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IL PUNTO Le notizie di LiberaUscita Dicembre 2013 - n° 114 SOMMARIO ARTICOLI 2997 - Il miracoloso stipendio dei preti in divisa - di Daniele Martini 2998 - Siamo liberi ma non padroni della vita – di Claudio Magris 2999 - La traviata: censurata perché inno alla laicità - di Paolo Valcepina 3000 - E dimentichiamo che siamo mortali - di Giuseppe Remuzzi 3001 - Il papa qualunque 3002 - Come sia possibile mistificare la realtà - di Avram Noam Chomsky 3003 - Chi sono gli obiettori di coscienza - di Chiara Lalli 3004 - Eutanasia, un’azione di amore e di pietas - di Umberto Veronesi DALL’ESTERO 3005 - Macedonia: polemiche per spot del governo contro l’aborto 3006 - Francia: la carta della laicità nelle scuole 3007 - Francia: umanizzare la morte - di Dominique Eddé 3008 - Francia: conferenza cittadini su legalizzazione suicidio assistito 3009 - G. Bretagna: la corte si pronuncerà sul fine vita - di John Bingham 3010 - Belgio: approvata legge per eutanasia bimbi incurabili 3011 - Belgio: il paese ai confini della vita - di Emanuele Trevi

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IL PUNTOLe notizie di LiberaUscita

Dicembre 2013 - n° 114

SOMMARIO

ARTICOLI2997 - Il miracoloso stipendio dei preti in divisa - di Daniele Martini2998 - Siamo liberi ma non padroni della vita – di Claudio Magris2999 - La traviata: censurata perché inno alla laicità - di Paolo Valcepina3000 - E dimentichiamo che siamo mortali - di Giuseppe Remuzzi3001 - Il papa qualunque 3002 - Come sia possibile mistificare la realtà - di Avram Noam Chomsky3003 - Chi sono gli obiettori di coscienza - di Chiara Lalli3004 - Eutanasia, un’azione di amore e di pietas - di Umberto Veronesi

DALL’ESTERO

3005 - Macedonia: polemiche per spot del governo contro l’aborto3006 - Francia: la carta della laicità nelle scuole 3007 - Francia: umanizzare la morte - di Dominique Eddé3008 - Francia: conferenza cittadini su legalizzazione suicidio assistito3009 - G. Bretagna: la corte si pronuncerà sul fine vita - di John Bingham3010 - Belgio: approvata legge per eutanasia bimbi incurabili3011 - Belgio: il paese ai confini della vita - di Emanuele Trevi

PER SORRIDERE…3012 - Le vignette di Bucchi – sì, sono italiano, ma…3013 - Le vignette di Altan – se fossimo un paese civile…3014 - Le vignette di Altan – l’anno sta per scadere…

LiberaUscita – associazione nazionale laica e apartitica per il diritto di morire con dignitàTel: 366.4539907 – Fax: 06.5126950 – email: [email protected] – web: www.liberauscita.it

2997 - IL MIRACOLOSO STIPENDIO DEI PRETI IN DIVISA - DI DANIELE MARTINIda: il Fatto di giovedì 5 dicembre 2013

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Don Renato Sacco, coordinatore del movimento Pax Christi e parroco di Verbania nella diocesi di Novara, riceve grazie all'8 per mille uno stipendio mensile di 1.200 euro netti per 12 mensilità. Il nuovo ordinario militare, monsignor Santo Marcianò, riscuote invece dallo Stato-ministero della Difesa un assegno cinque volte più sostanzioso per 13 mesi di fila, equivalente a quello di un generale di brigata. Più l'auto blu. Monsignor Marcianò è stato nominato ordinario poche settimane fa, il 10 ottobre, da papa Francesco. Il quale in questo caso evidentemente non se l'è sentita di mettere in discussione una pratica assai amata dalla Chiesa tradizionalista, ma che da più di mezzo secolo provoca lacerazioni nel popolo di Dio. Per esempio l'ultimo numero di Mosaico di pace, la rivista diretta da padre Alex Zanotelli, ha pubblicato un dossier di venti pagine molto critico sull'argomento.Al di là degli aspetti dottrinali, l'organizzazione di un corpo di cappellani militari assai ben pagati ed omaggiati mette in evidenza l'esistenza all'interno del clero di una specie di casta con le stellette, strutturata come una vera diocesi, addirittura con un proprio seminario piazzato nel bel mezzo delle caserme della città militare di Roma alla Cecchignola. L'Ordinariato militare ha uno suo arcivescovo-generale assistito da un vicario e 5 vicari episcopali più altri 176 religiosi con 3 auto blu a disposizione. Il loro status è regolato dal Concordato Stato-Chiesa del 1929 rinnovato nel 1984 ai tempi di Craxi presidente del Consiglio, e infine ritoccato da una legge di tre anni fa che ha precisato le condizioni giuridiche e l'avanzamento di carriera dei preti in uniforme. Tutti quanti, dall'ordinario militare al cappellano sono equiparati ad ufficiali delle Forze armate italiane e trattati come tali, con relativi vantaggi e privilegi, sia dal punto di vista della remunerazione sia della pensione. A un cappellano militare alle prime armi (è proprio il caso di dirlo) viene riconosciuto il grado di tenente con uno stipendio di 1.700 euro netti al mese. Dopo 15 anni, grazie all'avanzamento automatico della carriera e al ruolo più alto raggiunto, può contare su una paga tra i 3.500 e i 4.000 euro netti. I pensionati sono circa 160, tra cui 4 ordinari militari e 4 vicari. Gli ordinari riscuotono un assegno di oltre 4.500 euro netti, la maggioranza degli altri pensionati ha un trattamento da colonnello e quindi percepiscono circa 3.800 euro. Per il mantenimento dell’Ordinariato militare il Ministero della Difesa spende 17 milioni di euro ogni anno: 10 milioni per gli stipendi dei cappellani in servizio e 7 milioni per le pensioni dei preti soldato.In futuro quest'ultima cifra è destinata a crescere parecchio perché anche ai cappellani militari potrebbe essere riconosciuto quel vantaggiosissimo “scivolo d'oro” che il ministro ciellino della Difesa, Mario Mauro, sta regalando ai dipendenti delle Forze armate nonostante le terribili ristrettezze del bilancio statale. Il contingente militare dovrà scendere da un totale di 190 mila soldati a 150 mila nel giro di pochi anni e di conseguenza anche il numero dei cappellani militari dovrebbe essere ridotto di conseguenza. A quel punto si porrà la questione dell'esubero dei preti soldato ai quali è del tutto probabile che il ministro della Difesa voglia assicurare lo scivolo d'oro. In base a questo provvedimento i militari possono ritirarsi a 50 anni d'età con uno stipendio pari all'85 per cento di quello pieno più i contributi versati e calcolati sulla retribuzione di quando erano in attività. E se vorranno, potranno pure trovarsi un altro lavoro. Dopo 10 anni di questa pacchia potranno andarsene comodamente in pensione di vecchiaia a 60 anni (per i militari la legge Fornero non vale). E non è finita perché per i quattro anni successivi avranno diritto all'”ausiliaria”, cioè al recupero fino al 75 per cento dei benefici economici concessi ai colleghi in attività.Diventati una casta nella casta, i preti soldato dovranno allora fare i conti con un problema di coscienza in più. Non solo come conciliare le stellette con il messaggio evangelico di pace, ma con quale faccia presentarsi all'altare davanti alla comunità dei fedeli.

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2998 - SIAMO LIBERI MA NON PADRONI DELLA VITA – DI CLAUDIO MAGRISda: il Corriere della Sera di domenica 8 dicembre 2013Qualche settimana fa, due carabinieri hanno salvato in extremis un uomo che stava per suicidarsi e si era gettato nel vuoto con una corda al collo. Il fulmineo intervento è un’ulteriore decorazione sul medagliere dell’Arma, perché non è cosa da poco salvare una vita. In questo caso estremo non viene certo in mente alcun dubbio su quell’intervento così pronto. Ma fino a quando, fino a dove è lecito o giusto salvare la vita di qualcuno che vuole rifiutarla, rinunciarvi, fuggirla perché non la regge più? Se i carabinieri avessero fermato qualcuno mentre si recava in Svizzera o in altro posto per porre fine ai suoi giorni con un suicidio assistito, ciò sarebbe stato verosimilmente contestato come una violazione della libertà, una dogmatica costrizione a vivere imposta a chi non se ne sente più in grado, schiacciato e tormentato da un peso o da un dolore insopportabile.Ma è giustificata questa differenza - che certo in noi è istintiva e profonda - fra due modalità di impedire una morte o meglio fra due modalità di porre volutamente fine alla propria vita, una da rispettare e l’altra da impedire anche contro la volontà dell’interessato? Certo, in un caso si può presupporre una decisione meditata, una volontà razionalmente radicata nella persona, pienamente consapevole, mentre in altre circostanze si può pensare a una scelta dettata da un’esaltazione momentanea, priva di lucidità che non esprime una deliberata, cosciente e libera volontà, come il gesto di chi agisca alterato da una droga o da un violento choc. Ma, a parte casi particolarmente evidenti, chi si prende l’arbitrio di decidere sulla volontà di un altro, di stabilire che un altro vuole o non vuole veramente ciò che dice di volere, di desiderare, ciò che invoca? Saremmo felici se Monicelli o Lizzani - cui va il mio intenso e, nel caso di Lizzani, personalmente grato ricordo - fossero vivi, ma sarebbe stato lecito impedire loro ciò che hanno voluto? Siamo certi che i bambini sofferenti - cui in Belgio una proposta di legge vorrebbe dare la possibilità di richiedere l’eutanasia - abbiano una capacità di giudizio superiore a quella dell’uomo salvato dai carabinieri? E uno psicologo, esperto di una scienza non certo esatta e particolarmente esposta a interpretazione impressionistiche, è proprio certo che la sappia più lunga? E gli stessi genitori - non tutti necessariamente amorosi e specialmente non tutti necessariamente intelligenti e preparati, come dimostrano tante cronache - possono essere considerati «padroni» dei loro figli sino al punto di decidere della loro vita o della loro morte?Ci può essere un’implicita violenza, un superbo senso di superiorità nel credere che si possano legare le mani di chi vuole impiccarsi e che non si debba invece legarle a chi vuol prendere le pillole prescritte. Non sto certo scoraggiando chi ha generosamente e talora rischiosamente trattenuto un fratello sull’orlo del baratro e non sto propugnando l’obbligo di accanirsi a prolungare la vita a ogni costo e in ogni condizione, pure contro la volontà o anche solo contro la possibilità di sopportazione della persona. C’è un momento, hanno scritto teologi come Thiede o Sölle, in cui proprio il senso cristiano della finitezza umana e della vita come viaggio — anche comico, visto da lassù — aiuta a dire di sì alla sua conclusione e le mani, non più nevroticamente contratte, lasciano la presa. Non è la vita che va idolatrata, perché è difficile dire se il Big Bang sia stato un bene o un male; sono i viventi che vanno rispettati in tutte le fasi della loro esistenza, da quelle deboli degli inizi nel grembo materno a quelle deboli della fine e a tutte quelle intermedie, felici o dolorose.Altrimenti potrebbe diventare realtà la feroce, paradossale satira del grande Philip Dick — l’autore di tanti capolavori di fantascienza — quando in un racconto immagina che la liceità dell’aborto venga prolungata sino ai nove anni del figlio o della figlia. Inoltre c’è una fondamentale differenza tra chi invoca la morte, per sé o per gli altri, sotto la pressione di

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sofferenze insopportabili e chi vorrebbe stabilire un livello di «abilità» o di salute al di sotto del quale è lecito o magari socialmente ed economicamente auspicabile la soppressione del «disabile», come quella praticata dal nazismo con l’operazione «Aktion T4», volta, come ha ricordato di recente Marco Paolini, a eliminare migliaia di tedeschi «la cui vita non era degna di essere vissuta», senza chiedersi chi stabilisce quando una vita è degna o no di essere vissuta.È difficile avere, in queste cose, certezze. Probabilmente abbiamo perso la familiarità con la morte che aveva la civiltà classica, il senso concreto di far parte del gran fiume delle cose, come dice l’espressione cinese, del ciclo di aurora e tramonto, fiorire e appassire, aggregazione e disgregazione degli elementi. Si è forse data troppa importanza alla morte, permettendole di fare troppo il gradasso e di presentarsi come il trionfo del nulla e dell’insensatezza di tutto.Pochi giorni fa ha varcato la soglia finale un mio amico che ha contato e dunque conta moltissimo nella mia vita; Giovanni Gabrielli, grande studioso di diritto civile, grande avvocato e grande figura di quel mondo in cui il diritto è un timone della vita economica e civile di un Paese. Ma soprattutto, da sessantacinque anni — dalla prima media — mio compagno dei momenti anche dolorosi e difficili e di una continua invenzione festosa e ironica della vita, vissuta con impegno e serietà non seriosa, ma anche come gioco che spariglia le carte, come una risata felice. Tormentato da continui e sempre più estesi dolori e mai lamentoso, non ha permesso che la sua sofferenza e la sua morte, che sapeva imminente, incidessero sulla sua visione del mondo o lo inducessero a vaghe e ansiose filosofie del nulla. È stato sempre immune da quell’egocentrismo di chi sta male e pensa che questo suo male sia il centro del mondo e che tutti debbano pensare ad esso. La morte, diceva, non è il momento più importante né tantomeno decisivo dell’esistenza, conta ad esempio meno che non sposarsi, avere figli.Non parlavamo certo della morte nelle ore passate insieme negli ultimi mesi; abbiamo anche riso, come abbiamo fatto molto spesso per sessantacinque anni, a cominciare dal liceo, dove lui primeggiava come credo nessun altro — traduceva ardui brani di Tucidide in pochi minuti — e, quando un professore commetteva l’errore, involontariamente umiliante per gli altri, di chiamarlo «cavallo di razza», si metteva immediatamente a ragliare, cosa in cui eccelleva come negli aoristi. Abbiamo imparato insieme a ridere delle persone e delle cose che allo stesso tempo amavamo e rispettavamo, sapendole ben più grandi di noi, e a ridere di noi stessi — consci di essere comiche comparse nel teatro del mondo — e a considerare più che giuste le frequenti sanzioni disciplinari che ci venivano inflitte per il continuo subbuglio che provocavamo. L’ultimo dialogo con Gianni, pochissimi giorni prima della sua morte, è nato dalla sua preghiera, dal letto in cui giaceva sofferente, di spegnergli la televisione. Dopo qualche minuto in cui mi arrabattavo senza risultato col telecomando, mi ha detto, con una voce in cui c’era tutta la sessantacinquennale consapevolezza della mia incorreggibile inettitudine: «Dame qua, dame qua, fazzo mi».È un senso classico, della vita e dunque della morte, che occorrerebbe recuperare. Non a caso Gianni leggeva costantemente i classici, non solo greci ma anche e forse ancor più latini, meno accesi dal fuoco dell’assoluto metafisico e delle domande ultime e limpidamente radicati nella buona e dura terra con le sue fioriture e il loro appassire, la repubblica e le sue leggi, Plinio il giovane che chiede a Traiano come comportarsi con i cristiani e l’ imperatoria brevitas della dura risposta del sovrano. La classicità è ironica, perché insegna la necessità e la precarietà della precisione. Il latino insegna il nominativo e l’accusativo e, se non li si conosce o, peggio, li si scambia, non si sa chi è che ruba e chi è che è derubato e si finisce,

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come nell’immortale Pinocchio, per mettere in galera il derubato e lasciare libero il ladro. La parola classica, parola di una lingua morta, sembrerebbe dunque non voler dir niente e invece dice tante cose, dice quell’indicibile che si addensa dietro, intorno a ogni parola e a ogni situazione. La parola classica trasmette il senso della propria sicurezza e della propria precarietà; insegna che non si riesce a dire tutto e insegna la familiarità con la ricerca della verità, lo scetticismo circa la possibilità di afferrarla e la fede nella capacità di afferrare comunque in questa ricerca qualcosa di essenziale e imperituro. Trasmette soprattutto, con la sua grandiosa inutilità, l’ironia per tutta questa avventura. Quando il preside ci dava la pagella e ad alcuni di noi, ad esempio a me, diceva: «Si ricordi, Magris, qui proficit litteris sed deficit moribus magis deficit quam proficit», quel latino confermava ma anche smontava la serietà di quell’elogio e di quella predica. Pure il diritto di cui Gabrielli è un maestro, ha un suo affascinante umorismo linguistico che nasce dal rigore della classificazione e dal tacito senso della sua vanità. L’ironia è la più grande avversaria della morte, perché l’assume su di sé, ma come ci si cambia un soprabito.Forse bisognerebbe ritrovare concretamente, fisicamente il senso della morte quale sigillo della nostra appartenenza all’ordine naturale delle cose; viverla certo come mistero, ma senza la necessità di parlare troppo del mistero e delle cose nascoste e continuando, anche su quella soglia, a interessarsi delle cose relative ed effimere di cui ci si è interessati nella quotidianità, anche al corso di un titolo in Borsa. Un senso classico — romano più ancora che greco — invita a venerare l’imperscrutabile ma, proprio perché è imperscrutabile, a non angosciarsi nell’ossessivo tentativo di scrutarlo. Ciò non implica affatto necessariamente uno spirito irreligioso: le nostre contingenze — dice un bellissimo passo di una lettera di Biagio Marin al suo traduttore cinese — colorano l’eternità di Dio; sono il nostro modo di vivere quella «inafferrabilità di Dio» che, ricorda Alberto Melloni nel suo forte, incisivo libro Quel che resta di Dio, è proclamata con forza «martellante» nella Bibbia. Inafferrabilità dunque pure della nostra morte, che allora è meglio vivere come una parte prevista e normale nel teatro della nostra esistenza, i cui elementi ricevono l’ordine o decidono di rompere le righe.Certamente vi sono sofferenze inaudite, fisiche e psichiche, inflitte dalla sorte o dagli uomini che rendono impossibile ogni dignità classica e ogni composta uscita di scena al termine previsto dello spettacolo. La grande forza del cristianesimo è il bruciante tentativo di confrontarsi con l’infimo e l’estremo della condizione umana, talora così insostenibile e insopportabile da indurre non ad attendere di cadere, bensì a precipitarsi di propria volontà in quel buio che, scrive il teologo Karl Rahner parlando del suicidio, è l’oscura mano di Dio che sorregge come una rete chi cade, perché è inciampato o non ce la fa più.Morire è anche un diritto. Non perché si sia «padroni di sé stessi», come recita una rozza parola d’ordine; essere padroni è sempre un abuso, significa trattare gli altri come schiavi e anche trattare sé stessi da schiavi è un’umiliazione, un’alienazione che degrada e opprime il nostro Io.L’uomo è libero, il che è altra cosa da essere padrone (il quale ad esempio può essere schiavo di sé stesso, delle proprie brame, delle proprie ansie). Libero anche di non voler continuare a vivere. Ma questa autentica libertà non è un’orgogliosa e benpensante rivendicazione di diritti sindacali, come accade troppo spesso quando si parla di eutanasia, di suicidio assistito, con una soddisfatta retorica politically correct, ossia ipocrita, ferocemente sferzata da un dramma dello scrittore svedese Carl-Henning Wijkmark, La morte moderna.Questa libertà confina e sconfina con la responsabilità, con i rapporti con gli altri; il grande scrittore argentino Ernesto Sábato ha scritto di aver pensato alcune volte al suicidio e di essersene astenuto per non recare dolore agli altri, convinto che non sia lecito far soffrire

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nessuno, nemmeno un cane. Ma se uno non ce la fa, se il mondo che come Atlante egli regge sulle sue spalle è per lui troppo pesante e lo schianta, lo maciulla? Chi può imporre a un altro di sopportare sofferenze per lui insostenibili? Sofferenze che possono essere anche solo psichiche, ma non perciò meno crudeli e intollerabili. Forse si ha più comprensione per i dolori fisici che per quelli psichici e spirituali. Ma perché un cancro dovrebbe commuovere più di un’ossessione che occupa la mente sino alla disperazione?Il famoso giuramento di Ippocrate, che obbliga il medico a tutelare a ogni costo la vita e l’integrità del paziente, sembra cadere sempre più in discredito e si invoca che esso sia subordinato alla volontà del paziente, visto che si tratta della mente e del corpo del paziente e non del medico - né, beninteso, dei famigliari del paziente stesso, che non possono sovrapporre la loro volontà alla sua. Ma qual è, quale dovrebbe essere il confine di questa condiscendenza del medico al desiderio di chi gli chiede aiuto? Origene, grande teologo e interprete della Scrittura, si evirò, forse per aver offeso la continenza e per non offenderla più. Se un fanatico della purezza chiedesse al medico di evirarlo per evitargli tentazioni sessuali e pensieri impuri, il medico dovrebbe seguire la sua etica, che gli vieta di castrare il maniaco della castità, o rispettare la sua libera scelta?Talora nell’aiuto a chi vuole uscire di scena può insinuarsi un’orribile falsa pappa del cuore, la sentimentalità inconsapevolmente cinica di tante benintenzionate persone convinte di essere sensibili; talmente sensibili da non poter vedere accanto a sé alcuna sofferenza e alcun sofferente e profondamente sollevate quando sofferenza e sofferenti vengono tolti o si tolgono di mezzo. Ci sono persone così sensibili, diceva Bernanos, che non possono veder soffrire alcun animaletto e lo schiacciano subito, non per non farlo più soffrire, ma per non vederlo più soffrire.

2999 - LA TRAVIATA: CENSURATA PERCHÉ INNO ALLA LAICITÀ - DI P. VALCEPINAda: Cronache Laiche di domenica 1 dicembre 2013 Quest'anno al Teatro alla Scala di Milano la consueta inaugurazione del 7 dicembre, sant'Ambrogio, vedrà in scena la celeberrima opera verdiana La Traviata. Al di là dell'evento sociopolitico in sé, mondano come c'è da attendersi che sia, la "prima delle prime" italiana ripropone un capolavoro su cui molto s'è detto. Eppure vale la pena di riflettere insieme ancora una volta sul senso della storia di Violetta Valéry, alias Traviata, così come messa in scena da Giuseppe Verdi nel 1853.L'opera verdiana, in questo accomunata a non poche altre, ebbe l'ardire di presentare al pubblico di allora una vicenda del tempo di allora: un secolo di furfanti e prostitute, quello del romanticismo, che vide, accanto ad una spiritualità poco convenzionale, l'affermarsi dei primi bagliori di un nuovo razionalismo positivista.La storia della Traviata si riassume in poche righe: una dama ottocentesca, prostituta d'alto bordo, si innamora di un giovane di buona famiglia, Alfredo; l'amore è contrastato dal padre di lui, che grida allo scandalo ma infine si pente quando è ormai troppo tardi, lasciando la platea a commuoversi per la sorte di Violetta.Una trama modernissima in cui è scontata l'identificazione con la protagonista. Per questo la censura, letta la bozza del libretto che Francesco Maria Piave scrisse per Verdi adattando il noto romanzo autobiografico di Alexandre Dumas figlio, La dame aux camélias, fu implacabile: la vicenda, ordinarono i censori, si svolga semmai nel frivolo Settecento. E così fu, quantomeno per la prima (accolta a suon di fischi) alla Fenice di Venezia.Il buon Verdi, digerita questa modifica, dovette subirne un'altra ben più pesante. Nel 1854 per la rappresentazione al teatro Apollo di Roma, allora al centro dello Stato vaticano, la

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censura impose di cambiare di sana pianta il libretto fino a minarne il senso: Violetta diventò una donna innamorata, tradita da un Alfredo già promesso a un'altra donna. Una metamorfosi grottesca che solo la censura vaticana poteva immaginare.Ma perché Verdi avrebbe accettato sforbiciate così pesanti? La risposta è semplice. Anzitutto il grande operista mal accolse l'intervento, dichiarando testualmente che «la censura ha guastato il senso del dramma. Ha fatto la Traviata pura e innocente. Tante grazie! Così ha guastato tutte le posizioni, tutti i caratteri. Una puttana deve essere sempre puttana». E chiosò, degno d'un Galileo: «Se nella notte splendesse il sole, non vi sarebbe più notte».Ma Verdi fece buon viso a cattivo gioco anche perché poco altro poteva fare. Se Venezia si era limitata allo sfasamento temporale, Roma, che apparteneva allo Stato vaticano, impose addirittura un cambiamento di significato. E ci volle l'unità d'Italia perché la vicenda venisse riabilitata così come si era svolta, come narrata da Dumas figlio e ripresa da Piave per l'opera di Verdi.Così il famoso "viva Verdi", dietro il quale si celava l'invocazione all'unità del nostro Paese, non fu solo un motto politico ma anche un inno alla laicità e alla libertà da inaccettabili precetti religiosi, anche in nome della musica.

3000 - E DIMENTICHIAMO CHE SIAMO MORTALI - DI GIUSEPPE REMUZZIda: il Corriere della Sera di domenica 15 dicembre 2013 Nel mio ospedale in questi giorni è stato fatto un piccolo miracolo: un uomo non più giovane, con il diabete e tanto d'altro, riceve un trapianto di fegato, rene e pancreas.Sarebbe morto di lì a poco, le possibilità di guarirlo erano poche, lo si è fatto lo stesso. Adesso quell'uomo sta bene.Se c'è una chance anche remota di riuscirci, è giusto andare avanti, e lo si deve fare sempre. Non solo: oggi si muore soprattutto di cuore, di malattie respiratorie croniche, di cancro e di diabete e la metà di quelli che muoiono così ha meno di settantanni. Sono tutte morti evitabili. Per loro - e per i bambini, che muoiono ancora di asma, tumori e diabete anche nei Paesi ricchi - si dovrebbe fare di più. Ma non è sempre così.«Viene uno con trecento malattie: perché deve morire in rianimazione dopo mesi di ventilazione meccanica? Non è umano, siamo mortali e dovremmo poterlo accettare». È un infermiere che parla, hanno buon senso gli infermieri. Siamo mortali, ma ce ne dimentichiamo e alla medicina (e ai medici) chiediamo sempre di più. È giusto? Forse no. E spendere fino al 30 per cento del budget della Sanità per gli ultimi sei mesi di vita di persone molto malate e molto anziane è quasi certamente un errore. Quelle persone muoiono comunque, ma muoiono disperate.Una signora di 88 anni con un'occlusione delle coronarie vent'anni fa sarebbe morta nel suo letto vicino ai suoi cari, li avrebbe potuti salutare e loro se ne sarebbero ricordati per tutta la

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vita. Adesso non è più così. A 88 anni, con un dolore al petto, la signora finisce al pronto soccorso (è successo ad Anna) e poi in una sala di emodinamica. Lì, con un catetere, le liberano le coronarie dai trombi e ci mettono una molletta - stent - per tenerle aperte. Dopo una certa età però risolvere un problema vuol dire quasi sempre farne saltar fuori un altro, spesso più grave. Anna, finito l'intervento, ha i piedi freddi (nel liberare le coronarie possono partire emboli che arrivano giù, fino alle gambe, e limitano il flusso del sangue). «Vedremo...», dicono i medici.Ma i piedi vanno sempre peggio, si formano delle piaghe che poi si infettano, febbre e dolori insopportabili. Anna in ospedale non può più stare, ma ha bisogno di medicazioni tutti i giorni e di antibiotici endovena, difficile farlo a casa. Segue un mese d'inferno, i dolori alle gambe non la lasciano mai. Una sera, Anna ha mal di testa e perde conoscenza, la Tac rivela un'emorragia cerebrale (è per via degli anticoagulanti, che le hanno dato per evitare che lo stent si chiudesse). La portano in rianimazione. Dopo un po' si riprende, ma si esprime con fatica, non muove più il braccio destro e nemmeno la gamba da quella parte. I piedi vanno sempre peggio. «Bisogna amputare - dicono i medici - a livello della coscia, almeno a sinistra, poi si vedrà».Anna non capisce, non può decidere. L'amputazione alla fine si fa. Dopo l'intervento non c'è più urina: un po' perché gli emboli sono finiti anche nei reni e un po' per l'infezione. Serve la dialisi, quattro ore al giorno per tre giorni alla settimana, ci si deve organizzare. Anna vive ancora tre anni senza poter comunicare. Quello che resta del suo corpo è stato in balia di tante persone anche per le cose più intime, i familiari sono sfiniti dalla fatica e senza più un soldo.Ne valeva la pena? Penso di no. Ci si sarebbe dovuti fermare prima; la molletta nel cuore a una donna di 88 anni con le coronarie molto malate forse non andava messa. Ci sono farmaci che migliorano il flusso di sangue in quelle arterie e tolgono il dolore. Non è detto che allunghino la vita (ma questo a quell'età non succede nemmeno con gli stent), ma si muore molto meglio. E non è che Anna sia stata particolarmente sfortunata. Cose così e anche peggio capitano ogni giorno in tutti gli ospedali di tutti i Paesi del mondo. I medici lo sanno benissimo e fanno poco o nulla.È più facile non decidere. Continuiamo a prescrivere statine a persone con più di ottant'anni, perché proteggono dall'infarto. Ma di qualcosa si deve pur morire, se di volta in volta chiudiamo ogni possibile via d'uscita (exit strategy) avremo sempre più tumori e sempre più ammalati di Alzheimer. Anche con la demenza l'organismo ha il suo modo per uscire di scena: non si deglutisce più bene, viene una polmonite da aspirazione di materiale alimentare e di solito si muore.0 meglio si moriva, adesso non più. I medici fanno un foro nello stomaco e ti alimentano in quel modo lì. Per la polmonite, se è grave, ci sono macchine che respirano per te, però ti devono sedare e metterti un tubo in trachea e legarti a una macchina. Negli Stati Uniti il 50 per cento di chi ha qualche forma di demenza legata all'età muore incosciente e pieno di tubi. Davvero è così che ciascuno di noi vorrebbe morire?Fare il medico è rianimare, certo, ma anche saper sospendere le cure quando sono inutili. Ho visto persone di più di ottant'anni con il diabete, già diversi by-pass al cuore, un tumore all'intestino con metastasi alle ossa e ai polmoni, tenute in vita con la dialisi e il respiratore artificiale. Un ammalato così non ha nessuna prospettiva. E allora perché si va avanti?

3001 - IL PAPA QUALUNQUE da: Cronachelaiche.it del 18 dicembre 2013 riportiamo una citazione di Luigi Castaldi

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“Né biblista né teologo né catechista, ma esperto in pubbliche relazioni. Quello di cui la Chiesa aveva maggior bisogno”.

3002 - COME SIA POSSIBILE MISTIFICARE LA REALTÀ - DI AVRAM NOAM CHOMSKYIl nostro socio Mauro Scarpellini ha accompagnato i suoi auguri di buon anno con la sottoriportata riflessione di Avram Noam Chomsky. Linguista, filosofo e teorico della comunicazione statunitense, socialista libertario, Professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, padre della creatività del linguaggio, definito dal New York Times “il più grande intellettuale vivente”, Avram Noam Chomsky spiega attraverso dieci regole come sia possibile mistificare la realtà. La necessaria premessa è che i più grandi mezzi di comunicazione sono nelle mani dei grandi potentati economico-finanziari, interessati a filtrare solo determinati messaggi.1) La strategia della distrazione, fondamentale, per le grandi lobby di potere, al fine di mantenere l’attenzione del pubblico concentrata su argomenti poco importanti, così da portare il comune cittadino ad interessarsi a fatti in realtà insignificanti. Per esempio, l’esasperata concentrazione su alcuni fatti di cronaca (Bruno Vespa é un maestro), molte trasmissioni-contenitore della TV.2) Il principio del problema-soluzione-problema: si inventa a tavolino un problema, per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Un esempio? Mettere in ansia la popolazione dando risalto all’esistenza di epidemie, come la febbre aviaria, creando ingiustificato allarmismo, con l’obiettivo di vendere farmaci che altrimenti resterebbero inutilizzati.3) La strategia della gradualità. Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socio-economiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni 80 e 90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.4) La strategia del differimento. Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quello di presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, al momento, per un’applicazione futura. Parlare continuamente dello spread per far accettare le “necessarie” misure di austerità come se non esistesse una politica economica diversa.5) Rivolgersi al pubblico come se si parlasse ad un bambino. Più si cerca di ingannare lo spettatore, più si tende ad usare un tono infantile. Per esempio, diversi programmi delle trasmissioni generaliste. Il motivo? Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni, in base alla suggestionabilità, lei tenderà ad una risposta probabilmente sprovvista di senso critico, come un bambino di 12 anni appunto.6) Puntare sull’aspetto emotivo molto più che sulla riflessione. L’emozione, infatti, spesso manda in tilt la parte razionale dell’individuo, rendendolo più facilmente influenzabile.7) Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità. Pochi, per esempio, conoscono cosa sia il gruppo di Bilderberg e la Commissione Trilaterale. E molti continueranno ad ignorarlo, a meno che non si rivolgano direttamente ad Internet.8) Imporre modelli di comportamento. Controllare individui omologati é molto più facile che gestire individui pensanti. I modelli imposti dalla pubblicità sono funzionali a questo progetto.9) L’autocolpevolizzazione. Si tende, in pratica, a far credere all’individuo che egli stesso sia l’unica causa dei propri insuccessi e della propria disgrazia. Così invece di suscitare la ribellione contro un sistema economico che l’ha ridotto ai margini, l’individuo si sottostima, si svaluta e addirittura, si autoflagella. I giovani, per esempio, che non trovano lavoro sono stati

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definiti di volta in volta, “sfigati”, choosy”, “bamboccioni”. In pratica, é colpa loro se non trovano lavoro, non del sistema.10) I media puntano a conoscere gli individui più di quanto essi stessi si conoscano, mediante sondaggi, studi comportamentali, operazioni di feed back scientificamente programmate senza che l’utente-lettore-spettatore ne sappia nulla, e questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un gran potere sul pubblico, maggiore di quello che lo stesso cittadino esercita su sé stesso.

3003 - CHI SONO GLI OBIETTORI DI COSCIENZA - DI CHIARA LALLIBrano estratto da: Micromega n° 9/2013Oggi la risposta più frequente sarebbe: i ginecologi che non vogliono eseguire interruzioni di gravidanza (IVG) per ragioni “di coscienza”. Alcuni anni fa sarebbe stata diversa: l’incarnazione più genuina dell’obiettore di coscienza era il ragazzo che riceveva la cartolina precetto e rifiutava di fare il servizio di leva obbligatorio finendo in carcere. A lungo questa scelta è stata oggetto di riprovazione morale, condannata dai tribunali e dalle gerarchie cattoliche in nome di una “difesa della patria” che non poteva che passare per le armi. Ci sono stati molti casi di persone processate e mandate in carcere per aver strappato la cartolina, e persone accusate di apologie di reato per aver difeso pubblicamente quella scelta (tra i casi più noti, quelli di Pietro Pinna, Aldo Capitini, padre Ernesto Balducci, Giuseppe Gozzini, don Lorenzo Milani).Che cosa è successo alla obiezione di coscienza?Nel corso di alcuni anni c’è stato un profondo slittamento semantico che ha trasformato una scelta individuale e libertaria in un’imposizione della propria visione morale, a volte moralista, ipocrita, prossima all’omissione di servizio, e che ha spinto una pratica sanitaria in un terreno di scontro di coscienze.Come possiamo chiamare nello stesso modo il ginecologo che non vuole eseguire aborti e chi rifiutava l’obbligo di leva armata?Le differenze sono enormi e impediscono paragoni affrettati: la cartolina ti arrivava senza che tu avessi compiuto alcuna scelta, il prezzo da pagare era altissimo (condanna sociale, processi, galera). La tua scelta non ricadeva sulle spalle di nessun altro, non entrava in conflitto con i diritti di un altro individuo ma con un obbligo generale ed astratto.Il ginecologo obiettore ha deciso liberamente di fare il ginecologo e di esercitare la sua professione nel pubblico. Essere obiettore non è una scelta che comporta una qualche conseguenza, ma è anzi una scelta comoda. Si lavora anche di meno. La 194 non prevede nemmeno alcun servizio alternativo, com’era stato per l’obbligo di leva quando negli anni Settanta era stata riconosciuta la possibilità del servizio alternativo alla leva armata. La garanzia del servizio di IVG sarebbe un obbligo – uno dei doveri professionali di chi ha scelto di lavorare nell’ambito della riproduzione umana – conseguente a una libera scelta professionale, e nulla ha a che fare con l’obbligo di leva.Per alcuni, è anche una scelta ipocrita: molti obiettori continuano a suggerire e a eseguire diagnosi prenatali, tirandosi poi indietro se la decisione della donna è di interrompere la gravidanza. Spesso senza nemmeno indicare loro un medico non obiettore- come la legge impone e come la coscienza medica e personale dovrebbe suggerire – ma dicendo: “Sono obiettore, non posso intervenire”.E’ bene sapere che le donne che chiedono o accettano di eseguire indagini prenatali sono in genere donne che vogliono poter scegliere. Quelle che invece sono convinte che non interromperebbero mai una gravidanza, anche in presenza di patologie fetali importanti, non vogliono sapere. Non vogliono eseguire diagnosi prenatali, non solo perché presentano un

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rischio di aborto, ma soprattutto perché quella informazione non ha senso, e non la vogliono. “Sapremo al parto”, dicono. Se è indubitabile che l’obiezione di coscienza sia un diritto, è altrettanto indubitabile che la suddetta affermazione abbia un significato ambiguo, strettamente vincolato al contesto. Cosa intendiamo per obiezione di coscienza? Quella contra legem del militare, o quella intra legem del ginecologo? Quella che rivendicava una scelta individuale, o quella addomesticata e risucchiata dalla legge? E perché è stata usata la stessa espressione, perché non chiamare opzione o facoltà l’esonero concesso dalla 194, visto che non si oppone ad alcun obbligo, ma è anzi regolata dalla norma stessa?Inoltre dobbiamo ricordare che nessun diritto è assoluto, ma dipende dagli altri diritti con cui può entrare in conflitto – in questo caso la garanzia del servizio di IVG – e con i doveri professionali. La 194, pur prevedendo la possibilità di ricorrere all’obiezione, traccia confini abbastanza chiari e stabilisce la gerarchia da seguire; prima la richiesta della donna, poi la coscienza dell’operatore sanitario. Tuttavia, questi confini sono violati sempre più spesso e con un’inspiegabile strafottenza.C’è infine un’altra conseguenza: isola l’IVG, allontanarla dal dominio della salute riproduttiva. Renderla un’eccezione, una questione più morale che medica, una questione di coscienza – come se solo i ginecologi ne avessero una.(seguita su Micromega)…..

3004 - EUTANASIA, UN’AZIONE DI AMORE E DI PIETAS - DI UMBERTO VERONESIBrano estratto da Micromega n. 9/2013Mentre la scienza spiega che morire è biologicamente necessario e la medicina ha la possibilità dì ridurre significatamente il dolore, in Italia è forte la crociata ideologica contro I'eutanasia tanto alimentata dal sedicente fronte pro vita. Il tema è invece I'autodeterminazione e la libertà di scelta di ognuno: nessuno può decidere al posto di un altro se la vita è degno dì essere vissuta o no.Sono convinto che sia necessaria una nuova definizione di eutanasia, un termine oggi troppo carico di significati ideologici, che hanno creato schieramenti fittizi e fuorvianti.Il termine eutanasia (dal greco “buona morte”) viene coniato da Francis Bacon per invitare i medici a ridurre con ogni mezzo lecito la sofferenza nella fase terminale. Nei secoli ha assunto tuttavia significati diversi, e durante il nazismo è stato usato per rnascherare le eliminazioni di massa di esseri umani. Quindi la parola ha assunto significati sinistri. Un esempio viene dal sistema penale americano, dove il condannato a morte viene in quasi tutti gli Stati giustiziato con un processo eutanasico. Si inocula in vena un sedativo e ipnotico e poi la sostanza letale. Certo, questa è una morte più “buona" di quella con la sedia elettrica o I'impiccagione, ma la differenza con I'eutanasia di Bacon è sostanziale. Mentre l’eutanasia in un malato terminale riflette la scelta e la volontà del paziente (quindi si può parlare di suicidio assistito), nell'esecuzione di un condannato a morte non vi è certo la volontà del carcerato, si può quindi definire omicidio assistito, ma pur sempre un omicidio e non sorprende quindi che l'Ordine dei medici americani abbia invitato i suoi iscritti a rifiutarsi di eseguirla.In Italia chi è contrario all'eutanasia si autodefinisce “pro vita”, come se chi è favorevole fosse ”pro morte”. La questione va posta, semmai, nei termini quasi opposti: si tratta di considerare giusta o no, legittima o no, la libera decisione di una persona di porre fine a una vita che non considera più vita, ma soltanto un susseguirsi di ore di dolore e sofferenze insopportabili.Si attribuiscono inoltre al termine eutanasia diversi atti legati all’indurre una “buona morte”. Come ho già avuto modo di chiarire nel libro Responsabilità della vita, scritto a quattro mani

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con il professor Giovanni Reale, il “primo, il più semplice, è quello di abbandonare le terapie perché ritenute ormai inefficaci e quindi inutili (potremmo definire il lasciar morire); il secondo è quello di aumentare progressivamente le dosi di oppiacei sino ad accelerare il processo della morte (l'aiutare a morire) e il terzo è quello di intervenire con un farmaco mortale o con I'eliminazione di un sostegno vitale su richiesta esplicita, ripetuta, testimoniata, di un paziente terminale che non riesce più a sopportare le sofferenze di una vita ormai senza speranza (quindi fare morire)”. Non c'è dubbio che le tre forme descritte sono lontane I'una dall'altra dal punto di vista giuridico, ma non lo sono dal punto di vista filosofico ed etico. In realtà le tre modalità hanno tutte in comune la stessa origine e motivazione: la pietà per un sofferente che ha l'unico desiderio di porre fine il prima possibile al suo dolore. Pietà nel primo caso togliendo di mezzo terapie pesanti e inutili e favorendo quindi un trapasso “naturale”; pietà anche nel secondo caso, in cui il medico escogita un mezzo semplice (la morfina e farmaci simili in dosi scalari), per rendere priva di dolori questa fase terminale del paziente, anche se la durata della vita viene irrimediabilmente abbreviata; pietà infine nel terzo caso perché si esaudisce la lucida volontà di un paziente gravemente sofferente di anticipare la fine di dolore fisico e sofferenza.Se siamo d'accordo che la pietà è il prirnum movens e il fattore comune, ciò che cambia invece nei tre atteggiamenti è la responsabilità del medico.Nel primo caso, il “lasciar morire”, I'abbandono delle terapie sproporzionate o comunque inutili (il cosiddetto accanimento terapeutico) è deciso dal medico, o dai medici, d'accordo con i familiari. Spesso vi sono diverse opinioni fra i medici oppure differenza di opinioni tra i medici e i familiari. Quindi il paziente non partecipa direttamente alla decisione e, anche se esprime il suo orientamento, non è un soggetto, ma un oggetto nelle mani dei curanti e non esercita il suo diritto all'autodeterminazione. Nel secondo caso, l'"aiutare a morire”, è ancora il medico che decide l’atto di sedazione con oppiacei, con dosi progressive, sino ad anticipare la morte, anche se il paziente è consapevole di quanto sta facendo il medico e quindi partecipa solo parzialmente alla decisione. Nel terzo caso, “far morire”, senza dubbio è il paziente a decidere: è lui a chiedere I'interruzione non solo delle cure, ma della vita stessa, chiedendo ripetutamente e consapevolmente di terminare le sue sofferenze. Il medico, che di regola non ama per nulla le iniezioni letali o altri atti che inducono la morte, è quindi la figura critica ed è a lui che si presenta il dilemma dell'eutanasia. tanto più in assenza di una legge e persino di un dibattito, come avviene nel nostro Paese. Di fronte a una richiesta di eutanasia o si rifiuta per motivi legali e di coscienza personale, o si rifà al suo dovere etico di mettere in atto le decisioni del suo paziente. In ogni caso la decisione è molto difficile e fonte non solo di crisi individuali, ma anche di problemi concreti per la sua professione. Basta pensare alla vicenda di Mario Riccio, il medico che staccò la spina del ventilatore di Piergiorgio Welby, il caso recente di richiesta di eutanasia più noto. Riccio fu processato non solo dai tribunali, ma prima di tutto dalla pubblica opinione e sono convinto che ci sia voluto molto tempo per lui prima di poter tornare a una vita professionale normale. Ora, se vogliamo dare una collocazione formale alla modalità con cui si è conclusa la vicenda di Welby, dobbiamo concordare sul fatto che si è trattato di una modalità del primo tipo, cioè “lasciar morire”. Tutti infatti concordiamo sul fatto che la ventilazione forzata, nella condizione di Welby, (malato di una grave forma di sclerosi laterale amiotrofica), è una tortura sottoforma di terapia.

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Tuttavia con una particolarità importante: che la decisione non è stata presa, come di consueto, dai medici, ma dallo stesso Welby, che da tempo implorava di essere liberato dal respiratore, dal quale dipendeva tuttavia la sua vita che diventava ogni giorno più dolorosa e priva di dignità. La vicenda è dunque borderline fra abbandono di terapie sproporzionate e suicidio assistito. Per i non credenti, come me, la collocazione non è fondamentale: Welby non voleva più vivere quella vita, ha chiesto di essere aiutato ad abbandonarla e un medico coraggioso, e animato da vera pietà, l'ha ascoltato. Per un uomo di fede invece la questione è cruciale perché l'abbandono delle cure in caso di accanimento, che io chiamo “desistenza terapeutica”, può essere ammesso, mentre il suicidio non può esserlo per nessun motivo. Un caso di desistenza terapeutica è stato quello di papa Wojtyla: fu una rinuncia, su richiesta del malato, a cure che avrebbero configurato l’accanimento terapeutico. In questo senso le parole del papa “lasciatemi andare alla casa del padre” (pronunciate o scritte, perché il papa subì una tracheotomia nella fase terminale della sua malattia, il morbo di Parkinson) sono, a mio parere, inequivocabili. Il caso di Welby fu invece evidentemente giudicato suicidio assistito, tant'è vero che la curia non concesse i funerali religiosi. Un atto formalmente comprensibile, ma indiscutibilmente disumano. La causa di questo dissidio profondo fra credenti e non credenti è da ricercare nella concezione stessa della vita. Per il credente la vita è dono e proprietà di Dio, che ne dispone completamente decidendo come e quando darla, e come e quando toglierla all’uomo. Per il non credente invece la vita, indipendentemente dalla sua origine, è una responsabilità dell’individuo, in base alla quale ogni persona ha il diritto di scegliere, e dunque determinare, la sua vita. Da qui discendono i diritti fondamentali della persona: diritto a formarsi o non formarsi una famiglia, a una giustizia equa, all’istruzione, al lavoro, alla procreazione consapevole, a scegliere il proprio domicilio, alle cure mediche, a non soffrire, diritto di morire.(seguita su Micromega)……..

3005 - MACEDONIA: POLEMICHE PER SPOT DEL GOVERNO CONTRO L’ABORTOda: Aduc avvertenze n° 48/2013 E' polemica nell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom) per la decisione del governo di proseguire la trasmissione di uno spot televisivo "anti-aborto". Il video originale, che era stato trasmesso per la prima volta tre mesi fa, mostrava un medico che si congratulava ironicamente con il partner di una donna che aveva interrotto la gravidanza: "Mi congratulo con lei: ha appena ucciso un neonato in buona salute". La Commissione di vigilanza per le trasmissioni (Srd) aveva ritenuto lo spot inadatto perché paragonava tutti gli aborti a omicidi, e ne aveva vietato la diffusione. Il governo ha però deciso di trasmettere una nuova versione del video, aggiungendo la scritta "Censurato dalla Srd" nella parte finale incriminata. Inoltre, alla fine dello spot adesso compaiono le parole del premio Nobel per la Pace, Madre Teresa (che è originaria di Skopje): "E' deplorevole che un bambino debba morire per permetterti di vivere la vita che vuoi tu. Un aborto fa due vittime: il bambino e la tua coscienza perduta".Il Parlamento macedone aveva adottato lo scorso giugno la legge che modifica la cessazione della gravidanza. I deputati dell'opposizione non avevano partecipato al dibattito e al voto in segno di protesta. Contro il decreto, presentato in parlamento dal governo di centrodestra guidato dal premier Nikola Gruevski, si è così espresso un solo deputato. In base alle modifiche proposte, le donne che intendono abortire dopo la decima settimana di gravidanza dovranno presentare una richiesta specifica presso il ministero della Salute, affermando di

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aver ascolto il parere di consulenti specializzati, aver informato il partner o il coniuge e di aver incontrato un ginecologo. L'agenzia d'informazione "Mia" riferisce inoltre che la nuova legge vieta alle donne di avere un secondo aborto entro un anno dal primo.

3006 - FRANCIA: LA CARTA DELLA LAICITÀ NELLE SCUOLE da: www.ilfoglio.itVincent Peillon, filosofo e attuale ministro francese dell’istruzione, ha messo a punto e diffuso nelle scuole francesi una “Carta della laicità” che ha suscitato vivaci polemiche e accuse di antireligiosità. Se ne riporta qui sotto il testo.1. La nazione sancisce come missione fondamentale della scuola non solo la trasmissione di conoscenze, ma anche la condivisione con gli alunni dei valori della Repubblica.La Repubblica è laica2. La Francia è una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa garantisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge sull’intero territorio e rispetta tutte le religioni.3. La repubblica laica stabilisce la separazione tra le religioni e lo stato, che è neutrale nei confronti delle convinzioni religiose o spirituali. Non esiste una religione di stato.4. La laicità garantisce la libertà di coscienza di tutti: ognuno è libero di credere o non credere. Essa permette la libera espressione delle proprie convinzioni, nel rispetto di quelle degli altri e nei limiti dell’ordine pubblico.5. La laicità consente l’esercizio della cittadinanza, conciliando la libertà di ciascuno con l’uguaglianza e la fraternità di tutti, nel contesto dell’interesse generale. 6. La repubblica garantisce il rispetto di tutti i propri principi negli istituti scolastici.La scuola è laica7. La laicità della scuola offre agli studenti le condizioni adeguate per forgiare la propria personalità, esercitare il libero arbitrio e formarsi alla cittadinanza. Essa li tutela da qualsiasi forma di proselitismo e da ogni pressione passibile di pregiudicare le loro libere scelte.8. Essa garantisce l’accesso a una cultura comune e condivisa.9. Consente agli studenti l’esercizio della libertà di espressione nei limiti del buon andamento della scuola e del pluralismo delle convinzioni.10. Stabilisce il rifiuto di ogni violenza e discriminazione, garantisce l’uguaglianza tra maschi e femmine e trova il proprio fondamento nella cultura del rispetto e della comprensione dell’altro.11. Tutto il personale è tenuto a trasmettere agli studenti il senso e il valore della laicità, come pure degli altri principi fondamentali della repubblica, nonché a vigilare sulla loro applicazione nel contesto scolastico.12. Il personale è altresì tenuto a portare la presente carta a conoscenza dei genitori degli studenti.13. Il personale deve essere assolutamente neutrale: nell’esercizio delle proprie funzioni non deve pertanto esprimere le proprie convinzioni politiche o religiose.14. Gli insegnamenti sono laici. Al fine di garantire agli studenti l’apertura più obiettiva possibile alle diverse concezioni del mondo, nonché alla vastità e alla correttezza dei saperi, nessuna materia è esclusa a priori dalla sfera scientifica e pedagogica.15. Nessuno studente può appellarsi a una convinzione politica o religiosa per contestare a un insegnante il diritto di trattare una parte del programma.16. Le norme di comportamento relative ai diversi ambienti scolastici, specificate nel regolamento interno, sono rispettose della laicità. E’ vietato invocare la propria appartenenza religiosa per rifiutare di conformarsi alle regole applicabili nella scuola della repubblica. Negli

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istituti scolastici pubblici è vietato esibire simboli o divise tramite i quali gli studenti ostentino palesemente un’appartenenza religiosa.17. Con le loro riflessioni e le loro attività, gli studenti hanno la responsabilità di diffonderequesti valori all’interno del proprio istituto.

3007 - FRANCIA: UMANIZZARE LA MORTE - DI DOMINIQUE EDDÉda: Libération del 4 dicembre 2013Bernard e Georgette Cazes, entrambi di 86 anni, si sono suicidati, all'hotel Lutetia, venerdì 22 novembre. Volevano lasciare la vita prima che la stessa li portasse al degrado o li separasse. Hanno organizzato tutto per compiere questo ultimo viaggio, pianificato da lunga data, come lo volevano: con dolcezza. Invano.La società in cui viviamo non è in grado di avere a che fare con la morte. Essa non è in grado di distinguere tra coloro che occorre aiutare a vivere e coloro che occorre aiutare ad andarsene. Sarebbe bastato poco, una pillola letale, per queste due persone lucide e con un esemplare coraggio per addormentarsi senza soffrire, uno nelle braccia dell'altro. Invece, e' stato reso più difficile il sinistro percorso di chi vuole andarsene senza perdersi e senza violenza. Non c'è alcun mezzo per garantire queste due condizioni - il rischio di fallire o di subire violenza - quando si ricorre a questa pillola. Le ricerche su Internet lo dimostrano. In questa giungla di informazioni, più o meno affidabili, tutto ciò che si trova prospetta maggiori inconvenienti, con l'aggiunta della paura. Quella dose o quell'altra non e' sufficiente. La minaccia di vomitare incombe su tutte le possibilità, quando si prende una pillola. Le “misure di garanzia” di un atto determinato sono traumatizzanti. Questo si chiama notoriamente “il kit della morte”: la bombola di elio e il sacco di plastica. I Cazes vi hanno fatto ricorso. Hanno lasciato due lettere alle loro spalle.Una per la famiglia e l'altra per il procuratore della Repubblica, nella quale è scritto: “In base a quale diritto si vuole impedire ad una persona che non ha nessuna pendenza, in regola con il fisco, che ha lavorato tutti gli anni dovuti ed ha fatto anche attività di volontariato, in base a quale diritto sono in vigore pratiche crudeli quando vuole lasciare la vita?”Sì, quale diritto? E in nome di cosa una persona che ha deciso di lasciare la vita, prima di perdere le sue capacità fisiche e mentali non ha accesso a metodi di abbandono -l'iniezione letale - che invece sono assicurati, almeno questo, ad una persona condannata alla pena capitale?Il suicidio resta la più impopolare delle morti, la più minacciosa. Non ha nessun diritto, Come se l'altra ne avesse. Questo passa Dio. Come se Dio fosse un obbligo. Le rimozioni di questa decisione terribilmente solitaria, spesso funesta, talvolta liberatoria, sono innumerevoli. Sono confuse, e questo confonde le vite. Rinviando di volta in volta coloro che vogliono la morte per un qualche problema - d'amore, di sostegno, di lavoro - e coloro che nella fattispecie vogliono controllare tutto, in nome di un degrado fisico e mentale, è un attentato a tutta la

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gamma dei diritti umani. Questo vizio di comprensione e' pertanto più grave se si considera che il suicidio in Francia ha proporzioni inquietanti, Seconda causa di mortalità dopo gli incidenti automobilistici, presso i giovani 15/24enni, viene reso banale anche se coinvolge un numero incalcolabile di lavoratori o disoccupati umiliati, di cui i media ci forniscono più volentieri i numeri che non i nomi. Perché si informa molto di più su un crimine che su un suicidio, su una persona assassinata che una che si è impiccata da sola? Questa la dice lunga sulle discriminazioni del nostro rapporto con la morte, e quindi con la vita.Per questo, più la morte è mostrata, pubblicizzata, messa in mostra, più essa è in ostaggio dell'altro. Più essa appare e resa con immagini, più perde in spirito e realtà. La curiosità supera la lucidità e la negazione supera la responsabilità. Si vuole sapere chi ha ucciso chi e perché, non si vuole sapere chi si è ucciso e perché, a meno che non si tratti di una star, di una vita legata allo spettacolo. Quando ci sono degli impiegati di France Telecom o della Peugeot, si aspetta che l'onda passi. Noi sopportiamo la morte tra la folla, sui nostri schermi, sulla scena, nei videogiochi, noi non vogliamo vedere come essa in realtà sia: nuda e solitaria.Il rifiuto di vedere in faccia i suicidi evitabili, comporta che ciò che non si è potuto fare è molto simile al rifiuto di aiutarli, quando questi suicidi sono la scelta di una sofferenza intollerante e senza rimedio o di un cervello clinicamente minacciato dal naufragio. Il divieto della morte a discapito della dignità umana, sarà forse percepito un giorno, occorre sperarlo e volerlo, come nel caso del divieto della vita. Perché morire, è ancora vivere. E ancora più che mai. Aiutare qualcuno a morire, è aiutare qualcuno a vivere. Significa umanizzare la morte.Bernard e Georgette Cazes non hanno avuto diritto a questa assistenza. Non sono i soli ad essere privati da questo diritto. Le loro lettere testamentarie fanno venire in mente le ultime parole di Kafka, tremante di dolore, al suo medico: “Uccidimi, altrimenti sarebbe un assassinio”.Trent'anni fa, un amico, che viveva con la sua vecchia madre che adorava, era venuto a trovarmi per dirmi: “La mamma non è più autosufficiente e soffre atrocemente. Ha 90 anni, vuole andarsene e non sa come fare. Puoi procurarmi una copia di 'Suicidio, modalità d'uso?”. Era il tempo in cui il libro non era stato ancora censurato sulle informazioni pratiche che dava. Io non lo avevo, ma avrei potuto procurarmelo. Non ne ho avuto il coraggio. Una settimana dopo, seppi che sua madre era salita su una sedia all'ultimo piano del palazzo per potersi gettare dalla finestra. Il dolore di questo uomo era innominabile.Noi siamo costantemente informati su tutto e privati delle informazioni sui mezzi per andarsene quando riteniamo sia giunto il momento. Il caso individuale è inghiottito dalla macchina delle cifre, dei gruppi, delle masse. La pluralità, un po' ovunque, si mangia il singolare. Le libertà sono migliori rispetto alla libertà di chi sta perdendo terreno nella mente e nei fatti. C'è una urgente necessità dopo l'abolizione della pena di morte: il libero accesso alla dolce morte. Il diritto di scegliere il proprio momento, quando la vita è estenuante, finita. Il diritto di andarsene come ci si addormenta, senza doversi gettare sotto un vagone della metropolitana, senza infilarsi una pallottola nella testa o passarsi una corda intorno al collo. Non saremo mai abbastanza numerosi nel sostenere la battaglia dell'associazione “Mourir dans la dignité".Il filosofo rumeno Emil Cioran diceva: “Senza l'idea di suicidio, io mi sarei ucciso da diverso tempo”. A questo aggiungo che assicurarsi un buon mezzo per uccidersi, ci aiuterebbe a pensare meno di averne bisogno, perché avremmo tutto il tempo di pensarci. La disperazione non è mai più disarmante rispetto all'essere ascoltato. Sapere di poter morire in pace fa venire voglia di vivere.

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3008 - FRANCIA: CONFERENZA CITTADINI SU LEGALIZZAZIONE SUICIDIO ASSISTITOda: Aduc avvertenze n. 50/2013La conferenza dei cittadini francesi sul fine vita auspica “la legalizzazione del suicidio medicalmente assistito”, ma con una certa sfumatura. La conferenza, attivata dal Comité consultatif national d’éthique (CCNE) dietro richiesta del presidente Francois Hollande, si oppone però a che la legalizzazione sia parte di una legge sull'eutanasia, anche se essa stessa, in casi particolari, prevede alcune eccezioni. “La possibilità di uccidersi grazie ad assistenza medica com'è per l'appunto l'aiuto al suicidio, per noi rappresenta un legittimo diritto del paziente in fin di vita o sofferente di una patologia irreversibile, basandola su un chiaro consenso in piena coscienza”, sottolinea il documento approvato da 18 cittadini “rappresentativi” della popolazione.Rispetto all'eutanasia, i 18 cittadini ritengono che “le norme della legge Leonetti, i progressi in materia di cure palliative e la possibilità di ricorrere al suicidio assistito che noi preconizziamo nel nostro documento, consentono di scartare l'eutanasia come soluzione per il fine vita”.Ma “si dichiarano favorevoli ad alcune eccezioni in cui sia possibile l'eutanasia”, “in casi particolari in cui non si possa ricorrere al suicidio assistito”, come quando “il consenso diretto del paziente non possa essere raccolto”. “Situazioni che saranno lasciate alla valutazione collegiale di una commissione locale che andrà istituita”.Tra le altre cose, i cittadini hanno evocato “l'autorizzazione alla sedazione in fase terminale”, sottolineando che in questa fase “l'obiettivo di diminuire il dolore e la sofferenza del paziente, debba primeggiare sul rischio di decesso che potrebbe essere conseguenza di una sedazione profonda”. Questa sedazione deve essere parte di uno “scambio e di un ascolto del paziente quando è possibile, altrimenti delle persone che fanno parte del suo gruppo”.Il documento si è anche pronunciato sullo “sviluppo massiccio dell'accesso alle cure palliative”, ed ha criticato la scarsa formazione dei medici in materia.

3009 - G. BRETAGNA: LA CORTE SI PRONUNCERÀ SUL FINE VITA-DI JOHN BINGHAMda: the Telegraph di domenica 8 dicembre 2013 - traduzione per L.U. di Alberto BonfiglioliI giudici della più alta Corte britannica stanno deliberando sul modo d’introdurre il “diritto a morire” nella legislazione dei diritti umani, una vera e propria pietra miliare nel quadro legislativo vigente.Una commissione costituita da nove giudici della Suprema Corte di giustizia, presieduta da Lord Neuberger, é stata convocata per la prossima settimana al fine di considerare tre contestazioni legali all’attuale proibizione del suicidio assistito. I tre casi sono stati raggruppati in un unico supercaso per giudicare in modo efficace lo stato attuale della legislazione d’Inghilterra e Galles. Saranno ascoltati Jane Nicklinson, la vedova di Tony Nicklinson, morto l’anno scorso, affetto della sindrome locked-in (sindrome del chiavistello, pseudo coma o sindrome ventrale pontina. Il paziente è cosciente e sveglio, ma non può muoversi o comunicare a causa della completa paralisi di tutti i muscoli volontari del corpo. NDT) e i rappresentanti legali di due uomini disabili gravi. Nella presentazione ai giudici si utilizzeranno le leggi sui diritti umani al fine di attenuare, se non cancellare, la proibizione del suicidio assistito, oramai vecchia di 50 anni. La base di questa presentazione saranno gli argomenti legali sviluppati da Lord Falconer of Thoroton, l’ex Cancelliere laburista, che l’anno scorso aveva presieduto una commissione non ufficiale sul suicidio assistito. Su questa base, gli avvocati sosterranno che la legge sul suicidio del 1961, che rende passibile di condanna penale chiunque dia assistenza a un’altra persona per togliersi la vita, impone di fatto limiti crudeli alla libertà individuale. Sosterranno

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inoltre che la proibizione di assistenza al suicidio é stata parzialmente attenuata con le linee guida emanate dal Procuratore Generale del Regno (Director of the Public Prosecution) quattro anni fa, decriminalizzando de facto l’assistenza al suicidio nel caso dei familiari che accompagnano i loro cari in Svizzera.Gli avvocati argomenteranno che gli accordi attuali discriminano le persone che non hanno la possibilità di viaggiare all’estero o che non possono agire autonomamente a causa della gravità delle loro condizioni. Come punto fondamentale sosterranno che in diversi casi é stato già stabilito il diritto di persone di scegliere sulla propria morte, un diritto di cui, però, non possono avvalersi le persone gravemente invalidi. In queste situazioni, la proibizione di assistenza al suicidio è un’ingiustificata ingerenza dello Stato nel diritto delle persone e costituisce di fatto una breccia nella legislazione dei diritti umani. Qualche mesi prima che Lord Falconer cercasse di portare avanti nella Camera dei Lords un decreto a favore del suicidio assistito seguendo il discusso modello dello Stato dell’Oregon, negli Stati Uniti, il signor Nicklinson rimase completamente paralizzato a causa di un ictus devastante. Nicklinson, 58 anni, padre di due figli, che prima della paralisi era solito praticare il rugby e il paracadutismo acrobatico, ha sostenuto una lunga e dura campagna, perché venga consentito a un medico di aiutarlo a finire la sua vita. Di fronte alla pronuncia negativa emanata dalla Corte di giustizia, ha deciso di rifiutare il cibo ed è morto ad agosto dell’anno scorso. Tuttavia, tenendo conto delle profonde implicazioni giuridico-legali di questo caso, é stata accordata alla signora Nicklinson un’autorizzazione speciale per continuare la causa a nome del marito davanti alla corte di Appello e infine alla Suprema Corte. Due altri casi si sono aggiunti a quello di Nicklinson. Uno è quello di Paul Lamb, 57 anni, ex camionista rimasto quadriplegico 23 anni fa a causa di un incidente stradale, il quale chiede la protezione dei medici che somministrano droghe letali su richiesta dei pazienti.L’altro caso é quello di un individuo, conosciuto solo come Martin, che chiede un ampliamento delle linee guida del Procuratore Generale in modo di permettere ad una persona di sua fiducia, che non fa parte della famiglia, di accompagnarlo in Svizzera, da Dignitas. Infatti, la moglie non se la sente di accompagnare il marito verso il suicidio assistito. A quanto pare non è infrequente che i familiari non vogliano accompagnare i loro cari in questo tipo di viaggio. I tre casi sono stati respinti dai tribunali di prima istanza ma il fatto che adesso siano riconsiderati da una Commissione di nove giudici è un’indicazione che la questione sta ricevendo una seria attenzione. La signora Nicklinson ha dichiarato di sperare che la sua richiesta sia accolta e ha affermato “so che la causa che stiamo perseguendo comporta scelte di enormi difficoltà però il solo fatto di essere seduti davanti a nove giudici dimostra che ci stanno considerando molto seriamente”. Ha poi dichiarato che, qualsiasi decisione venga presa, essa arriverà comunque troppo tardi per dare sollievo alle sofferenze di suo marito ormai deceduto, ma che comunque è determinata a continuare sino al completamento della causa. Uno sforzo enorme, ammette, ma è ciò che Tony ha sempre voluto senza avere la possibilità di realizzarlo. Il sig. Lamb ha detto: “questo ricorso esprime ciò che gli appellanti sperano che sia lo stadio finale del loro lungo percorso per porre rimedio alle straordinarie e crudeli conseguenze dell’attuale proibizione del suicidio assistito in Inghilterra e Galles prevista dal Suicide Act del 1961”. Per quanto il sig. Martin, gli avvocati motivano così la sua cruda richiesta di porre fine alla sua vita: “Lui può muovere gli occhi e comunicare con penosa lentezza attraverso lo schermo di un computer speciale che rileva l’orientamento degli occhi stessi. Si trova così in circostanze

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angosciosamente degradanti e intollerabili, ma non vuole essere ricoverato se non per mettere in pratica la sua decisione, presa in piena coscienza, di porre fine alla sua vita”.

3010 - BELGIO: APPROVATA LEGGE PER EUTANASIA BIMBI INCURABILIda: Aduc salute n. 51-2013 del 13.12.2013Il Senato ha adottato a larga maggioranza una proposta di legge che estende l'eutanasia, già legale per gli adulti nel Paese, ai bambini affetti da malattia incurabile. La legge, già approvata dalla commissione Giustizia e affari sociali del senato belga a fine novembre, dovrà ora passare alla Camera bassa prima di entrare in vigore.I senatori hanno adottato il testo che estende la "dolce morte" ai bambini con 50 voti favorevoil e 17 contrari. A votare a favore sono stati i socialisti e i liberali (ad eccezione di due), membri della maggioranza governativa; hanno votato contro i verdi e i senatori del partito nazionalista fiammingo Nva, all'opposizione; contrari anche i centristi cristiano-democratici (maggioranza) e gli esponenti del partito fiammingo di estrema destra Vlaams Belang (all'opposizione).Il testo passa così alla Camera, sebbene non sia chiaro se i deputati avranno il tempo di esaminarla prima delle legislative in programma il 25 maggio prossimo. "Vogliamo che la legge sia approvata prima dello scioglimento delle camere", ha dichiarato ieri la deputata socialista Karine Lalieux.La normativa prevede l'eutanasia per i minori malati terminali capaci di intendere e volere e con sofferenze "insopportabili che non possono essere alleviate". La pratica dovrà avvenire sotto consiglio di un'equipe medica e con il consenso dei genitori.Secondo un recente sondaggio, tre quarti dei belgi è a favore della pratica per i più piccoli.

3011 - BELGIO: IL PAESE AI CONFINI DELLA VITA - DI EMANUELE TREVIda: il Corriere della sera di domenica 15 dicembre 2013 I titoli delle agenzie, considerati nella loro necessaria brevità, possono provocare intense reazioni emotive senza necessariamente truccare la verità. Così è stato per il voto di due settimane fa della commissione del Parlamento belga che ha dato il via libera all'estensione ai minori della legge che nel 2002 ha depenalizzato l'eutanasia. Oso dire che il colpo, forse, è stato più duro proprio per coloro che ritengono, come chi scrive, che una legge come quella dovrebbe figurare nella giurisprudenza di ogni Paese civile. Non saremo andati troppo oltre? Non ci troviamo ancora una volta di fronte a un corollario insostenibile di un principio che appare giusto? E perché tutto questo accade proprio nel cattolicissimo Belgio, in virtù di un'inedita alleanza (che dalla commissione si trasferirà alle Camere) fra socialisti, liberali e nazionalisti fiamminghi? Ebbene, potrà apparire esotico qui in Italia, ma nei cosiddetti «casi di coscienza» la libertà del singolo parlamentare è assoluta, senza timore di punizioni ed emarginazioni. Insomma, vale proprio la pena di fare un viaggio a Bruxelles, in questo periodo, qualunque sia l'opinione che si nutra in fatto di eutanasia e trattamenti di fine vita.Prima di partire, però, mi metto a indagare su chi saranno mai i supposti orchi che hanno tirato in ballo i minori in questa che di sicuro è la più spinosa fra le questioni etiche contemporanee. Nel caso avessero torto, non è pur sempre con le persone che hanno torto che vale la pena di parlare?Google mi aiuta subito. Trovo il sito dell'Admd, ovvero «Association pour le droit de mourir dans la dignité», compongo il numero della segreteria e chiedo di parlare con qualcuno.Una gentilissima impiegata, afferrato al volo il mio desiderio di conoscere la situazione e la

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mia disponibilità a partire, mi mette in contatto con la presidente dell'associazione, Jacqueline Herremans. Le spiego che voglio capire, e non fare pubblicità a un'idea e a un'associazione. Le ricordo che in Italia è sempre stato difficilissimo parlare serenamente di questi argomenti.Ci diamo un appuntamento per il giorno dopo, a Bruxelles. Ci incontriamo nel mio albergo molto presto, mentre una timidissima e grigiastra luce del mattino stenta a prevalere sul buio di una notte tempestosa. Ma la città è decorata fino all'inverosimile, in attesa che la folla si riversi nelle strade del centro il primo sabato del periodo natalizio.Madame Herremans è una donna gentile e risoluta. Ama i libri di Antonio Tabucchi. Per tutta la sua vita, ha faticato a conciliare la professione di avvocato e la vocazione di attivista a tempo pieno. Nel vasto e accidentato campo dei diritti civili, non c'è battaglia da cui si sia tirata indietro. Ogni tanto si vince, e ogni tanto si perde. Non si nasconde che, negli ultimi dieci anni, tutto è diventato più difficile, le posizioni si sono irrigidite, c'è meno possibilità di confrontare le opinioni. Ma il punto decisivo della questione, per lei, è che una legge come quella del 2002 vale esclusivamente per una persona che non tollera più la sofferenza, e che decide di farla finita. Non obbliga nessuno all'eutanasia, e salvaguarda i medici che non vogliono praticarla. Chi vuole proibire, al contrario, impone a tutti un punto di vista che può essere anche accettabile, ma non può, non deve essere la norma. È intorno a questo squilibrio fondamentale che si gioca, non da oggi, la battaglia della laicità.Mentre iniziava la nostra conversazione, siamo saliti in macchina, diretti a Liegi. Passiamodavanti al Parlamento, dove ogni domenica pomeriggio le associazioni contrarie all'eutanasia si riuniscono per protestare e pregare. Noto che Jacqueline, per una specie di automatismo pienamente comprensibile solo ai veri militanti, ne parla con un certo rispetto. La protesta ha unito tutte le grandi religioni monoteiste. Un comunicato congiunto è stato firmato dal presidente della Chiesa protestante unita del Belgio, e dai suoi colleghi della Chiesa anglicana e del sinodo federale delle Chiese evangeliche, assieme all'arcivescovo di Malines-Bruxelles, al presidente della Conferenza episcopale, al gran rabbino e al metropolita ortodosso di Bruxelles, e dal presidente dell'esecutivo dei musulmani in Belgio. Questi capi religiosi dichiarano apertamente di non poter entrare in una logica «che porta a distruggere le fondamenta della società». L'individuo sofferente, si legge nel documento, ha bisogno di persone e di forze che lo sostengano, mentre l'idea stessa dell'eutanasia è lacerante e disgregante, «finendo per isolare chi soffre, colpevolizzarlo e condannarlo a morte».Parole che vanno meditate col rispetto che impongono; ma bisogna aggiungere che in Belgio, a quanto sembra, la questione dell'allargamento ai minori della legge del 2002 non ha suscitato lo scalpore che immaginavo. Per quello che valgono questi sondaggi empirici, me ne sono reso conto chiedendo direttamente alle persone che ho incontrato, e leggendo «Le Soir», il quotidiano francofono più autorevole. Tanto per cominciare, non si tratta esattamente di «bambini», ma di giovani con una personalità già formata, e un'idea delle loro responsabilità e dei loro diritti. Credo inoltre che a rendere meno tempestoso il dibattito, come sempre accade, collabori anche lo scarso numero di casi effettivi.Siamo diretti a Liegi, sotto una gelida pioggerella nordica, per assistere a una sessione di un corso di formazione organizzato dall'Admd e destinato a medici, infermieri e psicologi. Non è un corso gratuito, ma l'auditorium dell'Hòpital de la Cittadelle è stracolmo. La sensazione, per me, è quella di aver cominciato a studiare la guerra su internet, e di essere arrivato in prima linea: fra gente, insomma, che nella materia oscura del dolore e della morte ha letteralmente

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le mani in pasta. Ma se questa è una guerra, non sì può combattere solo a colpi di leggi e protocolli. È per questo motivo che ai seminari partecipano filosofi, teologi, studiosi del diritto. Approfittando di una pausa, dopo avere ascoltato la sua relazione, abbordo un giovane avvocato, Gilles Genicot. È un grande ammiratore della tradizione giuridica italiana, avrebbe voluto perfezionarsi a Bologna. Acconsente volentieri a chiarirmi alcuni punti del suo discorso. La sua convinzione è che il concetto della dignità della persona è molto complesso, e richiede la presenza di molteplici fattori. E dunque, anche se può apparire mostruoso, «la pura e semplice constatazione biologica della vita non è sufficiente». Si deve accompagnare al diritto di guardare in faccia la propria fine, «in qualità di uomo libero e sofferente». Che è una cosa ben diversa sia «dall'idea di fare sempre ciò che si vuole», sia da quella, opposta ma complementare, di subire un modello di comportamento imposto dall'esterno (come quando ci si sente dire «comportati da uomo» di fronte al dolore). È da questo punto di vista che, secondo Genicot, dichiarare «incapace» un individuo di sedici anni è una decisione inaccettabile. Un punto di vista non distante della relazione d'apertura di stamattina, affidata a Marie-Luce Delfosse, docente di Filosofia all'Università di Namur ed esperta di bioetica. L'eutanasia è una decisione così estrema da non poter essere confusa con nessun'altra pratica medica, comprese le «cure palliative». Tanto da invertire la stessa direzione fondamentale del rapporto fra medico e paziente, nel quale è il primo che propone la cura, e il secondo che acconsente. Nel caso di chi decide di non farcela più, invece, è il paziente che decide e propone. Alla fine di ogni relazione, in sala si accende un piccolo dibattito. Le mani alzate per chiedere la parola sono sempre tante. Io non sono venuto fino a qui per collaborare alla causa dell'eutanasia, ma per capire un punto di vista che rischia di essere non compreso e in ultima analisi demonizzato. Ma non posso mettere a tacere una sensazione di invidia, per come si ragiona di queste cose qui in Belgio rispetto a ciò che si fa nella chiassosa e insolente Italia, dove si sono costrette migliaia di coppie a un vergognoso esodo verso la Spagna solo per usufruire di una fecondazione assistita degna di questo nome. E dove, per ritornare alla gravità del nostro tema, un uomo politico generoso e disinteressato come Lucio Magri è dovuto scappare in Svizzera, come un delinquente, quando una grave depressione ha stroncato la sua voglia di vivere.Si può pensare ciò che si vuole, essere laici o credenti, umanisti o scientisti. Tutti brancoliamo nell'ignoranza, e in ogni idea espressa forse c'è una dose fatale di errore che solo chi verrà dopo di noi sarà in grado di correggere. Ma se una patria è anche il luogo dove ci si aiuta a vicenda a fronteggiare le questioni ultime e decisive della nostra esistenza, ebbene noi dobbiamo renderci conto che questa non è una patria ma un'ipocrita matrigna, che fa in modo che chi se lo può permettere risolva altrove i suoi problemi, abbandonando tutti gli altri a un destino incomprensibile e crudele.Non ci resta che implorare i nostri rappresentanti: fate come in Belgio, votate secondo la vostra coscienza, e non secondo le orride direttive di un partito, o ancora peggio in base a fedeltà occulte, inconciliabili col vostro ruolo.

3012 - LE VIGNETTE DI BUCCHI – SI’, SONO ITALIANO, MA…

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3013 - LE VIGNETTE DI ALTAN – SE FOSSIMO UN PAESE CIVILE…

3014 - LE VIGNETTE DI ALTAN – L’ANNO STA PER SCADERE…

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