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DOMENICA 3 OTTOBRE 2010 / Numero 295 D omenica La di Repubblica l’incontro Koolhaas, utopista metropolitano IRENE MARIA SCALISE cultura Quando l’uomo si specchia nell’orso PAOLO RUMIZ l’immagine Berengo Gardin, foto di compleanno PINO CORRIAS i sapori Il piatto è nobile, la cucina povera LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA FOTO A 3 ROMA «D i quegli anni ricordo la solitudine e il si- lenzio mentre intorno a noi tutto cambia- va. Fuori c’era un gran frastuono, c’erano i cortei, le manifestazioni, nella mia vita invece era arrivata la quiete. Da donna sposata ero diventata una donna divorziata, era il 1973, prima c’erano state la violenza, i tra- dimenti, tre figli e la separazione, ma il legame con lui esisteva an- cora, era ancora il suo cognome che portavo. La sentenza di di- vorzio mi restituì la libertà, la fine della paura quando il mio ex marito tornava a casa, la fine delle umiliazioni, ma anche l’inizio di una vita incerta, i soldi con il contagocce, i ragazzi da crescere da sola, il giudizio sociale. E i nostri amici che ad un tratto sono di- ventati i suoi amici». Quarant’anni dopo e a Clara sembra ieri. (segue nelle pagine successive) MARIA NOVELLA DE LUCA anno zero L a ruota della storia ha un suo ritmo imprevedibile. Ci sono anni nei quali arranca, altri nei quali accelera la sua corsa. La prima proposta di legge per l’introdu- zione del divorzio (un «piccolo divorzio» venne defi- nito, perché previsto solo in alcuni drammatici casi) venne avan- zata dal socialista Sansone nei primi anni ’50 ma si smarrì senza clamore in qualche cassetto di Montecitorio. Nel 1965, un altro so- cialista, l’onorevole Fortuna, presentava sullo stesso argomento una nuova, assai più liberale proposta firmata anche dal liberale Baslini, che nel giro di pochi anni verrà approvata dal Parlamento e diventerà legge. Ricordo la prima manifestazione pro-divorzio che si svolse a piazza del Popolo, a Roma, promossa da una nuova organizzazione radicale, la Lid (Lega italiana per il divorzio). (segue nelle pagine successive) MIRIAM MAFAI spettacoli La vita videogame di Mister Nintendo JAIME D’ALESSANDRO e GIORGIO FALCO Quarant’anni fa una legge cambiò la vita degli italiani Sanciva un diritto che oggi appare scontato Ma per i primi che se ne avvalsero non fu così Come ricorda, e ci racconta, una di loro Divorzio Repubblica Nazionale

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DOMENICA 3OTTOBRE 2010 / Numero 295

DomenicaLa

di Repubblica

l’incontro

Koolhaas, utopista metropolitanoIRENE MARIA SCALISE

cultura

Quando l’uomo si specchia nell’orsoPAOLO RUMIZ

l’immagine

Berengo Gardin, foto di compleannoPINO CORRIAS

i sapori

Il piatto è nobile, la cucina poveraLICIA GRANELLO e MARINO NIOLA

FO

TO

A

3

ROMA

«Di quegli anni ricordo la solitudine e il si-lenzio mentre intorno a noi tutto cambia-va. Fuori c’era un gran frastuono, c’eranoi cortei, le manifestazioni, nella mia vita

invece era arrivata la quiete. Da donna sposata ero diventata unadonna divorziata, era il 1973, prima c’erano state la violenza, i tra-dimenti, tre figli e la separazione, ma il legame con lui esisteva an-cora, era ancora il suo cognome che portavo. La sentenza di di-vorzio mi restituì la libertà, la fine della paura quando il mio exmarito tornava a casa, la fine delle umiliazioni, ma anche l’iniziodi una vita incerta, i soldi con il contagocce, i ragazzi da crescereda sola, il giudizio sociale. E i nostriamici che ad un tratto sono di-ventati i suoi amici». Quarant’anni dopo e a Clara sembra ieri.

(segue nelle pagine successive)

MARIA NOVELLA DE LUCA

anno zero

La ruota della storia ha un suo ritmo imprevedibile. Cisono anni nei quali arranca, altri nei quali accelera lasua corsa. La prima proposta di legge per l’introdu-zione del divorzio (un «piccolo divorzio» venne defi-

nito, perché previsto solo in alcuni drammatici casi) venne avan-zata dal socialista Sansone nei primi anni ’50 ma si smarrì senzaclamore in qualche cassetto di Montecitorio. Nel 1965, un altro so-cialista, l’onorevole Fortuna, presentava sullo stesso argomentouna nuova, assai più liberale proposta firmata anche dal liberaleBaslini, che nel giro di pochi anni verrà approvata dal Parlamentoe diventerà legge. Ricordo la prima manifestazione pro-divorzioche si svolse a piazza del Popolo, a Roma, promossa da una nuovaorganizzazione radicale, la Lid (Lega italiana per il divorzio).

(segue nelle pagine successive)

MIRIAM MAFAI spettacoli

La vita videogame di Mister NintendoJAIME D’ALESSANDRO e GIORGIO FALCO

Quarant’anni fa una legge cambiò la vita degli italianiSanciva un diritto che oggi appare scontatoMa per i primi che se ne avvalsero non fu cosìCome ricorda, e ci racconta, una di loro

Divorzio

Repubblica Nazionale

La silenziosarivoluzionedi Clara M.MARIA NOVELLA DE LUCA

(segue dalla copertina)

ROMA

La stessa casa nel quartiere Parioli,il palazzo fine anni Trenta con lefinestre affacciate sulla grigia emonumentale chiesa del Sacro

Cuore Immacolato di Maria in piazza Euclide,e oltre il bosco di Villa Glori. «Lì, passeggiandocon il nostro vecchio labrador, decisi che vole-vo il divorzio, che potevo farcela». Settantottoanni portati con leggerezza, gli occhi verdissi-mi, «i suoi smeraldi» dice scherzando la figliaGiovanna, che l’ha fatta diventare nonna trevolte, e il pudore ma anche la voglia di raccon-tarsi — pur senza rendere pubblico il propriocognome. Sono memorie nitide, quelle di Cla-ra M., come le tante foto in cornice in questosalotto romano. «La vecchiaia per fortuna nonmi ha ancora offeso», ammette. Nell’autunnodel 1970 aveva già due decenni di matrimonioalle spalle, nessun lavoro, nessun reddito«proprio», ma soltanto la voglia di ricomincia-re, «e di uscire — dice — da una prigione». Sultavolino tra i divani due libri di MargueriteYourcenar, Memorie di Adriano e L’opera alnero. «Leggo e rileggo, è il privilegio di averetanto tempo per sé…».

Quarant’anni fa. Migliaia di coppie già legal-mente separate attendevano in quelle settima-ne che finalmente il Parlamento sbloccasse lalegge sul divorzio, firmata da Antonio Baslini eLoris Fortuna. Ovunque la Lid, la Lega italianaper il divorzio di Marco Pannella e Mauro Mel-lini, raccoglieva firme e consensi, con l’appog-gio di riviste considerate spregiudicate, comeStop o Abc, a cui i separati inviavano lettere conle loro storie di amori clandestini, definendosi«fuorilegge del matrimonio». Poi la svolta, il 9 ot-tobre del 1970, con il «sì» del Senato e il rinviodella legge alla Camera, dove due mesi dopo, al-le sei del mattino dell’1 dicembre, il presidenteSandro Pertini annuncia che «il divorzio è leggedello Stato, la legge numero 890». Nelle tre oresuccessive una valanga di istanze di divorzio giàpreparate da mesi si rovesciano nelle cancelle-rie dei tribunali. «Tra i primi a cancellare il pro-prio matrimonio — scrive Noi donnenel 1971 —c’è Garibaldi Nuccetelli, settantadue anni, chefinalmente può sposare dopo trentacinque an-ni di convivenza Gasperina Colasanti, sua coe-tanea, con una gran festa di figli e nipoti».

«Il divorzio l’ho voluto io, fortemente. Il no-stro — racconta Clara — era stato un amore finda ragazzi, entrambi di famiglie calabresi, unmondo chiuso e tradizionale, anche se bene-stante, e per fortuna avevo qualcosa dietro le

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3OTTOBRE 2010

la copertina Il 9 ottobre 1970 il primo passo verso l’approvazionedella legge sul divorzio. Due mesi dopo una valangadi istanze invade i tribunali. Tra le tante c’è anchequella di una donna madre di tre figli. Che oggi,non senza fatica, ricorda che cosa voleva dire essere“una divorziata” nell’Italia di quarant’anni fa

Repubblica Nazionale

(segue dalla copertina)

La piazza era piena, festosa, allegra, una folla in-curiosita, persino divertita, per una manifesta-zione che qualcuno aveva definito «un’ameri-

canata». C’erano soprattutto i giovani, ma io ricordoun pensionato che stringendo al suo fianco una don-na anziana ormai con tutti i capelli bianchi, mi dis-se: «Siamo venuti perché spero proprio di poterlasposare, prima di morire. Lo scriva, lo scriva». Era-no i cosiddetti «fuori legge del matrimonio». Pochianni dopo avrebbero potuto realizzare il loro so-gno.

All’alba del primo dicembre 1970, infatti, allaCamera, dopo un dibattito che era durato tuttala notte, il presidente Sandro Pertini annun-ciava il risultato del voto. Avevano votato «sì»319 deputati, solo 286 i contrari. Avevano vo-tato contro l’introduzione del divorzio solodemocristiani e missini. Il Senato aveva giàfatto la sua parte, approvando la legge For-tuna poche settimane prima.

Una vittoria resa possibile da vari fatto-ri: la crescita, al di fuori dei partiti e spessocontro i partiti, di forti movimenti di gio-vani e donne per la conquista di nuovi di-ritti civili, le divisioni del mondo catto-lico percorso dai fermenti postconci-liari, le difficoltà della Dc stretta tra lepressioni vaticane e il condiziona-mento dei partiti laici che partecipa-vano al governo. Le elezioni politi-che di due anni prima, nel maggiodel 1968, avevano visto una sia purmodesta affermazione delle forzelaiche. Ma solo Aldo Moro avevariconosciuto negli umori e negliorientamenti della pubblicaopinione i segni di una novitàdecisiva: era iniziata, ammoni-va con lucidità Moro, la fine

della stagione dell’onnipotenzadei partiti. A Trento, a Pisa, a Torino, persino

alla Cattolica di Milano erano già cominciate le occu-pazioni delle università: non era questo il segno di uncambiamento di fase, di una crisi del rapporto tra igiovani e i partiti che pretendevano di rappresentar-li? Moro ne intravedeva tutte le possibili conseguen-ze. E consigliava alla Dc di muoversi con prudenza.

In effetti la Dc si mosse con prudenza, stretta e in-certa tra l’obbligatoria alleanza con i laici (socialisti,repubblicani, liberali) che le consentiva di governaree il richiamo all’obbedienza che le giungeva semprepiù pressante dalle gerarchie vaticane. E dunque,prudentemente, il governo di centrosinistra, presie-duto dal democristiano Rumor, si dichiarò «agnosti-co» sulla questione del divorzio, rimettendosi alla va-lutazione e al giudizio finale del Parlamento. Può dar-si che la Dc pensasse di poter rinviare il difficile mo-mento della scelta o di ridimensionare, nel corso deldibattito, le norme della legge, escludendo ad esem-pio dalla possibilità del divorzio i matrimoni concor-datari (era la richiesta “minima” delle autorità eccle-siastiche). Le cose però andranno diversamente.

In prima lettura la proposta di legge Fortuna verràdiscussa e approvata a Montecitorio il 28 novembredel 1969 con il voto compatto di socialisti, repubbli-cani e liberali. E dei comunisti. Inutile era stato dun-que l’appello che pochi giorni prima Giorgio La Piraaveva rivolto al Pci per indurli all’astensione su unalegge che a suo avviso era «il segno più marcato di unaciviltà borghese in piena decadenza. Togliatti, Gram-sci e Lenin», aggiungeva l’ex sindaco di Firenze, «sefossero vivi avrebbero certamente agito così». Il Se-nato poi bocciò la proposta per otto voti ma l’appel-lo di La Pira rimase senza esito: il Pci aveva ormai de-ciso di sostenere la legge Fortuna.

Nel frattempo, a maggio, il Parlamento aveva ap-provato un disegno di legge per la istituzione di un re-ferendum abrogativo. L’iniziativa, suggerita dal Vati-cano e fatta propria dalla Dc, avrebbe dovuto con-sentire la bocciatura popolare di una legge sul divor-zio che fosse stata approvata dal Parlamento. Le co-se, come si sa, andranno ben diversamente. Ad ago-sto, finalmente, si insedierà un nuovo governo,presieduto questa volta da Emilio Colombo. In otto-bre il Senato approva la legge Fortuna che dovrà pas-sare ora all’esame dei deputati.

Ma il paese non sta fermo: si moltiplicano le mani-festazioni a favore del divorzio, alimentate e irrobu-stite anche dalla presenza di un combattivo movi-mento femminista. E mentre dall’Osservatore Roma-no e personalmente da Paolo VI giungeva un ripetu-to ammonimento alla Dc a non procedere sulla stra-da dell’approvazione di una legge che avrebbe rap-presentato un grave vulnus inferto alla morale e alConcordato, il gesuita José Diez Alegria sostenevache l’indissolubilità del matrimonio non appartene-va né alla fede né alla dottrina.

La ruota della storia stava accelerando ormai la suacorsa. La legge sul divorzio, approvata in Parlamentoil primo dicembre 1970, sarà confermata, nel maggiodel 1974, a grande maggioranza da un referendumpopolare.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 3OTTOBRE 2010

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Quando la piazzaentrò in Parlamento

MIRIAM MAFAI

MANIFESTI E GIORNALIImmagini dalla battaglia

che divise l’Italia dei primi anni

Settanta, tra il varo della legge

(1970) e il referendum (1974)

Le immagini pubblicate

in queste pagine sono

dell’Archivio Radicale

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spalle, altrimenti dopo il divorzio i ragazzi ed iosaremmo finiti in povertà. Mi sono sposata avent’anni, mio marito aveva un carattere diffi-cile ma travolgente, l’ho seguito a Roma, l’avreiseguito ovunque, avevo un diploma magistra-le, l’abilitazione all’insegnamento, ma in realtàmi sembrava naturale fare la moglie, e poi, qua-si subito, diventare madre». Ma l’amore, la pa-ce durano poco. Clara stringe un po’ gli occhi,diventano fessure verdi, intense, guarda Gio-vanna, la figlia. «In dieci anni ho avuto tre bam-bini, Marco, Giulio e Giovanna, me ne sono oc-cupata in modo totale, un innamoramento as-soluto, mio marito non c’era mai, faceva il co-struttore, credo abbia guadagnato cifre enormiin quel periodo. Ma è allora che è cambiato: è di-ventato irascibile, violento, con me, con i figli.Sapevo da tempo che c’erano delle altre, storiesenza importanza, diceva lui. Non era così». È lafine degli anni Sessanta, il divorzio è legge ingran parte d’Europa, non ancora in Italia, dovenonostante il sempre più alto numero di sepa-razioni, la resistenza della Chiesa è feroce. Fascandalo Franca Viola che a diciassette anni inSicilia rifiuta il matrimonio riparatore con il suostupratore, e riesce poi a farlo condannare, di-ventando così il simbolo della battaglia delledonne contro la violenza sessuale.

«Quando è passata la legge — dice Clara scan-

dendo date e parole come se le portasse scrittedentro da tutta una vita — eravamo già separa-ti. Ma in silenzio. Quasi in segreto. Il nostro eraun ambiente cattolico, borghese, meridionale,tutto accadeva ma nell’ombra, quasi in unaomertà collettiva. Lui avrebbe continuato così,magari presentandosi la domenica con le pa-ste... Abbiamo divorziato nel 1973, avevo qua-rantuno anni, due figli al liceo e una bambina al-le scuole elementari. Una liberazione, sì, una li-berazione, la notte mi alzavo ad ascoltare il re-spiro dei miei figli, sapevo che lui non sarebberientrato e mi sentivo una donna nuova. Mafuori, nel mondo, e anche in Calabria per la miafamiglia, le cose erano diverse: ero diventatauna divorziata. E ne ho pagate tutte le conse-guenze. Oggi sembra difficile pensarlo, ma al dilà dai circuiti della politica o del femminismo di-vorziare era un atto di coraggio e di rottura. Cheperò non ho mai rimpianto».

Fuori dalle finestre gli alberi di Villa Glori han-no già qualche colore d’autunno. «Di quegli an-ni ho delle memorie vaghe — racconta adessoGiovanna, la figlia di Clara — so soltanto chemio padre piano piano sparì del tutto, non ciportava più fuori nemmeno nei giorni di festa…Nella mia classe c’erano già altri figli di divor-ziati, era una scuola pubblica, sono i miei fratel-li ad aver sofferto di più, erano già grandi, stu-

diavano dai preti, credo che si vergognassero,all’inizio facevano finta che tutto fosse comeprima, che nostro padre fosse fuori per lavoro.Ricordo che anche mia madre iniziò a pronun-ciare la parola “lavoro”, spesso partiva, portan-domi con sé, aveva iniziato ad amministrare lesue terre in Calabria, è così che ci ha mantenu-to e ci ha fatto studiare, io sono medico, loro dueingegneri…».

La vittoria nel 1974 dei «No» al referendumsul divorzio, la riforma del Diritto di famiglia, ilmovimento di liberazione delle donne, la bat-taglia sull’aborto in pochi anni sconvolgono lamorale comune. Ma solo nel 1987 i tempi di at-tesa tra separazione e divorzio passano da cin-que a tre anni, e tuttora la legge italiana resta trale più restrittive d’Europa. «Non mi sono mai ri-sposata — sorride Clara — ma qualche annodopo ho incontrato Gerardo, era il padre di uncompagno di scuola di Giovanna, separato dal-la moglie. Mi sono sentita rispettata per la pri-ma volta. Ma abbiamo iniziato a convivere sol-tanto quando tutti i nostri figli sono usciti di ca-sa. Soltanto allora siamo diventati una famigliaallargata, come si dice oggi. Gerardo è morto treanni fa, e i miei nipoti mi hanno regalato un cuc-ciolo di labrador e l’hanno chiamato Pic. Mi co-stringe a passeggiare. E pensare. E ricordare».

FONTE: ISTAT

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Repubblica Nazionale

l’immagineTestimoni

Festeggerà domenicauna vita avventurosapassata a cercare“quel qualcosa chemi aprisse lo sguardo”Per trovarlo ha giratocinque volte il mondo,mille l’Italia,archiviato un milionee mezzo di scatti,pubblicato duecentolibri. E ora ogni notte,prima di dormire,si riguarda tutte le suemacchine fotografiche“Devo a loroquel che ho fattoe quel che sono”

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Ottant’anni in bianco e neroPINO CORRIAS

MILANO

Dopo un milione e tre-centocinquantamilascatti archiviati, GianniBerengo Gardin, il più

grande narratore italiano in bianco enero, sta per infilare nella sua Leica M6i rullini del suo imminente complean-no, ottant’anni il prossimo 10 ottobre,festa a Milano allo Spazio Forma, folladi fotografi amici, folla di ricordi. «Icompleanni — dice — sono come gliarchivi, ti circondano, ti rassicurano,ma a un certo punto sembrano un as-sedio». Lui sta al centro dell’assedio —occhi azzurri, barba bianca, gilet mul-ti tasca, scarpe da camminatore,Nikon F a portata di mano — in questolungo sottotetto che è il suo studio, dacui si vedono i cieli d’alta moda mila-nesi e la navigazione dei tram. Ogniscaffale archivia l’intero mondo. Unainquadratura alla volta. Estratta daiflussi della folla, del tempo e dei viaggi

che non ritornano, cominciando dalleprimissime sequenze di Venezia quan-do aveva quindici anni e girava con unaIca a soffietto che gli aveva regalato suamadre e tutto lo emozionava, il grigiodella nebbia, i passanti riflessi nel ba-gliore di una vetrina, la luce di laguna.

Racconta: «Cominciai sentendomiartista, cercando l’inquadratura poeti-ca, il bel tramonto, il volo dei gabbiani.Ma erano superfici sciocche, inanima-te, che morivano sulla carta. Scoprii chela vita stava altrove. Più o meno dove ifotografi di allora non guardavano mai,nei luoghi ordinari, nei gesti più sem-plici, in un pescatore che fuma, in unaragazza che saluta». Fu quella rivelazio-ne a aprirgli gli occhi e il grandangolo. Agenerare quell’incanto «per la vita che ticorre intorno», e che dura ancora ades-so, voltato il secolo, dopo aver girato percinque volte il mondo, mille l’Italia,passando per i latifondi del Sud, le fab-briche del Nord, i manicomi smantella-ti da Franco Basaglia, le geografie di Ita-lo Calvino, le periferie degli immigrati,gli accampamenti degli zingari, le uni-

versità in rivolta, i racconti di Cesare Za-vattini, gli interni delle case italiane e ivillaggi del Madhya Pradesh, India, learchitetture di Renzo Piano, il silenzioventoso della Sardegna. Ogni mondoun viaggio. Ogni viaggio un libro: «Do-po i primi duecento pubblicati hosmesso di contarli». E ora sono i libri checontano la lunghezza della sua storia.

Gianni Berengo Gardin è nato a San-ta Margherita Ligure nel 1930. Fami-glia borghese. Padre veneziano, fun-zionario della Camera di commercio.Madre svizzera, direttore de L’Impe-riale, il solo albergo, nell’Italia deglianni Trenta, ad avere tutte le camerecon bagno. «Aveva un parco magnifi-co, le palme, la spiaggia. Ci venivanocontesse inglesi e principi russi. Miamadre mi ha raccontato che uno deiSavoia fu padrino al mio battesimo, maspero che non sia vero, me ne vergo-gnerei troppo».

L’Imperiale diventa la sede del co-mando tedesco, poi un mucchio dimacerie. Il padre finisce prigioniero inIndia. Loro scappano a Roma, la guer-

ra passa, riemergono a Venezia, titola-ri di un negozio di vetri. Ma il solo ve-tro che lo interessa è quello degli obiet-tivi. Le riviste pubblicano “vedute”, luicerca segni e traiettorie. Ha uno zio inAmerica, gli chiede libri, riviste, qua-lunque cosa apra lo sguardo. Lo sguar-do arriva: «Le prime volte che sfogliavoLife, mi batteva il cuore. Eugene Smithraccontava in dieci pagine di foto la vi-ta di un medico di campagna. JacobRiis fotografava gli operai del LowerEast Side, Dorothea Lange viaggiavatra i disperati della Grande Depressio-ne. Scoprii che la fotografia era il rac-conto del mondo».

Parte per Parigi. Cameriere di giornoall’Hotel de Paris, di notte fotografo.«Mi comprai la mappa dei quartieri ecominciai a fotografarli uno alla volta,da cima a fondo, in una specie di eufo-ria che non mi è più passata». Diventaamico di Henri Cartier-Bresson, am-mira i suoi lampi di vita che cattura«mettendo nella stessa linea di mira lamente, l’occhio e il cuore». Così perdue anni. Poi Lugano, bagnino part ti-

me («anche se non sapevo nuotare»),viaggiatore tra i paesaggi che poi sa-rebbero diventati il suo pane neivent’anni di lavori per il Touring Clube per l’Istituto Geografico De Agostiniin compagnia delle sue Hasselblad.

Infine (e per sempre) Milano, primianni Sessanta, Miracolo economico,giornali che aprono invece di chiude-re, boom dei rotocalchi, della pubbli-cità, dell’editoria. Passa anche lui per ilBar Giamaica, conosce i pittori sedutial sole, incontra i giovani fotografi ap-prodati da altre provincie, altri viaggi,Mario Dondero, Fulvio Roiter, UlianoLucas, Gabriele Basilico. «A Milanoscoprii che non c’erano solo i grigi nel-la fotografia, ma anche i neri di UgoMulas, le immagini incise dentro la lu-ce vera». Per vivere fotografa di tutto,un po’ di moda, un po’ di pubblicità,anche i matrimoni. Poi incontra MarioPannunzio e il suo settimanale Il Mon-do. «Sono partito una notte per Roma,vagone di terza classe con le panche dilegno. Arrivo da lui alla mattina, gliporto una decina di fotografie di quel-

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“Cominciai sentendomi artista,inquadrando i bei tramontiScoprii poi che la poesia stavaaltrove, più o meno dove i fotografidi allora non guardavano mai,nei luoghi ordinari, nei gestisemplici, in un pescatore che fuma,in una ragazza che saluta...”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 3OTTOBRE 2010

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le che vivono di una sola immagine, unuomo e un cane, una ragazza sotto lapioggia. Pannunzio le compra tutte,mi dice “È quello che cercavo, manda-mene altre ogni settimana”. Esco da lìe sono felice, ho il mio primo contrat-to da vero fotografo».

Per Berengo Gardin il «vero foto-grafo» è un testimone. Non ruba im-magini. Registra, esplora, racconta:«Ho avuto la fortuna di lavorare sultempo lungo dei libri e non sulla frettadel reportage». È un viaggiatore solita-rio: «Facevo fino a cinquantamila chi-lometri in automobile ogni anno». Èun artigiano, non un artista: «Ho sem-pre stampato da solo, senza forzaremai né i contrasti, né il racconto».

Berengo ha quasi sempre lavoratoin bianco e nero perché quella è la suamemoria. Non ha mai usato il flash«dove vede l’occhio umano, vede laLeica». Non ha mai abbandonato lapellicola, perché il digitale è contro lasua etica: «La foto non va ritoccata, al-trimenti diventa un inganno. La fotodevi riconoscerla all’istante, mentre

inquadri, non dopo, quando hai fattoun milione di scarti».

Gli interessa poco la cronaca. E po-chissimo i personaggi: «Mai fatto vip,mai fatto star. Hanno addosso una spe-cie di febbre che li rende finti. Ti conce-dono dieci minuti e in quei dieci minu-ti ti nascondono l’essenziale». Ha fattoqualche eccezione per Jean-Paul Sar-tre, Edith Piaf, Juliette Greco. «Una vol-ta andai a fotografare Anna Magnani,c’era una luce molto violenta che le se-gnava il volto. Le chiesi se voleva spo-starsi verso la penombra. Mi disse:queste rughe me le sono conquistateuna alla volta, voglio che si vedano».

Anche le sue rughe non sono rim-pianti. «Nella vita ho fatto quello chevolevo. E a dirla tutta non ho mai lavo-rato un giorno, sono stato un flaneursalarié, un viaggiatore incantato». Haavuto un sacco di maestri, comincian-do da Willy Ronis e il suo «realismopoetico». Ha imparato dai quadri diGiorgio Morandi, dalle velocità di He-mingway, dal ritmo del jazz. Ha ammi-rato Berlinguer e ha votato Pci «fino al-

l’ultimo giorno». Ha visto quel sognodissolversi, come ha fatto il paesaggioitaliano. Si è innamorato di molte don-ne. Si è sposato, ha avuto due figli, si èseparato, ma in realtà condivide con lamoglie la terrazza sui tetti, gli alberi dilimone e il tempo. Nella sua camera daletto, dentro a una grande scatola divetro, ci sono tutte le sue macchine fo-tografiche, a parte due Nikon e dueContax che gli hanno rapinato un gior-no su un marciapiede di Trastevere.Dice: «Me le guardo ogni sera prima diaddormentarmi, devo a loro tuttoquello che ho fatto e che sono».

Gli archivi che lo circondano sono ilsuo bilancio: «Tra cento anni racconte-ranno com’era la vita da queste parti».Non crede in Dio, ma gli è sempre pia-ciuto fotografare le processioni, «quel-le facce trasfigurate dalla luce dellecandele». Dice di essere «terrorizzatodalla morte». Ma poi sorride: «Non soneanche immaginarmela. Come unnero assoluto, forse. Un buio che nean-che una Leica saprebbe fotografare».

ATTREZZI DEL MESTIEREAccanto Leica M6,

ovvero Berengo Gardin

nel suo studio milanese (1998),

con le sue macchine fotografiche

Foto tratta da Leica e le altredi Berengo Gardin,

pubblicato da PelitiAssociati

FOTOGRAFIEIn apertura,

a sinistra,

Con CaterinaCartolinad’auguriagli amiciper Natale(Venezia, 1960)

Qui sopra,

a sinistra, Lidodi Venezia, 1958;

a destra GranBretagna, 1977Le immagini

sono tratte

dal volume

Gianni BerengoGardin edito

da Contrasto

1952-1957

1957-1965

1965-1974

1974-1989

dal 2001

dal 1990

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Repubblica Nazionale

Irritabile e coccolone, imprevedibile e goloso, delicato e terribile, pigroe viaggiatore, intelligente e ingenuo:

la sua disgrazia è assomigliare troppo all’uomo, la sua fortunaè che l’uomo sa di non assomigliargli abbastanza. Ecco perché il redei boschi dorme ancora dentro di noi. E ogni tanto si risveglia dal letargo

CULTURA*

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3OTTOBRE 2010

Totemico e terribile, ci aspettava in piedi, in fondo alla ra-dura sfolgorante della prima neve dell’anno. Si dondo-lava, e con le mani — tali ci sembrarono data la posturaeretta — disegnava nell’aria strani segnali, non si capi-va se minatori, di fastidio o di ansia. Poi si rimise giù ecominciò a muovere verso di noi, sempre scuotendo la

testa. Eravamo in tre, immobili, sui nostri sci, e non aspettammo dicapire le sue intenzioni. Girammo su noi stessi e via, più veloci delvento, infilammo al contrario le nostre tracce nei boschi impenetra-bili della Slovenia. Corremmo per una ventina di minuti senza maiguardare indietro, e i primi due della fila non ebbero mai il tempo dicontrollare se il fiatone che sentivano dietro era del compagno o del-l’orso. L’ultimo della fila, che ero io, restò incollato al trenino perpaura di restar solo col bestione, e fu così che polverizzammo ognirecord di velocità.

Ridemmo a lungo di quella scena da cartoon di Walt Disney, ma innoi era rimasto un impasto mai provato prima di timore reverenziale,simpatia e insieme profondissimo mistero, come se avessimo valica-to impreparati una linea d’ombra. Personalmente ne divenni certo:era quello il mio animale totemico, irritabile e coccolone, goloso e im-prevedibile. Da allora la mia vita è stata segnata da ripetuti e memora-bili incontri con orsi. Niente di strano in questo: vivo in una città —Trieste — che sfiora il territorio a maggior densità di plantigradi d’Eu-ropa, la Slovenia, e ho la percezione che la loro ombra bruna mi seguasempre, anche nei sogni, e segni una loro rivincita nell’immaginariodell’uomo che li ha trasformati per secoli in zimbello da circo. Li sen-to che tornano, in quest’Europa che rinselvatichisce e si riempie di bo-scaglia. Ne seguo gli spostamenti in Italia, tra l’Abruzzo, le Alpi Marit-time, il Trentino. Li ho visti migrare a Nordovest dalla Bosnia, in fugadalla guerra e dalle mine.

Noi e loro, vite parallele. Ne parla Bernd Brunner, in un nuovo libro(appunto Uomini e orsi, Bollati Boringhieri), che è solo l’ultimo di unaserie di libri dedicati all’araldico bestione in mezzo mondo. Due annifa Einaudi ha pubblicato L’orso di Michel Pastoreau, che ripercorrel’affascinante parabola di «un re decaduto» ma sempre pronto a unaresurrezione; quella rinascita che da millenni, ogni primavera, l’ani-male simboleggia nel risveglio dalla misteriosa morte apparente delletargo. L’orso ritorna nei racconti e nei libri, a dimostrazione che dor-me profondissimamente in noi, russa nell’antro più segreto del nostroinconscio anche se per secoli di cristianesimo è stato cacciato come epeggio del lupo, e degradato a simbolo dei peggiori vizi capitali. Gola,lussuria, superbia eccetera.

La sua disgrazia è quella di somigliarci. La gola per esempio. Ungiorno me ne andai in bicicletta oltre confine in direzione della val-le del Vipacco, un affluente dell’Isonzo, e mi fermai a far merenda ac-canto a un camioncino che un apicoltore sloveno aveva trasforma-to in contenitore di alveari. Molti sloveni quando vanno in pensioneattrezzano una di queste arnie su ruote e portano in giro le loro api,spostandole a seconda delle fioriture. Mi misi a chiacchierare conl’uomo che prendeva il sole a una trentina di metri dalla sua mini-fattoria semovente, grondante di miele di montagna, quando a untratto sentimmo un trambusto e vedemmo che il camioncino si agi-tava. La porta del cassone era aperta. L’orso era entrato dentro. «Eadesso non ci resta che aspettare che finisca», disse rassegnato lo slo-veno. Dopo un po’ mise fuori il muso, circondato da una nube di apiimbestialite, ma egualmente in stato d’estasi e totalmente indiffe-rente alla nostra umana presenza. Era ubriaco di miele. Scese la sca-letta d’accesso e barcollando ritornò nel bosco inutilmente seguitoda una nube di insetti.

PAOLO RUMIZ

Stesse virtù, stesse debolezzele nostre vite in parallelo

Nel mondo slavo l’orso ha un nome magnifico, Medved, parola checontiene med, cioè miele. La sua golosità impenitente è diventata so-prannome, quindi nome. E ora che gli orsi sloveni sono stati esporta-ti in Trentino, abbiamo imparato a osservarli in questa loro umanitàapparente e giocattolona. Una scena indimenticabile: quella di unmaschio solitario che scivola per un pendio regolare di erba alta, e poiche fa? Risale in cima al pendio e ripetutamente lo ridiscende sullechiappe. Per divertirsi. Scene, ripeto, da Walt Disney prima maniera.

Alla fine degli anni Sessanta andai sui monti del Durmitor, puntopiù arcano del selvaggio Montenegro, per scalare qualche cima, mavenni preso dalla febbre e rimasi due giorni solo nella tendina mentregli altri arrampicavano. Nel delirio dei quaranta, portai le riserve di ci-bo nel mio abitacolo, senza pensare che era meglio appenderle su unramo. Così la notte mi svegliò un rumore e dopo un po’ vidi l’ombra diun orso proiettata dalla Luna sul telo della tenda. Era chiaro che sa-rebbe entrato, così feci l’unica cosa possibile. Mi alzai di scatto urlan-do e gesticolando in modo tale che fosse la tenda intera a muoversi co-me uno spettro nelle tenebre. Funzionò. L’orso scomparve, appesi iviveri all’albero e la febbre mi passò all’istante per lo spavento. Poi cad-di in un letargo felice, pensando che in fondo era meglio incontrare un

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 3OTTOBRE 2010

orso che un cane pastore montenegrino (il terribile Sar Planina) ad-destrato ad attaccare gli intrusi.

Anche Mario Rigoni Stern adorava in lui l’impasto di delicatezza ecoraggio, giocosità e lunghi silenzi. Una volta in Trentino, in un gior-no di pioggia in cui chiacchierammo a lungo, mi disse: «Le donne ita-liane non amano gli uomini orsi e non sanno che sono proprio quellii migliori». «Le donne non capiscono niente — continuò — preferi-scono i cagnetti obbedienti da tenere al guinzaglio», poi mi mise la ma-no sull’avambraccio e a me parve davvero la zampaccia di un planti-grado. Era un orso il Mario, dolce e irascibile, protettivo e amante de-gli inverni nella tana. Mario, sempre più attaccato alla sua forestanatìa.

Fratello orso. Avete visto la delicatezza con cui raccoglie i mirtilliaprendo le dita a pettine per non rovinare la pianta? Nessuno direbbeche è lo stesso animale che, magari il giorno seguente, sceso verso lapianura, si mangia un asino intero, lasciando solo la carcassa. Nel li-bro di Brunner leggo che l’orso è tanti animali in uno. Come un leoneatterra mammiferi più grandi di lui; come un ruminante qualsiasi sac-cheggia le coltivazioni; ruba uva e frutta come una scimmia; pilucca lebacche come un merlo; fa razzia nei formicai e nelle arnie come un pic-chio; dissotterra tuberi e larve come un maiale; cattura pesci con la de-strezza di una lontra. Ma non basta: è un formidabile viaggiatore (letribù del grande Nord canadese lo chiamano appunto così), e quindiè quasi inevitabile che lo ami. Anni fa un’orsa slovena importata inTrentino fece impazzire tutti con i suoi spostamenti. Distanze invero-simili, in cerca di un habitat. E mai dove la si aspettava. Le guardie fo-restali ebbero un bel costruirle passaggi sopra o sotto gli sbarramentinaturali. Lei cercava sempre e solo il suo itinerario.

È dannatamente intelligente. Il biologo americano Enos Mills elen-cava un secolo fa un numero impressionante di grizzly che erano sta-ti capaci di sfuggire ai cacciatori per decenni. Uno era il “Vecchio Mo-se”, che si era attirato una taglia di mille dollari per una serie di razzieimpunite nelle mandrie dei ranch. La mia adolescenza è piena di leg-gende di orsi invincibili. Uno era il gigante che con una zampata ave-va strappato la mascella inferiore ad Anton Tozbar, una guida del Tri-corno che da allora — erano gli anni Venti — accompagnò i clienti conquesta mostruosa amputazione, nutrendosi di liquidi con una can-nuccia. E c’erano gli orsi bosniaci abbattuti da Tito, di cui avevo vistole foto riprodotte nelle case di caccia della Jugoslavia che fu. E poi loscheletro immane dell’orso speleo, trovato in una grotta del Carso edesposto al museo di storia naturale di Trieste, prima immagine del Ter-ribile della mia vita, accanto a una balena impagliata che in quegli an-ni faceva il giro d’Italia a bordo di un camion da circo. Logico che quan-do nel 2001, pedalando verso Istanbul con Altan e Rigatti, incontrai unucraino tostissimo che faceva il giro del Mar Nero su una bici dal selli-no in pelle d’orso, poco mancò che mi genuflettessi come un cheyen-ne davanti a uno sciamano.

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IL LIBRO

Sarà in libreria il 7 ottobre Uomini e OrsiUna breve storia di Bernd Brunner (tr.it. L. Martini,

Bollati Boringhieri, 224 pagine, 18 euro)

Il saggio ripercorre in breve il rapporto ancestrale

che lega l’uomo all’orso fin dalla preistoria,

dai graffiti rupestri ai teddy bear. Le immagini

che illustrano queste pagine sono tratte dal volume

LE IMMAGINIScene di caccia,

uomini dai tratti

ursini, incisioni

e manifesti. Tutte

le immagini

sono tratte

da Uomini e orsidi Bernd Brunner

Repubblica Nazionale

Donkey Kong, Super Marioe la Wii. Il più grandecreatore di mondi virtualiracconta il suo segreto

SPETTACOLI

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3OTTOBRE 2010

JAIME D’ALESSANDRO

Miyamoto“La mia vitavideogame”

ORIGINALII disegni di Donkey Kong e Super Mario

sono schizzi autografi di Shigeru Miyamoto

A destra, la copertina di Time dedicata

al maestro giapponese nel 2008

Nelle pagine, schermate di SM, Zelda e DK

e l’evoluzione dei tre personaggi

LOS ANGELES

ogni svolta esistenziale, una rivoluzione capace dicondizionare un intero mercato. Sarà per questo cheShigeru Miyamoto, “padre” di Super Mario e mentecreativa della Nintendo, è sempre sotto osservazio-ne. Studiano i suoi passatempi, le abitudini, le nuovepassioni. Perché è capitato più volte che abbia fattofare alla sua compagnia miliardi semplicemente do-po aver deciso di dedicarsi al giardinaggio, di fare piùesercizio fisico o di allenare le proprie capacità mne-moniche. Ora poi se l’è presa con gli occhialini, quel-li da adoperare per godere degli effetti speciali allaAvatar, e dal cilindro ha tirato fuori il 3ds. La nuovaconsole portatile della Nintendo che da marzo, per249 euro circa, permetterà di immergersi in monditridimensionali senza dover inforcare alcunché.Un’altra macchina per far soldi, con buona probabi-lità. «Tutte le persone che lavorano nel settore del-l’intrattenimento riversano quel che vivono in quelche fanno», si schermisce lui con l’abituale sorrisogarbato e la sua solita giacca nera indossata sulla ma-glietta bianca mentre si mette comodo su una pol-trona del Convention Center di Los Angeles.

Ritrosia fuori posto, considerando che a cinquan-totto anni è il game designer più importante in circo-lazione, uno dei pochi ad aver plasmato buona partedella storia dei videogame. Dalla sue esplorazioniquand’era bambino è nato ad esempio Super MarioBros., eroe digitale da 240 milioni di copie, con un gi-ro d’affari che dovrebbe aver superato i 14 miliardi didollari, stando a dati non ufficiali. Fulmine a ciel se-reno ai tempi, erano i primi anni Ottanta, quando an-davano per la maggiore solo le invasioni aliene. Il gi-rovagare nei boschi invece è alla base della saga fan-tasy di Zelda, altri 59 milioni di copie, e la passione peril giardinaggio ha portato ai due Pikmin. Giochi deli-ziosi dove i protagonisti sono fiori che hanno vendu-to “appena” due milioni e mezzo di copie. «In effetti— conferma Miyamoto-san — Super Marionelle sueavventure finisce di frequente in mondi sotterranei equando ero bambino mi piaceva molto esplorare legrotte. Ed è vero anche per Zelda, frutto dalle tantepasseggiate nei boschi che facevo da ragazzo».

Ma ultimamente le cose sono cambiate. Shigeru

Miyamoto ha abbandonato in parte le fantasie gio-vanili, le stesse che gli hanno consentito nel 1981 dicreare il suo primo gioco di successo, Monkey Kong(divenne Donkey per un errore tipografico), via dimezzo fra La bella e la bestia, King Konge i cartoni del-la Disney, che ormai viaggia sui 49 milioni di pezzi. Hacominciato invece a guardarsi intorno, a prenderespunto dallo spazio domestico, dai rapporti familia-ri, delle necessità di tutti i giorni, disegnando un mon-do digitale a misura d’uomo dove è la tecnologia chefa di tutto per assomigliarci, non il contrario. E anco-ra una volta, la storia dei videogame è cambiata. «Al-la Nintendo non immaginavamo che la Wii, la nostraultima console, avrebbe riscosso tanto successo arri-vando ai 74 milioni di pezzi venduti», racconta Miya-moto. «Siamo solo partiti da una constatazione: ci so-no molte più persone che non giocano con i videoga-me di quante li amino. Tutto stava nell’eliminare lebarriere che frenavano queste ultime. I giochi elet-tronici del resto sono, o meglio erano, poco interatti-vi per quanto strano possa sembrare».

La vera interazione è l’aver trasformato i gesti chetutti conosciamo in comandi, attraverso dispositividotati di sensori di movimento e di schermi tattili. Epoi guardare al quotidiano. Quando a casa sua (hadue figlie) è entrato un cucciolo di cane, nel giro di unanno è uscito Nintendogs (22 milioni di copie). Equando è arrivato anche un gatto tutti alla Nintendohanno capito che era venuto il momento di lavoraresu Nintendos + Cats, che uscirà prossimamente.

Quattro anni fa poi gli venne in mente che alla suaetà era il caso di fare un po’ di palestra e magari di far-la con la sua famiglia. Et voilà, ecco Wii Fit, 36 milionidi pezzi, per fare dell’esercizio tutti assieme davantial tv. Stessa storia con Brain Training, per allenare lamemoria e ringiovanire la mente: 33 milioni di copie.Il futuro? «Stiamo valutando diverse cose», raccontacon qualche reticenza. «Dal riconoscimento vocale,che però richiede molta potenza di calcolo, ad alcunielementi dei social network. Sicuramente un 3d chenon ha nulla a che spartire con quanto visto fino a og-gi». Non resta che aspettare quindi. O forse, non restache appostarsi a Kyoto, dalle parti di casa sua, perspiare quel che davvero sta combinando.

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 3OTTOBRE 2010

Quei pomeriggi a gettoniconsumati in sala giochi

GIORGIO FALCO

Igettoni dei videogiochi non erano proprio soldi, ma unaforma di desiderio prossima alla vita reale, un tempo so-speso facilmente raggiungibile eppure altrettanto irrime-

diabile, nel bar del quartiere. I gettoni esistevano vicino allepatatine, al di là del bancone, custoditi nel registratore di cas-sa, uscivano dalla nicchia con un parto semiautomatico, me-tallico, schiudendo il tintinnio delle monete divise per valo-re, selezionate dal proprietario che teneva nella mano sinistrai tre pezzi da duecento lire appena ricevuti, e con la mano de-stra selezionava i gettoni, le tre scanalature simili ai gettoni te-lefonici. Il proprietario non accettava gettoni telefonici incambio dei gettoni dei videogiochi, tutta l’Italia li equiparavaa duecento lire, lui diceva che i gettoni telefonici valevanoduecento lire, ma non erano duecento lire, perché altrimen-ti non essere direttamente duecento lire? Mi sembrava il ca-

priccio di un uomo testar-do, sosia di Mario, il perso-naggio di Donkey Kong.

Aveva gli stessi baffi, erasolo un po’ più alto dell’o-mino che doveva salire lescale, difendersi dai bariliinfiammabili lanciati dal-la grande scimmia e attra-versare schermate per li-berare Pauline, rinchiusanella parte superiore. Nel-l’angolo destro del bar c’e-ra anche il videogioco Po-peye, una sorta di DonkeyKong con personaggi giàfamosi, e un videogiococon un verme bianco chesi muoveva in orizzontalee in verticale, lo sognavospesso di notte. A metà po-meriggio c’era semprequalcuno che giocava al-meno a uno dei tre: giova-

ni, ragazzini con fratelli minori, davvero piccoli, tanto che do-vevano spostare una sedia e salirvi per arrivare allo schermo.Io prendevo tre gettoni proprio per sentirmi libero di fare unapartita a ogni gioco, anche se forse avrei dovuto specializzar-mi, spendere i tre gettoni in un unico gioco, diventare osses-sivo per carpire almeno un segreto.

Ogni gioco aveva le proprie regole, quelle di Donkey KongePopeye erano simili, e in fondo anche nel terzo gioco c’erasempre la questione della fine, della morte simulata, rappre-sentata in uno spazio tempo a parte, triste e piacevole quan-to l’esistenza, spazio tempo scisso dal resto della vita ma conregole simili da seguire, per salvare qualcuno e se stessi, o an-che solo per migliorare di un livello prima della fine. I video-giochi non erano un passatempo. Certo, occorrevano i getto-ni per vivere quel mondo, ma potevo guardare gli altri men-tre giocavano e, se nessuno giocava, tergiversavo davanti al-lo schermo che supplicava di inserire un gettone nella picco-la fessura, e io attendevo, gratificato dall’apparente: il video-gioco regalava una parodia lenta, asettica, il gioco che sigiocava da solo, non dovevo neppure inserire il gettone, strin-gere le dita intorno alla leva del joystick, che peraltro non eramai autonomo rispetto al corpo, era la sintesi di dita e cervel-lo, era il sesto dito della mia mano destra e non il prolunga-mento dell’esistente, mentre Donkey Kongo Popeyee soprat-tutto i vermi si intrecciavano allo sbattere della macchina delcaffè, alle tazzine, al rumore dell’acqua del rubinetto, ai nuo-vi movimenti della cassa.

Nei mesi estivi dovevamo tirare la tenda della vetrina per-ché i riflessi del sole colpivano gli schermi e accecavano glisguardi. Allora la tenda rimaneva sempre tesa, a protezione,anche nei mesi autunnali e invernali, quando faceva buio pre-sto, e già verso le cinque di pomeriggio sfilavano veloci le om-bre proiettate dai lampioni, fuori, dove molto presto sarem-mo andati anche noi.

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i pezzi venduti

di Super Mariodal 1981

240mln

le copie vendute

dall’81della saga

fantasy Zelda

59mln

tanto ha venduto

Donkey Kong,

il primo videogioco

49mln

Repubblica Nazionale

LICIA GRANELLO

i saporiFuggiti

Zuppa di pesce solo con lische,maionese senz’uovo, ortaggial posto di carne.È la cucinadegli ingredienti mancati,trionfo di fantasie popolarinate per rimpiazzarele materie prime.Oggi un modoper accogliere esigenze e gustisempre più variegati

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3OTTOBRE 2010

itinerari

Tutto fa brodo. È la parola d’ordine dell’indigenzache si fa minestra. Unica alternativa al proverbia-le buttarsi dalla finestra. Nonché formula madre

di tutte le cucine della finzione. Finto brodo, finto ragù,trippa finta, uccelli scappati, pesci di montagna, von-gole fuijute. È la gastronomia del non essere, quella ca-pace di cavar sangue dalle rape. O addirittura di mette-re in pentola uno scarpone al posto di un cappone, co-me fa il surreale Chaplin de La febbre dell’oro alle presecon una fame disperata. Trovando perfino un incredi-bile scampolo di felicità oltre il confine della comme-stibilità. Una grande metafora del bisogno estremo chesi rovescia in iperbole gourmande.

Del resto è proprio dalla penuria che nascono molticapolavori della cosiddetta cucina povera, da una ne-cessità costretta dagli eventi a farsi virtù. Ricorrendoquasi sempre all’arte della sostituzione obbligata. Di cuierano maestre le massaie livornesi, capaci di far sobbol-lire perfino i sassi di mare per tirarne fuori un brodettodeliziosamente carico di umori minerali, da fare invidiaai crostacei più nobili. O le donne palermitane che han-no inventato un piatto come la pasta con le sarde fuggi-te, altrimenti detta ch’i sardi a mare, superbo eufemi-smo che trasfigura la scarsità in sobrietà, la miseria innobiltà.

Se la finzione diventa l’ingrediente principale allorala cucina si trasforma in un illusionistico teatro del gu-sto, dove un ingrediente fa la parte di un altro. E spessonon lo fa rimpiangere. Almeno in un’epoca come la no-

stra, in cui il problema principale non è certo quello dimangiare abbastanza calorie, ma piuttosto il contrario.Ecco perché andiamo in estasi per i pesci di montagnaliguri, con le coste impanate e fritte che vestono i pannidelle alici. O per la delicatissima finta trippa, che inrealtà è una frittata a striscioline sottili, ripassata nel po-modoro e spolverata di parmigiano. Ancor meglio se sipuò fare addirittura a meno delle uova, come nella qua-resimale frittata di scammaro partenopea, fatta di solapasta rosolata in padella con olive e capperi. Un tempomagra consolazione per un’umanità minore costretta aun perpetuo mangiare di vigilia. Oggi magico antidotomediterraneo contro il colesterolo e i radicali liberi cheassediano la cittadella della nostra opulenza.

Se i nostri antenati cercavano di colmare un atavicodisavanzo proteico maritando quando potevano le mi-nestre di verdure con gli avanzi della carne, noi le mine-stre le preferiamo vedove, come chiamavano nella To-scana contadina le zuppe di sole erbe e pane raffermo.O “maritate senza marito”, vedove bianche di carni lon-tane, come dicono in quella terra di antica emigrazioneche è l’Irpinia. Sublime espressione delle nostre culturedel popolo, questi trompe-l’oeil alimentari, nati per in-gannare la fame, hanno conquistato i piani alti della ta-vola. E adesso, sospinti dal vento del buono, giusto e pu-lito, celebrano un doppio trionfo, etico e gastronomico.Offrendoci un rifugio dalle tentazioni della carne. Il ri-torno in un Eden salutista. Il giardino dei finti spiedini.

I trompe-l’oeil della fameMARINO NIOLA

Nobiltà&

La cucina degli ingredienti che non ci sono. Piatti al limi-te dell’immaginario, figli di povertà e fantasia esercita-te all’estremo. Nomi che fanno sorridere: acqua cotta,finta pizzaiola, maionese senz’uovo, uccellini e vongo-le irrimediabilmente fuggiti dalle rispettive ricette. E poibocconcini di pane insaporiti con fondi di cottura chesembrano polpette e zuppe di pesce che del pesce han-no solo le lische, carrube travestite da cioccolato e mi-nestre vedove della carne con cui erano maritate, senzadimenticare il sontuoso cappone natalizio sostituito daun certosino assemblaggio di ritagli di pesce e verdure.La storia alimentare regionale è un trionfo di prepara-zioni complesse e dei loro adattamenti a basso prezzo,

un po’ come l’alta moda tradotta in versione low cost diZara e H&M, o il bistrò del grande chef rispetto al suo ri-storante pluristellato. Realtà molto diverse, ma con il lo-ro fascino anche in versione bonsai.

Con l’arrivo dell’autunno e il ritorno ai piatti “di so-stanza” il libro di Antonio Tubelli, memoria personaledelle ricette popolari napoletane, certifica la dignità ga-stronomica di piatti dichiaratamente a basso budget,dove gli ingredienti di prima scelta risultano off limits ela finzione una necessità per evitare la depressione ali-mentare. Certo, è impensabile che il sugo di pesce abbialo stesso sapore, quando in sua vece si usano dei sasso- © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Povere finzioniper ricche ricette

lini raccolti sulla battigia. Cuocere le pietre può sem-brare un esercizio folle, eppure ha un senso nell’estra-zione del salmastro, un ricordo di mare che nobilita unapasta irrimediabilmente in bianco. Di finzione in fin-zione, è falsa la genoisedi carne e cipolle senza carne: mauna lentissima cottura delle cipolle (tante e possibil-mente bio) in extravergine fa il miracolo di un piatto chesoddisfa stomaco e palato.

Si può preparare un piatto finto perché la congiuntu-ra economica non permette di fare altrimenti, oppureperché la stagionalità degli alimenti obbliga a variazio-ni sul tema, come leggenda racconta fu a suo tempo perla frutta martorana, la pasta di mandorle colorata e mo-dellata dalle suore del convento della Martorana di Pa-lermo come omaggio agli alti prelati in visita, in assenzadi frutta fresca.

Se oggi si può trovare tutto, ovunque e in qualsiasimomento, la finzione ha trovato altri binari per stuzzi-care la creatività degli addetti ai fornelli. Obesi, celiaci,diabetici, allergici rappresentano ormai una quota tan-to consistente quanto esigente in materia di cibo. Così,qualche grammo di lecitina di soia sostituisce l’uovonella maionese, che risulta finta perché manca uno deidue ingredienti base insieme all’olio, mentre l’amido diriso rende superflua la funzione mantecatrice del burronel risotto, sottraendo grassi e calorie ed esaltando il sa-pore primario del riso.

Maestro inarrivabile della finzione nei piatti, qualcheanno fa Ferran Adrià chiedeva ai suoi ospiti quale partepreferissero del pollo: petto o coscia. Preso nota dellepreferenze di ognuno, serviva il suo pollo al curry: gela-to al curry, gelatina di mela, zuppa di cocco e brodo dipollo. Il tutto disossato, of course.

Spaghetti alle vongole fuijùteNelle città di mare, Napoli in primis, la pasta col pesce

è un bene inalienabile. Al posto delle molluschi fuggiti, il sugo bianco – aglio e olio – si inebria di salmastro grazie

ai piccoli sassi del bagnasciuga aggiunti in padella

Minestra vedovaIn Emilia Romagna e in Toscana, la zuppa originariamente

maritata con la carne, si trasforma in un brodo vegetale

rimpolpato di pezzi di pomodoro e odori. Per supplire

al gusto di manzo e maiale, l’osso del prosciutto

Miseria

Pasquale Torrente è lo chef patronde “Al Convento” di Cetara, Salerno,terra-madre della colatura di alici,straordinario esempio di finzionegastronomica. Al posto delle alici,la pasta si condisce con il grasso colatodalla loro marinatura nel sale

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 3OTTOBRE 2010

NapoliDalla cucina dei monsù a quella di strada, dal timpano

di maccheroni al finto ragù, invenzione e sorpresa

firmano le ricette della gastronomia napoletana,

emozionando occhi e palato anche nei piatti più poveri

DOVE DORMIREPALAZZO TURCHINI

Via Medina 21

Tel. 081-5510606

Camera doppia da 140 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREOSTERIA DELLA MATTONELLA

Via Giovanni Nicotera

Tel. 081-416541

Chiuso domenica sera, menù da 25 euro

Nonantola (Mo)La cucina povera della campagna modenese è ricca

di ricette assemblate con gli scarti di lavorazione di maiali

e galline – zampe, orecchie, ossi, frattaglie – che restituiscono

il sapore della carne a zuppe e sughi

DOVE DORMIRECASA DELLA MAESTÀ

Via Monte Grappa 21

Tel. 059-545402

Camera doppia da 50 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREOSTERIA DI RUBBIARA

Via Risaia 2

Tel. 059-549019

Chiuso martedì, menù da 30 euro

VicenzaNella città prediletta dagli amanti del baccalà – grazie

alla ricetta a base di olio e latte – la polenta è il compagno

di qualsiasi companatico, dai salumi ai pesci conservati,

anche solo strofinati sulle fette abbrustolite

DOVE DORMIREHOTEL CRISTINA

Corso Ss. Felice e Fortunato 32

Tel. 0444 323751

Camera doppia da 85 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREAL PESTELLO

Contrà Santo Stefano 3

Tel. 0444-323721

Chiuso giovedì, menù da 30 euro

Polenta e scopetònNella versione povera di un classico della tradizione veneta,

polenta e aringhe, il pesce arrostito viene appeso sopra

il tavolo. Le fette di polenta, grigliate a loro volta

e strofinate sul pesce, ne rubano profumo e umori

Torta al cioccolato poveroLa carruba – storico surrogato degli elaborati di cacao

nelle ricette dei dolci di recupero, come la torta di pane –

è tornata di moda perché ricca di vitamine, fibre e minerali,

sotto forma di farina di semi, leggermente dolce

Cappon magroComposto con gallette di pane ammollate nell’aceto

e disposte a strati insieme a pesce povero, uova, olive,

acciughe e verdure dell’orto legate grazie a un pesto

di basilico, è uno storico piatto ligure di Natale

Agnolot curdunàVisto che tutta la carne a disposizione è stata trasformata

in ripieno, i piccoli ravioli dal plin (pizzicati) piemontesi

si servono senza condimento su uno strofinaccio ruvido

(cordonato) steso in mezzo al tavolo

Uccellini scappatiI microinvoltini, realizzati con ritagli di carne, salvia

e pancetta, sostituiscono gli uccellini che “hanno preso

il volo”. Accoppiati a due a due, si infilzano sullo spiedino,

alternati a pane, fegato e pancetta

Finta genoveseIl sugo bianco più popolare della cucina napoletana

– mutuato, pare, dai portuali genovesi – vive

di una lentissima cottura in extravergine di cipolle e carne

Nella versione povera, restano solo gli ortaggi

IL LIBRO

Uscirà il 27 ottobre per le edizioni L’Ancora

del Mediterraneo un originale viaggio attraverso

le ricette meno conosciute della tradizione

napoletana. L’autore di La cucina napoletana,

assistito nella stesura da Maristella Di Martino,

si chiama Antonio Tubelli, ed è uno dei numi

tutelari dei cibi di strada campani,

cuoco colto e curioso, proprietario

di “Timpani e tempura”, luogo culto di ricette

antiche nel centro di Napoli

Nel libro, un capitolo è dedicato alla tradizione

della cucina povera che “finge” di essere ricca

Repubblica Nazionale

le tendenzeBig Broker

Recessione e scandali finanziari hanno affossato il mitodi Gordon Gekko-Michael Douglas. Eppure il film-cultche negli Ottanta lanciò la moda preppy oggi tornaper dettare il nuovo stile. E a New York le vetrine che contano si adeguano: provate a cercare un paio di bretelle, troverete un gilé

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3OTTOBRE 2010

ANNA LOMBARDI

NEW YORK

L’avidità è di moda: Gor-don Gekko si riaffacciasul grande schermo piùelegante che mai. Il pe-

scecane di Wall Street interpretato daMichael Douglas, che quasi un quarto disecolo fa incarnò fascino e vizi dell’Ame-rica reaganiana, è tornato. Certo, dopovent’anni passati in prigione è cambia-to: i suoi denti, ha scritto il New York Ti-mes, sono meno aguzzi. Ma il suo lookimpeccabile è già pronto a far di nuovotendenza: soppiantando, nelle vetrineamericane, lo stile vintage di Mad Man,a cui pure strizza l’occhio nelle forme at-tillate. Con una novità: il ritorno del tre

pezzi, ovvero il trionfo del gilè. La costumista del film è quella Ellen

Mirojnick che nel 1987 convinse Stone adisertare lo stile triste che imperava aWall Street, e a esprimere fascino e pote-re attraverso camicie col collo a contra-sto, polsini alla francese, bretelle efermacravatte vistosi. L’influen-za di Wall Street sulla moda ma-schile fu equiparabile a quellache, dieci anni dopo, Sex and theCity ebbe sulla moda femminile.E ora il nuovo film si prepara a farealtrettanto, visto che gloriose camicieriedi New York, da Jack Robie a Mohan’sCustom Tailors, hanno scritto ai clientiper suggerire cosa acquistare «toget the look», per ottenere l’effet-to: quello del nuovo Wall Street.

È il ritorno del preppy? Pa-re di sì se perfino LisaBirnbach, autrice diquella che negli anni Ot-tanta fu la Bibbia dei ric-coni, l’Official PreppyHandbook, attualizzale sue indicazioni dibon ton in un nuovomanuale intitolatoTrue Prep, It’s a WholeNew Old World. Perché la recessione hamesso un freno ai consumi e gli scanda-li hanno appannato il mito dei trader. Mala ruota della Borsa ha ricominciato a gi-rare e con lei i vecchi eroi: riveduti e cor-retti. Così lo stile-Wall Street si è fatto piùsottile: meno eccessivo e più libero negliaccoppiamenti. La linea matura dellecamicie button-down di Michael Dou-glas — e quella “ottimista” delle camiciebianche e a due bottoni di Shia LaBeouf— sposano abiti fatti su misura: salvoquello che il protagonista indossauscendo di prigione, un prêt-à-porterCanali. Poi, per dirlo con le parole dellacostumista, lo stile si «Gekkizza»: Dou-glas passa da squillanti camicie blu ad ar-diti abiti a strisce orizzontali con gilè. Fi-no a indossare la cravatta a una soiréedove tutti vestono in smoking e farfalli-no. Shia, invece, alterna abiti dai coloritenui che ne slanciano la figura e lo inte-grano al contesto metropolitano. E forsepiù lui, che il mitico Douglas-Gekko, og-gi incarna il nuovo stile Wall Street. Edecco dunque le cravatte-sciarpa di Her-mes indossate da LaBeouf, gli occhiali incellulosa Perreira Haston di Douglas,l’orologio Vacheron Costantin del catti-vo di turno, Josh Brolin. Elementi che de-finiscono immediatamente il caratteredei personaggi, raffinatezza, sapienza, osuperbia che sia. Destinati a essere imi-tati dai ricconi di Wall Street e dai falsaricinesi: imponendosi comunque comelo stile dell’inverno. «Il denaro non dor-me mai», dice il sottotitolo del film. Beh,il guardaroba nemmeno.

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L’oscurofascinoDow Jones

FREQUENT FLYERCartella porta computer della linea

Modus di Piquadro in pelle morbida

e dettagli in acciaio. Tasche per ogni

accessorio e fascia di aggancio al trolley

BUTTON DOWNSemplicemente

la camicia

per ogni uomo

che ama

la comodità

e la sicurezza

della tradizione

Ovviamente

firmata

Brooks

Brothers

CASUAL CHICPunta sul grigio

Rodrigo, la casa

del centauro,

e non rinuncia

a sdrammatizzare

con il pullover

CLASSICO/2Abito due bottoni

in lana, camicia slim fit

con collo allungato

Guanti anche

con la giacca

Canali, il classico

DOPPIOPETTORitorna il doppiopetto

abbinato con guanti

di pelle e scarpe

di coccodrillo

Il senso di Brioni

per il lusso

CLASSICO/1Cappotto cachemire

due bottoni

e immancabile

cartella

Un classico

firmato Zegna

ITALIAN STYLEL’antica arte

del made in Italy

che sa coniugare

l’alta sartoria

con la vita

in ufficio

È la formula

Sorisa

ALL IN ONECamicie rigate

con polsi doppi

e gemelli

con inserto

in tessuto

Per Xacus

il classico

bastoncino

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 3OTTOBRE 2010

“Ma è la personalitàa fare l’abito”

NEW YORK

E ra il 1896 quando John Brooks, nipotedi quell’Henry Sands Brooks che nel 1818 aprìa New York la sartoria che sarebbe poi diven-tata Brooks Brothers, segnò la fine dei colliposticci applicando alle camicie il button-down, un bottoncino ispirato alla chiusuradelle polo inglesi. Da Gary Cooper a CaryGrant, da Nelson Rockefeller a Jack Kerouac,quelle camicie sono diventate un mito. Quel-lo che nel 2001 ha convinto Claudio Del Vec-chio, l’erede del patron di Luxottica Leonar-do, a comprare il brand finito che nel frat-tempo era finito nelle mani di Marks&Spen-cer.

Una scena del nuovo “Wall Street” è gira-ta proprio davanti a uno dei vostri negozinewyorchesi, quello del Lincoln Center, asottolineare che siete l’icona di quel mondo.Qui d’altronde è un rito: il primo abito checompra chi debutta a Wall Street è sempreun Brooks...

«Il primo abito è una vecchia tradizionenewyorchese e un tempo tutti i professionistilo compravano da noi: diciamo che oggi sonodiminuiti i mestieri che lo pretendono…».

Richieste particolari dai mogul della fi-nanza?

«Più crescono i titoli, più eccentriche si fan-no le richieste. La verità è che non inventa piùniente nessuno: l’ultima vera rivoluzione fula nostra, centocinquant’anni fa. Dallo stiledei dandy inglesi a quello americano Brooks,nato per motivi pratici più che per moda. Fi-no ad allora i ricchi avevano i loro sarti: maNew York era un luogo di transito dove la gen-te approdava e proseguiva dopo pochi giorni.Brooks in pratica inventò il prêt-à-porter. Lacamicia con i bottoncini per cui siamo famo-si ha più di cent’anni: e non è mai passata di

moda».La sua prima Brooks?«Doveva essere il 1982. Gianni Agnel-

li era famoso per indossare solo cami-cie Brooks Brothers ed ero curioso. En-

trai e divenni subito cliente».Wall Street vi ama. E gli altri?

«Qui viene gente famosa tuttii giorni. D’altronde questo è unmarchio che fa profonda-mente parte della storia ame-ricana. Abbiamo disegnato ledivise per il generale Grant, gliabiti di Abramo Lincoln e altripresidenti, Barack Obama

compreso: vestiva un cappot-to Brooks il giorno del suo giura-

mento. Ogni nuovo cambio aWashington per noi è positivo:

molti nuovi eletti arrivano da Stati do-ve lo stile è più casual e quando devo-no crearsi un look da professionistidella politica vengono da noi».

Si lavora di più con la politica o conla finanza?

«Quando a Wall Street ci sono annibuoni e si pagano tanti bonus, tutti ci gua-

dagnano, non solo noi. Ma noi siamo so-pravvissuti a guerre, rivoluzioni e recessioni».

Cosa guarda in un uomo: l’abito, gli acces-sori? Quando sceglie un collaboratore, peresempio: cosa la colpisce oltre al curricu-lum?

«Credo poco all’immagine. L’importante ènon essere finti. Chi si presenta a un’intervi-sta di lavoro con un abito più elegante dei suoimodi fa solo male a se stesso. È la nostra filo-sofia d’altronde. Da noi il cliente coi jeans bu-cati conta quanto il signore con la cravatta. Èla personalità a fare il monaco. E dunque l’a-bito».

(an.lo.)

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NEW ENTRY

Nel sequel di Wall Streetfirmato Oliver Stone,

Belstaff veste Shia LaBeouf

(nella foto), il giovane attore

protagonista nel film al fianco

di Michael Douglas: è lui,

più che il “vecchio”

Gordon Gekko

a incarnare il nuovo

stile Wall Street

Tre i modelli

che indossa:

Lengfield, Money

e Phoenix

OXFORDLa scarpa inglese che parla italiano

La classica “oxford” di Church’s

in una delle infinite sfumature, taglie

e colori è solo uno dei modelli

JET LAGUna seconda lancetta

per un secondo fuso

orario. È il cronografo

Breitling Navimeter World

ANNI TRENTAHa riportato

il cappello

agli splendori

degli anni Trenta

osando a volte

anche accostamenti

cromatici audaci

Borsalino:

scommessa vinta

VINTAGESacca da viaggio

motivo vintage

in effetto lavato

con finiture in pelle

Chiusura con patta

in pelle impunturata

a mano

Per il giramondo

secondo Burberry

BLACK & SILVERGemelli in argento

925 e smalto nero

L’uomo Bulgari

non rinuncia

all’accostamento

tra il colore

dell’abito

e il particolare

DI POLSOUno dei gioielli della collezioneParsifal 2010 di Raymond WeilCronografo oro e acciaiocon rubini

LORDScarpe artigianali, dal taglio

manuale delle pelli, alle cuciture:

una oxford “Lord” targata Santoni

in vitello spazzolato

Claudio Del Vecchio, Brooks Brothers

Repubblica Nazionale

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3OTTOBRE 2010

l’incontro

‘‘

Utopisti metropolitani

La parola visionarionon è una paroladei nostri tempiperché si associaa momenti creativiE purtropponoi non stiamovivendo un momentoche stimola le idee

Da giovane ha fatto il giornalistae lo sceneggiatore. Poi ha cominciatoa progettare in tutto il mondo: teatri,musei, palazzi. “Del cronista

mi è rimasta la curiosità”dice oggi che a Veneziaha vinto il Leone d’oroalla carrieraC’è chi lo definiscesociologo e chi umanistaPer i nemici è solo

un cinico che flirta col potere“Io mi sento piuttosto un antropologo,ma non ho altre vite a disposizione”

VENEZIA

Rem Koolhaas, architettovisionario, noto in tutto ilmondo, per un’ora algiorno riesce a non pen-

sare. Succede appena si tuffa e, senza in-terruzioni, nuota. Mare, fiume o piscinanon fa differenza. Le leggende che lo cir-condano lo descrivono nelle acque diRotterdam, Mosca e Pechino. E lui, al-tezza che sorprende, giacca sbottonata,viso scavato e andatura dinoccolata,conferma con un sorriso appena accen-nato: «Nuotare è un’esperienza sociolo-gica e mi piace proprio perché è un fattosociale. Non c’è niente di più rivelatoreper capire come funziona un paese: rus-si, cinesi e indiani spesso si relazionanoal resto del mondo in base al loro aspet-to fisico, alla loro concezione del pudo-re. L’acqua è forse il solo luogo dove sirealizza un’utopia senza classi e dove cisi abbandona completamente senzastatus e pensieri».

Koolhaas è a Venezia, città d’acqua,dove in occasione della Biennale di ar-chitettura sta trascorrendo qualchegiorno di «non relax». Tra le calli la gen-te lo guarda, lo riconosce, qui è l’uomodel momento (ha appena vinto il Leoned’oro alla carriera che la giuria gli ha as-segnato per «aver ampliato le possibi-lità dell’architettura»), ma lui tira dritto.C’è chi dice sia poco simpatico. Forse èsolo un giovane sessantenne perenne-mente indaffarato.

Rem Koolhaas è un architetto ano-malo. Premiato con riconoscimenti co-me il Pritzker Prize e il Premium Impe-riale, nel 2008 citato dal Time come unadelle cento persone più influenti al

mondo, per alcuni è un «sociologo ur-bano», per altri un «umanista», per chi loama semplicemente un genio e per chinon lo sopporta un gelido cinico chenon disdegna di flirtare con il potere. Si-curamente le sue sono origini diverse daquelle di un qualsiasi progettista. Dagiovane, per pagarsi gli studi, scrive unmelodramma che ha come protagoni-sta un tedesco «buono» e con ciò scan-dalizza il suo paese, l’Olanda, che a queitempi non ci pensava proprio a perdo-nare il nazismo. Comincia a lavorare perun giornale, intervistando personaggicome Le Corbusier e Fellini, poi comesceneggiatore cinematografico. E anco-ra oggi, dopo tanti anni, qualcosa delpassato riaffiora e gli illumina lo sguar-do: «Mi è rimasta la curiosità del giorna-lista, ho un atteggiamento da cronistadesideroso di sapere come vanno le co-se nel presente e come potrebbero an-dare in futuro. Del resto la stesura di unarticolo somiglia a un progetto d’archi-tettura e ci sono le stesse relazioni nelmontaggio».

Nel ’78 scrive Delirius New York e lodefinisce «Un manifesto retroattivo perManhattan». Considerato un classicodell’architettura, affrontava costruzio-ne e temi sociali. «Quando ho scrittoquel libro la situazione era molto diver-sa, oggi le metropoli che sprigionano l’a-drenalina della New York di allora sonoalmeno trenta», spiega davanti a un«caffè macchiato» che ordina in italia-no. «E poi oggi ciò che m’interessa di piùnon è tanto il prototipo metropolitano,quanto ciò che è generato dall’abban-dono delle grandi città. Voglio capire co-me abita lo spazio chi vive in campagna.Del resto negli anni Ottanta ci appassio-nava come la modernizzazione potevaaiutare l’Europa, ora c’interessa di più lapreservazione».

A metà anni Settanta fonda a Londralo studio Oma (Office for MetropolitanArchitecture). Negli anni Novanta gli ab-bina Amo: laboratorio di riflessioni, pen-sieri e teorie. Le due creature lavoranoparallele. Da allora l’architettura di RemKhoolaas sembra non conoscere confi-ni: Rotterdam, New York, Parigi, Seattle,Fukuoka. Tra le opere più importanti, ilTeatro della Danza dell’Aja, il MuseoKunsthal a Rotterdam, il GuggenheimMuseum a Las Vegas, il Nexus Housing aFukuoka, il Grand Palais a Lille e la PublicLibrary di Seattle. Nella sua carriera ha ri-cevuto premi su premi ma, sostiene, ilsuccesso non gli ha cambiato l’esisten-za: «I riconoscimenti sono importantisolo perché testimoniano un rispettoche non può che far piacere, sarebbe as-surdo negarlo. Ma la vita vera rimane lastessa». Disegnando e progettando dagli

anni Settanta Koolhaas è stato testimo-ne di tanti cambiamenti. «Il nostro stu-dio ha cercato di restare al passo con itempi e mantenersi creativo. Per farequesto ci siamo organizzati con collabo-ratori di diverse nazionalità che ci hannoaiutato a mantenere un occhio globale.Per esempio, quando lavoravamo aHong Kong abbiamo aperto una sede,dove io stesso lavoravo per una settima-na al mese, con l’intenzione di assorbireil pensiero di Hong Kong nel nostro stu-dio olandese e non di esportare il pen-siero di Oma». Tutta la vita di Koohlaassembra cadenzata dal lavoro, anche selui si dichiara un «prestigiatore» che gio-ca con il tempo in grado di trasformaregli interminabili viaggi professionali inisole del privato: «In aereo leggo, vedofilm, penso e allora il volo diventa un mo-mento dedicato a me stesso».

La sua è un’architettura che lui defi-nisce per tutti: «La Casa della Musica diPorto, che generalmente è un tipo diedificio associato a un’élite, l’abbiamoresa usufruibile da chiunque costruen-

do un palazzo visibile anche dall’ester-no. Lo sforzo è di non escludere nessu-no, anzi, di riuscire ad ancorarsi a tutti ilivelli della popolazione». Tra i suoi vez-zi c’è quello di «costruire dove la demo-crazia non è ancora radicata». Ma, oggi,sul concetto di democrazia sente di do-ver fare una precisazione: «Dalla cadutadel Muro di Berlino l’economia di mer-cato si è fermata e si è pensato di sposta-re il modello di democrazia occidentaleovunque, ma questo non è possibile. Inpiù, per il modo come si manifesta oggi,la democrazia è molto meno attraentedi vent’anni fa». Tra le sue grandi pas-sioni resta quella per la Cina. La costru-zione della torre della Cctvdi Pechino gliha causato parecchi problemi e qualchecritica. C’è infatti chi lo ha accusato diaver progettato, senza troppi rimorsi,un monumento alla tv di Stato e dunqueal governo cinese. Ma lui taglia corto:«Noi abbiamo accettato il progetto co-me un’enorme sfida, proprio conside-rando le restrizioni».

Nel cuore e nella fantasia di Koolhaasc’è anche Singapore. Lo scritto Singapo-re Songlines, estratto dal suo tomo di piùdi mille e trecento pagine S, M, L, XL, ri-trae una città laboratorio, unica: «Rap-presenta la produzione ideologica degliultimi tre decenni. Singapore ha un regi-me che esclude la casualità, anche la suanatura è interamente rifatta. C’è inten-zione in tutto: se c’è caos è caos ideato, seè brutta è una bruttezza progettata, se c’èassurdo è un’assurdità voluta». Ma Sin-gapore Songlinesfu, per Koolhaas, anchel’occasione per criticare un Occidenteche ha avuto un ruolo di primissimo pia-no nel far sì che la metropoli si reinven-tasse su basi del tutto artificiali: «Siamomeno diversi da Singapore di quantosperavamo». Anche in Europa, accusa, cisono Paesi e città che sono cambiati inpeggio. Si guarda intorno, beve il secon-do caffè della mattinata e pensa a Vene-zia: «È cambiata tantissimo. Negli ultimitrent’anni ha perso vitalità, odori e uma-nità. Il Canal Grande era molto utilizza-to, e puzzava, ma forse proprio in questostava la sua bellezza. Il problema è chel’enorme attenzione che c’è in Europanei confronti del passato non riesce arenderci critici verso il presente».

Koolhaas è un provocatore, e sa con-traddirsi. Con la sua voce, sempre di untono sotto la media, lancia sfide sottili. Aitempi della nascita della Défense, a Pari-gi, disse che poteva essere considerato«obsoleto» tutto ciò che aveva più di ven-ticinque anni e che bisognava costruireuna città nuova al posto della vecchia.Eppure nella sua installazione presenta-ta in occasione della Biennale venezianaaffronta esattamente il tema della «pre-

servation». Attingendo dal proprio ar-chivio di edifici e foto ha sollecitato nelpubblico una riflessione sul tema dellaconservazione del patrimonio, sia natu-rale che costruito. «La preservazione èun punto chiave della modernità. Di so-lito, la scelta di conservare era conside-rata come una scelta opposta allo svi-luppo. Ultimamente, invece, non vienepiù recepita come antimoderna», spiegaalle persone incuriosite da un’installa-zione fatta di cartoline da staccare e daportare a casa. E, a chi lo accusa di avercambiato posizione, risponde secco: «Ilproblema è cosa e come conservare. Dauna parte c’è un’architettura prodottadalla crescita della market economy, chenon ha peso dal punto di vista pubblico,e può essere legata a un’idea di distru-zione. Quella non è stata prodotta perdurare. Poi c’è un’architettura legata aun’utopia pubblica contemporanea: edè questa che deve essere preservata».

Verso il grande circo che talvolta cir-conda il mondo dell’architettura è spie-tato. Non si considera una star ed è per-sino grato ai momenti difficili dell’eco-nomia, come quello attuale, che servonoa trovare un giusto equilibrio: «Dopo lacrisi degli ultimi anni si è dimostrato co-me il mercato fosse fatto di aria fritta. Orasi torna al sostanziale, alle cose realmen-te rilevanti». Khoolhaas è stato spessodefinito «sociologo urbano» Ma lui pre-ferisce un’altra parola: «Io mi sento unantropologo, che è quello che avrei volu-to fare se avessi avuto una seconda vita».A chi gli riconosce qualità di visionariocontesta l’essenza del termine: «La paro-la visionario non è dei nostri tempi per-ché si associa a momenti creativi. E pur-troppo noi non stiamo vivendo un mo-mento che stimola le idee».

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IRENE MARIA SCALISE

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Rem Koolhaas

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