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SARACENI E TURCHI NELL’ORLANDO FURIOSO DI ARIOSTO

«L’essere ‘di fè diversi’ non significa molto di più, nel Furioso, che il diverso colore dei pezzi in una scacchiera. I tempi delle Crociate in cui il ciclo dei Paladini aveva assunto un valore simbolico di lotta per la vita e per la morte tra la Cristianità e l’Islam, sono lontani». I Saraceni «sono rappresentati su un piano di parità con i Cristiani per quel che riguarda il valore e la civiltà […], sono un’entità fantastica per la quale non vale alcun riferimento storico o geografico» (Calvino 1970, XXIII- XXIV). Così si esprime Italo Calvino, che considerava Ludovico Ariosto (1474-1533) il ‘suo’ poeta, in uno dei commenti alla sua selezione di canti dal Furioso pubblicata nel 1970. L’analisi di Calvino rappresenta bene non solo la sua generazione di studiosi di Ariosto, ma anche una tendenza tuttora dominante nella critica ariostesca a idealizzare la descrizione rispettosa e positiva dei Saraceni ignorando tra l’altro il legame di questa tematica con il contesto storico e intellettuale del poema1.

Non è insolito che le altre generazioni si soffermino su aspetti diversi del passato: a partire dagli anni ’90 e soprattutto dopo l’11 settembre 2001, le prospettive critiche si sono concentrate su tematiche più storico-politiche e sono aumentate le pubblicazioni non solo sulla storia dell’Impero Ottomano in generale, ma anche sulla rappresentazione del mondo islamico nella cultura e nella letteratura dell’Europa rinascimentale2. E non sarebbe esagerato parlare di una ‘svolta globale’ negli studi sul Rinascimento che, secondo alcuni, rappresenterebbe addirittura una prospettiva innovativa in questo campo (Trivellato 2010, 132). Gli studi recenti sul rapporto tra mondo islamico e cultura europea stanno portando a una nuova conoscenza del ruolo svolto dalla cultura islamica nella formazione dell’Europa moderna e dell’identità degli europei.

Tra quei pochi studiosi che si sono occupati dell’immagine dei Saraceni e dei Turchi nell’Orlando furioso3, c’è, come già detto, una tendenza a mettere in rilievo solo l’uguaglianza e la parità tra Saraceni e Cristiani, e caratterizzare l’atteggiamento di Ariosto nei confronti di essi come ‘aperto’ e leggero. Questa tradizione veniva inaugurata dal primo grande filologo italiano Pio Rajna (1847-1930) secondo il quale i Saraceni non venivano definiti in termini religiosi né dal Boiardo né da Ariosto se si pensa al pregiudizio verso l’Islam che Rajna trovava nella letteratura precedente:

[...] la distinzione tra Saracini e Cristiani ha perduto affatto il suo antico significato. Al sentimento religioso, così vivo nella Chanson de Roland, e perpetuatosi, per forza di abitudine e di tradizione, fino agli ultimi rampolli del ciclo carolingio, si è sostituito il sentimento cavalleresco. […] Credere in Cristo o in Maometto, è poco meno che indifferente. (Rajna 1900, 30)

Anche De Sanctis sosteneva che i poemi epici italiani erano lontani dalla realtà storica: «[s]iamo nel regno della pura arte, assistiamo a’ miracoli dell’imaginazione. Il poeta volge le spalle all’Italia, al secolo, al reale e al presente» (citato in Marinelli 1987, 83). Seguendo la stessa strada, William Comfort ha sostenuto che i Saraceni sono «noble and highminded» come i Cristiani, e che la differenza tra Cristiani e Saraceni è solo una «conventional division» mantenuta dall’Ariosto perché ciò gli dava vantaggi poetici. Egli scriveva in un periodo in cui «the strong crusade feeling which 1 Ci sono delle eccezioni tra cui il libro di Peter Marinelli, Boiardo and Ariosto. The origins of Orlando furioso (1987) e la recente tesi di Jason D. Jacobs, The Political Poetics of the Chanson de Geste in France and Italy: 1130-1532 (2006),che segue la stessa via di Marinelli. Anche Paul Larivaille ha pubblicato un articolo di recente su “Guerra e ideologia nel «Furioso»” (2011), che tocca alcuni degli stessi motivi del presente contributo. 2 Forse si può parlare di due ondate: una da metà degli anni ’90 con opere di Lewis (1995), Jardine (1996), Cardini (1999), Brotton (1998), Blanks e Frasetto (1999), e un’altra ondata dal 2001 fino ad oggi, con opera come Soykut (2001), Brotton (2002), Goffman (2002), Çirakman (2002), Goody (2004), Fleet (2006), Jezernik (2010).3 Nella bibliografia per studi su Ariosto prodotta da Matteo Residori nel 2011-2012 non figura nemmeno un titolo che riguarda il nostro argumento, v. Residori 2011, testo online disponibile al sito http://www.sies-asso.org/archives/31-bibliographie-l-arioste (consultato il 18.9.14).

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had bred these distinctions had entirely disappeared from a worldly and sophisticated public» (Comfort 1944, 901-2). Comfort ha anche sottolineato una «general absence of any reference to Italy’s participation in the defense of her soil against the Infidels» nel Furioso (ibidem). Anche secondo John Donnelly, «the poems reveal no prejudice based on a sense of the superiority of western culture over oriental civilization […] these epics have no trace of a sense of European racial superiority over Turks and Arabs» (Donnelly 1977, 163). Perfino un articolo recente conclude che «nei testi epici del Rinascimento italiano subisce una estrema attenuazione, fino ad una parziale cancellazione, la rigida linea di frontiera, caratteristica nella materia letteraria carolingia, fra Cristiani e pagani/Saraceni» (Pagliardini & Fuchs 2006, 579). Alla luce del pericolo Turco avremmo potuto vedere la riapertura del conflitto, secondo gli autori di quell’articolo, «ma così non è stato» (ibid., 580), e ciò viene – a mio avviso erroneamente – interpretato come un segno dell’ «accentuata modernità» di questi poemi (ibid., 587).

Con poche eccezioni – tra cui bisogna nominare il libro di Peter Marinelli, Boiardo and Ariosto del 1987, cui la presente analisi si è in parte ispirata – la maggior parte degli studiosi sembrano essere d’accordo su due aspetti: primo, la rappresentazione positiva e rispettosa dei Saraceni in Orlando furioso paragonata con quella più negativa nel Chanson de Roland, e secondo, l’assenza di riferimenti ai conflitti contemporanei con gli Ottomani.

In seguito vorrei confutare l’assunto riguardo all’assenza di riferimenti agli Ottomani e problematizzare la tesi sulla descrizione positiva degli eroi Saraceni per illustrare invece che si tratta di una problematica più complessa. Nonostante la presenza di elementi di simpatia verso i Saraceni e di uguaglianza nella descrizione del rapporto tra Cristiani e Saraceni, il Furioso esprime una valutazione negativa dei musulmani del suo tempo, gli Ottomani. Attraverso dei riferimenti e dei paralleli sia diretti che indiretti, il narratore ricorda al suo pubblico vari momenti dei conflitti storici con i musulmani: con gli Arabi in Gerusalemme e in Sicilia al tempo delle crociate, con gli Ottomani nei Balcani durante il Rinascimento. In questo modo si crea un parallelo tra i tempi di Carlomagno (sec. IX) e quelli dell’altro Carlo, l’imperatore asburgico Carlo V (sec. XVI), sottolineando in particolare la comune minaccia contro le loro civiltà proveniente dal mondo islamico (Marinelli 1987, 83-102). Il narratore esorta con ciò indirettamente i principi d’Este, soprattutto il cardinale Ippolito a cui il poema è dedicato (I, 3), a prendere parte alle guerre contemporanee contro i Turchi. La rappresentazione dei Saraceni e dei Turchi va considerata dunque una parte di quel grande discorso generale sulla minaccia turca che si va sviluppando nei secoli XV e XVI dagli umanisti, soprattutto italiani4. Di conseguenza il poema di Ariosto può essere interpretato come un contributo all’idea che si sta formando in quel periodo dell’Europa, intesa come un’unità Cristiana che dopo il 1453 è definita sempre di più in opposizione agli Ottomani (all’Impero Ottomano).

Per illustrare la mia tesi vorrei, dopo una presentazione di alcuni contesti storici e letterari, locali e globali dell’opera, riportare tre tipi di esempi dal poema di Ariosto: i riferimenti agli Ottomani contemporanei che si trovano a livello del presente del narratore; l’immagine dei Saraceni così come si trova a livello del plot medievale del poema; e alcuni elementi del passato medievale che alludono indirettamente alla realtà contemporanea del narratore.

Contesti locali e globaliCome il suo predecessore Matteo Maria Boiardo (1441-1494) e il suo successore Torquato Tasso (1544-1595), anche Ludovico Ariosto (1474-1533) era strettamente legato alla corte d’Este a Ferrara, e l’Orlando Furioso si presenta come un omaggio alla famiglia d’Este a difesa del suo potere e delle sue aspirazioni (v. in particolare i canti III, XIII e XXXIII). Gli Estensi erano tra i più

4 Cf. ad esempio Hankins (1995), Bisaha (2004), Meserve (2008).

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antichi e prestigiosi principi d’Italia con forti legami con la Spagna, Napoli, l’Ungheria, e inoltre con Milano, Mantova, Urbino e Roma. Erano culturalmente legati alla Francia e politicamente allo stato della Chiesa e al Sacro Romano Impero (Marinelli 1987, 225 n. 6), ed erano conosciuti come «illuminated despots before the Enlightenment» (Gundersheimer 1973, 4-5). La corte d’Este era inoltre famosa per il suo entusiasmo (apparentemente paradossale) non solo per la cultura classica degli umanisti, ma anche per i cosiddetti «romanzi francesi» scritti in volgare. Ariosto servì il cardinale Ippolito d’Este dal 1503 al 1518 e successivamente suo fratello, il principe Alfonso I, dal momento che Ariosto rifiutò di seguire Ippolito in Ungheria. A corte doveva svolgere alcune commisioni pratiche e amministrative, ma era anche responsabile dell’organizzazione degli spettacoli teatrali. La corte di Ferrara fu tra le prime a mettere in scena le commedie moderne secondo i modelli classici ritrovati.

Ariosto lavorò al suo poema per tutta la vita pubblicando una prima edizione nel 1516. La seconda edizione del 1521 contiene delle correzioni linguistiche secondo le norme di Pietro Bembo che consentì all’opera di Ariosto di raggiungere un pubblico molto più vasto di quello regionale di Boiardo e diventare un elemento importante nella formazione della cultura letteraria nazionale. La terza e ultima edizione, pubblicata nel 1532, fu ampliata di sei canti nuovi, per un totale di quarantasei canti5. Orlando furioso diventò un bestseller e uno dei poemi più studiati e imitati della letteratura europea rinascimentale: in Italia furono pubblicate 25.000 copie nel ‘500; nel 1545 fu tradotto in francese; nel 1549 furono stampate tre traduzioni in spagnolo; nel 1591 fu tradotto in inglese.

Sarebbe superfluo in questo contesto presentare dettagliatamente la struttura e la tematica del poema di Ariosto. Basti ricordare che tra i vari temi che attraversano il testo, i tre più importanti sono: la guerra fittizia tra Cristiani e Saraceni ai tempi di Carlomagno (sec. IX), soprattutto l’attacco alla Francia da parte del re africano Agramante, e la seguente distruzione dei suoi territori in Nordafrica, a Biserta, da parte dei Cristiani; l’amore di Orlando per Angelica che culmina con la sua follia quando scopre che lei ama un altro, un soldato Saraceno, nonché il successivo rinsavimento e la vittoria finale sui nemici; infine, la complicata storia d’amore tra il Saraceno Ruggiero e la guerriera Cristiana Bradamante che si risolve alla fine del poema quando Ruggiero diventa Cristiano e può finalmente sposare Bradamante e fondare la dinastia degli Estensi. Era stato Boiardo a inventare il personaggio di Ruggiero come antenato dei principi d’Este, e Ariosto desiderava proseguire questo filone tematico. Infatti, a storia di Ruggiero è posta in apertura e in chiusura del poema, catalogabile dunque come poema dinastico.

Il poema è pieno di episodi magici, grotteschi, favolosi, allegorici, in cui riconosciamo la tradizione cavalleresca dei libri magici, con castelli incantati, cavalli alati e spade invincibili. Ma al contempo contiene molti riferimenti alla realtà storica, a quella medievale e a quella contemporanea di Ariosto, in cui si raccontano i destini dei principi e delle dinastie, le guerre, le conversazioni, le trattative diplomatiche ecc. In questo modo il plot viene esteso e si crea una struttura aperta e dinamica. Per questo motivo il poema è stato definito come «non classificabile, mobile, proteiforme, plurale, reticolare, policentrico» (Bologna 1993, 219), e come contraddittorio anche ideologicamente data la sua visione pluralistica della realtà (Ceserani e De Federicis 1983, 1023, 1051).

Gli studiosi di Ariosto si sono concentrati principalmente su tre campi di ricerca che riguardano la struttura e lo stile del Furioso: le relazioni intertestuali (ad es. con Virgilio, Dante, Petrarca, Boccaccio, Boiardo e con le popolari chansons de geste francesi); i legami intratestuali tra i vari canti del poema; le varianti tra le diverse edizioni. Nei rari casi in cui gli studiosi hanno prestato attenzione alla rappresentazione dei Saraceni e dei Turchi, essi sono stati considerati delle

5 Il materiale aggiunto all’edizione del 1532 si trova nei canti IX, X, XI, XXXII-XXXIII, XXXVII, e – più importante – nei canti finali, XLIV, XLV e XLVI, che trattano tra l’altro l’episodio di Ruggiero a Belgrado.

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entità astoriche, come già accennato6. Secondo Peter Marinelli, questa tendenza ‘romantica’ nella critica ariostesca italiana cominciò con De Sanctis e Rajna, e durò fino agli anni ’80 ignorando che:

Ariosto lived at the center of the great events of his time, and he observed them unflinchingly with a clear sense of both their meaning and their mutability. The Furioso contains the fruit of that observation, transfigured; which is […] not to say that he wrote historical allegory but rather to say that he addressed the events of history by incorporating them into the fictions of dynastic romance. (Marinelli 1987, 83)

Molti dei proemi e molte delle digressioni del poema commentano situazioni politiche, eventi storici e questioni etiche, ad esempio la pressione sulla penisola italiana da parte degli altri stati europei. Alcune delle differenze più sostanziali tra la seconda e la (più disillusa) terza edizione del Furioso rispecchiano questo impatto crescente degli eventi storico-politici contemporanei sull’Italia. Le guerre ‘italiane’ nei primi decenni del ’500 tra i grandi poteri europei, tra il re della Francia e l’imperatore asburgico Carlo V, preoccupano forse gli italiani ‘comuni’ più dell’espansione dei Turchi, dato che i conflitti locali hanno ripercussioni sulla vita di tutti i giorni. Tuttavia, per spiegare perché i conflitti medievali tra Saraceni e Cristiani diventano un argomento così popolare nei poemi epici del Rinascimento, è necessario ricordare il contesto politico globale. Il Furioso è stato scritto nel periodo che segue la conquista Ottomana di Bisanzio – soprattutto la caduta di Costantinopoli (1453) che costituisce il primo grande shock (anche se non era la prima conquista Ottomana) – e della maggior parte della penisola balcanica: la Grecia, l’Albania, alcune parti dell’Ungheria. L’Italia stessa viene attaccata in varie occasioni: Venezia perde a poco a poco molti dei suoi territori nel mare Egea (Negroponte in 1470), gli Ottomani fanno incursioni nel Friuli (1477) e tengono occupata Otranto per un anno (1480-1), prima che Cristiani riescano a realizzare la loro piccola Reconquista facilitata però dalla morte di Mehmed II il Conquistatore nel 1481. La seconda edizione del Furioso viene pubblicata l’anno della caduta di Belgrado (1521), un anno prima dell’assedio di Rhodos (1522). La terza e ultima edizione viene data alle stampe negli anni in cui Suleiman il Magnifico vince la guerra a Mohaçs (1526) e minaccia Vienna (1529). Soprattutto la vittoria a Mohaçs dimostra come gli Ottomani abbiano penetrato l’Europa.

Nel XV secolo ogni papa cerca di promuovere la causa della crociata che funge da «prominence as a cultural icon, a religious concept, and a political concern» (Bisaha 1999, 186), ma senza riuscirci, principalmente a causa delle esitazioni e dei conflitti interni tra gli stati italiani ed europei. Nonostante la caduta di Bisanzio e la conquista della Serbia e l’Ungheria per mano di Mehmed II, papa Pio II (1458-64) non riesce infatti a unire gli stati italiani per organizzare un attacco comune: il principe di Ferrara, Borso d’Este, e il regno di Napoli sono tra quelli che rifiutano di partecipare. Come la maggior parte dei paesi europei, essi intrattengono relazioni commerciali importanti con gli Ottomani che garantiscono loro l’accesso alle vie commerciali nell’Asia Centrale. L’Europa ha sviluppato un gusto per l’Oriente: spezie, caffè, seta, tessili, tappeti, e molti altri prodotti di lusso arrivano dall’Oriente in Italia e in altri paesi europei. Le relazioni tra gli stati occidentali e l’impero Ottomano sono complesse e non senza contraddizioni.

Ariosto vive a Ferrara, una città lontana dalla frontiera dei Turchi, una «retrovia», come la descrive Giovanni Ricci (Ricci 2002), che non fa nessuna esperienza diretta delle guerre con i Turchi. I Turchi non giungono a Ferrara come conquistatori, ma come inoffensivi «schiavi incatenati, ‘moretti’ giocosi, transfughi, convertiti» (Ricci 2002, 12). Ma nonostante Ferrara non sia un luogo che determina la grande politica verso i Turchi, essi sono motivo di interesse per gli abitanti e i principi, e poiché anche Ferrara «vive intensamente» la politica nei confronti dei Turchi «interagendo in continuazione con i centri del comando Cristiano» (Ricci 2002, 9), si caratterizza come un microcosmo «all’incrocio fra storia globale e contingenze locali» (ibid.). I contatti stretti 6 Per un approccio storico nell’analisi di Orlando Furioso v. ad esempio: Murrin (1995), Marsh (1981), Murrin (1988), Ascoli (2001), Villa (2011).

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con lo Stato della Chiesa a Roma dava accesso immediato alle notizie importanti; c’era ancora memoria del concilio a Ferrara (e Firenze) svoltosi nel 1438-9 con cui si sperava di unire le due chiese Cristianeper poter fermare l’espansione ottomana; e c’erano legami dinastici con gli Aragonesi a Napoli che facevano sentire la vicinanza del problema Turco. Nel 1483 il “liberatore” di Otranto, Alfonso, duca di Calabria e figlio del re di Napoli, visita infatti Ferrara, essendo anche il fratello della moglie di Ercole d’Este, e viene accolto come un eroe. Come regalo al principe d’Este, Alfonso porta cinquecento schiavi Turchi presi a Otranto dopo la liberazione dagli Ottomani (Ricci 2002, 35-36).

Sebbene alcuni paesi musulmani siano anche alleati con stati Cristiani e sebbene il mondo Cristiano sia dominato da grandi conflitti interni, l’impero Ottomano rappresenta una grande minaccia per gli stati europei in questo periodo. La forte paura per l’espansione dei Turchi in Italia e in Europa dà luogo a una proliferazione di immagini e storie del ‘Turco Crudele’ ed è riflessa nella grande quantità di scritti anti-Turchi degli umanisti italiani nel ’400 e ’500, scritti che vengono ormai categorizzati come «humanist crusade literature» (J. Hankins 19957). Sotto l’influsso della cultura classica, l’idea medievale dei Saraceni come infedeli, eretici e nemici della giusta fede, viene gradualmente sostituita con l’immagine dei Turchi come razza incivile e come nuovi barbari accanto ai Persiani dell’antichità, e ai Tedeschi, i Vichinghi e i Mongoli del Medioevo. Petrarca è fra i primi ad esprimere il suo odio e la sua paura nei confronti dei poteri islamici e della cultura araba in molte lettere, in trattati e in qualche poesia del Canzoniere (v. Bisaha 2001)8. Come Petrarca, molti altri umanisti del periodo successivo, come Aeneas Silvio Piccolomini (divenuto in seguito papa Pio II), Cardinale Bessarion e Poggio Bracciolini, per nominarne solo un paio, sostituiscono la visione medievale dei Saraceni con questa immagine dei ‘nuovi’ musulmani come razza incivile e barbara, e nei loro scritti implorano i Cristiani affinché sconfiggano i Turchi. In questo modo contribuiscono a creare l’idea stessa dell’Europa come un‘omogenea unitas Christiana. Secondo l’antropologa tedesca, Almut Höfert, «it was only after the fall of the ideologically important Constantinople, that Europe was identified as the last, now threatened, bastion of Christianity, despite the fact that the Ottoman Empire had already existed within the geographic borders of Europe for some considerable time» (Höfert 2000, 49).

All’inizio del ’500 si averte comunque una nuova curiosità storica ed etnografica verso i Turchi che deriva da una serie di opere sulla storia e il carattere dell’impero Ottomano contemporanee con Ariosto. Si tratta dei trattati e resoconti di Andrea Cambini, Paolo Giovio, Teodoro Spandugino, Giovan Antonio Menavino, che si basano su osservazioni empiriche (è il caso di Spandugino e Menavino) e che esprimono spesso un’ammirazione e un fascino per la disciplina e la forza degli Ottomani, e in alcuni casi per l’organizzazione della loro società (cf. Lausten 2014a, 2014b, 2014c). Nonostante ciò, questi testi sono comunque nati dal desiderio di capire e con ciò poter meglio combattere il grande nemico Turco, e l’ammirazione espressa può essere interpretata non solo per descrivere un modello da seguire per i Cristiani ma anche come avvertimento. Inoltre, anche se questi scritti rappresentano certamente un approccio più oggettivo, sistematico e pluralistico verso gli Ottomani rispetto a prima, il fattore religioso rimane un elemento centrale e distintivo. Come nel caso degli umanisti del ’400 si trovano anche in questi casi sia elementi di retorica crociata (il Turco come anti-Cristo, la punizione di Dio per i peccati dei Cristiani) sia elementi più pragmatici e politici (Höfert 2000, 55-56). Sempre secondo Höfert, la paura per il Turco e l’enorme quantità di testi anti-Turchi che ne è stata la conseguenza tra gli intellettuali occidentali ha probabilmente influenzato e sollecitato l’invenzione della tipografia, la scoperta dell’America, e l’evoluzione della scienza etnografica (Höfert 2010).

7 Cfr. Inoltre i contributi fondamentali di Bisaha (2004) e Meserve (2008). 8 Ci sono anche reazioni meno aggressive e strategie pacifiche, soprattutto in forma di pensiero missionario, che rende la situazione complessa e a volte ambigua.

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Come vedremo, a differenza di questi esempi contemporanei, Ariosto non si avvicina alla tematica turca solo direttamente, ma anche e soprattutto indirettamente, attraverso allusioni e parallelli tra il mondo medievale ai tempi di Carlomagno e il mondo contemporaneo ai tempi dell’imperatore Carlo V, assurto al potere nel 1519 e in continua lotta contro i Turchi. L’approccio indiretto è probabilmente dovuto alle restrizioni del genere del poema epico e dell’ambiente cortigiano: Ariosto deve intrattenere la corte, e mentre i trattati storici, politici o etnografici, i racconti di viaggio e anche i popolari cantari in ottava rima si nutrono degli eventi reali di tutti i giorni (Dionisotti 1967,173) e possono trattare argomenti politici contemporanei, la funzione del poema epico in stile alto è di intrattenere ed essere evasivo, narrare eventi eroici e cavallereschi del passato, parlare di amore e non di guerra. «Sotto la sferza degli eventi, la letteratura tutta in Italia cercava riparo e riposo là dove il tempo e la varia fortuna e la prepotenza delle armi non giungessero. Se non c’era pace in terra, almeno poteva esserci pace e stabilità e concordia nella finzione dell’arte», come ha spiegato Carlo Dionisotti (1967, 171). Non a caso la residenza estiva della famiglia d’Este si chiama Palazzo Schifanoia. Secondo Ceserani e De Federicis (1983, 1024), il materiale cavalleresco è però anche «una sorta di falso scopo, di pretesto per agire con assoluta libertà, facendo chiaramente intendere (magari con l’aiuto dell’intervento diretto dell’autore) che si parla[va] d’“altro”» (Ceserani e De Federicis 1983, 1024).

Alcuni riferimenti diretti agli Ottomani nell’Orlando furiosoIl poema di Ariosto riesce a soddisfare il bisogno di evasione, ma accanto alle famose passioni amorose dei paladini, le avventure drammatiche, magiche e grottesche, egli esprime anche il suo giudizio sulla realtà contemporanea, politica e storica tra cui anche la minaccia Ottomana. Già nel canto XVII, che fa parte della prima edizione del Furioso pubblicata nel 1516, Ariosto tematizza direttamente e inequivocabilmente gli Ottomani e dà un contributo al discorso generale sul ‘Turco crudele’, ma offre anche una chiave di lettura diversa, storica, del suo poema.

Nel proemio il narratore stabilisce che un cattivo capo e le invasioni dei barbari sono la punizione di Dio per i peccati dei Cristiani: «[i]l giusto Dio, quando i peccati nostri/hanno di remission passato il segno,/acciò che la giustizia sua dimostri/uguale alla pietà, spesso dà regno a tiranni atrocissimi et a mostri,/e dà lor forza e di mal fare ingegno» (XVII,1). Così «diede Italia a tempi men remoti/ in preda agli Unni, ai Longobardi, ai Goti» (XVII,2). Questo è anche il caso oggi giorno, dice il narratore: «Di questo abbiàn non pur al tempo antiquo,/ma ancora al nostro, chiaro esperimento,/ quando a noi, greggi inutili e mal nati,/ ha dato per guardian lupi arrabbiati»(XVII,3). Ariosto allude a Papa Giulio II (1503-13) che aiutò i mercenari svizzeri ad entrare in Italia dopo la battaglia di Ravenna (1512), comparando le invasioni ‘barbare’ a quelle medievali. Ma, continua il narratore ottimista, ora usando il presente dei verbi e perciò creando un doppio senso: «Tempo verrà ch’a depredar loro liti/andremo noi, se mai saren migliori,/e che i peccati loro giungano al segno,/che l’eterna Bontà muovano a sdegno» (XVII,5). Il narratore approva la guerra, allora, se essa ha lo scopo di combattere i nemici dell’Italia e della Cristianità. Poi ritornando all’attacco del re Agramante sulla Francia, a livello del plot medievale, dice dei francesi che: «Doveano allora aver gli eccessi loro/di Dio turbata la serena fronte,/ che scòrse ogni lor luogo il Turco e ’l Moro/con stupri, uccisïon, rapine et onte […]» (XVII, 6). L’uso anacronistico del nome «Turco» è notevole qui visto che i Turchi normalmente non appaiono nel plot medievale. Avviene dunque una sovrapposizione dei due livelli temporali: le guerre contro i Musulmani al tempo di Carlomagno vengono paragonate a quelle al tempo di Ariosto contro gli Ottomani all’inizio del XVI secolo. La continuazione del canto XVII rinforza l’impressione di questo fenomeno. Ci spostiamo a Damasco per seguire un altro cavaliere e dopo una lunga descrizione delle bellezze della città e dopo il racconto di un grande mostro mitologico, il narratore torna con insistenza al tema delle guerre contemporanee con un forte discorso politico in cui paragona direttamente la sua contemporaneità

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con l’era – più preferibile – delle Crociate in cui i francesi proteggevano la tomba di Cristo, tomba «ch’ora i superbi e miseri Cristiani,/con biasmi lor, lasciano in man de’ cani» (XVII, 73). Il paragone dei Turchi con i cani era una strategia tipica degli umanisti. Siccome il termine «cane» si riferisce sia ai sodomiti che agli infedeli, Trivellato (2010, 150, e n. 65) ha osservato che il suo uso in senso sprezzante riflette la tendenza ad associare i Musulmani a una sessualità illecita Il narratore dice dei Cristiani che «[d]ove abbassar dovrebbono la lancia/in augmento de la santa fede,/tra lor si dan nel petto e ne la pancia/a destruzion del poco che si crede» (XVII, 74), e continua a rimproverare le nazioni europee per i loro conflitti interni e li esorta a unirsi per combattere il nemico comune:

”Voi, gente ispana, e voi, gente di Francia,/volgete altrove, e voi, Svizzeri, il piede,/e voi Tedeschi, a far più degno acquisto;/che quanto qui cercate è già di Cristo.// Se Cristianissimi esser voi volete,/e voi altri Catolici nomati,/perché di Cristo gli uomini uccidete?/perché de' beni lor son dispogliati?/Perché Ierusalem non riavete,/che tolto è stato a voi da' rinegati?/Perché Costantinopoli e del mondo/ la miglior parte occupa il Turco immondo?” (XVII, 74-75)

Come si nota, la retorica delle crociate non è lontana dall’universo di Ariosto. Secondo il narratore la Spagna dovrebbe continuare la sua riconquista: «Non hai tu, Spagna, l'Africa vicina,/che t'ha via più di questa Italia offesa?/E pur, per dar travaglio alla meschina,/lasci la prima tua sì bella impresa» E l’Italia stessa si dovrebbe svegliare dal suo vivere peccaminoso e combattere invece per l’indipendenza: «O d'ogni vizio fetida sentina,/dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa/ch'ora di questa gente, ora di quella/che già serva ti fu, sei fatta ancella?» (XVII, 76).

Il narratore incita i mercenari svizzeri a cercare le ricchezze del Turco anziché quelle italiane: «Se 'l dubbio di morir ne le tue tane,/Svizzer, di fame, in Lombardia ti guida/[…] le richezze del Turco hai non lontane:/caccial d'Europa, o almen di Grecia snida;/così potrai o del digiuno trarti,/o cader con più merto in quelle parti» (XVII, 77), e si rivolge ai Tedeschi ripetendo lo stesso: «Quel ch’a te dico, io dico al tuo vicino/tedesco ancor: là le richezze sono,/che vi portò da Roma Constantino:/ portonne il meglio, e fe’ del resto dono»(XVII, 78). Alla fine si rivolge a papa Leone X (1513-1521) che dovrebbe proteggere l’Italia come un pastore il suo gregge anziché abusare del suo potere. La retorica dell’intero passagio è simile a quella di Petrarca (e di altri umanisti) che biasimano i Cristiani per i loro conflitti interni, paragonano le invasioni dei Turchi con quelle dei barbari delle epoche passate, e fanno appello al papa e ai principi europei per unirsi in una crociata contro i nemici musulmani (Bisaha 1999, 189). La costruzione dell’immagine di un ‘noi’ Cristiani e un ‘loro’ musulmani si ritrova in Petrarca, il quale in molte occasioni sottolinea la superiorità degli europei rispetto all’inferiorità dei musulmani e della loro cultura. La retorica usata da Ariosto è certamente anche in sintonia con le formule ricorrenti negli scritti degli umanisti del ’400 in cui le invasioni dei Turchi Ottomani da un lato vengono paragonati ai barbari dell’antichità e dall’altro sono interpretate come il risultato della punizione di Dio per la vita peccaminosa dei Cristiani e per i loro conflitti interni tra ‘fratelli’. Con la caduta di Costantinopoli in cui libri, arte, monumenti di valore architettonico vengono distrutti, la nozione dei Turchi intesi come minaccia alla cultura e agli studi occidentali diventa diffusa e si rinforza il paragone con la distruzione dei pagani dell’antica Roma.

I Saraceni nobiliRitornando a quella parte del plot del Furioso che si svolge ai tempi di Carlomagno, è vero che il rapporto tra Cristiani e Saraceni è spesso caratterizzato da solidarietà e uguaglianza, e che Ariosto esprime un interesse etnografico (quasi) senza pregiudizi in alcuni aspetti culturali e religiosi dell’islam (senza averne molta conoscenza). Ci sono anche esempi di alleanze e amicizie, almeno temporanee, al di là dei confini religiosi, tra cui la più famosa è la scena nel primo canto dei due eroi che combattono per Angelica e fanno pace quando scoprono che l’oggetto della contesa nel

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frattempo è fuggito. Decidono di seguirla sullo stesso cavallo e il narratore commenta: «Oh, gran bontà de’ cavallieri antiqui! /Eran rivali, eran di fé diversi,/E si sentian degli aspri colpi iniqui/Per tutta la persona anco dolersi;/E pur per selve oscure e calli obliqui/Insieme van senza sospetto aversi […]» (I, 22).Questo famoso passaggio esprime un’immagine idealizzata dei cavalieri che si rispettano reciprocamente e che riconoscono le ragioni private e sentimentali delle azioni anche del nemico.

Un altro esempio di questa tendenza a equiparare Saraceni e Cristiani si trova nella descrizione dell’uso di simili riti religiosi nei due campi nemici: prima di un duello tra il Saraceno Ruggiero e il Cristiano Rinaldo, ognuno si trova pronto nel campo di battaglia con il proprio re (Agramante e Carlomagno) e il proprio esercito alle spalle, e con il proprio prete che porta ognuno un libro sacro. Dopo la scelta delle armi, i due preti si fanno avanti, uno con la Bibbia e l’altro con il Corano: «duo sacerdoti, l’un de l’una setta,/ l’altra de l’altra, uscîr coi libri in mano./ In quel del nostro è la vita pefetta/ scritta di Cristo; e l’altro è l’Alcorano» (XXXVIII, 81). Poi anche re Agramante e Carlomagno vanno a turno a fare una preghiera allo stesso altare. Carlomagno alza le sue mani al cielo chiedendo a Dio e alla Madonna di testimoniare sulla sua promessa di pagare una certa somma a Agramante nel caso il cavaliere Cristiano perdesse il duello e di accettare anche una sorta di tregua (XXXVIII, 84). Anche Agramante promette di ritirare le sue armate fino in Africa se il suo cavaliere dovesse perdere e promette di accettare un accordo di pace: «Similmente con parlar non basso,/chiamando in testimonio il gran Maumette,/sul libro ch'in man tiene il suo papasso,/ciò che detto ha, tutto osservar promette./Poi del campo si partono a gran passo,/e tra i suoi l'uno e l'altro si rimette […]»(XXXVIII, 84). Il narratore rileva in questo modo le somiglianze culturali e religiose tra i riti dei due re senza indicare la superiorità del Cristianesimo.

Si potrebbero nominare altri esempi in cui i cavalieri si aiutano o si proteggono contro nemici comuni. Come quando Brandimarte invita Agramante a diventare Cristiano; o quando Orlando fa guarire un eroe Saraceno, oppure quando Ruggiero protegge i cugini Cristiani della sua amata Bradamante. Episodi come questi hanno fatto sì che alcuni studiosi abbiano sostenuto che l’unica barriera per l’amicizia e l’amore tra Saraceni e Cristiani nel poema di Ariosto, è costituita dallo statuto sociale dei cavalieri e non dal loro appartenenza etnico-religiosa (Pagliardini e Fuchs 2006, 583). Ma come interpretare allora la presenza di questi Saraceni valorosi e rispettati che creano apparentemente un contrasto così evidente con i giudizi sui Turchi appena incontrati nello stesso testo?

Prima di tutto i Saraceni erano figure familiari ai lettori di Ariosto, che conoscevano bene la lunga tradizione dei poemi cavallereschi. I Saraceni, gli Arabi, erano, a differenza dei Turchi che rappresentavano un fenomeno nuovo e scioccante, «un nemico metafisico e ludico» nell’immaginario occidentale, secondo Franco Cardini, e non rappresentavano più nessuna minaccia (Cardini 1999, 212). La figura del Saraceno nobile si trovava già nella letteratura dei sec. XII e XIII personificata in Saladino (1138-93), il grande sultano che vinse sui Cristiani nella terza crociata e che viene lodato per la sua pietà e liberalità non solo in miti popolari (tra cui i racconti del Novellino e quelli dei Conti di Antichi Cavalieri ) ma anche in Boccaccio nelle novelle I, 3 e X,9 in cui Saladino viene onorato, e in Dante usa Saladino in Convivio come esempio del concetto fondamentale dei «cor gentili», e che nella Comedia incontra Saladino tra i filosofi pagani nel Limbo (Inferno, canto 4). Infine, forse anche l’influenza esercitata dalla cultura classica su un poeta come Ariosto può avere contribuito all’affievolirsi del fattore religioso e dei giudizi riguardo ai Saraceni: i rivali dell’Eneide e dell’Iliade non sono nemici religiosi ma combattenti eguali. Ma d’altra parte si potrebbe anche sostenere che lo scopo dell’immagine del Saraceno nobile era creare un contrasto all’immagine dei Turchi, per farli sembrare ancora più crudeli e certamente diversi dai musulmani che dominavano il medioevo. Bisogna aggiungere che l’immagine dei Saraceni è più complessa: sono infatti soprattutto i Cristiani a trattare i nemici in modo umano, come ha osservato

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Paul Larivaille (2011, 8) che riporta anche altri esempi, mentre i Saraceni sono descritti come più crudeli e despotici. I capi dei Saraceni sono a volte sleali contro i propri soldati, mentre quelli Cristiani non uccidono mai i propri soldati e non li abbandonano mai, e i Saraceni non mantengono le loro promesse – come Agramante che rompe la promessa appena dopo aver giurato sul Corano nel passaggio citato sopra (Larivaille 2011, 11). Per quanto riguarda Ruggiero in particolare – questo Aeneas ariostesco – si potrebbe sostenere che non vale come vero nemico Saraceno dal momento che i suoi genitori sono entrambi Cristiani, e si sa dall’inizio (e sin dall’Orlando innamorato di Boiardo) che egli diventerà Cristiano e che fonderà la casa Este insieme a Bradamante.

Inoltre, anche se la difesa della religione Cristiana non è lo scopo principale del poema, mi sembra evidente che il poema, in modo sottile, letterario e indiretto, si presenti come una difesa della religione e della civiltà Cristiane in contrasto con l’Islam. È importante che la religione dei Saraceni non sia mai un fatto indifferente o insignificante nel poema, ma che essa sia comunque sempre l’ultima barriera per la riconoscenza finale di un Saraceno da parte dei Cristiani: un Saraceno valoroso o deve morire o si deve convertire. Tra gli umanisti del periodo era comune ritenere che la fede dei Turchi era la barriera più importante per essere considerati un popolo grande (Cardini 1999, 213). Anche Donnelly, la cui interpretazione del poema di Ariosto si differenzia molto dalla presente analisi, ha osservato che «the joy our poets take in securing their conversion again suggests a religious basis of their attitude toward Moslems» (Donnelly 1977, 166). Sei Saraceni scelgono infatti di diventare Cristiani nel Furioso9, tra cui Ruggiero e Marfisa, mentre il più crudele di tutti, il temuto Rodomonte, re di Algeri, rimane musulmano fino alla sua morte, «nimico de la fede nostra» (XIV, 26), ucciso dal neo-convertito Ruggiero (XLVI, 139-140). «Ariosto’s poem ends with the orthodox teaching that those who will not be saved shall be damned», come ha detto Comfort (1944, 902). Il motivo della conversione risulta importante per l’interpretazione dell’immagine dei Saraceni anche perché Ariosto, attraverso la storia di due delle conversioni in particolare, quelle di Ruggiero e Marfisa, esprime il suo punto di vista non solo sulla religione dei Saraceni, ma anche indirettamente sui Turchi del suo tempo.

I miei ultimi esempi riguardano la figura di Ruggiero la cui storia è legata alla Sicilia e all’Ungheria e ad alcuni eventi centrali per le relazioni tra il mondo Cristiano e Ottomano. Ruggiero combatte dalla parte saracena fino a quando viene a sapere che lui e Marfisa sono gemelli, che la loro madre è morta di parto, e che il loro padre è stato ucciso dai Saraceni (dal padre e dal nonno di Agramante) prima della loro nascita. Sono stati cresciuti da Atlante fino a quando Marfisa, all’età di sette anni, viene rapita dagli Arabi e venduta come schiava a un re di Persia. È Atlante stesso a svelare questi dettagli a Ruggiero e Marfisa alla fine del poema. Dal punto di vista etnico sono perciò Cristiani. Sono discendenti di Ettore, fuggito da Troia a arrivato a regnare in Sicilia, su Messina. Tra gli antenati di Ruggiero troviamo alcuni grandi personaggi Cristiani come Costantino, Carlomagno, e i re normanni Ruggiero I e Ruggiero II che hanno conquistato la Sicilia occupata dagli Arabi. Ruggiero II era un re potente che conquistò parti della costa africana e attaccò Costantinopoli durante la seconda crociata (1147-48).

Quando Marfisa scopre la verità di tutto ciò, vuole vendetta e si vuole immediatamente convertire (XXXVI, 77-78). Il giorno dopo racconta i suoi piani futuri a Carlomagno: «E seguitò, voler Cristiana farsi,/E dopo ch’avrà estinto il re Agramante/Voler, piacendo a Carlo, ritornarsi/A battezzare il suo regno in Levante;/Et indi contra tutto il mondo armarsi,/Ove Macon s’adori e Trivigante;/E con promissïon, ch’ogni suo acquisto/ Sia de l’Imperio e de la fé di Cristo» (XXXVIII, 18). Sarà stata come una musica dolce nelle orecchie dei lettori occidentali nel 1532. Una delle eroine saracene più forti del poema non solo decide di (ri)diventare Cristiana, ma sceglie anche di usare la sua energia – spirituale e militare – per servire la causa

9 Oltre a Ruggiero e Marfisa anche Sobrino, Clorinda, Sansonetto, e Brandimarte si convertono al Cristianesimo.

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Cristiana in giro per il mondo. (Questo passaggio è anche segno dell’ignoranza di Ariosto riguardo all’Islam: per secoli i Cristiani avevano creduto che i musulmani credessero in tre divinità: Maometto, Trivigante e Apollo).

Ruggiero viene battezzato nel canto XXXXI da un eremita Cristiano su una rocca isolata sulla costa africana dove è naufragato. Prima del naufragio, mentre sta per annegare, prega Dio e promette di diventare Cristiano «di core e di fede» se sopravvive e di non combattere mai più i Cristiani. L’eremita che vive lì da quarant’anni in armonia con la natura e vicino a una piccola chiesa, insegna a Ruggiero che «non niega il cielo/ Tardi o per tempo Cristo a chi gliel chiede». Con «caritade e con devoto zelo» l’eremita «lo venne ammaestrando ne la fede […]» (XLI, 56) e Ruggiero «imparò poi più ad agio in questo loco/De nostra fede i gran misterii tutti;/Et alla pura fonte ebbe battesmo/Il dì seguente dal vecchio medesmo» (XLI, 59).

Ruggiero vuole convertirsi sia per amore sia perché ha saputo che suo padre era Cristiano (XXII, 35). Come ha affermato Jason Jacobs, sono quindi le radici siciliane di Ruggiero che consentono di superare il divario religioso tra Ruggiero e Bradamante (Jacobs 2006, 183). Attraverso la storia di Ruggiero, il poema conferma la superiorità della fede Cristiana anziché presentare Ruggiero come un esempio di «ibridità etnica e religiosa», come affermano Pagliardini e Fuchs (2006, 585).

Gli ultimi canti del Furioso sono pieni di momenti simbolici che confermano questa interpretazione: altri cavalieri cercano l’eremita per fare guarire le loro ferite, e il narratore esclama: «Oh virtù che dà Cristo a chi gli crede!/Cacciò dal cavalliero ogni passione» (XXXXIII, 192). Quando il Saraceno Sobrino scopre come il suo amico sia «liberato e franco/ del periglioloso mal” (194), e vede questo «miracolo grande et evidente”, anche lui «si dispon di lasciar Macon da canto,/e Cristo confessar vivo e potente:/e domanda con cor di fede attrito,/d’inicïarsi al nostro sacro rito./ Così l’uom giusto lo battezza, et anco/ gli rende, orando, ogni vigor primiero» (XXXXIV, 193-194). Nonostante la solita ironia sottile, vediamo come il narratore giustappone due campi semantici, la malattia e la religione, in modo che si fondano nella mente del lettore: dolore e malattia vengono associati all’Islam mentre guarigione e libertà dal dolore si legano al Cristianesimo. Il motivo della conversione dei musulmani era comune e si ritrova anche in altri scritti del periodo (e ovviamente anche prima, nei testi dei missionari Cristiani del sec. XII e XIII), così come veniva rappresentato anche nell’arte visiva. Si può certamente interpretare la conversione come un elemento “pacifista” in contrasto con la retorica della crociata, cioè come un’apertura nei confronti dei musulmani (Saraceni o Turchi) che in questo modo non erano considerati dei nemici “assoluti”. Nonostante ciò, il poema rappresenta un’idea inequivoca della superiorità del Cristianesimo rispetto all’Islam.

Allusioni alle guerre contemporanee contro gli OttomaniCome abbiamo visto, Ariosto crea, attraverso la loro genealogia, un parallelo tra Ruggiero (e Marfisa) e i maggiori difensori del mondo Cristiano, come Carlomagno, Ruggiero I e Ruggiero II. Ma la storia di Ruggiero allude anche al pericolo Turco contemporaneo trattando indirettamente i conflitti tra Cristiani e Ottomani attraverso il valore simbolico di certi territori geografici che sono normalmente rari nei poemi cavallereschi, ma che avevano una grande attualità ai tempi di Ariosto. Nel canto XXXXIV Ruggiero va a Belgrado. Dato che il padre di Bradamante ha promesso sua figlia al figlio dell’imperatore bizantino, Costantino (soprattutto perché Ruggiero non ha un proprio regno), Ruggiero decide di uccidere i due rivali, padre e figlio (XLIV, 56) e li trova a Belgrado. Qui hanno occupato la città e la stanno per sopraffare (XLIV, 78), ma quando Ruggiero (per i suoi

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motivi privati) entra nella battaglia dalla parte dei Bulgari e combatte con «poteri sovrumani» contro i Bizantini, i Bulgari vincono e Ruggiero diventa loro re (XLIV,97-98).10

Ruggiero capita in un conflitto storico che era reale al tempo di Carlomagno in cui Belgrado era oggetto di contestazione tra Bisanzio, Ungheria, Serbia e Bulgaria, ma allo stesso tempo il testo allude alla conquista Ottomana della stessa città nel 1521 e l’episodio è ancora un esempio di come Ariosto giustappone i vari periodi storici. Un lettore contemporaneo avrà associato l’episodio soprannominato con la conquista ottomana della stessa città nel 1521. Non può essere un caso che Ariosto aggiunga questi tre canti finali all’ultima versione del poema scritta tra 1521 e 1532: il sultano Mehmed II aveva cercato di conquistare Belgrado nel 1440 e 1456, ma il capitano ungherese, Janos Hunyadi (c. 1407-56), fece troppa resistenza. Gli ungheresi hanno difeso la città fino al 1521 in cui Suleiman il Magnifico è riuscito a conquistarla.

Non sarà nemmeno un caso che Mathias Corvinus (1443-1490), re di Ungheria e uno dei più grandi difensori della Cristianità viene presentato immediatamente dopo questo episodio, nel proemio al canto 45 (XLV, 3), come esempio di un uomo grande la cui fortuna può cambiare in breve tempo. Corvinus era figlio di Janos Hunyadi e nel 1476 entra nella famiglia d’Este sposando la zia di Ippolito, Beatrice di Napoli. (È grazie a Corvinus che Ippolito diventa vescovo in Ungheria e costretto a trasferirsi da quelle parti – luogo in cui Ariosto rifiuta di seguirlo). In questo modo Corvinus rappresenta un altro parallelo tra il livello del passato e il presente, che collega Ruggiero e gli Estensi ai grandi difensori della Cristianità contro i Turchi.

Questo parallelo tra i vari livelli temporali del poema, tra i personaggi storici (Ippolito d’Este, Ruggiero I e II) e quelli fittizi (Ruggiero), è approfondito dalla presenza di una serie di immagini ricamate per decorare la tenda nuziale di Ruggiero e Bradamante nell’ultimo canto. Il tappeto è stato portato da Costantinopoli a Parigi, e le immagini raccontano profeticamente (con un trucco epico) la vita di Ippolito d’Este: sappiamo in questo modo della sua partenza da giovane per l’Ungheria e il soggiorno presso la corte del re dove «la gente/corre a vederlo, e come un dio l’adora» (XLVI, 87), e sappiamo della sua amicizia con Corvinus: «Sempre il fanciullo se gli vede a’ panni,/sia nel palagio, sia nel padiglione:/ o contra Turchi, o contra gli Alemanni/ quel re possente faccia espedizione,/ Ippolito gli è appresso, e fiso attende/a’ magnanimi gesti, e virtù apprende» (XLVI, 88).

In questo modo allusivo Ariosto incoraggia Ippolito d'Este (a cui il poema è dedicato) a combattere contro i Turchi come ha fatto Corvinus (personaggio storico), come ha fatto il suo antenato Ruggiero (personaggio fittizio), e come ha fatto l’altro antenato di Ippolito, Ruggiero I (personaggio storico) che ha riconquistato la Sicilia dagli Arabi, e come ha fatto Ruggiero II (personaggio storico) che ha attaccato Costantinopoli già durante la seconda cruciata nel 1147-48. I discendenti di Ruggiero e Bradamante, e di consequenza anche i discendenti della famiglia d’Este, si presentano come difensori della Cristianità. Le battaglie d’amore di Ruggiero e Bradamante funzionano in questo modo come specchio per i loro discendenti nel ’500, «[f]or the present is clearly no less full of stresses and trials than the past: no less than the Empire of Charlemagne, the Christian world of Ariosto’s day is threatened with dissolution by internal dissension and by external infidel fury» (Marinelli 1987, 84-5).

10 È stato discusso perché Ruggiero, appena diventato Cristiano, dovrebbe attaccare altri Cristiani (i Greci) a Belgrado. Qualcuno ha suggerito che si tratterebbe di un ’saluto’ ai bizantini considerati traditori dai Cristiani occidentali (cf. Cardini 1999, 212). O che il Costantino bizantino personaggio del poema dovrebbe in realtà essere simbolo della città turca di Costantinopoli, come sostiene Jacobs (2006). In questo modo avrebbe senso che la città finisca nelle mani Cristiane di Ruggiero, essendo un esempio di wishful thinkingalla stregua delle conversioni dei Saraceni. Marinelli suggerisce invece che l’attacco di Ruggiero ad altri Cristiani allude alla situazione contemporanea in cui i poteri europei si combattevano anziché unirsi contro il nemico comune (Marinelli 1987, 93).

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Concludendo, spero che i miei esempi possano bastare per illustrare che il poema di Ariosto non è indifferente nei confronti dei conflitti tra Saraceni e Turchi e che, a differenza di quanto hanno sostenuto molti critici compreso Calvino, l’immagine dei musulmani di Ariosto non è pura finzione completamente avulsa dalla realtà storica. Perfino gli episodi del plot medievale che si svolge ai tempi di Carlomagno – spesso considerati al di là di ogni realtà storica – contengono allusioni a luoghi ed eventi storici legati agli Ottomani, soprattutto inseriti nella versione finale del poema (1532). Il componimento di Ariosto non è un’allegoria storica, ma è una risposta, una reazione alle invasioni degli Ottomani, cioè a «[t]utti gli atti crudeli ed inumani, ch’usasse mai Tartaro o Turco o Moro» (XXXVI, 3). I tempi delle crociate per liberare la tomba di Cristo sono finiti nel ’500, ma l’idea di crociata in senso lato non lo è per niente. Fino alla fine del ’600 quando gli Ottomani cominciano a perdere terreno, l’occidente si rende conto della propria inferiorità e sogna di fermare e combattere i Turchi, spiritualmente e militarmente. Con riferimenti e allusioni indirette, il narratore del Furioso ricorda ai suoi lettori alcuni momenti storici di conflitto con i musulmani, con gli Arabi a Gerusalemme e in Sicilia, e con gli Ottomani nei Balcani e sottolinea la minaccia comune alle loro civiltà rappresentata dai musulmani.

Nel suo complesso, però, l’immagine dei Saraceni e dei Turchi nel Furioso risulta complessa: troviamo un atteggiamento di rispetto e ammirazione insieme a sentimenti di paura e disgusto nei confronti dei Saraceni. Troviamo una valutazione politica e militare dei loro vizi e virtù, e non solo stereotipi medievali sul loro carattere di infedeli o eretici. Ma tutto ciò non vuol dire che Ariosto esprima una visione moderna basata su valori relativistici o tolleranti, così come alcuni critici hanno sostenuto. E l’approccio soprattutto indiretto scelto di Ariosto per trattare la materia non vuol dire che l’argomento storico della minaccia turca non fosse del suo interesse. Attraverso l’invenzione fa vedere la realtà e offre delle soluzioni imaginarie a delle ansie reali.

Per quanto riguarda i commenti espliciti sugli Ottomani, troviamo una valutazione più negativa e inequivoca rispetto a quella dei Saraceni e l’approccio di Ariosto sembra a questo punto essere in linea con altri autori umanisti del tempo: egli tratta gli Ottomani da una prospettiva secolare e politica da una parte, ma allo stesso tempo continua ad usare una retorica medievale in cui il valore fondamentale e superiore del Cristianesimo e della Cristianità non viene discusso. Anche se le crociate per liberare la tomba di Cristo erano lontane ai tempi di Ariosto, come disse Calvino, l’idea di crociata intesa in senso più largo come guerra contro i musulmani, era ancora molto attuale nel sec. XVI.

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