secondo Ismea, sono state destinate: al ca-

11 Aziende che ricevono la registrazione finale DOP/IGP e quindi si trovano nella fase finale della filiera, ad esempio le aziende che effettuano l’imbottigliamento per gli oli extravergine di oliva (Osservato-rio Qualivita, 2010).

12 L’Italia, con 213 prodotti certificati al 28/09/2010 (133 DOp, 78 iGp e 2 StG), pari al 22,3% del totale dei prodotti certificati UE (955), è leader europeo, davanti a Francia (174) e Spagna (142).

32

nale Ho.Re.Ca, ovvero alberghi, ristoranti, bar, catering, ecc. (4,7%), con punte del 10,5% per i prodotti a base di carne; alla vendita diretta (2,5%), attraverso la quale è passato quasi il 17% degli oli extravergini di oliva; al dettaglio specializzato (1,9%) e ai mercati rionali (1,2%), attraverso i quali è esitato quasi il 6% dei formaggi a denominazione di origine.

A conferma del fatto che le vendite maggiori di prodotti DOP/IGP avvengono presso la grande distribuzione su tutto il territorio nazionale, coinvolgendo segmenti differenziati di consumatori, nel 2008, secondo Ismea (op. cit., 2010a), la quota della GDO ha guadagnato 3,7 punti in valore assoluto sugli altri canali13; infatti, quasi l’80% delle vendite complessive di prodotti DOP/IGP (oltre il 91% di prodotti a base di car-ne e oltre il 93% di ortofrutticoli e cereali) ha interessato aree che superano i confini regionali, poco più del 19% è rimasto nella regione di provenienza dei prodotti e solo il 2% della produzione commercializzata sul mercato nazionale è stata destinata al mercato locale. È interessante notare come la specificità della zona sia molto sentita per i formaggi, quasi il 40% dei quali vengono venduti nei mercati regionali, e per gli oli extravergini di oliva, un quarto dei quali viene commercializzato a livello locale e re-gionale. Nel 2008, le vendite dei prodotti DOP/IGP sui mercati locale e regionale hanno guadagnato quota sulle vendite sul mercato nazionale (complessivamente, 3,2 punti in valore assoluto): ciò conferma l’attenzione dei consumatori al rapporto tra il cibo e il proprio territorio, vissuto come un contesto ben conosciuto e rassicurante.

Nel 2008 gli incrementi nell’export di prodotti DOP/IGP, “carta di identità” del made in Italy, risultano meno consistenti del 2007; si segnalano, comunque, aumen-ti in quantità (5%) maggiori rispetto a quelli in valore (3%), con modesti aumenti nei comparti dei formaggi e dei prodotti ortofrutticoli e una riduzione del comparto dei prodotti a base di carne (Ismea, 2010a). Il fatturato all’export ha invece sfiorato, nel 2009, il valore di 1,3 miliardi di euro, con una crescita di quasi il 15% sul 2008 (Ismea, 2010c). Il mercato domestico, invece, ha fatto segnare, nel 2008, una flessione in vo-lume (-4,3%) compensata da un aumento in valore (2,3%) per effetto della crescita dei prezzi al consumo. D’altra parte, a fronte della limitata crescita del potere di acquisto delle famiglie legata alla recente crisi economica e finanziaria, la crescita dei prezzi dei prodotti alimentari degli ultimi anni potrebbero aver penalizzato l’ulteriore sviluppo del settore delle DOP/IGP il cui ruolo sui consumi agroalimentari domestici è stimato da Ismea in una quota di circa il 18% della spesa totale, che sale al 24% circa per i for-maggi e si attesta intorno al 12% per i prodotti a base di carne e al 2,5% per gli oli; nel

13 Secondo le prime anticipazioni, nel 2009 la distribuzione degli acquisti domestici di prodotti DOP e IGP per canale distributivo ha interessato, per il 69%, supermercati e ipermercati, per il 12% il dettaglio tradizionale e per il 7% i discount (ISMEA, 2010c).

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

2009, infatti, si registra una riduzione in valore del volume degli acquisiti domestici dei prodotti a denominazione di origine (-1,1%), appena compensata nel primo semestre del 2010 (+0,1%). Il settore, d’altra parte, è caratterizzato da un livello dei prezzi più alto rispetto ai corrispondenti prodotti convenzionali; secondo le analisi comparative dell’Ismea (op. cit., 2010a), oli extravergini, riso e salumi con denominazione di origine costano in media, rispettivamente, il 57%, il 29% e il 30% in più degli omologhi prodotti senza riconoscimento UE. In particolare (Tabb. 1.7-1.8), gli oli extravergini di oliva DOP/IGP, che pure avevano fatto registrare un buon incremento in quantità e valore nel 2008, hanno subìto un calo sostenuto nel 2009, ancora più accentuato nel primo semestre del 2010, in gran parte dovuto agli effetti della crisi sui prezzi. Nel 2009 sono ripresi i consumi di prodotti a base di carne, con buone performance per la Bresaola della Valtellina e lo Zampone di Modena, ma nel primo semestre del 2010 si registra una contrazione negli acquisiti di questi prodotti. I formaggi a denominazione, trainati da produzioni storiche e rinomate come il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano, hanno tenuto bene il mercato (Tabb. 1.7 e 8). Il segmento della frutta fresca DOP/IGP, invece, è quello che maggiormente ha accusato una contrazione dei consumi durante l’ultimo triennio, riducendosi sensibilmente in quantità e valore (Tab. 1.7).

Tabella1.7-AndamentodeiconsumidomesticidiquattrosegmentidiprodottiDOP/IGPinItalia

Quantità Valore

Var. % 2008/07

Var. % 2009/08

Var. % 2010/09 *

Var. % 2008/07

Var. % 2009/08

Var. % 2010/09 *

Formaggi -0,5 0,9 0,8 4,0 -0,9 2,3

Prodotti a base di carne -5,7 2,8 -3,9 -3,3 1,1 -6,4

Oli extravergini di oliva 21,3 -19,6 -19,7 12,0 -22,6 -17,9

Frutta fresca -9,9 -1,7 3,7 -2,9 -8,5 -4,3

Totale -4,3 -0,1 1,7 2,3 -1,1 0,1

* Primo semestre 2010 rispetto al primo semestre 2009.

Fonte: Ismea /Nielsen

È interessante notare come, tra coloro che dichiarano di acquistare regolar-mente prodotti DOP/IGP, il 77,7% acquista regolarmente surgelati, il 67,6% scato-lame e oltre il 29% acquista anche cibi precotti, mentre addirittura il 22,6% si reca presso i fast food almeno una volta a settimana (Censis/Coldiretti, 2010). Dunque, si tratta di un comportamento che denota grande attenzione dei consumatori alla qualità e all’etica agroalimentare anche quando queste comportano, come nel caso

34

dei prodotti a denominazione di origine, una spesa mediamente più alta, ma senza rinunciare al consumo di altri alimenti che soddisfano, abitualmente o anche solo occasionalmente, bisogni diversi (golosità, convenienza, praticità, ecc.). Tutto ciò conferma, come si è avuto modo di descrivere nelle pagine precedenti, un consu-matore odierno “polivalente”, che si muove in più direzioni anche se, sullo sfondo di scelte dettate da una maggiore sensibilità verso i temi salutistici e ambientali, come si dirà più avanti, il consumatore è portato a soffermarsi sui prodotti biologici in modo maggiore rispetto ai prodotti che hanno una denominazione d’origine.

Tabella1.8-VariazionedegliacquistidomesticideiprincipaliprodottiDOP/IGP*

Quantità Valore

Var.% ‘07/06

Var. % ‘08/07

Var. % ‘09/08**

Var.% ‘07/06

Var. % ‘08/07

Var. % ‘09/08**

Parmigiano Reggiano DOP -4,3 0,0 -1,9 -2,1 4,0 -45

Grana Padano DOP -1,8 4,0 2,3 1,7 8,2 -2,6

Prosciutto di Parma DOP -6,0 -5,3 -1,1 -3,6 -3,6 -2,8

Mozzarella di Bufala Campana DOP 4,9 -10,9 6,7 6,8 -9,5 5,6

Gorgonzola DOP 15,0 0,0 -6,3 15,8 9,4 -8,2

Prosciutto di San Daniele DOP 6,3 -5,0 7,4 5,9 -3,0 8,9

Asiago DOP -4,6 1,1 2,2 -1,0 10,5 0,5

Pecorino Sardo DOP 2,3 -3,6 -0,2 4,0 -0,4 1,7

Pecorino Toscano DOP -1,6 -1,7 -53 -2,6 0,6 -2,0

Pecorino Romano DOP -7,4 4,6 1,4 -3,0 13,2 6,4

Montasio DOP -7,5 -1,5 -2,6 -7,0 8,3 -2,6

Taleggio DOP -6,1 -1,3 -0,3 -2,4 5,9 -4,5

Speck dell’Alto Adige IGP 13,9 25,6 9,0 10,7 27,8 2,4

Bresaola della Valtellina IGP 85,7 -21,1 30,9 83,4 -13,7 26,5

Quartirolo Lombardo DOP -1,6 -4,7 -12,1 -1,0 2,8 -11,7

Oli DOP Puglia*** 8,6 26,0 -44,8 9,2 1,0 -50,9

Oli DOP Toscana*** -10,6 -9,2 -29,9 6,6 -7,3 -34,4

Mortadella Bologna IGP 28,0 -9,8 -26,7 70,1 -6,2 -25,3

Zampone Modena IGP 7,3 -14,0 13,7 11,7 -7,1 16,5

Olio extravergine di oliva Riviera Ligure DOP -14,3 11,1 -11,3 -18,8 23,2 -19,2

* Ordinati in modo decrescente in base alla graduatoria degli acquisti in valore 2008.

** gennaio-ottobre 2009 rispetto allo stesso periodo del 2008.

*** Oli extravergine di oliva DOP e IGP diversi, delle regioni Puglia e Toscana.

Fonte: ISMEA/Nielsen

35

parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

1.3.2 Iconsumideivinidiqualità

La propensione a razionalizzare i propri acquisti si è fatta particolarmente sentire nel settore dei vini di qualità DOC-DOCG e IGT14 (Tab. 1.9), particolarmente apprezzati dai consumatori di vino; le quantità di vini DOC-DOCG acquistate dal-le famiglie italiane, infatti, sono aumentate mediamente del 3% nel quinquennio 2004-2008, nonostante nello stesso periodo si sia verificato un aumento medio dei prezzi al consumo di questi prodotti del 3,1% (Ismea, 2009e).

Tabella1.9-VariabilistrutturaliperiprimidieciviniDOC-DOCGeperiprimidieciviniIGT,2008

N.

denunce

Superfici in produz. (ha)

Uva prodotta (q.li)

Produzione potenziale* (hl)

Produzione certificata**

(hl)

Totale DOC-DOCG 157.733 213.083 18.796.508 13.031.070 9.930.510

Montepulciano d’Abruzzo 7.073 12.082 1.366.241 956.369 827.611

Chianti 3.787 14.980 1.082.065 755.281 761.320

Asti 5.015 9.816 899.083 674.317 673.442

Trentino 12.517 5.967 732.409 512.583 267.719

Soave 3.096 4.738 731.234 511.872 456.841

Conegliano Valdobbiadene 3.004 4.977 621.545 435.082 430.430

Valpolicella 4.038 5.988 716.279 417.992 434.491

Oltrepò Pavese 5.157 7.021 492.813 344.279 354.173

Friuli Grave 4.358 4.292 440.472 308.259 186.997

Alto Adige 9.643 4.447 391.940 274.245 281.822

Totale IGT 158.950 154.284 19.048.420 13.702.551

Sicilia 23.270 43.126 3.692.628 2.952.583

Veneto 27.191 14.115 2.421.478 1.758.636

Marca Trevigiana 17.678 10.683 1.977.518 1.044.923

Ravenna 3.727 4.815 1.083.935 867.148

Salento 7.307 10.092 1.059.323 807.168

Emilia o dell’ Emilia 7.421 5.188 889.384 703.762

Puglia 3.118 5.336 772.413 582.340

Toscano o Toscana 7.704 10.041 723.417 567.591

Delle Venezie 5.362 4.423 717.777 545.097

Provincia di Verona o Veronese 7.007 2.418 663.103 529.768

Fonte: ISMEA su dati Infocamere e CCIAA.

14 In Italia risultano 48 DOCG, 320 DOC (di cui 9 interregionali) e 118 IGT, di cui 4 interregionali (elenco MIPAAF aggiornato all’8 aprile 2010, www.politicheagricole.it).

36

Nel 2008, il peso dei vini DOC-DOCG e IGT sul totale di vini e spumanti è risultato pari al 44% in quantità e al 59% in valore, con lievi incrementi dei due indici nel 2009 (Tab. 1.10). Gli IGT, in particolare, hanno fatto segnare una crescita significativa all’interno dei vini di fascia alta, con una variazione media annua del 9,4% nel periodo 2003-2008, sicuramente incentivata da differenziali di prezzo non elevatissimi rispetto ai vini da tavola, i quali, infatti, nello stesso periodo di riferi-mento hanno perso quote di mercato (ISMEA, 2009d). Anche il peso, nel 2009, degli Hard Discount sulla stratificazione degli acquisti per canale distributivo (13% in quantità e 7% in valore) - alle spalle di ipermercati (38% in quantità e 42% in valore) e supermercati (33% in quantità e 37% in valore) - rispecchia l’interesse di segmen-ti sempre più numerosi di consumatori, che economizzano le proprie spese senza rinunciare ai prodotti di qualità, tanto più evidente se si guarda alla variazione in quantità e valore degli acquisti presso questo canale. Si tratta, infatti, dell’unico format che ha tenuto, nel 2009, a fronte di contrazioni sostenute nei canali del Cash & Carry, dei grossisti e degli spacci, dei mercati rionali e delle vendite porta a por-ta, nei confronti dei quali si erano già rivolti i consumatori, nel 2008, per spuntare prezzi di acquisto più convenienti (Tab. 1.11). Nonostante da tempo il consumatore dimostri di apprezzare sulla propria tavola i vini di qualità, con una variazione media annua dei consumi del 6,8% nel periodo 2003-2008, gli acquisti domestici di questi prodotti hanno accusato, nel 2009, una perdita significativa in valore, pari all’8,7% (ISMEA, 2010c). In particolare, nel corso del 2009, gli acquisti domestici di vini DOC-DOCG (Tab. 1.10) si sono contratti del 2,4% in quantità e dell’11% in valore, segno che tra le rinunce all’acquisto più evidenti che hanno contribuito alla contrazione complessiva dei consumi alimentari si collocano quei vini di qualità che hanno su-bìto aumenti di prezzo più consistenti. L’aumento dei prezzi dei vini di qualità ha colpito anche le esportazioni (ISMEA, 2010b) che, rispetto al 2008, hanno accusato un calo sia in quantità (-4,4%) sia in valore (-8,3%).

37

parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

Tabella1.10-Acquistidomesticidivininelbiennio2008-2009

Var. %

2008/2007

Peso % sul totale vini e spumanti,

2008

Var. %

2009/2008

Peso % sul totale vini e spumanti,

2009Quantità Valore Quantità Valore Quantità Valore Quantità Valore

Totale vini e spumanti -1,7 3,4 100 100 -2,7 -7,9 100 100

Totale vini -1,8 4,1 94,6 87,1 -2,9 -8,7 94,5 86,3

- vini DOC/DOCG 1,5 5,3 25,2 39,2 -2,4 -11,0 25,3 37,9

- vini IGT 2,9 7,7 18,8 19,5 4,9 -2,3 20,3 20,7

FonteISMEA/Nielsen

Tabella1.11-AcquistidomesticidiviniDOC-DOCGpercanaledistributivo,2009

Var. % 2008/2007 Peso %, 2008 Var. % 2009/2008 Peso %, 2009

Quantità Valore Quantità Valore Quantità Valore Quantità Valore

Ipermercati 2,8 6,9 36,0 40,0 2,6 -8,3 37,8 41,6

Supermercati 0,3 5,1 33,0 38,0 -2,4 -13,3 33,0 37,1

Hard Discount 12,4 23,5 11,7 6,0 7,8 7,9 12,9 7,2

Cash & Carry, Grossisti e Spacci

35,9 48,5 7,7 5,0 -21,7 -29,6 6,2 4,0

Ricevute in regalo -22,8 -29,5 1,9 1,7 -7,1 27,2 1,8 2,4

Negozi tradizionali -3,3 28,1 1,7 1,7 -28,4 -23,3 1,3 1,5

Superette -38,3 -37,4 1,8 1,2 -18,3 -9,9 1,5 1,2Ambulanti/Mercati rionali

5,4 -4,8 0,2 0,1 -25,5 51,2 0,1 0,2

Vendite porta a porta 68,6 9,2 0,1 0,0 -72,9 -47,2 0,0 0,0

Altre fonti -17,3 -16,4 6,0 5,9 -12,2 -26,9 5,4 4,8

Totale Italia 1,5 5,3 100 100 -2,4 -11,0 100 100

Fonte: Ismea/Nielsen

1.3.3 Iconsumidiprodottibiologici

Negli anni Settanta i consumatori europei cominciano ad attribuire ai pro-dotti biologici15 una forte valenza salutistica e ambientale e si dimostrano disposti

15 In agricoltura, l’applicazione delle teorie di Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia, la filosofia che reagisce al materialismo e allo sviluppo della scienza proponendo nuove forme alternative di coltivazio-ne, risale al 1924; negli anni successivi cominciano a diffondersi, in tutta Europa, metodi di coltivazione ecologica (agricoltura biodinamica, biologica, integrata) associati a stili di vita alternativi che, attraverso il contatto diretto con gli agricoltori, conquistano sempre più l’interesse dei consumatori.

38

a pagare prezzi di mercato nettamente più alti (premium price) rispetto a quelli dei prodotti ottenuti con l’agricoltura convenzionale. In pochi anni si diffondono nego-zi specializzati nella vendita di alimenti biologici, che rappresentano, insieme alla vendita diretta, i canali di distribuzione dominanti nel settore.

Nell’Europa settentrionale e centrale, dove si sviluppa maggiormente la coscienza ambientalista e salutista dei consumatori, la domanda di prodotti biologici aumenta mol-to più rapidamente dell’offerta. Cominciano a svilupparsi flussi commerciali di import-export, con Germania, Gran Bretagna e Paesi scandinavi che importano prodotti biologici da Italia, Spagna e Francia. Nei Paesi importatori l’espansione dell’offerta stimola la cre-azione di un’efficiente organizzazione commerciale a livello regionale e interregionale e la distribuzione moderna comincia a interessarsi a questo mercato in espansione.

In tutta Europa i prodotti biologici cominciano a essere commercializzati nelle grosse superfici di vendita a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, contestualmente a importanti dinamiche che investono l’agricoltura nel suo complesso. L’interesse per uno sviluppo economico sostenibile e la necessità di una maggiore integrazione tra politiche produttive e di tutela ambientale generano una serie di interventi normativi comunitari nel settore agricolo, con riflessi sia sul lato della produzione, sia su quello della distribu-zione. La UE, attraverso la PAC, favorisce l’orientamento della produzione verso le zone vocate e riconosce la valenza ambientale della produzione biologica e il pregio delle pro-duzioni tradizionali, regolamentando il metodo di produzione biologico e le produzioni a denominazione di origine DOP/IGP.

In Italia, in particolare, lo sviluppo dei prodotti biologici è stato trainato, sul fron-te della domanda, dalla maggiore attenzione dei consumatori per la qualità ambientale, intesa come rispetto della salute umana e delle risorse naturali. Sull’offerta - e dunque sulla scelta di adottare tecniche a basso impatto ambientale - hanno inciso, invece, gli incentivi alla produzione e la possibilità di differenziare i prodotti segmentando il mercato per assicurarsi vantaggi competitivi; anche fattori non economici, come la riduzione dei rischi di esposizione dell’operatore a prodotti tossici hanno attratto coltivatori e allevatori. Parallelamente, è cresciuto l’interesse delle aziende di produzione e di trasformazione per la certificazione dei prodotti e dei processi produttivi con metodo biologico, affiancate anche da altre forme di certificazione volontaria16, in modo da garantire ai consumatori

16 La certificazione accreditata da una parte terza e indipendente è il mezzo con cui un’azienda, che vi aderisce volontariamente, può dimostrare ai portatori di interesse (stakeholder) la conformità del suo sistema di gestione e dei suoi prodotti/servizi ai requisiti della norma internazionalmente rico-nosciuta (emessa da organizzazioni internazionali UNI EN ISO) e per cui ha ottenuto la certificazione. che può essere di: sistema agroalimentare; prodotto agroalimentare; filiera agroalimentare; siste-ma ambientale; prodotto ambientale; produzione eco-sostenibile; sistema di sicurezza sul lavoro; etica sociale (Giuca, 2010).

39

parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

20

05Va

r.%

2006

/05

2006

Var.

%

2007

/06

2007

Var.%

20

08/0

720

08Va

r. %

20

09/ 0

820

09

Supe

rfici

(ha)

:1.

067.

102

7,6

1.14

8.16

20,

21.

150.

255

-12,

91.

002.

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10,4

1.10

6.68

4

- Pra

ti e

pasc

oli

227.

610

14,8

261.

252

-16

219.

438

2,4

224.

601

21,2

272.

184

- For

aggi

288.

927

2,9

297.

441

20,6

358.

610

-42,

120

7.58

4-1

3,6

179.

439

- Cer

eali

258.

848

-7,6

239.

092

124

1.43

0-4

,123

1.56

98,

825

1.90

6

- Oliv

o10

6.93

80,

310

7.23

32,

610

9.99

24,

111

4.47

222

139.

675

- Orto

frutta

67.4

0755

,610

4.91

7-2

,710

2.08

63,

210

5.31

1-1

4,9

89.6

46

- Vite

31.1

7020

,937

.693

-2,7

36.6

8410

,340

.480

7,7

43.6

14

- Col

ture

indu

stria

li23

.106

1,1

23.3

627,

925

.210

-39,

215

.340

-3,2

14.8

42

- Altr

e co

lture

63.0

9622

,377

.172

-26,

456

.805

1163

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5.37

8

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per

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2.12

8.90

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137

34,5

3.60

0.98

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7,7

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3.57

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- bov

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n.)

222.

516

0,1

222.

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244.

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321

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n.)

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977.

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2009

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40

l’effettivo valore ambientale dei prodotti, unitamente all’adozione di politiche di marchio che rendano facilmente riconoscibili tali prodotti (Giuca, 2009b). L’ingresso della grande distribuzione nel settore ha poi contribuito largamente alla circolazione e all’incremento dei consumi, tanto che nel 2001 il mercato italiano dei prodotti biologici è stato interessa-to da un vero e proprio boom, con un incremento rilevante delle aziende di trasformazio-ne del 48% rispetto al 2000 (dati Sinab)17 e, negli anni successivi, con significativi aumenti delle superfici a biologico e del numero degli operatori coinvolti nella filiera (Tab. 1.12).

La fiducia dei consumatori è rafforzata dal fatto che i prodotti biologici, per essere immessi in commercio, non solo devono soddisfare, come tutti gli alimenti, i requisiti di natura igienico-sanitaria e i requisiti di natura merceologico-mercantile, ma sottostanno a uno specifico quadro giuridico che, da venti anni, ne disciplina il metodo di produzione, la loro etichettatura e il loro controllo18. Oggi, inoltre, il pro-dotto biologico abbraccia uno spettro di valori più ampio di quello originario, che va dagli aspetti etici e sociali agli impatti sul cambiamento climatico in termini di riduzione di gas serra, sia dal lato delle metodiche di produzione, sia dal lato delle modalità con cui questi prodotti vengono distribuiti e commercializzati (food miles o chilometri zero)19. I consumatori più attenti e sensibili, pertanto, tendono a cercare nei prodotti biologici soddisfazione a una molteplicità di bisogni.

Il settore dei prodotti biologici, dunque, ha assunto un’importanza crescente nella produzione agricola nazionale, tanto che l’Italia occupa attualmente una po-sizione di avanguardia nel panorama biologico internazionale20, con oltre 1 milione di ettari coltivati nel 2009 e oltre 48.500 operatori certificati coinvolti nella filiera, il maggior numero a livello europeo (Sinab, 2010). L’Italia è anche il maggior espor-tatore mondiale di prodotti biologici (soprattutto verso l’Europa, gli Stati Uniti e il Giappone), per un valore dell’export bio di circa 900 milioni di euro.

Negli ultimi anni, all’espansione dell’offerta di alimenti biologici nazionali si sta affiancando un aumento dei prodotti d’importazione, come confermano la

17 Dati disponibili sul sito del Sistema d’informazione nazionale sull’agricoltura biologica del MIPAAF: www.sinab.it.

18 Una definizione univoca e regole chiare per regolamentare la produzione biologica vegetale si deve al regolamento CEE 2092/91 e, per le produzioni animali, al regolamento Ce 1804/99; entrambi sono stati abrogati e sostituiti dal reg. CE 834/07, al quale hanno fatto seguito i regolamenti Ce 889/2008 (modalità di applicazione), 1235/2008 e 537/2009 (importazione di prodotti biologici dai Paesi terzi), 710/2009 (produzione di animali e di alghe marine dell’acquacoltura biologica), 967/08 e 271/2010 (logo obbligatorio di produzione biologica dell’Unione europea).

19 Espressioni usate per indicare l’entità dell’impatto ambientale del trasporto del cibo che arriva sulla nostra tavola (Franco, 2007).

20 Per un’analisi di dettaglio cfr. Berardini et al., 2006.

41

parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

crescita degli importatori, quasi il 17% in più nel 2008 e quasi il 6% in più nel 2009 (Tab. 1.12), e l’incremento delle quantità totali di prodotto importato da Paesi terzi, pari a 90 milioni di tonnellate nel 2008 (30% in più rispetto all’anno precedente) e a 50 milioni di tonnellate nel 2009 (Sinab, 2010).

Secondo le rilevazioni Ismea/AC Nielsen (Ismea 2008, 2009a), la spesa per i prodotti biologici presso le grandi superfici di vendita della distribuzione organizza-ta ha fatto segnare un aumento del 5,7% nel 2008 (6,1% medio annuo nel periodo 2003-08), nonostante l’aumento della spesa alimentare complessiva sia stato più contenuto (4,4%). Un’ulteriore crescita del 6,9% dei consumi di prodotti biologici acquistati presso la GDO ha caratterizzato il 2009 - crescita che ha toccato il 7,4% nel primo semestre (Tab. 1.13) - per un valore totale di oltre 350 milioni di euro. Complessivamente, gli italiani che dichiarano di consumare regolarmente cibi bio-logici sono passati dal 22% del 2008 al 26% del 2009 (Ismea 2009b, 2010a).

È interessante notare come l’Hard Discount, nonostante il peso ridotto sulla stratificazione degli acquisti in valore per canale distributivo, pari all’1% nel 2006 alle spalle di supermercati (50%) e ipermercati (42%) - è il format che registra, nell’ultimo biennio, variazioni percentuali in misura maggiore rispetto a tutti gli altri canali (Tab. 1.13). Addirittura, il dettaglio tradizionale - canale storico del bio segna, nel primo semestre del 2009, una contrazione in valore di oltre il 40%, a te-stimonianza che i consumatori, soprattutto al Nord, dove si concentrano le maggio-ri quote di spesa in valore, non volendo rinunciare ai prodotti biologici in questo pe-riodo di maggiore contrazione dei consumi alimentari nel loro complesso, si recano presso strutture distributive in grado di offrire prezzi più convenienti e una gamma più ampia di prodotti primo prezzo (Tab. 1.13). Anzi, coloro che acquistano regolar-mente i prodotti dell’agricoltura biologica, mostrandosi sensibili ai temi salutistici e ambientali e pagando un premium price, continuano ad acquistare regolarmente, secondo l’indagine del Censis (op. cit., 2010), anche prodotti convenzionali (il 73% acquista surgelati, il 63% scatolame e quasi il 65% prodotti con marchio del di-stributore) e a spendere persino all’ipercalorico e convenzionale fast food, dove si recano almeno una volta a settimana il 26,7% degli acquirenti abituali di frutta e verdura da agricoltura biologica.

42

Tabella1.13-Consumidomesticidiprodottibiologiciconfezionatiperareageo-graficaecanaledistributivo(quoteinvalore),2005-2009

Var.% consumi in valore 2006/05

Quota su totale

Italia 2006

Var.% consumi in valore 2007/06

Quota su

totale Italia 2007

Var.% consumi in valore 2008/07

Quota su totale

Italia 2008

Var.% consumi in valore 2009/08

(*)

Quota su

totale

Italia 2009 (*)

Totale Italia 9,2 100 10,2 100 5,4 100 7,4 100

Nord Ovest 13 41 15 44 6,8 44 7,9 44

Nord Est 2,8 27 17 29 -0,8 27 11,9 28

Centro e Sardegna 6,1 22 -4,6 19 8,5 20 8,5 20

Sud e Sicilia 21,5 9 3,4 9 12,3 9 -10,7 8

Ipermercati 11,3 42 12,7 - 5,8 - 13,5 -

Supermercati 6,6 50 5,4 - 5,2 - 5,4 -

Superette -17,1 2 59,8 - -25,4 - 39,7 -

Hard Discount 45,4 1 -6,9 - 45,9 - 15,7 -

Cash&Carry+ Grosisti+Spacci

19,6 0 - - - - - -

Porta a porta 167,6 0 - - - - - -Ambulanti mercati rionali

-20,7 0 - - - - - -

Negozi tradizionali 30,2 2 23 - 17,3 - -40,9 -

Ricevuto in regalo 8,2 0 - - - - - -

Altri canali 44,2 3 11,2 - 2,5 - -8,9 -

Fonte: Ismea/ACNielsen

Gli incrementi maggiori, calcolati sui primi sei mesi del 2009, hanno inte-ressato ortofrutta fresca e trasformata (37,8%), uova (24,3%) e bevande (11,6%), che, insieme ai prodotti lattiero-caseari e a quelli per la prima colazione (entrambi questi segmenti mostrano una contrazione rispetto al primo semestre del 2008), rappresentano, da diversi anni, la quota maggiore sul totale degli acquisti di pro-dotti biologici confezionati, quota pari al 58,6% nel 2007, al 63,4% nel 2008 e al 65% nel primo semestre del 2009 (Tab. 1.14).

43

parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

Tabella 1.14 - Consumi domestici di prodotti biologici confezionati in Italia neltriennio2007-09(%calcolatesudatiinvalore)

Var. % 2007/06

Quota comparto/totale bio

2007

Var. % 2008/07

Quota comparto/totale bio

2008

Var. % 2009/08 *

Quota comparto /totale bio 1°

semestre 2009

Ortofrutta fresca e trasformata

25,2 17,1 19,8 19,5 37,8 25,2

Lattiero caseari 9,2 20,6 1,5 19,8 -3,9 17,8

Prodotti prima colazione -3,4 11,4 -13,8 14,1 -2,8 12,2

Bevande 19,1 9,5 2,7 10,0 11,6 10,0

Uova 1,6 7,1 14,1 7,7 24,3 8,3Pane e sostituti, pasta e riso

9,9 7,1 14,3 7,7 -12,8 7,1

Prodotti per l’infanzia 36,4 5,4 16,1 5,7 -18,2 4,8

Oli 4,4 4,7 7,1 4,8 1,8 3,9

Miele 4,8 3,6 7,5 3,7 10,4 3,6

Gelati e surgelati 13,7 2,3 10,0 2,4 -2,0 2,4

Zucchero, caffè e tè -4,8 5,8 - - - -

Condimenti 30,2 1,6 - - - -

Salumi ed elaborati di carne

21,7 0,9 - - - -

Prodotti dietetici -12,3 0,7 - - - -

Altri prodotti 5,7 1,6 1,9 4,6 7,1 4,7

Totale prodotti biologici 10,2 100 5,4 100 7,4 100

* Primo semestre 2009 rispetto allo steso periodo 2008

Fonte: Ismea/Nielsen

La vendita di prodotti biologici al di fuori del canale della distribuzione orga-nizzata è aumenta del 17% nel 2008 (Mingozzi e Bertino, 2010), nonostante i prezzi più alti del 20%. Nel triennio 2007-2009, in particolare, è aumentato il numero dei punti vendita specializzati (2%) e sono cresciute le attività legate alla filiera corta, soprattutto i Gruppi d’acquisto solidale21, e le aziende con vendita diretta (32%).

Risultati interessanti provengono anche dai canali extradomestici, con il dif-fondersi dei negozi da asporto (fast food, enoteche, pizzerie, catering) e la crescita della ristorazione e delle mense scolastiche: queste ultime, espressione della sen-sibilità delle pubbliche amministrazioni all’etica agroalimentare, rappresentano anche un nuovo modello di business per gli operatori del catering, con 197 milioni

21 Cfr. infra, cap. 2 par.3.

44

di pasti bio serviti in un anno tra nidi, scuole materne e scuole primarie e un giro di affari che, nel 2008, è stato di 250 milioni di euro (Mingozzi e Bertino, 2010).

1.4-Conclusioni

Come è emerso dall’analisi condotta in questo capitolo, nelle scelte di acquisto dei prodotti alimentari il consumatore odierno è mosso da un senso di responsabilità e di consapevolezza, da una condivisione di vedute e di sensibilità in cui l’etica e la respon-sabilità sociale - soprattutto in termini di impatto che la produzione e la distribuzione può avere sulla vita delle persone, sui legami sociali e sull’ambiente - sono sempre più parte integrante del concetto di qualità. Il consumatore si mostra attento a ciò che mangia in termini di igiene, salubrità e qualità nutrizionale, acquistando, magari, minori quantità di cibo ma cercando in essi «una parte emozionale che ha nel gusto, nell’espe-rienza e nel rispetto dell’ambiente il suo centro (Fabris, 2009)». Infatti, in un contesto generale di crisi dell’economia internazionale e di erosione del potere di acquisto delle famiglie che stanno caratterizzando la fine di questo decennio, la maggiore sensibilità verso l’etica agroalimentare e verso i temi salutistici e ambientali, spinge comunque il cittadino-consumatore ad avere, sulla propria tavola, prodotti tipici a denominazione di origine e, in misura maggiore, prodotti biologici. Il biologico, in particolare, continua a far registrare tassi di crescita che complessivamente vanno in controtendenza rispetto al settore convenzionale.

Il consumatore, infatti, in questi prodotti percepisce, da un lato, il legame del-la materia prima utilizzata con il territorio come valore di qualità aggiunta al prodotto stesso, espressione di genuinità e di sicurezza alimentare; dall’altro, il rispetto della stagionalità, delle tradizioni e dei cicli biologici naturali all’interno del sistema agricolo locale. Si tratta di prodotti con una forte componente etica, in grado di esprimere un valore aggiunto immediatamente riconoscibile, distintivo e univoco per comunicare - e preservare - l’identità socio-economica della collettività geografica che lo produce (più evidente nei prodotti a denominazione di origine) e un modello di sviluppo sostenibile ba-sato sulla salvaguardia e sulla valorizzazione delle risorse naturali oltre che sul rispetto dell’ambiente, della salute umana e del benessere animale (più evidente nei prodotti biologici). Accanto a questa tendenza, tuttavia, il consumatore, pur mostrandosi saluti-sta e responsabile, non intende affatto rinunciare, nei consumi domestici, alla praticità di piatti pronti o a “sfizi gastronomici” anche ipercalorici e, nei pasti consumati fuori casa, alla convivialità e alla golosità, sia all’interno di un ristorante da “gambero rosso”, sia in un economico e informale fast food.

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

Capitolo ii

i ProFili di resPonsabilità sociale da Parte del consumatore

2.1 Introduzione

Il sistema agroalimentare italiano che, con i suoi prodotti, rappresenta un’ec-cellenza riconosciuta a livello internazionale, è da sempre legato alle tradizioni e identità locali. L’unicità dei nostri prodotti, infatti, è stata preservata anche grazie al fatto che la produzione alimentare non si è sovrapposta alla cultura preesistente in un territorio dando vita a nuovi prodotti, ma si è inserita e adattata cercando di acquisire il patrimonio culturale di quel territorio trasformandolo in prodotto agro-alimentare. È proprio questo che ha reso i prodotti del “made in Italy” una sintesi unica dell’identità, della tradizione culturale, del patrimonio naturale, dei saperi e sapori locali come strumento di sviluppo di quel determinato territorio.

L’evoluzione degli stili di vita e la maggiore attenzione da parte di imprese e consumatori a portare avanti comportamenti e strategie responsabili, contribui-scono a promuovere una crescita sostenibile tramite la valorizzazione delle identità locali. Ciò contribuisce alla tutela e alla conservazione delle comunità presenti - si pensi a tutte le azioni/strumenti a sostegno del recupero e della crescita delle aree rurali – come anche del patrimonio culturale e ambientale.

In questa ottica, il presente capitolo offre spunti di riflessione sui nuovi bi-sogni del consumatore post-moderno, indagandone i principali profili. Il “moderno consumatore” è ormai considerato dall’impresa uno degli stakeholder principali, in quanto sceglie, acquista, utilizza e consiglia prodotti e servizi in modo consapevole. A tal fine, l’impresa punta sempre più a differenziarsi in termini di maggiore qualità di beni, servizi e nei rapporti con i propri clienti. Le teorie economiche classiche e neoclassiche, figlie di una società caratterizzata dall’“indigenza”, in cui la figura del consumatore coincideva con quella del contraente debole, vittima delle asim-metrie informative, non sarebbero più applicabili alla società attuale caratterizzata

46

dal benessere. Attualmente, infatti, il consumatore, sempre più consapevole del-le proprie scelte d’acquisto, non verserebbe più in una condizione di subalternità ma si dimostra capace di compiere scelte “razionali”, di apprezzare e “richiedere” specifiche caratteristiche e determinati requisiti di qualità di un bene, nonché di volerne individuare la storia e la tipicità.

Il livello di benessere che caratterizza la società occidentale, quindi, porta i singoli individui a compiere scelte di acquisto sempre più basate su considerazioni etico-morali e orientare l’attenzione in misura maggiore verso temi quali la qualità della vita, la responsabilità verso le generazioni future e la condizione di povertà dei più svantaggiati.

Di conseguenza, i consumatori svolgono un ruolo sempre più importante nel-la “moralizzazione dei mercati” come “guardiani del mercato”; essi, infatti, attraver-so azioni che possono essere negative (boicottaggio, sciopero dei consumi, reclami, ecc.) o positive (acquisti privilegiati nei confronti di prodotti con determinate caratte-ristiche, attivazione di campagne informative e lobbying nei confronti delle istituzio-ni pubbliche, ecc.), individuali o collettive (GAS, associazioni dei consumatori, ecc.),

“chiedono” alle imprese standard qualitativi ed etici sempre più elevati.Dopo aver approfondito, nel precedente capitolo, le dinamiche che hanno por-

tato all’evoluzione dei consumi, nei paragrafi che seguono vengono messi in risalto quei macro-orientamenti al consumo che, dietro la spinta di criteri etici, sociali e ambientali, oggi influenzano sensibilmente il comportamento dei consumatori e le scelte di acquisto dei prodotti alimentari, finendo per tracciare un nuovo profilo di consumatore.

Il paragrafo 2.2 affronta il tema del valore del “territorio” nell’orientare le scelte di acquisto, ovvero la tendenza crescente ad acquistare i prodotti “tipici” dei territori e l’attenzione alla provenienza degli stessi e per i marchi di origine (dop, docg, ecc.), fino alle recenti tendenze a far coincidere luogo di produzione e acquisto (km 0).

L’attenzione a un’alimentazione corretta e salutare, che sta fortemente sensi-bilizzando gli italiani verso i requisiti nutrizionali e di qualità dei prodotti che scelgo-no di consumare, è il tema del paragrafo 2.3, dove si approfondiscono quei compor-tamenti che ne sono testimonianza: l’evoluzione delle diete alimentari, la tendenza a controllare provenienza e origine dei prodotti, la sicurezza alimentare, ecc.

Nel paragrafo 2.4 si affrontano i comportamenti di consumo “etici”, vale a dire l’influenza che, nel momento dell’acquisto, hanno tutta una serie di valutazioni che attengono ai comportamenti adottati dalle imprese. Quanto pesa il consumo etico oggi in Italia? E quali sono i valori di responsabilità dell’imprese che più di altri sono in grado di indirizzare le scelte dei consumatori?

47

parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

Come si è visto, l’emergere di una figura di consumatore molto più critico e attento rispetto alla moltiplicazione dei servizi e dei prodotti offerti sul mercato, rappresenta una delle trasformazioni più significative dei modelli di consumo degli italiani negli ultimi anni ed è il tema affrontato nel paragrafo 2.5: siamo di fronte a un neo-soggettivismo del consumo soprattutto nel comparto agricolo e agroali-mentare.

Infine, il paragrafo 2.6, parte dal presupposto che alcune strategie messe a punto dalle aziende del settore agroalimentare per la salvaguardia del territorio e, in particolare per valorizzare i contesti locali di produzione, investono anche le fasi successive della produzione, trasformazione e vendita dei prodotti, essendo controparte di un approccio attento e responsabile al consumo da parte degli stessi cittadini-consumatori. Tale approccio ha assunto, oggi, varie sfaccettature tra cui la partecipazione dei cittadini ai GAS, valida risposta alla globalizzazione del mercato e alla standardizzazione delle produzioni da parte di quei consumatori che vogliono esercitare una libera scelta alla cui base vi sono elementi come la solidarietà e l’etica. Tale modalità di acquisto diretto dal produttore è, infatti, percepita dal con-sumatore come una soluzione a diverse esigenze, quali il recupero del territorio e il rapporto di fiducia con il produttore, la garanzia di genuinità e la sicurezza del prodotto, il minor impatto ambientale, la forte valenza socio-culturale del patrimo-nio di saperi e sapori della comunità che lo produce, oltre naturalmente alla con-venience, in termini di rapporto prezzo/qualità, dovuta alla riduzione dei passaggi e delle intermediazioni.

2.2 Lariscopertadelvaloredellaterritorialitàneiconsumiali-mentari

Negli ultimi anni si sta registrando un crescente interesse al valore del ter-ritorio nelle scelte di acquisto degli italiani. Dalla ricerca della tipicità dei prodotti, all’attenzione crescente per “gli alimenti di casa propria”, provenienti da luoghi sempre più vicini al consumatore, fino a essere coincidenti con la propria abitazio-ne (gli orti in casa), allo sviluppo straordinario di nuove forme di commercializza-zione (dal km 0 ai farmers’ market).

Un ritrovato rapporto con la terra contraddistingue ormai le scelte di un nu-mero crescente di italiani. È come se il mangiare stesse tornando a essere, per molti versi, un atto agricolo in senso proprio, dietro il quale si cela la riscoperta di un mondo rurale, a lungo dimenticato e abbandonato a se stesso, fino a ieri sino-

48

nimo di arretratezza, oggi sempre più metafora di qualità; non solo del vivere e del mangiare bene, ma anche di tutto un sistema di valori e relazioni, di cui il legame con il territorio rappresenta l’elemento distintivo e fondante. La qualità del territo-rio diventa, pertanto, un valore da incorporare nei prodotti e nei servizi.

Per avere un’idea, basti solo considerare che, secondo l’indagine Censis/Coldi-retti (2010), i tre quarti degli italiani (74,5%) al momento di acquistare un prodotto ali-mentare, si fanno condizionare dal fatto che questo sia prodotto nella propria zona (al Sud e nelle Isole la percentuale sale addirittura al 78,8%) e, in seconda battuta, dal fatto che sia stato coltivato in luoghi e secondo procedure rispettose dell’ambiente.

Ancora, il 40,1% afferma di acquistare spesso frutta e verdura direttamente dal produttore, anche attraverso i mercati dove spesso sono presenti produttori diretti, men-tre sono un quarto (il 29%) gli italiani che dichiarano di acquistare regolarmente prodotti di origine protetta, mettendo così in primo piano quella ricerca di qualità che trova la sua ragione d’essere nei colori, nei sapori e negli odori della terra in cui è stato prodotto.

Il 54% dei rispondenti preferisce, ove possibile, acquistare prodotti alimentari lo-cali e artigianali, a cui si aggiunge un 12% orientato all’acquisto di prodotti “di marca” italiani; in altri termini, il “made in Italy” non è un fenomeno che si rispecchia solo nel settore tessile, ma anche nelle abitudini degli italiani a tavola.

Insomma, sono molti gli italiani che, spinti da motivazioni diverse e con compor-tamenti altrettanto articolati, sembrano esprimere, con le loro scelte, un apprezzamen-to crescente rispetto al valore territorio, premiando quei prodotti e quelle modalità di acquisto in grado di garantire un rapporto ancora più diretto. Le motivazioni di questo rinnovato rapporto con la terra sono tuttavia più complesse di quanto potrebbe apparire e destinate sicuramente a rivoluzionare le abitudini alimentari e di acquisto degli italiani, molto più di quanto alcune esperienze un po’ alla moda lascerebbero intendere (si pensi all’enfasi sulle esperienze dei GAS o dei farmers’ market).

A ben vedere, dietro quest’attenzione crescente che gli italiani mostrano per la terra, si nascondo diverse motivazioni, ovvero:

• la crescente ricerca di “qualità alimentare”, che oggi è sempre più sinonimo di genuinità e freschezza degli alimenti, aspetti che la prossimità al territo-rio di coltivazione e produzione possono ben garantire. Se solo fino a pochi anni fa la tendenza era di avere frutta e verdura in ogni luogo e stagione oggi, l’attenzione alla provenienza degli alimenti, dalla carne, al pesce, alla frutta sta spingendo sempre più in direzione di una riscoperta del rispetto dei cicli della natura, della stagionalità e, conseguentemente, anche dei luoghi in cui le produzioni sono effettuate;

• la maggiore attenzione per la tipicità e l’autenticità del prodotto, che signifi-

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

ca la capacità di racchiudere in un bene alimentare la storia e le peculiarità di un territorio, la sua cultura e le sue tradizioni;

• la “connotazione relazionale” che assume in molti casi l’atto d’acquisto: la scelta di cosa mangiare sta diventando sempre più per il consumatore un atto che va oltre quello del mero acquisto. Dalle strade del vino, dell’olio, ai far-mers’ market, intorno al consumo alimentare si stanno sviluppando percorsi ed esperienze sempre più strutturati, che testimoniano la voglia di entrare in relazione con il mondo contadino, di accrescere le proprie conoscenze, di fare un’esperienza radicalmente diversa dalla quotidianità lavorativa;

• la valorizzazione della ruralità in generale, di un mondo contadino dimenti-cato, che sta tuttavia tornando in auge, perché portatore di valori – l’atten-zione alla natura e all’ambiente, il valore del passato, della memoria, della tradizione, la solidità delle relazioni microcomunitarie – oggi dispersi, ma oggetto di nuove attenzioni da parte di una società che forse, dopo tanti anni, sente la voglia di guardarsi dentro e, in particolare, nel suo passato;

• ultimo, ma non meno importante, la ricerca di soluzioni che consentano al consumatore di contenere i costi, tramite l’acquisto diretto nelle fattorie, an-che in gruppi organizzati, o nei mercati dove sono presenti gli agricoltori. Ovviamente, rispetto a tali cambiamenti intervenuti sul fronte della doman-

da, non va sottovalutato come tutto il mondo dell’agricoltura italiana sia interessato ormai da qualche anno da un forte processo di ristrutturazione interna, che ha portato non solo a un decisivo ammodernamento delle modalità di organizzazione e gestione della produzione, ma soprattutto di innovazione nella distribuzione. La crescita dei punti vendita gestiti direttamente dai contadini, la pronta risposta che le imprese hanno fornito allo svilupparsi di modalità nuove di approvvigionamento, direttamente nei luoghi di produzione, mira a soddisfare la ricerca di prezzi più bassi da parte dei consumatori; tale esigenza, resa del resto necessaria dalla forte dinamica inflattiva registratasi negli ultimi anni nei mercati alimentari, ha realizza-to importanti side benefits, inducendo produttori e consumatori a farsi parte attiva per intervenire sui costi di filiera che, in qualche caso, moltiplica fino a sette volte per il consumatore quanto è stato pagato alla fonte.

Volendo passare in rassegna le diverse iniziative di filiera corta oggi presenti sul territorio italiano22, l’elenco appare ampio, andando dalle realtà dei farmers’ market (circa 600 in tutta Italia tra mercati settimanali, bisettimanali e periodici), o della vendita diretta (dalle 60 alle 100 mila imprese esclusi gli agriturismo), alla

22 Carlo Hausmann, Seminario INEA sul consumo socialmente responsabile (Aprile 2010).

50

produzione partecipata, sempre più in espansione, caratterizzata dalla figura ibrida del partner/cliente. Altre forme di filiera corta includono la vendita on-line (soprat-tutto attraverso i GAS), l’autoraccolta e la vendita diretta, che sta attraversando una fase di rapida crescita e consolidamento, dal momento che vi ricorre ormai il 41% degli italiani (con punte del 49% nel Sud e Isole) per l’acquisto di frutta fresca e verdura.

In generale, le varie opzioni di filiera corta sono in grado di ricondurre a un rapporto diretto, stretto e duraturo nel tempo, tra produttore e consumatore che, nonostante la presenza dei mercati rionali, si è andato perdendo con il passare dei decenni. Oltre a questo, si generano benefici di tipo economico e ambientale: i primi sono a vantaggio del produttore agricolo, il quale potrà avvalersi di una mag-giore quota del valore aggiunto visto che non ci sono ulteriori passaggi intermedi prima che il prodotto arrivi al consumatore; i secondi sono a vantaggio dell’intera comunità, considerando le mancate emissioni di CO2 prodotte durante le fasi di trasporto tra uno stadio e l’altro della filiera.

In questo senso, è interessante capire in maniera più specifica quali siano i fattori che spingono il consumatore ad acquistare prodotti locali. Treagar e Ness (2005) si sono posti la stessa domanda nel contesto inglese, scoprendo che l’in-teresse nell’acquisto di prodotti locali è da ricondurre a fattori di tipo attitudinale, contestuale e demografico. Per quanto riguarda il primo tipo, è necessario chiarire tre punti fondamentali:1. l’interesse per la filiera alimentare da parte del consumatore non è dovuto

tanto ai potenziali rischi per la salute che si sono verificati negli ultimi anni quanto, piuttosto, ai problemi di competitività e maggiore vulnerabilità a cui sono esposti i piccoli produttori e rivenditori locali;

2. il mondo rurale gode di una generale simpatia da parte dei consumatori an-che grazie all’enfasi posta dai media sulle varie iniziative di vendita diretta;

3. al momento della scelta del prodotto si pone maggiore attenzione alle que-stioni etiche e ambientali, pur considerando egualmente importante la con-venienza (prezzo), la qualità e l’aspetto del prodotto stesso. Insomma, tramite strumenti e modalità di incontro tra domanda e offerta,

quali quelle cresciute all’insegna del modello di filiera corta, «si riscopre il rappor-to con il territorio, la relazione reale, non mediata, con chi alleva gli animali, coltiva la terra, ne raccoglie i frutti. Quando poi l’azienda agricola è specializzata nella produzione biologica, l’approvvigionamento diviene sovente occasione per com-prendere i metodi di produzione alimentare, la relazione esistente tra produzione agricola e la salvaguardia delle risorse naturali, per valorizzarne la tradizione e

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

le specificità delle produzioni tipiche, per riscoprire la relazione tra stagionalità e alimenti, per evidenziare il lavoro dell’agricoltore nel rispetto dell’ambiente, per favorire la biodiversità. Si realizza così, in trasparenza a queste apparenti modalità arcaiche quella sinergia tra produttore e consumatore, tra utente e produttore, che rappresenta forse la più avanzata delle teorizzazioni di un marketing post crescita (Fabris, 2010)».

A conclusione dell’analisi, appare utile citare l’indagine di Eurobaromentro 2008 sui prodotti biologici23, dalla quale emergono quattro comportamenti tipo che orientano la scelta dei consumatori verso questi prodotti: convinti (26%), respon-sabili (27%), occasionali (30%) e indifferenti (17%) (Fig. 2.1). Tali profili, infatti, sem-brano adattarsi anche per quanto riportato relativamente ai prodotti tipici legati al territorio.

Figura2.1–Ilconsumobiologico

Fonte: Eurobarometro 2008 - Indagine Ethos

23 Come evidenziato nel paragrafo 1.3.3, i consumi di prodotti biologici risultano in continua crescita, in controtendenza rispetto a quanto avviene, in questi anni di crisi, per gli altri prodotti agroalimentari e per altri settori dell’economia.

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In conclusione, quello che diventa importante è la valorizzazione del sistema territoriale come sommatoria dei valori portati da tutti gli attori della filiera a bene-ficio sia del consumatore sia di tutti gli stakeholder che operano in quel territorio. Le produzioni legate al territorio diventano, dunque, uno strumento per la diffu-sione di modelli alternativi di consumo legati non soltanto alla qualità e sicurezza alimentare, ma anche alla tipicità e al territorio, alla stagionalità dei prodotti, al rapporto diretto con i produttori, in un ottica di affermazione di valori etici e sociali. Molte identità territoriali, infatti, sono un’entità complessa da custodire non solo preservando le tradizioni e tutelando le produzioni agroalimentari, ma presidiando e salvaguardando il territorio in cui essi nascono.

2.3 Ilrecuperodelletradizionialimentari

La globalizzazione e il cambiamento dei ritmi di vita hanno facilitato, negli ultimi decenni, l’introduzione di abitudini alimentari diverse da quelli dei nostri pa-dri, ma soprattutto meno equilibrate. Oggi, l’attenzione dei consumatori è orientata, da un lato, verso una crescente richiesta di soluzioni che rispondano all’esigenza di maggiore velocità in termini di approvvigionamento, di preparazione e di trasfe-ribilità, con comportamenti di consumo differenziati, come ampiamente descrit-to nel primo capitolo di questo lavoro. Dall’altro, le migrazioni a livello mondiale e le contaminazioni culturali hanno di fatto modificato profondamente il rapporto dell’uomo con il cibo.

Il cibo, inteso per secoli come elemento fondamentale per la sopravvivenza, si è evoluto sino a trasformarsi in un vero e proprio “veicolo culturale”, rivestito di connotazioni conviviali e religiose, simbolo di identità dei popoli all’interno delle tradizioni culinarie; al tempo stesso, il cibo ha assunto valenze edonistiche ed este-tiche, con l’industria alimentare che si è adoperata a preservare (e a esaltare) il più possibile, nei processi di trasformazione e confezionamento, le caratteristiche nu-trizionali proprie del prodotto. Di recente, poi, si assiste alla scoperta di nuovi prin-cipi, frutto di ricerche nel campo della chimica, della biologia e della genetica, che danno origine a nuovi prodotti industriali arricchiti da integratori vitaminici, omega 3, probiotici, antiossidanti. A ogni lancio è forte la speranza che queste sostanze possano risolvere i problemi di salute, senza sforzi eccessivi; ma la mancanza di in-formazioni per identificare la sostanza o l’assenza di prove che indicano un’effettiva utilità per il mantenimento o il miglioramento delle funzioni del corpo, come per le

“proprietà antiossidanti”, hanno indotto l’Autorità europea per la sicurezza alimen-

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

tare (EFSA), come prevede la regolamentazione UE del settore delle dichiarazioni nutrizionali e sanitarie a respingere in molti casi le indicazioni nutrizionali sulle etichette dei prodotti alimentari. D’altra parte, se salute e alimentazione sono con-siderati dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) due diritti fondamentali dell’uomo, strettamente correlati tra loro, il progressivo allungarsi della vita media rende sempre più necessario trovare modalità per garantire una lunga e sana esi-stenza a tutti gli individui. E’ ovvio che senza una buona salute è difficile ottenere una soddisfacente qualità di vita e la buona salute non dipende solo dalla medicina, ma soprattutto dall’adozione di un migliore stile di vita che sia equilibrato, da una corretta alimentazione e da una costante attività di prevenzione24.

Tutto ciò ha portato alla modellizzazione e alla definizione di nuovi e diver-si stili di vita e alimentari influenzando, di conseguenza, anche i fattori produttivi ed economici collegati; il dover assicurare igiene, sicurezza e qualità dei prodotti alimentari segue un processo che coinvolge tutti gli attori della complessa catena alimentare: la produzione, la lavorazione, il trasporto, la vendita al dettaglio e la ristorazione.

Così, la diffusione della ristorazione collettiva (tavole calde, mense) o l’abi-tudine ad acquistare prodotti industriali già pronti all’uso, sollecitata da esigenze di lavoro e da mancanza di tempo, rappresentano un esempio di una nuova forma di “libertà” che consente di poter mangiare quello che veramente piace, ma non senza soddisfare specifici elementi che garantiscono al consumatore un consumo sano, quali: il rispetto degli standard di sicurezza alimentare e igienico-sanitaria nella produzione degli alimenti; il giusto apporto nutrizionale collegato all’uso di pasti fuori casa e il miglioramento della qualità dei prodotti già pronti all’uso; la disponibilità di prodotti per particolari tipi di alimentazione legata, ad esempio a problemi di diabete o celiachia.

Dunque, l’impiego della tecnologia in campo alimentare – che svolge un ruo-lo importante poiché rende disponibile un’ampia gamma di prodotti che altrimenti il consumatore non riuscirebbe ad avere -, la crescita del commercio internaziona-le e l’allungarsi della filiera hanno ulteriormente allontanato le persone da ciò che mangiano, rendendo necessari nuovi percorsi di costruzione della fiducia nel cibo,

24 La UE sostiene in tutti gli Stati membri, nell’ambito della Strategia europea 2008-2013 (decisione 1350/2007/CE) per i problemi di salute connessi alla nutrizione, al sovrappeso e all’obesità, misure che prevedono campagne per promuovere stili di vita e un’alimentazione più sana. L’alimentazione inadeguata è una delle principali cause del sovrappeso e dell’obesità di cui soffrono ben 21 milioni di cittadini comunitari, di cui 5 milioni, secondo l’OMS, sono bambini; in Italia, il 9,8% degli adulti è obeso e secondo il Ministero della salute più di un bambino italiano su tre di età compresa tra i 6 e i 10 anni è in soprappeso (Giuca, 2010b).

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nonostante un’intensa attività legislativa in materia di sicurezza e qualità alimenta-re a livello europeo (Sassatelli, 2010).

La gente “vuole mangiare più sano” e vuole sapere quello che mangia. Le esigenze crescenti dei consumatori in materia di sicurezza alimentare, trasparen-za e rintracciabilità dei prodotti alimentari, si sono tradotte nelle attuali, severe regolamentazioni comunitarie, con molteplici norme specifiche e settoriali (Giu-ca, 2010). In quest’ottica, l’etichettatura, in base alla quale i produttori alimentari hanno l’obbligo per legge di indicare sulla confezione del prodotto le sue carat-teristiche organolettiche, gli ingredienti utilizzati e altre informazioni nutriziona-li, rappresenta un importante e imprescindibile strumento di informazione sulle caratteristiche dei prodotti alimentari. Affinché il consumatore possa compiere una scelta informata è stata recentemente accolta dal Parlamento europeo la pro-posta che prevede di estendere l’indicazione obbligatoria del Paese di origine, oggi in vigore solo per alcuni alimenti, a tutti i tipi di carne, pollame, prodotti lattiero-caseari e altri prodotti a base di un unico ingrediente e nel caso in cui carne, pol-lame e pesce sono utilizzati come ingrediente in prodotti alimentari trasformati25. La maggior parte dei consumatori europei, infatti, vorrebbe conoscere l’origine26 dei prodotti alimentari che acquista, come risulta dalla consultazione pubblica sul tema della qualità dei prodotti agricoli nella politica comunitaria contenuta nel Libro Verde (CE, 2008)27. Al riguardo, secondo le ricerche commissionate dalla Food Standard Agency (FSA)28, i consumatori sarebbero non solo disorientati dalle attuali indicazioni in etichetta circa l’origine dei cibi, ma addirittura ingannati pro-prio dall’assenza dell’indicazione dell’origine stessa. L’ente di ricerca Oxford Evi-dentia29 ha scoperto che la maggioranza dei consumatori ritiene che il “Paese di origine” si riferisca al posto in cui il prodotto è stato prodotto, coltivato o cresciuto (nel caso di animali). In realtà, con “Paese di origine” di un prodotto trasformato si allude normalmente al luogo in cui è avvenuta l’ultima trasformazione30. Un altro

25 Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 16 giugno 2010 sulla Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sulla fornitura di informazioni alimentari ai consumatori presentata dalla Commissione (COM 2008/40 del 30 gennaio 2008).

26 L’obbligo di etichettatura di origine nell’UE riguarda carne bovina, miele, olio d’oliva, prodotti della pesca, frutta e verdure fresche, uova fresche e latte fresco pastorizzato. Dal 1° luglio 2010 è obbli-gatoria l’indicazione del luogo di coltivazione o allevamento per gli ingredienti dei prodotti biologici, unitamente al logo bio UE.

27 Cfr. http://ec.europa.eu/agriculture/quality/policy/opinions_en.htm.

28 Cfr: http://www.food.gov.uk.

29 Cfr: htpp://www.oxfordevidentia.co.uk.

30 Cfr. regolamento CE n. 450/2008 (nuovo codice doganale).

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

aspetto interessante della ricerca riguarda il fatto che i consumatori spesso non riescono a leggere ed interpretare correttamente tutte le informazioni che vengo-no loro fornite dall’etichetta e ciò genera “confusione, fraintendimenti e incertezza, che a loro volta provocano scetticismo e sfiducia nel cibo”. Sempre in base alle ricerche inglesi, i consumatori chiederebbero l’indicazione dell’origine di prove-nienza ben visibile, e chiaramente leggibile, in modo da far capire dove il prodotto sia stato raccolto/cresciuto. Solo l’11% dei consumatori intervistati avrebbe affer-mato che cerca informazioni generali sulle confezioni, mentre ben il 52% richiede che sia esplicitato sull’etichetta il Paese di provenienza; i consumatori, inoltre, percepiscono gli alimenti di origine locale come più freschi rispetto ad altri di provenienza esterna.

L’acuta sensibilità dei consumatori rispetto alle caratteristiche qualitative è fortemente cresciuta nel tempo ed è legata ai contenuti nutrizionali e salutistici degli alimenti, oltre agli aspetti igienici e di sicurezza sanitaria divenuti ormai dei pre-requisiti di qualità. Nel tempo, la società ha richiesto all’agricoltura prodotti di sempre maggiore qualità a basso impatto ambientale e un utilizzo razionale delle risorse naturali e la loro valorizzazione nel processo produttivo. Ne sono un esempio la richiesta crescente da parte dei consumatori di prodotti biologici, fenomeno sociale ormai consolidato, ma anche di tutti quei prodotti tipici locali, della tradizione contadina, delle microfiliere o acquistati nei farmers’ market. Si può dire, addirittura, che una “carica di nostalgia del passato” ispira, negli ultimi anni, il consumatore di questi prodotti che ricevendo dalle mani dell’agricoltore il cestino della frutta raccolta nel suo campo riesce a riscoprire i sapori naturali dei prodotti, a verificare e partecipare alla lavorazione, ad accorciare la filiera, ad aumentare la redditività per il produttore e a ridurre l’impatto ambientale della circolazione delle merci.

Ecco, allora, che oggi il cibo acquisisce una nuova e differente chiave di lettura volta al recupero culturale delle tradizioni e delle identità territoriali che altrimenti andrebbero perse; le antiche tradizioni sembrano essere tornate di moda fra i consumatori che le associano alla genuinità, alla qualità del cibo e alla propria salute. Il cibo ottenuto attraverso coltivazioni biologiche e tradizionali e il recupero di antiche ricette garantisce ai consumatori la possibilità di recuperare ritmi di vita più sereni e di riappropriarsi del territorio. È necessario, quindi, pro-teggere le varietà territoriali locali, anche nell’ottica di una maggiore conoscenza dell’unicità di ogni luogo in termini di tradizioni, trasmettere la conoscenza e il

“saper fare” nella preparazione dei cibi ma, soprattutto, comunicare tutti questi valori al consumatore.

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2.4 Ilvaloreeticodelconsumo

Nelle società economicamente più sviluppate il consumo è il fenomeno che più di altri caratterizza la vita sociale degli individui. Il consumo soddisfa bisogni in-dividuali e utilitaristici dell’uomo e, allo stesso tempo, svolge un ruolo di creazione e mantenimento delle relazioni sociali, assurgendo i beni di consumo a strumenti simbolici di appartenenza a un gruppo sociale (De Luca, 2009). Negli ultimi anni, tuttavia, si sono manifestati approcci più critici verso le pratiche di consumo, deter-minati da una crescente consapevolezza della non neutralità dell’atto di acquisto e dell’esistenza di nuovi doveri sociali accanto al semplice perseguimento di utilità e piacere. Tra i fattori che hanno favorito lo sviluppo di una nuova coscienza dei con-sumi vi è sicuramente una perdita di fiducia nelle imprese, provocata dal verificarsi di disastri ambientali (Seveso, Chernobyl), di crack finanziari fraudolenti (Enron, Parmalat) e di episodi di violazione di fondamentali diritti umani (Nike). Inoltre il flusso di informazioni, grazie alle nuove tecnologie comunicative, è divenuto globa-lizzato, consentendo una maggiore conoscenza e sensibilità verso problematiche inerenti l’umanità nel suo complesso (cambiamenti climatici, organismi genetica-mente modificati, guerre e carestie, fenomeni di allarme per la salute generale quali Sars, BSE, influenza aviaria). I consumatori non sono più esclusivamente de-stinatari di flussi informativi unidirezionali veicolati dalla comunicazione commer-ciale, ma diventano a loro volta in grado di inviare segnali al mondo della produ-zione, segnali che facciano conoscere la loro attenzione ai temi della salvaguardia ambientale, della giustizia, dei diritti umani e a tutto ciò che riguarda il contenuto etico delle attività commerciali.

Tabella2.1-Cosadevegarantireun’aziendaperessereconsiderataetica?Difesa ambiente 18,6%Rispetto leggi 17,9%Qualità dei prodotti 15,4%Rispetto diritti lavoratori 22,2%Trasparenza per consumatore 15,3%Prezzo equo 5,5%Difesa deboli 4%

Fonte: rilevazione Episteme, 2009

Il consumo definito di volta in volta “critico”, “responsabile”, “consapevole”, abbraccia una modalità di scelta del bene che prende in considerazione gli effetti sociali e ambientali del ciclo di vita del prodotto e si discosta dal semplice consumo

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utilitaristico, perché valuta oltre a prezzo e qualità altre componenti del prodotto e, in particolare, gli effetti della sua produzione e commercializzazione sull’ambiente e sulle persone. L’attenzione del soggetto nell’atto di acquisto è quindi rivolta alle modalità di produzione del bene, alle caratteristiche del soggetto che lo produce e allo smaltimento del prodotto, privilegiando, di conseguenza, processi di produ-zione e fasi di post-consumo meno inquinanti, che non comportino un depaupera-mento delle risorse naturali e lavorazioni in cui non siano stati violati diritti umani o norme a tutela delle condizioni di lavoro, quali quelle relative a lavoro nero, impiego di minori, orario, salute e prevenzione.

Si viene così delineando un nuovo modello di consumatore-cittadino, che attribuisce alle sue scelte economiche una valenza diversa e ulteriore rispetto al consumatore-cliente. Il concetto di qualità di beni e servizi per tali consumatori assume una veste nuova e finisce per comprendere anche qualità etica del bene e responsabilità sociale dell’impresa produttrice: secondo un’indagine Episteme condotta nel 2009 (Tab. 2.1), i consumatori legano l’etica dell’impresa soprattutto alla legalità, al rispetto del diritto dei lavoratori e alla difesa dell’ambiente (De Luca, 2009).

Il sistema agroalimentare, per alcune intrinseche peculiarità, più di altri set-tori è passibile di implicazioni di carattere etico. Le motivazioni sono rinvenibili, in letteratura, in diverse argomentazioni, di cui si riportano quelle più significative:

• il cibo soddisfa un bisogno primario ed è maggiormente deperibile rispetto ad altri, pertanto, si presta a operazioni quali quelle del Progetto Last Minute Mar-ket per evitare sprechi e soddisfare i meno abbienti (www.lastminutemarket.org);

• il cibo è cultura e ha un alto valore simbolico. La conservazione dei “giaci-menti del gusto” è attaccamento alle proprie radici, da difendere dalla mas-sificazione del gusto alimentare, come testimoniato dalla nascita di movi-menti quali Slow Food (www.slowfood.it);

• gli scandali alimentari (mangimi alle farine alimentari, polli agli antibiotici, ecc.) hanno reso rischioso il consumo di cibo e acuito la necessità di garan-tire in tutta la filiera elevati standard di igiene e sicurezza;

• il consumatore è sempre più interessato ai metodi di produzione e alle con-dizioni di vita degli animali allevati;

• l’uso di bioteconologie e in particolare degli OGM per scopo alimentare ha sollevato questioni etiche relative alla necessità di applicare il principio di precauzione e alle ripercussioni sulla salute umana, sull’ambiente e sulle economie dei Paesi poveri (Cappellotto, 2001);

• il ricorso al lavoro minorile è correlato alla specializzazione delle esportazio-

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ni nel settore primario (Becchetti, Trovato, 2002);• gli alimenti costano poco quindi considerazioni etiche possono superare

quelle economiche, anche per consumatori con vincoli di spesa più strin-genti;

• il cibo si presta più di altri beni a operazioni di marketing territoriale;• il settore agricolo è quello più distorto nel commercio mondiale: il sostegno

dell’agricoltura intensiva nei Paesi sviluppati crea povertà nei Paesi in via di sviluppo e blocca l’accesso ai mercati internazionali (Bianchi, 2003).

2.4.1 Iconfinidelconsumoeticoelaresponsabilitàsocialediimpresa

Il consumo responsabile mostra diverse sfumature: dalla scelta di acquista-re solo specifiche categorie di prodotti o marche in funzione del grado di approva-zione verso la condotta socialmente responsabile dell’azienda al non consumo, che assume il significato di “sanzione” verso quei prodotti o quelle marche non coerenti con il proprio sistema di valori.

Il consumo responsabile, pertanto, indaga tutte le caratteristiche del pro-dotto e rappresenta una naturale evoluzione della pratica del consumo critico, ba-sato non tanto nel rispetto di criteri predeterminati ma nell’abitudine di porsi delle domande prima di scegliere un prodotto.

I criteri del consumo responsabile investono la dimensione etico-sociale e quella dell’impatto ambientale, in particolare:

• le condizioni dei lavoratori: vengono evitate le produzioni in Paesi in cui non sono garantiti i diritti dei lavoratori in termini di condizioni di lavoro, orari, salari o che non assicurano un giusto compenso ai produttori delle materie prime e agli altri soggetti della filiera;

• le politiche ambientali: vengono evitate le aziende impegnate in progetti ri-tenuti dannosi per l’ambiente, mentre vengono preferite quelle che hanno ottenuto certificazioni che attestano una gestione aziendale a basso impatto ambientale;

• il ciclo produttivo: vengono evitati prodotti e imballaggi la cui produzione ri-chiede grandi consumi di energia o risulta altamente inquinante;

• l’imballaggio: vengono preferiti i prodotti alla spina o sfusi o comunque con pochi imballaggi, per ridurre il consumo di risorse utilizzate per produrli ed evitare lo smaltimento di rifiuti;

• la stagionalità: vengono preferite frutta e verdura di stagione per evitare il

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consumo di energia dovuto alla coltivazione in terra e al trasporto da aree lontane;

• la provenienza: vengono preferite i prodotti locali o di aree limitrofe, per so-stenere la filiera locale e ridurre il consumo di energia e l’emissione di gas di scarico causato dai trasporti.Al riguardo, in Italia, almeno 3 consumatori su 10 ritengono di dover essere

informati dei comportamenti scorretti delle imprese riguardo alla sicurezza e ai diritti dei lavoratori, a forme d’abuso di potere, a eventuali attività condotte nel ter-zo mondo, all’impatto delle produzioni sull’ambiente e all’utilizzo di OGM; inoltre, almeno 2 consumatori su 10 vogliono essere informati di comportamenti illeciti e fraudolenti e dell’eventuale uso di etichette e messaggi ingannevoli (Unioncamere, 2004).

Il modello del consumo responsabile, tuttavia, non ha confini univoci e non è facile stabilirne il numero di praticanti. Nel 2000, il 58% dei cittadini europei rite-neva che il mondo economico non fosse abbastanza responsabile sul piano sociale, il 25% degli intervistati giudicava molto importante, al momento dell’acquisto, la responsabilità sociale e l’impegno dell’impresa produttrice e il 44% si dichiarava disponibile a pagare di più per acquistare prodotti socialmente ed ecologicamente connotati 31.

Per quanto riguarda la tendenza in Italia, secondo un’indagine condotta nel 2008 dalla società Ethos dell’istituto Lorien Consulting, il 69 % degli intervistati di-chiara di aver compiuto almeno un acquisto socialmente responsabile negli ultimi mesi, contro il 31% rilevato dallo stesso istituto nel 2003 e il 59% nel 2005, rivelando una fisiologica crescita del fenomeno. Una rilevazione realizzata nello stesso perio-do dalla società Episteme, descrive un consumatore disposto a pagare di più per un prodotto qualora la produzione rispetti l’ambiente (per il 23,4% degli intervistati) o qualora vengano rispettati i diritti dei lavoratori che lo producono (16,5%). La stessa indagine rivela che, se nel 2008 tra più marche il 56% sceglie quella che difende l’ambiente, il dato nel 2009 cresce al 63%.

I consumatori costituiscono uno degli stakeholder delle imprese, insieme a dipendenti, azionisti, fornitori, investitori, istituzioni, comunità locale e territorio, capaci di condizionare in modo incisivo la decisione di un’impresa di adottare scelte imprenditoriali socialmente responsabili. Il Libro verde della Commissione europea (CE, 2001) si muove in questa direzione, sostenendo che «il consumatore-cittadino, stakeholder fondamentale del sistema di consumo, è uno dei più importanti sog-

31 Indagine CSR Europe 2000.

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getti di stimolo e controllo alla RSI; può infatti esercitare una pressione importante: dall’indignazione alla denuncia, dal consumo responsabile al boicottaggio». La RSI rappresenta, infatti, una leva di differenziazione ormai irrinunciabile per l’impren-ditore che voglia considerare le molteplici richieste del mercato verso un’agricol-tura che garantisca adeguati livelli di protezione sociale e rispetti l’ambiente, che contribuisca allo sviluppo sostenibile del territorio e fornisca cibi sicuri e di qualità.

In Italia, la percezione dei consumatori rispetto alle aree aziendali sulle quali la responsabilità sociale d’impresa dovrebbe agire è stata efficacemente indagata dall’istituto Lorien Consulting; dopo il profilo etico-morale, come si evince dalla tabella 2.2, i rapporti con il personale e la gestione aziendale rappresentano gli am-biti che i consumatori vorrebbero maggiormente interessati da azioni socialmente responsabili da parte dell’impresa stessa.

Tabella2.2-Percezionerispettoalleareeaziendalisullequalilaresponsabilitàsocialed’impresadovrebbeagire

Profilo Etico-Morale 40,3%

Attenzione ai bisogno della società 18,8%

Responsabilità 9,8%

Onestà, correttezza,eticità 8,3%

Rapporti con il personale 25,6%

Tutelare i dipendenti 3,2%

Rispettare il personale 12 %

Tutelare diritti dei lavoratori 2,2%

Attenzione ai bisogni dei dipendenti 1,8%

Gestione aziendale 25,2%

Creare occupazione 22,6%

Buona gestione 13,5%

Rispettare le esigenze dei clienti 6 %

Rispetto delle normative 20,7 %

Rispetto dell’ambiente 11,6 %

Rispetto delle leggi 7,9 %

Rispetto delle norme per la sicurezza dei dipendenti 3 %

Produzione 9,4 %

Attenzione alla produzione 5, 2 %

Fornire un buon prodotto 4,5 %

Fonte: Istituto Lorien Consulting, rilevazione 2006 per Altis – Osservatorio Operandi su base cittadini

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

2.4.2 Lasensibilitàambientalenelconsumoagroalimentare

Secondo le tesi sostenute a livello internazionale, il consumo del mondo svi-luppato è globalmente insostenibile e non sarebbe possibile replicare nei Paesi in via di sviluppo i livelli e il modello di consumo dei Paesi industrializzati. L’economia del mondo, come più volte dimostrato dall’impronta ecologica nei principali studi di settore, non può crescere nello stesso modo in maniera illimitata. L’evidenza dei rischi per l’ambiente, la consapevolezza dell’uso insostenibile delle risorse e una generale presa di coscienza delle conseguenze dell’azione umana sull’ambiente, hanno portato la collettività, negli ultimi venti anni, a una crescente sensibilità per le questioni ambientali e per i temi dello sviluppo sostenibile32.

Anche le istituzioni pubbliche promuovono lo sviluppo sostenibile attraverso il controllo delle esternalità negative provocate dall’attività umana sull’ambiente; i sistemi economici industrializzati hanno solitamente utilizzato gli strumenti nor-mativi, ma negli ultimi anni si assiste a un’inversione di tendenza e gli strumenti di natura economica sembrano ottenere maggiore importanza. Uno degli strumenti individuati a livello mondiale e comunitario per indirizzare il modello produttivo ver-so un modello di sviluppo sostenibile, è rappresentato dalla certificazione ambien-tale volontaria, basata sul comportamento “proattivo” delle imprese, stimolate dal mercato a migliorare le prestazioni ambientali dei propri prodotti e servizi. I consu-matori dei Paesi a più alto reddito, infatti, sono sempre più consapevoli del degrado ambientale provocato dagli attuali sistemi produttivi e, essendo potenzialmente in grado di sollecitare comportamenti maggiormente responsabili delle aziende, si orientano verso prodotti a più basso impatto ambientale, scegliendo quelli garantiti dalla certificazione di un soggetto terzo e indipendente. Se il consumatore rappre-senta, quindi, un elemento chiave nell’insostenibilità dell’attuale sistema econo-mico, può altresì diventare il punto di forza di un sistema completamente diverso, attraverso l’esercizio della propria sovranità di consumatore e svolgendo una fun-zione attiva d’indirizzo produttivo.

In tal modo s’instaura tra le imprese una nuova forma di concorrenza, ba-sata non più sulla sola competizione di prezzo (price competition) ma anche sulle

32 Nel 1987, con il documento dal titolo “Our Common Future”, elaborato nell’ambito dell’ONU, dalla World Commission on Environment and Development, presieduta da G.H. Brundtland, si giunse ad una definizione di sviluppo sostenibile come quel «processo attraverso il quale è possibile soddi-sfare le necessità delle generazioni presenti senza compromettere le necessità delle generazioni future». Negli anni Novanta si assiste alla creazione dell’International Society for Environmental Ethics (ISEE), che partecipa al congresso dell’ONU sull’ambiente e sullo sviluppo a Rio de Janeiro nel ’92: inizia, così, l’epoca dello sviluppo sostenibile.

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scelte sociali e ambientali che possono contribuire a differenziare notevolmente un prodotto da un altro (non price competition). In tal senso, i parametri per la scelta di un prodotto c.d. “verde” si basano sull’impatto ambientale della produzione e si riferiscono tanto al prodotto quanto al comportamento del produttore.

I prodotti “verdi” sui quali si orienta l’opzione di acquisto del consumatore responsabile ricoprono una vasta gamma di offerta; tra.questi, si possono senz’al-tro annoverare: i prodotti che riducono l’inquinamento e/o che risparmiano energia nell’uso o nella produzione; i prodotti riciclabili o riutilizzabili e quelli realizzati con materiali riciclati; i prodotti con meno packaging; i prodotti con meno emissioni dannose; i prodotti realizzati con materiali naturali e biologici; i prodotti realizzati con meno materie prime; i prodotti certificati come green; i prodotti non testati su animali.

Il modello prevalente di consumo “verde” si ispira alla logica dell’“usa e get-ta”, del monouso e quindi del sovra-sfruttamento delle risorse, con un’attenzione particolare agli imballaggi e al loro smaltimento33.

In Europa, l’indagine svolta nel 2008 da Boston Consulting group per indaga-re la sensibilità ambientale dei consumatori, ha rilevato che secondo il 75% degli intervistati le aziende dovrebbero fornire informazioni sull’impatto ambientale delle loro attività, dovrebbero avere una buona tracciabilità ambientale (73%) e dovreb-bero offrire prodotti “verdi” (66%); il 34% degli intervistati, inoltre, ha dichiarato di ricercare sistematicamente prodotti “verdi” e il 24% ha ritenuto accettabile pagare un prezzo maggiore per questi prodotti

Nel settore agroalimentare in Italia, le strategie di comunicazione commer-ciale basate sulla sostenibilità e sul valore ambientale della merce (green mar-keting) e sulla valenza salutistica del prodotto alimentare (cura e prevenzione del corpo) hanno fatto leva, negli anni, sulle scelte di acquisto dei consumatori verso i prodotti biologici che, sin dalla loro comparsa sul mercato, hanno incarnato questi valori (Cfr. par. 1.3.3).

Nella grande distribuzione, ciò si è tradotto nella crescita della superfici di vendita destinate ai prodotti biologici e ai prodotti ecologici (Box 2.1), mentre hanno

33 Nel mondo si consumano dai 500 ai 1.000 miliardi di sacchetti di plastica ogni anno; in Europa 100 miliardi, di cui almeno 15 in Italia. La media del consumo di sacchetti di plastica pro capite si aggira, nei paesi industrializzati, tra i 200 e i 500 pezzi all’anno. Sostituendo i normali sacchetti di plastica con altri sacchetti riutilizzabili si eviterebbe di disperdere nell’ambiente 1 milione di tonnellate di plastica all’anno, si risparmierebbero 700 mila tonnellate di petrolio e si ridurrebbero le emissioni di CO2 di 1,4 milioni di tonnellate. A partire dal 2011, tenuto conto della non conformità degli attuali sacchetti in plastica alle norme tecniche EN 13432 sugli imballaggi, in Italia sarà vietato l’uso di tali sacchetti.

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

fatto la loro comparsa, accanto alla vendita diretta e a varie opzioni di filiera corta (Cfr. par. 2.2), modalità di vendita sostenibile che rinunciano all’uso degli imballaggi (Box 2.2).

Box2.1-LalineaViviVerdeCoopAllo scopo di sensibilizzare i consumatori sui temi della salvaguardia dell’ambiente, Coop Italia ha deciso di rag-gruppare tutti i prodotti a marchio provenienti da agricoltura biologica e quelli non alimentari a basso impatto (linee “bio-logici Coop” ed “eco-logici Coop”), realizzati con criteri sostenibili e di compatibilità ambientale, sotto un unico brand: Vivi Verde Coop.

Vivi Verde Coop comprende 300 referenze di prodotti biologici a marchio, per i quali Coop ha deciso di escludere dalla lista degli ingredienti sia i grassi tropicali sia gli aromi, anche se naturali, e i prodotti Coop garantiti dal mar-chio europeo di qualità ecologica Ecolabel, come i detergenti per la pulizia della casa, i prodotti in carta riciclata al 100% e le nuove lampade a risparmio energetico.

Box2.2-IdistributoridilattesfusoDa qualche anno è possibile acquistare latte fresco, in alcuni Comuni, distribuito mediante erogatori, proveniente dalle aziende di allevamento locali e trasportato sfuso. I distributori sono collocati all’interno di negozi, supermer-cati o in prossimità di luoghi pubblici e il contenitore può essere acquistare presso lo stesso punto di distribuzione ed è riutilizzabile.

Scegliere il latte fresco ha il vantaggio di inquinare meno grazie a una riduzione del trasporto, dei consumi ener-getici e dei rifiuti.

2.4.3 Leimplicazionisocialinellacatenadifornitura:ilcommercioequoesolidale

Alcuni fenomeni tipici degli ultimi decenni hanno posto l’attenzione sull’importanza di includere criteri etici nella gestione delle catene di fornitura lungo l’intera filiera. Il processo di globalizzazione dell’economia mondiale ha dato alle imprese dei Paesi industrializzati la possibilità di delocalizzare le fasi di produzione delle proprie attività in Paesi in cui i bassi costi della manodope-ra permettono di conseguire consistenti vantaggi di costo.

A tale processo si accompagna il progressivo snellimento delle strutture aziendali e la crescente importanza dell’outsourcing al fine di concentrare le risorse aziendali sulle attività che consentono la maggior creazione di valore. Tale tendenza si è tradotta, soprattutto per le imprese operanti in alcuni setto-ri manifatturieri e agro-alimentari, nella concentrazione delle risorse interne sulle attività di product development e design, sulle fasi logistiche e distribu-tive della catena del valore, sulle attività di marketing e comunicazione e, di

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riflesso, nell’esternalizzazione delle attività a basso valore aggiunto, tipica-mente quelle a monte della catena del valore connesse ai processi produttivi (Guidotti, 2006).

La delocalizzazione suscita una forte competizione volta ad attrarre in-vestimenti e capitali occidentali sia tra i Paesi, sia tra i produttori dello stesso Paese. Ne consegue una “corsa al ribasso” nella tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori impiegati nelle produzioni (Guidotti, 2006). I livelli minori di tutela consentono un abbassamento del costo medio della manodopera attraverso diversi fattori: le retribuzioni al di sotto dei livelli minimi stabiliti dagli ordina-menti nazionali e dai trattati internazionali; l’impiego di categorie di lavora-tori (ad esempio migranti, donne e minori) che per condizioni socio-culturali accettano una situazione di lavoro disagiata quanto a sicurezza, orari, ecc; le limitazioni alla libertà associativa dei lavoratori al fine di eludere lo strumento della contrattazione collettiva.

A partire dai primi anni Novanta del secolo scorso l’opera di sensibiliz-zazione svolta da alcune organizzazioni della società civile attive per il rispetto dei diritti umani ha portato a conoscenza del grande pubblico numerosi casi di violazione dei più basilari diritti dei lavoratori impiegati all’interno di siti produttivi dislocati nei Paesi asiatici e dell’America Latina. Tale opera, favorita dall’attenzione data dai media, ha avuto la sua manifestazione più evidente in numerose azioni di pressione finalizzate a spingere le imprese ad assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori all’interno di tutti i siti che com-pongono le rispettive catene di fornitura.

Lo sviluppo di forme di commercio diverse da quelle tradizionali e basate su finalità mutualistiche costituisce una delle principali novità del panorama economico attuale. Come già sottolineato, il fenomeno del consumo etico si configura come l’introduzione, nelle determinanti di consumo, di motivazioni che condizionano l’acquisto non in quanto migliorano l’utilità o il benessere dell’acquirente, ma in quanto determinano un miglioramento del benessere di altri soggetti (Sali, 2004).Ovvero, vengono introdotti nelle azioni di consumo elementi di decisione dipendenti da scelte altruistiche e, pertanto, diventando significativa la difesa di diritti di altri, ciò costituisce un valore per l’intera col-lettività.

Il commercio equo e solidale rappresenta uno degli strumenti più inte-ressanti attraverso i quali la responsabilità sociale del consumatore può dare un contributo alla risoluzione dei problemi della sostenibilità sociale e am-bientale dei processi di sviluppo. Una definizione precisa e – soprattutto – uni-

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

versalmente condivisa del fenomeno del Commercio Equo e Solidale (CEeS) è estremamente difficile da proporre. Quella più comunemente citata definisce il CEeS come una modalità di relazione commerciale tra i produttori del Sud del mondo e i consumatori finali del Nord del mondo, alternativa a quella tra-dizionale. Più specificatamente, vengono generalmente ricondotti in questa categoria quei prodotti alimentari e artigianali che presentano caratteristiche peculiari rispetto ai prodotti generalmente venduti sul mercato, che riguar-dano più che la natura del prodotto le caratteristiche del processo produttivo.

La nascita del commercio equo e solidale34 ha avuto il merito di rivelare ai produttori tradizionali operanti sul mercato la presenza di una quota non marginale di consumatori le cui scelte di consumo sono basate non solo sui tradizionali elementi di prezzo e qualità, ma anche sul valore sociale del pro-dotto stesso. Ciò ha imposto, alle imprese tradizionali, di aumentare il proprio grado di responsabilità sociale al fine di catturare la quota di consumatori più attenti ai contenuti etici e sociali del prodotto. In questo senso, il commercio equo e solidale rappresenta un importante strumento attraverso il quale è pos-sibile risolvere “dal basso” il problema del rapporto tra conflitto e solidarietà nel mercato, trasformando la solidarietà stessa in una delle variabili compe-titive su cui si gioca la concorrenza nel mercato (Becchetti, Paganetto, 2003). Con gli acquisti di prodotti socialmente responsabili come quelli del commer-cio equo e solidale i consumatori del Nord del mondo agiscono da “sindacalisti” per i lavoratori del Sud, creando gli incentivi ad un miglioramento delle loro condizioni di lavoro e ad una convergenza con quelli dei lavoratori del Nord. I principi del commercio equo e solidale rappresentano efficaci strategie in questa direzione e la loro applicazione non coercitiva, fondata sulla libera scel-ta dei consumatori, rappresenta un’opportunità di aumento del benessere dei consumatori attraverso un ampliamento della gamma dei prodotti che tenga conto dell’importanza del contenuto sociale degli stessi.

L’azione di sostegno allo sviluppo svolta dal Commercio Equo e Solidale vede l’azione congiunta di diversi soggetti (Barbetta, 2006):

34 Il “commercio equo e solidale” (fair trade) nasce negli anni Sessanta, quando diverse organizzazioni senza scopo di lucro intraprendono iniziative pionieristiche volte e favorire l’esportazione di merci, prevalentemente derrate agricole e oggetti di artigianato, da parte di alcuni produttori marginali del Sud del mondo. Queste merci, attraverso una nascente rete distributiva di esercizi commerciali spe-cializzati, le “botteghe del mondo”, cominciano a essere vendute a gruppi di consumatori dei paesi occidentali ad elevata sensibilità sociale. Mosse dallo slogan “trade not aid”, queste organizzazioni puntano a usare il commercio internazionale come un fattore di sviluppo per i paesi più arretrati. imponendo, così, il fair trade all’attenzione nazionale e internazionale alla fine degli anni Novanta.

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a) i produttori; b) i trader (esportatori e importatori); c) i distributori;d) i certificatori.

In particolare, i produttori del commercio equo sono rappresentati da piccole organizzazioni generalmente a dimensione familiare o con struttura cooperativa, ma in alcuni casi anche con strutture proprietarie capitalistiche, localizzate in aree svantaggiate dei Paesi del Sud del mondo. Il loro sviluppo economico è stato, negli anni, spesso ostacolato dalla impossibilità di intrat-tenere rapporti commerciali con aree più ricche del mondo, che sarebbero in grado di assorbire i loro prodotti agricoli e artigianali. Con l’adesione di questi produttori alla filiera del CEeS è possibile individuare nuovi sbocchi commer-ciali per i loro prodotti nei Paesi più ricchi e reperire assistenza tecnica nella produzione dei beni stessi. In cambio di questi vantaggi, i produttori che par-tecipano alla filiera del commercio equo si impegnano a garantire il rispetto di alcuni requisiti minimi riguardanti le condizioni di lavoro degli associati o dei dipendenti (in termini di libertà di associazione e contrattazione, condizioni di impiego e salute, salari), la sostenibilità ambientale dei processi produttivi adottati e la destinazione a fini sociali e comunitari del premio (inteso come sovrappiù rispetto al prezzo) pagato dagli acquirenti dei loro prodotti.

I trader (esportatori e importatori) della filiera del CEeS sono i soggetti che favoriscono o effettuano materialmente il trasferimento dei beni realizzati dai produttori nei Paesi dove i beni saranno consumati. Raramente la figura del produttore e quella dell’esportatore coincidono. Più di frequente, specie nel caso del commercio di derrate agricole, tale funzione viene esercitata da organizzazioni specializzate, generalmente costituite in forma cooperativa o consortile, con la proprietà assegnata agli stessi produttori associati.

Gli importatori dei beni si impegnano a garantire ai produttori (o agli esportatori creati da questi ultimi) contratti di lungo termine che consenta-no loro di effettuare gli investimenti specifici, necessari a sviluppare prodotti sostenibili e con caratteristiche adatte ai mercati occidentali. Gli importatori, se i produttori lo richiedono, si impegnano ad anticipare una parte del costo delle forniture, così da ridurre le necessità di indebitamento dei produttori; essi, inoltre, garantiscono ai produttori almeno il prezzo minimo concordato e stabilito dalle organizzazioni di certificazione, necessario a coprire i costi di produzione. Gli importatori assicurano anche il pagamento di un premio il cui ammontare viene destinato a fini sociali e di sviluppo della comunità dei pro-

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

duttori secondo progetti controllati dai certificatori.I distributori sono le organizzazioni, localizzate nei Paesi occidentali, che

vendono i prodotti della filiera ai consumatori finali. In un periodo più recente, i prodotti del CEeS hanno interessato anche alcune catene della GDO, così come alcuni negozi tradizionali, sicché ora essi sono disponibili presso un ampio spettro di esercizi commerciali al dettaglio35.

L’ultimo soggetto della filiera del CEeS è rappresentato dai certificatori. La presenza di un “marchio di garanzia” credibile ed affidabile è una caratteri-stica cruciale del movimento del commercio equo e solidale, poiché permette ai consumatori di identificare i prodotti che rispettano appieno i principi nella produzione e nella importazione dei beni. Nel 1997, varie organizzazioni nazio-nali – riconosciuta l’esigenza di un unico marchio e di una adeguata struttura di certificazione - hanno dato vita a FLO (Fairtrade Labelling Organization)36, una associazione senza scopo di lucro di diritto tedesco, che agisce come ente internazionale di certificazione e detiene i diritti d’uso del marchio “Fairtrade” che ormai caratterizza il CEeS a livello mondiale.

Nel 2006, secondo una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca, il fe-nomeno del fair trade, in Italia, ha interessato 485 botteghe del mondo, il 55% delle quali ha aperto dopo il 2000, gestite da 347 cooperative e/o associazioni non profit con un fatturato complessivo del settore di 97,5 milioni di euro, alle spalle del Regno Unito (216 milioni di euro) e della Svizzera (138 milioni di euro). A tale data erano presenti sul territorio nazionale 10 organizzazioni non profit specializzate e 70 licenziatari del marchio TransFair-Fair Trade. I principi del commercio equo e solidale nel nostro Paese sono sostenuti dall’Associa-zione Assemblea Generale Italiana del CEeS (Box 2.3)

35 Le potenzialità del settore, grazie anche alla diffusione di questi prodotti presso mense pubbliche, servizi di ristorazione e catene della grande distribuzione, stanno però scontando una normativa ad oggi ancora incompleta.

36 La certificazione garantisce il rispetto degli standard sociali internazionali stabiliti da FLO tra cui prezzi minimi garantiti, contratti di acquisto duraturi, rispetto dei lavoratori, un margine sociale da destinare a progetti che beneficiano tutta la comunità, utilizzo di metodi agricoli di lotta integrata.

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Box 2.3 - Gli obiettivi del commercio equo e solidale nella Carta dei criteriadottatadallaAssociazioneAssembleaGeneraleItalianadelcommercioequoesolidale1.Migliorare le condizioni di vita dei produttori aumentandone l’accesso al mercato, rafforzando le organizzazioni di produttori, pagando un prezzo migliore ed assicurando continuità nelle relazioni commerciali.

2.Promuovere opportunità di sviluppo per produttori svantaggiati, specialmente gruppi di donne e popolazioni indigene e proteggere i bambini dallo sfruttamento nel processo produttivo.

3.Divulgare informazioni sui meccanismi economici di sfruttamento, tramite la vendita di prodotti, favorendo e stimolando nei consumatori la crescita di un atteggiamento alternativo al modello economico dominante e la ricerca di nuovi modelli di sviluppo.

4. Organizzare rapporti commerciali e di lavoro senza fini di lucro e nel rispetto della dignità umana, aumentando la consapevolezza dei consumatori sugli effetti negativi che il commercio internazionale ha sui produttori, in maniera tale che possano esercitare il proprio potere di acquisto in maniera positiva37.

5.Proteggere i diritti umani promuovendo giustizia sociale, sostenibilità ambientale, sicurezza economica.

6.Favorire la creazione di opportunità di lavoro a condizioni giuste tanto nei Paesi economicamente svantaggiati come in quelli economicamente sviluppati.

7. Favorire l’incontro fra consumatori critici e produttori dei Paesi economicamente meno sviluppati.

8.Sostenere l’auto-sviluppo economico e sociale.

9.Stimolare le istituzioni nazionali ed internazionali a compiere scelte economiche e commerciali a difesa dei piccoli produttori, della stabilità economica e della tutela ambientale, effettuando campagne di informazione e pressione affinché cambino le regole e la pratica del commercio internazionale convenzionale.

10.Promuovere un uso equo e sostenibile delle risorse ambientali.

2.5 Ilneosoggettivismodelconsumoalimentare37

L’attuale congiuntura economica ha messo ancora più in luce, accelerandolo, uno dei processi di trasformazione da tempo in atto nella società occidentale e in quella italiana in particolare: il progressivo allontanamento dei consumatori da quel modello di società opulenta e dell’iperconsumo a cui avevano per decenni, a partire almeno dagli anni Settanta, informato le loro scelte di acquisto. È da tempo, infatti, ben prima dello scoppio della crisi, che presso la platea dei consumatori si era iniziato ad assistere a comportamenti per certi versi anomali, rispetto a quelli tradizionali, come confermato

37 Il criterio della trasparenza implica che il consumatore sia consapevole e pienamente informato circa la destinazione di ogni componente del prezzo pagato per il prodotto. A tal fine la gran parte dei prodotti sono accompagnati da schede che, in dettaglio, riportano la composizione delle varie voci di spesa che vanno a comporre il loro costo finale (prezzo FOB, costi di trasporto, dazi, ecc.). Allo scopo di aderire al principio di trasparenza, l’etichetta del prodotto equo e solidale deve contenere tutta l’informazione reperibile relativa ai costi di produzione, al prezzo di vendita all’ingrosso e alle caratteristiche nutrizionali del prodotto.

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

dall’emergere di un orientamento critico rispetto alle logiche di fondo su cui il sistema era costruito, e molto più autonomo e distintivo rispetto a quell’orientamento massifi-cante che ha caratterizzato la costruzione della società dell’iperconsumo almeno dagli anni Ottanta in poi. Su questi “germi” la crisi si è innescata come un detonatore, facendo esplodere, tra le famiglie e gli individui, una vera e propria rivoluzione dei modelli di consumo, che proprio dal restringimento e progressivo assottigliamento della capacità di reddito e spesa delle famiglie ha tratto nuovo ossigeno ed alimento (Cfr. capitolo 1).

Quello che infatti si va sempre più affermando è un modello di comportamento in cui gli imperativi dell’opulenza cedono progressivamente il passo a quelli di sobrietà e austerità, da intendersi tuttavia non in senso riduttivo e pauperista, di risposta alla crisi, ma come crescente consapevolezza e rifiuto di un modello, di consumo e di crescita, non solo non più sostenibile, ma sempre più inattuale rispetto alle trasformazioni pro-fonde che hanno investito la nostra società.

La crescita degli acquisti fair trade, il sempre maggiore apprezzamento per la “capacità di durata” dei prodotti e dei servizi, l’orientamento verso prodotti di qualità, so-prattutto nell’agroalimentare, il ritorno del valore del risparmio, la lotta allo spreco, delle risorse energetiche come di quelle economiche, sono segnale di uno stile di vita che va vieppiù inglobando quelle trasformazioni da tempo in atto a livello globale, vale a dire:

• il declino delle aspettative crescenti, ovvero dell’idea di uno sviluppo come irre-versibile percorso di crescita, con l’equivoco di fondo, a questo connesso, di un benessere che si misura in termini di quantità dei beni consumati;

• l’esplodere delle emergenze – ambientali, sociali – e l’affermarsi assieme a que-ste di una logica di sviluppo sempre più orientata e improntata a principi di soste-nibilità e compatibilità ambientale, ma anche psicologica e sociale;

• una sempre maggiore attenzione alla qualità della vita, sotto il profilo sociale e relazionale, che sta progressivamente portando a riconsiderare anche il rapporto con il lavoro e con il reddito da questo generato, soprattutto quando non presenta rilevanti aspettative di crescita e di promozione;

• la trasformazione dei mercati e dei processi di vendita, indotta dalla globalizza-zione e dall’avvento di internet, che presentano, oggi rispetto a ieri, un’offerta di beni e servizi radicalmente diversa, perché molto più estesa, differenziata e soprattutto accessibile. L’effetto più significativo di tali trasformazioni va rinvenuto nella progressiva pre-

sa di distanza da parte dei consumatori da quei comportamenti orientati all’accumulo di beni e servizi, alla “quantità” insomma, e nella sempre più frequente ricerca di una qualificazione progressiva delle scelte di consumo, orientandole alla qualità e a un’at-tenzione sempre più marcata a tutti quegli aspetti relazionali, valoriali, che la connotano:

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insomma, la ricerca di una sobrietà che non significa rinuncia, ma «presa di distanza dall’eccesso, dall’iperbole, dall’elitismo di un consumo gridato, ostentato o anche sol-tanto inutile e inutilmente cospicuo (Fabris, 2010)».

Tale cambio di atteggiamento comporta diverse conseguenze di ordine pratico nel comportamento di consumo, vale a dire:

• la crescente “soggettivizzazione” del consumo, che traspare dai comportamenti tanto della domanda quanto dell’offerta, tendendo entrambe a sfuggire a quella logica massificante che, come accennato, ha orientato il mercato fino a pochi anni fa;

• il downgrading del livello di consumo, all’insegna dell’imperativo categorico del “consumare meno, consumare meglio”, che comporta una maggiore attenzione e cautela nello spendere, sconosciuta in passato;

• la crescente attenzione al prezzo, che deriva, come già sottolineato, non solo dal-la minore disponibilità economica da parte dei consumatori e dalle attese “de-crescenti” che caratterizzano sempre più le loro aspettative, ma anche da una maggiore consapevolezza che sia oggi possibile spendere meno, senza per ciò dovere rinunciare alle attese di qualità dei beni e servizi consumati;

• l’aumentato apprezzamento per la qualità del bene/servizio acquistato, e della durata come tratto distintivo di qualità e asse portante del nuovo sistema di valori cui sono improntate le scelte dei consumatori;

• la ricerca di canali di acquisto plurimi e diversificati, in cui il consumatore diventa vero protagonista delle scelte, arbitro unico del proprio consumo, districandosi nella giungla delle opzioni – sempre più articolate e differenziate – e dei luoghi di vendita e acquisto (dai discount, agli outlet, dagli spacci aziendali ai temporary shop, a internet, che più di tutti ha contribuito a determinare lo stravolgimento dei modelli e dei comportamenti di consumo);

• il progressivo slittamento del valore del consumo dal possesso all’uso, dal con-sumo come status, indotto dalla proprietà di un bene o servizio, a un’idea di con-sumo come effettiva fruizione dello stesso, il che significa la tendenza crescente non solo a sostituire l’acquisto con il noleggio, e la relativa esplosione di tutte le forme di acquisto disgiunte dalla proprietà (il leasing, l’affitto, ecc), ma anche la riscoperta dello scambio, del baratto e dell’usato, del valore del dono e della gratuità come nuova frontiera di consumo. Tali trasformazioni appaiono in tutta la loro evidenza con riferimento ai consumi

alimentari, che da sempre rappresentano un terreno privilegiato, ma al tempo stesso sottovalutato e trascurato, di esplorazione e analisi delle trasformazioni dei comporta-menti di consumo.

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

Sono interessanti da questo punto di vista i risultati della recente indagine Cen-sis/Coldiretti (2010), da cui emerge il diffondersi presso gli italiani di un atteggiamento decisamente nuovo e originale rispetto ai propri comportamenti di consumo alimentare, molto più critico e intelligente, connotato da un felice impasto tra attenzione alla qualità di ciò che mangiano, alla tutela della salute, della sicurezza e genuinità dei prodotti, e la più consolidata e incessante ricerca di convenienza a tutti i costi. Se le abitudini alimen-tari rispondono alla pluralità di esigenze e aspettative, difficilmente queste possono tra-dursi in abitudini alimentari di massa, ma sempre più rispecchiano un “politeismo” del consumatore degli anni Duemila, fatto di combinazioni di luoghi di acquisto dei prodotti, budget di spesa famigliari e diete alimentari; il rapporto con l’acquisto di generi alimen-tari appare, pertanto, una dimensione sempre più soggettiva, espressione dell’”io che decide” cosa, quanto, come e dove acquistare e consumare (Cfr. par. 1.2.1).

È interessante notare, come emerge dall’indagine citata, che oltre l’82% degli italiani dichiari che al momento in cui fa la spesa, conta molto sulle proprie capacità di scegliere i prodotti, prima ancora che sulla possibilità di risparmiare o di optare per prodotti di basso costo (Tab. 2.3). La capacità di arbitraggio individuale, di mettere in-sieme e ponderare da soli i tanti fattori che connotano il comportamento di consumo, orientandosi tra le alternative, a prescindere dalle sollecitazioni, espresse o implicite che provengono dall’esterno, costituisce pertanto il principale driver di orientamento nel consumo alimentare, addirittura più forte dell’attenzione al risparmio, che, tuttavia, viene immediatamente dopo.

Oltre il 79% degli intervistati afferma, infatti, di puntare a risparmiare dove è possibile e, tuttavia, su alcuni prodotti acquista solo quello che presenta caratteristi-che qualitative più elevate, senza badare al prezzo (Tab. 2.3). È un’indicazione di come, anche in un contesto in cui la spinta a risparmiare o comunque a ricercare l’opzione economicamente più vantaggiosa in termini di prezzo è molto forte, ci sia un approccio del tipo trading up; ovvero, gli italiani fanno una selezione dei bisogni e dei beni in grado di soddisfarli, enucleandone alcuni come irrinunciabili e strategici, decidendo, quindi, di investire su questi beni in misura maggiore che su altri.

In altre parole, la selezione porta a considerare alcune tipologie di beni, spesso appartenenti all’alimentare, come quelli che danno un beneficio soggettivo assoluto e marginale più alto, tanto da giustificare un impiego maggiore di risorse specifiche. In questi casi, la variabile prezzo diventa secondaria, non guida più la ricerca di informazio-ni e i transiti da un canale all’altro, perché l’obiettivo diventa avere la qualità considerata più alta. Ne consegue la complessità delle valutazioni e degli atteggiamenti che conno-tano l’atto di acquisto di generi alimentar, mettendo al riparo anche da facili e inganne-voli interpretazioni in chiave di consumo low cost, come confermato da oltre il 71% degli

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italiani intervistati che ritiene che basso prezzo non vuol dire scarsa qualità, percentuale che al Sud-Isole sale a quasi il 76% (Tab. 2.3).

Se l’abilità del consumatore risiede sempre più nella capacità, espressa tra-mite le proprie scelte soggettive degli alimenti e dei luoghi di acquisto, di contem-perare esigenze diverse, di essere “protagonista intelligente” delle proprie scelte, ciò è tanto più vero in tempo di crisi. L’attuale congiuntura negativa ha supportato le dinamiche di più lungo corso, a cominciare dal rapporto meno compulsivo con i consumi. Alla richiesta di indicare come le famiglie italiane hanno reagito alla crisi, il 51,3% degli italiani, ha dichiarato di aver tagliato gli sprechi, mentre è solo il 33,1% a parlare di tagli ai consumi essenziali; in particolare, al Nord-est è più forte la convinzione che in questi mesi le famiglie hanno proceduto a razionalizzare, piuttosto che a tagliare consumi essenziali (Tab. 2.4).

Se il meccanismo prevalente di adattamento è stato il taglio degli sprechi, entrando nel dettaglio delle strategie poste in essere, la stragrande maggioranza degli italiani, quasi l’89%, dichiara di avere sostanzialmente cambiato il proprio modo di fare la spesa e di consumare (Tab. 2.5). Ancora una volta a prevalere è il richiamo a ridurre gli sprechi (44,5%) come strategia di razionalizzazione primaria anche nelle modalità di acquisto, seguita dalla corsa alle promozioni e alle offerte (indicata da quasi il 43% degli intervistati) e, ancora, dalla rinuncia ad alcuni dei beni che più pesano sui bilanci familiari (20,5%).

Quello che emerge è una pluralità di comportamenti che contribuiscono, in mi-sura e modo diverso, al tentativo di un downsizing morbido dei consumi, dove è evidente lo sforzo per massimizzare il potere d’acquisto del reddito di cui si dispone, cercando di spuntare un costo del carrello della spesa inferiore a quello dei listini.

Insomma, se la crisi ha accentuato e reso ancora più visibile quell’orientamen-to alla ricerca di qualità sostenibile, recentemente sempre più presente tra gli italiani, questa si è tradotta prevalentemente in un contenimento degli eccessi lungo tutta la filiera delle attività di acquisto e di consumo degli alimenti, stimolando i cittadini, al di là delle loro caratteristiche socio-demografiche e territoriali, sia a cercare le opportunità di acquisto più vantaggiose, sia a ridurre il consumo di alimenti, tagliando quelli che meno rispondono alle proprie aspettative. Consumare meno, consumare meglio diven-ta, pertanto, la parola d’ordine di tutti, il modo di rapportarsi alla spesa e ai consumi; ciò significa che non è solo la ridotta disponibilità del reddito a determinare il nuovo rapporto con i consumi, ma l’incertezza del momento esalta la sobrietà e anche l’astuzia dell’acquisto, indispensabili per salvaguardare il tenore di vita e, al contempo, la qualità del consumo alimentare (Cfr. par. 1.3). in un contesto di paura per il futuro e dove la ne-cessità di risparmiare torna a essere un’esigenza cruciale.

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

Tagliare, senza tuttavia rassegnarsi a una qualità non adeguata dei prodotti o ri-nunciare in alcuni momenti a soddisfare specifici bisogni, denota una nuova soggettività competente nella gestione dei consumi alimentari, che include la tendenza di ciascun individuo a selezionare tra i beni quelli sui quali si è disposti a investire di più per avere una qualità più alta.

Tabella2.3-Gli italianie il rapportocon iprodottialimentari,perripartizionegeografica(val.%)*

Quali tra le seguenti affermazioni caratte-rizzano maggiormente il suo rapporto con i prodotti alimentari?

Nord Ovest

Nord Est

CentroSud e Isole

Italia

Conto molto sulla mia personale capacità di sce-gliere i prodotti

89,8 92,8 87,1 88,0 82,2

Risparmio dove è possibile (offerte, saldi) però su alcune cose prendo solo il prodotto a qualità più alta senza badare al prezzo

80,7 75,6 80,7 79,7 79,5

Basso prezzo non vuol dire scarsa qualità 72,4 70,0 69,9 75,8 71,3

Ogni tanto mi concedo piccoli o grandi sfizi acqui-stando prodotti a prezzo molto più alto

48,2 37,3 43,5 43,6 43,6

* Il totale non è uguale a 100 in quanto erano possibili più risposte.

Fonte: Indagine Censis/Coldiretti, 2010

Tabella2.4-Impattodellacrisisuiconsumialimentaridellefamiglie,perareageografica(val.%)

Riguardo ai consumi alimentari, secondo Lei con la crisi le famiglie italiane:

Nord Ovest

Nord Est

CentroSud e Isole

Italia

In realtà hanno tagliato gli sprechi 53,3 55,8 47,4 49,3 51,3

Hanno dovuto tagliare consumi essenziali 30,7 29,3 35,3 35,9 33,1

Non hanno dovuto cambiare granché, i consumi alimentari sono grosso modo gli stessi

14,1 14,3 15,7 12,9 14,1

Hanno aumentato i consumi alimentari (perché molti prezzi sono diminuiti, perché altri consumi si sono ridotti)

1,9 0,6 1,6 1,9 1,5

Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Fonte: Indagine Censis/Coldiretti, 2010

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Tabella2.5-Impattodellacrisisulmododifarelaspesadellefamiglie,pertipo-logiafamiliare(val.%)

La crisi come ha cambiato il modo di fare la spesa della Sua famiglia?

UnipersonaleCoppia senza figli

Coppia con figli

Monogenitore/altra tipologia

Totale

Non ha cambiato il modo di fare la spesa

15,9 17,1 9,1 8,3 11,2

Sì, ha cambiato il modo di fare la spesa (*)

84,1 82,9 90,9 91,7 88,8

di cui:

Riduce gli sprechi 48,3 43,2 44,7 42,1 44,5

Ricorre a offerte e promozioni 34,4 36,7 45,4 46,6 42,8

Rinuncia ai prodotti più cari che pesano di più sul bilancio familiare

16,5 20,2 21,4 20,4 20,5

Rinuncia alle marche più care 13,3 16,5 15,1 18,2 15,6

Riduce le quantità consumate 7,3 11,7 10,9 9,7 10,4

Si adatta a una qualità inferiore per tutti i beni

4,3 5,3 5,9 10,1 6,2

* Il totale non è uguale a 100 in quanto erano possibili più risposte

Fonte: Indagine Censis/Coldiretti, 2010

2.6 Ilprincipiodiequitàesolidarietàapplicatoagliacquisti:ilcasodeiGAS

I comportamenti etici e responsabili che si stanno diffondendo nelle aziende del settore agroalimentare per valorizzare i contesti locali di produzione investono anche le fasi successive della trasformazione e della vendita dei prodotti, espres-sione di qualità non solo dei processi produttivi e dei prodotti, ma anche del lavoro (Giuca, 2010a). Si tratta, in sostanza, di un agire concreto dell’azienda per la sal-vaguardia del territorio - ad esempio, attraverso l’impiego di cultivar e razze locali, l’adozione di processi di lavorazione a basso impatto ambientale, l’orientamento alla produzione biologica - e per il sociale, con un ruolo attivo degli stessi lavoratori e della comunità, come l’inclusione di soggetti svantaggiati, la diffusione di coope-rative sorte nei terreni confiscati alla mafia, le fattorie didattiche, terapeutiche e riabilitative.

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

Questo agire concreto delle aziende è controparte di un approccio attento e re-sponsabile al consumo da parte degli stessi cittadini-consumatori, sempre più alimen-tato, negli ultimi anni, da valutazioni di ordine etico e da una particolare attenzione alla qualità sociale del prodotto o del servizio. In questo senso, il consumo responsabile di ciascun individuo ha assunto, oggi, varie sfaccettature, comprendendo al suo interno diversi comportamenti riguardo al cibo e ai beni non alimentari come il consumo critico e la sobrietà nel consumo - segno del disagio verso il sistema economico globalizzato e della ricerca di valide alternative sostenibili, la partecipazione ai Gruppi di acquisto solidale (GAS) e il sostegno al commercio equo e solidale38. Comportamenti di consumo responsabile sono anche la pratica del turismo rispettoso dei popoli e dell’ambiente, la finanza etica (dove l’investitore punta su attività che rispondono a requisiti di responsabi-lità sociale e ambientale) e l’adozione dei cosiddetti “bilanci di giustizia” con cui le fami-glie verificano sul proprio bilancio economico l’incidenza delle modifiche allo stile di vita.

Alla base degli acquisti dei consumatori che si mostrano responsabili, quindi, non c’è solo la responsabilità verso se stessi che si esplica con la scelta di prodotti che soddisfano il benessere e la felicità personale, ma la responsabilità etica e sociale verso gli altri, verso il territorio e verso l’ambiente che si manifesta nel caso dei prodotti alimentari, come illustrato nelle pagine precedenti, con la scelta di prodotti sostenibili, biologici e integrati, di prodotti tipici e a denominazione di origine e di prodotti del com-mercio equo e solidale. Il consumatore attento e responsabile, infatti, sceglie i propri beni di consumo non solo in base all’informazione esterna (pubblicità/passaparola), alla qualità e alla convenience (rapporto qualità attesa/prezzo) come è stato ampiamente descritto, ma anche in base alla storia dei prodotti stessi e al comportamento delle im-prese che li producono (AA.VV., 2003). La provenienza dal proprio territorio, in particolare, è un aspetto che viene visto come una garanzia della qualità e della sicurezza dei cibi, in grado di influenzare in modo significativo la scelta dei prodotti alimentari (Censis/Coldi-retti, 2010); così come il rispetto dell’ambiente, il rispetto dei diritti dei lavoratori, l’equità e la solidarietà nella distribuzione del valore lungo tutta la filiera e fra capitale e lavoro possono orientare il cittadino-consumatore verso un’azienda, un prodotto o un marchio che esprimono, più di altri, questi valori39.

Il consumo responsabile, è bene ricordare, si basa su un sistema di relazio-

38 Cfr. infra par. 2.4.1.

39 Ciò, tuttavia, non limita le opzioni di scelta del consumatore che, come si è avuto modo di approfon-dire nel capitolo 1 al quale si rimanda, assume comportamenti di acquisto multivariati, occasionali o abituali, coesistendo i propri bisogni in più dimensioni, dall’etica al gusto, dalla praticità alla conve-nienza, ecc. Ne è un esempio il fatto che 2 consumatori su 10 tra coloro che acquistano direttamente dal produttore si recano presso i fast food almeno una volta a settimana (Censis/Coldiretti, 2010).

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ni informali e di credenze condivise che può portare ciascun soggetto a operare le proprie scelte di acquisto individualmente ma anche collettivamente, come nel caso dei GAS, rafforzandone l’efficacia. Nei Gruppi di acquisto solidale, in parti-colare, la responsabilità nei consumi si coniuga al principio di equità tra soggetti. Per le persone che spontaneamente decidono di unirsi per fare i propri acquisti in modo responsabile, l’elemento chiave è la possibilità di comprare all’ingrosso e/o di rivolgersi direttamente ai produttori della propria area, veicolo per valorizzare i contesti locali di produzione; in effetti oggi, nella scelta dei canali di acquisto, spic-ca la crescita della filiera corta rispetto al «dualismo grande distribuzione-negozi tradizionali, giocata sul prezzo e sul servizio incorporato nei beni (Censis/Coldiretti, 2010)» e sono sempre più numerosi nuovi ambiti di acquisto senza intermediari come gli spacci aziendali, i frantoi, le cantine, le malghe e le cascine.

Gli acquisti diretti dal produttore, infatti, sono percepiti dal consumatore come una soluzione che risponde ad alcune esigenze forti, quali il recupero del territorio e il rapporto di fiducia con il produttore, garanti di genuinità e sicurez-za del prodotto, il minor impatto ambientale (“chilometri zero”), la forte valenza socio-culturale del patrimonio di saperi e sapori della comunità che lo produce, oltre naturalmente alla convenience, dovuta alla riduzione dei passaggi e delle in-termediazioni. Secondo un’indagine Censis (op., cit., 2010), nel 2009 il 67% dei con-sumatori ha acquistato almeno una volta direttamente dal produttore agricolo, con un incremento dell’11% del valore delle vendite e un totale stimato in 3 miliardi di euro (Coldiretti/Agri2000, 2010), a conferma che gli acquisti domestici degli ultimi anni stanno interessando maggiormente quei canali di vendita dove la variazione percentuale dei prezzi si mostra più contenuta (Cfr. Capitolo 1); gli acquisti diretti dal produttore - vino in cantina (41% del totale), ortofrutta (21%), formaggi e latte (14%), carni e salumi (8%), olio di oliva (5%) - risultano motivati della necessità di risparmiare, che rappresenta una priorità per il 40% dei consumatori, ma senza rinunciare alla genuinità (71%) e al gusto (26%).

Il fenomeno più che decennale dei GAS, che coniuga il risparmio e la genu-inità dei prodotti all’equità e alla solidarietà delle azioni, si sovrappone, in realtà, a quello dei Gruppi di acquisto, ben noti nel sistema distributivo italiano e definiti negli anni Novanta dal Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato come «Associazione tra soli grossisti o fra dettaglianti e/o pubblici esercenti (ap-partenenti a uno o più settori merceologici determinati), ciascuno dei quali conser-va la propria autonomia giuridica patrimoniale, promossa principalmente al fine di realizzare acquisti e servizi di vendita in comune». Mutuando da questa formula distributiva, in quegli anni gruppi di persone, famiglie, amici e condomini si sono

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

uniti liberamente per acquistare all’ingrosso prodotti alimentari o di uso comune da ridistribuire tra loro e, quasi immediatamente, il Gruppo di acquisto si è arric-chito della componente del consumo critico; l’esercizio concreto del fare la spesa è diventato, in tal modo, vettore di un percorso di crescita all’insegna non solo del risparmio ma dello sviluppo sostenibile (AA.VV, 2010a). Infatti, il Gruppo di acquisto diventa solidale «nel momento in cui decide di utilizzare il concetto di solidarietà come criterio guida nella scelta dei prodotti» e, in tal senso, «aiuta a non sentirsi soli nella propria critica al consumismo, a scambiarsi esperienze ed appoggio, a verificare le proprie scelte (AA.VV., 2010b)».

Anche se ogni GAS nasce con motivazioni proprie, che possono anche essere molto diverse da un gruppo a un altro, alla base di questa esperienza si trova sem-pre una critica profonda verso l’attuale modello di consumo e di economia globale, insieme alla ricerca di una alternativa praticabile da subito e da condividere, che investe la sfera personale e lo stile di vita: nei GAS, infatti, esistono momenti con-viviali e forme di baratto/scambio (scooter/biciclette; auto/car pooling/car sharing; libri; elettrodomestici/utensili; banca del tempo, ecc.) e vere e proprie esperienze di autoproduzione di beni e servizi (pane, pasta, detersivi, baby sitter).

Con i GAS i partecipanti applicano il principio di equità e solidarietà ai pro-pri consumi, estendendolo ai piccoli produttori e ai fornitori locali40 (anche mercati all’ingrosso) e uscendo, in tal modo, dal circuito delle multinazionali e della grande distribuzione traendone, ovviamente, un vantaggio in termini di economia di spesa in relazione ai volumi di acquisto (Giuca, 2008). La scelta degli acquisti avviene, inoltre, sulla base della qualità del prodotto e dell’impatto ambientale totale, privi-legiando cibi locali e stagionali - per ridurre l’inquinamento e lo spreco di energia derivanti dal trasporto, alimenti da agricoltura biologica o integrata, prodotti del commercio equo e solidale e prodotti di uso comune che rispettano l’ambiente, le condizioni di lavoro e i popoli del Sud del mondo. Spesso i gruppi si organizzano per recarsi dai loro produttori e avere informazioni sui prodotti in campo e sulle tecniche di coltivazione utilizzate. Sempre più gruppi, inoltre, si formano nella ri-cerca specifica di prodotti biologici che costino meno rispetto ai negozi specializ-zati; soprattutto per le famiglie meno abbienti che risiedono nei quartieri popolari delle grandi città, dove gli alimenti biologici stentano a essere venduti perché poco accessibili economicamente, i GAS rappresentano un’opportunità concreta, se non l’unica, di risparmiare senza rinunciare a questi prodotti.

40 In alcuni casi ciò è servito, attraverso ordinativi e/o pagamenti anticipati rispetto alla produzione, a far sopravvivere artigiani e piccoli produttori, schiacciati dai debiti, altrimenti destinati a uscire dal mercato.

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Tra l’altro, il funzionamento del Gruppo di acquisto è molto semplice: i par-tecipanti definiscono una lista di prodotti che vogliono acquistare, stabiliscono una cifra base da spendere uguale per tutti, compilano un ordine di gruppo e solita-mente effettuano il pagamento al momento della consegna dei prodotti, di norma recapitati a domicilio in cassette o pacchi a un unico membro del gruppo che si occupa di smistarli. Naturalmente, gli accordi del Gruppo di acquisto solidale con il fornitore possono essere differenti e possono prevedere: la consegna settimanale o bisettimanale dei prodotti, soprattutto cassette di frutta e verdura di stagione e pacchi di carne, che rappresenta la modalità di acquisto più diffusa; la formulazio-ne di specifici ordini per telefono o attraverso internet; l’abbonamento con l’offerta di prodotti a scadenze fisse e a pagamento anticipato. Recentemente, accanto alle consegna a domicilio dei prodotti si stanno diffondendo nuove modalità di acquisto, dall’adozione in gruppo di animali da latte e da carne fino alla raccolta, da parte dei membri del GAS, direttamente in azienda, addirittura dagli alberi e dagli orti: è il cosiddetto fenomeno del “pick your own”.

La ricerca di un’alternativa di consumo sostenibile e responsabile, tuttavia, non avviene solo attraverso i GAS, ma anche mediante un vero e proprio “capitale di relazioni”, basato su progetti di filiera corta, esperienze di consumo a chilometro zero, gruppi per le energie rinnovabili, realtà di turismo responsabile, fiere del con-sumo critico e distretti di economia solidale (AA.VV., 2010c).

Attualmente i GAS, che sin dal 1997 hanno formato la Rete nazionale dei Gruppi di acquisto (Retegas), potrebbero essere addirittura un migliaio, ma sono difficili da censire perché si formano (e cessano) in continuazione. Anche ogni gior-no, infatti, nei condomini, uffici, dopolavoro, centri sportivi e ricreativi, addirittura municipi, nuovi gruppi di persone, famiglie, parenti, amici e colleghi decidono di mettere in comune conoscenze e risorse e, anche sulla base di semplici accordi verbali41, fanno la spesa insieme; in tal modo fruiscono di condizioni vantaggiose, comprano prodotti a forte valenza etica e creano relazioni di fiducia con chi li pro-duce, siano essi singoli produttori, gruppi di produttori o cooperative.

41 Il GAS, solitamente, è strutturato in Associazione di promozione sociale, Associazione culturale, As-sociazione di volontariato o Cooperativa di consumo, può appoggiarsi ad altre realtà (ad es. “Bottega del mondo”, “Campagna amica”, ecc.) e/o collaborare con altri GAS, strutture solidali (InterGAS/DES/RES), enti e associazioni pubbliche o private.

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parte prima | responsabilità sociale e modelli di consumo

Tabella2.6-Gruppidiacquistosolidale inItaliaperRegioneepercentualesultotale,2009

Regione n. GAS % sul totale

Lombardia 160 26,2

Piemonte 71 11,6

Liguria 17 2,8

Valle d’Aosta 4 0,7

Totale Nord-Ovest 252 41,2

Veneto 51 8,3

Emilia-Romagna 51 8,3

Trentino-Alto Adige 13 2,1

Friuli-Venezia Giulia 6 1,0

Totale Nord-Est 121 19,8

Toscana 84 13,7

Lazio 50 8,2

Marche 23 3,8

Umbria 7 1,1

Totale Centro 164 26,8

Puglia 19 3,1

Campania 18 2,9

Sicilia 17 2,8

Sardegna 8 1,3

Abruzzo 7 1,1

Calabria 3 0,5

Basilicata 1 0,2

Molise 1 0,2

Totale Sud e Isole 74 12,1

ITALIA 611 100

Fonte: Elaborazioni su dati Coldiretti-Agri2000

Secondo Retegas, sono 702 i Gruppi di acquisto solidale presenti in Italia al primo semestre del 2010, organizzati in 11 reti locali per poter diffondere, il più capillarmente possibile, esperienze e scambiare informazioni (AA.VV., 2010b). Col-diretti e Bio Bank, che annualmente diffondono le cifre di questa realtà, hanno censito, rispettivamente, 611 e 598 GAS nel 2009, con un incremento del 30% ri-spetto al 2008, che sale al 68% nel triennio 2007-2009; i GAS, nel 2009, hanno anche fatto segnare l’incremento più significativo tra le forme di vendita diretta (Coldiretti/Agri2000, 2010; Mingozzi e Bertino, 2010).

Riguardo alla localizzazione, i Gruppi di acquisto solidale risultano presen-

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ti in tutte le Regioni (Tab. 2.6), nelle grandi città come nei piccoli centri, concen-trandosi soprattutto in Lombardia (26,2% del totale), Toscana (13,7%), Piemonte (11,6%), Veneto, Emilia-Romagna e Lazio, tutte e tre con quote che vanno oltre l’8% (Coldiretti/Agri2000, 2010). Il fenomeno dei GAS, tuttavia, risulta avere una maggio-re espansione nel Nord-Ovest dell’Italia (41,2%) e nel Centro (26,8%).

È interessante notare che spesso i GAS si mantengono piccoli per non per-dere l’identità e per assicurare una partecipazione democratica nell’ambito in cui si sono formati, ma vi è comunque la propensione a fare sistema, formando una fitta rete di piccoli gruppi che copre tutto il territorio nazionale, in modo da aumentare la propria influenza in relazione alla numerosità. È anche vero, però, che in alcu-ne realtà locali si sta facendo il “salto di qualità”, passando dai GAS ai Distretti di economia solidale (DES), con l’obiettivo di supportare l’allargamento del bacino di consumatori che sviluppano e mettono in pratica il consumo critico e responsabile, creano solidarietà e socializzano all’insegna del motto che “l’unione fa la forza” e l’intera comunità ne coglie i benefici.

I GAS, come è stato descritto con lucidità nel documento base redatto dal-la Retegas alla fine degli anni Novanta, continuano pertanto a rappresentare «un trampolino di lancio per i produttori e i consumatori e un importante anello nella catena del processo di formazione e sensibilizzazione sia per i membri del gruppo che nei confronti delle persone esterne, con la possibilità di diventare i punti nodali in una rete di scambio di informazioni tra le diverse realtà esistenti anche oltre confine (AA.VV., 1999, pag.11)».

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Parte Seconda

resPonsabilità sociale e modelli di Produzione

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parte SeCOnDa | responsabilità sociale e modelli di produzione

Capitolo iii

il ruolo della comunicazione della rsi nel settore aGricolo e aGroalimentare

3.1 Introduzione

Nel corso degli ultimi anni l’individuazione di un’appropriata ed efficace strategia di comunicazione dei comportamenti socialmente responsabili ha as-sunto un ruolo centrale nella conduzione delle politiche d’impresa, costituendo probabilmente una tra le sfide di maggiore interesse da affrontare nell’imme-diato futuro. Al riguardo, infatti, le imprese operanti nei diversi settori econo-mici hanno compreso che, al fine di sfruttare appieno i vantaggi economici e di credibilità derivanti dall’adozione di pratiche di RSI, diviene indispensabile co-municare adeguatamente ai propri stakeholder gli impegni assunti e le relative azioni, adottando di volta in volta gli strumenti comunicativi ritenuti più idonei.

La chiave del successo di un’impresa socialmente responsabile risiede, pertanto, non solo nella concreta attivazione di pratiche di RSI, ma soprattut-to nella capacità di renderle note ai propri portatori di interesse. In sostanza, tale attività si concretizza nell’instaurare e accrescere un dialogo costante con gli stakeholder, migliorando la capacità di comunicare i valori perseguiti, gli impegni assunti verso i temi etici, sociali ed ambientali di proprio interesse e, infine, i risultati conseguiti.

Tali considerazioni rivestono particolare rilevanza per le imprese agrico-le e agroalimentari. Innanzi tutto per le peculiarità e delle caratteristiche dei beni e servizi offerti nei diversi comparti; poi per la struttura del mercato in cui operano, costituita per la quasi totalità da imprese di medie e piccole, se non addirittura, piccolissime dimensioni; infine, per gli interessi specifici dei consumatori, sempre più attenti oltreché spinti, nelle decisioni di acquisto, da considerazioni legate non solo al prezzo e alla qualità dei prodotti, ma - come si è avuto modo di illustrare ampiamente nei capitoli precedenti - anche ai

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temi socio-ambientali, quali le condizioni di lavoro degli addetti e la tutela del territorio, dell’ambiente e delle tradizioni locali.

Inoltre, le emergenze sanitarie di carattere internazionale, che sempre più frequentemente hanno interessato il settore agricolo e agroalimentare a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, testimoniano il ruolo strategi-co che ricopre la comunicazione delle pratiche di RSI nei settori in questione, rafforzando l’esigenza di un adeguato investimento in tale campo, che sia in grado di contrastare gli effetti negativi (in termini monetari e reputazionali) di eventuali crisi future.

L’obiettivo del capitolo è duplice. In primo luogo, partendo dagli elementi caratterizzanti il profilo del “nuovo” consumatore, emerso dall’analisi condotta nei capitoli precedenti, si vogliono ripercorrere i principali aspetti (fondamenti, caratteristiche, finalità e strumenti) della comunicazione in tema di responsa-bilità sociale all’interno di un quadro generale; in tal modo, si vogliono indivi-duare le specificità che, in linea di principio, dovrebbero caratterizzare questo tipo di comunicazione nel settore agricolo e agroalimentare. In secondo luogo, si vogliono evidenziare le problematiche che le imprese operanti in tale settore potrebbero incontrare nell’attuare le politiche di comunicazione e le opportu-nità che queste possono cogliere, al fine di individuare, da un lato, le migliori pratiche (best practice) da intraprendere e, dall’altro, un insieme di principi o azioni comunemente applicabili a tutte le imprese, pur tenendo conto delle specificità delle singole realtà aziendali operanti nei diversi comparti del set-tore.

Il paragrafo 3.2 analizza, pertanto, l’evoluzione e le peculiarità della co-municazione della RSI alla luce delle recenti tendenze del consumo e del nuo-vo profilo del consumatore, sempre più informato sulle problematiche etiche, sociali e ambientali e in grado di influenzare, con le sue decisioni di acquisto, importanti aspetti delle politiche aziendali. Il paragrafo 3.3 passa in rassegna i tratti distintivi della comunicazione della responsabilità sociale in termini di caratteristiche, funzioni, soggetti e strumenti, partendo da principi e conside-razioni generalmente applicabili a tutti i settori, per poi focalizzarsi su quello agricolo e agroalimentare. Concentrandosi su quest’ultimo settore, il paragra-fo 3.4 evidenzia le problematiche da risolvere e le opportunità da cogliere per un’impresa che decide di comunicare le proprie attività in tema di responsa-bilità sociale. Nell’ultimo paragrafo, infine, si riportano alcune riflessioni con-clusive.

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parte SeCOnDa | responsabilità sociale e modelli di produzione

3.2 L’evoluzionedellacomunicazionedellaRSIallalucedellenuovetendenzedelconsumo

3.2.1 Lamodificadellastrutturadeiconsumi:ilnuovoprofilodelconsumatore

Nell’ultimo decennio si sono manifestati inequivocabili segnali di cambia-mento nella struttura dei consumi: evidenze che hanno fatto registrare un’ulte-riore accelerazione proprio a partire dal 2008, anno in cui si sono materializzati i primi effetti di una crisi economica di valenza mondiale42. Effettivamente, non tan-to l’oggettiva caduta del livello complessivo del reddito prodotto, ma soprattutto il proporsi in modo sempre più pressante delle emergenze relative ai temi dell’in-quinamento ambientale, del riscaldamento dell’atmosfera e dei limiti delle risorse a disposizione del pianeta hanno generato nei comportamenti di acquisto incisivi mutamenti: «destinati a suscitare nuove consapevolezze e ad acquisire, con ogni verosimiglianza, stabile cittadinanza nei modelli di consumo» (Fabris, 2010).

Specificamente, con l’emergere di nuove sensibilità nei confronti di una maggiore moderazione e sobrietà dei consumi, ma anche rispetto alla compatibi-lità delle produzioni con la salvaguardia dei temi etici, ambientali e sociali, si sono manifestate alcune tendenze inequivocabili, illustrate con maggior dettaglio nelle pagine precedenti, che qui è utile richiamare: la considerazione dell’etica e della responsabilità sociale del produttore come dimensioni prevalenti della qualità in tutti i settori merceologici, con la conseguenza che aumenta la desiderabilità di un bene percepito come eticamente caratterizzato; una crescente attenzione ai pro-dotti biologici e di qualità e ai prodotti del territorio di riferimento (a filiera corta), oltre che alla biodiversità e alla stagionalità. A ciò si aggiunge una crescente atten-zione all’acquisto di prodotti sfusi (soprattutto in riferimento ai generi alimentari), che consentono di evitare il consumo spesso inutile, oltre che dannoso per l’am-biente, delle confezioni e degli imballaggi, concentrandosi sulla qualità effettiva del bene di cui si necessita; una riduzione considerevole (circa 40%) dello spreco di generi alimentari e una diminuzione degli acquisti di prodotti usa e getta.

Questi fenomeni, conseguenza di un deciso cambiamento del profilo del con-sumatore, che mostra di aver acquisito determinate caratteristiche che ne orienta-no in modo netto i comportamenti nei confronti dell’offerta, si possono riassumere in:

42 Cfr. Capitolo 1.

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• l’autonomia, vale a dire la fine della subordinazione nei riguardi della pro-duzione, con la conseguenza di acquisire una più ampia propensione critica, volta a ottenere una relazione di tipo biunivoco con l’offerta;

• la competenza, nel senso di sviluppare una più ampia conoscenza e sensibi-lità nei confronti delle merci; dunque una maggiore esigenza, intesa come la richiesta a chi vende di una sempre maggiore attenzione e qualità, proprio in virtù della elevata competenza di cui si dispone;

• l’orientamento in senso olistico, scaturente dal fatto che ai fini della scelta si coinvolgono tutte le dimensioni in gioco;

• la responsabilità, ovvero la crescente attenzione ai riflessi dei singoli prodotti sull’ambiente e ai loro significati sociali, con la conseguenza che nelle scelte che si compiono vengono introdotte motivazioni altruistiche e socialmente ispirate;

• la riflessività, vale a dire una sensibilità nei confronti di elementi quali l’etica, la responsabilità sociale, la sostenibilità sociale e ambientale. Alla luce di questi mutamenti, quindi, va riconsiderato il rapporto tra pro-

duzione e consumo. Mentre nella società della produzione di massa il consuma-tore assumeva una posizione passiva, di soggezione nei confronti dell’offerta, che cercava di plasmarlo sulla base delle sue esigenze e di farlo agire secondo le sue previsioni, oggi il consumatore ha modificato la natura del rapporto con la produ-zione, diventando più dialettico e più creativo. Questo processo di interazione ha assunto una forma tale che la funzione, la forma del prodotto, il suo significato possono diventare sempre più spesso il risultato di un processo di co-definizione tra produttore e consumatore. Il fenomeno è in fase di progressivo consolidamento, al punto che comincia a utilizzarsi il termine “prosumer” (producer + consumer) per indicare un nuovo soggetto sociale, in grado di sviluppare un ruolo attivo, com-petenze specifiche e un sapere specialistico da lui elaborato, diventando almeno teoricamente, per chi produce, una fonte di esperienze e di conoscenze innovative (Fabris, 2010).

3.2.2 PeculiaritàdellacomunicazionenelleaziendechepraticanolaRSI

Nella veste di strumento di informazione, la comunicazione rappresenta un valore nell’ambito del sistema aziendale, svolgendo un ruolo determinante e indi-spensabile per il raggiungimento delle finalità imprenditoriali. In tutte le aziende che conseguono un profilo di RSI, la comunicazione sociale ha lo scopo di informa-

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parte SeCOnDa | responsabilità sociale e modelli di produzione

re gli stakeholder sui risultati raggiunti nel modo più chiaro e sintetico possibile, avvalendosi di una documentazione che sia in grado di soddisfare le richieste cono-scitive in modo rapido. Tuttavia, la comunicazione sociale non può svolgere soltanto una funzione di tipo informativo, ma deve assolvere anche al compito di creare le condizioni per attivare un rapporto di tipo relazionale tra gli interlocutori.

Specificamente, il processo comunicativo nelle imprese che operano nell’area della responsabilità sociale implica la trasmissione di informazioni sia sui valori dell’azienda, sia sul tipo di prodotti o di servizi forniti. D’altra parte, l’attiva-zione di un valido processo comunicativo rappresenta la condizione indispensabile perché l’etica e la responsabilità si trasformino da valori personali del singolo im-prenditore o dei manager a elementi portanti della cultura aziendale. Così come, in tutti i casi nei quali la comunicazione prescinde dall’etica, essa appare, per lo più, retorica priva di contenuto: pratica che talvolta nasconde fatti che potrebbero nuocere negativamente alla reputazione aziendale e che è rivolta a conseguire con-senso a buon mercato (Vermiglio, 2004).

In effetti, il rilievo crescente delle dimensioni legate all’etica nella scelta di un prodotto o di un servizio ha indotto talvolta alcune imprese, consapevoli delle nuove sensibilità del consumatore, ad assumere comportamenti scorretti, attribuendosi, per esempio attraverso la pratica del green washing, crediti di compatibilità ecolo-gica attraverso il patrocinio di cause di rilievo ambientale: disinteressandone, però, nell’ambito del proprio operare.

Alla luce del nuovo profilo del consumatore, dunque, qual è il ruolo che può ricoprire il marketing? Con riferimento alle imprese che adottano pratiche di re-sponsabilità sociale e che operano nel settore agricolo e agroalimentare, va sot-tolineato che, superata la fase della produzione indifferenziata in cui il cliente era considerato un soggetto da condizionare, sedurre e conquistare, oggi il marke-ting dovrebbe assumere un orientamento assai diverso rispetto al passato, volto a fare del consumatore, sulla base di una relazione biunivoca, un vero interlocutore dell’impresa, utilizzandone con successo il patrimonio di conoscenze e di saperi (Fabris, 2010). Orientamento al consumatore, infatti, significa capacità di soddi-sfarne i bisogni, i desideri, le attese, cercando di adeguare le caratteristiche dei prodotti alle sue esigenze. Come ha scritto Giaretta (2000, p. 73), nella fase in cui il marketing è orientato al consumatore «la competitività dell’impresa viene allora a formarsi non solo nei termini di risolvere direttamente i problemi del consumatore, ma anche di tutelarne i diritti all’informazione, alla sicurezza, alla libertà di scelta, all’ascolto, alla qualità promessa e alla parità di trattamento».

Il tema che si pone, quindi, è relativo al modo con cui orientare il marke-

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ting nella stessa direzione dell’ecologia e della responsabilità sociale. In questo senso è necessario analizzare il contributo che proprio il marketing può apportare nell’adottare nuovi stili di vita: esigenza, quest’ultima, particolarmente sentita alla luce della rilevanza dei problemi ambientali43. In questo nuovo scenario è stata ipo-tizzata la possibilità di impiegare il marketing in tre direzioni (Fabris, 2010).

La prima è quella in cui possa incentivare comportamenti virtuosi e disin-centivare comportamenti inappropriati. Nell’impresa che già adotta criteri di re-sponsabilità sociale nello svolgimento della sua attività, tale forma di marketing deve informare il consumatore dell’alto livello di qualità che i prodotti riescono a raggiungere. L’impresa, in questo caso, promuove alcune caratteristiche dei propri beni al fine di trarne un vantaggio competitivo: quanto più il mercato del bene ri-sulta concorrenziale, tanto più rapido sarà l’adeguamento a tali standard da parte delle altre imprese. Ciò incentiverà l’impresa che ha percorso la strada della RSI a proseguire nell’innovazione, introducendo standard ancora più rigorosi.

La seconda direzione è quella in cui il marketing venga utilizzato da parte delle imprese che già abbiano raggiunto standard elevati e che vogliono far par-tecipare attivamente i consumatori non solo all’acquisto dei propri prodotti, ma anche all’adozione di pratiche che prevedano un loro coinvolgimento nella stessa direzione e in coerenza con l’atto di acquisto.

La terza direzione, infine, fa riferimento a pratiche di decolonizzazione cultu-rale. In tal caso il marketing dovrà svolgere una funzione pedagogica, contribuendo alla diffusione di stili di vita che contraddicano quelli che oggi si sono fortemente radicati, con riferimento soprattutto alla rivisitazione dei concetti di felicità e di benessere.

3.3 AspettirilevantidellacomunicazionedellaRSI

Guardando, quindi, agli elementi caratterizzanti il profilo del “nuovo” con-sumatore è evidente la crescente relazione biunivoca che nel corso degli ultimi anni ha legato le scelte di consumo responsabile con quelle della produzione di beni e servizi. In questo paragrafo ci si soffermerà, pertanto, sugli aspetti ritenuti fondamentali della strategia di comunicazione della RSI, ovvero dello strumento più importante di cui l’impresa dispone per rafforzare tale legame.

In generale, comunicare agli stakeholder ciò che l’impresa ha deciso di at-

43 Sul tema dell’orientamento dell’impresa agli stakeholder nel marketing contemporaneo cfr. Kotler P. (2007), Marketing management, Addison & Wesley, Longman Italia.

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tuare nell’ambito delle azioni socialmente responsabili non significa esclusivamen-te fornire notizie sui beni e servizi prodotti, ma soprattutto dare informazioni sui valori e sugli obiettivi che la stessa persegue. Inoltre, rendendo pubblica la propria strategia di responsabilità sociale si coinvolge l’intera comunità e si trasmette un esempio positivo alle altre realtà aziendali che operano nel settore di appartenenza.

L’esigenza delle imprese di comunicare i loro comportamenti socialmente responsabili deriva, quindi, dal bisogno di confrontarsi continuamente con i propri interlocutori, condividendone le esperienze maturate e costruendo un percorso di crescita comune, che si traduca in scelte di politica aziendale più trasparenti e at-tente alle sensibilità etiche, sociali e ambientali dei consumatori.

In particolare, all’impresa agricola e agroalimentare che intraprende per-corsi di responsabilità sociale nello svolgimento della propria attività, proprio in ragione delle peculiarità del settore, è richiesto un constante impegno volto a pub-blicizzare tali percorsi, sia internamente sia esternamente, costruendo in questo modo una strategia di comunicazione ottimale.

Pur differenziandosi da impresa a impresa in relazione all’attività svolta e al settore di provenienza, la comunicazione della RSI presenta dei contenuti comuni che interessano i seguenti aspetti: indicazioni valoriali, caratteristiche del prodotto e del servizio offerto, sostenibilità ambientale, relazioni con il personale, i clienti, i fornitori, i soci, la comunità territoriale di appartenenza e gli Enti locali. È oppor-tuno sottolineare che le modalità di attuazione della strategia di comunicazione su questi temi sono strettamente legate a due fattori ben precisi, quali le dimensioni dell’impresa e il relativo stato di avanzamento nell’applicazione dei principi della responsabilità sociale. È evidente, infatti, che le imprese (di norma quelle di mag-giori dimensioni) che da lungo tempo hanno avviato un processo di internalizzazio-ne dei principi della RSI e intrapreso concrete azioni e iniziative in tale ambito si mostrano interessate e coinvolte nella quasi totalità dei temi evidenziati in prece-denza e sono pertanto in grado di fornire un’informazione completa ed esauriente agli stakeholder. Al contrario, le imprese di piccole dimensioni, soprattutto all’inizio del loro percorso di RSI, spesso sottovalutano l’importanza dell’adozione di una strategia di comunicazione per mancanza di esperienza e, a causa dei costi da so-stenere, preferiscono concentrarsi esclusivamente su alcuni temi specifici di loro maggiore interesse.

Nel settore agricolo e agroalimentare, proprio la ridotta dimensione di mol-tissime imprese, spesso a carattere famigliare, sembra rappresentare un fattore ostativo all’attuazione di un’efficace strategia di comunicazione. Molte aziende del settore, infatti, rinunciano o limitano la comunicazione della RSI, considerandola

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un’attività eccessivamente costosa, priva di un immediato ritorno economico, op-pure un fattore di natura secondaria e di competenza esclusiva delle imprese più grandi o, addirittura, uno strumento di mera promozione e/o di marketing fine a se stesso.

Tuttavia, nonostante l’entità dell’investimento iniziale scoraggi la maggior parte delle piccole imprese, queste potrebbero addirittura costruire una strategia comunicativa volta a ottenere benefici di breve–medio periodo, dal punto di vista della reputazione e sotto il profilo economico, sfruttando, ad esempio, la alla rela-zione, spesso diretta, con la comunità locale di appartenenza.

Pertanto, il fatto che gli sforzi tesi a sviluppare la consapevolezza della RSI non siano stati fino a oggi una priorità necessita di una approfondita riconsidera-zione; infatti, riuscire a portare a conoscenza degli stakeholder le attività intraprese in tema di RSI potrebbe determinare vantaggi per l’azienda e potrebbe spingere persino altre imprese ad attuare attività analoghe (sulla base del principio di emu-lazione), aumentando il benessere generale della collettività (Cfr. par.4).

A questo proposito sembra quanto mai indispensabile, da parte delle istitu-zioni e della comunità stessa, riuscire ad accrescere il know-how complessivo, per far sì che questo diventi una risorsa a disposizione di tutti gli stakeholder, favoren-do l’attivazione di un circolo virtuoso per la creazione di valore, mediante la diffu-sione di una nuova cultura d’impresa e, in particolare per le imprese del settore agroalimentare, delle best practice in tema di RSI.

3.3.1 Caratteristicheefunzioni:dainformazioneacoinvolgimento

Rispetto alla consueta comunicazione d’impresa, la comunicazione della RSI si presenta necessariamente più diretta, meno filtrata e più attenta agli elementi di possibile feedback, ovvero maggiormente sensibile alle reazioni dei portatori di interesse. Infatti, mentre la comunicazione d’impresa tout court solitamente si li-mita ad assolvere un ruolo di promozione dei beni e servizi a cui fa riferimento, nel caso della comunicazione in tema di RSI, indipendentemente dal settore di appar-tenenza, si perseguono una molteplicità di obiettivi legati alle varie tipologie degli stakeholder da coinvolgere e alla necessità di avvalersi di strumenti più immediati. In altre parole, il bisogno di raggiungere vari soggetti interessati ad aspetti diversi della RSI impone all’impresa di adottare una strategia comunicativa differenziata, ma allo stesso tempo semplice e trasparente.

In questo contesto, la partecipazione o l’organizzazione di eventi ad hoc, qua-

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li riunioni, seminari, conferenze e workshop, il rilascio di interviste, la pubblicazio-ne di periodiche newsletter o riviste e l’utilizzo diffuso del web assumono una parti-colare rilevanza. Tali strumenti dovrebbero rappresentare uno dei punti cardinali di un nuovo tipo di comunicazione, basato su costanti rapporti interpersonali e su una crescente interattività, al fine di mettere in contatto l’impresa con i propri interlocu-tori e ciascun gruppo di stakeholder con gli altri e fare in modo che ognuno possa realmente comprendere e condividere i bisogni di tutte le parti coinvolte.

L’obiettivo prioritario della comunicazione di RSI è quello di interessare con-temporaneamente una pluralità di soggetti, in linea con una concezione sistemi-ca dell’impresa socialmente responsabile, evitando il più possibile di organizzare momenti di dialogo “a compartimenti stagni”, distinguendo, cioè, tra l’impresa e i lavoratori, tra l’impresa e i fornitori, tra l’impresa e le associazioni di categoria e, infine, tra l’impresa e le università e/o gli istituti di ricerca. Alla luce di queste considerazioni, è facilmente spiegabile il fatto che le campagne pubblicitarie del tipo “advertising”, tradizionalmente molto sfruttate dalla comunicazione, ricopra-no nell’ambito della RSI solo un ruolo marginale, in genere riconducibile ai casi di cause-related marketing44.

Partendo dalla necessità di un costante confronto tra l’impresa e gli stake-holder, all’interno delle varie funzioni svolte dalla comunicazione in tema di RSI, la letteratura prevalente distingue tra una “comunicazione partecipativa” e una “co-municazione programmatica”.

Per comunicazione partecipativa si intende il momento del confronto tra un’impresa socialmente responsabile, che sceglie di dotarsi di standard e sistemi di rendicontazione della qualità e delle performance ambientali, sociali ed etiche, e gli stakeholder. Infatti, è fondamentale che l’impresa, una volta deciso di introdurre tali strumenti di monitoraggio, controllo (ex ante) e valutazione (ex post), renda partecipi i soggetti interessati allo svolgimento della propria attività, creando dei momenti di aggregazione per fare in modo che queste pratiche diventino un patri-monio condiviso da tutti i componenti dell’azienda. Pertanto, se un’impresa decide di adottare un proprio codice etico oppure il bilancio sociale, non deve limitarsi a comunicare l’avvenuta introduzione, una volta terminata la redazione del docu-mento, ma deve necessariamente informare e dialogare con i propri stakeholder prima, ovvero in corso d’opera In questo modo, tutte le componenti aziendali hanno la possibilità di interagire e contribuire a definire l’identità dell’impresa e i principi

44 Campagne promozionali nelle quali l’azienda collabora con un altro soggetto (in genere un’organiz-zazione no profit) allo scopo di promuovere un prodotto “etico” o di raccogliere fondi per un’iniziativa benefica.

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della sua condotta, per fare in modo che gli strumenti di rendicontazione e gli stan-dard diventino uno strumento condiviso e riconosciuto da ciascuno come proprio.

La comunicazione programmatica riguarda, invece, la propensione dell’im-presa a instaurare un rapporto stabile con i propri interlocutori, al fine di indivi-duare gli obiettivi comuni e il modo ottimale per il loro raggiungimento. È questo, ad esempio, il caso delle relazioni tra l’impresa, attore fondamentale del tessuto sociale e uno fra gli interlocutori principali della Pubblica Amministrazione, e gli stessi Enti locali, i quali, nel perseguire l’interesse pubblico, hanno il compito di fare da cerniera fra lo Stato e la società civile, recependo le istanze di quest’ultima e, al contempo, proponendo le soluzioni più idonee. Si profila, pertanto, uno sce-nario nel quale gli Enti locali rappresentano un referente strategico dell’impresa, attraverso cui si possono intrecciare relazioni strategiche mutuamente profittevoli a vantaggio del benessere comune.

Accanto alla funzione partecipativa e programmatica, la comunicazione nell’ambito della RSI svolge anche un ruolo di “tutela preventiva” nei confronti di un’opinione pubblica non solo attenta al rapporto qualità/prezzo, ma anche sempre più vigile e critica sui temi legati al rispetto dell’ambiente, del territorio e del lavoro. Fra i consumatori, infatti, cresce la consapevolezza di poter inci-dere significativamente anche sulle performance economiche delle imprese per mezzo delle proprie scelte d’acquisto, arrecando notevoli danni nei casi in cui si accerti che le aziende adottino comportamenti difformi da quanto annunciato in tema di RSI45. Le imprese, quindi, dovrebbero comunicare costantemente la pro-pria condotta, dal momento che la sola percezione di comportamenti non in linea con le attese potrebbe indurre i consumatori a non acquistarne più i prodotti, determinando di conseguenza una sostanziale contrazione della domanda e una conseguente caduta dei ricavi46.La sensibilizzazione del consumatore sull’attività di responsabilità sociale svolta dall’impresa, pertanto, dovrebbe indurlo non solo ad acquistare i beni e i servizi offerti, ma a compiere le proprie scelte in maniera consapevole.

45 Ciò implica che le caratteristiche del prodotto offerto dovrebbero necessariamente coincidere con i criteri o i valori in base ai quali il consumatore “critico” ha compiuto la scelta.

46 Le imprese socialmente responsabili hanno sicuramente il massimo interesse a sensibilizzare il proprio consumatore con una comunicazione adeguata; non si può affermare, infatti, che a fronte di un comportamento socialmente responsabile realmente intrapreso, vi sia un immediato e diretto riscontro in termini di aumento dei volumi di vendita, poiché le scelte dei consumatori appaiono ancora oggi in molti casi motivate da criteri che non includono l’etica dell’impresa e/o un suo com-portamento responsabile. Tuttavia, è noto che la comunicazione, di per sé, può svolgere un ruolo determinante nella percezione che il consumatore ha dell’impresa e dei suoi prodotti e, se opportu-namente impostata, del suo comportamento socialmente responsabile.

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Come accennato nel paragrafo precedente, la strategia comunicativa delle imprese si differenzia in modo sostanziale a seconda del settore di appartenenza. Nel settore agricolo e agroalimentare, tenuto conto delle specificità di ogni sin-golo comparto, le preoccupazioni in termini di comunicazione di RSI riguardano l’effettiva capacità dell’impresa di informare adeguatamente il consumatore sulle azioni che essa ha intrapreso. La comunicazione, pertanto, può svolgere tante funzioni quante sono le azioni socialmente responsabili dell’impresa, come, ad esempio: a) rassicurare i propri stakeholder sulla qualità dei propri prodotti, con particolare riferimento alla selezione e provenienza delle materie prime, al rela-tivo processo di lavorazione e confezionamento e alla sicurezza del prodotto fina-le47, anche perseguendo l’obiettivo di diffondere la cultura di una corretta e sana alimentazione; b) informare i consumatori circa l’effettiva riduzione dell’impatto ambientale riconducibile alla produzione dei beni e servizi offerti, con specifico riferimento alla gestione dei rifiuti e alla loro parziale o completa riciclabilità, alla riduzione delle emissioni inquinanti, all’utilizzo di energie alternative pulite; c) mostrare agli stakeholder che l’eticità della produzione riguarda anche l’utilizza-zione del fattore lavoro, non solo attraverso il pieno rispetto delle norme di legge in tema di sicurezza del lavoro, ma soprattutto grazie alla costante valorizzazione della manodopera impiegata e alla sua consultazione e/o partecipazione attiva alle decisioni relative ad alcuni aspetti della gestione dell’impresa48; d) eviden-ziare il forte legame che si è creato con la comunità locale, in grado da un lato di promuovere su scala nazionale o internazionale le produzioni, la cultura e i valori locali, valorizzando il territorio, le tradizioni e i prodotti tipici, dall’altro di favorire la crescita economica attraverso la creazione di posti di lavoro nelle produzioni principali e nell’indotto; e) mostrare di avere attenzione al processo di selezione e controllo dei fornitori, attraverso la verifica dell’adozione di codici di compor-tamento e di standard di certificazione sulle caratteristiche dei prodotti e/o dei servizi forniti, e sulla rintracciabilità dei prodotti, ad esempio comunicando, nel caso delle aziende della distribuzione, i marchi che vengono commercializzati attraverso le private label, riconducendo la propria reputazione a quella di case

47 Alla luce delle recenti crisi alimentari internazionali (BSE, febbre aviaria), appare evidente come il consumatore sia particolarmente attento a tutte le fasi legate alla catena della produzione, dalle materie prime utilizzate, con riferimento, ad esempio, all’eventuale uso di organismi geneticamente modificati, alla valutazione delle tecniche di confezionamento e di conservazione.

48 Il miglioramento delle condizioni di lavoro attraverso politiche del personale centrate sull’investi-mento in capitale umano e più attente alle esigenze dei lavoratori-dipendenti tende a distendere il clima delle relazione lavorative, potendo indurre, allo stesso tempo, un incremento della produttivi-tà del lavoro e della redditività dell’impresa.

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produttrici già note; f) fornire informazioni, soprattutto nel caso delle imprese di grandi dimensioni, riguardo alla corporate governance49 sia riportando i compiti dei vari organi e i rapporti di comunicazione e controllo fra gli stessi (carta dei va-lori, codice etico e bilancio sociale), sia aumentando la trasparenza del processo di decisione aziendale attraverso il coinvolgimento diretto dei singoli amministra-tori, per dare non solo un’anima ma anche un volto all’azienda.

Un’efficace strategia di comunicazione dovrebbe tradursi in un approccio multidimensionale, in grado di coprire tutte le aree in cui è stato adottato dall’im-presa un comportamento socialmente responsabile e di interfacciarsi con i relati-vi interlocutori. Nella realtà, tuttavia, l’approccio comunicativo, soprattutto verso l’esterno, della RSI dipende fortemente dal modo in cui le imprese interpretano la responsabilità sociale. Per molte di esse, infatti, essere socialmente responsabili significa limitarsi, da un lato, alla redazione del bilancio sociale o del codice di condotta e, dall’altro, ad azioni di solidarietà verso la comunità che, il più delle volte, si concretizzano in donazioni o contributi una tantum a specifici eventi. Al-tre imprese, invece, interpretano la responsabilità sociale in maniera più estesa, integrandone quotidianamente le pratiche all’interno del proprio processo ge-stionale e decisionale e coinvolgendo in tale processo ogni funzione aziendale e tutti gli stakeholder di riferimento.50 È in questa direzione che, nonostante i netti progressi compiuti nell’ultimo decennio in tale ambito, le imprese del settore agricolo e agroalimentare dovranno convergere, al fine di sfruttare appieno i be-nefici economici e i vantaggi, anche competitivi, in termini di credibilità, derivanti dall’applicazione delle pratiche di RSI.

3.3.2 IsoggettidestinataridellacomunicazionedellaRSI

Le iniziative di responsabilità sociale delle imprese coinvolgono una mol-teplicità di soggetti che possono essere raggruppati, per facilità espositiva, in quattro distinte categorie di stakeholder: mercato, luogo di lavoro, comunità e ambiente.

Il mercato, che entra in gioco quando l’azienda desidera informare sul suo

49 Con il termine corporate governance si indica l’insieme delle procedure che riguardano la gestione e il controllo dell’impresa.

50 Si tratta, per la rilevanza dell’attenzione mediatica e delle istanze di consumatori, associazioni e co-munità locali a loro rivolte, di aziende di grandi dimensioni e di multinazionali, che per prime hanno adottato tali pratiche.

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modo di operare responsabilmente, include quali potenziali soggetti interessati, i clienti, compresi i lavoratori dell’azienda nella veste di possibili acquirenti, le associazioni di consumatori, i fornitori, i partner aziendali e gli investitori. Gli sforzi attuati dall’impresa verso questi stakeholder comprendono azioni volte a migliorare il supporto dei fornitori locali, la soddisfazione del cliente, l’etica com-merciale, la garanzia dei diritti del consumatore, le condizioni di vita e di lavoro puntando, ad esempio, su un livello elevato di qualità e sicurezza del prodotto/sevizio, sulla divulgazione delle informazioni attraverso l’etichettatura, sulla so-stenibilità dell’imballaggio, sull’adozione di determinati criteri di selezione dei partner commerciali.

Il luogo di lavoro, che è interessato dai miglioramenti ottenuti con l’adozio-ne di strategie di RSI all’interno dell’azienda, comprende le risorse umane inter-ne, i sindacati (eventualmente presenti), la comunità locale (comprese le associa-zioni di categoria) e le autorità pubbliche. In tale ambito, l’impresa può adottare un insieme di azioni che riguardano: la soddisfazione professionale, la salute e la sicurezza dei lavoratori, la formazione e l’aggiornamento delle risorse umane (ovvero l’investimento in capitale umano), il rispetto delle pari opportunità di im-piego e delle diversità (religiose, cultuali e fisiche), l’equilibrio lavoro/vita privata (flessibilità di orario, eventuale disponibilità di asili nido aziendali).

Invece, quando l’azienda ha interesse a fornire informazioni sull’impegno verso la comunità locale, le iniziative tendono a focalizzarsi su: lavoratori; orga-nizzazioni o istituzioni locali (per esempio associazioni, scuole, ospedali); autori-tà pubbliche e organizzazioni non profit. Alcuni esempi concreti di tali interventi possono includere gli sforzi dell’azienda tesi al rafforzamento dell’integrazione sociale (tolleranza etnica e coesione sociale), del benessere e/o dell’istruzione, nonché al miglioramento della qualità della vita e delle infrastrutture locali, oltre alla partecipazione a eventi di beneficienza.

Infine, se l’impresa desidera comunicare le iniziative intraprese per contri-buire alla salvaguardia dell’ambiente, dovrebbe rivolgersi ai seguenti interlocuto-ri: lavoratori, partner commerciali, organizzazioni non profit, consumatori, auto-rità pubbliche e comunità locale. In questo caso le iniziative potrebbero riferirsi, ad esempio, alla riduzione dell’inquinamento energetico e idrico, alla riduzione dell’uso di sostanze chimiche pericolose, al non utilizzo di organismi genetica-mente modificati, al mantenimento dell’equilibrio biologico evitando l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali coinvolte, alla riduzione della produzione dei rifiuti e alle modalità di smaltimento dei rifiuti pericolosi.

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3.3.3 Glistrumenti

Al fine di rendere la comunicazione delle pratiche di RSI pienamente effi-cace, è necessario che l’impresa individui un set ampio di strumenti51 in grado di soddisfare, di volta in volta, tutte le richieste informative dei relativi stakeholder. È logico, quindi, attendersi che la scelta degli strumenti di comunicazione da attivare dipenda dai soggetti che si desidera raggiungere, dalle capacità e dalle risorse a di-posizione dell’impresa e, in particolare, dalla tematica che si intende trattare. Per-tanto, a seconda dell’interlocutore al quale si rivolge, ciascuna impresa predispone differenti strumenti comunicativi, attiva canali distinti e utilizza linguaggi diversi.

I mezzi di comunicazione della RSI più comunemente utilizzati nel settore agricolo e agroalimentare comprendono: etichette del prodotto, confezioni di im-ballaggio, comunicati stampa, newsletter, eventi collegati, relazioni, poster, volan-tini, brochure, siti web, pubblicità, pacchetti informativi o, semplicemente, il “pas-saparola”. Una comunicazione efficace deriva dall’impiego degli strumenti idonei a garantire che la categoria degli stakeholder interessata recepisca adeguatamente il messaggio; per questo motivo è importante individuare, per ogni categoria di portatori di interesse, gli strumenti più adatti a tale scopo.

In primo luogo, ogni impresa deve tener conto dei clienti/consumatori a cui è rivolto il maggiore sforzo comunicativo, a partire dall’impostazione del sito internet che oggi rappresenta la vetrina aziendale. Poiché la comunicazione di RSI deve ave-re tre caratteristiche fondamentali, ovvero semplicità, trasparenza e immediatezza, anche il sito web deve essere predisposto in modo da rendere facile la navigazione e immediatamente fruibili i contenuti. In esso devono essere presenti sezioni appo-sitamente predisposte sulle azioni socialmente responsabili, all’interno delle quali gli interessati possono trovare documenti istituzionali, come il bilancio sociale e la carta dei valori, eventualmente modellati sulle esigenze dei consumatori e arric-chiti da immagini e riquadri esemplificativi per consentirne una lettura più agevole. Il sito, inoltre, si presta a divenire luogo di comunicazione interattiva, attraverso i servizi di mailing forniti da diverse aziende, nel tentativo di instaurare un rapporto diretto52. Altre azioni di comunicazione dirette al consumatore sono: a) l’attivazione di call center informativi con l’utilizzazione di figure professionali adeguatamente

51 L’obiettivo di questo paragrafo è di soffermarsi sugli strumenti più rilevanti ai fini della comunicazio-ne delle pratiche di RSI; per un’analisi approfondita degli strumenti in tema di RSI si confronti Cap. 4.

52 Un limite all’efficacia di tale strumento deriva dalla composizione della propria clientela e dalle caratteristiche del core business di riferimento, con il rischio di non raggiungere i clienti che non hanno accesso o consuetudine alla navigazione sul web.

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formate; b) la costituzione di propri punti vendita per valorizzare presso i consu-matori la sensibilità aziendale verso le questioni sociali e ambientali, impiegando oltre al personale, panel informativi e utilizzando brochure e opuscoli; c) la som-ministrazione di questionari da compilare ad hoc; d) il lancio di linee di prodotti

“sostenibili” (equo e solidale, biologico, ecologico).In secondo luogo, vi è la comunicazione aziendale rivolta ai soci, indubbia-

mente incentrata sulla trasparenza della gestione aziendale e legata ai temi della corporate governance. In questo caso lo strumento fondamentale per l’impresa è quello dell’assemblea annuale, anche se l’invio periodico di materiale informativo sotto forma di riviste, la possibilità di consultare bilanci sociali e/o di sostenibilità e la costituzione di un dipartimento ad hoc destinato alla comunicazione con i soci costituiscono valide alternative. Anche il sito internet, inoltre, potrebbe fornire al-cuni servizi specificamente rivolti ai soci, individuando una sezione loro dedicata, di norma ad accesso riservato, con una pagina sulle FAQ53, un servizio di mailing e numerose informazioni utili, dai verbali delle assemblee alla corporate governance.

In terzo luogo, vi è la comunicazione interna destinata ai lavoratori dell’azien-da, attenta anche agli aspetti formativi. Al riguardo, uno degli strumenti privilegiati è intranet; attraverso il web, infatti, le informazioni possono circolare liberamente fra gli addetti e si può costituire una sorta di archivio al quale può accedere chi è interessato a ulteriori approfondimenti. Sono due le strategie principalmente adottate: da un lato si prevede una pianificazione della formazione interna sulla RSI, avvalendosi proprio di intranet (servizio di mailing, corsi on-line); dall’altro si utilizza intranet come archivio e per l’arricchimento sui temi della RSI. Tuttavia, nella formazione (e informazione) diretta ai lavoratori non si devono tralasciare alcuni strumenti tradizionali, quali i manuali e le linee guida distribuite in versioni cartacee, i magazine aziendali con uscita periodica e gli incontri formativi rivolti al personale dirigenziale, amministrativo e operativo.

In quarto luogo, si distingue una comunicazione aziendale rivolta ai fornitori a scopo informativo ma anche di formazione e di controllo. Al riguardo, un numero crescente di imprese predispone dei codici di condotta e delle linee guida specifi-camente rivolte ai propri fornitori, che sono tenuti a seguirle. Talvolta si cerca di instaurare una relazione di feedback anche con i fornitori, somministrando loro dei questionari da compilare.

Infine, si deve sottolineare il rapporto con la comunità locale di appartenen-

53 Con l’acronimo FAQ (Frequently Asked Questions) si intendono le domande che gli utenti più fre-quentemente pongono all’impresa.

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za, che si sviluppa lungo due direttrici. La prima si riferisce al rapporto con gli enti locali attraverso una collaborazione avente per oggetto, di norma, l’elaborazione e la successiva valutazione di nuovi standard e di strumenti di valutazione e rendicon-tazione delle performance. La seconda interessa la comunità locale nell’accezione più ampia del termine, con l’obiettivo di instaurare un rapporto diretto e di vicinan-za alla comunità. Tale rapporto nasce e si consolida mediante l’organizzazione di grandi eventi e la concessione di donazioni, traducendo la comunicazione in azio-ni tangibili. Un’altra modalità utilizzata è quella volta a incontrare direttamente i membri della comunità, organizzando seminari sia con suoi esponenti, ma anche entrando nelle scuole con percorsi formativi e materiale informativo. Qualora il ter-mine comunità fosse inteso in maniera ancora più estesa, non dovrebbero manca-re gli incontri con organizzazioni non governative, associazioni di categoria e altre associazioni di rilievo per la collettività, allo scopo di coinvolgerle direttamente nei processi decisionali e gestionali, per discutere insieme su come l’impresa possa integrarsi sul territorio.

Naturalmente, dovrebbero essere accuratamente gestite le relazioni con la comunità scientifica, alla quale vengono indirizzati documenti di ricerca, che si van-no ad aggiungere al diretto coinvolgimento di alcune imprese in gruppi di ricerca e network nazionali ed internazionali.

3.4 Limitieopportunitànell’attuazionedellacomunicazionedellaRSI

Nell’ambito del settore agricolo e agroalimentare italiano, caratterizzato per lo più, come più volte sottolineato, da una dimensione piccola e media dell’impresa, la comunicazione della RSI, se ben strutturata, garantisce importanti opportunità di crescita e conseguenti miglioramenti dei risultati economici. Tuttavia, nel con-testo delle modalità con cui viene definito e realizzato il processo comunicativo, spesso si manifestano anche rilevanti criticità che rischiano di compromettere la reputazione aziendale nei confronti degli stakeholder, finendo per incidere in modo negativo anche sui risultati economici conseguiti.

3.4.1 Limiti

Una prima problematica che emerge relativamente alla comunicazione della RSI fa riferimento proprio alla dimensione dell’impresa agricola e agroalimentare,

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che talvolta risulta troppo piccola per consentirle di sviluppare politiche comunica-tive adeguate. In questo senso, l’impresa spesso non riesce ad avere un’adeguata percezione dell’importanza del processo comunicativo; oppure, non essendo co-munque abituata a parlare dei propri valori, non manifesta la sensibilità necessaria per farlo, realizzando una comunicazione che rischia di non utilizzare i toni giusti e il linguaggio appropriato. D’altra parte, la piccola dimensione incide anche sulla possibilità di acquisire le risorse finanziarie adeguate per sostenere i costi della comunicazione; in particolare, possono emergere difficoltà a coprire i costi fissi, quando non si dispone di una scala dimensionale sufficiente per poterli facilmente ammortizzare sull’ammontare della produzione realizzata.

Invece, nei casi in cui sono state comunque attivate forme di comunicazio-ne, una criticità che spesso si evidenzia è legata all’eccessiva enfasi utilizzata, sia per valorizzare le caratteristiche “positive” dei prodotti e dei processi implementati, sia in riferimento al tema dell’etica. Quest’ultimo, infatti, si mostra un argomento particolarmente critico agli occhi del consumatore, a causa dei vari scandali ali-mentari che hanno coinvolto anche imprese agricole e agroalimentari, che pure avevano adottato comportamenti socialmente responsabili, impiegando strumenti di rendicontazione e di comunicazione apparentemente ineccepibili.

Un’ulteriore problematica riguarda l’incoerenza, spesso presente nei proces-si comunicativi. In questo caso la comunicazione rischia di essere percepita come strumento finalizzato soltanto a “ripulire” l’immagine dell’impresa che la propone: un classico esempio di incoerenza è dato dalla pratica del greenwashing54. Proprio al fine di scongiurare l’incoerenza, invece, l’impresa dovrebbe evitare di promuo-vere le proprie attività verso l’esterno se non le ha prima condivise al suo interno, così come dovrebbe esimersi dal comunicare ciò che non ha realmente effettuato, ovvero non annunciando progetti, ma comunicando soltanto i risultati conseguiti.

3.4.2 Opportunità

La comunicazione della RSI, se organizzata in modo ragionevole e con gli strumenti adatti, può offrire importanti opportunità per trasmettere e diffondere i valori a cui si richiama l’impresa, per metterne in luce i tratti distintivi, per farla entrare il più possibile in sintonia con i suoi diversi stakeholder, avvicinandola in questo modo al consumatore e ai suoi riferimenti valoriali. Per questo occorre che

54 Cfr. infra, par. 2.

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tale forma di comunicazione sia sempre esaustiva, trasparente e facilmente re-cepibile. Un valido processo comunicativo delle pratiche di responsabilità sociale adottate produce effetti positivi sia all’interno, sia all’esterno dell’impresa: da un lato, esso migliora la gestione dei rapporti con i lavoratori e con i collaboratori/for-nitori, dall’altro consolida la sua presenza sul territorio di riferimento e consente di realizzare progetti innovativi e di maggior successo per il mercato, con concreti miglioramenti dei risultati economici. In questo ambito di analisi, dunque, una buo-na comunicazione permette di aumentare la reputazione dell’impresa agli occhi dei suoi principali interlocutori e quindi la fiducia che essi ripongono nei confronti del suo operato. La chiarezza e la trasparenza, perciò, risultano delle condizioni neces-sarie per conquistare e conservare il credito accumulato presso i clienti: proprio per questo occorre che l’impresa comunichi sempre il vero e che allo stesso modo eviti di nascondere i problemi che possa aver incontrato o che sta affrontando.

D’altra parte, una buona strategia comunicativa è quella che consente all’im-presa di instaurare un rapporto di tipo sinergico con i suoi principali stakeholder, consentendo loro di influire su alcune decisioni aziendali. Proprio da una strategia di questo tipo, come già accennato, scaturisce un impulso decisivo alla costruzio-ne (e conseguente soddisfazione) di un nuovo profilo del consumatore: quello del

“prosumer”55.

3.5 Conclusioni

La strategia di comunicazione della RSI, pur rappresentando, ancora oggi, un aspetto poco dibattuto ed esplorato in letteratura, che necessita di ulteriore approfondimento teorico ed empirico, costituisce, senza dubbio, un tema di vitale importanza per migliorare la capacità dell’impresa di stare sul mercato. Per le imprese del settore agricolo e agroalimentare, come si è visto, l’adozione di efficaci pratiche di comunicazione potrebbe risultare strategica sia per superare i limiti di competitività (e di sbocco sul mercato) - derivanti spesso dalle dimensioni ridotte

-, sia per aumentare la visibilità delle scelte socialmente responsabili attuate in passato e che si intende realizzare nel prossimo futuro.

Comunicare la responsabilità sociale, a nostro avviso, è importante per l’im-presa agricola ed agroalimentare in quanto la aiuta - con l’apporto di tutti i suoi sta-keholder - a definire la propria identità, ma anche perché contribuisce a costruire

55 Cfr. infra, par. 2.

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una solida reputazione e dunque a instaurare e rafforzare legami di fiducia, senza i quali non sarebbe possibile svolgere alcuna attività economica. Ciò assume impor-tanza fondamentale alla luce delle recenti evoluzioni delle scelte del consumatore, divenuto sempre più “critico”, ovvero sensibile non solo al rapporto qualità/prezzo, ma anche ai temi etici, sociali e ambientali.

Tuttavia, è importante non sottovalutare la fragilità del meccanismo reputa-zionale, in quanto gli investimenti sulla responsabilità sociale possono dare effetti di reputazione nel medio o nel lungo periodo, mentre sono estremamente soggetti a shock informativi di breve periodo. Affinché la reputazione si sviluppi in modo efficace, dunque, è necessario che l’impresa assuma impegni anche in contesti caratterizzati da eventi imprevisti o in cui l’informazione è asimmetrica (ovvero, di-stribuita in modo molto diseguale) e parallelamente occorre che gli stakeholder possano verificare l’osservanza degli impegni anche quando mancano contratti re-golarmente dettagliati e obiettivi espliciti. Infatti, come è stato osservato, (Morsing e Schultzn, 2006., p. 6) «se il meccanismo reputazionale risultasse imperfetto, l’in-tero impianto della RSI ne risulterebbe invalidato».

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Capitolo iV

Gli strumenti di rsi Per le imPrese aGroali-mentari

4.1 Introduzione

Il tema della RSI abbraccia molteplici ambiti della gestione aziendale e gli strumenti che si possono utilizzare per esplicarla sono altrettanto numerosi e dif-ficilmente riconducibili a un elenco finito. Tale circostanza è ancora più vera nel contesto delle imprese agricole e agroalimentari che si caratterizzano per la loro multifunzionalità56.

L’agricoltura multifunzionale può essere così spiegata: ogni giorno consu-miamo i cibi che essa produce, usiamo gli spazi aperti e il paesaggio che gli agri-coltori abitano e mantengono, usufruiamo della difesa del territorio dai dissesti idrogeologici e godiamo di una condizione di maggiore sicurezza per noi stessi, per gli insediamenti produttivi e per le infrastrutture necessarie alla vita civile. Agri-coltura, quindi, non vuol dire solo cibo, ma anche ambiente, biodiversità, paesag-gio, sicurezza idrogeologica, servizi alla popolazione, cultura e tradizioni: in altre parole essa significa “qualità della vita”. Il riconoscimento della multifunzionalità dell’agricoltura, ovvero della capacità del settore primario di dare origine a produ-zioni congiunte - beni fisici, servizi diversi ed esternalità ambientali, costituisce un elemento di valore strategico per lo sviluppo del settore e un’importante opportu-nità economica per tutte le imprese agricole.

In Italia questi principi sono stati introdotti con il d.lgs. n. 228/2001, che am-plia lo spettro delle attività considerate agricole, apportando sostanziali novità in tema di configurazione giuridica e funzionale dell’impresa agraria (Germanò, 2006). L’imprenditore agricolo, nelle nuove disposizioni del codice civile, emerge come soggetto inserito in un contesto economico, sociale e territoriale, anche con com-

56 Il concetto di multifunzionalità è stato introdotto per la prima volta nel 1992 in occasione della Con-ferenza mondiale sull’ambiente e lo sviluppo di Rio de Janeiro.

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piti di presidio, tutela e valorizzazione delle risorse ambientali. Infatti, oltre alle atti-vità agricole principali «dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria a tale ciclo», l’imprenditore agricolo, in base al nuovo testo dell’art. 2135 del c.c., può svolgere anche attività dirette «alla manipolazione, trasformazio-ne, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dell’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrez-zature o risorse dell’azienda, comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione e di ospitalità». Oltre alla pro-duzione di alimenti, dunque, l’attività agricola dà vita anche a funzioni secondarie.

Per l’Unione europea, secondo quanto previsto dall’Agenda 2000, la mul-tifunzionalità indica il nesso fondamentale tra agricoltura sostenibile, sicurezza alimentare, equilibrio territoriale, conservazione del paesaggio e dell’ambiente, nonché garanzia dell’approvvigionamento alimentare. La multifunzionalità viene promossa attraverso la propria Politica agricola comune (PAC) con la Strategia per lo Sviluppo Rurale 2007-2013, che individua tre obiettivi generali: 1) migliorare la competitività del settore agricolo e forestale; 2) valorizzare l’ambiente e lo spazio rurale attraverso la gestione del territorio; 3) migliorare la qualità della vita nelle zone rurali e promuovere la diversificazione delle attività economiche.

L’agricoltura multifunzionale presuppone, pertanto, un’innovazione sia nelle politiche agricole sia nei sistemi di produzione e nell’organizzazione aziendale; a tal proposito, la RSI si innesca proprio a partire dalla necessità di introdurre nuo-vi strumenti di gestione (Briamonte, Hinna, 2008). Anzi, l’adozione di strumenti di responsabilità sociale è, forse, l’espressione più concreta della scelta di gestire la propria attività in maniera etica.

Nelle Linee guida dell’INEA “Promuovere la responsabilità sociale delle im-prese agricole ed agroalimentari” (AA.VV, 2007), alle quali si rimanda per un appro-fondimento, le motivazioni alla base della decisione di intraprendere un percorso di RSI sono state suddivise in base ai vantaggi che ne possono derivare: interni o esterni all’impresa; di breve o di lungo periodo. Tale scelta, infatti, non è dettata da mere logiche di mercato - che da sole potrebbero bastare a garantire all’impresa un successo in termini commerciali - ma deriva dalla decisione di portare avanti una filosofia aziendale incentrata su valori e principi che si intende rendere traspa-renti e condividere con i potenziali clienti. La trasparenza, come si è avuto modo di evidenziare parlando di comunicazione57, è un elemento fondamentale della RSI

57 Cfr. infra, cap. 3.

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che, insieme alla partecipazione degli stakeholder, deve essere presente trasver-salmente in tutte le fasi di gestione dell’attività.

La multifunzionalità dell’impresa agricola, che può essere espressa anche con l’adozione degli strumenti trattati in questo capitolo, si configu-ra, pertanto, come uno degli elementi che caratterizzano il percorso di RSI che l’impresa decide di implementare. Questo percorso, tenendo conto dei vari ambiti di interesse dell’agricoltura - produzione, ambiente, paesaggio, turismo, cultura, salute, sociale, ecc. - e dei vari soggetti che entrano in re-lazione con essa (stakeholder), non può fare a meno di esaltare la peculiarità multifunzionale di questo settore, mettendone in evidenza le potenzialità di sviluppo.

In questo capitolo viene presentato un ventaglio di possibili strumenti utilizzabili per applicare la RSI nella gestione delle imprese agricole, senza alcuna pretesa di voler fornire un elenco esaustivo, dato il carattere aperto e discrezionale di tale materia. Partendo dagli strumenti di gestione della governance a disposizione delle imprese agricole, nei paragrafi successivi vengono analizzati gli strumenti esistenti per l’attuazione della RSI con riferi-mento ai tre elementi essenziali della multifunzionalità: la valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali: la salvaguardia ambientale; il miglioramento delle condizioni di lavoro. A ognuno di questi tre temi è dedi-cato un paragrafo seguito da un sottoparagrafo in cui è illustrata l’attuazione pratica degli strumenti di responsabilità sociale a esso legati.

Prima di passare all’analisi puntuale degli strumenti di RSI suddivisi in base all’obiettivo a cui tendono, è possibile introdurre il tema della RSI nelle aziende agricole con riferimento a quegli strumenti che hanno lo scopo di qualificare le imprese che decidono di adottarli come socialmente responsa-bili. Rientrano in tale categoria: l’Accountability 1000 (AA 1000), il bilancio so-ciale, il bilancio ambientale, il bilancio di sostenibilità, il codice etico, la carta dei valori, lo Standard Etico e Sociale (SA8000) e l’organizzazione di workshop interni per la sensibilizzazione e la comunicazione dei temi della RSI (AA.VV, 2007). Gli strumenti appena elencati, infatti, non si focalizzano su un aspetto specifico della multidimensionalità - fatta eccezione per il bilancio ambientale che, però, nasce come parte integrante del bilancio sociale e racchiude in sé aspetti e caratteristiche molto ampi -, ma riguardano, più in generale, la go-vernance dell’impresa e la gestione strategica nel suo complesso. Ciò che si vuole approfondire in questo capitolo non attiene tanto alle motivazioni di ca-rattere generale alla base della scelta di attivare comportamenti responsabili,

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ma riguarda, principalmente, gli strumenti a disposizione delle imprese agri-cole per offrire prodotti e servizi che siano riconducibili alla logica della RSI.

4.2 Lavalorizzazionedelterritorioedeirapporticonlecomunitàlocali

Se è vero che la multifunzionalità in agricoltura comprende l’insieme dei benefici che gli agricoltori forniscono sia direttamente sia indirettamente alla col-lettività, ciò assume un valore ancora più forte con riferimento alla comunità e al territorio specifico con cui un’impresa agricola si relaziona e si confronta quoti-dianamente. La natura multifunzionale delle imprese agricole, dunque, può essere considerata un sentiero di adattamento dell’agricoltura al nuovo modello di econo-mia territoriale: un modello incentrato su attività economiche molto più orientate alla valorizzazione integrata e sostenibile delle risorse locali, alle economie di scopo e di differenziazione piuttosto che alle economie di scala, e molto più sensibili ai beni pubblici locali. Inoltre, la multifunzionalità implica un forte radicamento territoriale delle imprese agricole: infatti, solo una completa immersione nella società locale può consentire di cogliere e sfruttare pienamente quel potenziale di diversificazione e di complementarità produttiva e di generare - oltre al vantaggio competitivo - an-che un valore sociale per l’intera comunità.

Il legame tra agricoltura e territorio è tanto forte quanto complesso: non ba-sta dire che l’agricoltura svolge le sue attività su un territorio le cui caratteristiche organolettiche ne condizionano lo svolgimento (Albisinni, 2000). Il concetto di terri-torio deve essere inteso, anzitutto, nella doppia accezione di specifica dotazione di risorse materiali, come la composizione del suolo e il clima, e immateriali, come la cultura e la conoscenza delle tradizioni. Inoltre, nel caso della produzione agricola, entrano in gioco platee di attori e istituzioni locali per cui il territorio diventa una leva dello sviluppo, nel senso che il livello e la qualità della crescita economica sono strettamente connessi alla qualità del contesto socio-istituzionale e delle risorse locali.

Esaminando il legame tra RSI nelle imprese agricole, territorio e comunità locali, è fondamentale evidenziare che l’impresa agricola consente di mettere in evidenza (e in alcuni casi fa rivivere) la cultura e le tradizioni di un popolo e di un territorio e le utilizza come volano per la sua stessa attività, creando così un sistema che si autoalimenta e permette lo sviluppo di un successo economico, equilibrato anche da un punto di vista sociale. Sono soprattutto le specificità di un territorio che

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parte SeCOnDa | responsabilità sociale e modelli di produzione

permettono a un’azienda agricola di sviluppare un vantaggio in termini economici e di attuare azioni di responsabilità sociale. La valorizzazione degli elementi di speci-ficità del territorio consente di esaltarne l’aspetto sociale e culturale, sviluppare for-me di modernizzazione, attivare processi di coinvolgimento della popolazione locale e dei diversi attori della filiera e promuovere nuove forme di contatto tra le aziende e tra aziende e consumatori (filiera corta, fattorie didattiche, adozione di marchi col-lettivi) (Giuca, 2008). Tutto ciò è ascrivibile nel grande mondo della RSI che spesso, soprattutto in agricoltura, è attuata senza la consapevolezza di chi la pone in essere. Soprattutto per le produzioni tipiche o tradizionali, il valore aggiunto che le caratte-rizza risiede proprio in quegli aspetti storico-culturali e, quindi, nel territorio e nelle tradizioni della comunità locale da cui traggono origine.

In tale prospettiva, l’adozione degli strumenti di seguito riportati, soprattutto se basata su una reale interiorizzazione del concetto di responsabilità sociale nel-la gestione d’impresa, può supportare una più consapevole e matura strategia di valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali. Se consideriamo stakeholder non solo i soggetti a monte e a valle della filiera agricola, ma tutti co-loro che hanno contribuito a rendere unico il territorio da cui ha origine un prodotto, espressione della RSI può essere considerato un marchio attraverso il quale si in-dica il luogo di provenienza e che ne trasmette all’esterno l’immagine, i valori e le tradizioni. Tra i marchi in questione, si citano quelli varati dall’Unione Europea (Re-golamento (CE) n. 510/2006) per proteggere la tipicità di alcuni prodotti alimentari attraverso una precisa normativa che ne riconosce il nesso diretto di causalità fra l’area di produzione e le caratteristiche distintive del prodotto (Albisinni et al., 2007). Questi marchi, per la definizione dei quali si rimanda al glossario, sono: la denomi-nazione di origine protetta (DOP) e l’indicazione geografica protetta (IGP). DOP e IGP costituiscono una valida garanzia per il consumatore e una tutela per i produttori nei confronti di eventuali imitazioni e azioni di concorrenza sleale: in un’ottica di RSI sono l’espressione della scelta di condurre la propria attività secondo i principi della gestione responsabile e nel rispetto dei disciplinari previsti. Tali marchi, infatti, lega-no il concetto di RSI a quello di valorizzazione del territorio e delle comunità locali58.

Sempre nell’ottica degli strumenti utilizzabili dalle imprese agricole e rien-tranti nella logica della RSI con l’obiettivo della valorizzazione della tipicità e della tradizionalità delle produzioni, inserite in un contesto territoriale, troviamo il mar-chio collettivo di natura pubblica (marchio geografico territoriale)

58 Dal 1/8/2009, la denominazione di origine controllata (DOC), la denominazione di origine controllata e garantita (DOCG) e l’indicazione geografica tipica (IGT) dei vini rientrano nel nuovo registro comu-nitario delle DOP e IGP.

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Se per la maggior parte degli strumenti citati è l’area geografica (territorio) a garantire la qualità del prodotto, con il marchio di specialità tradizionale garantita (STG), rilasciato dall’UE ai sensi del regolamento (CE) n. 509/2006, è la tradizio-ne, dunque un fattore legato alla cultura della comunità locale, a determinarne la peculiarità. Infatti nel caso della STG per ottenere il marchio è necessario seguire un processo che rispetti il tradizionale metodo di produzione del bene, indipen-dentemente dal luogo in cui questo avviene. E’ però interessate notare come, a parere di chi scrive, i due fattori (territorio e tradizione) possano essere considerati come due facce della stessa medaglia che consentono di assegnare al prodotto un valore aggiunto che va oltre quello di mercato. Tale valore, inoltre, ha un risvolto non solo in termini monetari. Un territorio, infatti, è tale anche in quanto vissuto da una popolazione che ne ha determinato le caratteristiche immateriali e non, in base alle proprie tradizioni e quindi al modo di relazionarsi con esso e all’uso più o meno rispettoso che ne ha fatto nel tempo. Inoltre, soprattutto in un’ottica di lungo periodo, è interessante rilevare il generarsi di un rapporto di fiducia tra produttore e consumatore che può essere considerato uno dei motivi principali che spingono l’impresa agricola a intraprendere un percorso di RSI che ha come conseguenza l’adozione di questi marchi. Non bisogna però intendere la fiducia solo in termini di fidelizzazione del cliente ma, prevalentemente, in un’ottica di condivisione di valori. L’imprenditore agricolo, infatti, sa che il consumatore, sempre più frequentemente, ha bisogno di una guida in grado di orientarlo nelle scelte d’acquisto che lo rendano consapevole di ciò che c’è dietro il prodotto che compra.

Possiamo, pertanto, sostenere che l’adozione dei marchi sopra riportati ri-entra a pieno titolo nella logica della RSI in quanto esprimono, più o meno diretta-mente, il legame e il rispetto per un territorio e per la cultura di chi lo abita, insie-me alla volontà di fare di questi elementi un punto di forza della propria mission aziendale.

4.2.1 L’attuazionepraticadeglistrumentidiresponsabilitàsocialeperlavalo-rizzazionedelterritorioedeirapporticonlecomunitàlocali

Gli strumenti elencati nel paragrafo precedente, finalizzati alla valorizzazio-ne del territorio e dei rapporti con le comunità locali, rientrano nella categoria della certificazione regolamentata. Con questa locuzione si intende una certificazione di prodotto, di un metodo di produzione o di un sistema di gestione di processo, rilasciata attraverso denominazioni, marchi, loghi, diciture, etichettature e bollini

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parte SeCOnDa | responsabilità sociale e modelli di produzione

da organismi autorizzati dall’autorità competente, in cui i criteri normativi e i pro-cedimenti di certificazione sono definiti da regole cogenti (normativa comunitaria, nazionale e regionale) (AA.VV., 2007). Passando a un’analisi che metta in evidenza i punti di forza e di debolezza di questi strumenti, possiamo riscontrare che, grazie all’utilizzo di ciascuno di essi, il valore aggiunto che un’impresa può acquisire ri-siede nella capacità di fare sistema nel tessuto produttivo locale, nella difesa delle produzioni locali, delle tipicità e delle tradizioni, e nella creazione di un sistema di valorizzazione territoriale. Inoltre, per quanto riguarda il marchio collettivo geogra-fico, si deve aggiungere che quest’ultimo prevede la possibilità di: pianificare gli aspetti organizzativi e gestionali e di impostare efficaci azioni di marketing colletti-vo con il supporto della Regione o dell’Ente pubblico; consentire uno stretto legame tra produzione agricola e prodotto trasformato; mantenere e incrementare i livelli di notorietà e di penetrazione sul mercato acquisiti nelle zone di maggior interesse commerciale. Per quanto riguarda gli aspetti critici di questi strumenti, infine, va evidenziato che, nel caso di DOP e IGP, esistono problemi legati da un lato ai limiti della commercializzazione (soprattutto nel caso di produzioni ridotte e per piccoli trasformatori di tipo artigianale) e, dall’altro, alla localizzazione che spesso risulta decentrata; nel caso del marchio geografico, invece, gli aspetti più problematici riguardano la necessità di garantire quantità costanti di produzione, la difficoltà di contrastare le strategie della grande distribuzione che punta alla produzione di massa e all’omologazione dei gusti a livello nazionale con prodotti standardizzati e la mancanza di notorietà presso i consumatori (AA.VV., 2007)59.

Con le Linee guida “Promuovere la responsabilità sociale delle imprese agri-cole ed agroalimentari” (AA.VV, 2007) l’INEA ha presentato delle proposte operative, concrete e flessibili alle imprese agroalimentari che intendono adottare un per-corso di RSI. Partendo dalla metodologia di ricerca e dagli elementi di riflessione che hanno portato all’elaborazione delle Linee guida, nello schema seguente (Box 4.1) è stato possibile pesare l’analisi INEA costi-benefici relativa all’adozione degli strumenti di RSI proprio su quelli finalizzati a valorizzare il territorio e i rapporti con le comunità locali.

59 Cfr. L’appendice degli strumenti di RSI contenuta nel CD-ROM allegato alla pubblicazione.

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Box4.1-Costi-beneficideglistrumentidiRSIperlavalorizzazionedelterritorioedeirapporticonlecomunitàlocali

Fonte: ns. elaborazioni

CostiUn primo svantaggio inerente alla scelta di adottare metodi di produzione che, nel rispetto del territorio e di chi lo vive, siano conformi a disciplinari produttivi di riferimento (spesso anche molto rigidi) risiede, pre-valentemente, nella ristrettezza dei mercati di sbocco. La collocazione tipica dei prodotti che possono fregiar-si dei marchi di cui stiamo trattando, infatti, non è la grande distribuzione (anche se nei supermercati è soli-to trovarne). Il consumo di massa, invero, mal si adatta alle caratteristiche peculiari che contraddistinguono una produzione di questo genere. Tutto ciò fa si che l’affermazione dei prodotti presso la GDO non può es-sere considerata un obiettivo da raggiungere e di con-seguenza il giro d’affari dell’impresa resta circoscritto, quanto meno in termini distributivi. Non bisogna però pensare che tale circostanza sia necessariamente vis-suta come un limite dagli imprenditori agricoli. Ciò è dimostrato dal fatto che sono essi stessi a prediligere sbocchi commerciali che garantiscono una particolare attenzione all’aspetto informativo-comunicativo stante dietro la produzione. Il limite della commerciabilità, unito a quello dell’impossibilità di garantire grandi pro-duzioni, potrebbe diventare quindi, così come accade per i beni di lusso, un punto di forza che caratterizza la produzione (solo a titolo esemplificativo si pensi al va-lore aggiunto dei pezzi unici nel campo dell’artigianato artistico).

BeneficiOltre alla valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali, che è di per sé un beneficio per l’im-presa agricola in quanto garantisce il perdurare delle condizioni materiali e non, che sono alla base della peculiarità della produzione, gli strumenti di RSI di cui si è parlato hanno ulteriori conseguenze positive che possono essere così riassunte:

- riconoscibilità all’esterno: il marchio collettivo, che identifica una produzione fatta seguendo le regole pre-viste dal disciplinare di produzione, è una garanzia sia per il consumatore, che per l’impresa che se ne avvan-taggia, anche in termini di comunicazione pubblicitaria;

- creazione di reti: l’adozione degli strumenti in ogget-to non deriva da motivazioni meramente commerciali e, infatti, la scelta di intraprendere una gestione che risponda a logiche di responsabilità sociale viene inse-rita nella mission aziendale. Ciò significa che il rispetto e la condivisione dei valori su cui si fonda la RSI sono elementi che fungono da collante non solo tra l’im-presa, il territorio e le comunità locali, ma anche tra l’impresa e le altre realtà produttive che decidono di intraprendere un percorso o di avvicinarsi al tema della responsabilità sociale;

- miglioramento della governance: anche per quanto riguarda la gestione aziendale si hanno conseguenze positive in seguito all’adozione di tali strumenti. Anzi-tutto, perché una gestione improntata a un’ottica di RSI prevede la condivisione con gli stakeholder interni di principi e valori posti alla base dell’azione imprendito-riale, il che di per sé agevola il ruolo direzionale. Nello specifico degli strumenti analizzati, inoltre, il territorio funge da punto di forza e di unione tra i soggetti coin-volti, a vario titolo, nell’impresa. E’ importante, quindi, che l’attaccamento al territorio sia un valore per tutti coloro che lavorano nell’impresa e che l’utilizzo degli strumenti in oggetto sia un punto di arrivo di una for-mazione e di una consapevolezza che, dal top manage-ment in giù, coinvolge l’intera struttura.

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parte SeCOnDa | responsabilità sociale e modelli di produzione

4.3 Ilrispettoambientale

Il legame tra agricoltura e tutela dell’ambiente è uno dei pilastri fondamen-tali per quelle imprese agricole che decidono di rendere socialmente responsabile la loro attività. Ancora una volta, il richiamo è alla multidimensionalità dell’agricol-tura e, in particolare, all’aspetto legato alla tutela ambientale.

Dare vita o gestire un’attività economica nel settore agricolo e agroalimentare significa relazionarsi con le problematiche legate alla necessità di far convivere le esigenze di carattere economico - di breve periodo - con quelle ambientali - di lungo periodo e che solo apparentemente possono sembrare in opposizione alle prime (Rook Basile, 1983). A tal proposito, e con l’affermarsi della diffusione di un’agri-coltura sempre più intensiva che minaccia la conservazione dell’ambiente, sin dalla Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro del 1992, è stato condiviso, a livello internazionale, il principio dello sviluppo sostenibile, defi-nito come “lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”60. Questo concetto è divenuto, negli ultimi venti anni, un fattore determinante per le politiche economi-che di tutti gli Stati e uno degli elementi principali delle diverse forme che la respon-sabilità sociale può assumere, soprattutto nel settore agricolo e agroalimentare. Le varie funzioni che l’agricoltura svolge sono collegate, più o meno direttamente, all’ambiente e di conseguenza l’impresa agricola, nello svolgere la sua attività, si trova in un rapporto che possiamo definire di interdipendenza con esso. L’impatto che l’agricoltura esercita sull’ambiente si identifica attraverso le cosiddette ester-nalità, ovvero conseguenze involontarie delle attività poste in essere da un’impresa che possono essere di natura positiva, come la salvaguardia di habitat naturali, la diminuzione di gas a effetto serra, la tutela dei paesaggi e della biodiversità, e ne-gativa, come l’inquinamento dell’aria, delle acque e dei suoli (Peri, 2008). Attraverso l’adozione di una politica di responsabilità sociale, l’impresa può indirizzare le sue attività al fine di porre in essere azioni che abbiano ricadute positive in termini am-bientali e nel fare ciò può servirsi di strumenti che, da un lato, fungono da guida per l’attuazione di comportamenti sostenibili e, dall’altro, consentono al consumatore di conoscere le azioni e la cura che l’impresa utilizza per la tutela dell’ambiente (Benvenuti, 2000). Tra questi strumenti, quelli più diffusi sono61: la certificazione del sistema di gestione ambientale (SGA-ISO14000), l’eco-management and audit sche-

60 Si tratta di una definizione contenuta nel rapporto Brundtland presentato dalla Commissione euro-pea nel 1987 e ripreso dalla Conferenza ONU nel 1992.

61 Cfr. Glossario in appendice,

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me (EMAS), il life cycle assessment (ISO 14040-LCA), la dichiarazione ambientale di prodotto (EPD), il prodotto da agricoltura biologica certificata, il programme for endorsement of forest certification (PEFC) e il forest stewardship council (FSC).

4.3.1 L’attuazionepraticadeglistrumentidiresponsabilitàsocialeperilrispet-toambientale

Anche nell’ambito del rispetto ambientale possiamo identificare quali sono gli elementi che caratterizzano l’applicazione degli strumenti di responsabilità so-ciale. Contrariamente a quanto emerso dall’analisi degli strumenti prevalentemen-te finalizzati alla valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali, non esistono molti punti di congruità. Ciò evidenzia l’importanza della creazione di un set di strumenti che, messi a sistema, possono consentire all’impresa di attuare una politica aziendale che tenga conto dei diversi risvolti positivi che possono sca-turire dall’attuazione di una gestione responsabile dell’attività d’impresa.

Anche in questo caso è stato possibile calibrare l’analisi INEA costi-benefici re-lativa all’adozione degli strumenti di RSI (AA.VV, 2007) essenzialmente su quelli fina-lizzati alla tutela dell’ambiente, come commentato nello schema seguente (Box 4.2).

4.4 Miglioramentodellecondizionidilavoro

Questo paragrafo è dedicato al tema del lavoro nell’ottica di una gestione responsabile delle imprese agricole e agroalimentari. Per queste imprese, quello del lavoro è forse uno degli ambiti più complessi in cui attivare interventi e stru-menti a sostegno di una politica di RSI. Se anche negli altri settori economici il tema della RSI è declinato con minore enfasi nell’ambito delle risorse umane, pri-vilegiandone l’attuazione nei confronti di stakeholder esterni (ad esempio clienti e fornitori) o dell’ambiente, questa circostanza è ancora più accentuata nelle imprese agricole, date le caratteristiche che il lavoro assume in questo settore. Vediamo, infatti, che le criticità riguardano diversi aspetti della realtà agricola: dal punto di vista della produzione c’è, anzitutto, il problema della stagionalità che condiziona negativamente le relazioni nei rapporti di lavoro; esiste, poi, il fattore dimensionale delle imprese, con prevalenza di microimprese, spesso a conduzione familiare, che incide negativamente, come illustrato nelle pagine precedenti, sulla possibilità di attuare azioni di RSI. Nell’agricoltura, inoltre, è molto diffuso il lavoro irregolare

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parte SeCOnDa | responsabilità sociale e modelli di produzione

CostiIl “costo” dell’adozione di questi strumenti risiede prevalentemente nella scelta di dare una priorità ad alcuni aspetti della gestione aziendale che non hanno un ritorno economico di breve periodo. A parere di chi scrive, quindi, più che di costo si dovrebbe parlare di mancato profitto o, meglio ancora, di una forma di in-vestimento di lungo termine dato che, come dimostrato dai dati presenti nel primo capitolo di questo lavoro, il cambiamento dei modelli di consumo si sta muovendo, nell’economia italiana, verso abitudini alimentari che prediligono produzioni certificate e consentono alle im-prese agricole che le adottano di ottenere un riscontro anche in campo commerciale. Gli investimenti di lungo periodo in produzioni agricole, forestali o in allevamen-ti che tengono conto della tutela dell’ambiente e la pro-duzione per nicchie di mercato se, da un lato, possono essere considerati un mancato profitto di breve perio-do, dall’altro permettono di assicurare il mantenimento di condizioni ambientali tali da rappresentare una ga-ranzia per le produzioni future.

BeneficiPer quanto riguarda i benefici che possono derivare dall’adozione di strumenti di RSI per la tutela dell’am-biente elencati nel paragrafo precedente, possiamo fare una classificazione in base agli stakeholder (inter-ni ed esterni) che entrano in relazione con l’impresa. E’ possibile quindi fare un’analisi in base a:

- Enti, autorità e soggetti istituzionali con cui l’impresa si relaziona: nei rapporti con questi soggetti, gli im-prenditori agricoli che decidono di implementare azioni di RSI rivolte alla tutela dell’ambiente hanno dei van-taggi in termini di agevolazioni, semplificazioni e, in ge-nerale, di miglioramento delle relazioni. La legislazione nazionale infatti prevede, sempre più frequentemente, la concessione di sgravi fiscali e facilitazioni finanziarie per chi adotta strumenti per il rispetto dell’ambiente.

- Consumatori e opinione pubblica: la crescente atten-zione di questi soggetti per le tematiche ambientali porta molte imprese a investire in pubblicità finalizza-ta a presentare un’immagine quanto più “sostenibile” dell’azienda. Con l’adozione di strumenti di RSI finaliz-zati alla tutela dell’ambiente questa necessità viene automaticamente soddisfatta.

- Organizzazione, gestione e know how all’interno dell’impresa: adottare gli strumenti di RSI analizzati in questo paragrafo significa implementare una riorganiz-zazione interna finalizzata a una crescita dell’efficienza (non solo in termini ambientali) della gestione azienda-le; un altro vantaggio riguarda la riduzione dei costi a seguito di una razionalizzazione nell’uso delle risorse e nell’adozione di tecnologie pulite. Infine, un ulteriore beneficio deriva dal fatto che l’utilizzo di tali strumenti consente all’imprenditore agricolo e a tutti coloro che lavorano nell’azienda di incrementare specifiche cono-scenze tecnico-scientifiche e di utilizzarle sia per il mi-glioramento continuo delle prestazioni ambientali che, più in generale, per la gestione dell’attività.

Fonte: ns. elaborazioni.

Box4.2-Costi-beneficideglistrumentidiRSIperlatuteladell’ambiente

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(che spesso assume la forma del caporalato), vi è una forte presenza di lavoratori immigrati, a causa della diminuzione della forza lavoro disponibile, e le mansioni svolte sono spesso anche pericolose (Dini, 2008). Negli ultimi anni il fenomeno della manodopera irregolare, che riguarda prevalentemente lavoratori agricoli ex-tracomunitari, interessa l’intero sistema e costituisce una componente strutturale dell’occupazione e del mercato del lavoro in questo settore62. Tutto ciò, oltre a far sì che l’agricoltura rappresenti il settore più complesso riguardo all’applicazione della responsabilità sociale nell’ambito delle risorse umane, determina in molte aziende agricole, soprattutto in quelle di piccole dimensioni, grandi difficoltà an-che a restare in quello che è definito lo spazio dell’esigibile, ovvero all’interno del regime di legalità, e quindi a rispettare le disposizioni di legge (Hinna, 2005). Quan-do si parla di azioni di RSI aventi come obiettivo il miglioramento delle condizioni di lavoro nelle imprese agricole e agroalimentari, quindi, bisogna considerare le enormi differenze che esistono tra le aziende che riescono a portare avanti politi-che orientate in tal senso (best practice) – che sono poche e di grandi dimensioni

- e quelle che faticano anche a restare entro i limiti di legge, che sono le piccole e micro imprese che costituiscono la maggior parte delle imprese del settore. Non va dimenticato, però, che in alcuni casi le piccole imprese agricole sono gestite, in modo del tutto inconsapevole, secondo criteri che possono essere considerati, a pieno titolo, di responsabilità sociale. Fatta questa premessa, si possono individua-re due strumenti di RSI legati al tema del lavoro: la certificazione del sistema per la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro (OHSAS 18001) e la SA8000, per la cui definizione si rimanda al glossario.

4.4.1 L’attuazionepraticadeglistrumentidiresponsabilitàsocialeperilmiglio-ramentodellecondizionidilavoro

Anche sull’applicabilità delle certificazioni OHSAS 18001 e SA8000 quali strumenti di RSI per il miglioramento delle condizioni di lavoro, è stato possibile elaborare uno schema commentato (Box 4.3), partendo dall’analisi INEA costi-be-nefici relativa all’adozione degli strumenti di RSI (AA.VV., 2007).

La certificazione OHSAS 18001 presenta, oltre a una buona adattabilità al settore agricolo e agroalimentare, un’efficace integrazione con gli standard ISO 9001 per i Sistemi di Gestione della Qualità e ISO 14001 per i Sistemi di Gestione

62 Sull’argomento cfr. Cicerchia e Pallara (a cura di), Gli immigrati nell’agricoltura italiana, INEA, Roma, 2009.

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parte SeCOnDa | responsabilità sociale e modelli di produzione

Ambientale. In questo modo le aziende che lo desiderano possono integrare age-volmente fra loro questi tre diversi sistemi di gestione. Anche per quanto riguarda la certificazione SA8000 è possibile riscontrare una buona adattabilità al settore sia per le imprese che delocalizzano la produzione, spesso oggetto di critiche da parte dell’opinione pubblica per le condizioni di lavoro dei lavoratori, sia per chi produce sul territorio nazionale.

Box4.3-Costi-beneficideglistrumentidiRSIperilmiglioramentodellecondi-zionidilavoro

Fonte: ns elaborazioni.

CostiLe imprese agricole e agroalimentari hanno difficoltà a intraprendere un percorso di responsabilità sociale nell’ambito del miglioramento delle condizioni di lavoro a causa delle particolarità che caratterizzano il lavoro in questo settore (stagionalità, alto tasso di irregola-rità, imprese micro e a conduzione familiare). Gli ele-menti di controllo previsti dalla certificazione OHSAS 18001 presuppongono la programmazione di obiettivi di sicurezza chiari e quantificabili per i quali si devo-no stabilire degli indicatori che permettano il controllo dei risultati raggiunti. Tutto ciò necessita della predi-sposizione di una struttura organizzativa ad hoc (che necessariamente comporta dei costi per l’azienda) che difficilmente si ritrova nelle imprese del settore agrico-lo e agroalimentare. Un ulteriore costo da sostenere è quello necessario per l’attuazione di piani di sensibi-lizzazione, informazione, formazione e addestramento, ricerca del dialogo, coinvolgimento, definizione di com-piti e responsabilità. Nel caso dell’adozione dello stan-dard SA8000, invece, lo svantaggio riguarda prevalen-temente l’impossibilità per l’impresa responsabile di accedere a quei mercati di sbocco in cui il basso livello dei prezzi dei beni prodotti deriva dallo sfruttamento della manodopera e nei quali la concorrenza (sleale) non le consente di competere.

BeneficiRelativamente agli stakeholder interni, il vantaggio principale riguarda l’introduzione di

una cultura della sicurezza che ha conseguenze posi-tive non solo per i lavoratori ma anche per l’azienda; infatti il miglioramento della qualità del lavoro - trami-te l’implementazione, la gestione ed eventualmente il miglioramento di un sistema sicurezza della salute dei lavoratori - e delle relazioni aziendali è garanzia di una maggiore produttività.

Con riferimento agli stakeholder esterni è possibile affermare che, conseguentemente all’adozione di strumenti quali la OHSAS18001 e la SA8000, vi è la garanzia di un’automatica conformità alle disposizioni legislative in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro.

Infine è da registrare un beneficio in termini di immagi-ne in quanto l’opinione pubblica - e quindi i potenziali clienti e partner dell’impresa - è sempre più attenta agli aspetti di sostenibilità sociale delle imprese. L’adozione di strumenti di RSI per il miglioramento delle condizioni di lavoro, quindi, può essere una leva per l’affermazione dell’impresa nel mondo del consumo responsabile che, soprattutto negli ultimi anni, si va af-fermando sempre con maggior enfasi.

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4.5 Conclusioni

Se è giusto sostenere che ogni impresa dovrebbe svolgere, oltre a un compi-to economico, un ruolo sociale all’interno del contesto in cui opera, tale constata-zione è ancora più appropriata nel caso delle imprese agricole e agroalimentari, il cui operato ha ricadute in diversi ambiti della vita umana. La tutela dell’ambiente, della comunità, del lavoro, del territorio e della salute degli uomini e delle donne è, infatti, strettamente collegata alle scelte sociali compiute dal management delle imprese che operano nel settore agricolo.

Per un imprenditore agricolo, proprio in virtù della multifunzionalità, la scel-ta di adottare una gestione etica della propria attività ha ricadute in diversi ambiti della vita sociale; pertanto, intraprendere un percorso di responsabilità sociale ha, anzitutto, una valenza intrinseca che è determinata dalla natura stessa dell’attivi-tà svolta. È importante sottolineare che tale scelta matura anche da motivazioni strategiche, oltre che di carattere etico-sociale, per effetto dei benefici derivanti dall’adozione degli strumenti analizzati, Si tratta di strumenti che sono stati scelti in relazione alle tre tematiche chiave legate alla multifunzionalità in agricoltura

- valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali, rispetto dell’am-biente e miglioramento delle condizioni di lavoro,ai fini dell’analisi di RSI nelle im-prese agricole e agroalimentari, con la consapevolezza che non è possibile indi-viduare un elenco finito di strumenti in grado si svolgere tale compito. L’adozione degli strumenti di RSI così individuati, permettono all’impresa agricola di presenta-re ai consumatori i propri prodotti e servizi con un’immagine capace di trasmettere con estrema immediatezza i principi e i valori che sono alla base della mission aziendale, soprattutto nel caso dei marchi per la valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali, Inoltre, in un’ottica di gestione trasparente dell’atti-vità imprenditoriale, è possibile rilevare come il consumatore venga informato circa le scelte e le ricadute in ambito sociale dell’attività d’impresa prevalentemente con l’ausilio degli strumenti individuati per la tutela dell’ambiente e per il miglioramen-to delle condizioni di lavoro.

Tuttavia, al di là dei singoli strumenti che possono essere utilizzati, è fonda-mentale che questi vengano integrati nella “normale” gestione dell’impresa: la re-sponsabilità sociale, infatti, deve diventare parte integrante dell’orientamento stra-tegico dell’impresa, in quanto elemento di supporto per la governance aziendale.

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parte terza | l’indagine iref

Parte terza

l’indaGine ireF

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parte terza | l’indagine iref

Capitolo V

le FamiGlie e la crisi: stili di Vita e Politiche di consumo resPonsabili

5.1 Introduzione

In questo capitolo vengono approfondite alcune espressioni del consu-mo socialmente responsabile, con riferimento anche ai generi alimentari, alla luce degli effetti provocati dalla recente crisi economico-finanziaria sull’attività produttiva, sulla base dell’indagine sui consumi condotta dall’Istituto di ricerche educative e formative (IREF) tra settembre 2009 e febbraio 2010.

Occorre fare, tuttavia, una premessa: nelle società occidentali è prevalsa a lungo l’idea che il consumo, cioè lo scambio, l’acquisto e l’uso dei beni, fosse un fenomeno di natura esclusivamente economica, implicando nella gran parte dei casi un esborso in denaro. Il postulato su cui si fonda questa interpretazio-ne assimila il consumatore a un agente razionale che, mosso dalla necessità di soddisfare i propri bisogni, acquista e consuma seguendo il principio dell’utilità e della convenienza individuale. Per tale ragione, le pratiche di consumo vengono analizzate, in primo luogo, attraverso le categorie dell’economia e dell’utilitari-smo, utilizzando il reddito come una delle principali variabili esplicative. Non sor-prende, quindi, che su questo terreno si siano cimentati soprattutto economisti ed esperti di marketing.

In realtà, l’acquisto e l’uso di oggetti non sono rilevanti solo dal punto di vi-sta economico; in tutte le società umane, fin da quelle tradizionali e pre-moderne, tali pratiche hanno assolto un ruolo fondamentale per il mantenimento dell’or-dine e del legame sociale. Nell’odierna società dell’informazione, poi, il concetto di consumo riunisce una pluralità di significati e di funzioni sociali. Il consumo è fondamentale per creare e mantenere la propria identità individuale; è uno stru-mento per tessere relazioni sociali; è un linguaggio che consente di comunicare la propria visione del mondo e, nel medesimo tempo, per distinguersi dagli altri.

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È un atteggiamento educativo che, a livello familiare, determina la crescita di un modello e di una dimensione educativa che si trasmette anche alle generazioni future.

Una prima considerazione, pertanto, è che nel consumo confluiscono molti aspetti, oltre a quello economico, che vanno tenuti in considerazione. Per esempio, è evidente dall’analisi dei risultati che nei comportamenti di consumo la dimen-sione etico-educativa gioca un ruolo fondamentale: questa, infatti, fa concentrare l’attenzione del consumatore sulla qualità sociale del bene, ovvero sulle ricadute sulla società delle scelte di acquisto. Ragionando in questi termini, il consumo e le scelte a esso collegate non possono essere più considerate un fatto esclusivamen-te privato, ma un elemento indicativo che determina gli stili di vita delle famiglie e che deve essere ben considerato anche da chi produce beni e servizi. Del resto, la presenza di un numero cospicuo di consumatori pro-sociali e delle dimensioni con-sistenti del fenomeno del consumo responsabile risultava evidente già nell’analisi ad hoc condotta dall’IREF all’inizio degli anni Duemila (IREF, 2002).

Una seconda considerazione è che se è pur vero che alla fine degli anni Ses-santa le Nazioni Unite coniarono lo slogan “Trade not aid” per sintetizzare il nuovo orientamento strategico delle politiche di sviluppo volte a favorire una maggiore distribuzione della ricchezza mondiale, tramite il miglioramento delle condizioni di vita nei Paesi economicamente meno sviluppati,i parametri con cui si misurano le disuguaglianze tra il Nord e il Sud del mondo continuano, oggi, a descrivere un quadro drammatico caratterizzato dall’esistenza di profonde ingiustizie. Circa l’80% della popolazione mondiale ha a disposizione soltanto il 20% della ricchezza globale, mentre tende a dilatarsi ulteriormente il rapporto tra la parte più ricca del pianeta e le fasce di popolazione più povera. D’altro canto, anche a causa della recente crisi, alcune delle materie prime e dei prodotti alimentari provenienti dal terzo mondo hanno visto diminuire il loro valore sui mercati internazionali, mentre si è riscontrata anche in questi Paesi una sostanziale crescita dei prezzi di generi alimentari e di beni di consumo primari.

Tra le cause di natura strutturale all’origine di questa realtà, il progressivo peggioramento delle condizioni di scambio tra artigiani e agricoltori dei Paesi eco-nomicamente meno sviluppati, da un lato, e le grandi imprese multinazionali de-dite all’importazione e alla distribuzione dei loro prodotti, dall’altro, rappresentano senza dubbio le ragioni più importanti che impediscono il dispiegamento delle po-tenzialità di sviluppo delle aree del terzo mondo. La disparità delle condizioni in cui avvengono gli scambi economici e il peso esercitato dagli interessi e dalle disegua-glianze che contraddistinguono il livello di sviluppo economico e tecnologico tra il

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Nord e il Sud del mondo sembra, al momento, costituire un ostacolo insormontabi-le che l’attuale crisi ha reso ancor più difficile. Eppure, l’insieme dei comportamenti e delle azioni che hanno evidenziato la presenza di livelli significativi di sensibilità dei cittadini dei Paesi economicamente più avanzati nei confronti di queste temati-che può rappresentare un leva di sviluppo per le aree depresse del pianeta. Si tratta, quindi, di convogliare queste energie verso la creazione di nuovi mercati fortemente caratterizzati sotto il profilo etico e sociale. Comincia, in effetti, a essere di tutta evidenza, per fasce cospicue e crescenti della popolazione residente nei Paesi più ricchi, che la partecipazione dei cittadini alla democrazia economica e alla solida-rietà internazionale si eserciti anche e soprattutto attraverso scelte di consumo e di risparmio adeguate e funzionali e un atteggiamento di vita sobrio.

Allo stesso tempo, l’importanza da attribuire alla dimensione culturale per la comprensione dei comportamenti di consumo è ancora più manifesta qualora si considerino le azioni alternative di consumo - il cosiddetto consumo responsabi-le - adottate negli ultimi anni da un numero considerevole e sempre maggiore di cittadini.

In questo contesto, gli elementi emersi dall’indagine dell’IREF del 2002 e quelli relativi alla recente indagine dell’Istituto sulle famiglie, qui presentata, sono stati riletti alla luce dei dati Eurobarometro sugli stili di consumo in Europa e sulla situazione delle famiglie europee, al fine di verificare quali percorsi orientino le fa-miglie a sistemi di consumo etici e con quali ricadute sugli stili di consumo la crisi attuale stia investendo le famiglie stesse63. Le espressioni del consumo responsa-bile riconosciute e analizzate nelle indagini citate sono le seguenti:

• il consumo critico che consiste nell’acquisto di beni e servizi da imprese che rispettano i diritti umani e dei lavoratori, ovvero che non sfruttano il lavoro minorile, non inquinano l’ambiente o devolvono una parte dei loro ricavi a fini di beneficenza;

• il commercio equo e solidale, che riguarda l’acquisto di prodotti alimentari o di artigianato, il cui ricavato va effettivamente ai produttori che operano nei Paesi poveri;

• gli stili di vita basati sulla sobrietà del consumo, ovvero le pratiche di con-sumo caratterizzate da una particolare attenzione al risparmio energetico e accompagnate dal recupero e dal riutilizzo di beni di cui si è già in possesso;

• altre forme di consumo responsabile come i bilanci di giustizia, la parteci-

63 Per un approfondimento cfr. Atti del convegno “Il consumo socialmente responsabile: un volano per lo sviluppo dell’economia civile”- INEA, Roma, 22 aprile 2010.

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pazione a gruppi di acquisto solidale o l’acquisto di pacchetti del turismo responsabile;.

• la finanza etica che si può riassumere nella sottoscrizione di fondi di rispar-mio, conti correnti e obbligazioni con un fine etico o nel finanziamento di progetti a carattere sociale o a sostegno dei Paesi poveri o dell’ambiente.La presenza di quote di cittadini con preferenze etiche che indirizzano le loro

opzioni di consumo e di risparmio verso appositi strumenti può dare un segnale forte, a istituzioni e imprese, sull’attenzione crescente dei consumatori rispetto ai problemi dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile. Ciò può in prospettiva in-durre le imprese agricole e agroalimentari a operare nella direzione di aumentare la propria responsabilità sociale al fine di conquistare i segmenti di mercato dei consumatori etici. L’impulso fornito dai comportamenti di consumo etico potrebbe, in tal modo, porsi l’ulteriore obiettivo di condizionare l’intero ciclo economico e produttivo del settore.

5.2 L’indagineIREF

Gli strumenti più importanti dell’economia dal basso, frutto dei predetti orientamenti e espressioni del consumo – non solo alimentare - responsabile, sono allo stato attuale quelli rappresentati dalla nascita e dalla proliferazione di banche etiche, della finanza etica e dalla crescita nei mercati di prodotti derivanti dal com-mercio equo e solidale.

Nell’analizzare i dati si è innanzitutto verificato se fosse possibile individuare, attraverso i comportamenti di consumo, un modello culturale specifico, uno stile di consumo, in grado di identificare in maniera univoca un gruppo di persone che condivide valori, opinioni, atteggiamenti verso il consumo.

In base a queste premesse, sono state identificate tre tipologie di consu-matori italiani (IREF, 2010), definiti tradizionalisti, narcisisti ed etici. I consumatori tradizionalisti rappresentano ben il 47,4% del campione e sono caratterizzati es-senzialmente da tre dimensioni: 1) l’auto-sostentamento, cioè l’atteggiamento per il quale il consumo viene concepito come un modo per procurarsi il necessario, dunque per soddisfare i bisogni primari; la pensano in questo modo il 59,6% dei tradizionalisti contro il 43,5% dell’intero campione; 2) la concretezza, cioè l’atten-zione agli elementi concreti del bene che porta i tradizionalisti a valutare, soprat-tutto, aspetti quali il prezzo (76,9% contro il 61,9% del campione) e la robustezza e facilità d’uso del prodotto (59,2% contro il 44%), senza ricercare altre gratificazioni

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in esso; 3) la parsimonia, cioè la tendenza alla sobrietà, ovvero a un atteggiamento contrario allo spreco e al consumismo, che fa sì che i tradizionalisti siano disposti a limitare gli acquisti e a riutilizzare gli oggetti che già posseggono (97,9% contro l’89,4%).

In linea con queste tendenze, i tradizionalisti esprimono, quale principale preoccupazione, quella di non riuscire a risparmiare (26,4% contro il 21,9% del campione) e sono guidati, pertanto, nei loro acquisti dall’anticonsumismo e dall’esi-genza di cautelarsi contro gli imprevisti. In questa tipologia di consumatori preval-gono le classi di età fra i 55 e i 64 anni, e oltre i 64 anni, cioè coloro che sono nati immediatamente dopo il conflitto mondiale, figli della generazione che ha vissuto le privazioni della guerra, sviluppando un saldo senso di moderazione nei consu-mi. Questi consumatori sono soprattutto pensionati e casalinghe, concentrati nel Centro Italia, con un basso livello di istruzione e un basso livello di reddito (fino a 1.033,00 euro mensili). Queste caratteristiche svolgono una funzione di rinforzo della parsimonia nei consumatori tradizionalisti e li espongono a una maggiore vulnerabilità sociale.

All’interno del gruppo dei consumatori tradizionalisti sono scarsamente pra-ticati i modelli di consumo responsabile, soprattutto - ed è questo il rilievo interes-sante - a motivo della mancanza o della scarsa conoscenza di tali pratiche (38,2% contro il 31,1% del campione).

Al contrario, il gruppo dei consumatori etici sono coloro che adottano prati-che e atteggiamenti di consumo responsabile, con percentuali all’interno del grup-po e del campione come indicato nella tabella seguente.

Tabella5.1–Ilprofilodelconsumatoreetico(val.%)Pratiche e atteggiamenti di consumo Nel gruppo Nel campione

Partecipazione a forme di boicottaggio 50,6 9,4

Comportamenti di consumo responsabile:

- commercio equo e solidale

69,5

19,9

- sobrietà 53,9 18,2

- consumo critico 49,3 10,4

Maggiore preoccupazione come consumatore: - i processi produttivi inquinino ed esauriscano le risorse naturali

39,0

17,9

Aspetti che tiene in considerazione quando acquista: - la presenza di informazioni su dove e come viene fabbricato

32,5

13,4

- il fatto che il prodotto e il suo imballaggio non inquinino 17,5 4,5

Fonte: IREF, 2010

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Ma quanto la crisi economica internazionale e le conseguenze sul settore agroali-mentare, soprattutto a partire dall’ultimo trimestre del 2009, hanno inciso nella capacità dei consumatori e delle famiglie italiane di proseguire nelle scelte etiche e solidali? Nu-merose indagini e sondaggi d’opinione hanno documentato, nel corso del 2009, lo stato di crescente malessere delle famiglie italiane per le conseguenze economiche e occu-pazionali della crisi economica globale; questi contributi, numerosi e qualificati, hanno avuto il merito di ricostruire, passo dopo passo, il clima d’opinione sull’andamento della crisi (IREF, 2010)64.

Nel febbraio 2009, nell’indagine realizzata dal Censis in collaborazione con la Confcommercio, si leggeva che «in una fase in cui la crisi mostra segnali di peggiora-mento, poco più della metà delle famiglie guarda al futuro con ottimismo, mentre il 30% si dichiara ancora pessimista; e se il 42% del campione ha mantenuto lo stesso livello di consumi negli ultimi sei mesi, per quasi il 44% la spesa ha subìto un incremento, spesso dovuto agli aumenti relativi alle tariffe delle utenze domestiche; il “sentiment” generale, comunque, è quello di una sostanziale prudenza, visto che per il 43% del cam-pione il modo migliore per affrontare la crisi è quello di risparmiare di più, mentre il 22% ha intenzione di ridurre i consumi. Insomma, crisi e incertezza sono reali e diffuse, ma esiste un capitale fiduciario privato che non deve essere disperso ma, anzi, opportuna-mente sviluppato perché, forse, è proprio da questo capitale che si potrà ripartire per costruire una strategia di ripresa della nostra economia» (Confcommercio/Censis, 2009). Quest’analisi, per quanto di carattere chiaramente congiunturale, poneva già la questio-ne della fine della crisi e dei modi per rimettere in moto il Paese. Tuttavia, finita la fase economico-finanziaria si è avviata la fase occupazionale della crisi, tuttora in atto, e le stime del Censis sono state ampiamente confermate dalla successiva ricerca contenuta nell“Agenda delle famiglie italiane 2009” (IREF, 2010), secondo la quale quasi il 60% delle famiglie ha percepito il 2009 come un anno più difficile rispetto al 2008 (Fig. 5.1).

La ricerca dell’IREF ha richiesto la realizzazione di tre indagini campionarie: la prima, conclusasi a maggio 2009, la seconda nel settembre dello stesso anno e la terza terminata a febbraio 2010. Il questionario – somministrato telefonicamente a un cam-pione rappresentativo di 1.500 famiglie italiane, per un totale complessivo di 4.500 in-terviste65 – conteneva quesiti riferiti ai tre mesi precedenti l’intervista. Il disegno della ricerca ha preso le mosse da quanto già sviluppato nell’analisi delle condizioni di vita delle famiglie. In particolare, il questionario trae spunto da elementi tratti dalle prin-

64 Cfr. commento a cura di Zucca G. nell’indagine Agenda delle Famiglie 2009 (IREF, 2010).

65 La ricerca è stata condotta in collaborazione con Paolo Santurri e Raffaele Cassa della cooperativa di ricerca Codres di Roma che si è occupata della realizzazione delle interviste.

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cipali indagini sulle famiglie realizzate negli ultimi anni in Italia: l’indagine multiscopo dell’ISTAT, la survey sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia e l’indagine longitudi-nale sulle famiglie italiane (ILFI) realizzata dall’Università di Trento. Oltre a questi riferi-menti e a contributi di ricerca qualificati, l’indagine dell’IREF recupera temi e soluzioni tecniche già sperimentate in una precedente ricerca realizzata dall’Istituto (Caltabiano e Morga, 2001).

Lo strumento di rilevazione è composto da una sezione fissa e da una sezione tematica. La sezione stabile, ripetuta tre volte fra il 2009 e gennaio 2010, ha riguardato le condizioni di vita delle famiglie, mentre la seconda sezione ha affrontato di volta in volta un tema specifico.

Guardando ai risultati, si rileva che nel Nord-Est e nel Sud dell’Italia si concen-tra la maggior parte di famiglie che giudica il 2009 come un anno negativo: si tratta di una percentuale, rispettivamente, del 59,3% e del 60,1%. Le “regioni dei capannoni” e dell’economia diffusa si attestano, quindi, allo stesso livello delle aree sotto industrializ-zate del meridione: il tessuto produttivo italiano, per quanto fitto, non ha retto all’onda d’urto della recessione, cosicché la forza livellatrice della crisi ha accomunato aree del Paese molto diverse.

Figura5.1-Lapercezionedellacrisidellefamiglieitaliane(val.%)(domanda: dal punto di vista economico, per la sua famiglia il 2009 è stato…? )

Fonte: IREF, 2010

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Sul fronte delle famiglie che hanno dichiarato di aver “tenuto botta” alla reces-sione, nel Nord-Ovest si riscontra la quota più elevata (47,5%); anche in questo caso, la vocazione produttiva del territorio fornisce una buona cornice esplicativa. Il triangolo Piemonte-Lombardia-Liguria è ancora l’area della grande impresa italiana, ovvero quel segmento di produzione che ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e per il quale sono state stanziate anche delle risorse aggiuntive per allungare i periodi di cassa inte-grazione. Scomponendo i dati a seconda della tipologia familiare si può, inoltre, notare come i giudizi maggiormente problematici vengano espressi dalle famiglie con figli, il 60,2% delle quali afferma che il 2009 è stato un anno peggiore del precedente; un valore molto alto si riscontra anche tra le famiglie monogenitoriali (63,1%). Sono dunque i nu-clei con carichi familiari più grandi ad aver sofferto della crisi in misura maggiore.

Nel febbraio 2010, secondo il 40,8% delle famiglie residenti al Sud dell’Italia la crisi economica si è sentita molto nel posto dove vivono (Fig. 5.2); tale percentuale è dieci punti più alta di quella registrata nel Nord-Ovest del Paese (30,6%) mentre nel Centro si registra la quota più elevata di famiglie secondo le quali nella città dove abitano la crisi si è sentita abbastanza (54,6%).

Figura5.2–Ripartizionegeograficadellapercezionedellacrisidellefamiglieitaliane(val.%)(domanda: quanto si è sentita la crisi nel posto dove vivete?)

Fonte: IREF, 2010

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Nel disegno della ricerca IREF si è pensato di tradurre operativamente le conseguenze più immediate e macroscopiche della crisi sulle famiglie attraverso due set di indicatori, uno relativo ai comportamenti di consumo (alimentare e non), l’altro alle strategie di risparmio. I comportamenti di consumo sono un punto di osservazione ravvicinato delle dinamiche di impoverimento, la reazione più imme-diata alla perdita di potere d’acquisto; si è quindi pensato di ipotizzare una serie di situazioni che fossero in grado di sintetizzare il livello di contrazione dei consumi, ovvero l’acquisto di prodotti a basso costo (low cost), il risparmio sulle utenze casa-linghe, il mancato pagamento di rate, mutui e bollette.

Figura5.3–Comportamentidiconsumodellefamiglieitaliane,confrontosettembre2009-febbraio2010(val.%affermativi)(domanda: negli ultimi tre mesi vi è capitato di…)

Fonte: IREF, 2010

Confrontando, nella figura 5.3, il dato di settembre 2009 con quello di feb-braio 2010 riferito ai comportamenti di consumo delle famiglie italiane, si nota che rimane elevata ma stabile la quota di famiglie alle quali, nei tre mesi precedenti all’intervista, è capitato di acquistare prodotti a basso costo (rispettivamente 67,8% e 66,1%). La percentuale di intervistati che afferma di aver risparmiato sulla cura della propria persona passa dal 33% del settembre 2009, al 44,5% rilevato a feb-braio 2010; allo stesso modo si nota un incremento della percentuale di famiglie

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che hanno risparmiato su acqua, luce e gas, pari al 32,1% nel 2010, rispetto al 20,6% del periodo precedente. Sostanzialmente stabile, rispetto al settembre 2009 è la percentuale di nuclei familiari che hanno dovuto rinunciare all’acquisto di una cosa che sarebbe servita (31,9% a febbraio 2010). In generale, le famiglie che sono venute meno a impegni come rate e bollette sono poco numerose, al contrario, più frequenti sono stati i tagli rispetto a quelle spese suscettibili di essere ridotte o au-mentate. In altre parole, per far fronte ai costi fissi le famiglie italiane hanno dovuto ridurre i costi variabili.

Per completare l’analisi delle dinamiche che hanno interessato la struttura di spesa delle famiglie italiane è stato preso in esame l’altro set di indicatori rela-tivo alle strategie di risparmio, nel quale sono state comprese le seguenti voci di spesa: vacanze e viaggi, abbigliamento, tempo libero e divertimenti, spesa alimen-tare, casa, trasporti.

Confrontando, nella figura 5.4, i risultati delle rilevazioni di settembre 2009 e febbraio 2010, relativi alle strategie di risparmio delle famiglie italiane, si nota che risultano pressoché stabili le percentuali di famiglie che hanno risparmiato su consumi alimentari (50,3% a settembre 2009 e 48,7% a febbraio 2010) e abbiglia-mento (dal 53% al 55,3%); mentre crescono, in modo sostenuto, le quote di famiglie che hanno ridotto le spese per vacanze e viaggi (dal 43% al 56%) e, soprattutto, per il tempo libero e i divertimenti (35,6% a settembre 2009 contro il 52,7% a febbraio 2010). In termini evolutivi è interessante notare come la contrazione dei consumi abbia prima interessato i beni di base e solo successivamente i beni voluttuari. Tale indicazione potrebbe apparire contro intuitiva poiché si suppone che in una situa-zione di difficoltà prima di arrivare a tagliare i consumi alimentari si cerchi di ri-durre le spese per vacanze e svaghi. Tuttavia, per comprendere questi dati, occorre riflettere sull’evoluzione dei bisogni familiari nella società dei consumi.

Secondo lo schema classico di Riesman (Riesman e Roseborough, 1969) gli individui hanno uno “standard package”, ovvero una quantità di spese di routine, vissute come obbligate per sentirsi parte del sistema sociale. Nel corso della se-conda metà del Novecento questo “pacchetto” è andato ampliandosi arrivando a inglobare un numero sempre crescente di beni e oggetti: dal frigorifero alla tele-visione, dall’automobile alla lavatrice. Progressivamente, tra i consumi standard, hanno cominciato a trovare spazio anche le spese legate al tempo libero (Duma-zieder, 1978) e al cosiddetto leisure time66. In questo senso, il risparmio alimentare

66 L’ingresso delle vacanze e dei divertimenti all’interno dei consumi di base è stato, peraltro, ratificato dalla legge n. 135 del 29 marzo 2001 con la quale si prevedono delle agevolazioni finanziarie (buoni vacanze) per le famiglie meno abbienti (www.buonivacanze.it).

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e per l’abbigliamento va letto anche alla luce dei fattori stagionali e della diversa struttura dei costi. In altre parole, è possibile che nel corso dell’estate si sia rispar-miato per potersi permettere le cosiddette ferie; allo stesso tempo, bisogna notare che cibo e abbigliamento sono due beni di consumo che offrono una forte differen-ziazione dei prezzi per cui è possibile che la riduzione delle spese sia dovuta a scel-te d’acquisto improntate alla sobrietà. Sui consumi alimentari, in particolare, si è avuto modo di osservare, nei capitoli precedenti, come, oltre alle risorse disponibili, incidano preferenze, abitudini, prassi e aspettative polivalenti e del tutto soggettive.

Figura5.4–Strategiedirisparmiodellefamiglieitaliane,confrontosettembre2009-febbraio2010(val.%affermativi)(domanda: negli ultimi tre mesi la sua famiglia ha fatto economia sulle seguenti voci di spesa?)

Fonte: IREF, 2010

Inoltre, sebbene la gerarchia dei consumi sia mutata, la riduzione dei consu-mi alimentari può rimandare a una situazione di povertà alimentare, un fenomeno che purtroppo continua a essere presente anche nel nostro Paese. Un’indagine della Fondazione per la sussidiarietà stima che: «nell’anno 2007 sono presenti in Italia poco più di un milione di famiglie - pari al 4,4% delle famiglie residenti nel complesso del Paese - che presentano una spesa alimentare insufficiente in rap-porto al costo del cibo nella regione di residenza» (Accolla e Rovati, 2009).

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I dati della ricerca IREF evidenziano che a febbraio 2010 più di una famiglia su tre (34,8%) ha risparmiato sull’acquisto di generi alimentari di base (pane, pasta e carne); tale percentuale risulta sostanzialmente stabile rispetto a quanto fatto registrare a settembre 2009. Tuttavia, all’interno di un generale trend di risparmio, la riduzione dei consumi di pane, pasta e carne indica un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita non solo delle famiglie meno abbienti ma anche di quelle con una solidità economica media e alta (Fig. 5.5) che non può essere certamente letta con la lente della sobrietà.

Figura5.5-Percentualedifamigliecheneitremesiprecedentil’intervistahannorisparmiatosupasta,paneecarneasecondadellasoliditàeconomica

Fonte: IREF e Acli/Caritas Italiana, 2010

In primo luogo, le dotazioni economiche di base condizionano in modo evidente le spese alimentari delle famiglie anche se i comportamenti di spesa sono determinati, sia nel livello che nella struttura, dalle caratteristiche del nucleo familiare. Tra le famiglie che hanno un alloggio di proprietà e dei risparmi, dunque con una solidità economica alta, la percentuale di nuclei che hanno ridimensionato la spesa sui generi di prima necessità è del 19,8%. Al diminuire della solidità economica cresce in modo molto forte la necessità di ridurre i consumi alimentari primari: si passa, difatti, dal 30,6% delle famiglie con una buona solidità economica al 68,4% delle famiglie economicamente molto fragili (Fig. 5.5). La progressione percentuale evidenziata chiarisce il ruolo dei costi fissi nella definizione dei comportamenti di consumo: se si deve far fronte a un

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impegno di spesa periodico, come quello di un affitto o di un mutuo, occorre risparmiare un po’ su tutto, anche sui generi alimentari di base. Eliminando le situazioni estreme, è interessante notare come, in termini comparativi, le famiglie che possono contare su dei risparmi, anche se titolari di mutui o affitti, tendono ad avere una condizione migliore di quelle che, pur essendo proprietarie di casa, non riescono a risparmiare: difatti, il risparmio alimentare interessa, nel primo caso, il 30,6% delle famiglie, nel secondo il 47,8%.

Secondo i dati della ricerca IREF, dunque, la crisi economica ha colpito anche i consumi fondamentali e le famiglie economicamente più esposte hanno dovuto intac-care in modo evidente i consumi alimentari di base. Le difficoltà riguardano, in misura maggiore, le famiglie residenti nel Sud Italia (42,2%), le famiglie di pensionati (45,7%), le coppie monoreddito nelle quali la persona occupata ha una posizione professionale di livello basso (41,7%)67 e le famiglie che risiedono nella periferia di un’area metropolitana (46,7%).

Si confermano, quindi, alcuni fenomeni ben noti come, ad esempio, la maggio-re vulnerabilità delle famiglie di pensionati e dei nuclei che vivono nel meridione; ma si evidenziano, anche, alcune significative, purtroppo in negativo, novità. Innanzitutto, l’ampliarsi della fascia dei cosiddetti working poor, ovvero persone che pur lavorando non riescono ad avere un tenore di vita adeguato: in Italia, la percentuale di lavoratori poveri continua a mantenersi tra le più pesanti in Europa, al pari di Lettonia e Portogallo, con il 10% degli occupati che vive al di sotto della soglia di povertà relativa, due punti percentuali al di sopra della media UE-25 (CIES, 2009). Un secondo elemento, in parte legato al precedente, è dato dal disagio delle periferie e delle cinture metropolitane: dal momento che nelle grandi città il costo degli alloggi è, negli ultimi anni, lievitato a dismi-sura – addirittura a Roma il costo degli affitti è cresciuto tra il 1999 e il 2008 del 145% (CGIL-SUNIA, 2009), le famiglie con meno disponibilità economica hanno cominciato a spostarsi nei comuni delle cinture urbane, compensando la spesa sui trasporti con il risparmio sulla casa. Secondo la ricerca IREF è aumentata la quota di famiglie che ha dichiarato di risparmiare anche sui trasporti, passata dal 24,2% del settembre 2009 al 30% del febbraio 2010; questo dato risulta più marcato tra le famiglie residenti nella pe-riferia delle aree metropolitane (58,2%), per le quali i trasporti sono una voce di costo si-gnificativa, al contrario di coloro che vivono in luoghi dove i tempi di percorrenza tra casa e lavoro sono più contenuti. È lecito supporre che le forme di risparmio abbiano previsto un più frequente uso dei trasporti pubblici a sfavore dell’automobile (D’Arcangelo, 2009).

67 Questi dati, peraltro, sono in linea con quanto emerge dall’indagine coordinata da Campiglio e Ro-vati in particolare per quel che riguarda il legame tra titolo di godimento dell’abitazione e il livello professionale della persona occupata (Cfr. Accolla e Rovati, op. cit., pp. 74-80).

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Riguardo alla più generale contrazione dei consumi, è possibile concludere che la pressione della crisi abbia radicalizzato alcune tendenze ben conosciute nel contesto italiano. È noto che, in Italia, l’abitazione sia un elemento che condiziona in modo pesan-te i bilanci familiari. Sinora le famiglie avevano risposto al problema sottraendo reddito ad altri capitoli di consumo: in pratica, la voce “casa” tendeva ad attrarre buona parte delle risorse economiche. Sotto la spinta della crisi economica le operazioni di bilancio sono sempre più vincolate, per cui occorre innanzitutto onorare gli impegni di spesa as-sunti in precedenza; tale stato di cose è evidente dal dato relativo alla capacità di rispar-mio. Nella ricerca IREF alle famiglie è stato chiesto che importo avessero a disposizione una volta pagate le spese fisse (ovvero casa, rate, bollette e spesa alimentare): è emble-matico constatare che oltre il 52% del campione ha dichiarato che non rimane nulla o quasi (meno di 100 euro), il 36,9% ha affermato di avere risorse economiche comprese tra i 100 e i 500 euro e solo il 10,6% ha dichiarato di poter contare su oltre 500 euro.

5.3 L’orientamentodeicittadiniversoformediconsumoalimen-tareresponsabile:alcuneriflessioni

Il clima di fiducia dei consumatori, in progressivo miglioramento nella se-conda metà del 2009, è tornato a peggiorare nei primi mesi del 2010, riportandosi, in marzo, sui livelli dello scorso giugno (IREF, 2010). Sulla fiducia delle famiglie pesa il maggiore pessimismo circa la situazione economica generale del Paese e l’accresciuta preoccupazione sulle condizioni del mercato del lavoro; la percen-tuale dei consumatori intervistati che prevede un forte aumento della disoccupa-zione nei prossimi dodici mesi è salita oltre il 30% in marzo, il doppio di quanto registrato lo scorso luglio. Incide sui giudizi dei consumatori anche il deteriora-mento dei bilanci familiari; le prospettive di risparmio, infatti, sono viste come sensibilmente meno favorevoli. Inoltre le percezioni d’inflazione sono aumentate nell’ultimo semestre, in sintonia con la risalita dell’indice dei prezzi al consumo (Banca d’Italia, 2010).

Una riflessione che matura dai risultati appena analizzati è la seguente: il mercato, lasciato al solo principio della ricerca del profitto, non riesce a produrre coesione sociale di cui pure ha bisogno. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Molti economisti, soprattutto quelli attenti alle dinamiche pro sociali, ci ricordano la funzione primaria di iniziative economiche di tipo associativo, vo-lontario o di imprenditoria sociale. «Occorre che nel mercato si aprano spazi per

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attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare agli standard di qualità e a produrre valore economico. Le tante espres-sioni di economia che traggono origine da iniziative not for profit dimostrano che ciò è concretamente possibile. Si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è no-tata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi: tutto ciò degenera nel perseguimento di interessi privati a scapito dei predetti soggetti» (Becchetti e Paganetto, 2003).

Figura5.6-Importanzadell’impattoambientalediunprodottonelledecisionidiacquistodeiconsumatori

Fonte: Eurobarometro, 2009

La flessione dei consumi e la ricerca del risparmio a tutti i costi può in-durre i consumatori e le famiglie a rivolgersi a operatori commerciali che offrono prodotti a minor prezzo ma che non tutelano la qualità degli stessi; essi, inoltre,

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potrebbero non essere indotti a ricercare prodotti che rispettino gli standard etici. Dunque, l’impossibilità di proseguire nella scelta solidale dei consumatori - le cui manifestazioni in campo alimentare sono state ampiamente illustrare nei capitoli precedenti - potrebbe essere un altro riflesso della crisi.

Tuttavia, appare utile soffermarsi sulla maggiore sensibilità dei cittadini ita-liani, rispetto alla media dei cittadini europei, ad acquistare prodotti che rispettano l’ambiente (Eurobarometro, 2009). Infatti, il 54,1% dei consumatori italiani contro una media europea del 33,8%, giudica molto importante l’impatto ambientale di un prodotto nelle proprie decisioni di acquisto (Fig. 5.6); si tratta di una forma di consumo socialmente responsabile che, naturalmente, interessa anche i prodotti agroalimentari. Ma è anche una delle 5 azioni a favore dell’ambiente ritenute indi-spensabili per il consumatore socialmente responsabile (Eurobarometro, 2009). Le altre sono; acquistare elettrodomestici a basso consumo; usare meno acqua; ri-durre e riciclare i rifiuti; viaggiare meno e usare mezzi a basso impatto ambientale.

Nei Paesi europei la distribuzione delle azioni responsabili tra di essi è dif-ferenziata, senza che nessuno riesca realmente a primeggiare eccessivamente nell’una o nell’altra voce (Fig. 5.7). Ciò dimostra che ancora molta strada va percor-sa perché i comportamenti dei cittadini abbiano una reale ricaduta positiva sull’am-biente, invertendo quello che attualmente appare come un reale avvelenamento costante del nostro ambiente.

Come detto, gli italiani sono consumatori attenti all’impatto ambientale dei prodotti e nell’utilizzo di mezzi di trasporto sostenibili, i cittadini spagnoli sono i più attenti nel ridurre e riciclare i rifiuti, così come a consumare meno acqua, mentre in Germania prevale l’attenzione dei cittadini al risparmio energetico e, come in Italia, all’acquisto di prodotti a basso impatto ambientale. I cittadini francesi e quelli inglesi, invece, non riescono a primeggiare rispetto agli altri.

Riguardo al modo migliore per promuovere e diffonderne l’acquisto dei pro-dotti eco-friendly, i consumatori europei hanno messo al primo posto la capacità dei prodotti di “raccontare se stessi”; il 36,9% degli italiani lo ritiene il modo più interessante rispetto al 30,5% della media dei cittadini europei (Fig. 5.8). Le infor-mazioni prevalgono anche sui “banconi dedicati” ai prodotti ecologici, che il 24,6% degli italiani ritiene una modalità adatta a promuovere tali prodotti, o dalle vetrine dedicate, ritenuto uno strumento valido di promozione dal 14,9% degli italiani.

Queste indicazioni possono far riflettere su come i consumatori attenti e re-sponsabili sono anche informati e sensibili alle informazioni sui prodotti, non sono attirati da campagne pubblicitarie o strategie di marketing e vogliono realmente conoscere l’impatto ambientale dei prodotti che intendono acquistare.

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Figura5.7 -Azionideiconsumatoricon ilmaggior impattonellasoluzionedeiproblemiambientali(val.%)

Fonte: Eurobarometro, 2009

Figura5.8-Modoritenutomiglioredaiconsumatoriconilqualeicommerciantipossonopromuovereiprodottieco-friendly(val.%)

Fonte: Eurobarometro, 2009

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Tuttavia, la fiducia sui bilanci sociali e ambientali appare ancora molto bas-sa in quasi tutti gli stati europei, ben al di sotto del 50% in 16 Paesi su 27, mentre l’Italia si colloca in buona posizione, con il 36% di cittadini che lo ritiene un valido supporto informativo (Fig. 5.9).

Figura5.9–Fiduciadeiconsumatorinelleaziendecherealizzanoazionidirepor-tingdelleperformancesocialieambientali(val.%)

Fonte: Eurobarometro, 2009

Dall’analisi dei dati Eurobarometro emerge un chiaro segnale di crescita e di maturazione dei consumatori italiani riguardo al consumo sostenibile, quale forma di consumo socialmente responsabile, che porta a guardare oltre gli effetti della crisi sulle famiglie e sugli stili di vita.

In sostanza: quale modello di società si vuole costruire per lasciare alle ge-nerazioni future un territorio preservato e uno stile di vita migliore rispetto all’at-tuale? Sembra utile concludere con le riflessioni presentate al convegno promosso dall’INEA “Il consumo socialmente responsabile: un volano per lo sviluppo dell’eco-nomia civile” del 22 aprile 2010:

• promuovere una maggiore educazione al consumo responsabile tra le fami-glie e i cittadini;

• incentivare le aziende che applicano criteri di sostenibilità ambientale e di responsabilità sociale;

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• sviluppare modelli di RSI che possano essere chiaramente declinati all’in-terno dei report sociali e facilmente compresi dai consumatori;

• realizzare marchi e certificazioni di filiera “locali” che permettano ai con-sumatori di individuare i prodotti realizzati nei territori più vicini, capaci di garantire non solo elevati standard di qualità ma anche promozione e tutela del territorio e forte concorrenza ai prodotti non di qualità.

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