il sacerdote della fraternita san carlo

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IL SACERDOTE DELLA FRATERNITÀ SAN CARLO Ritiro ordinandi

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IL SACERDOTE DELLA FRATERNITÀ SAN

CARLO

Ritiro ordinandi

S.E.R. Mons. Massimo Camisasca

Marola, 18 giugno 2013

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IL SACERDOTE DELLA FRATERNITÀ

SAN CARLO

S.E.R. Mons. Massimo Camisasca

Questa lezione, che avviene dopo la mia elezione a Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, ha per me un significato molto particolare. Desidero riflettere, almeno inizialmente, sulla Fraternità dalla distanza in cui sono ora. Vorrei cioè rispondere alla domanda: come vedo la Fraternità dalla distanza in cui sono? Come vedo i sacerdoti e l’educazione al sacerdozio nella Fraternità, dal punto di vista che mi è concesso ora?

Mi ha guidato in questa riflessione una frase che mi ha scritto madre Cristiana pochi giorni fa, dal Venezuela, che ritengo veramente espressiva in modo sintetico di ciò che è, a mio parere, la Fraternità san Carlo. «Eravamo così contente di essere assieme che non ci accorgevamo neppure dei miracoli che accadevano intorno a noi».

Questa frase di madre Cristiana descrive molto bene i quasi trent’anni di vita della Fraternità. Eravamo così contenti di essere assieme che non ci accorgevamo neppure dei frutti che venivano dal nostro essere insieme. Non facevamo dipendere la bellezza del nostro vivere dai frutti.

È per me questa una considerazione capitale in questo momento della mia vita, ma anche per ciò che vi attende. Non fate mai dipendere la bellezza di ciò che vivete dai frutti che ne vengono, perché i frutti sono decisi da Dio, come canta Chieffo nella sua canzone Il seme.

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Un dono da accogliere, da comprendere, da trasmettereLa prima considerazione che desidero fare, che riassume

tutte quelle che seguiranno, è che questi cinque mesi di distanza mi hanno permesso di vedere quale grande dono di Dio sia la Fraternità per la Chiesa. E per essere più concreto: quale dono di Dio alla vostra vita sia l’educazione al sacerdozio che avete ricevuto nella Fraternità. Mi riferisco propriamente alla vita del seminario, che come sempre ritengo essere il cuore della Fraternità. Seminario che è cresciuto molto in questi anni, a cui ho dedicato molte energie, e che è strettamente legato all’opera dei rettori che si sono succeduti, in modo particolare all’opera di Atta.

Ci sono tre verbi che mi sembrano descrivere la dinamica che porta con sé questo dono.

Il dono di essere stati educati nel nostro seminario anzitutto è una grazia da accogliere. Perché una grazia da accogliere? In realtà potreste pensare che state uscendo dal seminario, ne siete usciti, addirittura ne siete vicerettori… eppure è una grazia da accogliere, ancora di nuovo. Tutto il vostro futuro sarà in realtà uno sviluppo di questi anni. Quello che avete vissuto negli anni di seminario è una grazia da accogliere e non pensate di avere capito ciò che vi è accaduto, di averlo capito interamente. Tutta la vita è un rendersi conto di ciò che è accaduto. La prima parola quindi è accogliere con immensa e rinnovata apertura ciò che vi è accaduto.

La seconda è comprendere, entrare più consapevolmente in ciò che vi è stato dato. Occorre vivere una continua verifica di ciò che vi è accaduto.

E poi, in terzo luogo, trasmettere, cioè donare attraverso gli incontri con gli altri, attraverso il vostro ministero e le responsabilità che vi verranno affidate: donare quello che vi è stato dato in questi anni.

Accogliere, comprendere, donare.

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A questo punto vorrei riflettere su alcuni doni specifici che avete ricevuto nella Fraternità. Questa mia meditazione è il percorso di accogliere, riflettere e donare l’esperienza che ho vissuto io per primo nella guida del seminario della Fraternità san Carlo.

Compiendo questo non faccio altro che comprendere e scoprire quello che ho ricevuto a mia volta da don Giussani. Non c’è infatti alcuna distanza tra comprendere quello che è stato don Giussani e quella che è stata la Fraternità san Carlo per la mia vita. Soprattutto nei tre anni del Berchet. Quanto più la cronologia mi porta lontano da lui, tanto più mi accorgo che quegli anni in cui al liceo l’ho avuto come insegnante sono stati quelli decisivi del mio incontro con la sua persona e il suo insegnamento.

È quello che sto dicendo a voi: il vostro futuro sarà la continua scoperta dell’enorme, infinita potenzialità di questi anni che avete vissuto in seminario.

Tutti gli anni successivi che ho vissuto con Giussani nel movimento non sono stati altro che lo sviluppo del don Giussani conosciuto al liceo Berchet. Ciò mi fa capire ancora una volta che nell’inizio c’è già tutto.

L’educazione di un uomo vero Se dovessi dire che cosa ha portato a me, e quindi a voi

attraverso di me e i vostri educatori, la Fraternità, risponderei così: l’esperienza del sacerdote come uomo vero.

Più passa il tempo e sempre più scopro l’enorme profondità di quell’espressione provocatoria di don Giussani: “Innanzitutto uomini”. Il rischio più grave infatti che vedo nella vita sacerdotale è di pensare che si possa diventare sacerdoti dimenticando l’umano. Anzi, un merito del diventare sacerdoti sarebbe proprio quello di trascurare l’umano. Dobbiamo

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intenderci e capire cosa sia l’umano, ma certamente possiamo affermare che il cristianesimo è davvero un umanesimo.

Il prete è un uomo vero e la statura del cristiano non nasce dal disprezzo di ciò che è umano, ma si realizza nell’incontro tra ciò che è umano e ciò che è divino. In fondo l’eresia docetista è sempre alla porta: in realtà Cristo non era un vero uomo, in lui la divinità soverchiava e quasi cancellava l’umanità ed era solo parvenza per rendere trasparente la divinità.

Vorrei descrivere adesso alcuni dei tratti salienti dell’uomo vero, di come lo vedo, lo sento e lo percepisco alla luce della vita vissuta con voi.

Un uomo religiosoAnzitutto l’uomo vero è l’uomo religioso, l’uomo che

riconosce Dio esistente, personale e provvidente. L’uomo abbandonato nella sue braccia. Senza questo riconoscimento dell’esistenza di Dio presente ed attivo nella storia dell’uomo non c’è vera umanità. Ciò che ho imparato stando con voi è che Dio esiste e conduce la storia. Per questa ragione mi è così cara la teologia di Daniélou, perché essa si raccoglie tutta attorno a questo articolo dell’atto di fede: Dio esiste e conduce la storia.

L’uomo religioso è colui che è disponibile ad andare dove Dio vuole condurlo. Per questo è così fondamentale per noi guardare all’esperienza di Abramo.

Quando sarai presbitero, un altro ti condurrà, dice alla fine Gesù a Pietro nel vangelo di Giovanni. E ti porterà dove tu non vorresti (cfr. Gv 21,18) Questo è l’uomo religioso, l’uomo che riconosce di essere condotto da un altro. Chi ama la propria vita deve essere disposto a perderla, perché il chicco di grano, se non muore, non produce frutto (cfr. Gv 12,24).

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Questa disponibilità, che ritengo sia una caratteristica fondamentale dell’educazione che noi riceviamo, non è una virtù naturale o, per essere più precisi, non è una virtù della nostra natura ferita. Quando sentiamo l’invito di Dio proviamo talvolta dolore o addirittura repulsione o tentazione di rifiuto. È l’esperienza dei profeti e degli apostoli. È altrettanto vero però che il rifiuto rende tristi. Il giovane se ne andò triste perché aveva molti beni, cioè aveva molti progetti (cfr. Mc 10,17-22; Mt 19,16-22).

La base fondamentale perciò dell’educazione di questo uomo vero è l’educazione della nostra creaturalità. Il riconoscimento di essere creatura, di essere figli, di essere guidati dal pastore. Questa è la strada verso la libertà, una strada lunga, a cui occorre prepararsi. L’invito a preparare la propria anima è sempre valido e attuale. Ma prepararsi non è fantasticare, non è nemmeno immaginare. Nessuno può immaginare il proprio futuro, dove Dio ti condurrà. Prepara la tua anima vuol dire invece vivere giorno per giorno le continue preparazioni che Dio manda. Dio continuamente ci prepara al futuro, perchè il futuro è lui stesso. Dio è il futuro che è entrato nel nostro presente. Non è il futuro alienante di Ernst Bloch e del marxismo. Dio è la realtà del nostro futuro che entra nel presente. È colui che continuamente ci prepara ad incontrarlo, colui che viene attraverso gli avvenimenti. A questo proposito mi colpisce come l’Apocalisse parli sempre di Dio come colui che era, che è e che viene (Ap 1,4), non colui che sarà. È il futuro che entra nel presente. Anche nella preghiera del Gloria al Padre questo è molto chiaro. Lo stretto rapporto che esiste tra futuro e presente impedisce al cristianesimo di essere un’esperienza alienante.

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Un uomo amante della ChiesaL’uomo vero dunque è anzitutto l’uomo che segue Dio. Perché questa sequela non sia una sequela immaginata,

seguire Dio concretamente significa seguire Cristo. Seguire il Dio che si è manifestato, che si è rivelato, che si è fatto uomo, compagno di viaggio, che si è fatto maestro. Per questo motivo è impossibile educare veramente al sacerdozio se non si educa all’amore per la Chiesa, alla sua storia e alla sua tradizione. L’obbedienza a Dio, senza l’amore alla Chiesa, alla sua storia e alla sua tradizione, diventa alla fine un’ideologia. Questa è un’altra caratteristica dell’educazione che noi abbiamo voluto realizzare attraverso il seminario. È una caratteristica della positività del nostro essere uomini, uomini inseriti in una comunità che vive nel tempo, che è affermativa rispetto alla storia e alla vita.

Se non si ama non si costruisce. È impossibile essere sacerdoti se la Chiesa, per usare l’espressione di Biffi-Marshall, non è la sposa bella a cui Cristo si lega e ci ha legati. Se essa non è l’umanità salvata.

Un uomo amante della povertàUna terza caratteristica della nostra educazione e quindi

della vita sacerdotale che intendiamo vivere, è il rapporto con i beni del mondo.

Quale è il nostro rapporto con i beni del mondo?L’equilibrio con cui vi abbiamo educati e vi vogliamo

educare alla povertà è un segno molto importante di come noi concepiamo l’uomo nel mondo e il sacerdote nella Chiesa.

Vogliamo crescere degli uomini che non disprezzano i beni della creazione, ma che rifuggono ogni idolatria nei confronti delle cose, da ogni amore per la ricchezza, per ciò che è superfluo, dallo sfarzo.

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In questo equilibrio, che possiamo definire con la parola “tensione”, sta uno dei tratti caratteristici della nostra educazione, che tradurrei così: scoprire il valore e la relatività delle cose.

Inesorabilmente noi tendiamo a porre la nostra sicurezza nella compagnia delle cose, oltre che in quella delle persone. Quando sono stato due mesi fa a visitare Reggiolo, uno dei paesi più terremotati, sono andato nella canonica, dove erano stati portati via per fortuna gli oggetti più importanti, i registri, i calici, ma tutto il resto era sfacelo, i libri abbandonati per terra, le macerie, le cose qua e là… e mi sono detto: “Se fosse capitato a me? Se i miei 10.000 volumi fossero andati dispersi? I miei diari? I miei archivi? Sono io pronto a questa esperienza?”. È stata per me una visita molto importante per comprendere come Dio educa il suo popolo, anche attraverso il terremoto. Egli ci allena a godere delle cose in modo giusto.

Questa è una grande e importante strada di educazione che abbiamo vissuto nella Fraternità san Carlo e che vorrei non si perdesse. È un’educazione che o avviene negli anni del seminario oppure non avviene più. Una libertà così si comincia ad acquisire soltanto quando si è giovani. Poi è molto più difficile nell’avanzare degli anni. E io, soprattutto nella vita con voi, ho imparato a non idolatrare le cose, ma a godere di esse. È una strada da riprendere continuamente. So di avere dato i miei archivi alla Fraternità, di avere donato la mia biblioteca al seminario, so, attraverso quest’ultimo passaggio, di avere vissuto un’ultima educazione di Dio alla povertà, più radicale di quella che avevo vissuto finora. Mi basta il necessario per leggere, per scrivere, per predicare: ma questa è un’educazione continua da dare alla nostra vita.

Dobbiamo sapere inoltre che c’è gente che non ha il necessario per vivere. E questo ci deve invitare ad essere vigilanti, ad essere poveri e ad essere generosi verso chi non ha

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nulla. L’uso delle cose deve far crescere la nostra libertà. Il rapporto tra povertà e libertà è stato uno dei temi fondamentali della nostra educazione in tutti questi anni.

Un uomo amante degli affettiUn ulteriore aspetto della nostra umanità a cui vogliamo

educarci è quello di un uomo che non rinuncia alla propria affettività, che ama gli affetti, ma sa che essi devono continuamente essere convertiti. «La conversione dell’amore», per usare l’espressione di san Bernardo. Penso sia uno dei temi centrali della nostra vita educativa in seminario e nella Fraternità. Per questa ragione non disprezziamo l’ascesi. La conversione dell’amore infatti è propriamente questa ascesi. Nello stesso tempo però non dobbiamo aver paura della sessualità.

La nostra vita sacerdotale nella Fraternità è quella di uomini vigilanti, consapevoli delle proprie fragilità ma non angosciati per esse, continuamente e atleticamente, per dirla con san Paolo (cfr. 1Cor 9,24-27), in gara nella conversione della propria affettività. Uomini non superficiali, che non dicono: “Ma cosa importa, possiamo leggere e vedere tutto, tanto sappiamo poi controllarci…”, uomini perciò vigilanti, ma che, allo stesso tempo, non fanno dei propri sensi di colpa e della paura della propria sessualità l’incubo della vita.

Uomini che imparano il giusto distacco dalle persone, dai propri genitori e parenti, anche il distacco dai propri amici. Ciò non vuol dire perderli, ma ritrovarli in altro modo. Imparare questo richiede tutta una vita. Nel tempo però avviene una purificazione dei nostri atteggiamenti, che ci permette di godere la dolce esperienza della continuità dell’amicizia e degli affetti dentro il distacco.

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Un uomo amante dell’obbedienza Inoltre desideriamo educare un uomo che ha imparato

l’importanza essenziale dell’obbedienza, virtù ormai quasi completamente sconosciuta tra i sacerdoti. Non si entra nell’esperienza dell’obbedienza, che è l’esperienza di essere fatti da Dio istante per istante attraverso persone cui la trama della nostra vita è consegnata. È questa esperienza quotidiana che ci aiuta a comprendere che si può obbedire a Dio solo obbedendo a degli uomini.

È chiaro che tutte queste virtù sono estremamente collegate tra di loro. Oggi infatti non si capisce più il valore dell’obbedienza perché non si sa più cosa siano la verginità e la povertà. Si ha paura dell’obbedienza perché si ritiene che, attraverso di essa, la nostra umanità sia diminuita. Si ritiene che la verginità sia una diminuzione dell’umanità. In verità non si comprende che se non si obbedisce a Dio non c’è vera letizia, perché rimane dentro la percezione di perdere la propria vita, cioè di buttarla via, di distruggerla.

L’obbedienza a Dio passa attraverso l’obbedienza agli uomini, ma anche attraverso la coscienza dell’uomo. Ci ha fatto a tutti molto riflettere l’esperienza delle dimissioni di Benedetto XVI. L’importanza della coscienza: essa non è il luogo dell’arbitrio, ma lo spazio del dialogo continuo e permanente con Dio, illuminato dallo Spirito, in cui ogni uomo si interroga sulla Sua volontà e infine dà la sua risposta. Ci sono dei momenti della vita infatti in cui Dio si attende la mia risposta.

Un uomo amante della bellezzaIl sacerdote della Fraternità san Carlo è un uomo che ama

la bellezza e la cerca, perché sa che su quella strada c’è Cristo. Il Novecento, anche in reazione alle sue brutture, in ascolto

della teologia orientale e della letteratura russa, ha parlato

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molto della bellezza. Eppure penso che questa realtà non sia molto penetrata nella Chiesa.

Se vediamo i preti infatti notiamo molto spesso degli uomini che non sanno cosa sia la bellezza. Sono malvestiti, poco curati, sono trascurati. E questo è molto spesso segno di una trascuratezza interiore. Se non c’è l’incontro con la bellezza non c’è l’incontro con Cristo. La trascuratezza esteriore quasi matematicamente nasce da una trascuratezza interiore e la rivela. Certamente potranno esserci temperamenti diversi, ma senza bellezza si rivela un’enorme assenza di luce. Per esempio: si confonde la povertà e l’essenzialità con la sciatteria e la trascuratezza. Dobbiamo essere come gli altri: ma se siamo come gli altri, come li eleveremo, come li aiuteremo?

Coloro che, anche esegeti, continuano a riproporre il tema della kenosi di Cristo, dimenticano una cosa importante: l’eccetto il peccato (cfr. Eb 4,15). Eccetto il peccato significa che realmente Cristo è il più bello tra i figli dell’uomo (Sal 42,3).

Un uomo amante della verità e della giustizia Un uomo realizzato vuol dire un uomo che ama la verità.

Un uomo perciò che medita, che legge e che studia. Un uomo che non vive la verità in contrapposizione alla carità e viceversa. Un uomo che sa che «noi non possediamo la verità, ma che la verità ci possiede»1. Noi siamo abitati da essa, dobbiamo continuamente scoprire il suo volto ed entrare nella sua realtà.

Uomo realizzato vuol dire un uomo che ama la giustizia. Un uomo che sente l’amore al vero volto dell’uomo mostrato da Cristo come il centro della sua missione e che vive ogni

1 Benedetto XVI, Omelia della S. Messa a conclusione dell’incontro con il «Ratzinger Schülerkreis», Castel Gandolfo, 2 settembre 2012.

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sopruso come un attacco all’uomo e quindi come un attacco a Cristo.

Alle radici del donoCosa sta alla radice di tutto questo? Che cosa permette

questo cammino?La prima cosa di cui hanno bisogno oggi i preti e la prima

cosa che mi sento di definire il grande dono che la Fraternità san Carlo ha da fare alla Chiesa è il silenzio. Esiste infatti una generale e radicale assenza di silenzio.

Occorre prima di tutto farne scoprire il fascino. Questo è un cammino lungo. È necessario però farne scoprire l’attrattiva in rapporto a tutta la vita. Il silenzio è una modalità di rapporto con la realtà più interessante e affascinante della chiacchiera, della vita in superficie. I preti chiacchierano dovunque. Chiacchierano in chiesa e in sacrestia, chiacchierano nei ritiri. Sono generalmente incapaci di interiorità. L’interiorità è una realtà sconosciuta per la maggioranza di loro. Vivono alla superficie di tutto perché devono correre da un posto a un altro. Non hanno tempo per fermarsi. Essi non stimano il riposo, lo studio, la meditazione. Uno dei più grandi meriti della Fraternità san Carlo, che non vorrei mai venisse perduto, è di avere messo al centro del seminario l’educazione al silenzio in rapporto a tutta la vita.

Questa educazione ha delle conseguenze enormi lungo l’esistenza. Educarci al silenzio permette di vivere tutto ciò che ho delineato in precedenza. Se viviamo infatti alla superficie degli avvenimenti siamo sballottati dalle onde delle cose che accadono. Come è stato per il profeta Elia: Dio non è nella tempesta, nel fuoco, ma è nella brezza (cfr. 1Re 19,12). Cioè nel silenzio. Non in commotione Dominus, traduce la Vulgata (1Re 19,11).

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In fondo questa è la grande strada per evitare di pensare di essere noi gli operatori della salvezza del mondo. Ma soprattutto il silenzio nella nostra vita ci porta a conoscere noi stessi e a riconoscere quanto in noi deve cambiare. Il dialogo con Dio, portando tutto a galla, rivela una strada di conversione verso noi stessi. Oggi invece si ha paura di guardare a se stessi. Non è semplicemente l’ora di silenzio, ma il silenzio è una dimensione della personalità in rapporto a Dio e al creato.

L’altro luogo educativo è la liturgia e il canto. Esso, assieme al silenzio, è il luogo più importante come cuore della nostra educazione.

Notiamo però come sia molto facile perdere tutto ciò che si è imparato negli anni di formazione. In missione non si tratta semplicemente di ripetere: occorre rivivere, riscoprire. Riscoprire in Cile, riscoprire a Taiwan, riscoprire in Africa.

Questa immagine “laica” di uomo che ho sopra dipinto, questo uomo che ama la verità, la bellezza, la giustizia e il silenzio, si manifesta paradossalmente in modo sommo nella celebrazione liturgica. È lì che si mostra come viene vissuta l’obbedienza, la povertà, la sobrietà, nella parole, nei gesti, negli atteggiamenti, la cura delle cose e degli abiti. È nell’educazione al canto gregoriano vissuto come preghiera e non come esercizio virtuosistico o vocalistico della coralità che appare in modo chiaro chi siamo. Quanto è importante perciò per me che questa strada sia custodita e non abbandonata.

Il terzo luogo che custodisce questa educazione è l’esperienza della casa. Questa è la caratteristica propria della nostra vita. Dico questo ben consapevole che in generale la Fraternità san Carlo è ancora all’inizio di tale esperienza e che esistono infinite resistenze. Ma la strada è quella giusta: la strada della vita comune, del fratello accolto come segno di

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Cristo, la strada della conversione che avviene nella concretezza quotidiana, banale ed esaltante, sconvolgente e gratificante, scomoda e bella dell’essere fianco a fianco, in nome di Cristo, perché chiamati assieme da lui.

Da ultimo, tutta questa esperienza vive nel nostro rapporto con le persone, la missione. Siamo sacerdoti che vogliono essere anzitutto degli evangelizzatori. Cristo si è incarnato ed è morto per ciascuno. Non vogliamo in nessun modo rinunciare per altri compiti a questo primato dell’evangelizzazione, che è lo scopo della Chiesa. L’evangelizzazione deve entrare in tutti gli ambienti e quindi necessariamente creare delle opere. Dobbiamo sempre più affidare questi compiti di guida ai laici. La comunione tra preti e laici è una realtà sempre più essenziale, di cui molto ha parlato il Concilio Vaticano II. Si tratta però di una comunione non negli organismi, consigli pastorali e consigli parrocchiali, ma la comunione che nasce dalla predicazione, dalla consapevolezza di essere una cosa sola in Cristo. Nasce dai sacramenti ricevuti insieme e dalla comune consapevolezza dell’unica missione.

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