internazionale n.1071

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OGNI SETTIMANA IL MEGLIO DEI GIORNALI DI TUTTO IL MONDO OTTOBRE N. CARTA WEB • TABLET SMARTPHONE Laurie Penn y • Binyavanga W ainaina • Will Hutton • Elias Khoury HONG KONG In piazza contro Pechino ECONOMIA Un mondo di stagisti SCIENZA Troppo piccoli per ricordare PI, SPED IN AP, DL ART DCB VR DE BE CH CHF • UK internazionale.it T Il porto dei migranti Riceve le telefonate dai barconi alla deriva nel Mediterraneo e finora ha salvato cinquemila persone. A un anno dal naufragio di Lampedusa, il New Yorker racconta chi è il prete eritreo Mussie Zerai

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OGNI SETTIMANA IL MEGLIO DEI GIORNALI DI TUTTO IL MONDO OTTOBRE N. • •

CARTA • WEB • TABLET • SMARTPHONE

Laurie Penny • Binyavanga Wainaina • Will Hutton • Elias Khoury

HONG KONG

In piazzacontro PechinoECONOMIA

Un mondodi stagistiSCIENZA

Troppo piccoli per ricordare

PI,

SP

ED

IN

AP

, D

LA

RT

D

CB

VR

DE

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CH

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internazionale.it

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Il portodei migrantiRiceve le telefonate dai barconi alla deriva nel Mediterraneo e � nora ha salvato cinquemila persone. A un anno dal naufragio di Lampedusa, il New Yorker racconta chi è il prete eritreo Mussie Zerai

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Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014 7

Sommario

inte

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ario

La settimana

3/9 ottobre 2014 • Numero 1071 • Anno 21

AttuAlità18 Hong Kong

sida Pechino The New Republic

AsiA e pAcifico24 Xinjiang The New York Times

AfricA e medio orieNte27 Medio Oriente Al Quds al Arabi

europA30 Spagna El Periódico

de Catalunya33 Bulgaria Lefteast

Americhe36 Brasile Página 12

visti dAgli Altri 40 Il sogno europeo

delle ucraine Ogonëk

pANAmÁ60 Il paradiso

non c’è più El País Semanal

ecoNomiA70 Un mondo

di stagisti The Economist

scieNzA74 Troppo piccoli

per ricordare Aeon

portfolio80 Paese nero,

città rossa Jens Olof Lasthein

ritrAtti86 Cole Yew Roads & Kingdoms

viAggi88 Tra vulcani

e gorilla Financial Times

grAphic jourNAlism92 Messico François Olislaeger

tv95 L’età dell’oro

dei teleromanzi El País

pop 112 Ora è solo

una questione di accelerazione Binyavanga Wainaina

scieNzA 121 La vecchiaia fa

bene al pianeta New Scientist

iN copertiNA

Il porto dei migranti Riceve le telefonate dai barconi alla deriva nel Mediterraneo e inora ha salvato cinquemila persone. A un anno dal naufragio di Lampedusa, il New Yorker racconta chi è il prete eritreo Mussie Zerai (p. 48). Foto di Alex Majoli (Magnum/Contrasto).

tecNologiA127 Il motore

del pregiudizio The New York Times

ecoNomiA e lAvoro

128 Alleanza commerciale tra Ottawa e Bruxelles Frankfurter Allgemeine Zeitung

cultura98 Cinema, libri,

musica, fotograia, arte

Le opinioni

28 Amira Hass

44 Laurie Penny

46 Will Hutton

100 Gofredo Foi

102 Giuliano Milani

106 Pier Andrea Canei

118 Tullio De Mauro

129 Tito Boeri

le rubriche14 Posta

17 Editoriali

132 Strisce

133 L’oroscopo

134 L’ultima

Aeon È un magazine online britannico di scienze. L’articolo a pagina 74 è uscito il 30 luglio 2014 con il titolo The great forgetting. The New Yorker È un settimanale newyorchese di qualità. L’articolo a pagina 48 è uscito il 21 aprile 2014 con il titolo The anchor. Ogonëk È un settimanale russo, pubblicato dal gruppo editoriale del quotidiano Kommersant. L’articolo a pagina 40 è uscito il 7 aprile 2014 con il titolo Ukrainki sredi sinorov. El País Semanal È il magazine del quotidiano spagnolo El País. L’articolo a pagina 60 è uscito il 31 agosto 2014 con il titolo El paraíso perdido del canal de Panamá. Roads &

Kingdoms È un giornale online di viaggi e politica. L’articolo a pagina 86 è uscito nel giugno del 2014 con il titolo The rock ’n’ roll tycoon of Penang. South China Morning Post È un quotidiano di Hong Kong in inglese. L’articolo a pagina 22 è uscito il 29 settembre 2014 con il titolo Beijing’s closed door meeting with Hong Kong tycoons erodes trust. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

Laurie Penny • Binyavanga Wainaina • Will Hutton • Elias Khoury

In piazzacontro Pechino

Un mondodi stagisti

Troppo piccoli per ricordare

internazionale.it

Il portodei migrantiRiceve le telefonate dai barconi alla deriva nel Mediterraneo e i nora ha salvato cinquemila persone. A un anno dal naufragio di Lampedusa, il New Yorker racconta chi è il prete eritreo Mussie Zerai

Articoli in formato mp3 per gli abbonati

urlare

In un’intervista di qualche giorno fa al quotidiano il Manifesto, la sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini, ha detto: “L’omertà che ha sempre circondato l’immigrazione si è rotta quando il papa è venuto a Lampedusa. Quel giorno, parlando di tutti i migranti morti nel Mediterraneo, ha detto che questa è la più grande strage silenziosa che pesa sulla coscienza di tutti. Di tutti, perché queste non sono le vittime di una guerra, ma persone morte in viaggi che sono la diretta conseguenza delle politiche europee sull’immigrazione e sul diritto d’asilo. E allora il 3 ottobre non dovrà essere un giorno in cui si sta in silenzio. Qua bisogna urlare. Il giorno della memoria deve essere l’urlo della vendetta che chiedono questi morti”. L’anno scorso, al festival di Internazionale a Ferrara, tutti gli incontri cominciarono con un minuto di silenzio per ricordare le 366 vittime del naufragio che era appena avvenuto al largo dell’isola siciliana. Nel giro di un anno i migranti morti nel Mediterraneo sono stati più di tremila. Questo weekend a Ferrara in tanti incontri si parlerà di immigrazione, e stavolta nessuno resterà in silenzio. u

Giovanni De Mauro

“Siamo usciti nel mondo insipido, strimpellando”

BiNyAvANgA WAiNAiNA, pAgiNA

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Immagini

La città in piazzaHong Kong, Cina30 settembre 2014

La manifestazione davanti alla sede del governo locale. Da giorni migliaia di persone bloccano le strade dell’ex colo-nia britannica per protestare contro la decisione della Cina di non permettere libere elezioni nel 2017. Le manifesta-zioni sono cominciate il 22 settembre, quando gli studenti delle superiori e dell’università hanno boicottato le le-zioni, e sono continuate nei giorni suc-cessivi con la collaborazione del movi-mento locale Occupy central. Secondo le autorità, più di quaranta persone sono rimaste ferite negli scontri e oltre 70 persone sono state fermate. La protesta è proseguita anche il 1 ottobre, festa na-zionale della Repubblica Popolare Cine-se. Foto di Anthony Kwan (Getty Images)

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Immagini

L’attesa dei curdiSuruç, Turchia28 settembre 2014

Curdi siriani a Suruç, in Turchia, aspet-tano di attraversare il conine per torna-re nelle loro case ad Ayn al Arab (Kobani in curdo), nel nord della Siria. Negli ulti-mi dieci giorni i miliziani dello Stato islamico hanno lanciato una vasta of-fensiva sulla città, e almeno 150mila persone sono state costrette a rifugiarsi in territorio turco. Si tratta del più gran-de esodo di profughi dal 2011, quando è cominciata la guerra in Siria. La coali-zione internazionale guidata dagli Stati Uniti ha risposto bombardando le po-stazioni dello Stato islamico nei pressi di Ayn al Arab. Foto di Murad Sezer (Reu-

ters/Contrasto)

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Immagini

Sepolti dalla cenereNagano, Giappone28 settembre 2014

Le operazioni di soccorso nei rifugi montani colpiti dall’eruzione del vulca-no Ontake, al conine tra le prefetture di Nagano e Gifu. L’eruzione, cominciata il 27 settembre, ha provocato la morte di 47 persone. Ma secondo le autorità il bi-lancio delle vittime potrebbe salire, dal momento che non tutte le zone colpite sono state ancora perlustrate. Il 30 set-tembre, infatti, le operazioni di soccorso condotte dai soldati e dai vigili del fuoco sono state interrotte per ventiquattr’ore a causa di una nuova eruzione e per la presenza di gas velenosi nell’aria. Foto di Kyodo/Reuters/Contrasto

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14 Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014

[email protected]

Haiti cinque anni dopo u Da un anno e mezzo lavoro ad Haiti con l’ong Terre des Hommes. Ho letto l’articolo su questo paese apparso su Inter-nazionale 1061 e ci sono alcuni elementi che vorrei portare al-la vostra attenzione. Nell’arti-colo si dice che ci sono stati più di 150mila morti: è vero, ma le ultime statistiche dicono che i morti siano stati 300mila; al-cune fonti dicono anche di più, purtroppo un dato uiciale non ci sarà mai. Si dice che Haiti è famosa per il colera: bisogna ricordare però che il colera è arrivato sull’isola solo nel 2012, quindi dopo ben due anni dal terremoto. È vero che alcune zone del paese sono ancora pe-ricolose a causa della delin-quenza, ma in questi anni – an-che grazie alla missione delle Nazioni Unite – la situazione è molto migliorata: lo dimostra l’arrivo di molti investitori pri-vati stranieri, come le catene di hotel Hilton e Marriott nel set-tore turistico, o la Heineken, che ha acquistato la birra loca-le Prestige. Un’ultima precisa-zione sull’articolo di Mitch Mo-

xley quando sostiene che “gli unici veicoli in giro sono quelli delle organizzazioni umanita-rie”: ormai ci stiamo avvici-nando all’anniversario dei cin-que anni dal terremoto e le ong stanno lasciando il paese, per-ché per fortuna dopo le emer-genze del terremoto e del cole-ra non c’è più bisogno di inter-venti massicci. Quindi si vedo-no soprattutto più mezzi pub-blici e privati locali. Francesco Ingarsia

L’Ucraina è diversa u Sono un vostro abbonato da anni, mia moglie è russa e vivo in Cina. Riguardo alla questio-ne Ucraina questo mi espone a punti di vista diversi. Mi sem-bra invece che la vostra coper-tura sia quantomeno parziale e vi chiedo, se possibile, di am-pliare un minimo il bacino di scelta degli articoli. Michele Scardovi

Trenta u Sono una studentessa di scienze politiche e relazioni in-ternazionali. Mi sono avvicina-ta a Internazionale perché do-

vevo preparare un esame. Eb-bene, l’esame l’ho superato (30!). Informarsi, aprire gli oc-chi, capire. Tutte cose che sono riuscita a fare grazie a voi. Lucia

Errata corrige

u Nel numero 1070, il graico a pagina 48 aveva la scala tempo-rale sbagliata: ecco la versione corretta.

PER CONTATTARE LA REDAZIONE

Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718Posta via Volturno 58, 00185 RomaEmail [email protected] internazionale.it

INTERNAZIONALE È SU

Facebook.com/internazionaleTwitter.com/internazionaleFlickr.com/internazYouTube.com/internazionale

Sto divorziando da mio ma-rito e ti chiedo: perché mi sembra che la legge invece di aiutarci ci renda le cose ancora più diicili?–Betta

Secondo l’Istat il 49 per cento dei matrimoni italiani si con-clude con una separazione o un divorzio. Ma noi continuia-mo a considerarlo un imprevi-sto e per concludere un matri-monio accettiamo di afronta-re un procedimento lento, co-stoso e pesante sul piano per-sonale. Trattiamo la separazio-ne come un’eccezione e non ci siamo accorti che ormai è la

norma. Che ci piaccia o no, i divorzi sono diventati frequen-tissimi e le proposte di riforma sul “divorzio breve” sono un legittimo tentativo di adottare un approccio più pragmatico, risparmiando dolore e soldi a un gran numero di italiani. Co-me al solito, però, le voci as-sordanti dei “paladini della fa-miglia” riescono a distrarre la politica dalla realtà dei fatti. Anni fa sulla stampa svizzera ho letto la proposta provocato-ria di una sociologa che propo-neva il matrimonio a termine: se non c’è domanda di rinno-vo, ogni matrimonio si consi-

dera automaticamente sciolto dopo dieci anni, senza ulteriori lungaggini burocratiche né parcelle legali da capogiro. Mi diverte pensare a come cam-bierebbe la dinamica di coppia quando si entra nell’anno del rinnovo: forse molti, invece di ritrovarsi alla deriva senza sa-pere come, sarebbero spronati a ritrovare lo slancio e a tirar fuori il meglio di sé per essere riconfermati dal coniuge.

Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internaziona-le. Risponde all’indirizzo [email protected]

Dear Daddy

Matrimonio a tempo

Commercio tra l’America Latina, i Caraibi e la Cina, in miliardi di dollari. Fonte: El País

Esportazioni dai paesi dell’America Latina e dei Caraibi alla Cina

Importazioni dei paesi dell’America Latina e dei Caraibi dalla Cina

200

160

120

80

40

0

2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012

Lo statoche non c’è

Le correzioni

u Come bisogna chiamare il gruppo estremista islamico che negli ultimi mesi ha occu-pato città e regioni in Iraq e in Siria? Fino alla ine di giugno si chiamava Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Poi il suo capo, Abu Bakr al Baghda-di, ha dichiarato che il territo-rio sotto il suo controllo era un califato e gli ha dato un nuovo nome: Stato islamico. È evi-dente che chiamarlo così serve a fare propaganda. La parola “stato” infatti fa pensare a un territorio dotato di un’ammini-strazione e di un governo – il califato evocato da Al Bagh-dadi, appunto – non a un grup-po terroristico o a una milizia che sta cercando di conquista-re dei territori. Così, parlando di “Stato islamico” anche i giornali rischiano di confonde-re i lettori. Inoltre l’aggettivo “islamico” associato a un’or-ganizzazione che incita all’odio e alla violenza è ofen-sivo per molti musulmani. Per questi motivi l’agenzia di stampa France-Presse ha deci-so di non usare più il nome “Stato islamico” e di sostituir-lo con espressioni come “grup-po Stato islamico”, “organizza-zione Stato islamico” o “jiha-disti dello Stato islamico”. È una scelta coraggiosa, perché queste perifrasi spesso occu-pano troppo spazio (pensate ai titoli) o appesantiscono il di-scorso. Ma quando si può, vale la pena di fare lo sforzo. Giulia Zoli è una giornalista di Internazionale. L’email di questa rubrica è [email protected]

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Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014 17

Editoriali

L’insediamento di Ashraf Ghani come nuovo pre-sidente dell’Afghanistan dopo un’elezione molto discussa è un’occasione per fare qualche previsio-ne sul futuro del paese. Davanti al primo passag-gio di poteri da quando Hamid Karzai è salito al potere nel 2001 è giusto mostrare un po’ di ottimi-smo. La comunità internazionale ha accolto favo-revolmente Ghani, che si è impegnato a irmare un accordo per mantenere le forze internazionali dell’Isaf nel paese anche dopo l’inizio del ritiro statunitense, previsto per la ine del 2014. Questo dovrebbe tenere aperto il rubinetto degli aiuti esteri.

Ma le possibilità che il governo sopravviva re-stano limitate. Nonostante abbia accettato un accordo per la divisione dei poteri con Ghani, il candidato rivale Abdullah Abdullah ha quasi boi-cottato l’insediamento dopo che i risultati eletto-rali sono stati pubblicati senza il suo consenso. Se basta così poco a scatenare la sua rabbia, presto Abdullah potrebbe far cadere il governo. Ma Gha-ni deve afrontare una minaccia ben più grave: i taliban, che continuano a conquistare nuovi ter-ritori e organizzare attacchi in tutto il paese. L’esercito afgano, con il morale sotto i tacchi e se-

gnato dalle diserzioni, non riesce a combatterli e sarà ancora più in diicoltà dopo il ritiro degli sta-tunitensi.

Se non altro, però, diicilmente Ghani potrà fare peggio di Karzai. Chi loda l’ex presidente per aver portato stabilità nel paese ha la memoria corta. Karzai era corrotto e indifendibile, e ha sempre anteposto i suoi interessi a quelli del pae-se. Ha basato la sua strategia nei confronti dei ta-liban sulle alleanze con i signori della guerra, alienandosi il supporto della maggior parte della popolazione. Karzai si è dedicato solo ad accumu-lare un enorme patrimonio, e negli ultimi mesi si è disinteressato di tutto, lasciando le decisioni più diicili (come l’accordo di sicurezza con gli Stati Uniti) al suo successore. Nel suo discorso di com-miato l’ex presidente ha attaccato sia Washington sia il Pakistan. Questo leader inaidabile, il cui rapporto con gli Stati Uniti è cambiato a seconda dei suoi sbalzi d’umore, cerca ora di presentarsi come un populista, quando in realtà è solo un tec-nocrate.

Ghani, un antropologo che ha lavorato per la Banca mondiale, dovrà fare attenzione a non se-guire il suo esempio. u as

Il futuro dell’Afghanistan

The News, Pakistan

Il prezzo della salute

Le Monde, Francia

È una questione che pensavamo si limitasse ai paesi in via di sviluppo. Ma l’arrivo di un nuovo medicinale contro l’epatite C, il Sovaldi, l’ha por-tata al centro del dibattito politico francese. Lo stato ha i mezzi per fornire questo farmaco rivolu-zionario a chi ne ha bisogno? La risposta è no, al-meno non al prezzo richiesto dal suo produttore, la statunitense Gilead: 18.500 euro per una scato-la, poco meno di 56mila euro per un trattamento di 12 settimane. Anche limitandone la prescrizio-ne ai malati più gravi, la spesa supererebbe presto il miliardo di euro.

Per spuntare un prezzo ragionevole, il governo ha scelto le maniere forti: preleverà una tassa sul-le vendite di tutti i farmaci per l’epatite C se verrà superata una certa soglia di spesa. Finora le case farmaceutiche che impongono prezzi elevati l’hanno sempre avuta vinta. Per le malattie del sistema immunitario o per rare forme di tumori, la Francia ha sborsato anche decine di migliaia di euro all’anno per paziente. Nel caso dell’epatite C però non si parla più di duemila pazienti, ma di

200mila. La Francia non è l’unica a interrogarsi sulla questione. A giugno quindici paesi europei si sono alleati per chiedere alle case farmaceuti-che di abbassare i prezzi. L’iniziativa non ha dato grandi risultati, ma dimostra che in futuro gli sta-ti saranno sempre più spesso costretti a mettersi d’accordo per avere più potere sulle aziende.

Il dibattito è appena cominciato. Nella lotta ai tumori, i progressi della ricerca sono accompa-gnati da un’impennata dei prezzi. Per ora le nuo-ve terapie, che costano ino a centomila euro e ri-guardano solo pochi pazienti, vengono rimborsa-te dalla sanità pubblica. Ma cosa succederà quan-do ogni malattia rara avrà la sua cura? La questio-ne riguarda anche i medicinali più difusi e costo-si, per i quali esistono generici a buon mercato. Lo stato continua a inventare sistemi per indirizzare le prescrizioni dei medici, e non rispetta le stesse regole che ha issato. I pazienti vivono con ango-scia questa incertezza. Il caso Sovaldi deve aprire una rilessione seria sul prezzo che siamo disposti a pagare per salvare una vita. u adr

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (coordinamento)In redazione Giovanni Ansaldo, Annalisa Camilli, Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Gabriele Crescente, Giovanna D’Ascenzi, Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Anna Franchin, Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Stati Uniti), Maysa Moroni (photo editor), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio Oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (copy editor) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri, Marta Russo Segreteria Teresa Censini, Monica Paolucci, Angelo Sellitto Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Giuseppina Cavallo, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Andrea Ferrario, Giacomo Longhi, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Lara Pollero, Francesca Rossetti, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Alessia Cerantola, Catherine Cornet, China Files, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Antonio Frate, Francesca Gnetti, Anita Joshi, Andrea Pira, Fabio Pusterla, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Rosy Santella, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido VitielloInternazionale a Ferrara Luisa CifolilliEditore Internazionale spa Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Emanuele Bevilacqua, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli, Alessia SalvittiConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 6953 9313, 06 6953 9312 [email protected] Download Pubblicità srlConcessionaria esclusiva per la pubblicità moda e lifestyle Milano Fashion Media srlStampa Elcograf spa, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

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18 Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014

Attualità

Quando nel primo pomerig-gio di lunedì 29 settembre sono arrivato a Hong Kong, tutto sembrava normale. All’aeroporto una guida tu-ristica mi ha detto sorri-

dente che le stazioni della metropolitana del centro della città erano aperte. A Cen-tral, il quartiere inanziario che da una set-timana è il cuore delle manifestazioni per chiedere a Pechino più democrazia, gli im-piegati degli uffici andavano e venivano indisturbati. All’incrocio dove il giorno pri-ma le forze dell’ordine avevano lanciato lacrimogeni contro i manifestanti, il trai-co era già tornato scorrevole. Ma mi è ba-stato percorrere un isolato per vedere il primo segnale di anormalità: un gruppo di giovani in maglietta nera che erigevano barricate di metallo in mezzo alla strada. La notte precedente gli scontri con la poli-zia avevano costretto i manifestanti ad ar-retrare dalla loro posizione e ora stavano di nuovo allargando il loro territorio. Supera-re quella barriera è stato come entrare in un altro mondo.

Fuori erano tutti estranei e un cafè co-stava sette dollari. Dentro sembrava di es-sere nella prima scena di quei ilm per bam-bini ambientati in un paese di fantasia un po’ troppo bello per essere vero. L’età me-dia della popolazione era dimezzata: i ra-gazzi erano improvvisamente dappertutto, se ne stavano seduti, chiacchieravano, mangiavano, dipingevano, si facevano ta-tuaggi lavabili a vicenda. I volontari riem-

Hong Kongsida PechinoThe Christopher Beam, The New Republic, Stati Uniti

Migliaia di persone hanno occupato vaste zone dell’ex colonia britannica. Vogliono elezioni libere e non intendono andarsene a mani vuote

pivano bottiglie d’acqua a una fontana pub-blica e se le passavano, come fanno i pom-pieri delle piccole città con i secchi, per svuotarle in barricate di plastica arancione. C’erano ragazzi che camminavano su e giù per la strada distribuendo provviste, e nel giro di cinque minuti mi sono state oferte: una banana, una mela, del pane, una botti-glia d’acqua, una maschera, degli occhiali protettivi e un adesivo rinfrescante per la fronte. All’inizio pensavo che il nome del movimento, Occupy Central with love and peace, fosse un po’ ridicolo. In quel mo-mento mi è sembrato perfetto.

Un movimento senza leaderIn realtà Occupy Central è un termine im-proprio. Il movimento non ha nulla a che fare con Occupy Wall street, o con gli altri movimenti anticapitalisti denominati Oc-cupy. È un movimento speciico di Hong Kong nato per chiedere l’elezione con il sufragio universale del capo dell’ammini-strazione locale. Un obiettivo che il gover-no di Pechino ha allontanato il 31 agosto annunciando che avrebbe vagliato i candi-dati alla carica di governatore dell’isola prima che fossero inseriti nella scheda elet-torale. Il nome Occupy Central è anche superato perché le proteste si sono estese ben oltre il distretto inanziario di Hong Kong, ino al quartiere governativo di Ad-miralty, alla Causeway bay e alle vie dello shopping di Mong Kok, bloccando le zone più frequentate della città. Inoltre, l’orga-nizzazione originaria che si fa chiamare Occupy Central non coordina più le prote-ste da quando i suoi leader hanno perso il controllo delle manifestazioni.

Dopo gli scontri del 28 settembre, tutti pensavano che il movimento avesse perso slancio. Ma intervistando i manifestanti ho capito che non è così. Molte delle persone con cui ho parlato sono scese in piazza solo

dopo l’intervento della polizia. Henry Wong, uno studente della Chinese univer-sity di Hong Kong di 19 anni, ha deciso di unirsi ai manifestanti dopo aver visto in tv gli studenti che resistevano alla polizia. Anche a convincere Michelle Chan, 18 an-ni, è stato l’uso della forza: “La polizia non deve essere così crudele”, mi ha detto. To-ny Wong, 24 anni, non è andato al lavoro per unirsi alla protesta. “Posso trovare un altro lavoro”, ha spiegato, “ma non posso trovare un’altra Hong Kong”.

Nonostante la mancanza di leadership, le cose sono continuate senza intoppi. C’erano volontari che camminavano avan-ti e indietro lungo la strada che collega Central e Admiralty raccogliendo i riiuti. Squadre che distribuivano provviste, a pie-di o con i furgoni. In mancanza di una lea-dership, vari organizzatori armati di mega-

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Davanti alla sede del governo di Hong Kong, 27 settembre 2014

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Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014 19

fono davano indicazioni ai numerosi grup-pi – se spostarsi in una certa direzione, ri-manere dov’erano o preparare l’equipag-giamento d’emergenza – che la folla poteva scegliere di seguire o meno. “È come un coordinamento, ma non un vero coordina-mento”, ha spiegato Cheung Ling Song, 19 anni, uno degli studenti con il megafono.

Non tutti erano contenti dell’organizza-zione. “Non abbiamo una strategia”, ha spiegato Leung “Long hair” Kwok-hung, un deputato e attivista per la democrazia a cui hanno tagliato i famosi capelli lunghi quando è stato in prigione in agosto. Long hair conosce il potere di un gesto dramma-tico, come quello che ha fatto quando si è inginocchiato implorando i manifestanti di restare o quando ha lanciato una banana contro il governatore. Mi ha spiegato che il movimento Occupy ha come obiettivo il vero sufragio universale ma non sa come arrivarci. Pechino non sembra disposta a cedere, e il parlamento non ha il potere di

costringerla. Così i manifestanti si stanno concentrando sulla richiesta più semplice: che venga rimosso dall’incarico l’attuale governatore, Chun-ying Leung. Mentre andavo a est, verso la sede del go-verno locale, le critiche corrosive nei suoi confronti aumentavano. I manifestanti hanno trasformato un autobus abbandona-to in una inta tomba di Leung e posato io-ri davanti al suo ritratto incollato sul para-brezza. Una donna spruzzava acqua sull’al-tare in un ironico gesto rituale. Due amici correvano per strada con un’enorme testa di cartone di Leung con i denti da vampiro disegnati sulla sua bocca. “Chun-ying Leung, dimettiti!”, era lo slogan che tutti cantavano in coro.

Che questa sia una richiesta realistica è discutibile. Per i manifestanti, non è questo il punto. La maggior parte di loro sembra consapevole del fatto che diicilmente ot-terrà un risultato immediato e tangibile. Ma sente di dover fare qualcosa. “Se Pechi-

u Nel 1997 la sovranità di Hong Kong, co-lonia britannica, passa dal Regno Unito al-la Cina sulle basi di un accordo siglato nel 1984. Secondo l’accordo, Pechino dovrà riconoscere alla città per i successivi cin-quant’anni “un alto grado di autonomia”, fatta eccezione per la difesa e la politica estera. A regolare lo status speciale di Hong Kong è la basic law, soggetta però a un margine di libertà di interpretazione da parte di Pechino. u Hong Kong è governata da un ammini-stratore, il chief executive, eletto da un co-mitato di 1.200 esponenti di diversi settori economici della città, la maggior parte dei quali vicini a Pechino. Nel 2004 il governo cinese stabilisce che le prime elezioni a sufragio universale si terranno nel 2017. u Nel giugno del 2014, in vista della de-cisione del Comitato permanente dell’as-semblea nazionale del popolo sulle regole per l’elezione del governatore di Hong Kong, il movimento Occupy Central orga-nizza un referendum per l’introduzione del sufragio universale a cui partecipano 800mila persone. Il 31 agosto Pechino annuncia le riforme decise dal comitato permanente: sarà introdotto il sufragio universale ma gli elettori potranno votare solo i candidati approvati dal governo cen-trale. Il 22 settembre gli studenti univer-sitari scendono in piazza per chiedere vere elezioni dirette. Sei giorni dopo la polizia interviene con gas lacrimogeni per disper-dere la folla che però resiste. Il 29 settem-bre Occupy Central si unisce agli studen-ti. I manifestanti intendono continuare la protesta inché il governatore Chun-ying Leung non si dimetterà.

Da sapere Un paese, due sistemi

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Attualità

Le ragionidei manifestanti

In piazza a Hong Kong ci sono la frustrazione accumulata in anni di malgoverno e la pauradi perdere la propria identità

Nicholas Bequelin, China File, Stati Uniti

“Pensi che faremo la ine del Tibet?”. Era la primavera del 2011 e la domanda a bruciapelo del mio perso-

nal trainer di Hong Kong durante un’inter-minabile sessione di step mi ha lasciato di stucco. Prima di allora non avevamo mai parlato di politica, di attualità o del mio la-voro. Di solito le nostre conversazioni era-

no incentrate sull’alimentazione, l’allena-mento, e il fatto che nessuna delle attuali pop star di Hong Kong avesse raggiunto un livello lontanamente paragonabile a quello degli idoli degli anni ottanta.

Anche se il parallelo con il Tibet è for-zato, l’inquietudine crescente di molti abi-tanti di Hong Kong per i fallimenti del go-verno locale e dei leader che si sono succe-duti alla sua guida è stata la causa princi-pale dello scontro con Pechino. A scatena-re le proteste è stato un provvedimento tecnico: alla ine di agosto il comitato per-manente dell’assemblea del popolo ha annunciato che per l’elezione del chief exe-

no limiterà le nostre scelte, questa storia non inirà mai, scenderemo in piazza sem-pre più numerosi”, ha detto Karmeo Lo, uno studente di architettura di 27 anni.

Dopo il caos della notte precedente, lu-nedì la polizia sembrava prendersela co-moda. L’unico confronto davanti a una barricata era sulla Arsenal road, vicino alla sede della polizia. Ma con il passare delle ore, entrambe le parti sembravano ignorar-si sempre più. L’unico accenno di violenza era uno striscione arrotolato portato da un poliziotto sul quale, se fosse stato spiegato, si sarebbe letto: “Se non vi disperdete subi-to saremo costretti a sparare”. Ma non lo ha mai aperto. A un certo punto, un agente di polizia ha cominciato a urlare e a gesticola-re minacciosamente: pare che un manife-stante avesse acceso una sigaretta vicino a un distributore di benzina.

Al calar della notte, la relativa assenza di polizia ha cominciato a sembrare inquie-tante. All’una meno venti uno degli orga-nizzatori ha riunito un gruppo e ha parlato sottovoce al megafono, probabilmente per evitare di essere sentito dai poliziotti. Ave-va saputo che trenta furgoni pieni di agenti erano in attesa dietro l’angolo, quindi tutti dovevano tenere pronte le maschere e gli occhiali protettivi. I ragazzi hanno riorga-nizzato le barricate a triangolo e ci hanno piantato sopra gli ombrelli per difendersi dallo spray urticante. Mentre aspettavamo che succedesse qualcosa, mi sono ritrovato a saltare a ogni minimo rumore. Poco dopo si è sentito un boato e tutti si sono messi freneticamente la maschera. Ma era un fal-so allarme.

Senza frettaNessuno sa come inirà questa storia. Pri-ma o poi il governo di Hong Kong dovrà reagire, facendo delle concessioni o co-stringendo i manifestanti a disperdersi. Nel primo caso metterebbe in imbarazzo Pechino; nel secondo, si rischierebbe una tragedia. Anche se non hanno molta in-luenza, i manifestanti hanno tempo. “Non abbiamo fretta”, ha detto Mason Choi, 22 anni, uno studente della City university, agitando una giacca mimetica e un adesivo per rinfrescare la fronte. Anche se non vin-ceremo questo round, ha aggiunto Karmeo Lo, lo studente di architettura, le proteste saranno servite lo stesso: “Ora la gente sa per cosa e come combattere”. Poi il suo te-lefono ha squillato: “Scusa, ho un appunta-mento con la mia ragazza”. u bt

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cutive (il capo dell’amministrazione locale) del 2017 sarà introdotto il sufragio univer-sale ma i candidati saranno scelti da Pechi-no e non dai cittadini. Il problema che il governo cinese aveva di fronte è chiaro: in che modo applicare il sufragio universale per le prossime elezioni del governatore, come stabilito dall’accordo con il Regno Unito del 1984 per il passaggio della sovra-nità di Hong Kong, assicurandosi però che solo i candidati “amici” possano essere eletti. All’epoca dell’accordo la Cina aveva accettato di introdurre la clausola del suf-fragio universale pensando che nel 2017 la posizione del suo braccio politico a Hong Kong sarebbe stata ormai consolidata e inattaccabile e avrebbe garantito l’elezio-ne di un governatore idato. Ma non è an-data così, in parte perché la repressione nel sangue del movimento filodemocratico del 1989 ha reso diffidenti gli abitanti dell’ex colonia britannica, e soprattutto perché l’impopolarità dei leader scelti dal 1997 a oggi ha raforzato le spinte demo-

cratiche contribuendo a deinire l’identità politica di Hong Kong, ben distinta dal si-stema della Cina continentale. Eppure è sbagliato sostenere che lo scontro era ine-vitabile e che il destino di Hong Kong era segnato già nel 1984. La verità è che gli ul-timi eventi nascono dalla convergenza di tre fattori distinti.

Alienazione crescenteAttraverso una serie di crisi esplose negli ultimi anni, gli abitanti di Hong Kong han-no scoperto che il loro governo è sostan-zialmente incapace di difendere gli inte-ressi della gente comune, è totalmente as-servito ai costruttori miliardari ed è sordo alle richieste e alle critiche dei cittadini. Dalla demolizione di luoghi storici della città in nome del business della riqualiica-zione urbana, all’assegnazione del proget-to del Ciberporto al iglio del miliardario Li Ka-shing senza una gara d’appalto, e alle vuote promesse di alloggi a prezzi abbor-dabili in una città dove le disuguaglianze sono sempre più marcate, gli abitanti di Hong Kong si sono convinti che chi li go-verna protegge solo i propri interessi. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è sta-to l’alusso di immigrati dalla Cina conti-nentale. Il cittadino medio di Hong Kong è stato sostanzialmente buttato fuori dai tra-sporti pubblici, dai centri commerciali, dagli ospedali, dalle scuole e dal mercato immobiliare, da sempre lo strumento prin-cipale di arricchimento dei colletti bianchi. I provvedimenti adottati per ridurre il lus-so di compratori dal continente hanno fat-to aumentare a dismisura i prezzi degli immobili e hanno inito per penalizzare i residenti, portando l’asticella dell’accesso al mercato troppo in alto per il cittadino medio senza impedire l’arrivo di capitali esterni.

A raforzare il sospetto che l’ammini-strazione stesse diventando sempre più corrotta e inaidabile hanno contribuito anche due grandi scandali. Nel primo caso si è scoperto che l’ex capo della commis-sione indipendente per la lotta alla corru-zione (Icac), Timothy Tong, aveva ampia-mente superato i limiti di spesa previsti per i regali e i rimborsi, facendosi risarcire, tra le altre cose, 19 viaggi nel continente. Poi è stato dimostrato che l’ex capo segretario di Hong Kong, Rafael Hui, era da tempo col-luso con uno dei principali gruppi immobi-liari del paese.

Tra le vittime di questa crescente per-

Hong Kong, 30 settembre 2014

George Chen, South China Morning Post, Hong Kong

Da Hong Kong

Il 22 settembre, mentre gli stu-denti di Hong Kong scendeva-no in piazza, il presidente cine-

se Xi Jinping ha convocato una de-legazione di ricchi uomini d’afari dell’ex colonia britannica, tra cui Li Ka-shing, l’uomo più ricco d’Asia. Chiunque abbia lanciato l’iniziativa deve aver pensato che l’intervento di Xi potesse alleviare la tensione, rassicurando i cittadini di Hong Kong sul fatto che i cinesi non han-no cambiato idea sulla formula “un paese, due sistemi”. Purtroppo, pe-rò, questa riunione si è rivelata un altro passo falso nei rapporti tra Hong Kong e Pechino.

Disparità economicaHong Kong ha da decenni una so-cietà orientata agli afari e al mer-cato e l’inluenza di magnati come Li Ka-shing è enorme. Ma gli abi-tanti, in particolare la generazione più giovane rappresentata dal lea-der del movimento studentesco i-lodemocratico Joshua Wong, stan-no entrando in una nuova era. Il malcontento per il monopolio im-mobiliare che ha contribuito a far sparire tante piccole imprese priva-te della città è forte, e proprio la di-sparità economica è una delle prin-cipali cause dell’attuale caospolitico.

Il fatto che Pechino abbia con-vocato un gruppo ristretto di uomi-ni d’afari invece che gli esponenti politici o i rappresentanti del movi-mento per la democrazia ha solle-vato seri dubbi su chi, secondo la Cina, sia più legittimato a rappre-sentare gli interessi a lungo termi-ne degli abitanti dell’isola. u bt

Chi conta davvero

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Attualitàcezione di stallo politico ci sono i partiti i-lodemocratici tradizionali, messi alla pro-va dall’ascesa di partiti più radicali guidati da leader giovani, come il People power e la Lega dei socialdemocratici, e da movi-menti di protesta come Occupy Central e Scholarism. Gli studenti di Hong Kong hanno preferito i social network e le azioni dimostrative alla costruzione di organizza-zioni politiche tradizionali. Sono molto più radicali rispetto ai loro predecessori per-ché pensano che la politica tradizionale sia incapace di cambiare le cose, ma anche perché sono meno consapevoli dei mecca-nismi di funzionamento del Partito comu-nista. Gelosi della loro identità di “abitanti di Hong Kong”, non tollerano le dichiara-zioni di patriottismo cinese che i più anzia-ni hanno sempre prudentemente scelto di fare. Alla prima occasione, Pechino ne ha approittato per denunciare gli organizza-tori di Occupy Central accusandoli di esse-re strumenti sleali di non meglio speciica-te “forze straniere”.

Generazioni a confrontoIl divario culturale tra le due generazioni è molto profondo: agli occhi dei veterani de-mocratici i giovani radicali appaiono poli-ticamente ingenui, incapaci di costruire un movimento politico e idealisti, perché non capiscono che Hong Kong è ormai parte della Cina. Tatticamente, dicono, i giovani commettono errori che li espongono al contrattacco di Pechino e rischiano di sca-tenare crisi per cui non hanno soluzioni. Da parte loro le nuove generazioni, cre-sciute a ianco degli studenti provenienti dal continente che afollano sempre di più le università di Hong Kong, sottolineano che i veterani si illudono di poter trovare un accordo con il Partito comunista e che con le loro battaglie non hanno ottenuto alcun risultato. Allora come è possibile che queste due generazioni abbiano unito le loro forze intorno a Occupy Central?

Se c’è una cosa su cui la maggior parte degli osservatori concorda è che l’atteggia-mento e la retorica al vetriolo di Pechino negli ultimi tempi hanno raforzato il mo-vimento Occupy Central. A giugno – poco dopo la commemorazione a Hong Kong del massacro di piazza Tiananmen – la pubblicazione di un documento in cui Pe-chino ribadisce la sua interpretazione del modello “un paese, due sistemi”, l’evoca-zione di un intervento dell’esercito, la ma-nifestazione contro Occupy Central (forse

inanziata dagli hongkonghesi vicini a Pe-chino) del 17 agosto, e l’irruzione dei fun-zionari anticorruzione nelle case di due eminenti igure ilodemocratiche (il pro-prietario dell’Apple Daily Media Group, Jimmy Lai, e il sindacalista Lee Cheuk-yan) hanno alimentato un senso generale di repulsione, che ha fatto crescere la soli-darietà nei confronti del movimento facili-tando un riavvicinamento tra le diverse generazioni di ilodemocratici.

Il nuovo imperatoreLa risposta di Pechino non era scontata. Generalmente il Partito comunista reagi-sce nel modo sbagliato alle side dirette, ma in questo caso la tempistica è stata par-ticolarmente sfavorevole: il presidente Xi Jinping è impegnato in una manovra ag-gressiva per raforzare la sua fazione all’in-terno del partito. Dopo essersi scontrato con i falchi in diverse occasioni, Xi non aveva alcun interesse a ingaggiare nuove battaglie. Tra l’altro il presidente cinese ha spesso fatto ricorso all’espediente politico di agire in modo ancor più radicale rispetto ai falchi, come testimoniano l’aumento del controllo ideologico e sui mezzi d’informa-zione, la repressione del dissenso, l’atten-zione a mostrare maggior considerazione nei confronti dell’esercito e la scelta di toni più duri in politica estera. Per non parlare delle politiche più restrittive introdotte in Tibet e nello Xinjiang. In questo senso era prevedibile che non avrebbe gradito la si-da di Hong Kong.

Ma quale sarà il futuro della regione amministrativa speciale? Proteggere l’in-tegrità delle istituzioni esistenti che hanno garantito lo stato di diritto e la prosperità della città è più importante e ragionevole che pretendere di trasformare il sistema monopartitico in una democrazia. Bisogna convincere Pechino che difendere le pecu-liarità di Hong Kong è nel suo interesse, sia dal punto di vista della reputazione inter-nazionale sia perché avere un laboratorio di idee come Hong Kong può aiutare la Ci-na a superare gli ostacoli sul suo cammino. Nel frattempo bisogna capire se il governo locale riuscirà a migliorare, anche senza un vero suffragio universale. In teoria è possibile, ma inora ogni governatore è sta-to peggio del precedente. u as

Nicholas Bequelin è senior researcher della sezione asiatica di Human rights watch.

Global Times, Cina

Da Pechino

Il 28 settembre gli attivisti estre-misti di Hong Kong hanno lan-ciato il movimento Occupy Cen-

tral, svelando in anticipo una campa-gna illegale. Le foto della polizia co-stretta a disperdere i manifestanti con i lacrimogeni sono circolate in tutto il mondo, danneggiando l’im-magine della città. Hong Kong è un grande centro della inanza e della moda e in quanto abitanti del conti-nente siamo addolorati per quello che sta succedendo per colpa dell’op-posizione. I mezzi d’informazione statunitensi legano il movimento Occupy Central agli incidenti di piazza Tiananmen, ma la Cina non è più il paese di venticinque anni fa. Abbiamo accumulato esperienza e imparato a valutare i disordini sociali e adesso li afrontiamo in modo di-verso. Negli ultimi anni ci sono state molte manifestazioni, ma nessuna è riuscita a modiicare il nostro modo di pensare. In Asia, Hong Kong vanta una lunga tradizione di legalità, quindi la Cina continentale conida nel fatto che il suo governo tenga sot-to controllo in modo legale il movi-mento Occupy Central. Molti temo-no che queste manifestazioni possa-no spingere alla rivolta tutta la popo-lazione. Questa sembra essere la strategia degli estremisti. Ma, nono-stante stia correndo un rischio senza precedenti, Hong Kong non perderà la sua stabilità. I gruppi dell’opposi-zione sanno bene che è impossibile modiicare le decisioni del comitato permanente sulle riforme. Il governo centrale deve appoggiare con fer-mezza l’amministrazione locale af-inché prenda provvedimenti contro gli attivisti. u bt

Il Global Times è un quotidiano legato al governo cinese.

Sono soloestremisti

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Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014 23

Mentre la protesta dilaga e cresce l’ansia per la reazio­ne di Pechino, uno degli in­terrogativi più preoccupan­

ti per gli abitanti di Hong Kong è se il resto del paese sia minimamente interessato al loro destino. Hong Kong è stata a lungo un ponte tra la Cina e il resto del mondo, col­legando il lusso di scambi commerciali e gli investimenti nel paese, ma negli ultimi anni questo ruolo è stato ridimensionato dal fatto che la Cina ha aperto i suoi coni­ni, entrando direttamente nell’economia globale.

I leader di Hong Kong temono che i di­sordini spingeranno gli imprenditori cinesi a scavalcare ulteriormente la città, e i nu­meri gli danno ragione: l’importanza di Hong Kong rispetto al passato è nettamen­te calata. Produceva il 16 per cento del pil cinese nel 1997, anno in cui è tornata sotto il controllo di Pechino, mentre oggi ne pro­duce solo il 3 per cento. Questo ha spinto molti a concludere che Hong Kong sta sci­

Il cuore della inanza

The Economist, Regno Unito

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Hong Kong, 1 ottobre 2014

volando verso l’irrilevanza economica. ma è davvero così?

Non esattamente. limitarsi ai numeri è troppo semplicistico. lo sviluppo della Ci­na negli ultimi vent’anni ha migliorato la situazione economica in tutto il paese, ma la sfera inanziaria di Hong Kong è rimasta indispensabile per Pechino. In diversi am­biti la posizione della città si è perino con­solidata negli ultimi anni. Hong Kong ha dimostrato di essere la fonte più aidabile di capitale privato. Dal 2012 le aziende cine­si hanno raccolto più di 43 miliardi di dolla­ri in oferte pubbliche d’acquisto sul merca­to di Hong Kong, contro i 25 miliardi raccol­

ti nel continente. Più di qualsiasi altro luogo al mondo, Hong Kong ha fornito alle azien­de cinesi un accesso ai prestiti sui mercati inanziari globali. Inoltre è il centro nevral­gico per gli investimenti che attraversano i conini cinesi: nel 2013 sono conluiti qui i due terzi degli investimenti diretti stranieri in Cina (contro il 30 per cento del 2005).

Anche se gran parte di questo denaro si limita a transitare a Hong Kong, le aziende straniere usano la città anche come tappa fondamentale quando investono in Cina, perché ofre qualcosa di unico: un ambien­te stabile, protetto da tribunali trasparenti che fanno rispettare leggi ben radicate. A rivolgere lo sguardo verso Hong Kong non sono solo le aziende e gli investitori stra­nieri. Negli ultimi cinque anni Pechino ha trasformato la città in un banco di prova per una serie di riforme inanziarie.

Il cammino dello yuan verso l’accetta­zione come valuta globale è cominciato a Hong Kong nel 2009 sperimentando scambi commerciali con questa moneta. Inoltre Hong Kong è diventata il primo mercato di titoli in yuan emessi all’estero, mentre la borsa avvierà un programma che per la prima volta permetterà a qualsiasi investitore straniero di acquistare azioni quotate in Cina. la città ha accettato que­sti esperimenti nella convinzione (fonda­ta) che fossero essenziali per la sua soprav­vivenza come importante centro finan­ziario.

Destini intrecciatila verità è che la Cina ha beneiciato am­piamente dello status particolare di Hong Kong, una città separata ma intimamente legata al continente e un territorio piena­mente integrato nell’economia globale ma controllato dal Partito comunista. tutta­via, è evidente quale sia il rapporto di forza tra la Cina e Hong Kong: un quinto degli asset bancari di Hong Kong è fatto di presti­ti a clienti cinesi, mentre la spesa turistica e commerciale (proveniente soprattutto dalla Cina) rappresenta il 10 per cento del pil di Hong Kong. Al contrario, l’esposizio­ne diretta dell’economia cinese nella re­gione è minima.

In ogni caso sarebbe un grave errore pensare che Hong Kong non abbia alcuna rilevanza per la Cina. se Pechino dovesse mettere a repentaglio questo rapporto spe­ciale, Hong Kong pagherebbe il prezzo più alto. ma anche la Cina sofrirebbe, e non poco. u as

Anche se il suo peso è diminuito, Hong Kong ha ancora un ruolo fondamentale nell’economiadel paese

Da sapere Quanto vale Hong KongL’incidenza del pil di Hong Kong su quello cinese, percentuale. Fonte: Marginal Revolution

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Asia e Paciico

Il 23 settembre un tribunale dello Xin­jiang ha condannato all’ergastolo per istigazione al separatismo Ilham Toh­ti, un docente universitario uiguro. La

condanna, criticata in tutto il mondo, è di gran lunga più severa di quelle inlitte di so­lito ai dissidenti cinesi. Ma più che essere una dimostrazione di forza, mostra la con­fusione e la disperazione di Pechino nell’af­frontare la questione della minoranza uigu­ra. Fare di un docente di economia e blog­ger come Tohti un prigioniero politico è paradossale, anche perché per molti aspetti Tohti è l’emblema di come il Partito comu­nista vorrebbe che fossero tutti gli uiguri. È istruito, parla correntemente il mandarino, è stato membro del partito e proviene da una famiglia legata all’amministrazione statale. È un professionista, un imprendito­re e appartiene alla classe media. È mode­

Gli errori di Pechinonello Xinjiang

L’intellettuale uiguro Ilham Tohti è stato condannato all’ergastolo. Ma la repressione della minoranza musulmana è controproducente, scrive James Millward

James Millward, The New York Times, Stati Uniti

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Ilham Tohti nella sua casa di Pechino, il 5 luglio 2013

ratamente religioso (gli uiguri sono in pre­valenza musulmani, ma non tutti sono os­servanti nella stessa misura), e si distingue soprattutto per la sua franchezza.

anche se spesso per i cinesi è una remo­ta regione di frontiera desertica e montuosa abitata da una popolazione strana e folclo­ristica, lo Xinjiang è collegato al resto della Cina e all’asia centrale da una rete di tra­sporti in continua espansione. I grattacieli, le insegne al neon, il boom commerciale e l’inquinamento nelle città dello Xinjiang sono simili a quelli del resto della Cina. e anche se, come in tutte le zone rurali del pa­ese, i suoi villaggi sono ancora poveri, il ceto medio urbano emergente non è molto di­verso da quello di altre città. Ma le autorità sembrano preoccupate e sorprese del fatto che, nonostante lo sviluppo economico, gli uiguri siano rimasti irremovibilmente uigu­ri. sporadici disordini a livello locale sono comuni in tutta la Cina, ma nello Xinjiang si colorano di sentimenti etnici e religiosi. Dopo una decina di anni di relativa tran­quillità, a partire dal 2008 la situazione è diventata sempre più instabile. sono au­mentati gli scontri violenti e gli attacchi contro le forze dell’ordine e i funzionari sta­tali. e nell’ultimo anno ci sono stati molti

attacchi violenti contro civili a Urumqi, la capitale della regione autonoma, a Pechino e nella provincia dello Yunnan. Le autorità dello Xinjiang hanno reagito con la repres­sione, comprese le ricerche di presunti “ter­roristi” casa per casa, e con una campagna contro i simboli dell’identità uigura: il velo, la barba, i copricapi tradizionali, il digiuno del ramadan e la preghiera. Insieme alla recente demolizione di alcuni ediici in stile uiguro dell’antica Kashgar e all’eliminazio­ne della lingua locale dalle scuole e dalle università dello Xinjiang, questi provvedi­menti sembrano avere come scopo l’annul­lamento della cultura indigena. Inoltre, le autorità continuano a bollare i disordini provocati dagli uiguri come “terrorismo islamico” alimentato da forze esterne, an­che se le cause reali sono politiche e interne. e approittano della situazione: mentre nel resto della Cina i cittadini sono abbastanza liberi di protestare contro gli amministrato­ri pubblici corrotti, questa libertà non è con­cessa agli uiguri.

Un’occasione persaCondannando Tohti, Pechino ha rinunciato a cambiare strategia sullo Xinjiang, dove la situazione peggiora sempre di più. Prima che fosse oscurato, il sito web di Tohti, Ui­ghurbiz, era un forum dove han e uiguri po­tevano discutere, e la necessità di una mag­giore comunicazione tra le etnie è uno dei temi delle nuove linee guida per la politica nello Xinjiang presentate a maggio. Ma so­prattutto Tohti sostiene che, se rispettate, le leggi esistenti possono tutelare le minoran­ze. non chiede una democratizzazione ra­dicale all’occidentale, ma la difesa delle istituzioni locali, il sostegno alla cultura ui­gura, opportunità di lavoro per la popola­zione e un’amministrazione davvero auto­noma, come prevede la costituzione. Più che istigare al separatismo, Tohti invoca un ritorno alle promesse dell’era di Mao. La gestione della diversità e del pluralismo è un tema pressante in tutto il mondo. La Ci­na ha l’opportunità di suggerire nuove solu­zioni ai difetti del modello dello stato­na­zione, ma non può farlo mettendo sotto chiave gli intellettuali più creativi e corag­giosi. u bt

James Millward insegna storia della Cina e dell’Asia Centrale alla Georgetown univer-sity. Il 3 ottobre a Ferrara parteciperà all’in-contro sullo Xinjiang “La spina nel ianco di Pechino”.

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afghanistan

firmato il patto sulla sicurezza Il 30 settembre il governo afga-no ha irmato l’accordo bilatera-le sulla sicurezza che permette-rà alle truppe statunitensi di ri-manere nel paese anche dopo il ritiro previsto per quest’anno. Trascorso un giorno dall’inse-diamento, il presidente Ashraf Ghani ha mantenuto l’impegno di chiudere l’intesa con Wa-shington, a lungo rinviata dal predecessore Hamid Karzai, e di irmare anche un secondo ac-cordo che permetterà alla Nato di tenere delle truppe nel paese, scrive Tolo News. I soldati dell’Alleanza atlantica che ri-marranno in Afghanistan dopo il 2014 con il compito di adde-strare le truppe afgane saranno circa 12mila, e di questi novemi-la saranno statunitensi. Gli Stati Uniti manterranno anche altre unità da impiegare nella guerra contro i miliziani di Al Qaeda.

cambogia

salario minimo Con una lettera al governo cam-bogiano e all’associazione na-zionale delle imprese tessili, ot-to aziende internazionali di ab-bigliamento si sono dette dispo-ste a pagare costi più alti per il trasporto e le operazioni doga-nali, così da garantire agli operai un salario adeguato. L’apertura di aziende come H&M e Zara, arrivata dopo gli scioperi del di-cembre 2013 in cui morirono 5 persone, si inserisce nelle tratta-tive per l’aumento del salario minimo mensile, oggi di 100 dollari. I lavoratori vorrebbero che fosse portato a 177, mentre gli imprenditori si fermano a 110. Non è ancora chiaro quanto le aziende siano disposte a pa-gare in più, scrive il Cambodia Daily, ma per i sindacati la de-cisione potrebbe inluire positi-vamente sulle trattative.

indonesia

Uno schiafo per Jokowi Il 25 settembre il parlamento in-donesiano ha cancellato le ele-zioni dirette di governatori e sin-daci. La decisione è stata resa possibile dall’astensione del partito del presidente uscente Susilo Bambang Yudhoyono. L’abrogazione dell’elezione di-retta, introdotta nel 2005, è uno schiafo per la giovane demo-crazia indonesiana, scrive Asia Sentinel. Inoltre è un segnale per il presidente Joko Widodo, ex governatore riformista di Giacarta eletto direttamente dai cittadini e igura di spicco della nuova classe politica indonesia-na. La cancellazione è stata vo-tata dalla coalizione dell’ex ge-nerale Prabowo Subianto, espressione dei vecchi poteri le-gati alla dittatura di Suharto e sconitta alle elezioni di luglio.

in breve

India Il 27 settembre la chief mi-nister del Tamil Nadu, Jayaram Jayalalitha (nella foto), si è di-messa dopo una condanna a quattro anni di prigione per cor-ruzione.Australia-Cambogia Il 26 set-tembre i governi dei due paesi hanno irmato un accordo che prevede il trasferimento in Cambogia di un numero impre-cisato di richiedenti asilo. Per questo Canberra verserà a Phnom Penh 28 milioni di euro.Cina Il bilancio delle violenze etniche del 21 settembre nello Xinjiang, nel nordovest del pae-se, è salito a 50 vittime.

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narendra modi alla casa biancaIl 29 e il 30 settembre il primo ministro indiano Narendra Modi ha incontrato a Washington il presidente degli Stati Uniti Barack oba-ma. Il visto di Modi per entrare nel paese era stato bloccato in segui-to agli scontri etnici del 2002 nello stato del Gujarat, dove lui era chief minister, che provocarono la morte di migliaia di musulmani. Ma a maggio, dopo la sua elezione, Modi ha riottenuto il visto.

Modi a New York, 28 settembre 2014

giappone

A ine luglio la commissione delle Nazioni Unite per l’eliminazione delle discriminazioni razziali ha chiesto al primo ministro Shinzo Abe di mettere ine alle manifestazioni d’odio e ai discorsi razzisti, sempre più frequenti in particolare contro gli stranieri residenti nel paese. In un sondaggio pubblicato dal Mainichi Shimbun,

il 90 per cento degli intervistati considerava l’incitamento all’odio un problema, ma meno della metà riteneva necessarie delle norme per contrastarlo. A settembre gruppi di lavoro parlamentari creati per cercare una soluzione si sono riuniti senza grandi risultati. Qualche deputato del Partito liberaldemocratico ha colto l’occasione per includere l’incitamento all’odio razziale tra le manifestazioni di protesta in generale, comprese quelle contro il nucleare organizzate ogni settimana fuori dalla sede del parlamento o quelle contro la legge sul segreto di stato. “Questo sposta l’attenzione dal cuore del problema e aumenta i rischi di strumentalizzazioni”, conclude il Mainichi Shimbun. ◆

Mainichi Shimbun, Giappone

L’odio dilagante

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Africa e Medio Oriente

Davanti a quello che succede nei loro paesi, gli arabi si sentono impotenti e senza voce. Città distrutte dai bombardamenti,

popoli martoriati e oppressi da assassini. Le tragedie si ripetono senza lasciarci il tempo di piangere. Sono contrario all’intervento della coalizione internazionale guidata da-gli Stati Uniti per varie ragioni, che vanno dalla mia visione della politica statunitense in Medio Oriente al disprezzo per quei pae-si arabi che hanno come unico obiettivo quello di perpetuare una dittatura di stam-po wahabita (l’interpretazione rigorista dell’islam adottata dall’Arabia Saudita). Al-lo stesso tempo mi oppongo alle atrocità dei jihadisti dello Stato islamico, che costringo-no le persone ad abbandonare le loro case, perseguitano le minoranze e calpestano il volere delle maggioranze. Se non parteggio

né per gli Stati Uniti né per l’organizzazione dello Stato islamico, qualcuno potrà pensa-re che sostengo il regime siriano di Bashar al Assad e i suoi allea ti. Ma non è così: Assad ha commesso alcuni tra i peggiori crimini del nostro tempo, devastando la Siria e tra-sformando il suo popolo in una massa di profughi.

La mia posizione, come quella di molti arabi, si basa su un riiuto morale e non por-ta all’azione. Il nostro dolore è il dolore di chi è inerme. Il regime di Assad ha approit-tato della nostra incapacità di reagire quan-do la rivoluzione siriana è stata strumenta-lizzata dai paesi ricchi di petrolio. In questo modo ha impedito la nascita di un esercito libero e ha imposto le logiche di una guerra civile, trasformando la Siria in un campo di battaglia internazionale. Il fallimento della “primavera araba” e del suo progetto de-mocratico impone una revisione radicale delle strutture politiche e sociali del mondo arabo. Ma intanto ha messo le popolazioni arabe davanti a una terribile prova: quella di afrontare un gruppo di assassini che sta trascinando il Medio Oriente verso l’abisso. È una prova che si svolge nel silenzio, un si-lenzio che non può essere compensato dalle parole ipocrite di analisti improvvisati o

dalle immagini trasmesse dalle tv satellita-ri arabe.

Tuttavia non si può tacere su due que-stioni. La prima è il razzismo verso i rifugia-ti siriani, soprattutto in Libano. L’esercito libanese è stato duramente colpito: una trentina di soldati sono stati catturati e tre di loro sono stati uccisi dallo Stato islamico e dal Fronte al nusra (un gruppo legato ad Al Qae da). Questi eventi hanno scatenato rap-presaglie contro i profughi siriani. Ma un esercito non calpesta e umilia persone iner-mi, non butta a terra uomini ammanettati, non incendia i campi profughi. Queste rea-zioni ricordano troppo la repressione di As-sad e la barbarie dello Stato islamico.

La seconda questione su cui non si può tacere è quella palestinese. C’è chi, di fronte alle atrocità dei regimi e delle organizzazio-ni fondamentaliste, vorrebbe far passare in secondo piano i crimini commessi da Israe-le. Ma mettere a confronto la violenza della repressione araba e la relativa “gentilezza” di quella israe liana è un modo per ofuscare la realtà. u gl

Elias Khoury è uno scrittore libanese. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Specchi rotti (Feltrinelli 2014).

La prova più diicile per il Medio Oriente

Da una parte la violenza dei jihadisti dello Stato islamico, dall’altra le bombe della coalizione internazionale. La maggior parte degli arabi sofre in silenzio, scrive Elias Khoury

Elias Khoury, Al Quds al Arabi, Regno Unito

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Profughi curdi siriani a Suruç, in Turchia, il 28 settembre 2014

u Il 30 settembre il governo di Ankara ha presentato al parlamento un progetto di risoluzione che autorizza l’esercito a intervenire in Iraq e in Siria contro i jihadisti dello Stato islamico. Lo stesso giorno ci sono stati violenti combattimenti a Rabia, al conine tra Iraq e Siria, tra le forze curde e i jihadisti. Il posto di frontiera è stato bombardato da aerei britannici, intervenuti per la prima volta in questa guerra. Il 1 ottobre sono stati efettuati nuovi raid contro le postazioni dello Stato islamico vicino ad Ayn al Arab (Kobani in curdo), al conine con la Turchia. La città è assediata dai jihadisti, che hanno costretto alla fuga centinaia di migliaia di persone. Afp, Bbc

Da sapere Il fronte turco

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in breve

Guinea Bissau Il 28 settembre 21 passeggeri di un minibus so-no morti nell’esplosione di una mina abbandonata sulla strada tra Bissora ed Enxeia. Bahrein Il 29 settembre nove sciiti sono stati condannati all’ergastolo e privati della citta-dinanza per terrorismo.Iran Il 30 settembre è stata rin-viata l’esecuzione di una donna accusata di aver ucciso un uomo durante un tentativo di stupro.

palestina-israele

abu Mazen cambia strada Il 25 settembre i partiti palesti-nesi Al Fatah e Hamas hanno raggiunto un accordo in base al quale l’Autorità Nazionale Pale-stinese riprenderà alcune fun-zioni amministrative nella Stri-scia di Gaza. Il giorno dopo, nel suo discorso all’assemblea ge-nerale delle Nazioni Unite, il presidente palestinese Abu Ma-zen (nella foto) ha annunciato di aver presentato domanda per il riconoscimento a pieno titolo della Palestina come stato membro dell’Onu. Gli Stati Uni-ti e Israele hanno duramente criticato il discorso di Abu Ma-zen, scrive Al Monitor.

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le misuredi algeri Il rapimento e l’assassinio del turista francese Hervé Gourdel ha spinto le autorità algerine a raforzare la sorveglianza delle zone a rischio, come i campi pe-troliferi nel sud del paese, scrive Le Quotidien d’Oran. Le mi-sure sono la conseguenza del deterioramento della situazione in Libia e della minaccia dei gruppi terroristi, come Jund al khilafa, che hanno proclamato la loro fedeltà all’organizzazione jihadista Stato islamico. Secon-do alcune fonti, l’Algeria vuole anche chiudere alcuni punti di passaggio alle frontiere con Li-bia e Mali, in particolare co-struendo una barriera elettrii-cata lunga 110 chilometri sul conine libico. tuttavia alcuni studiosi, come riadh Sidaoui, intervistato da Maghreb Émergent, sminuiscono la mi-naccia presentata da gruppi co-me Jund al khilafa: “Il loro è un terrorismo residuale, in cerca di visibilità e inluenza, che non ha rapporti strutturali né con lo Stato islamico né con Al Qaeda”.

Il 29 settembre al cafè Qa-dosh, nel centro di Gerusa-lemme, ho incontrato una donna che mi aveva contattato una settimana prima. Voleva vedermi con urgenza per par-lare di un abitante della Stri-scia di Gaza.

La donna è un’avvocata israeliana. Suo padre vendeva automobili e, tra gli anni set-tanta e novanta, quando la Striscia non era ancora una prigione, aveva conosciuto molti abitanti di Gaza. Un suo socio d’afari palestinese era stato trufato da un cliente

israeliano. L’avvocata aveva denunciato l’uomo presso un tribunale israeliano e dopo quattro anni di battaglie legali aveva ottenuto un risarcimen-to. Il socio palestinese, che vi-veva a Gaza, avrebbe dovuto raggiungere Israele per ritirare un assegno, ma nel frattempo era diventato molto diicile la-sciare la Striscia.

Un giorno l’avvocata si è re-sa conto di non avere notizie del suo cliente da vent’anni (anche se aveva cercato più volte di contattarlo). Per farla breve, ho chiamato un amico

di Gaza e gli ho chiesto aiuto. dieci minuti dopo mi ha ri-chiamato e mi ha dato i nuovi contatti dell’uomo. Quando l’avvocata lo ha chiamato, lui le ha spiegato che non pensava che la somma fosse così alta, e che comunque si idava di lei, come in passato si era idato di suo padre. Presto riceverà i soldi, blocco israeliano per-mettendo.

Morale della favola: un tempo a Gaza ebrei e palesti-nesi intrattenevano relazioni basate sulla iducia. E la chia-mavano occupazione. u as

Da gerusalemme Amira Hass

Quando c’era la iducia

Il 28 settembre il consigliere speciale delle Nazioni Unite per lo yemen, Jamal Benomar, ha dichiarato che i ribelli houthi hanno il controllo completo della capitale. I ribelli, sciiti e originari del nord, sono accusati di aver saccheggiato i palazzi governativi, le case dei politici, le sedi della tv e della radio di stato, scrive Al Thawra. Mentre si moltiplicano gli scontri, il presidente Abd rabbo Mansur Hadi non ha ancora nominato il nuovo premier, come previsto dall’accordo di unità nazionale del 21 settembre. Il 29 settembre a Sana’a migliaia di yemeniti sono scesi in piazza per chiedere il ritiro dei gruppi armati. Nella foto una manifestazione contro gli houthi a Sana’a, il 30 settembre 2014. u

Yemen

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New York, 26 settembre 2014

africa e Medio Oriente

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Europa

Muro contro murosul referendum catalano

La corte costituzionale spagnola ha sospeso la consultazione sull’indipendenza della Catalogna. Ma i separatisti non si arrendono e studiano nuove mosse per sidare Madrid

Fidel Masreal, El Periódico de Catalunya, Spagna

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La manifestazione indipendentista del 30 settembre a Barcellona

Per il governo catalano e per i par-titi favorevoli alla consultazione sull’indipendenza della Catalo-gna è arrivato il momento della

politica. L’equilibrio è molto precario: da una parte c’è la pressione sociale soberani-sta (a favore della sovranità catalana), dall’altra le indicazioni della corte costitu-zionale, che il 30 settembre ha sospeso per cinque mesi le norme con cui era stato con-vocato il voto. Il governo catalano ha con-fermato la volontà di organizzare la consul-tazione (consulta, in spagnolo, che formal-mente è diversa da un referendum) per il 9 novembre. Ma ha anche accettato di rispet-tare le indicazioni della corte e di sospende-re i preparativi per il voto, che potrebbero far cadere nell’illegalità le amministrazioni e i funzionari pubblici coinvolti.

A pronunciarsi è stato il portavoce del

governo catalano, Francesc Homs, che ha usato parole molto nette (“Il processo pro-segue”), ma allo stesso tempo ha mantenu-to una certa ambiguità: ha ammesso che i preparativi sono stati sospesi e ha detto che sono state prese “misure temporanee e cau-telative” per tutelare giuridicamente le am-ministrazioni e i funzionari locali.

In pratica Homs ha riconosciuto che i preparativi per il referendum procederanno a “un ritmo diverso”, anche se poi ha afer-mato che era già tutto previsto e che c’è ab-bastanza tempo per rallentare il processo senza mandare tutto a monte. La vera do-manda è: di quanti giorni stiamo parlando? Homs non ha risposto. Ma come hanno spiegato gli organizzatori della consultazio-ne, le scadenze sono ravvicinate e collegate: rimandando uno dei passaggi, si rischia di far saltare quelli successivi.

Proteste e strategieIl governo, quindi, non potrà esitare molto. Il blocco è già evidente: dai mezzi d’infor-mazione, come dal sito uiciale del governo catalano, sono scomparse le pubblicità del voto. Accanto a queste iniziative, tuttavia, il governo della Catalogna vuole presentare un appello alla corte costituzionale perché

revochi la sospensione del decreto di con-vocazione della consulta. sulla stessa falsa-riga si è mosso l’uicio della presidenza del parlamento locale, che ha chiesto la revoca immediata del provvedimento della corte e ha annunciato ricorso. Homs ha poi chiesto alla corte di essere “supersonica” nella ri-sposta come lo è stata nell’accogliere l’ap-pello del governo di Madrid per il blocco del referendum. e ha sollecitato una sentenza deinitiva il prima possibile.

Questa è la battaglia giuridica e legale in corso. Ma la partita della sovranità catalana si gioca soprattutto sul terreno della politi-ca. oggi è necessario preservare l’unità dei partiti favorevoli alla consulta e mantenere viva la mobilitazione sociale. Le manifesta-zioni del 30 settembre hanno preso di mira la decisione della corte costituzionale, ma anche il presidente della Catalogna, Artur Mas, con slogan come “neanche un passo indietro, presidente” o “Dignità e coeren-za, disubbidienza”. Homs ha inoltre accu-sato il governo di Madrid di avere “l’esplici-ta volontà di agire contro la Catalogna”: si riferiva alla consulta ma anche agli scarsi investimenti previsti per la regione.

Quanto ai partiti, il loro compito è allac-ciare contatti con discrezione. sarà fonda-mentale capire se la sinistra repubblicana di oriol Junqueras, principale alleato di go-verno di Mas e sostenitore della disubbi-dienza civile, appoggerà la sospensione dei preparativi del voto.

nel caso in cui non fosse possibile aprire i collegi elettorali, non è chiaro quali saran-no le alternative per il governo catalano. Homs si è limitato a parlare di “iniziative legali, politiche e istituzionali” per consen-tire ai cittadini di esprimersi, come prevede l’articolo 2 del decreto di convocazione del-la consulta irmato da Mas il 27 settembre. nessuno lo ha detto esplicitamente, ma se-condo il governo catalano l’unica via d’usci-ta sono nuove elezioni: un voto plebiscitario in cui tutte le liste favorevoli all’indipen-denza dovrebbero presentarsi unite. stabi-lire una data, una lista comune e un pro-gramma sarà l’obiettivo degli incontri di questi giorni. L’altro fattore chiave è la mo-bilitazione sociale. Le ultime proteste han-no preso di mira la corte costituzionale e il primo ministro Mariano rajoy.

resta da vedere che efetto avranno gli appelli rivolti a Mas e quale sarà la reazione del movimento per l’indipendenza all’even-tuale proposta di organizzare per il 9 no-vembre un surrogato del referendum. u fr

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Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014 33

Europa

Le elezioni legislative del 5 ottobre in Bulgaria sono le seconde ele-zioni anticipate nell’arco di due anni. E sono il risultato di una cri-

si politica profonda, scaturita dalle proteste scoppiate nel 2013 per l’aumento dei prezzi dell’elettricità e diventate poi una rabbiosa mobilitazione contro l’intero sistema poli-tico. All’inizio del 2013 le manifestazioni hanno fatto dimettere il governo guidato del premier Bojko Borisov, leader del parti-to di destra Gerb, che domina la politica bulgara dal 2006. Il regime populista di Bo-risov si basava sul suo carisma personale, sulla stabilità inanziaria e sugli ingenti fon-di concessi dall’Unione europea. Il prezzo è stato l’austerità, meno diritti per i lavoratori e il taglio delle spese sociali.

In questo contesto i fondi europei sono diventati il fattore chiave che ha alimentato

La Bulgaria alle urne dopo due anni di lotte

Il 5 ottobre il paese andrà al voto per la seconda volta in 18 mesi. Il favorito è l’ex premier Bojko Borisov, a dimostrazione che le mobilitazioni non hanno prodotto grandi cambiamenti

Stefan Krastev, Lefteast, Romania

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Bojko Borisov a Soia il 17 maggio 2013

la modesta crescita del paese. Amministra-zioni locali, mezzi d’informazione e agri-coltori hanno fatto a gara per ottenere la i-ducia di Borisov e, di conseguenza, i inan-ziamenti di Bruxelles. Il controllo sulla di-stribuzione delle risorse europee è diventa-to un mezzo per tenere in pugno ampi setto-ri della società, e Borisov è diventato la prova vivente del fatto che europeismo e autoritarismo non sono necessariamente in contraddizione. Questo modello ha funzio-nato ino alle proteste del febbraio 2013. A quel punto Borisov è stato abilissimo a usci-re prudentemente di scena, sfruttando le sue dimissioni da premier come trampolino per un ritorno sulla scena politica.

nel maggio del 2013 si sono svolte le pri-me elezioni anticipate, in cui il partito di Borisov è stato il più votato, senza però otte-nere una maggioranza suiciente a formare un governo. Così è nato l’esecutivo di coali-zione guidato dal Partito socialista con a capo l’ex esperto finanziario Plamen orešarski. Il suo governo è riuscito a guada-gnarsi la siducia dell’opinione pubblica con una rapidità stupefacente. A meno di un mese dal suo insediamento, nell’estate del 2013, è cominciata una nuova ondata di proteste che, dopo un anno, nel luglio del

2014 ha costretto orešarski a farsi da parte. Il motivo principale delle sue dimissioni è stato però il conlitto tra i partiti che forma-vano la coalizione, accentuato dai risultati delle elezioni europee del maggio 2014.

oggi, alla vigilia di un nuovo voto antici-pato, il governo di orešarski ha tutta l’aria di aver rappresentato un breve e incoerente intervallo. Dopo mesi di instabilità e crisi economica, i bulgari sembrano subire di nuovo il fascino di Borisov e della sua pro-messa di stabilità. I sondaggi danno il Gerb largamente in testa. nei mesi successivi al voto europeo Borisov è stato molto attento a non assumere posizioni ideologiche nette, cercando di mantenere l’equilibrio tra i di-versi interessi in campo. Ha sottolineato, per esempio, i suoi legami con gli stati Uni-ti, ma ha anche detto di essere l’unico lea-der in grado di garantire l’avvio della co-struzione del gasdotto south stream, che dovrebbe collegare la russia con l’Europa.

Nuovi equilibriI socialisti, intanto, attraversano una grave crisi ideologica e organizzativa, mentre il Movimento per i diritti e le libertà, che da sempre rappresenta la minoranza turca, ha cercato di parlare a tutti i gruppi sociali emarginati e oggi si presenta come il partito delle minoranze tout court. rimarrà la terza forza del paese e Borisov avrà bisogno del suo appoggio. tra le nuove forze politiche c’è invece Bulgaria senza censura, dell’ex conduttore tv nikolaj Barekov, che si pre-senta come partito contro il sistema e po-trebbe entrare in parlamento. Potrebbe su-perare la soglia del 5 per cento anche il Bloc-co riformatore, che raccoglie i resti della destra anticomunista degli anni novanta e molti partecipanti alle ultime proteste. no-nostante il tentativo di accreditarsi come la forza più critica verso l’attuale sistema, pro-babilmente si coalizzerà con il Gerb.

Due anni di manifestazioni e discorsi sulla necessità di cambiare il sistema non hanno avuto conseguenze durature. Molti di quelli che hanno partecipato alle proteste daranno di nuovo iducia a Borisov: sarà anche un maioso, pensano, ma almeno co-nosce il suo mestiere. I cambiamenti chiesti con la mobilitazione del 2013 saranno pos-sibili solo se qualcuno raccoglierà l’appello dei manifestanti. Ma oggi i partiti sembra-no d’accordo soprattutto su un punto: i temi sociali non sono all’ordine del giorno. u af

Stefan Krastev è un sociologo bulgaro.

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regno unito

i conservatoriin diicoltà Dopo la vittoria al referendum scozzese del 18 settembre, il premier conservatore David Ca-meron deve afrontare una peri-colosa crisi nel suo partito. È successo tutto il 27 settembre, alla vigilia del congresso tory di Birmingham: il deputato euro-scettico Mark Reckless ha la-sciato il partito per entrare nell’Ukip di Nigel Farage, e il ministro per la società civile Brooks Newmark si è dimesso a seguito di uno scandalo sessua-le. Reckless, che ha annunciato la sua defezione al congresso dell’Ukip tra le ovazioni dei pre-

senti, è il secondo deputato tory a lasciare il partito per i populisti di Farage nel giro di un mese. Newmark, invece, è stato accu-sato dal tabloid Daily Mirror di aver spedito via mail una sua fo-to esplicita a una ragazza che credeva essere un’attivista con-servatrice e che era invece una giornalista in incognito. “Il suo comportamento”, scrive il Daily Telegraph, “danneggerà in particolare il tentativo di Ca-meron di conquistare il voto del-le elettrici britanniche”. La mos-sa di Reckless, invece, rivela co-me l’Ukip stia erodendo il con-senso dei tory: secondo un son-daggio dell’istituto Comres, l’in-dice di popolarità di Farage è del 26 per cento, un punto in più ri-spetto a quello di Cameron.

Le elezioni del 28 settembre per il parziale rinnovo del senato si sono concluse con la vittoria della destra e l’ingresso del Front national (Fn) nella camera alta. Al voto hanno partecipato più di 87mila grandi elettori, soprattutto consiglieri comunali e rappresentanti della società civile scelti dai partiti, che

hanno rinnovato 179 dei 348 seggi del senato. Come scrive Le Monde, la sinistra ha perso 21 seggi, la destra ne ha guadagnati 12, il centrodestra 7 e il Front national è riuscito a far eleggere i suoi primi due senatori. Si chiude così la parentesi della prima maggioranza socialista al senato nella quinta repubblica, durata tre anni. Se “dopo le disastrose comunali di marzo e lo schiafo delle europee di maggio la sconitta della sinistra era prevedibile”, osserva Libération, il successo del Fn rivela invece che il partito di Marine Le Pen “oggi è in grado di sedurre anche gli elettori estranei alla sua famiglia politica” e di rubare voti alla destra istituzionale. Secondo il quotidiano, “il risultato di questo voto non deve far credere che l’estrema destra stia per salire al potere, ma dimostra ancora una volta quanto sia stata eicace la strategia di Marine Le Pen per rendere accettabile il suo partito”. ◆

Francia

il senato va a destra

Libération, Francia

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Jihadistialla sbarra Il 29 settembre si è aperto ad Anversa il processo contro 46 militanti del gruppo jihadista Sharia4Belgium, accusati di vo-ler “rovesciare lo stato belga e di volerlo sostituire con uno stato islamico”. Il gruppo Sharia4Bel-gium, che si è sciolto uicial-mente due anni fa, è accusato di essere stato “una fucina di ter-roristi islamici”, scrive la Gazet van Antwerpen, e i suoi mili-tanti sono sospettati di aver re-clutato decine di giovani volon-tari mandati poi in Siria a com-battere a ianco di gruppi legati ad Al Qaeda e allo Stato islami-co. Solo otto degli accusati, tra i quali il capo dell’organizzazio-ne, Fouad Belkacem, in custo-dia cautelare dal 2013, erano presenti al processo. Gli altri po-trebbero essere in Siria o morti nei combattimenti.

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in breve

Serbia Il 28 settembre centina-ia di persone hanno partecipato a Belgrado al primo Gay pride dal 2010 (nella foto), quando ci furono violenze provocate dai gruppi ultranazionalisti.Lettonia Il 4 ottobre si svolge-ranno le elezioni legislative nel paese. L’attuale premier è l’eco-nomista Laimdota Straujuma.Paesi Bassi Il processo contro l’ex leader serbobosniaco Ra-dovan Karadžić davanti al tri-bunale penale internazionale per l’ex jugoslavia è entrato il 29 settembre nella sua fase i-nale. La sentenza è prevista alla ine del 2015.

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tregua e vittime In Ucraina la tregua uicial-mente continua a reggere, ma sul terreno ci sono ancora scon-tri. Negli ultimi giorni si sono re-gistrate diverse vittime, in parti-colare nell’area di Donetsk. Il 1 ottobre almeno dieci civili sono morti per alcuni colpi di artiglie-ria sparati dall’esercito ucraino. Due giorni prima sette soldati di Kiev erano stati uccisi nella zo-na dell’aeroporto. A Charkiv, in-vece, la tensione è salita dopo lo svolgimento di due manifesta-zioni, una contro e l’altra a favo-re dell’unità dell’Ucraina, e l’ab-battimento della statua di Lenin nella piazza centrale. “Il centro della città”, scrive Ukrainska Pravda, “è pattugliato da blin-dati e da truppe ucraine”. L’Unione europea, intanto, ha rimandato a ine ottobre la deci-sione sulla cancellazione parzia-le delle sanzioni contro Mosca. tutto dipenderà, scrive l’agen-zia Itar-Tass, “da come si evol-verà la situazione sul terreno”. Secondo Gazeta, “il inanzia-mento della ricostruzione po-trebbe diventare uno dei punti su cui l’occidente e Mosca con-centreranno le trattative”.

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Americhe

Fino al 5 ottobre, quando poco più di 143 milioni di elettori decide-ranno chi guiderà il paese per i prossimi quattro anni, in Brasile

ogni giorno durerà più di ventiquattr’ore. Sono le elezioni più contese degli ultimi 54 anni e il risultato è ancora imprevedibile. Negli ultimi giorni c’è stata una certa stabi-lizzazione nelle tendenze di voto, ma la volubilità dell’elettorato rende azzardata

ogni previsione. I sondaggi indicano che l’attuale presidente Dilma Roussef (del Partito dei lavoratori, Pt) non solo ha resi-stito all’irruzione sulla scena elettorale di Marina Silva (candidata del Partito sociali-sta brasiliano), ma è anche riuscita a ri-montare guadagnando un margine ragio-nevole di tranquillità. Tutti i sondaggi più recenti (condotti da istituti diversi e pub-blicati quattro volte alla settimana) indica-no che, negli ultimi quindici giorni, la pre-sidente ha continuato a guadagnare con-sensi. A Marina Silva è successo il contra-rio: dopo aver raggiunto Roussef nelle in-tenzioni di voto al primo turno e aver gua-dagnato un vantaggio di nove punti per-centuali al ballottaggio, ha perso terreno. Ora il suo svantaggio sembra consolidato.

Il terzo candidato, Aécio Neves del Par-

tito socialdemocratico brasiliano (Psdb), probabilmente non arriverà al ballottag-gio. I numeri dei sondaggi sono diversi, ma la tendenza è la stessa: Roussef è in van-taggio, Silva perde terreno, Neves si man-tiene stabile con leggere oscillazioni che non bastano per avvicinarlo davvero alle due avversarie.

Il fenomeno Marina Silva, l’ambienta-lista evangelica subentrata a Eduardo Campos, il candidato del Partito socialista morto ad agosto in un incidente aereo, non ha retto a lungo. Al di là di un discorso elet-torale spesso incoerente e allusivo, Silva ha subìto un bombardamento di critiche da parte di Dilma Roussef e Aécio Neves. In ogni caso la sua proposta dai contorni abbastanza vaghi – creare uno spazio per una “nuova politica” che rimpiazzi la “vec-chia politica” dominante – seduce ancora molti elettori.

Silva era stata considerata una minac-cia per l’attuale presidente al primo turno ed era stata data per favorita al ballottag-gio, ma poi la sua candidatura ha comin-ciato a sgoniarsi. La cosa strana è che in questo processo, avvenuto mentre Rousseff stava recuperando terreno, la

Il Brasile alla vigiliadel voto

Dilma Roussef, in corsaper un secondo mandato, è la candidata favorita alle presidenziali del 5 ottobre. Ma forse andrà al ballottaggio con la socialista Marina Silva

Eric Nepomuceno, Página 12, Argentina

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Manifesti elettorali a Rio de Janeiro, il 29 settembre 2014

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presidente si è avvalsa della collaborazione di Aécio Neves. Il candidato neoliberista ha attaccato duramente le avversarie. Ma i suoi elettori sono fondamentalmente con-trari al Pt di Lula da Silva e, di conseguen-za, anche alla candidatura di Roussef. Gli attacchi non sono serviti a farle perdere voti: erano voti già persi. A Marina Silva è successo il contrario: molti elettori indeci-si, ma non per forza contrari al Pt, sono stati sottratti al partito di Neves.

Neves, accusando le avversarie di esse-re fatte della stessa pasta e presentandosi come l’unica alternativa reale, ha sottratto voti alla candidata evangelica e ambienta-lista. Questi voti si sono divisi in parti disu-guali: una piccola percentuale è andata a Neves, la maggioranza a Roussef. Inoltre è diminuito il numero dei brasiliani che nei sondaggi si è dichiarato indeciso o dispo-sto ad annullare il voto. Molti di questi voti senza padrone né direzione precisa sono stati guadagnati dall’attuale presidente.

Alleanze vantaggioseLa traiettoria spesso incongruente dell’elettorato brasiliano ha sorpreso gli analisti e gli strateghi delle tre campagne elettorali. Roussef attaccherà Marina Sil-va ino al giorno del voto, puntando sui ri-sultati ottenuti durante la sua presidenza e i due mandati precedenti di Lula. E Silva continuerà a difendersi e a fare proposte poco chiare, attaccando a sua volta la pre-sidente in carica. Neves continuerà a com-battere una battaglia che diicilmente lo farà arrivare al secondo turno. È il candi-dato che ha più da perdere: sarebbe la pri-ma volta in vent’anni che il suo partito re-sta fuori da un ballottaggio.

Anche se il Psdb ha smentito, negli ulti-mi giorni alcuni collaboratori dell’ex presi-dente Fernando Henrique Cardoso hanno intensiicato i contatti con la squadra di Marina Silva. L’obiettivo è chiaro: in un eventuale ballottaggio tra la candidata evangelica e la presidente in carica, i so-cialdemocratici vogliono far sentire il loro peso. Ci sono buone ragioni per farlo: il programma economico dei due candidati è simile. Il Psdb è lontano dal potere da do-dici anni, e dal momento che Neves non ce la farà, forse Marina Silva è la strada da se-guire per tornare a Brasília. u fr

Eric Nepomuceno è un giornalista e uno scrittore brasiliano nato a São Paulo nel 1948.

“A pochi giorni dalle elezioni che decideranno chi sarà il prossimo presidente del

Brasile, la questione dell’aborto è com-pletamente assente dal dibattito eletto-rale tra i principali candidati”, scrive Francho Barón nell’edizione brasiliana del País. Il problema non è secondario. Secondo i dati preliminari di uno studio realizzato dai ricercatori Mario Montei-ro e Leila Adesse, nel 2013 in Brasile si sono sottoposte ad aborti clandestini tra le 685.334 e le 856.668 donne. Lo studio non rivela quante di queste don-ne sono morte in seguito all’operazio-ne, anche se l’Organizzazione mondia-le della sanità (Oms) stima che ogni due giorni una brasiliana perde la vita a causa dell’interruzione di gravidanza illegale. “Di fronte all’ampia maggio-ranza di popolazione cattolica ed evan-gelica, i politici preferiscono girare la testa dall’altra parte piuttosto che af-frontare una questione che potrebbe danneggiare i loro interessi elettorali”.

Il problema dell’aborto clandestino in Brasile è difuso. Secondo la Pesqui-sa nacional de aborto, uno studio coor-dinato nel 2010 dall’antropologa e pro-fessoressa dell’università di Brasília Debora Diniz, una donna brasiliana su cinque al di sotto dei quarant’anni ha subìto un aborto. Questo equivale a di-re che il 20 per cento delle donne in età fertile ha interrotto almeno una gravi-danza.

Nel paese l’aborto è legale solo in due casi: quando la gravidanza mette in pericolo la vita della madre e quando è la conseguenza di uno stupro. Lo scrit-tore e giornalista brasiliano Luiz Ruf-fato sottolinea che su alcuni temi, tra

cui l’aborto, il discorso dei tre principali candidati alla presidenza è sostanzial-mente uguale: la presidente in carica Dilma Roussef (del Partito dei lavora-tori), la candidata evangelica e ambien-talista Marina Silva (del Partito sociali-sta brasiliano) e Aécio Neves (del Parti-to socialdemocratico brasiliano) difen-dono l’attuale legislazione, in vigore dal 1940. Questa posizione, sostiene Ruf-fato nella column che pubblica sul País, non rilette per forza le loro convinzioni personali, ma è una concessione alle pressioni dei gruppi religiosi, che muo-vono milioni di voti.

Il settimanale Carta Capital sotto-linea che, in dieci anni, gli evangelici sono passati dal 15 per cento a più del 22 per cento della popolazione brasiliana. Gli evangelici si oppongono al matri-monio omosessuale, alla legalizzazione dell’aborto e delle droghe leggere. La rivista riporta anche un’indagine dell’istituto Ibope secondo cui la mag-gioranza dei brasiliani, indipendente-mente dalla fede religiosa, la pensa co-me gli evangelici: il 79 per cento è con-trario all’interruzione di gravidanza e alla liberalizzazione della marijuana, e il 53 per cento si oppone alle nozze gay. Secondo Carta Capital, la religiosità di Marina Silva l’aiuterà a sottrarre i voti degli evangelici ai suoi avversari.

Intanto “il 28 settembre a Rio de Ja-neiro e a São Paulo centinaia di perso-ne sono scese in piazza per chiedere la legalizzazione dell’interruzione di gra-vidanza”, scrive O Globo.

Un fatto di cronaca ha scosso il Bra-sile in questi ultimi giorni: Jandira Magdalena dos Santos, 27 anni e ma-dre di due bambini, è morta dopo es-sersi sottoposta a un aborto illegale al quarto mese di gravidanza. Il suo cor-po è stato ritrovato un mese dopo in una macchina a Rio de Janeiro. Era stato bruciato e mutilato per rendere più diicile l’identiicazione. u

Sull’interruzione di gravidanza i tre principali candidati hanno la stessa posizione conservatrice

Nessuno parla dell’abortoL’opinione

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Americhe

MESSICO

Gli studentidi Iguala Almeno 19 dei 58 studenti scomparsi il 26 settembre a Iguala, nello stato meridionale di Guerrero, sono tornati a casa in buone condizioni di salute. Il corrispondente in Messico di Bbc mundo prova a ricostruire

i fatti, ancora poco chiari: un gruppo di studenti dell’Escuela normal de Ayotzinapa si è im-possessato di tre autobus duran-te una protesta. La polizia ha sparato e un ragazzo è morto. Più tardi un gruppo armato non identiicato ha assalito alcuni studenti che parlavano con i giornalisti e un altro gruppo ha sparato contro un autobus in cui viaggiava una squadra di calcio. Sei persone sono morte. Quan-do gli studenti si sono riuniti, ne mancavano 58 all’appello. Le autorità dello stato hanno am-messo che la polizia ha fatto un uso eccessivo della forza e 22 agenti locali sono stati arrestati. La Jornada ricorda che lo stato di Guerrero è governato da Án-gel Aguirre Rivero, un politico “di cui tutti conoscono le ten-denze autoritarie e repressive”.

Parlando alle Nazioni Unite il 24 settembre il presidente della Colombia Juan Manuel Santos ha dichiarato che il processo di pace con la guerriglia delle Farc è a buon punto, ed è quindi possibile rendere pubblico il testo degli accordi raggiunti inora: riforma agraria, partecipazione politica dei guerriglieri smobilitati e

narcotraico. La prima impressione, scrive Semana, è che negli accordi non ci sia niente di rivoluzionario: “Chi credeva che i pilastri del nostro sistema fossero in pericolo può stare tranquillo. Nel documento, che si può deinire più progressista che socialista, si rispetta il diritto alla proprietà privata e non ci sono proclami castrochavisti”. Il giornalista Héctor Abad Faciolince racconta sull’Espectador che ha provato a leggere il documento relativo alla terra indossando due lenti diverse: prima quelle di un proprietario terriero di destra, poi quelle di un comunista. Solo la terza volta ha inforcato i suoi occhiali e ha concluso che “l’accordo è un documento pieno di buone intenzioni: eliminare la povertà nelle zone rurali e dare ai contadini acqua potabile, terreni e assistenza sanitaria”. ◆

Colombia

Accordi nero su bianco

Semana, Colombia

STATI UNITI

Eric Holder esce di scena Il 25 settembre il ministro della giustizia statunitense Eric Hol-der ha annunciato le sue dimis-sioni. Secondo il New York Ti-mes, Holder sarà ricordato per le sue battaglie in difesa del di-ritto di voto dei neri negli stati conservatori e per le sue posi-zioni a favore della depenalizza-zione di reati minori e del matri-monio omosessuale. “Ma la sua eredità sarà macchiata da alcu-ne decisioni sbagliate in materia di sicurezza nazionale. Sotto la sua guida, il dipartimento di giustizia ha approvato l’omici-dio mirato di civili, compresi cit-tadini americani, in Yemen e in Pakistan, e ha acconsentito all’intercettazione indiscrimina-ta di telefonate ed email in ri-sposta alla difusione di docu-menti coperti da segreto. Il nuo-vo ministro della giustizia sarà nominato da Barack Obama e poi dovrà ottenere la iducia del senato. Il Washington Post spiega che se nelle elezioni del 4 novembre i repubblicani con-quisteranno la maggioranza al senato potrebbero usarla come arma contro il presidente.

STATI UNITI

La scelta dell’Alaska Il 4 novembre negli Stati Uniti si terranno le elezioni di metà mandato. L’attenzione è rivolta al senato. Secondo i sondaggi, il Partito repubblicano, che ha già la maggioranza alla camera, po-trebbe avere la meglio. Molto di-penderà dall’esito del voto in Alaska, Iowa, Kansas e Colora-do. “In Alaska”, spiega Politico, “di solito le elezioni si decidono per poche migliaia di voti. Il de-mocratico Mark Begich cerche-rà di conservare il seggio contro Dan Sullivan, un avvocato che ha impostato la campagna elet-torale sulle tematiche naziona-li”. L’Alaska è uno degli stati do-ve l’indice di gradimento di Ba-rack Obama è più basso, e uno dei più conservatori su temi co-me la riforma della sanità e le li-mitazioni alla vendita di armi.

IN BREVE

Stati Uniti Il 30 settembre otto persone sono state arrestate a Ferguson, nel Missouri, mentre lanciavano pietre contro la poli-zia chiedendo giustizia per Mi-chael Brown, ucciso ad agosto. Argentina Il 30 settembre il go-verno ha versato 161 milioni di dollari su un fondo speciale a Buenos Aires per rimborsare i creditori dei suoi titoli di stato, aggirando la sentenza di un tri-bunale statunitense. Cuba Il presidente di un’azien-da di trasporti canadese, Cy Tok makjian, è stato condannato il 29 settembre a 15 anni di pri-gione per corruzione.

STATI UNITI

Una leggecontro gli stupri La California ha approvato una nuova legge contro gli abusi ses-suali nei campus universitari. La norma stabilisce che i rapporti devono essere sempre il frutto di un accordo esplicito e volon-tario tra le persone coinvolte. Secondo il dipartimento di giu-stizia, negli Stati Uniti una don-na su cinque subisce abusi ses-suali all’università, e quasi mai le violenze sono denunciate. Il Los Angeles Times spiega che la California è il primo stato ad adottare un provvedimento si-mile, in risposta alle pressioni del governo federale.

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Quando a casa ho un rubinetto che perde, per fortuna non devo chia-mare un idraulico italiano. Ci pensa Vanja. Arriva subito e non

si lamenta raccontandomi quanto siano ca-ri i rubinetti. Va al mercato e compra quello che serve, fa tutto quello che bisogna fare e da buon “fratello” non si fa pagare più del dovuto. L’idraulico immigrato dalla Volinia (una regione tra l’Ucraina e la Polonia), ori-gini di cui va iero, non è l’unico ucraino su

cui posso contare. Le statistiche dicono che l’85 per cento degli ucraini che vivono in Italia sono donne, ma basta guardarsi intor-no per accorgersi che l’immigrazione ucrai-na ha un volto femminile.

Il primo grande arrivo in Italia c’è stato alla ine degli anni novanta. Si trattava so-prattutto di donne che provenivano dalle regioni occidentali del paese: la Transcar-pazia, la Bucovina, la Galizia e la Volinia.

A quei tempi facevo l’editor delle pagine in russo di un giornale italo-russo-ucraino, e quindi ho conosciuto subito le loro storie. Donne che da insegnanti o ragioniere ri-spettate, in un attimo si sono ritrovate a vi-vere da immigrate irregolari costrette ad afrontare periodi durissimi. Il racconto ti-pico di solito è questo: “L’azienda in cui la-

voravamo ha chiuso (oppure siamo state li-cenziate o rimaste vedove da poco) e alcuni conoscenti ci hanno detto che c’era la possi-bilità di sistemarsi in Italia. Per pagare l’in-termediario e acquistare il biglietto abbia-mo venduto l’appartamento, speso tutti i risparmi o ci siamo indebitate. Siamo entra-te in Italia con un visto falso o nel migliore dei casi con un visto turistico. All’arrivo ci hanno sistemate in delle auto parcheggiate in varie zone della città, oppure in un appar-tamento in cui abbiamo dormito in due in un letto e pagato per ogni giorno di perma-nenza. Abbiamo pagato anche per avere l’indirizzo di un potenziale datore di lavoro. Il primo datore di lavoro spesso ci ha ingan-nato (non ha pagato quanto promesso, ci ha molestato o ci ha obbligato a condizioni di

Il sogno europeo delle ucraine

Le storie delle donne che negli ultimi quindici anni sono emigrate in Italia e che oggi seguono con preoccupazione quello che succede a Kiev

Elena Puškarskaja, Ogonëk, Russia

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Roma, 5 dicembre 2013. Manifestazione della comunità ucraina in solidarietà con le proteste di Euromaidan

Visti dagli altri

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lavoro insopportabili), e siamo state co-strette a ricominciare da zero. In generale il primo anno di soggiorno abbiamo lavorato solo per saldare i debiti accumulati per pa-gare il viaggio”.

Come è emerso da un’indagine, a causa del peggioramento del proprio status, della lontananza dai parenti e della paura dell’ignoto, lo stress dei primi mesi di sog-giorno delle immigrate in Italia è paragona-bile a quello provato da chi si trova in una zona di guerra. Il ilm La sconosciuta di Giu-seppe Tornatore, con Ksenija Rappoport e Michele Placido, racconta la storia di un’im-migrata ucraina e questo tipo di vita.

Secondo i dati dell’Organizzazione in-ternazionale per le migrazioni (Oim), sette milioni di ucraini, cioè il 15 per cento della popolazione, hanno deciso di emigrare. Pe-rò è diicile dire quanti di loro siano arrivati in Italia. Secondo alcune statistiche, gli im-migrati ucraini in Italia sono 240mila.

Cacciata senza la liquidazioneMario Tronca, presidente dell’Associazione culturale cristiana italo-ucraina, spiega che oggi in Italia ci sono circa 700mila ucraini registrati e circa 300mila senza permesso di soggiorno. In totale un milione di perso-ne. Un dato vicino al numero reale, se si tie-ne conto che, secondo i dati dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar), la patria di Dante è il terzo paese di destinazione (dopo la Russia e la Polonia) degli emigranti ucraini.

Nella maggior parte dei casi si tratta di donne che hanno circa quarant’anni, che hanno lasciato la famiglia e che sono venute in Italia per pagare gli studi dei igli, le cure del marito o per aumentare il reddito della famiglia. Nel 90 per cento dei casi lavorano come badanti, baby-sitter, collaboratrici familiari o addette alle pulizie, anche se al-meno il 30 per cento di loro ha una laurea. Il lavoro può essere isso – spesso le donne ri-siedono presso la famiglia dove lavorano – o a ore. È più facile mettere da parte denaro con un lavoro isso, perché guadagnando in media 800 euro al mese è possibile inviarne seicento a casa.

Il lavoro a ore, che di solito consiste nel fare le pulizie e avere una retribuzione com-presa tra 6 e 8 euro all’ora, dà maggiore li-bertà, mentre quello isso è una specie di schiavitù domestica. Ma chi lavora a ore è costretto a correre avanti e indietro per la città, rimanendo inattivo negli intervalli tra un lavoro e l’altro. Inoltre bisogna pagare di

tasca propria l’aitto e le spese quotidiane. Un lusso che può permettersi solo chi ha svolto per alcuni anni un lavoro isso. Se-condo le statistiche ucraine, nel 2012 gli ucraini che lavoravano all’estero hanno in-viato nel loro paese quasi sei miliardi di euro, una cifra superiore a tutti gli investi-menti efettuati in quell’anno nel paese.

Aleksandra, detta Saša, originaria di Ivano-Frankivsk, in Ucraina occidentale, è arrivata in Italia nel 2001 e si fa chiamare Sandra. Racconta che tra i suoi conoscenti in Ucraina non c’è nemmeno una famiglia che non abbia qualcuno che lavora all’este-ro. Aleksandra, che ha 38 anni, fa le pulizie in casa dei miei vicini e qualche volta anche da me. Ci viene volentieri, la accolgo sem-

pre con un caffè, parliamo delle vicende quotidiane e in generale seguo la regola che ho imparato da bambina: ogni lavoro è one-sto. Invece la maggior parte degli italiani, che si credono dei gran signori, si comporta in modo diverso.

“In Ucraina la vita era diventata impos-sibile, nella scuola in cui lavoravo prende-vo 80 euro al mese. E in più non sopportavo il fatto che senza una tangente non era possibile avere nemme-no le cose più elemen tari”.

Quando ha avuto una iglia, la sua famiglia, che si arrangiava grazie all’orto della nonna e al fatto che la madre lavorava in Turchia, ha deciso che Aleksandra, che a quell’epoca aveva 24 anni, doveva emigrare in Italia. Lei sperava che i capelli biondi e una laurea l’avrebbero aiutata a sistemarsi. Invece è inita a fare le pulizie.

“Il primo lavoro è stato terribile. Mi ave-vano avvertito che non avrei resistito a lun-go da quella signora, ma non avevo scelta: dopo aver pagato trecento euro a un inter-mediario ho cominciato a lavorare come baby-sitter. La giornata di lavoro comincia-va alle sette del mattino e iniva alle undici di sera. La padrona di casa e sua madre mi controllavano tutto il tempo per evitare che mi fermassi anche un solo minuto. Oltre a prendermi cura dei bambini dovevo fare le pulizie, mentre la padrona di casa control-

lava che levassi dai mobili ogni granello di polvere. Ai due bambini, invece, permette-va tutto, anche che mi spalmassero la pappa sui capelli. Mi veniva oferto solo il pranzo, per la prima colazione e la cena dovevo comprarmi tutto io e la signora controllava ino al centesimo che non spendessi i soldi per qualcos’altro o, non sia mai, li spedissi in Ucraina”. A causa dello stress Aleksandra ha cominciato a perdere sangue dal naso. Temendo complicazioni (naturalmente non aveva un regolare contratto), la sua da-trice di lavoro l’ha mandata via senza nem-meno la liquidazione.

“Poi ho lavorato di notte come badante presso una signora anziana”, prosegue Aleksandra, “di giorno correvo avanti e in-dietro a fare le pulizie a ore. L’anziana anda-va a letto alle otto e a me non restava altro da fare. Mi annoiavo, ma con questo lavoro non dovevo pagare un posto dove passare la notte. Se in quella casa non mi fossero spa-riti i seicento euro che avevo messo da par-te, ci sarei rimasta”.

I motivi per tornarePerché le lavoratrici ucraine non sono fug-gite il più lontano possibile da questo infer-no? La vita in Ucraina era davvero peggiore? “Sa”, mi spiega Marija, che ho conosciuto all’Associazione culturale cristiana italo-ucraina, “da noi si dice che dopo il primo anno non hai abbastanza soldi per tornare. Dopo il quinto anno, però, non hai più moti-

vi per tornare. Telefoni a casa e i figli sono presi dalle loro cose. Tuo marito ti ha dimenticato. La nostra patria la chiamiamo ‘il bancomat’, perché per noi la pa-tria è quella dove ci sono i soldi”.

C’è un’amara ironia in tutto questo. So-no donne che riescono a farcela anche in un’Italia in crisi profonda. Tra gli italiani la percentuale di disoccupati è molto superio-re a quella rilevata tra gli immigrati, che di fronte a una oferta di lavoro poco allettante non possono certo fare gli schizzinosi. Le donne ucraine sono riuscite ad “afermarsi professionalmente”, diventando leader as-solute nel mercato del lavoro domestico. Negli anni si sono conquistate la reputazio-ne di persone oneste e di grandi lavoratrici, e sono viste più di buon occhio rispetto alle loro concorrenti albanesi, romene e ilippi-ne. Tanto che le autorità italiane hanno dato preferenza alle ucraine nell’ambito delle procedure di regolarizzazione degli immi-grati (qualcuno deve pur sempre prendersi

Aleksandra durante la sanatoria del 2009 ha portato in Italia sua iglia

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cura degli anziani). Stiamo parlando della sanatoria del 2009. Dopo anni di illegalità, una volta regolarizzate le immigrate sono riuscite a tornare a casa e rivedere i loro i-gli. Alcune di loro sono rimaste in Ucraina e hanno aperto un’attività con i soldi rispar-miati in Italia. Ma, come conferma Mario Tronca, molte sono rimaste deluse dal ri-torno nel paese di origine: “A casa la situa-zione era peggiorata. Il lavoro mancava, c’erano pochi diritti e molta corruzione. So-lo cento iscritti all’associazione, su 25mila, non sono tornati in Italia”.

In molti hanno preferito il ricongiungi-mento familiare in Italia. Anche Aleksandra nel 2009 ha portato in Italia sua iglia. In quell’occasione è riuscita anche a trovare un lavoro isso e ha preso in aitto un bilo-cale nella periferia di Roma. Lì vive anche un’amica che si prende cura della figlia mentre Aleksandra lava pavimenti dalla mattina alla sera o studia alla scuola serale italiana. La laurea presa in Ucraina, spiega, le serve solo da soprammobile.

Ho spiegato ad Aleksandra che a Mosca è più facile trovare un lavoro qualiicato e non è necessario pulire eternamente i pavi-menti. Ma per lei la Russia è un paese lonta-no da tutti i punti di vista. Inoltre, spiega, a sua iglia di 15 anni non farebbe bene cam-biare paese di nuovo. Aleksandra si concen-tra soprattutto sul futuro della iglia, che comincia a integrarsi in Italia. Non ha una paghetta, un motorino o vestiti alla moda e questo non la rende popolare tra i coetanei, ma se riesce ad andare bene a scuola potrà fare l’università. Inoltre ha l’assistenza sa-nitaria gratuita e altre tutele sociali che in Ucraina non può nemmeno sognare.

In Italia ci sono altre associazioni di cit-tadini ucraini, solo a Roma ce ne sono quat-tro. Di domenica vicino alla stazione della metropolitana di Rebibbia, dove si trova la sede dell’Associazione culturale cristiana italo-ucraina, la lingua ucraina riesce a su-perare addirittura il rumore dei pullman che fanno la spola tra Roma e l’Ucraina oc-cidentale. Nel gergo locale, una visita do-menicale è chiamata “andare ai bus”, uno dei rituali obbligatori della colonia ucraina. I pullman sono usati dalla comunità per in-viare regali a casa e per riceverne. “Guardi che borse mi porto dietro, questa primavera le mie iglie si vestiranno come si deve”, di-ce una donna che si chiama Olesja. Quando le chiedo se a casa non li considerino solo dei “bancomat”, Olesja risponde con un sorriso: “E chi li dovrebbe aiutare se non

Visti dagli altrisandra a Natale e a Pasqua va a Taormina, dove vivono i genitori del suo compagno.

Negli ultimi tempi nella sede dell’asso-ciazione i giornali sono sempre più richiesti. La comunità s’interessa molto a quello che succede in Ucraina, soprattutto dopo le pro-teste del movimento conosciuto come Mai-dan, dal nome del luogo di Kiev dove è co-minciata la mobilitazione. “Non vado a dormire se prima non ho guardato il tele-giornale ucraino, quello italiano e quello russo”, ammette Aleksandra. La maggior parte degli italiani non vede di buon occhio le aspirazioni europee dell’Ucraina, perché teme che se le norme sui visti con l’Ucraina fossero meno rigide in Italia si riversereb-bero folle dall’est. La migliore “porta” per gli ucraini nell’Unione europea, però, è rap-presentata dai parenti che sono già emigra-ti. In compenso non tutti in Italia, anche tra i politici, sanno dov’è l’Ucraina, molti pen-sano sia “da qualche parte in Siberia”. È proprio per queste persone che le ucraine hanno organizzato un’iniziativa di “forma-zione”, andando fuori da Montecitorio e mostrando delle mappe.

Le fratture politiche che esistono in Ucraina sono presenti anche nel contesto romano. “Qui abbiamo litigato tutti discu-tendo della Crimea”, mi spiega Aleksandra. “La mia vicina è favorevole a una Crimea russa. Non si arriverà alle barricate, ma tut-ti ora sono preoccupati per la situazione nel nostro paese”. “Se in Ucraina all’improvvi-so le cose dovessero mettersi a posto torne-remmo là di sicuro”, dice Vanja, che calco-lando la diferenza tra i soldi che guadagna qui come idraulico e i prezzi ucraini sta pen-sando di tornare al suo villaggio in Volinia per costruirsi una casa. Non si capisce, però, cosa intenda esattamente quando dice “se all’improvviso le cose dovessero mettersi a posto”. Sembra di essere tornati ai tempi che hanno preceduto il crollo dell’Unione Sovietica.

Aleksandra, sempre più interessata alle vicende politiche del suo paese, aferma di non vedere dei leader capaci di migliorare le cose in Ucraina. Le chiedo se crede nel futuro europeo dell’Ucraina. “Non molto. C’è una diferenza troppo grande, da qua-lunque prospettiva. E poi nemmeno in Eu-ropa si sa come andrà a inire. L’Ucraina d’altronde”, dice Aleksandra, “da molto tempo è già in Europa”. Poi a voce bassa ag-giunge: “In ogni caso, io il mio Maidan me lo sono già conquistato, lavando pavimenti qui a Roma”. u af

io?”. La lunga parete di fronte alla sede dell’associazione è coperta, come ai tempi dell’Unione Sovietica, di foglietti con nu-meri di telefono: inserzioni private che van-no dall’aitto di appartamenti alla vendita di lavatrici usate. Qui non tutti usano inter-net. C’è anche una stanza dove si possono usare i computer e una bancarella che ven-de prodotti alimentari ucraini. Tutto a prez-zi “ucraini”. Si può venire qui anche per consulenze gratuite: per esempio, chiedere come si scrive una richiesta di ricongiungi-mento familiare, quali clausole devono es-sere inserite in un contratto di aitto o cosa fare se un datore di lavoro non vuole pagare la somma concordata. “Abbiamo spiegato ai nostri iscritti che non devono irmare do-cumenti di cui non capiscono il contenuto”, dice Mario Tronca. “Mi è sempre piaciuto aiutare gli altri e sarebbe un peccato non aiutare loro”, dice indicando un gruppo di donne. L’associazione ospita una scuola ucraina domenicale e nella vicina chiesa il prete celebra una messa ecumenica. C’è anche una mediateca con materiale in ucraino.

Persone informate“Sono passati i tempi in cui le ucraine veni-vano in Italia impaurite e a proprio rischio”, osserva Tronca, “oggi s’informano prima presso i parenti e i conoscenti su come stan-no le cose in Italia. Alcune di loro hanno aperto un’attività. Chi ha delle conoscenze mediche lavora come infermiera, visto che in Italia non ce ne sono mai abbastanza”. La lingua ucraina ormai non la si sente parlare solo “ai bus”. Il picnic al mare degli ucraini è molto simile a quello degli italiani. Alek-

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Le opinioni

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Perché quel che scrivono le donne viene in-variabilmente deinito personale o perino “intimo”? Quando ho presentato il mio ultimo libro Unspeakable things e ho dovu-to affrontare la solita serie di interviste promozionali, una delle domande più fre-

quenti era: “Perché scrivi di ‘questioni personali’? Per-ché racconti esperienze così intime quando parli di sesso, potere e politica? Non credi di essere troppo ‘pro-vocatoria’, come del resto tutte le donne?”.

La prima cosa da dire è che quando gli uomini scri-vono delle loro esperienze personali in un contesto po-litico non vengono mai deiniti troppo “intimisti”: la loro è solo “letteratura”. La seconda è che l’esperienza maschile non è mai classiicata come maschile: è la ve-rità universale. In cinque anni di lavoro come opinioni-sta ho perso il conto di quante volte i direttori mi hanno incoraggiato a scrivere della mia vita di donna in modo “provocatorio”, ma senza mettere davvero in discussione il sessi-smo. Mi hanno incoraggiato a diventare una “voce” per le donne giovani, disto-gliendo l’attenzione dal fatto che quasi tutte le pagine della politica sono ancora dominate dalle parole e dalle priorità de-gli uomini.

Adesso che ho la fortuna di poter sce-gliere, sento spesso autrici più giovani di me ripetere la stessa cosa, cioè che rie-scono a farsi pagare solo se scrivono di moda, diete e ragazzi in modo moderatamente femmi-nista ma abbastanza leggero per poter inire tra gli “ar-ticoli per donne” nella sezione costume e società. Per questo nella prima versione del libro non ho fatto quasi nessun accenno alla mia vita privata. Mi sono ispirata ai manifesti dei gruppi radicali e sono stata attenta a scri-vere con la testa e non con il cuore. Chi ha letto quelle prime bozze mi ha detto che le argomentazioni erano valide, ma mancava qualcosa. Mancava il coraggio. Avevo lavorato e scritto per tanto tempo in un mondo in cui l’esperienza femminile era considerata frivola e da-vo per scontato che anche la mia lo fosse.

Gli scrittori politici che più mi hanno ispirato (da Ja-mes Baldwin e Alice Walker ad Allen Ginsberg, Ger-maine Greer e Leslie Feinberg) sono quelli che raccon-tano le loro storie con forza e passione, ma senza che il messaggio politico sia travolto dall’esperienza persona-le. Ho riletto La prossima volta, il fuoco di Baldwin, un saggio sull’ingiustizia razziale negli Stati Uniti intrec-ciato con la storia della giovinezza dell’autore, trascorsa ad Harlem negli anni trenta e quaranta. Quando Bal-dwin descrive la sua furia violenta nei confronti di un

cameriere razzista e racconta di come è dovuto fuggire perché sapeva che se avesse dato sfogo a quella rabbia sarebbe stato arrestato, picchiato o ucciso, le mani aperte della sua polemica serrano le dita intorno al cuo-re del lettore. Leggendo quel brano ho trovato il mio coraggio. Il politico doveva essere personale, non esclu-sivamente, ma senza scendere a compromessi.

Ho cominciato a reintrodurre una narrazione inti-ma in quel che scrivevo. Non raccontavo la mia espe-rienza personale o le vite di giovani arrabbiati vissute dai miei amici: raccontavo la storia del nostro impegno politico, pezzo dopo pezzo. Ho imparato a ridurre al mi-nimo i pettegolezzi superlui. Ho eliminato gran parte delle scene di sesso per evitare che diventassero la tra-ma del libro.

Quando scrivevo di questioni che non avevo vissuto in prima persona (come l’industria del sesso), mi rivol-

gevo a persone che conoscevano quel mondo dall’interno. La scrittrice Chima-manda Ngozi Adichie avverte che tenta-re di scrivere una narrazione universale signiica ignorare la vastità dell’esperien-za umana. C’è sempre la spinta a raccon-tare la stessa storia sulla vita delle giovani donne nel ventunesimo secolo, svuotata di qualunque sentimento sgradevole di rabbia per le ingiustizie di classe, razziali ed economiche, e con l’immancabile lie-to ine: mi sono ripresa, mi sono sposata, ho fatto dei igli e mi sono rifatta il trucco.

È forte la tentazione, soprattutto quando si scrive per un pubblico più largo, di dire ai lettori che andrà tutto bene.

Alla ine ho smesso di preoccuparmi e mi sono limi-tata a scrivere il libro che avrei avuto bisogno di leggere quando avevo 17 anni. Quello che volevo dire più di ogni altra cosa a tutti gli adolescenti incasinati e a tutti gli adulti arrabbiati del mondo è che la lotta per la no-stra sopravvivenza personale è politica. La lotta per ri-conoscere le nostre emozioni, la nostra rabbia, il dolore, il desiderio e la paura, tutti quei segreti inconfessabili che non raccontiamo perché temiamo di essere feriti o evitati, è profondamente politica. Questa lotta è impor-tante ed è possibile vincerla, come hanno fatto tanti prima di noi.

Sono questi i segreti che vengono bollati come “in-timi” quando a parlarne non è un uomo bianco ed ete-rosessuale. Trovare un equilibrio tra personale e politi-co senza essere liquidati da qualcuno è un’impresa quasi impossibile. Ma in momenti come questi penso alla frase di Baldwin: “L’impossibile è il minimo che si possa esigere”. u fp

La vita delle donnenon è un romanzo rosa

Laurie Penny

LAURIE PENNY

è una giornalista britannica. È columnist del settimanale New Statesman e collabora con il Guardian. In Italia ha pubblicato Meat

market. Carne

femminile sul banco

del capitalismo

(Settenove 2013).

Quando gli uomini scrivono delle loro esperienze personali in un contesto politico non vengono mai deiniti troppo “intimisti”: la loro è solo “letteratura”

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Le opinioni

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Non è un caso se il mondo diventa sem-pre più minaccioso mentre i concetti di stato di diritto, tutela dei diritti umani, trasparenza e responsabilità democratica sono in ritirata. Il proble-ma nasce dall’ambiguità dell’occi-

dente, che tollera la corruzione in casa propria e chiede al resto del mondo di sradicarla. La potenza economica occidentale è in declino e l’uso della forza militare pro-voca conseguenze indesiderate, perciò spesso l’unico strumento che ci resta è la capacità di persuasione. Dovremmo promuovere la legalità e il diritto in tutto il mondo e far capire a tutti che non c’è posto per la cor-ruzione e il clientelismo. Non solo nelle grandi crisi, dal Medio Oriente all’Ucrai-na al cambiamento climatico, ma in tutti gli aspetti della politica globale.

Il 26 settembre, al termine del vertice del comitato esecutivo della Fédération internationale de football association (Fifa) in Svizzera, il presidente Sepp Blatter ha dichiarato che l’organizzazio-ne non pubblicherà il rapporto dell’ex procuratore di-strettuale di New York Michael Garcia sulle presunte irregolarità nell’assegnazione dei Mondiali del 2018 e del 2022 alla Russia e al Qatar. È una vergogna. Nono-stante il suo potere e i suoi incassi (4,5 miliardi di dol-lari solo dagli ultimi Mondiali), la Fifa è gestita con meno trasparenza di un mercato delle pulci. Il suo pre-sidente è eletto a maggioranza semplice dalle 209 fe-derazioni che ne fanno parte. Non c’è alcuna forma di controllo sul suo potere. Il presidente della Fifa gover-na l’organizzazione come un capo tribale, dispensan-do favori e ignorando ogni critica.

Oggi il calcio rappresenta il 43 per cento delle entra-te di tutti gli eventi sportivi a livello globale. E con i soldi arrivano le tentazioni. Nel caso della Fifa, questo signi-ica la possibilità di assegnarsi enormi bonus e ricevere tangenti. Durante le votazioni del 1998, quando Sepp Blatter fu eletto per la prima volta, all’hotel Le Méridien di Parigi giravano buste contenenti cinquantamila dol-lari in contanti. I soldi, si disse, servivano a sostenere le federazioni nazionali. In seguito, il presidente della fe-derazione somala dichiarò che gli uomini di Blatter gli avevano oferto centomila dollari in cambio del suo vo-to. Blatter vinse le elezioni con l’appoggio delle federa-zioni africane e asiatiche, manipolate dal qatariota Mo-hamed bin Hammam che sarebbe poi diventato presi-dente della Confederazione asiatica.

Sedici anni dopo, a giugno, i delegati presenti a São Paulo per il 64° congresso della Fifa hanno ricevuto set-

tecentomila dollari a testa per le rispettive federazioni, la loro quota degli incassi dei Mondiali. Per una piccola federazione del Paciico o dei Caraibi è una cifra enor-me. Blatter sa che ogni federazione ha diritto a un voto, e a 78 anni si prepara a candidarsi al quinto mandato. Il capo tribale conosce le regole del gioco. Blatter sa an-che come respingere le critiche dell’occidente, compia-cendo la sua base di potere in Africa e in Asia. Dopo la pubblicazione sul Sunday Times di alcune rivelazioni compromettenti su episodi di corruzione in vista degli

ultimi mondiali, il presidente della Fifa ha dichiarato che le accuse erano razziste e discriminatorie.

Garcia vuole che il suo rapporto sia pubblicato. Le federazioni europee e americane lo sostengono. Il problema è che i voti non bastano e c’è sempre il ri-schio di esporsi ad accuse di razzismo. Per molti dei sostenitori di Blatter le bu-starelle sono un modo assolutamente normale di fare afari. Se vivi in un paese dove non ci sono controlli e che funziona esattamente come la Fifa, allora devi ca-

vartela da solo. A primavera la Fifa rivelerà come inten-de reagire al rapporto Garcia, ma non pubblicherà il documento. Ai vertici dell’organizzazione non sono in programma cambiamenti. La Fifa continuerà a essere il feudo personale del suo presidente.

Se agiscono insieme, gli europei sono in grado di fare la diferenza. Recentemente la Uefa, la federazio-ne europea, ha intimato alla Fifa di risolvere il proble-ma della partecipazione di terzi nella proprietà di un cartellino (un fenomeno che trasforma i calciatori in azioni di borsa) altrimenti avrebbe agito da sola. La Fifa si è piegata. Le battaglie di principio si possono vincere.

La Svizzera, dove ha sede l’organizzazione, dovreb-be imporre alla Fifa di rispettare gli standard di traspa-renza e legalità, pena l’espulsione dal paese. Il parla-mento europeo dovrebbe convocare i principali spon-sor della Fifa (Adidas, Coca Cola, Sony, Hyundai, Emi-rates e Visa) per chiarire che genere di pressioni eserci-tano sull’organizzazione. Il congresso degli Stati Uniti dovrebbe fare lo stesso. Gli europei, tra l’altro, hanno a disposizione un’arma infallibile: se decidessero di non partecipare ai Mondiali la manifestazione fallirebbe.

È una questione di principio: noi occidentali dob-biamo rispettare i nostri valori e fare causa comune con tutti quelli che li condividono. Rinunciare al no-stro potere di persuasione e alla nostra inluenza signi-ica fare un regalo a Sepp Blatter e a nemici ben più pericolosi. u as

La corruzione della Fifadanneggia tutti

Will Hutton

WILL HUTTON

è un giornalista britannico. Ha diretto il settimanale The Observer, di cui oggi è columnist. In Italia ha pubblicato Il drago dai piedi d’argilla. La Cina e l’Occidente nel XXI secolo (Fazi 2007).

Durante le votazioni del 1998, quando Sepp Blatter fu eletto per la prima volta, all’hotel Le Méridien di Parigi giravano buste contenenti cinquantamila dollari in contanti

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Il porto dei migrantiMattathias Schwartz, The New Yorker,Stati Uniti. Foto di Francesco Zizola

In copertina

Nel naufragio di un anno fa al largodi Lampedusa sono morti in 366. Come migliaia di altre persone che arrivano in Italia dal mare, i sopravvissuti si sono rivolti a Mussie Zerai, un prete eritreo che aiuta i migranti in diicoltà

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Lampedusa,settembre 2014.

Il relitto del peschereccio

libico afondato il 3 ottobre 2013

NOOR

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In copertina

I n Eritrea quando compi diciotto anni entri nell’esercito e ci resti per molto tempo, a volte per il re-sto della vita. Lavori per pochi dollari al giorno nei cantieri, nei campi, in miniera. Chi si riiuta

inisce in prigione. Non c’è altra scelta.Noi volevamo una vita migliore, una vi-

ta libera e normale. Avevamo sentito dire che in Europa puoi vivere come vuoi. E così abbiamo lasciato l’Eritrea e afrontato il deserto. Siamo partiti a piedi, perciò aveva-mo pochissime cose con noi: un po’ di dat-teri, acqua, un numero da chiamare quan-do inivano i soldi, un numero da chiamare una volta arrivati in Europa.

Abbiamo camminato verso ovest, attra-versando il Sudan ino a Khartoum, poi nel deserto del Sahara ino alla Libia. Eravamo 131. Questa è la storia che abbiamo raccon-tato in seguito alla polizia, ai giornalisti, ai giudici. Un giorno in Libia siamo stati ag-grediti da un gruppo di somali armati. Ci hanno costretto a salire su alcuni furgoni e ci hanno portato nella città di Sebha, dove ci hanno chiuso in una casa. Ci hanno co-stretto a restare in piedi per ore. Ci hanno legato a testa in giù e ci hanno picchiato sulle piante dei piedi. Ci hanno puntato le armi alla testa e hanno sparato al pavimen-to. Hanno portato due delle donne che era-no con noi nel deserto, le hanno stuprate e sono tornati indietro con una soltanto. Hanno versato dell’acqua sul pavimento e cercato di darci la scossa con un ilo elettri-co, ma sono solo riusciti a bruciare le lam-padine.

I somali chiedevano un riscatto di 3.300 dollari a persona. Due settimane dopo qua-si tutte le nostre famiglie avevano pagato. Ci hanno portato da Ermias, un traicante di esseri umani, a Tripoli. L’uomo aveva circa trent’anni, la pelle scura ed era gras-so. Ha voluto 1.600 dollari da ognuno per organizzare una traversata ino a Lampe-dusa, un’isola italiana a un giorno di viag-gio dalla costa libica. Molti di noi non ave-vano mai visto il mare e non sapevano nuo-tare. Abbiamo chiesto se potevamo pagare un extra per i giubbotti di salvataggio. Er-mias ha detto di no. I suoi uomini ci hanno chiuso insieme ad altre persone in un ma-gazzino dove abbiamo aspettato per tutto il mese di settembre del 2013.

Il 2 ottobre, prima dell’alba, ci hanno portato in auto ino alla costa e ci hanno tra-ghettato su una barca lunga una ventina di metri. Hanno stipato più di cinquecento persone sul ponte, in coperta e nelle cabine. Agli scaisti non piaceva molto come si pre-sentava la barca, così bassa, pesante e vec-

chia. Ma hanno detto: “Se Dio vorrà, sarete fortunati”. La barca è partita. Abbiamo mandato donne e bambini sottocoperta per farli stare più comodi. Alcuni si sono scritti il numero di telefono delle loro famiglie sui vestiti. In una cabina afollata una donna ha scritto un numero sulla parete. Era quello di un prete cattolico, abba Mussie Zerai, padre Mosè. Il suo numero è scritto sulle pareti delle carceri in Libia. Credevamo che po-tesse far arrivare una nave con i soccorsi dovunque ci trovassimo in mezzo al mare.

Il capitano era tunisino e non parlava la nostra lingua. Ha tenuto acceso il motore ino a dopo il tramonto. Alle tre di notte del 3 ottobre, il motore si è fermato. Eravamo abbastanza vicini da vedere le luci sulla co-sta. Lampedusa. Aspettavamo che il moto-re ripartisse. La nave ha cominciato a im-barcare acqua. Il capitano ha preso in mano qualcosa e l’ha strappato: poteva essere un lenzuolo, un pezzo di stofa o una coperta. L’ha bagnato nel carburante e poi gli ha da-to fuoco per segnalare che avevamo biso-gno di aiuto. Alla vista delle iamme alcuni sono stati presi dal panico e si sono precipi-tati verso la prua, che è afondata per il peso. La nave si è capovolta e siamo initi in ac-qua. Ci siamo detti: “Tentiamo la sorte”.

Abbiamo cominciato a nuotare. Vede-vamo mani protese pronte a tirarci giù, ma le abbiamo schivate. Dagli oblò vedevamo l’interno delle cabine. Alcuni hanno visto all’interno i igli e le mogli, e hanno scelto di annegare con loro, altri sono annegati cer-cando di salvarli. Alcuni urlavano il loro nome e quello del loro villaggio perché la notizia della loro morte potesse arrivare a terra.

Il telefono squillaA Friburgo, verso le nove di mattina del 3 ottobre, il telefono di padre Mussie Zerai ha cominciato a squillare ripetutamente. Le chiamate arrivavano da Svezia, Norve-gia, Eritrea, Sudan e Italia, in particolare da

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Lampedusa. Una barca partita dalla Libia aveva preso fuoco ed era afondata. Alme-no 111 persone erano morte e più di due-cento erano disperse. Era una notizia tri-stemente familiare: negli ultimi vent’anni sono morti più di ventimila migranti che cercavano di raggiungere l’Europa. Se non fosse per Zerai, il bilancio sarebbe ancora più grave. Gli africani diretti in Europa si passano il suo numero di telefono per chia-marlo in caso d’emergenza. Le barche in diicoltà chiamano Zerai con il telefono satellitare, lui prende nota delle coordinate e le comunica alle autorità italiane per or-ganizzare le operazioni di soccorso. Quan-do i soccorritori non arrivano, Zerai si ri-

No

or

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morti erano “il frutto di un rapporto malato tra il nord e il sud del mondo”, un’osserva-zione ripresa dal quotidiano la Repubblica. Quel giorno papa Francesco ha deinito il naufragio “una vergogna”.

I sommozzatori della guardia costiera italiana hanno passato la settimana succes-siva a estrarre cadaveri dal relitto. Tra que-sti, a cinquanta metri di profondità, c’era un neonato attaccato al cordone ombelica-le della madre, annegata durante il parto.

Zerai è cresciuto durante la guerra per l’indipendenza dell’Eritrea. Quando era piccolo, la sua città fu attaccata. Mentre le pareti di casa tremavano per le esplosioni, la nonna portò lui e i suoi fratelli in un bun-

ker sottoterra, s’inginocchiò e pregò insie-me a loro. In seguito quando morì un loro parente, la nonna si accorse che Zerai era l’unico della famiglia a non tradire emozio-ni. “E tu, cos’hai sullo stomaco per essere così freddo, una pietra?”, gli aveva chiesto.

Ancora oggi Zerai tiene nascosti i suoi sentimenti. “A volte anch’io mi arrabbio”, osserva. “Ma quando devo parlare con i giornalisti o con i politici cerco di esporre le mie ragioni pacatamente”.

Zerai fa il parroco in Svizzera e segue le migliaia di cattolici eritrei che vivono nel paese. Nel tempo libero svolge le sue attivi-tà a favore degli immigrati attraverso l’agenzia Habeshia per la cooperazione allo

Lampedusa, settembre 2014. Un sub perlustra il relitto. Sull’imbarcazione viaggiavano più di cinquecento migranti

volge alle radio e alle tv italiane, e spedisce email a liste d’indirizzi per fare i nomi di quelli che ritiene responsabili. Secondo la guardia costiera italiana, le telefonate di Zerai hanno permesso di salvare almeno cinquemila vite.

Quello che ha colpito Zerai nel naufra-gio del 3 ottobre 2013 è stata la vicinanza della barca alla costa. La morte per anne-gamento di centinaia di persone a meno di un chilometro da Lampedusa era la conse-guenza emblematica delle politiche euro-pee sull’immigrazione: un raforzamento delle frontiere unito a un’inquietante indif-ferenza per la vita umana. A un’agenzia di stampa italiana Zerai ha detto che quelle

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In copertina

sviluppo, che ha fondato lui. La bolletta te-lefonica può arrivare a costargli mille euro al mese. Per un certo periodo Zerai si è an-che impegnato a raccogliere le decine di mi gliaia di euro necessari a pagare i riscatti di chi lo chiamava per chiedere aiuto, ma poi si è reso conto che era come cercare di spegnere un incendio con la benzina. Ha illustrato i problemi dell’emigrazione dall’Africa a ministri italiani, commissari dell’Unione europea e a due papi. In cam-bio ha ricevuto solidarietà, ma ha ottenuto pochi cambiamenti politici.

La situazione continua a peggiorare. I migranti sbarcati sulle coste italiane nei primi tre mesi del 2014 sono stati dieci vol-te di più che nello stesso periodo dell’anno precedente. Frontex, l’agenzia europea per la gestione della cooperazione internazio-nale alle frontiere esterne degli stati dell’Unione europea, pensa di usare i droni e i satelliti per proteggere i conini europei e insegna alle sue forze di sicurezza la dif-ferenza tra il “rimpatrio” e il respingimen-to, che è una violazione della legge. A feb-braio del 2014 su internet circolava un vi-deo che mostrava dei poliziotti spagnoli impegnati a sparare in acqua proiet tili di gomma per impedire a un gruppo di africa-ni di aggirare a nuoto un frangilutti che protegge un’enclave spagnola in Marocco. In quelle circostanze sono annegate quin-dici persone.

Dopo il naufragio del 3 ottobre, Zerai si è chiesto se una tragedia di quelle propor-zioni avrebbe inalmente suscitato una re-azione. “I politici parlano, parlano, parla-no”, ha detto alzando le spalle, “ma ogni volta è lo stesso. Tra qualche mese tutti avranno dimenticato. Tranne noi: noi ri-cordiamo sempre”. Si è asciugato il sudore sulla fronte con un fazzoletto. “Non è pos-sibile accettare queste cose come se fosse-ro normali. Non è stato un normale inci-dente”.

Duecentomila personeLampedusa è uno scoglio di roccia calcarea e terra brulla di una ventina di chilometri quadrati. Insieme alla vicina Lampione è l’ultima impronta dell’Italia sulla piattafor-ma continentale africana. Gran parte della costa meridionale dell’isola è impraticabile e lo scirocco scaglia violentemente le onde contro le rocce. Nel 1843 Ferdinando II, re delle due Sicilie, rivendicò il possesso di Lampedusa. Durante la seconda guerra mondiale le forze alleate bombardarono l’isola. Per i sessant’anni successivi Lam-pedusa è stata un sonnolento rifugio di pe-scatori e turisti. Nel 2000, quando la Libia

di Muammar Gheddafi fu travolta da un’ondata di violenza xenofoba, sull’isola cominciarono ad arrivare barche piene di migranti originari di tutta l’Africa. Nel 2009, mentre la tolleranza degli italiani verso i nuovi arrivati diminuiva di pari pas-so con l’avanzare della crisi economica, il governo guidato da Silvio Berlusconi rino-minò “centro per l’identiicazione e l’espul-sione” la struttura di accoglienza inaugura-ta a Lampedusa undici anni prima. Insieme a Ceuta e Melilla, Cipro, Christmas Island e Nauru, Lampedusa è diventata un limbo, una di quelle zone dove i paesi sviluppati decidono chi è degno di cominciare una nuova vita dall’altra parte del muro. Negli ultimi quindici anni sull’isola sono appro-date più di duecentomila persone.

La maggior parte dei sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre sperava di ottenere lo status di rifugiato, riconosciuto a chi fug-ge dalle persecuzioni politiche e ha diritto alla protezione umanitaria. Per qualcuno sono “richiedenti asilo”, un’espressione che mette in evidenza la fragilità dei loro diritti. In Italia li chiamano clandestini. In Algeria harraga, “quelli che bruciano”, per-ché alcuni distruggono i documenti prima dello sbarco per evitare un eventuale rim-patrio. I mezzi d’informazione li chiamano “migranti”, lasciando intendere che lascia-no l’Africa per ragioni puramente econo-miche. Il potere di decidere se una persona

è un rifugiato o un migrante spetta a chi in-tervista i sopravvissuti nel pae se dove rie-scono a presentare domanda d’asilo. La percentuale di richieste accettate è estre-mamente variabile. I nuovi arrivati in Sici-lia evitano di farsi prendere le impronte digitali per poter fare domanda in Norve-gia, in Svizzera o in Svezia, il paese che ri-ceve più richieste dagli eritrei. Il codice comunitario delle frontiere di Schengen, che nel 2006 ha innalzato un muro giuridi-co intorno all’Europa abbassando quelli al suo interno, favorisce i nuovi arrivati quan-do decidono di proseguire il viaggio verso nord. Spesso hanno familiari disposti a gui-dare per trenta ore da Oslo alla Sicilia per andarli a prendere e poi tornare indietro approittando della libertà di circolazione all’interno dell’Unione. Ma chi non ha nes-suno ad aspettarlo inisce nelle baraccopoli intorno a Roma o a Milano.

Fino a poco tempo fa Zerai viveva a Ro-ma. “Non è stata una mia decisione”, ri-sponde quando gli chiedo i motivi del tra-sferimento in Svizzera. “Il vescovo mi ha detto che dovevo andare e io ho obbedito”. La Svizzera dista da Lampedusa due giorni di viaggio.

Visita al centroIl 21 ottobre 2013, dopo aver preso due treni e un breve volo, Zerai si imbarca su un tra-ghetto notturno in partenza dalla Sicilia. Con lui viaggia anche Meron Estefanos, una svedese nata in Eritrea che assiste i ri-chiedenti asilo del suo paese d’origine. Ri-ceve molte telefonate dagli eritrei che ven-gono rapiti nel Sinai, in Egitto. Queste per-sone devono pagare riscatti ino a quaran-tamila dollari per essere liberate.

Estefanos e Zerai aittano un furgone

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Come Ceuta e Melilla, Cipro e Christmas Island, Lampedusa è diventata un limbo

Da sapere Il viaggio dei richiedenti asilo

Siria 15

Iraq 6

Afghanistan 6

Eritrea 6

Serbia e Kosovo 4Pakistan 4Cina 3Somalia 3

Altri 53

Principali paesi d’origine dei richiedenti asilo,% di domande sul totale

Nel primo semestre del 2014 le Nazioni Unite hanno ricevuto 330.700 richieste d’asilo politico, il 24 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2013.

Principali paesi d’accoglienza, numero di domande accolte

Germania

Stati Uniti

Francia

Svezia

Turchia

Italia

Regno Unito

Paesi Bassi

Svizzera

Austria

65.659

52.835

29.009

28.511

27.729

24.481

14.283

12.289

9.515

8.395

Fonte: Afp, Unhcr

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per attraversare la cittadina portuale di Lampedusa, dove la calda aria salmastra e le casette pallide ricordano quelle di Tunisi o di Algeri. La strada ino al centro dove so-no rinchiusi i migranti passa vicino a un cortile dove sono ammucchiati i relitti del-le barche, con le scritte in arabo ancora vi-sibili sugli scai rotti. Zerai indossa una ca-micia blu a maniche corte con un quadrato bianco al centro del colletto. La barba chiazzata di grigio gli copre buona parte del collo e sale su per le guance.

La cosa che colpisce di più sono i suoi occhi, con le palpebre pesanti e il taglio che ricorda la sagoma di un violoncello. Con i suoi gesti misurati e l’atteggiamento seve-ro, somiglia ad Hailé Selassié (l’imperatore dell’Etiopia morto nel 1975).

Dopo una discussione vicino al cancello d’ingresso, i soldati italiani di guardia al centro permettono a un gruppetto di dete-nuti di avvicinarsi. Estefanos tira fuori il registratore per intervistare un eritreo di nome Mogos, di circa vent’anni, arrivato a Lampedusa sei giorni prima. Estefanos gli chiede perché ha corso il rischio della tra-versata. “La situazione in Libia è terribile”, risponde Mogos in tigrino. “Non fai altro che entrare e uscire dal carcere. La morte ci è sembrata preferibile a una vita in prigio-

ne”. Il giorno prima, il governo italiano ha organizzato una commemorazione per le vittime del 3 ottobre, ma la cerimonia si è svolta in Sicilia, e i morti erano rappresen-tati da grandi corone di iori. I sopravvissu-ti non sono stati autorizzati a partecipare alla funzione e hanno organizzato una ma-nifestazione sull’isola, bloccando la strada davanti al municipio di Lampedusa. Molti, Mogos compreso, hanno cominciato uno sciopero della fame. Ogni tanto Mogos pro-nuncia male le parole per la stanchezza e il suo bel volto è segnato. Sembra che stia in piedi solo grazie alle dita aggrappate alla grata del cancello.

Non ha abbastanza forze per raccontare la sua odissea nei dettagli: le guardie che gli hanno sparato addosso mentre scappa-va da una prigione libica, i traicanti che lo hanno chiuso in un mazraa (ienile in ara-bo) abbandonato, dove ha aspettato una barca insieme ad altra gente. Nel mazraa, ci racconta in un’altra occasione, faceva così caldo che nessuno portava i vestiti. Un giorno è arrivata la polizia, ha costretto tut-ti a sdraiar si per terra e ha aperto il fuoco. “Dio ha voluto che ci salvassimo”, dice Mo-gos. “Per i libici la nostra vita vale quanto quella di una mosca”. Durante un tentativo fallito di attraversare il Mediterraneo, ha

visto un uomo che cercava di scappare dal-le guardie di frontiera libiche. Lo hanno cosparso di carburante e hanno appiccato il fuoco, poi hanno gettato il corpo in mare.

Quel giorno Mogos non ci racconta qua-si nulla, però ci raccomanda di “salutare padre Mussie”. Non si è reso conto che Ze-rai è là. Quando sente il suo nome, il prete si volta: “Non abbiamo fatto ancora niente per te”.

Un soldato italiano si avvicina al sacer-dote. Sembra a disagio, come un uomo co-stretto a obbedire a ordini poco chiari. “Buongiorno, padre. Tutto bene?”. Zerai gli chiede di entrare. Il soldato lo manda dalla responsabile delle relazioni pubbliche. Ze-rai ripete la richiesta. Un altro soldato si gira verso un compagno e scoppia a ridere, probabilmente considerando ridicolo il suo tentativo. Zerai continua a insistere per venti minuti, ma inutilmente. “Un uiciale di basso grado cerca sempre di esercitare il potere, anche se in realtà non può fare granché”, mi spiega il prete. “Usa il potere solo perché ce l’ha, per farti perdere tempo. Chi può fare qualcosa, chi ha il potere, sta da un’altra parte”.

Zerai è nato ad Asmara nel 1975. Suo padre faceva l’ingegnere. Oggi Asmara è la capitale dell’Eritrea, ma all’epoca la città

NO

Or

Lampedusa, settembre 2014. La cabina del peschereccio

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In copertina

era sotto il controllo del governo marxista dell’Etiopia. Quando Zerai aveva cinque anni, sua madre morì di parto. Due anni dopo la polizia segreta arrestò suo padre, che corrompendo qualcuno uscì di prigio-ne e fuggì in Italia. Zerai e i suoi sette fratel-li sono stati cresciuti dalla nonna, Kudusan, una donna energica che andava a messa tutti i giorni. Da ragazzo Zerai cercava rifu-gio in chiesa, dove giocava a pallavolo, a calcio e cantava nel coro. Il sabato i frati lo portavano con loro a fare la spesa. Essendo cresciuto senza i genitori, capì che i sacer-doti potevano vivere come in una famiglia allargata e a quattordici anni disse alla non-na che voleva diventare prete. Lei chiese consiglio al vescovo e il vescovo le disse di ottenere il permesso del padre, che convo-cò il iglio a Roma.

Quando Zerai lasciò l’Eritrea, nei primi anni novanta, il paese aveva quasi conqui-stato l’indipendenza dopo trent’anni di guerra. Isaias Afewerki, il leader ribelle che aveva assunto il potere, governò per sei an-ni in relativa tranquillità, ma poi cominciò a reprimere l’opposizione, dichiarò guerra all’Etiopia e impose il servizio militare ob-bligatorio. Il fratello di Zerai, Biniam, mi ha raccontato che Mussie nell’ultimo anno trascorso ad Asmara voleva passare tutto il tempo insieme a persone importanti: im-prenditori, avvocati, giudici. Aveva sedici anni, ma “la sua mente non era quella di un bambino”. Zerai partì per Roma in aereo, con una sola valigia. Suo padre si era rispo-sato e non lo aiutò a sistemarsi. Zerai co-nobbe un prete britannico che lavorava in un uicio alla stazione di Roma e che aiuta-va i minori non accompagnati a presentare richiesta di asilo. Grazie a lui ottenne un permesso di soggiorno.

Insulti razzistiRoma non somigliava per niente ad Asma-ra. Zerai poteva andare dovunque senza aver paura di essere arrestato. Il sabato sera andava con gli amici eritrei nelle discote-che di via Casilina o di via Cassia, a secon-da della moda del momento. Voleva “fare esperienze”. Ogni tanto sentiva insulti raz-zisti sull’autobus e sul primo posto di lavo-ro, dove doveva smistare giornali. Quando gli africani facevano un errore, i capi li chia-mavano stupidi o negri di merda. Zerai tro-vò un altro lavoro in una bancarella di frutta a piazza Vittorio, dove migliorò il suo italia-no chiacchierando con i clienti. Assaggiò frutta mai vista prima, come le “pere abate e le mele renette”.

Dopo il lavoro aiutava il prete britanni-co facendo da interprete e consigliere. Im-

parò le procedure burocratiche per ottene-re documenti d’identità, permessi di sog-giorno, tessere sanitarie, pensioni, modelli iscali. Gli immigrati “avrebbero potuto fa-re tutto da soli, ma non conoscevano la lin-gua e il sistema”, mi spiega.

Padre Giampiero, viceparroco in una delle parrocchie dove lavorava Zerai, lo ri-corda come “molto silenzioso, profonda-mente sensibile, dotato di straordinaria spiritualità e con una grande attenzione per gli altri”. Giampiero gli consigliò di en-trare nell’ordine degli scalabriniani, noti per aiutare i migranti. Zerai aveva visto in tv la cerimonia di beatiicazione del fonda-tore dell’ordine, Giovanni Battista Scala-brini, che predicava il distacco e l’umiltà. Imparando a conoscere la vita e le opere di Scalabrini, Zerai rimase fulminato.

Passò tre anni a studiare a Piacenza, la città di Scalabrini. Nel 2003 tornò a Roma, dove visse per sette anni in una missione dell’ordine. Negli anni in cui era stato lon-tano dalla capitale, le condizioni di vita dei migranti erano peggiorate. Molti africani dormivano nelle baraccopoli o nelle fabbri-che abbandonate. Nuove leggi permette-vano al governo di espellere gli stranieri e rendevano più diicile ottenere un permesso di lavoro. Lavoran-do con il sacerdote britannico e con Giampiero si era convinto che gli ostacoli per gli stranieri fossero soprattutto di natura bu-rocratica e che si potesse superarli con la perseveranza. Ma ora i problemi erano di-ventati più gravi. Cominciò a organizzare manifestazioni nelle piazze e a fare pres-sioni sui funzionari europei a Bruxelles. Tornò in Eritrea per rivedere la nonna un’ultima volta. Lei gli regalò un anello d’oro, che Zerai porta ancora all’anulare.

Prima di tornare in Italia, Zerai lasciò il suo numero di telefono ad alcuni amici di famiglia. Presto cominciò a ricevere telefo-nate da eritrei che si trovavano in Libia, in Sudan e in Egitto. “Li richiamavo per avere maggiori informazioni”, ricorda. “Il mio numero passava di mano in mano, e in po-co tempo diventò di pubblico dominio”.

Un giorno fu convocato da un superiore. “Sei troppo occupato”, disse. “Fa’ attenzio-ne: non sei il salvatore del mondo. Il salva-

tore del mondo è Gesù Cristo”. Zerai ri-chiama alla mente questo consiglio quando sente che la sua missione lo sta portando allo sinimento.

L’incontro con i sopravvissutiAl momento della visita di Zerai a Lampe-dusa, il centro di detenzione è pieno ben oltre la sua capacità. Alcuni ospiti dormono all’esterno su pezzi di gommapiuma. Nel 2011 centinaia di tunisini rinchiusi nel cen-tro erano venuti a sapere che sarebbero stati espulsi dall’Italia. Si erano ribellati, avevano dato fuoco ad alcune aree della struttura e avevano tirato dei sassi contro la polizia. Due anni dopo, le guardie sono lì a mantenere la calma distribuendo sigarette e facendo inta di niente quando qualcuno scappa dal centro per percorrere a piedi il chilometro e mezzo di distanza dal paese.

Dopo il tramonto, nella piazza davanti a una chiesa nel centro di Lampedusa, men-tre Zerai chiacchiera con un gruppo di eri-trei e fa circolare il suo numero di telefono, Mogos arriva di corsa. Aferra la mano di Zerai, la bacia e se la preme sulla fronte. “Abba Mussie è un buon uomo”, dice. “In Libia tutti hanno il suo cellulare”. L’idea che il numero di telefono da cui non si è mai separato durante la traversata appar-tenga all’uomo che gli sta davanti deve sembrargli un miracolo. “È grazie ad abba Mussie se sono ancora vivo!”.

In un bar lì vicino Zerai ed Estefanos in-contrano alcuni sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre. Mesin Asmelash, sulla qua-

rantina, alto e magro, ha un paio di Nike bianche immacolate che gli sono state spedite da un pa-rente quando era in Sudan. Con-segna a Estefanos un elenco ap-prossimativo, scritto a mano in

tigrino, dei nomi dei dispersi, con annotata a ianco l’età, la nazionalità e l’indirizzo. Quando non c’è il nome, ci sono scritti altri dati identiicativi, come il colore e il taglio di capelli. Le famiglie di quattro dispersi hanno dato a Estefanos dei nomi da trovare sull’elenco. Sono morti tutti e quattro.

Zerai porta a cena Asmelash e il resto del gruppo. È preoccupato per un dettaglio che ha sentito ripetere più volte nel corso della giornata, e cioè che poco prima del naufragio altre due navi si sono avvicinate a quella degli eritrei e se ne sono andate. Alcuni sostengono che fossero navi della guardia costiera italiana, altri non ne sono certi.

La mattina dopo Zerai, con una tunica e un copricapo bianchi, è davanti all’altare della chiesa sulla piazza. Accanto all’in-

Roma non somigliava per niente ad Asmara. Zerai poteva andare dove voleva

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gresso c’è un dipinto del naufragio di san Paolo, a piedi nudi e in catene. Davanti al sacerdote sono seduti un’ottantina di eri-trei, circa la metà dei superstiti della trage-dia del 3 ottobre, venuti a piedi dal centro d’accoglienza. Tra loro una sola donna. Ze-rai gli spiega cosa devono raccontare ai funzionari che li interrogheranno. Non ba-sta parlare della crudeltà dei militari, devo-no raccontare con precisione le violazioni dei loro diritti. I superstiti devono conside-rarsi come nati una seconda volta. Devono pensare a cosa fare della nuova vita e non sofermarsi troppo a lungo su quello che è successo.

Fuori, sui gradini della chiesa, un uomo è seduto da solo con un asciugamano sulla testa. La donna morta durante il parto era la sua compagna. In seguito sui siti internet della diaspora eritrea sarà pubblicata una poesia in loro ricordo: “Mentre sua madre lottava debolmente per restare a galla, / è nato un maschietto. / Nessuno ha visto i suoi occhi / aprirsi per qualche istante / e poi chiudersi”. Estefanos si avvicina al pa-dre del bambino, gli mette una mano sulla spalla e tira fuori il registratore. Lui dice che la sua compagna si chiamava Yohanna, che signiica “congratulazioni”, in onore dell’indipendenza eritrea. Quella notte

l’ha cercata nell’acqua e su tutte le barche che sono arrivate.

Zerai trascorre il resto della giornata a dispensare “piccoli aiuti concreti”: cellula-ri e carte sim. In base a una legge italiana contro il terrorismo, gli ospiti del centro non possono acquistare una sim senza pri-ma mostrare un passaporto. E non possono neppure cambiare soldi e ricevere boniici dalle famiglie. Zerai convince i giornalisti e i turisti con documenti validi a comprare delle sim a loro nome, e poi le regala a un gruppo di eritrei, mentre uno degli anziani controlla i loro nomi su una lista. Zerai gli mostra come accendere i cellulari e attiva-re la sim. Poi registra il suo numero sulle loro rubriche, una a una. “Facciamo tutto ciò che è possibile oggi. Domani…”. La sua voce si spezza.

Guai a voi

A Tripoli, su una parete del vicariato catto-lico, le suore hanno affisso una lettera aperta di Zerai: “Non fatevi ingannare dai traicanti. Sono solo interessati al vostro denaro, non gli importa della vostra vita”. Rivolgendosi ai trafficanti scrive: “Non giocate con la vita dei vostri fratelli e sorel-le, non vendete la vostra anima al diavolo. Anche per voi arriverà il giorno del giudi-

zio, dovrete rispondere a Dio delle vostre azioni, guai a voi Caini del nostro tempo, guai a voi che siete Giuda del nostro tempo che vendete i vostri fratelli per trenta dena-ri ai libici”.

Con le sue lunghe frontiere e il suo go-verno debole, la Libia è il luogo idea le per la tratta di esseri umani. I richiedenti asilo senza documenti in regola non possono raggiungere l’Europa legalmente, perciò gli scaisti possono chiedere compensi pari a cinque volte il costo del biglietto aereo. Prima della rivoluzione, il regime di Ghed-dai teneva sotto controllo i traicanti pat-tugliando la costa e accettando le barche cariche di migranti che venivano rispediti indietro dall’Italia.

Nel 2008 il governo italiano aveva ir-mato con la Libia un trattato di “amicizia, partenariato e cooperazione”, accettando di investire nel paese cinque miliardi di eu-ro in vent’anni. All’inizio del 2011 l’Italia si era unita alla Nato nelle operazioni in so-stengo delle forze ribelli, e Muammar Gheddai si era vendicato lasciando partire indisturbati i barconi carichi di migranti.

Quell’anno, da marzo in poi, il telefono di Zerai ha squillato quasi ininterrottamen-te. “Non avevo un secondo libero”, ricorda. Un numero di barche senza precedenti sol-

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Lampedusa, settembre 2014. Un paio di pantaloni sul fondo del mare

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In copertina

cava il Mediterraneo trasportando egizia­ni, tunisini e uomini sospettati di essere mercenari di Gheddai. Una persona terro­rizzata ha telefonato a Zerai per dirgli che a Misurata i ribelli libici davano la caccia agli stranieri per divertirsi. A quel punto Zerai ha organizzato un trasporto aereo dalla Li­bia all’Italia per centodieci eritrei.

Chiamata persaA Roma Zerai viveva al Collegio etiopico, in Vaticano, e scriveva una tesi sui diritti umani alla luce della dottrina della chiesa cattolica. Aveva una stanza dove scriveva e dormiva. Il suo cellulare aveva due sim ed era sempre acceso, anche di notte. La mat­tina del 27 marzo 2011, mentre gli aerei della Nato bombardavano le forze libiche, Zerai si è svegliato e si è accorto di non aver sentito una chiamata da un telefono satel­litare. Ha composto il numero e un uomo di nome Ghirma lo ha salutato in tigrino. Ha detto a Zerai di trovarsi su un gommone Zodiac insieme ad altre 71 persone. Le scorte di cibo e l’acqua erano quasi inite. Il motore era troppo piccolo per tutte quelle persone ed era a corto di carburante.

Zerai ha promesso di aiutarli, ma i soc­corsi avrebbero richiesto tempo: Ghirma doveva essere paziente. “Cercavo di dare loro un po’ di speranza”, ricorda il prete. Ha telefonato al Centro nazionale di coor­dinamento del soccorso marittimo di Ro­ma, che ha contattato il gestore telefonico per avere le coordinate di Ghirma. Meno di un’ora dopo, il centro ha diramato una chiamata d’emergenza alle sedi della Nato e a tutte le imbarcazioni della zona. Lo Zo­diac di Ghirma era a metà strada tra Lam­pedusa e la Libia, in prossimità di venti navi della Nato. Quando Zerai ha richia­mato Ghirma, nel pomeriggio, gli aiuti non erano ancora arrivati. Qualche ora più tar­di non ha risposto nessuno. Forse la batte­ria del cellulare si era scaricata.

Zerai ha cercato di avere notizie del gommone di Ghirma dai suoi contatti al centro di coordinamento e alla Nato. Ave­vano trasmesso le coordinate seguendo la catena di comando e non c’era molto altro che potessero fare. Il telefono di Zerai non smetteva di squillare: ora a chiamare erano i parenti dei passeggeri. “Alcuni piangeva­no”, racconta. “Altri erano a pezzi”. Non riusciva a togliersi di testa la barca di Ghir­ma. Ha cercato di calmarsi pregando e fa­cendo giardinaggio, poi è tornato in came­ra sua ed è scoppiato in lacrime. Quindici giorni dopo ha saputo cos’era successo. Uno dei compagni di Ghirma, Dan, gli ha raccontato che il gommone era stato inve­

stito da una tempesta. Mentre la corrente li riportava a sud verso la Libia, i passeggeri avevano cercato di sopravvivere bevendo acqua di mare e urina mescolata a dentifri­cio. Hanno cominciato a morire tra le cin­que e le sei persone al giorno. Quando la barca è approdata sulla costa libica a est di Tripoli, solo undici dei 72 passeggeri erano ancora vivi. Uno dei superstiti è morto su­bito dopo l’arrivo. Un altro è morto in una prigione libica dove era rimasto per tre giorni senza cibo e cure mediche.

Dan ha raccontato a Zerai che i militari si erano avvicinati alla barca tre volte men­tre era in mare. Prima in elicottero: i pas­seggeri dicono di aver letto la parola Army, ma senza riuscire a distinguere il paese di provenienza. Aveva volteggiato sopra di loro, scattato delle foto e poi se n’era anda­

to. Il capitano dello Zodiac, credendo che i soccorsi stessero per arrivare, aveva getta­to bussola e telefono satellitare in mare perché le autorità non potessero accusarlo di essere lo scaista. Qualche ora dopo l’eli­cottero era tornato e aveva calato otto bottiglie d’acqua e dei pac­chetti di biscotti con una corda. Qualche giorno dopo, superata la tempesta, avevano incrociato una nave militare. I passeggeri avevano alzato dei cadaveri sopra le loro teste per mostrare la drammaticità della loro situazione. La nave si era avvicinata a meno di venti metri, aveva scattato delle foto e si era allontanata.

Alcuni ricercatori italiani e svizzeri che hanno intervistato cinque degli otto so­pravvissuto confermano le parole di Dan. Il caso è conosciuto come “la barca lascia­ta a morire” e Zerai si arrabbia ancora quando ne parla. “Voglio sapere chi sono i responsabili”, dice. “Voglio guardare negli occhi quelli che li hanno lasciati morire. Perché? Voglio dirgli: quelli che vedete nel Mediterraneo sono esseri umani come voi, non sono oggetti senza vita. Scommetto che se fossero stati animali li avreste aiu­tati”.

Zerai ha organizzato un incontro tra i sopravvissuti e i rappresentanti della chie­sa cattolica a Tripoli. Alcuni hanno tentato di nuovo la traversata e sono arrivati in Eu­ropa, altri sono initi in un campo profughi

in Tunisia. Un rapporto del Consiglio d’Eu­ropa non è riuscito a stabilire perché la Na­to non sia intervenuta, anche se aferma che un velivolo francese aveva individuato e fotografato la barca poco prima che Ghir­ma telefonasse a padre Zerai. La Nato so­stiene che “non esiste documentazione di velivoli o navi sotto il comando della Nato che abbiano visto o stabilito contatti con la barca”. I sopravvissuti si sono costituiti co­me parte civile in quattro paesi europei.

Impazienti di tornareA tre anni dalla caduta di Gheddai, il go­verno della Libia è ancora troppo disorga­nizzato per scrivere una costituzione o per fermare il contrabbando di petrolio. Nel paese regna ancora l’anarchia, come mi conferma Daniel, un eritreo che incontro nel novembre del 2013 nell’ambasciata del suo paese a Tripoli. Ha una trentina d’anni e il volto lungo. Porta abiti induriti e polve­rosi, come se avesse camminato per giorni interi. Ha tentato la traversata per arrivare in Europa, mi racconta, ma il motore si è bloccato e hanno cominciato a imbarcare acqua.

Qualcuno a bordo ha telefonato a Zerai, che ha messo in moto la macchina dei soc­corsi. La guardia costiera italiana, invece di portare Daniel a Lampedusa o a Malta, lo ha caricato su una nave turca diretta in Li­

bia dove i suoi nuovi carcerieri lo hanno appeso a una corda e pic­chiato sulle piante dei piedi. Il giorno prima del nostro incontro ha convinto i suoi aguzzini ad as­segnargli un posto di lavoro

all’esterno della prigione ed è riuscito a scappare. Un tempo, mi spiega, aveva un documento delle Nazioni Unite che atte­stava la sua richiesta di asilo politico. Ma non gli è stato molto utile: dopo averlo arre­stato, i libici gliel’hanno coniscato.

Zerai, mi dice Daniel, mantiene i con­tatti con molti prigionieri. “Dice a tutti, perfino a quelli che sono in carcere, di aspettare a Tripoli inché lui non riesce a ottenere i documenti dall’Onu, in modo che possano prendere l’aereo. Lo stanno ancora aspettando”. Daniel è stanco di at­tendere. “Non ho documenti e non ho la­voro”, mi dice. “Non posso tornare indie­tro. Perciò ho solo una scelta: prendere un’altra barca”.

Questo succede nel novembre del 2013, durante un periodo di relativa tranquillità a Tripoli. Di mattina i migranti irregolari con martelli e trapani si riuniscono in delle specie di mercati della manodopera a cielo aperto nella speranza di vendersi per quin­

“Quelli che vedete nel Mediterraneo sono esseri umani, non oggetti senza vita”

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dici o diciotto dollari al giorno. Su una ro-tonda molto traicata si possono vedere lavoratori originari di Niger, Ciad, Gam-bia, Sudan, Uganda e Mali, pronti a con-tendersi un posto su uno dei pickup di pas-saggio. Ben poco impedisce agli imprendi-tori libici di trattare gli stranieri come mer-ce. La questione dei loro diritti è del tutto teorica e se vogliono farli valere devono sottoporsi, come per ogni altra controver-sia, al giudizio del comandante della mili-zia locale.

In questo periodo a Tripoli il compito tocca a Said Gharsalla, il comandante della ventesima unità. Intitolata al leggendario guerrigliero Omar al Mukhtar, durante la rivolta contro Gheddai la ventesima unità contava 360 uomini. Poi Gharsalla l’ha ri-dotta a ottanta uomini e l’ha trasformata in una forza di polizia addetta al controllo dell’immigrazione.

Una mattina incontro Gharsalla nel suo ufficio. Indossa uniforme e stivali, ha la barba incolta e i denti storti. Nella stessa stanza c’è una bella donna etiope, A, sedu-ta sul divano. Ha gli occhi umidi e trema di paura. Gli uomini di Gharsalla l’hanno tro-vata per strada senza documenti. È stata mandata a Tripoli per lavorare come do-mestica, ha detto, ma la sua datrice di lavo-

ro, una casalinga libica, le ha sequestrato il passaporto, l’ha picchiata e sbattuta in mezzo alla strada.

“Che lavoro svolge questa agenzia?”, chiede Gharsalla a un libico alto e scuro.

“Pulizie”, risponde l’uomo, di nome Chadet, dipendente dell’agenzia che ha trovato lavoro ad A. “Portiamo lavoratori in Libia”.

“Parliamoci da uomo a uomo”, replica Gharsalla. “L’abbiamo trovata in lacrime per strada. Non aveva nessun numero di telefono con sé e dice di non voler più lavo-rare per quella donna”.

“Vi racconterò la vera storia”, risponde Chadet, spiegando che A è andata in visita da sua cugina e c’è stato un malinteso con l’addetto alla sicurezza di casa. Uno degli uomini di Gharsalla dà un’occhiata al pas-saporto di A. Scorre le pagine come se fos-sero carte da gioco. Il visto è scaduto. Nes-sun timbro d’ingresso. Chadet deve delle spiegazioni.

“Le ho fatto un contratto di lavoro”, di-ce. “Ho preso solo una commissione. Non sto vendendo nessuno”.

Una quota di 2.500 dinari libici (circa 1.600 euro) comprende il visto, il biglietto aereo e la commissione d’agenzia. Chadet parla come se fosse lui ad avere la situazio-

ne sotto controllo. “Era tutto nel contrat-to”, compreso il fatto che A avrebbe guada-gnato 200 euro al mese.

A quel punto Gharsalla alza la voce. “Ci sono molti africani che lavorano illegal-mente in Libia. Sono vittime della tratta di esseri umani. Questa donna racconta di essere stata picchiata e di aver subìto vio-lenze. Forse sta mentendo”. Gharsalla issa Chadet carezzandosi la barba: “Ma sento che c’è qualcosa che non va”.

“Io sono responsabile per lei davanti a Dio e alla sua famiglia in Etiopia”, risponde Chadet, improvvisamente deferente. “Non la rimanderò nella stessa casa. Mi occuperò io di lei”.

“Stanotte resta con noi”, dice Gharsal-la. “Domattina porterai la documentazio-ne”. Dà alla donna il suo passaporto. Quan-do ha in mano il libretto, scoppia in lacrime e lo tiene stretto con entrambe le mani, co-me qualcosa di fragile e prezioso.

Una lunga giornataDopo Lampedusa, Zerai torna in Vaticano. La mattina del 25 ottobre 2013 si sveglia al-le sette, fa colazione e prega. Poi va a piazza san Pietro e prende un taxi. Lo aspetta una lunga giornata di incontri, con due ministri e la presidente della camera. Ha molti

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Lampedusa, settembre 2014. La cabina di pilotaggio

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obiettivi da raggiungere, molte possibilità di errore, ma poco tempo per preoccupar-sene. Il telefono squilla: un numero italia-no. “Buongiorno”, dice Zerai, poi passa al tigrino. Consiglia al suo interlocutore di non andare a Verona, ma di cercare una certa persona a Milano. “Riparliamone quando sarai là con lei, e cercheremo di trovare il modo di farvi arrivare in Svizze-ra. Stai attento e abbi cura di te”.

L’ambasciatore Luis CdeBaca, un di-plomatico statunitense esperto di traico di esseri umani, mi parla di una “ferrovia clandestina” che aiuta gli africani senza documenti a sistemarsi in Europa. In Italia i migranti che sopravvivono alla traversata vengono trasferiti in centri di detenzione più grandi. “Da lì scappano e nessuno dice niente”, mi dice Calogero Ferrara, un pro-curatore siciliano che indaga sul traico di esseri umani. “La legge non ci consente di trattenerli in questo centro. Partono verso il Nordeuropa, il Canada o la Germania, dove raggiungono le famiglie. In quei paesi si fanno identiicare uicialmente per la prima volta. Solo quando arrivano nel pae-se dove vogliono restare forniscono le loro generalità”.

Secondo Mogos, “l’Italia fa schifo”. Do-po Lampedusa è stato trasferito in Sicilia, e inalmente è riuscito a raggiungere Mila-no. Sua madre, in Eritrea, ha venduto tutti i suoi gioielli d’oro per mandargli mille eu-ro. Lui si è procurato un passaporto falso e un biglietto aereo per Stoccolma. Quando ci parliamo, vive in un alloggio dello stato nella capitale svedese e aspetta che la sua domanda d’asilo sia accolta. La Svezia è meglio della Libia, ma non ha ancora sod-disfatto le sue aspettative. “Non voglio sembrare ingrato, ma ci danno da mangia-re cereali bolliti”, mi dice. “Non ci piaccio-no per niente. Se ci dessero una casa po-tremmo cucinarci da soli. Avere una casa è tutto”. Spera di organizzare uno “scambio di matrimoni”, un matrimonio con doppio permesso di soggiorno tra due coppie di fratelli di due famiglie, per sé e per sua so-rella, che era ancora in Sudan. “Devo aiu-tarla il prima possibile”, osserva.

Tra il dire e il fareIl primo incontro di Zerai a Roma è con il capo dell’uicio per l’Africa subsahariana del ministero degli esteri italiano, un uomo colossale di una sessantina d’anni, elegan-te, con una giacca doppiopetto che tiene abbottonata anche quando si siede e incro-cia le braccia assumendo un’espressione attenta. Zerai e altri due attivisti eritrei cercano di ottenere il suo aiuto per riporta-

re in Eritrea i corpi delle vittime del 3 otto-bre, ma con scarso successo. Dal ministero degli esteri Zerai raggiunge in taxi piazza di Montecitorio, dove diverse centinaia di eritrei provenienti dal Regno Unito, dalla Germania e dalla Svizzera si sono dati ap-puntamento per protestare contro le poli-tiche europee sull’immigrazione. Due pre-ti ortodossi eritrei pregano su due bare di cartapesta, una più grande con scritto so-pra il numero delle persone morte nel nau-fragio del 3 ottobre e una più piccola per il

neonato scomparso. Dopo un altro incon-tro, Zerai guida un corteo ino al teatro Val-le, dove fa un discorso in italiano e in tigri-no. Chiede l’apertura di un’indagine per accertare se è vero che una nave della guar-dia costiera ha visto e avvicinato la barca del 3 ottobre pochi minuti prima che afon-dasse. “Se avessero fatto il loro dovere, 366 persone avrebbero potuto salvarsi”, dice. “Qualcu-no deve assumersene la respon-sabilità”. Se ne va presto: tra ven-ti minuti deve intervenire a una trasmissione televisiva. Zerai ha prenotato un taxi, ma l’autista si presenta in ritardo e in un primo momento non capisce l’urgen-za della situazione.

“Alle quattro devo essere a Montecito-rio”, gli dice Zerai.

“A Montecitorio? Basta che lo dica!”, risponde il tassista.

“No”, risponde Zerai alzando la voce. “Ora dobbiamo andare agli studi della te-levisione”.

“Bene, mi dispiace per lei. Il tassametro sta girando”.

Alle tre del pomeriggio, Zerai è in diret-ta su Sky tv. “L’Italia è un paese razzista?”, gli chiede l’intervistatrice. “Il razzismo esi-ste, ma non tutta l’Italia è razzista”, rispon-de Zerai. Il 3 ottobre a prestare i primi soc-corsi è stato Vito Fiorino, un pescatore lampedusano. Lui e i suoi amici hanno tira-to fuori dall’acqua 47 persone. In un primo momento avevano scambiato le loro grida per i versi dei gabbiani.

Mentre Zerai va in onda, è in corso un vertice dei leader europei a Bruxelles, e l’immigrazione è tra le questioni all’ordine del giorno. La cancelliera tedesca Angela Merkel è “profondamente angosciata” per

gli “orribili” naufragi. I leader europei pro-mettono aiuti concreti: navi, aerei, appa-recchiature di sorveglianza. La giornalista di Sky tv chiede a Zerai cosa vuole dal go-verno italiano. Zerai avanza alcune propo-ste. L’Europa dovrebbe aprire un “corrido-io umanitario” – come quelli usati di solito per soccorrere i civili nelle zone di guerra – per ofrire ai richiedenti asilo un’alterna-tiva alle barche dei trafficanti di esseri umani. I nuovi arrivati hanno bisogno di un’“accoglienza dignitosa” e di “inclusio-ne economica”.

“Dobbiamo anche ricercare soluzioni più radicali”, prosegue Zerai, suggerendo che l’Europa potrebbe valutare la possibi-lità di aprire le sue ambasciate in Libia e Sudan alle richieste di asilo. L’intervistatri-ce lo interrompe per un aggiornamento da Bruxelles. Non ci saranno iniziative imme-diate, riferisce. Altri colloqui sono previsti per dicembre e per giugno. “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, commenta la gior-nalista.

L’ultimo incontro della giornata, alla camera dei deputati, è più caloroso: la pre-sidente Laura Boldrini esprime compren-

sione per la situazione di Lampe-dusa. Offre incoraggiamenti e consigli, ma dice anche che non ci sono soluzioni in vista. Più tar-di Zerai incontra un vecchio ami-co in un cafè vicino al parlamen-

to. Davanti a un bicchiere di vino, la sua frustrazione viene a galla. Continua a esse-re turbato dall’idea che le navi della guar-dia costiera abbiano individuato la barca. “Erano bianche con una striscia rossa”, di-ce. La cosa più inquietante è che a Roma pochi sembrano preoccuparsene.

I mesi successivi confermano il pessi-mismo di Zerai. Le uniche persone chia-mate a rispondere per i morti del 3 ottobre sono il capitano tunisino e il somalo accu-sati di aver organizzato la traversata. Tutti e due devono afrontare un processo pena-le in Italia. A Washington e a Bruxelles nes-suno parla seriamente di un corridoio umanitario nel Mediterraneo o di valutare le richieste di asilo nelle ambasciate africa-ne. L’Unione europea si è impegnata a scongiurare un’altra tragedia come quella del 3 ottobre, ma le barche che lasciano il Nordafrica sono sempre più numerose.

Verso la ine della giornata, un diacono con un furgoncino riporta Zerai al Collegio etiopico, poi va a comprare della pizza. Ze-rai si siede a un tavolo di quercia. Sembra stanco e impaziente. Il mattino dopo deve essere in Svizzera per dire messa. Dietro di lui, in una teca di vetro, c’è una bibbia etio-

A prestare i primi soccorsi è stato Vito Fiorino, un pescatore lampedusano

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pe con la copertina adornata da una croce d’oro. Su una targhetta c’è scritto: “Dono di sua maestà Hailé Selassié I, ultimo impera-tore d’Etiopia”.

Selassié sosteneva di discendere da re David. Nel 1966 in Giamaica migliaia di persone lo accolsero all’aeroporto salutan-dolo come il messia. Sebbene non abbia le pretese imperiali di Selassié, anche Zerai concentra su di sé le speranze di tanti di-sperati. Gli chiedo se ne è orgoglioso. “Per me è solo servizio”, risponde. “Non ho que-sto tipo di orgoglio. Sono un prete. Sono un pastore di anime. Anche quando la gente mi bacia la mano, non è me che bacia. Ba-cia Gesù Cristo”. Poi Zerai va a prenotare un volo per la Svizzera. Quella notte dorme qualche ora, si assopisce un po’ in aereo e arriva in tempo per la messa.

Quasi un anno dopo incontro di nuovo Zerai. In Europa hanno continuato ad al-zarsi voci di sdegno e vergogna, ma nel Me-diterraneo non è cambiato molto. Le bar-che continuano a compiere la traversata e i cadaveri si accumulano. Alla ine del 2013, dopo la difusione di un video che mostrava le condizioni disumane in cui erano co-stretti a vivere i migranti, il governo italia-no ha chiuso il centro di prima accoglienza di Lampedusa. Ora le navi soccorso italia-

ne saltano l’isola e portano i migranti diret-tamente nei centri in Sicilia, come quello di Pozzallo. Dall’ottobre del 2013 almeno 108mila persone sono state tratte in salvo al largo delle coste italiane. Si stima che nello stesso periodo i morti e i dispersi in mare siano stati almeno 1.880. In un solo naufragio sono annegati in più di cinque-cento, tra cui siriani, egiziani e palestinesi, fatti afondare deliberatamente dagli scai-sti quando si sono rifiutati di salire su un’imbarcazione più piccola.

L’anniversario

È domenica e Zerai sta andando in treno da Zurigo a San Gallo. Deve celebrare la mes-sa per una congregazione di immigrati eri-trei. Come in passato, alterna i suoi impe-gni di parroco e di attivista, ma non sembra troppo stanco. “Tutto per me è servizio”, dice. Scherzando chiama la Svizzera la “terra dolce”, e non c’è da stupirsi guardan-do la campagna scorrere fuori dal inestri-no, con le sue fattorie e i vecchi campanili di rame.

Per gli eritrei gli ostacoli principali sono la lingua e la disoccupazione, che creano una situazione “negativa dal punto di vista psicologico”, nonostante il sostegno gene-roso del governo svizzero. Intanto la Libia,

mi spiega, “è nel caos più totale”. Zerai pre-vede di tornare a Lampedusa il 1 ottobre, in tempo per l’anniversario del naufragio. Il governo italiano e l’Unione europea hanno intensiicato le operazioni di salvataggio in mare per riuscire a far fronte al numero sempre più alto di migranti.

Ma secondo padre Mussie Zerai servo-no misure più drastiche. “La soluzione è cambiare radicalmente la situazione nei paesi d’origine”, dice. “Soprattutto oggi, i giovani vanno su internet e vedono le op-portunità che ofrono altri paesi. Non sia-mo nel medioevo. Questi ragazzi vogliono la libertà. Vogliono studiare e costruirsi una vita felice. È l’ambizione di ogni essere umano. E se non hanno quest’opportunità nel loro paese, andranno a cercarla da un’altra parte”. u gc, gim

L’ARTICOLO E LE FOTO

Mattathias Schwartz è un giornalista statunitense che collabora con il New Yorker e la London Review of Books. Francesco Zizola è un fotoreporter italiano. Le foto del peschereccio libico afondato il 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa sono state scattate a settembre del 2014. Il relitto si trova a cinquanta metri di profondità, con la prua orientata verso il porto dell’isola.

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Lampedusa, settembre 2014. Un sub fotografa i resti del peschereccio

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Panamá

La mattina del 9 gennaio 1964 Francisco Díaz e altri studenti furono incaricati di issare la bandiera di Pa-namá accanto a quella a stelle e strisce nella Zona

del canale. Lui cominciò a sudare freddo. Gli statunitensi residenti nella zona, noti come zonians, considerarono quel gesto una provocazione e scatenarono dei disor-dini che si conclusero con ventiquattro morti e lo spiegamento dell’esercito ameri-cano lungo il canale.

Per gli zonians fu l’inizio della ine. Una decina di anni dopo, nel 1977, furono irma-ti i trattati Torrijos-Carter. In base a questi accordi l’amministrazione del canale di Pa-namá sarebbe passata poco a poco nelle

mani dei panamensi. Poi, nel 1999, gli Sta-ti Uniti si sarebbero ritirati mettendo ine a un controllo della zona durato quasi cento anni.

“Il paese in cui siamo nati non esiste più”, si lamenta il professor Michael Bara-nick, mentre fa colazione al Marriott hotel di Orlando. Sono quasi duemila gli zonians arrivati da ogni angolo degli Stati Uniti nel-la torrida Florida per partecipare alla riu-nione della Panama canal society, un grup-po che ogni anno raduna gli ex abitanti della Zona del canale per ricordare con no-stalgia il paradiso perduto. L’età media dei partecipanti è 77 anni: molti girano su se-die a rotelle elettriche e ovunque si vedono magliette con lo slogan “pericolo d’estin-zione”. Alle spalle hanno decenni di esi-stenza privilegiata vissuta nell’umidità della giungla tropicale, in una bolla auto-suiciente dove praticavano una sorta di socialismo sostenuto dal paese più capita-lista del mondo.

Questa contraddizione rispondeva a un piano degli Stati Uniti per estendere il pro-prio predominio internazionale a partire da un’area strategica collocata tra l’oceano Pa-ciico e l’Atlantico. All’inizio del novecento il presidente statunitense Theodore Roose-velt impresse una svolta alla politica estera di Washington con la cosiddetta dottrina del big stick (grosso bastone): “Parla con gentilezza e portati dietro un grosso basto-

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Il paradisonon c’è piùTesto e foto di Matías Costa, El País Semanal, Spagna

Si chiamano zonians e sono gli statunitensi che hanno abitato a Panamá, nella Zona del canale, per tutto il novecento. Vivendo tra lussi e comodità, con la protezione di Washington

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Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014 61

La capitale Panamá vista dal cerro Ancón, nel 2011

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Panamá

ne”. L’amministrazione statunitense co-minciò ad applicare questo principio nei suoi negoziati, soprattutto con l’America Latina.

Dopo aver aiutato Panamá a raggiunge-re l’indipendenza dalla Colombia nel 1903, gli Stati Uniti ottennero i diritti perpetui su una fascia larga sedici chilometri in cambio di dieci milioni di dollari e di un aitto di 250mila dollari all’anno. Quell’area fu chia-mata Zona del canale. Cominciò così la co-struzione del canale interoceanico, una delle opere ingegneristiche più grandi della storia, inaugurato il 15 agosto 1914 dalla na-ve a vapore Ancón. Il territorio non fu mai considerato uno stato degli Stati Uniti ma una regione autonoma all’interno di un al-tro paese, pensata per ospitare, alimentare, educare e intrattenere le migliaia di lavora-tori che costruirono il canale. Con il tempo, però, diventò un’area strategica.

Oggi nella capitale i marciapiedi sono pressoché inesistenti e camminare è una strana abitudine che contrasta con l’uso in-

tensivo della macchina anche per percorre-re distanze brevi. Ogni sabato si creano ile interminabili per entrare nel parcheggio dell’Albrook mall, il centro commerciale più importante della città. L’immenso com-plesso è stato per molto tempo la base mili-tare di Fort Clayton, da cui operava la sta-zione radiotelevisiva che informava e in-tratteneva gli statunitensi residenti nella Zona del canale. Oggi questa struttura ma-stodontica ofre altri tipi di intrattenimen-to: cinema, ristoranti, supermercati, nego-zi, farmacie, agenzie di viaggio, parrucchie-ri, palestre e aree gioco per i bambini. Uno stile di vita non lontano da quello che gli statunitensi avrebbero desiderato per se stessi quando vivevano qui.

Liste d’attesa

“Oye, dile al man que no le puedo rentar su lat todavía”, dice al cellulare un ragazzo in giacca che attraversa velocemente l’aveni-da de España sotto il sole bollente di mez-zogiorno. “Se ve bien priti, pero me quedé

sin un centavo. Actually me bajé la quince-na hangueando”. Traduzione: “Di’ al tuo amico che ancora non posso aittare il suo appartamento, mi è piaciuto molto ma al momento non ho soldi. In realtà mi sono speso tutto lo stipendio del mese uscendo la sera”. Lo spanglish, un mix di inglese e spagnolo che cominciarono a parlare i latini emigrati negli anni settanta negli Stati Uni-ti, è stato da subito la lingua di comunica-zione nella Zona del canale: gli zonians non parlavano spagnolo e i panamensi non par-lavano inglese. Oggi la maggior parte dei ragazzi panamensi che vive nelle zone ur-bane mischia ogni giorno parole inglesi e spagnole.

La moneta uiciale di Panamá è il bal-boa ma come dice Carlos, un tassista che da decenni percorre in lungo e in largo la città, “i balboa sono come gli ufo: tutti sanno co-sa sono, ma nessuno li ha visti”. Il dollaro statunitense è l’unica moneta che conta in un paese che, secondo l’Economist, ha la crescita più veloce dell’America Latina. I

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Panamá, 2013. L’Albrook mall si trova nell’ex base militare statunitense di Fort Clayton

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grattacieli della capitale panamense com-petono con quelli di Miami o Dubai: oggi Panamá si identiica più che mai con il pae-se che per cento anni ha occupato una parte vitale del suo territorio.

Gli ex abitanti della Zona, però, hanno ottime ragioni per essere nostalgici. Nel suo rifugio improvvisato del Marriott hotel il comandante di nave Marc Goodrich, uno dei pochi che ha scelto di continuare a lavo-rare al canale quando gli altri se ne sono andati, ricorda i privilegi perduti in seguito al passaggio di sovranità. Per invogliare i lavoratori a restare in quel luogo estraneo e lontano da casa, il governo degli Stati Uniti ofriva enormi beneici: stipendi esentasse, bonus per il lavoro all’estero, case coloniali di legno con vista sul canale a prezzi strac-ciati, sette settimane di vacanze all’anno, voli gratuiti negli Stati Uniti e assicurazione sul lavoro.

Gli zonians diventano ancora più nostal-gici quando ricordano il loro stile di vita coloniale, che prevedeva sovvenzioni an-

che per i giardinieri e il personale domesti-co. I panamensi potevano entrare nella Zona del canale per lavorare, ma non usu-fruivano di nessuno dei privilegi riservati agli statunitensi.

L’area era amministrata da un’unica, enorme azienda inanziata dal dipartimen-to della difesa statunitense: la Panama Ca-nal Company (Pcc). L’azienda creò una sorta di falansterio dove tutti erano auto-suicienti e non esisteva la proprietà priva-ta, sostituita da un sistema di usufrutto. La Pcc si occupava anche delle scuole, degli ospedali, delle associazioni, dei cinema e degli uici postali, e proteggeva i suoi citta-dini con un atteggiamento paternalistico. Polizia, giudici e magistrati non risponde-vano alle leggi statunitensi, ma a quelle dell’amministrazione del canale. Tutti i prodotti di base avevano l’etichetta della Pcc, negli uici era appeso lo stesso calen-dario e su ogni tavolo c’era lo stesso ferma-carte. L’assegnazione delle case nella Zona del canale seguiva delle liste di attesa, e chi

non rispettava le norme alla lettera veniva espulso.

Dal 1979 il governo panamense comin-ciò a recuperare il controllo di quel territo-rio, ma ancora oggi molte delle cosiddette reverted areas (aree convertite) sono nello stesso stato di quando furono abbandona-te. Se non fosse per il deterioramento do-vuto al tempo e alla voracità della giungla, molti di questi posti sembrerebbero ancora occupati dagli zonians. Ci sono vecchi Bur-ger King con i listini e i tavoli pronti per i clienti, cinema degli anni cinquanta con le poltrone e lo schermo, piscine vuote co-perte da erbacce, palestre con specchi e attrezzi e scuole con quaderni e lavagne dove si può leggere l’argomento dell’ulti-ma lezione.

Queste aree hanno rappresentato un bottino urbanistico ghiotto per le multina-zionali del settore. L’esempio più evidente del loro sfruttamento economico è proba-bilmente Panamá Pacífico, un immenso complesso multiuso che sorge sul terreno

Stati Uniti, 2013. La riunione annuale degli zonians al Marriott hotel di Orlando

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Panamá

dell’ex base militare di Fort Howard, il ba-stione della forza aerea degli Stati Uniti per l’America Latina. Con un costo di 7,5 milio-ni di euro per un’area di 1.400 ettari, il pro-getto, cominciato nel 2007 e destinato a durare quarant’anni, è uno dei più ambizio-si del continente. Sono già state costruite diverse zone residenziali, un complesso di alberghi a cinque stelle, un aeroporto priva-to e le strutture di più di cento aziende in-ternazionali come 3M, Basf, Dell o Cater-pillar. All’estremità meridionale di Panamá Pacíico si trova il cimitero dei diablos rojos (diavoli rossi), i vecchi autobus urbani della capitale, colorati e chiassosi, riciclati dai caratteristici scuolabus gialli statunitensi.

Nel 2013 il governo li ha ritirati dalla circo-lazione e, nell’attesa di diventare ferraglia, i diablos rojos ofrono un panorama deso-lante ai bordi della modernità panamense, come vecchi leoni che non ruggiscono e aspettano la morte, o la sepoltura.

Il peso dei tropiciAlla riunione annuale di Orlando c’è anche un posto in cui la memoria occupa uno spa-zio isico: un’area per i venditori di souve-nir. La perdita della casa ha reso gli zonians feticisti: idealizzano ogni oggetto, ogni fo-glio di giornale che li riporta a quei giorni felici. Secondo Tom Wilder, presidente del-la Panama canal society, “uno zonian è uno statunitense bianco nato nella Zona del ca-nale prima del 1977” (l’anno della irma dei trattati Torrijos-Carter). La segregazione razziale fu applicata molto rigidamente an-che in quel paradiso tropicale, con una poli-tica di cittadini gold o silver, in riferimento alle monete d’oro o d’argento che usavano gli abitanti in base al loro status sociale. I Gold roll, gli statunitensi bianchi con una posizione importante nella Pcc, vivevano nelle aree con i maggiori privilegi. I Silver roll vivevano nelle silver towns costruite per ospitare i lavoratori delle Antille o di Pa-namá: non erano bianchi e neanche statu-nitensi.

Non tutti la pensano come Wilder sull’identità zonian. I ragazzi nati dopo il 1977 si considerano abitanti del canale di Panamá come tutti gli altri. Pablo Vangas partecipa tutti gli anni all’incontro per aiu-

tare la famiglia a vendere i souvenir. In re-altà lui è nato durante il tragitto che i geni-tori percorrevano dal Texas fino a Fort Amador, a Panamá, dove il padre lavorava come uiciale di collegamento per la Pcc. “Siamo tutti d’accordo su un punto: solo noi civili eravamo zonians, i militari no”, afer-

Panamá, 2011. Autobus diablos rojos dismessi

u Panamá è indipendente dal 1903, quando si separò dalla Colombia con l’aiuto degli Stati Uniti, che ottennero in aitto una fascia di territorio sui cui poi avrebbero realizzato il canale che unisce l’oceano Atlantico e l’oceano Paciico. I lavori di costruzione del canale sono terminati nel 1914. Il territorio, noto come Zona del canale, comprendeva quasi 1.400 chilometri quadrati ed era amministrato dagli Stati Uniti. Dal 1977, con i trattati Torrijos-Carter, e ino al 2000 la Zona del canale è passata gradualmente sotto la sovranità panamense. Nel 2006 i cittadini del paese hanno approvato con un referendum un piano per raddoppiare la capacità di navigazione del canale. Bbc

Da sapere Gli Stati Uniti a Panamá

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ma mentre dà da mangiare al pesce rosso.Anche se l’area ospitò più di trentamila

uomini suddivisi nelle quattordici basi lun-go il canale, pochi soldati misero radici lì. Il governo degli Stati Uniti considerava quell’angolo di mondo una zona strategica per la sua politica d’intervenzionismo in

Panamá, 2011. Edisa Yau Chen sul tetto della Centrum tower. I cinesi rappresentano il 5 per cento della popolazione totale

America Latina. La propaganda per la co-struzione del canale era “la terra divisa, il mondo unito”: un canale per tutti, una be-nedizione per il commercio mondiale. Ma in realtà le navi statunitensi erano le uniche ad attraversare senza costi le acque del ca-nale, mentre le altre navi dovevano pagare

somme enormi. Oggi per attraversare gli ottanta chilometri che separano i due ocea-ni una nave versa tra gli 80mila e i 300mila euro, a seconda della stazza e della destina-zione d’uso. Per garantire la sicurezza di quest’attività, arrivò l’esercito. Nel 1903 il Southern command (comando sud) degli

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Panamá

Stati Uniti arrivò a Panamá per proteggere e difendere gli interessi di Washington nell’area e in breve diventò il centro di deci-sioni strategiche più importante dopo il Pentagono. Nel secolo scorso da qui parti-rono gli interventi militari degli Stati Uniti in America Centrale e in Sudamerica: dalle operazioni contro il guerrigliero Pancho Villa in Messico nel 1914 alle guerre al nar-cotraico negli anni ottanta e novanta, ol-tre a tutte le iniziative contro le guerriglie in America Latina.

Ritorno a casa

Ma al Marriott hotel di Orlando nessuno sembra interessato a questa parte della sto-ria. Durante l’ultimo ballo, al ritmo sfrena-to di una banda carnevalesca, gli zonians si lasciano andare tracannando il rum pana-mense Abuelo, sponsor dell’evento. La loro missione era far funzionare il canale e l’hanno compiuta: il loro mondo, però, sta scomparendo sotto il peso dei tropici e l’aria densa della foresta ristagna tra gli scheletri

vuoti delle loro vecchie case. Il canale, inve-ce, continua a funzionare e i lavori di am-pliamento dovrebbero terminare nel 2015, dopo che lo scontro per un disaccordo eco-nomico tra l’impresa concessionaria, la spagnola Sacyr, e il governo di Panamá ha rischiato di far sospendere i lavori.

Thompson Moore passa il tempo nel cortile sul retro di casa a Los Ríos, un quar-tiere della Zona, coniccando un’ascia nel tronco di un albero. A ogni lancio retrocede di un passo e, a giudicare dal numero di col-pi andati a segno, ha trascorso molte ore a esercitarsi. Ani Dillard, la sua idanzata, lo guarda dalla inestra della cucina fumando una sigaretta. Il colpo secco dell’ascia con-tro il legno e il fumo che disegna volute nell’aria: è tutto quello che c’è in questa do-menica pomeriggio.

La coppia ha lasciato da pochi mesi la Georgia, dove lui ha studiato arte, per tra-sferirsi nella casa in cui Ani ha vissuto da bambina. Dopo un po’ arrivano dei vicini e alcuni amici. Tutti hanno meno di trent’an-

ni e alcuni, come Ani, sono cresciuti nella Zona del canale. Poi, con l’entrata in vigore dei trattati Torrijos-Carter, gli statunitensi sono tornati a casa loro. María Kisling, ven-tidue anni, una rara bellezza orientale, è i-glia di un soldato statunitense che ha pre-stato servizio nel canale per diversi anni. Dopo il divorzio dei genitori, Kisling si è trasferita qui.

Non sono pochi gli zonians più giovani che decidono di tornare nel posto dove hanno vissuto un’infanzia libera e selvag-gia. Nel tardo pomeriggio la casa di Moore e Dillard sembra un conclave dell’ultima generazione di zonians. Chris Huerbsch, di bell’aspetto e dal carattere riservato, arriva praticamente di notte. È cresciuto reman-do nelle gare interoceaniche di cayuco or-ganizzate dagli zonians, a cui i panamensi non potevano partecipare. Dopo aver stu-diato teologia alla Florida state university, a Tallahassee, è tornato a Diablo, dov’è na-to, per aprire un piccolo negozio che vende cayuco (una barca più piccola di una ca-

Panamá, 2011. Il vecchio bowling nell’ex base militare statunitense di Fort Gulick

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noa) e risalire di nuovo il canale evitando i coccodrilli e respirando l’odore dolciastro della foresta.

L’ultima sera al Marriott hotel va avanti ino all’alba. Gli zonians sono ovunque: al-cuni cantano vecchie canzoni anni cin-quanta, altri si tufano in piscina e qualcuno dorme vinto dal sonno e dall’alcol. Ma sono quasi estinti: hanno uicialmente smesso di esistere quando la sovranità della Zona del canale è tornata ai panamensi. Ne resta-no meno di tremila e la maggior parte ha più di ottant’anni. L’unico museo dedicato alla Zona del canale ha chiuso i battenti per mancanza di risorse e oggi i suoi fondi si trovano in un magazzino dell’università della Florida, a Gainesville. Una funziona-ria senza legami con gli zonians cataloga gli archivi e gli oggetti donati dai veterani, am-massati in scatole e raccoglitori su cui si depositano strati di polvere e memoria, chiusi in uno scantinato dove la stessa umi-dità che ha visto nascere gli zonians cancel-lerà quel poco che resta di loro. u fr

Panamá, 2011. Una casa abbandonata a Diablo, un distretto della Zona del canale

Panamá, 2011. Il Ponte delle Americhe

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Economia

“Non parlate con la stampa. Mante-nete sempre un atteggiamento positivo. Dite sempre di sì.

Non siete qui per cambiare il mondo”. E per le signore: “Per favore, non metteteci nella condizione di dovervi ricordare o dire qual è un abbigliamento appropriato”. So-no alcune istruzioni per gli stagisti dell’uf-icio di John Boehner, il presidente della camera dei rappresentanti degli Stati Uni-ti. Si trovano in un manuale di ottanta pagi-ne lasciato per sbaglio a una festa a Wa-shington e poi pubblicato online. Gli stagi-sti di “Boehnerland”, come sono chiamati gli uici del deputato, rispondono al tele-fono, smistano la posta e fanno da guida alle visite al Campidoglio. Il manuale rac-comanda di mostrare una fotograia di Bo-ehner con i suoi amici del liceo, “a riprova della sua umiltà”.

La scorsa estate 24 stagisti non retribuiti hanno lavorato negli uici di Boehner a Wa-shington. Gli altri 534 parlamentari della camera e del senato ne avevano molti di più: nessuno sa quanti, perché al congresso non si applica la legge sulla libertà d’infor-mazione. Secondo alcune stime sono circa seimila, ma in primavera e in autunno la ci-fra sale. L’anno scorso la Casa Bianca ha impiegato 429 stagisti non retribuiti. Ogni

estate a Washington lavorano tra i 20mila e i 40mila stagisti, sparsi nei dipartimenti del governo, negli uici dei lobbisti, nelle asso-ciazioni non proit e nelle aziende.

Gli stage sono onnipresenti. Quest’anno gli statunitensi che ne completeranno uno saranno circa un milione. Nell’estate del 2014 Google ha assunto tremila stagisti, ai quali è stato promesso di “fare cose iche e importanti”. Ogni estate altri 1.400 lavora-no alla Commissione europea. Le big four, le quattro maggiori aziende di revisione dei bilanci (Deloitte, Ernst & Young, Kpmg e PricewaterhouseCoopers) quest’anno prenderanno più di trentamila stagisti. La Bank of China organizza uno stage di otto settimane (“pieno di soddisfazioni, ma in-descrivibile”, secondo un partecipante cita-to sul sito dell’istituto). Infosys, il gigante indiano della tecnologia, porta ogni anno a Bangalore 150 stagisti da tutto il mondo.

La valutazione dei candidatiLa parola stage ha un signiicato diverso a seconda del luogo. In Giappone, per esem-pio, è spesso una valutazione dei potenziali assunti che si svolge nell’arco di tre o quat-tro giorni. La DeNa, un’azienda di software di Tokyo, organizza degli stage di questo tipo: durano quattro giorni e i partecipanti sono pagati centomila yen (720 euro). A volte, invece, il termine è usato in modo più estensivo. Alla Foxconn, l’azienda cinese

che assembla prodotti elettronici, gli stu-denti che sfacchinano insieme agli altri operai sono stati spesso definiti stagisti: l’azienda ne ha impiegati ino a 150mila. Eppure, in occidente e nel resto del mondo lo stage sta diventando il primo passo per una carriera. Cosa signiica questo per i da-tori di lavoro e per i dipendenti del futuro?

I primi a usare una forma di stage sono stati i medici. Secondo Intern nation , un li-bro sugli stage scritto dal giornalista Ross Perlin, il termine intern (stagista, tirocinan-te) è comparso per la prima volta in una re-lazione del 1865 al consiglio d’amministra-zione di un ospedale di Boston. Negli anni trenta le città di Los Angeles, Detroit e New York e lo stato della California organizzava-no internship (tirocini) nell’amministrazio-ne pubblica. Nel 1956 uno studio documen-tò 42 programmi di internship nell’ammini-strazione pubblica statunitense, dal dipar-timento di igiene mentale della California al dipartimento dei trasporti del Michigan. Nel 1960, prendendo in prestito un termine dai ristoratori francesi, la Commissione eu-ropea impiegò i suoi primi stagiaires.

Le imprese seguirono l’esempio. Nel 1976 più della metà delle redazioni delle tv americane impiegava stagisti; negli anni novanta ormai lo facevano quasi tutte. Og-gi, secondo l’organizzazione non profit National association of colleges and em-ployers (Nace), il 63 per cento degli studen-ti statunitensi partecipa ad almeno uno stage prima di laurearsi. Uno dei motivi è l’allargamento della base dei laureati. Nel 1970 negli Stati Uniti solo il 10 per cento delle persone sopra i 25 anni aveva una lau-rea; oggi la percentuale è salita al 30 per cento. Chi cerca lavoro, quindi, deve avere un vantaggio sulla concorrenza. “Se non hai fatto uno stage nessuno ti ofre un im-piego”, dice Richard, un operatore di borsa che ha trovato lavoro in una banca di Lon-dra dopo uno stage di dieci settimane. Con la globalizzazione la concorrenza per i po-sti più appetibili è aumentata ulteriormen-te: oltre la metà dei suoi compagni di stage erano stranieri.

Mentre i capi trentenni di Richard sono arrivati direttamente dall’università, oggi quasi tutti i dipendenti della banca hanno partecipato al programma di stage interno. Secondo High Fliers, una società di ricerche di mercato, oggi più di un terzo dei posti de-stinati ai laureati nel Regno Unito è occupa-to da candidati che sono stati stagisti. “Fan-no domanda sempre prima”, dice Gaenor Bagley, capo delle risorse umane della Price waterhouseCoopers, che quest’anno promuoverà diecimila stage nelle universi-

Un mondodi stagistiThe Economist, Regno UnitoFoto di Alessandro Albert e Paolo Verzone

Gli stage sono molto difusi nelle aziende e nella pubblica amministrazione e sono il primo passo per cominciare una carriera. Ma spesso non hanno tutele e favoriscono chi è ricco e ha buoni contatti

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tà durante la settimana di orientamento.Questo ha molti aspetti positivi. Chi la-

vora ha la possibilità di sperimentare diver-se professioni prima di sceglierne una. E per le imprese è un modo per scremare i candidati, un processo reso sempre più dif-icile dalla crescente complessità del lavoro. Con l’aumento dell’automazione e dell’esternalizzazione, gli incarichi dei neolaurea ti prevedono meno compiti di routine e più responsabilità articolate, dice John Van Reenen, della London school of economics. Questo rende sempre più dii-cile valutare i candidati dal curriculum.

Gli stage sono diventati un “canale cru-ciale” per le assunzioni, dicono ad Ama-zon, dove tra i vicepresidenti ci sono diver-si ex stagisti. Secondo un’analisi di Linke-dIn, un social network per i contatti profes-sionali, il numero dei posti oferti agli oltre 300 milioni dei suoi iscritti varia in base ai settori, ma di regola un quarto degli stagi-sti è assunto a tempo pieno dall’azienda in

cui ha fatto lo stage. Più della metà degli assunti nelle divisioni di servizi d’investi-mento della Goldman Sachs e della Mor-gan Stanley viene dai programmi di stage delle due banche.

L’aumento di questi programmi è stato incoraggiato dalle università che, per giu-stiicare rette sempre più alte, cercano di trovare ai loro alunni uno sbocco nel mondo del lavoro. L’università di Oxford ha istitui-to un “uicio per i tirocini” che cerca occu-pazioni estive e post-laurea agli studenti. L’università di Stanford ha un piccolo cam-pus a Washington per gli studenti che par-tecipano agli stage organizzati dall’ateneo presso le istituzioni della capitale. Inoltre, il 90 per cento dei college e delle università statunitensi fornisce crediti accademici per esperienze di lavoro temporaneo, a volte anche durante gli studi. Sono sempre di più gli atenei che chiedono uno stage come pre-condizione per la laurea, almeno in alcuni corsi. “Per le università è davvero conve-

niente”, dice Gina Nef, docente in comuni-cazione della University of Washington a Seattle. “Incassano le rette e non devono spendere neanche un dollaro in corsi di for-mazione”. Alcuni stage sono validi, aferma Nef, citandone uno sotto la sua supervisio-ne in cui gli studenti fanno esperienza nei giornali locali con il supporto degli inse-gnanti. Altri lo sono molto meno: Nef ha messo il veto su uno stage in pubbliche rela-zioni a Hollywood che in realtà consisteva nel fare pubblicità ai film all’interno del campus, peraltro senza retribuzione. Alcu-ne università, invece, intascano semplice-mente la retta e si voltano dall’altra parte.

Ricorrono agli stagisti non retribuiti so-prattutto le aziende che hanno molto lavoro non qualiicato da sbrigare e sono abbastan-za prestigiose da convincere i candidati a lavorare gratis. “Tutto il settore della moda crollerebbe senza gli stagisti”, racconta un ex collaboratore non retribuito di un foto-grafo che pretendeva le bevande servite a

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Economia

una temperatura non superiore ai 4 gradi. Dice che veder realizzare scatti da milioni di dollari e crearsi dei contatti mentre si sti-ra, si puliscono i bagni e si spostano le at-trezzature è un’esperienza utile. Ma aggiun-ge di aver assistito a tremendi abusi subiti dai laureati non retribuiti che, secondo i suoi calcoli, costituiscono un terzo dei suoi ex colleghi nel mondo della moda. “Se par-li, la tua carriera è inita”.

Gli stage non retribuiti stanno diventan-do la norma. Secondo la Nace, negli Stati Uniti sono quasi la metà del totale. “Ai no-stri tempi davamo per scontato che ci avreb-bero pagati”, dice Lee Becker, professore di giornalismo alla University of Georgia. Nel 1997 appena il 57 per cento degli studenti statunitensi di giornalismo dichiarava di riuscire a trovare uno stage retribuito. Nel 2010 la percentuale è scesa al 34 per cento e da lì non si è più spostata. “Oggi nessuno paga se non è obbligato”, dice Becker. Nel Regno Unito il National council for the trai-ning of journalists ha rivelato che chi si af-faccia alla professione ha svolto in media sette settimane di stage o di tirocinio, nel 92 per cento dei casi gratis.

Non a caso, forse, il numero di stage non retribuiti è cresciuto proprio quando assu-mere è diventato più rischioso, più costoso e più complesso. Negli ultimi anni in molti paesi ricchi le norme contro le discrimina-zioni e i licenziamenti senza giusta causa sono state inasprite e i salari minimi sono aumentati. Il costo sempre più alto di pre-stazioni come le pensioni, l’assistenza sani-taria e il congedo di maternità ha reso il la-voro dipendente più dispendioso per le aziende. E così gli stagisti sono diventati un’alternativa allettante.

Il National internship scheme del gover-no irlandese, un’iniziativa che aiuta i disoc-cupati a fare esperienze lavorative per un compenso di 50 euro a settimana (da ag-giungere al sussidio di disoccupazione), è stato criticato per aver catalogato come sta-ge l’allestimento degli scafali nei super-mercati. In alcuni settori il numero degli stagisti è molto alto rispetto al numero di posti di lavoro disponibili. Annette Harms, dell’università di Losanna, ha esaminato un campione di neolaureati tedeschi e ha sco-perto che il 9,5 per cento ha fatto uno stage nel settore dell’informazione, ma solo il 2,1 per cento ha trovato lavoro a tempo pieno in questo campo. Il rapporto tra stage e posti di lavoro è altrettanto sproporzionato nell’editoria, nelle arti e nella politica.

I datori di lavoro, oltretutto, non devono preoccuparsi troppo di come assegnano gli stage. Mentre ai posti pubblici si accede per

concorso, a Washington gli stage sono spes-so usati come forma di “ringraziamento” per i inanziatori. La scorsa estate il pro-gramma di stage della Casa Bianca ha tro-vato posto ai igli di un ex segretario del te-soro, di un ex capo dello staf di un vicepre-sidente e di vari sostenitori democratici, ha scritto il Washington Post. Secondo il New York Times, dei 1.500 collaboratori non re-tribuiti impiegati tra il 2002 e il 2013 dall’uf-icio di Michael Bloomberg, allora sindaco di New York, uno su cinque era stato raccomandato da qualcuno all’interno dell’amministrazione. Quest’anno tra gli stagisti ci sono Chiara e Dante de Blasio, i igli del sindaco attuale.

Gli stage si possono addirittura compra-re. A Washington ci sono diverse agenzie che li promettono agli studenti in cambio di un compenso. La più grande è il Washing-ton centre, che dal 1975 ha piazzato quasi 50mila stagisti. Per un incarico di dieci set-timane in estate si fa pagare 6.200 dollari (più 4.350 per l’alloggio). L’agenzia è riusci-ta a sistemare i suoi clienti al tesoro, al di-partimento di stato e alla Casa Bianca.

Apprendisti frenatoriNegli Stati Uniti gli stage non retribuiti nelle aziende a scopo di lucro sono diventati le-gali dopo una sentenza della corte suprema del 1947 sugli apprendisti frenatori delle ferrovie. La corte si pronunciò a favore della Portland Terminal Company, che non ave-va pagato gli apprendisti durante un corso preliminare di sette o otto giorni. Gli ap-prendisti, stabilì la corte, non erano lavora-tori a pieno titolo, e gli stagisti, dicono le

imprese, sono sostanzialmente degli ap-prendisti. Un documento del dipartimento del lavoro stabilisce che uno stage può esse-re gratuito quando è “simile alla prepara-zione data in un contesto scolastico-forma-tivo”, non quando sostituisce un dipenden-te. L’azienda, inoltre, non deve ricavarne un vantaggio immediato.

Ma i tribunali statunitensi stanno co-minciando ad accorgersi che molti stage non rispettano questi parametri. L’anno

scorso un giudice ha stabilito che la Fox Searchlight Pictures ha violato la legge per non aver pa-gato due stagisti impegnati sul set del ilm Il cigno nero, vincitore di un Oscar. I due rispondevano al

telefono, prenotavano i viaggi e portavano fuori la spazzatura. “Hanno lavorato come dipendenti, assicurando un beneicio al da-tore di lavoro. Non hanno acquisito nessuna competenza assimilabile a quelle trasmes-se in un contesto accademico o in una scuo-la professionale”, ha scritto il giudice.

Negli Stati Uniti sono state presentate più di trenta denunce simili contro aziende come Sony, Nbc e la squadra di football dei Pittsburgh Power. Un anno fa la Elite Model Management ha accettato di pagare 450mi-la dollari a più di cento ex stagisti che soste-nevano di aver svolto il lavoro di dipendenti comuni. La casa di produzione di Charlie Rose, un conduttore di talk show, ha rico-nosciuto un compenso di circa 60mila dol-lari agli stagisti che avevano lavorato nel suo programma.

Le leggi cominciano a cambiare per get-tare un po’ di luce sulla zona grigia in cui gli stagisti sono costretti a lavorare. Nel 1995 Bridget O’Connor, collaboratrice non retri-buita presso una clinica psichiatrica di New York, ha fatto causa alla clinica e a uno dei suoi medici per molestie sessuali. La sua denuncia è stata respinta e l’appello le è sta-to negato perché non era una dipendente e quindi non era tutelata dal diritto del lavoro. Dopo una serie di casi analoghi, gli stati di New York e dell’Oregon, oltre a Washing-ton Dc, hanno approvato delle leggi che proteggono gli stagisti non retribuiti in caso di molestie sessuali.

Anche alcuni paesi europei stanno cam-biando le leggi per disciplinare gli stage. In Italia la riforma del mercato del lavoro ap-provata nel 2012 stabilisce un obbligo di re-tribuzione per gli stagisti di almeno 300 euro al mese, ino a 600 in alcune regioni. La Spagna ha introdotto dei “contratti di formazione e apprendistato” ino a tre anni, che permettono ai giovani di guadagnare un piccolo salario mentre si fanno le ossa.

Da sapere Verso l’assunzioneStage che hanno portato all’assunzione*, % del totale, 2013Fonte: The Economist

Contabilità

Energia

Banche d’investimento

Comunicazione

Studi legali

Moda e abbigliamento

Alberghi

Amministrazionepubblica

Editoria

Musei

Afari internazionali

Ong

* Stima basata sugli utenti di LinkedIn che parlano

lingue europee

Stage ogni mille assunzioni

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Anche le imprese stanno rivedendo i lo-ro programmi non retribuiti. Nell’agosto del 2014 la Bell Mobility, un’azienda canadese di telefonia mobile, ha chiuso il suo pro-gramma di stage gratuiti dopo che un ex stagista ha fatto causa all’azienda, senza successo, per gli arretrati. Alcune aziende del settore dell’informazione, tra cui il New York Times e l’Atlantic, hanno cominciato a pagare gli stagisti. Altre, più che modiicare le condizioni di lavoro stanno attente so-prattutto alle parole usate negli annunci. Il Partito conservatore britannico ha distribu-ito ai parlamentari una nota su come “ri-durre il rischio di domande potenzialmente ostili” sugli stage non retribuiti. Gli annunci di lavoro devono evitare espressioni come “le sarà richiesto di…” e usare invece “il tipo di attività sulle quali ci piacerebbe avere un aiuto è…”, si legge nel documento.

I cambiamenti sono lenti. Nel frattempo gli stage, invece di facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro per i giovani di ogni provenienza, rischiano di essere un ostaco-lo per chi non ha le conoscenze giuste o le risorse economiche per rinunciare alla re-tribuzione. Secondo una relazione del go-verno britannico del 2009, molti program-mi d’inserimento fanno pensare che “i da-tori di lavoro si lascino sfuggire le persone di talento, e che le persone di talento perdo-no l’opportunità di progredire”, con conse-guenze negative per la mobilità sociale. Se

gli stage non sono retribuiti “è probabile che le opportunità siano limitate ai giovani provenienti dalle famiglie più ricche”, dice Bernie Sanders, senatore democratico del Vermont e tra i pochi parlamentari statuni-tensi che pagano gli stagisti. I 10,1 dollari all’ora che prendono “non sono molti, ma abbastanza da estendere il programma e dare a più persone l’opportunità di fare que-sta esperienza”, dice Sanders.

Gli effetti della mancata retribuzione degli stagisti sono diicili da misurare, ma alcuni dati indicano che l’accesso al lavoro si è ristretto. Lindsey Macmillan, dell’Insti-tute of education della London university, ha analizzato i dati di una decina di profes-sioni e ha confrontato i nati nel 1958 con i nati nel 1970: i primi provenivano da fami-glie con redditi del 17 per cento superiori alla media; tra i secondi la quota saliva al 27 per cento. L’accesso ad alcune professioni è cambiato: i giornalisti un tempo proveniva-no da famiglie del 6 per cento più ricche della media, mentre ora vengono da fami-glie del 42 per cento più agiate. In parte que-sto fenomeno rispecchia il successo di alcu-ne professioni, che attirano candidati più ricchi e brillanti. Macmillan e il suo gruppo di lavoro, però, hanno confrontato i quo-zienti intellettivi dei due gruppi e hanno ri-scontrato che i più giovani erano, in media, leggermente meno intelligenti della gene-razione precedente, più povera.

Sarebbe una forzatura attribuire tutto questo agli stage. Ma efettivamente sem-bra esistere una barriera alla mobilità socia-le per chi esce dall’università. Esaminando un gruppo di studenti nati nel 1986, Mac-millan ha scoperto che chi ha ricevuto un’istruzione privata ha maggiori probabi-lità di accedere a una professione prestigio-sa. È probabile che questi studenti contino sulle inanze familiari per ritardare la ricer-ca di lavoro: sei mesi dopo la laurea, chi ha ricevuto un’istruzione privata ha meno pro-babilità di avere un impiego permanente.

Quest’ipotesi sembra coincidere con quello che succede a Washington, dove i ricchi neolaureati passano le giornate a cer-care lavoro di nascosto mentre fanno uno stage gratuito a Boehnerland. I datori di la-voro replicano che impegnandosi a fondo i più meritevoli trovano sempre il modo di farcela. La ricerca della felicità, un ilm con Will Smith, racconta la storia vera di un sen-zatetto che partecipa a uno stage non retri-buito come broker inanziario e alla ine è assunto. Ai parlamentari statunitensi piace raccontare le loro storie di lotta contro la povertà e le avversità: il repubblicano Paul Ryan, per esempio, ha lavorato in una pale-stra e ha servito margarita in un ristorante messicano quando faceva lo stagista. È una storia incoraggiante. Soprattutto, viene da pensare, per gli stagisti di Ryan che non prendono un centesimo. u fas

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Troppo piccoli per ricordareKristin Ohlson, Aeon, Regno Unito. Foto di Joakim Eskildsen

La maggior parte degli adulti non ha memoria dei primi quattro anni di vita.Il cervello dei bambini, infatti, non è ancora in grado di issare i ricordi.Ma conserva comunque una traccia di quel periodo

Berlino, 2013

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Sono l’ultima di cinque fratelli molto più grandi di me. Quan-do mi concepì, nel 1951, mia madre aveva 35 anni ed era così mortiicata da questa gra-vidanza tardiva che cercò di

nasconderla perino a sua sorella. Mio fra-tello più grande era già alle superiori e si vergognava di dire ai suoi compagni che in famiglia c’era un’altra bambina in arrivo. Ma vivevamo in una piccola città, e la voce si sparse rapidamente.

Anch’io ho risentito dell’età di mia ma-dre e del fatto di essere venuta al mondo così tardi, soprattutto quando ho comincia-to ad andare a scuola e ho conosciuto le mamme dei miei compagni. Continuavano ad avere figli. Li ammucchiavano nelle macchine e andavano a fare picnic sul iu-me o gite sull’altopiano coperto di lava e di iori selvatici appena fuori città. Dovevano ancora tenere a bada bambini che si tirava-no per i capelli e si rubavano i giocattoli tra di loro. Invece quando io sono arrivata in

prima elementare i miei fratelli se n’erano già andati di casa, tre all’università e un al-tro in un collegio a quattro ore di macchina. E la nostra casa, un tempo rumorosissima, era diventata molto tranquilla.

I miei genitori mi hanno raccontato mol-te storie su quegli anni prima che tutto cam-biasse. Che mio fratello maggiore mi chia-mava “Ubangi” perché la mia testa era co-perta di riccioli itti come quelli di un nero. Che un altro fratello si divertiva a tendermi agguati appostandosi dietro gli angoli con un coccodrillo di gomma in mano perché ogni volta urlavo dal terrore. Che mia sorel-la maggiore mi portava in giro come un can-guro nel suo marsupio. Ma posso racconta-re molto poco di quegli anni.Il ricordo più nitido è il costante desiderio di stare con i miei fratelli e le mie sorelle. Mi mettevano a letto quando fuori c’era ancora la luce e io scalciavo sotto le lenzuola sentendo le loro voci che arrivavano dal corridoio o salivano dal giardino attraverso la inestra. A volte sentivo il profumo dei popcorn. La mattina

dopo cercavo gli avanzi sul tappeto del sa-lotto e mi inilavo in bocca i chicchi che non erano scoppiati. Questo me lo ricordo, pro-babilmente perché succedeva quasi tutti i giorni. Mio padre adorava i popcorn.

Diversi anni fa, quando ci siamo ritrova-ti tutti nella stessa casa, ho creduto di poter recuperare quel passato perduto. I miei fra-telli erano andati a Bucks Lake, tra le mon-tagne della California nordorientale. Fino a quando avevo tre anni, ogni estate i miei genitori aittavano una casa lì per sfuggire al caldo di Sacramento. I miei fratelli aveva-no trovato il nostro vecchio chalet esatta-mente com’era. Perino il tavolo costruito da un falegname locale era ancora lì nel soggiorno. Avevano bussato alla porta e, per uno strano caso, il mio fratello minore conosceva l’aittuario, che li aveva fatti en-trare e poi aveva invitato tutta la famiglia a tornare.

Qualche mese dopo ci siamo messi tutti in macchina con mio padre per percorrere strade che si trasformavano in sentieri pol-

Orup, Danimarca, 2009

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verosi, attraversavano buie pinete e passa-vano accanto a cime rocciose. Quando sia-mo arrivati allo chalet, i miei fratelli si sono sparpagliati per i boschi alla ricerca dei loro posti preferiti, ma io sono rimasta vicino alla macchina, colpita dal fatto che quel luogo era diverso da come lo ricordavo.

Ero convinta che per arrivare al lago bi-sognasse attraversare una lunga distesa di sabbia. Avevo un’immagine di mia madre su quella spiaggia, con il vento che le agita-va il vestito e la mano davanti alla bocca. Ma la battigia sassosa era a pochi passi dalla casa. Ricordavo una diga che sbucava dall’acqua non lontano dalla casa e un peri-coloso dirupo ai bordi del lago, a cui una volta i miei fratelli si erano avvicinati trop-po. Ma anche se il lago è artiiciale, la diga non si vede dallo chalet. Sono entrata in ca-sa con mio padre, che è rimasto afascinato dalla minuscola cucina. Continuava ad

aprire gli sportelli della credenza e rideva vedendoli sbattere l’uno contro l’altro. “La mamma odiava questa cucina”, ha detto. “Preparava sempre grandi colazioni a base di uova, salsicce e pancake, e appena aveva inito di rimettere tutto a posto, voi ragazzi tornavate in casa correndo e chiedevate co-sa c’era per pranzo”. Questo non me lo ri-cordavo. Non ricordavo il tavolo. Non ricor-davo nulla di quel posto. I miei fratelli mi hanno trascinata in giro per la casa, mo-strandomi dove dormiva ognuno di noi, mi hanno detto che il mio letto era in una pic-cola rientranza all’ingresso, mentre nei miei ricordi ero nella stanza dei miei geni-tori e li guardavo dormire alla luce dell’alba. Mi hanno indicato altre cose legate alla no-stra vita di allora, ansiosi di aiutarmi a ricor-dare, ma era inutile. Mi sono perino messa in ginocchio e ho gattonato in giro per il sa-lotto guardando i davanzali polverosi, an-nusando i nodi del legno delle pareti di pino e facendo scorrere le dita sulle assi del pavi-mento. Niente.

Memoria selettiva

Adesso so che sarebbe stato strano se avessi ricordato qualcosa di quel periodo. Quasi nessun adulto può farlo. Esiste perino un termine per questo fenomeno: amnesia in-fantile. È stato coniato da Sigmund Freud nel 1910 per deinire l’assenza di memoria

che gli adulti hanno dei loro primi tre o quattro anni di vita e la scarsità di ricordi precisi prima dei sette anni. In più di un se-colo di ricerche, è stata avanzata e smentita più volte l’ipotesi che questi primi ricordi siano nascosti in qualche parte del nostro cervello e che basti uno spunto qualsiasi per farli tornare alla mente. Era quello che spe-ravo quando sono tornata al vecchio chalet con i miei fratelli. Volevo recuperare dalla mia memoria recalcitrante le immagini, i suoni, gli odori e le sensazioni di quel posto. Ma molti studi dimostrano che i ricordi che si formano in quei primi anni svaniscono.

Freud sosteneva che rimuoviamo i no-stri primi ricordi a causa del trauma della scoperta del sesso, ma ino agli anni ottanta quasi tutti gli studiosi hanno dato per scon-tato che non conserviamo i ricordi della prima infanzia semplicemente perché quel-lo che è successo non ha lasciato alcuna

traccia duratura nel nostro cervello. Poi, nel 1987, la psicologa Robyn Fivush e i suoi col-leghi dell’Emory university hanno condotto uno studio che ha smentito questa teoria, dimostrando che i bambini di due anni e mezzo possono raccontare episodi avvenu-ti sei mesi prima.

Ma che ine fanno quei ricordi? La mag-gior parte di noi pensa che da adulti non li possiamo rievocare semplicemente perché sono troppo lontani, ma non è così. Li per-diamo quando siamo ancora bambini. Ca-role Peterson, psicologa della Memorial university di Terranova, ha condotto una serie di studi per cercare di determinare l’età in cui questi ricordi svaniscono. Per prima cosa, Peterson e i suoi colleghi hanno chiesto a un gruppo di bambini tra i quattro e i tredici anni di raccontare i loro tre ricordi più lontani. I genitori erano presenti per ve-riicare che fossero veri, e perino i più pic-coli ricordavano cose successe quando ave-vano circa due anni.

Dopo due anni hanno richiamato gli stessi bambini per vedere se era cambiato qualcosa. Più di un terzo di quelli che aveva-no almeno dieci anni ricordava ancora quello che aveva raccontato durante il pri-mo studio. Ma i più piccoli, soprattutto i bambini che all’epoca avevano quattro an-ni, avevano dimenticato tutto. “Anche quando cercavamo di aiutarli a ricordare,

dicevano: ‘No, questo non mi è mai succes-so’”, mi ha raccontato Peterson. “Avevamo la prova dell’amnesia infantile”.

Sia nei bambini sia negli adulti, la me-moria è stranamente selettiva. In uno dei suoi saggi, Peterson racconta la storia di un ricordo d’infanzia che suo iglio aveva per-duto. Quando aveva venti mesi lo aveva portato in Grecia e il bambino si era entu-siasmato alla vista di alcuni asini. In fami-glia se n’era parlato per almeno un anno. Ma all’epoca in cui aveva cominciato ad an-dare a scuola, il bambino se n’era completa-mente dimenticato. Durante l’adolescenza gli avevano chiesto quale fosse il suo ricor-do più lontano. Invece degli asini, aveva ci-tato un fatto successo poco dopo il viaggio in Grecia, quando una donna gli aveva dato tanti biscotti mentre suo marito faceva visi-tare ai genitori la casa che volevano com-prare. Peterson non capiva perché il iglio ricordasse proprio quell’episodio. Era un fatto senza nessuna importanza di cui non si era più parlato in famiglia.

Per cercare di capire perché certi ricordi durano più di altri, Peterson e i suoi colleghi hanno condotto un altro studio e sono arri-vati alla conclusione che la probabilità di ricordare è tre volte superiore se l’episodio in questione ha suscitato una grande emo-zione nel bambino. I ricordi strutturati – quelli nei quali i soggetti avevano chiaro chi, che cosa, quando e perché – avevano cinque volte più probabilità di issarsi ri-spetto a quelli frammentari. Eppure, strani episodi di poca importanza come quello dei biscotti rimangono ancorati nella mente, e sono un motivo di frustrazione per chi cerca di capire meglio il proprio passato.

I ricordi a lungo termine si formano gra-zie all’intervento di una serie di processi biologici e psicologici, e la maggior parte dei bambini non ha gli strumenti per azio-narli. Il materiale grezzo della memoria – le immagini, i suoni, gli odori, i sapori e le sen-sazioni tattili delle nostre esperienze di vita – sono registrati dalla corteccia cerebrale, la sede delle nostre facoltà cognitive. Perché diventino ricordi, devono essere rielaborati dall’ippocampo, la parte del cervello che si trova sotto la corteccia cerebrale. L’ippo-campo non si limita a mettere insieme tutti i segnali che arrivano dai nostri sensi per formare un unico ricordo, ma collega anche tutte quelle sensazioni ad altre simili che sono già immagazzinate del cervello. Ma ino all’adolescenza alcune parti dell’ippo-campo non sono completamente sviluppa-te, quindi il cervello di un bambino non rie-sce a completare questo processo.

“A livello biologico devono succedere

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I miei fratelli mi hanno trascinata in giro per la casa, mostrandomi dove dormiva ognuno di noi. Ma io non riuscivo a ricordare niente

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molte cose prima che un ricordo sia imma-gazzinato”, aferma Patricia Bauer, psicolo-ga dell’Emory university. “Bisogna stabiliz-zarlo e a consolidarlo prima che svanisca. È come quando si fa la gelatina: si mescolano gli ingredienti, si versa il tutto in uno stam-po e si mette lo stampo in frigorifero. Ma se nello stampo c’è un minuscolo foro, si può solo sperare che la gelatina – il ricordo – si solidiichi prima di colare attraverso il bu-co”. Inoltre, i bambini piccoli non hanno un’idea precisa dello scorrere del tempo. Passeranno anni prima che imparino a leg-gere orologi e calendari, e quindi hanno diicoltà a collegare un evento a un mo-mento e a un luogo speciico. Non hanno neanche il lessico necessario per descriver-lo, e senza proprietà linguistica non posso-no creare i nessi causali che, come ha ri-scontrato Peterson, sono alla base di un ri-cordo nitido. Non hanno neanche un senso del sé molto elaborato, che li aiuterebbe a mettere insieme e a cucire brandelli di esperienza in un racconto di vita.

Quindi i ricordi dei bambini sono desti-nati a dissolversi. Nei primi anni producia-mo una grande quantità di nuovi neuroni in una zona dell’ippocampo chiamata giro dentato, e continuiamo a farlo per il resto della nostra vita, anche se non allo stesso ritmo. Da un recente studio condotto da Paul Frankland e Sheena Josselyn, neuro-scienziati dell’Hospital for sick children di Toronto, è emerso che questo processo, chiamato neurogenesi, può efettivamente provocare la distruzione dei ricordi inter-rompendone i circuiti.

I nostri ricordi possono essere distorti da quelli che altre persone hanno dello stes-so evento o da nuove informazioni, soprat-tutto quando sono simili a quelle che abbia-mo già immagazzinato. Per esempio, se conosciamo qualcuno e ne ricordiamo il nome, ma poi incontriamo una seconda persona con un nome simile, ci confondia-mo. Possiamo perdere i nostri ricordi anche quando le sinapsi che collegano i neuroni si deteriorano per via del disuso. “Se non usa-

te mai un ricordo, quelle sinapsi saranno usate per un altro scopo”, spiega Bauer.

Quando il bambino cresce, i ricordi cor-rono meno il rischio di essere distorti o di andare distrutti. La maggior parte di quelli che ci portiamo dietro per tutta la vita si è formata tra i 15 e i 30 anni, durante il cosid-detto “picco di reminiscenza”, quando in-vestiamo molte energie nell’analizzare il nostro passato per cercare di capire chi sia-mo. Gli eventi, le persone e la cultura di quel periodo rimangono in noi e, secondo Bauer, possono anche ofuscare il presente. Pen-siamo che i ilm, la musica, la moda, le ami-cizie e le storie d’amore di quel periodo fos-sero migliori di quelli di oggi. E così via.

Naturalmente, alcune persone ricorda-no la loro infanzia più di altre. Sembra che questo dipenda in parte dalla cultura fami-liare. Uno studio condotto nel 2009 da Pe-terson in collaborazione con Qi Wang, della Cornell university, e Yubo Hou, dell’univer-sità di Pechino, ha rivelato che i bambini cinesi hanno meno ricordi d’infanzia di

Berlino, 2013

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quelli canadesi. Secondo i tre studiosi, que-sta scoperta potrebbe avere una spiegazio-ne culturale: i cinesi attribuiscono all’indi-viduo meno importanza dei nordamerica-ni, quindi probabilmente perdono meno tempo ad attirare l’attenzione del bambino su alcuni momenti della sua vita. I canade-si, invece, rinforzano i ricordi personali e mantengono attive le sinapsi che ne sono alla base. Da uno studio condotto nel 2012 dalla psicologa Federica Artioli e dai suoi colleghi dell’università neozelandese di Otago, è emerso che i giovani che proven-gono da famiglie italiane numerose hanno ricordi più lontani e dettagliati di quelli nati in famiglie mononucleari, probabilmente perché in casa se ne parlava più spesso. Ma non ci vuole necessariamente una famiglia numerosa per rinforzare la memoria di un bambino. Dalla ricerca di Bauer è emersa anche l’importanza delle “conversazioni

guidate”, in cui gli adulti discutono gli even-ti con i bambini e li invitano a contribuire al racconto. “Questo tipo di interazione con-tribuisce ad arricchire la memoria a lungo termine”, dice Bauer. “Il bambino impara a ricordare le cose e a condividerle. Nel corso di queste conversazioni impara a racconta-re una storia”.

Misteriose pagine bianchePer tornare al parallelo con la gelatina, ho sempre sospettato che nello stampo di mia madre ci fosse un buchino più piccolo del mio, che le consentiva di trattenere le infor-mazioni ino a quando non si consolidavano nella sua memoria. Oltre che la mia infan-zia e quella dei miei fratelli, sembrava ricor-dare anche i suoi primi sei anni di vita. Ri-cordava il giorno in cui il dottore le aveva tolto l’appendicite sul tavolo da cucina. Il giorno in cui si era fatta la pipì addosso a scuola e le suore l’avevano fatta tornare a casa a piedi con un freddo tale che le si era-no congelate le mutandine. Mi sono sempre chiesta se i suoi ricordi fossero così precisi perché aveva vissuto esperienze terribili, soprattutto in confronto a quelle della mia infanzia. Oggi invece ho il sospetto che la capacità di mia madre di raccontare la sto-ria dei suoi primi anni fosse dovuta alla co-stellazione di persone che l’avevano circon-data. La sua giovane madre, che era fuggita

da un matrimonio infelice per rifugiarsi con le sue due bambine nell’afollata casa del fratello. E la sorella, che aveva tre anni più di lei e con la quale si era sempre scambiata opinioni su tutto.

Forse nel mio stampo c’è un grosso bu-co, ma mi chiedo anche se al momento del mio arrivo la macchina dei racconti che rin-forzano i ricordi non si fosse guastata. I miei fratelli e le mie sorelle mi adoravano – me lo dicono e ci credo – ma ormai erano troppo occupati ad andare a cavallo, giocare a foot-ball, vincere gare e mettersi nei guai per parlare con una bambina. E a un certo pun-to, tra la mia nascita e il momento in cui i miei fratelli se ne sono andati, mia madre ha avuto un esaurimento nervoso che l’ha condotta in uno stato di depressione e ago-rafobia durato vent’anni. Andava a fare la spesa solo se mio padre l’accompagnava. Quando eravamo a casa, passava molto

tempo nella sua stanza. Nessuno ha mai sa-puto con esattezza quando fosse comincia-ta la sua fuga dal mondo, ma dev’essere successo quando ero molto piccola. Quello che ricordo è solo il silenzio.

I nostri primi tre o quattro anni di vita sono misteriosi, esasperanti pagine bian-che. Come diceva Freud, l’amnesia infanti-le “ci nasconde la nostra prima infanzia e ce la rende estranea”. In quel periodo avviene la transizione da quello che mio cognato deinisce “un fagotto con il cervello” a un essere umano senziente. Se non riusciamo a ricordare molto di quegli anni, le cose suc-cesse sono veramente importanti? Se nella foresta del nostro primo sviluppo è caduto un albero e non avevamo gli strumenti co-gnitivi per immagazzinare quel ricordo nel-la memoria, ha comunque contribuito a fa-re di noi quello che siamo?

Bauer crede di sì. Anche se non li ricor-diamo, nel bene o nel male quei primi eventi inluiscono sul modo in cui perce-piamo noi stessi, gli altri e il mondo in ge-nerale. Per esempio, abbiamo un’idea pre-cisa di cosa sono gli uccelli, i cani, i laghi e la montagne anche se non conserviamo il ricordo delle esperienze che ci hanno per-messo di costruire quell’idea. “Non ci ri-cordiamo di essere andati a pattinare sul ghiaccio con lo zio Henry, ma sappiamo che pattinare e andare a trovare i parenti è

divertente”, mi ha spiegato Bauer.Non siamo la somma dei nostri ricordi,

almeno non del tutto. Siamo anche la storia che ci siamo costruiti, il nostro racconto personale che interpreta e assegna un signi-icato alle cose che ricordiamo e a quelle che gli altri ci dicono di noi. I risultati di una ricerca condotta da Dan McAdams, psico-logo della Northwestern university e autore del libro The redemptive self, fanno pensare che questi racconti inluiscano sul nostro comportamento e contribuiscano a traccia-re la mappa del nostro futuro. Particolar-mente fortunati sono quelli che hanno una storia di redenzione che gli permette di ve-dere come colpi di fortuna anche le avversi-tà del passato.

Quindi la nostra storia non è solo una serie di fatti incisi su una tavola di pietra. È il racconto mutevole che è alla base di buo-na parte delle terapie basate sulla parola. E un aspetto consolante della vecchiaia è che le nostre storie migliorano. “Per qualche motivo, quando invecchiamo tendiamo ad accentuare gli aspetti positivi”, dice McA-dams. “ Siamo più disposti a vedere il mon-do con gli occhiali rosa. Diamo una lettura più ottimistica dei nostri ricordi”.

Non posso costringermi a ricordare la mia infanzia con i miei fratelli ancora in ca-sa e mia madre prima dell’esaurimento, ma posso usare la lente dell’età e le ricerche de-gli studiosi della memoria per tracciare su quelle pagine bianche una storia che non mi dia la sensazione di averla perduta.

Per natura sono iduciosa e ottimista. Spesso ho considerato queste caratteristi-che dei preoccupanti segni di debolezza intellettuale, ma ho capito che posso sce-gliere di interpretarle come un modo di ve-dere il mondo plasmato da tutte le espe-rienze infantili piacevoli che ho dimentica-to. Non me ne ricordo, ma posso immagi-narmi sulle ginocchia dei mie fratelli che mi leggono una storia o mi mostrano un gam-bero di lago che agita le chele. Posso imma-ginarmi sulle loro spalle, con le mani nei loro capelli ricci. Posso immaginare che mi leggono pazientemente la poesia La notte prima di Natale. Qualcuno deve averlo fatto perché mia madre mi ha detto che a due an-ni ero in grado di recitare l’intera poesia. Neanche loro se ne ricordano, perché all’epoca erano adolescenti impegnati a in-contrare le persone che avrebbero deinito il loro senso del sé negli anni successivi. Ma posso immaginare e ricostruire, per me e per loro. Perché, visti i nostri rapporti afet-tuosi di oggi, nel nostro passato dev’esserci stata tanta dolcezza. Ne abbiamo solo di-menticato i dettagli. u bt

Anche se non li ricordiamo, nel bene o nel male i primi eventi della nostra vita inluiscono su come percepiamo noi stessi e la realtà circostante

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Paese nero,città rossa

Il fotografo Jens Olof Lasthein ha documentato la vita quotidiana a Charleroi, in Belgio. Tra vecchie fabbriche e miniere, scrive Christian Caujolle

D opo la caduta del muro di Berlino e il crollo del bloc-co comunista, il fotografo svedese Jens Olof Lasthein ha capito che quel cambia-

mento politico avrebbe avuto una grande inluenza sulla nostra visione del mondo. Era evidente che la frontiera dell’Europa si sarebbe spostata verso est e che il concetto stesso di Europa occidentale, centrale all’epoca della guerra fredda, avrebbe per-so il suo signiicato.

Così Lasthein, cresciuto in Danimarca, ha deciso di percorrere da nord a sud que-sta nuova frontiera, priva di una demarca-zione uiciale ma molto concreta, che va dal mar Bianco al mar Nero. Un progetto durato sei anni, dal 2001 al 2007, seguen-do il ritmo dei inanziamenti che il fotogra-fo riusciva a ottenere. Alla ine Lasthein è riuscito a portare a termine White sea, black

sea (Dewi Lewis Publishing 2008), che è

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stato esposto e proiettato in molti festival e musei ed è diventato anche un libro.

In occasione della presentazione di questo lavoro al museo della fotograia di

Charleroi, il direttore Xavier Cannone ha proposto a Lasthein un progetto sulla città belga da cui è nato il volume Home among black hills. Un’idea particolarmente felice,

se si considera che l’approccio del fotogra-fo nei confronti dello spazio, sia urbano sia rurale, è basato su una grande curiosità per le relazioni umane, una curiosità che non

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giudica e non compatisce. La scelta del colore – su pellicola, con particolare atten-zione alla luce e alla possibilità di compor-re la materia attraverso le tinte – è tipica di

un metodo documentario. Ma la sorpresa è la decisione di usare il formato panora-mico per allargare il campo visivo, mo-strando le persone nel loro contesto e per-

mettendoci di vedere le cose in modo di-verso. Una scelta fondamentale per afron-tare un territorio fotograico già esplorato in passato ma pieno di trappole, stereotipi,

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“buoni sentimenti” e nostalgia.“Sono venuto a Charleroi per la prima

volta nel 2010 e ho scoperto la città attra-verso i vetri appannati di un’automobile

che percorreva le strade soprelevate”, rac-conta Lasthein. “Poi sono andato in giro a parlare con la gente e ho ascoltato le storie sul ‘paese nero’, la regione delle miniere di

carbone che circonda Charleroi, e sulla ‘città rossa’, chiamata così per i rilessi pro-venienti dalle vecchie acciaierie che lavo-ravano giorno e notte. Tutto questo mi ha

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incuriosito. Così ho deciso di tornarci per un periodo più lungo. Ho parlato con gli abitanti, ho imparato molte cose sulla città di un tempo e su quella contemporanea, e sulle ondate migratorie di aspiranti mina­tori provenienti dall’Europa meridionale, dal Nordafrica e da altre regioni del mon­do. Mi hanno raccontato di quando a Charle roi c’era lavoro per tutti e poi della depressione seguita alla chiusura delle mi­niere e delle fabbriche. Tutti questi cam­biamenti si percepiscono girando per le strade della città”.

La Charleroi rappresentata da Las­thein, racchiusa in ampi rettangoli che non cadono mai nel formalismo, e che mostra­no la capacità del fotografo di anticipare visivamente le situazioni e comporle con le persone nello spazio, è un’opera ecce­zionale. Non solo perché Lasthein dimo­stra come sia possibile fare un reportage usando la fotograia panoramica, ma so­prattutto perché risulta discretamente e incredibilmente autentico nei toni. Charle­roi non è certo frivola ed esaltante con i suoi mattoni opachi, le prospettive poco accoglienti, i giovani che si annoiano per

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strada, i disoccupati al bar, i terreni incolti, le automobili guaste, gli immigrati in cerca di lavoro, le solitudini, le fabbriche abban-donate e la centrale nucleare. Ma non su-scita disperazione perché risulta umana nello sguardo di un fotografo che ha cerca-to di entrare in contatto con le persone. Le immagini, contraddistinte da una scelta perfetta della luce e del colore, mostrano una società in evoluzione, in cui si incon-trano rocker operai e giovani immigrati. Ci sono scene statiche che diventano dinami-che guardando lontano, in fondo all’im-magine, per scrutare i dettagli.

Spirito unico“In questi ultimi anni la città è cambiata molto e gli abitanti sono preoccupati per il futuro”, spiega Lasthein. “Le autorità stan-no cercando di dare a Charleroi una nuova immagine. Vogliono attirare le aziende e i ricchi per creare una città più moderna con aitti più alti. Per fortuna questa volontà di cambiamento tiene conto di chi vive qui, di chi ha dentro di sé lo spirito unico e real-mente internazionale di Charleroi”. Il libro Home among black hills non è solo un’esplo-razione fotograica e umana profonda, ma anche un modo per ricordare una regione mitica per la storia operaia, quella dell’in-dustria pesante, della siderurgia, che ha visto gli immigrati arrivare a ondate per poi integrarsi, costruendo una cultura che il fotografo registra senza lasciarsi impietosi-re dalla povertà, reale, della popolazione.

Le parole di Lasthein sono autentiche, come le sue fotograie: “Fin dal primo gior-no sono rimasto colpito dalla città. A Charle roi ho ritrovato la mia Russia, la mia Europa orientale. La luce, i muri di mattoni, le fabbriche: è tutto diverso ma al tempo stesso simile. Ed è facile parlare con gli abi-tanti e fare amicizia, se si ha voglia di ascol-tare. Così anche fotografare diventa meno impegnativo. Charleroi è calda e molto umana. La vera differenza con l’est è che qui gli immigrati sono la maggioranza. Questo crea una supericie irregolare, con delle asperità. Quelle della storia”. u adr

IL LIBRO E LA PROIEZIONE

Il libro Home among

black hills (Journal 2014) contiene le foto-graie a colori scattate da Jens Olof Lasthein a Charleroi, in Belgio. Le immagini sono ac-

compagnate dai testi di Lasthein, Samir Nya e Manolo Calvo. Il lavoro sarà proiettato da Chri-stian Caujolle a Ferrara il 3 ottobre.

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Durante il ine settimana il cuore pulsante della scena underground della Malesia setten-trionale batte in un pa-lazzo malconcio sul

traicato lungomare di Pengkalan weld, a Georgetown. La sua cassa toracica è il Soundmaker, un buio loft dove i giovani sbandati e rocchettari dell’isola di Penang si radunano per scaricare la frustrazione, uno spazio per concerti, prove e registrazio-ni. Durante la settimana invece, quando le teste calde dell’isola languono in uicio da-vanti a una scrivania, a mantenere in vita il locale c’è solo Cole Yew.

Yew, un malese di etnia cinese, magro e tatuato, ha 33 anni e viene da Brinchang, nella zona poco rock e molto agricola di Ca-meron Highlands. Da otto anni tiene viva la subcultura underground dell’isola di Pe-nang, la seconda area urbana del paese, dove prima del suo arrivo non c’era molto fermento musicale. Non era sempre stato così: negli anni sessanta la Malesia e Pe-nang potevano vantare un gran numero di gruppi rock, conosciuti come la “brigata kugiran”. Suonavano un mix tra il surf rock in stile Shadows e il sound britannico inven-tato dai Beatles e dai Rolling Stones.

Negli anni settanta gli Alleycats, una band di Penang di etnia mista sino-indiana, si fecero conoscere all’estero irmando con la Universal e trasferendosi a Hong Kong, la

mecca dell’intrattenimento asiatico. I pro-blemi cominciarono negli anni ottanta, quando l’heavy metal e il punk piantarono il seme della ribellione musicale, ino alla stagione delle vacche magre degli anni no-vanta e duemila causata dalla pirateria e dalla scomparsa delle etichette discograi-che e dei locali di musica dal vivo.

“Abbiamo aperto il Soundmaker per of-frire uno spazio alle band alternative loca-li”, spiega Yew mentre si rolla una sigaretta di tabacco importato. La iamma dell’ac-cendino illumina una cresta di capelli e un viso smagrito che lascia trasparire anni di esperienza nell’artigianato musicale. Yew ha organizzato centinaia di concerti e dj set alternativi, suona la chitarra negli Hui Se Di Da (alieri dell’avantgarde-post rock male-se) e gestisce il Soundmaker. Tutti lo consi-derano il vero mecenate della scena musi-cale di Penang.

“Ingaggio tutti quei gruppi alternativi ed estremi che non riuscirebbero mai a sali-re sugli altri palchi dell’isola”, spiega in una piccola sala del Soundmaker nascosta tra la sala concerti e lo studio di registrazione. È qui che Yew ha piazzato il mixer e il compu-ter con cui ha registrato una quantità inini-ta di demo e album di gruppi underground. Ed è sempre qui che prepara i suoi eventi del ine settimana. “Quest’anno abbiamo inaugurato la rassegna Rebel gigs del ve-nerdì. L’idea è promuovere un incontro al-ternativo, rimediare all’assenza di spazi per la musica tosta e dare ai gruppi un palco per

Gestisce uno dei locali più noti della scena undergrounddi Penang. Deve combattere con le divisioni etniche e le campagne delle autorità islamiche contro la “musica del diavolo”

Marco Ferrarese, Roads & Kingdoms, Stati Uniti

suonare e pubblicizzare i loro dischi. Nel giro di quattro mesi sono arrivati gruppi da tutta la Malesia”, spiega mentre armeggia con la sua tabacchiera metallica per rollare un’altra sigaretta.

In Malesia, uno stato multietnico e mul-tireligioso a maggioranza musulmana, gli sforzi di Yew hanno un’importanza partico-lare. L’attività del Soundmaker è un antido-to al ministero per lo sviluppo islamico della Malesia (Jakim), che perseguita i rocker ac-cusandoli di essere “adoratori del diavolo”. Lo Jakim ha proibito l’heavy metal, arresta-to diversi ragazzi, perquisito locali e negozi di dischi e accusato d’immoralità l’intera scena underground.

Poi c’è il problema dei soldi: in Malesia gli strumenti musicali sono soggetti a pe-santi dazi doganali, e il pubblico si aspetta, come in tutto il resto del mondo, che l’in-gresso ai concerti underground costi poco. “La polizia è venuta una sola volta e per for-tuna non ci sono state conseguenze. Quello che mi stupisce è che la gente qui non ha an-cora capito che deve partecipare ai concerti e pagare il biglietto se vuole più qualità. Senza questo tipo di sostegno minimo, pre-sto saremo costretti a chiudere”, spiega Yew con tono amaro.

Il problema nasce in parte dalla frattura tra il punk e l’heavy metal, lo yin e lo yang della subcultura musicale. A complicare le cose c’è il fatto che nella Malesia multietni-ca anche la scena musicale è profondamen-te divisa: la maggioranza malese, insieme a una parte della minoranza indiana, apprez-za le sonorità occidentali più estreme (Car-cass, Napalm Death e Insect Warfare), mentre i cinesi preferiscono il post rock (Mogwai e Sigur Ros) mescolato con il rock importato dalla Cina, da Hong Kong e da Taiwan. Il risultato contiene tracce di postrock, punk e postmetal ed è cantato ge-neralmente in mandarino per un pubblico

◆ 1981 Nasce a Brinchang, in Malesia.◆ Fine anni novanta Frequenta l’università a Kuala Lumpur e comincia ad appassionarsi alla musica.◆ 2006 Si trasferisce a Penang e apre il Soundmaker.

Biograia

Cole YewPunk malese

Ritratti

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cinese. Un caso abbastanza unico di etno-centrismo musicale del sudest asiatico.

Questa scena alternativa sino-malese si è sviluppata nella seconda metà degli anni novanta a Kuala Lumpur grazie al lavoro di persone come Mak Wai Hoo e alla sua eti-chetta Soundscape. È dalla newsletter di Soundscape che Yew ha imparato i rudi-menti del mestiere prima di trasferirsi a Penang, quando era uno studente di Kuala Lumpur. “Devo ringraziare Mak e i suoi amici per avermi aiutato a diventare la per-sona che sono oggi. È normale, consideran-do la spaccatura sociale di questo paese”, spiega. “I cinesi imparano da altri cinesi”.

Caleidoscopio tropicaleA Penang però la situazione è particolare. Oltre a essere un punto caldo dell’opposi-zione politica, l’isola è anche l’unico stato della Malesia a maggioranza cinese. Fin dall’ottocento, quando era un importante centro coloniale britannico, Penang è stata un porto franco commerciale e ospita da sempre gruppi etnici e culturali diversi. Ma-rinai e avventurieri europei, uomini d’afari

cinesi, immigrati armeni, braccianti tamil e punjabi e i gruppi misti sino-malesi del Pe-ranakan compongono un bizzarro caleido-scopio tropicale. “Questa è una piccola iso-la-stato con una piccola scena musicale che spinge la gente a mescolarsi più che nelle altre zone della Malesia. Eppure sono pochi i non cinesi che frequentano i concerti rock cinesi. Lo stesso vale per il pubblico del punk e del rock: le persone non si sostengo-no a vicenda, e alla ine sono gli organizza-tori e i manager a dover sudare per mante-nere la barca a galla”, spiega Yew.

Gestire il Soundmaker non è facile. Yew deve pagare l’aitto, comprare le attrezza-ture e mantenere gli spazi puliti e funziona-li. Prima di riuscire a inanziarsi con il rica-vato dei concerti, Yew ha dovuto fare un al-tro lavoro per anni. “Finalmente sto comin-ciando a vedere qualche guadagno, ma non basta mai. Gli ampliicatori si rompono, le tubature perdono, dobbiamo combattere con le termiti nei muri”. Yew mi mostra un muro decrepito e mi spiega che durante la stagione delle piogge l’acqua iltra dal tetto e cade sul palco.

Grazie al suo ingegno e alla passione per il fai-da-te, Yew ha trasformato un palazzo cadente nel locale underground più alla moda di Penang. Ha costruito un piccolo bar, ha sostituito il sistema di illuminazione e ha chiesto agli artisti locali di decorare i muri con dei graiti. “Il Soundmaker è co-me un puzzle che sto componendo pezzo dopo pezzo. Appena incasso un po’ di soldi li investo per migliorare il locale. Abbiamo già fatto tanto, e la gente comincia a vedere la diferenza. Oggi i gruppi vogliono suona-re da noi perché abbiamo un’ampliicazione adeguata e una buona reputazione”, mi spiega mentre sistema delle casse di birra nel retro del bar.

In fondo la scena underground di Pe-nang ha avuto più fortuna rispetto a tante altre, perché in un paese devastato dalla corruzione il suo mentore è una persona profondamente integra. Nonostante gli ostacoli, Yew è convinto che il rock possa ricoprire un ruolo fondamentale nel forma-re la società malese. “Ho sempre creduto che la musica può cambiare il mondo. Ma bisogna lavorare duro”. u as

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Viaggi

gorilla “il più grande miracolo della preser-vazione moderna”. Ma è stato ottenuto a carissimo prezzo: più di 140 ranger sono morti per difendere la riserva durante il conlitto congolese.

Raggiungere il Virunga non è semplice. La via più agevole è arrivare in aereo a Kiga-li, la capitale del Ruanda, e fare tre ore di taxi ino a Goma, che si trova appena oltre il conine della Repubblica Democratica del Congo. Qui le autorità del parco si occupa-no dei visti e del trasferimento a Rumanga-bo, il quartier generale del Virunga. Per ve-dere i gorilla io e due compagni di viaggio facciamo un’ora e mezza di strada a bordo di una jeep per arrivare al nuovo accampa-mento di Bukima. Siamo i primi ospiti e ci sono ancora i lavori in corso, ma c’è una vi-sta magniica su una vallata rigogliosa e su tre vulcani del parco: il Mikeno, ormai spen-to, il Nyiragongo e il Nyamuragira, che in-vece sono ancora attivi. Dal 1880 hanno eruttato più di settanta volte e tre volte solo in questo secolo. Dai crateri si alzano nuvo-le di vapore bianco.

Il patriarcaIl mattino seguente i ranger armati si pre-sentano all’alba e stabiliscono le regole: re-state a sei metri di distanza dai gorilla; in-dossate delle mascherine per non infettarli; evitate di guardarli negli occhi e non fate foto con il lash. La visita dura solo un’ora. Ci sono gorilla di montagna anche in Ruan-da e in Uganda, che sono meno selvatici e attirano molti più turisti. Qui nella Rdc, in-vece, li avremo tutti per noi. Attraversiamo la valle lasciandoci alle spalle capanne di fango e bambù con tetti di foglie di banano, donne che arano campi di patate e fagioli, e bambini scalzi. Dopo un’ora raggiungiamo la foresta ai piedi del Mikeno e cominciamo a risalire il letto di un iume prosciugato. At-traversiamo una galleria di alberi, felci, viti e liane. Mezz’ora dopo ci raggiungono altri tre ranger che ci dicono di mettere le ma-

scherine. Mentre le indossiamo si sente un fruscio che proviene dalla itta vegetazione. Poco dopo spunta un giovane gorilla ma-schio. Restiamo a bocca aperta mentre ci osserva con calma e poi se ne va correndo a quattro zampe.

L’ora successiva è indimenticabile. Ve-diamo un adulto di 180 chili di nome Nya-kamwe, il patriarca di un gruppo di nove gorilla, che mastica delle foglie con aria in-

è diicile dire quale sia l’espe-rienza più incredibile: fermar-si di notte sulla cima di un vul-cano per guardare la lava nel cratere, come una visione iammeggiante dell’Ade, o sta-

re a pochi metri da un gorilla di montagna in una foresta e percepire l’intelligenza nei suoi occhi. Fortunatamente non è più ne-cessario scegliere perché dopo vent’anni di conlitti è tornata una fragile pace nell’uni-co posto al mondo dove è possibile fare en-trambe le cose: il parco nazionale Virunga, nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc).

La zona meridionale del parco naziona-le più antico dell’Africa – 7.800 chilometri quadrati di montagne innevate, ghiacciai, savane, paludi, iumi, laghi e vulcani – sta gradualmente riaprendo ai turisti, anche se è obbligatorio farsi scortare dai ranger ar-mati. Non è ancora un posto per tutti, ma permette ai viaggiatori più coraggiosi di scoprire un territorio incontaminato che non ha uguali sulla terra. Il parco ofre la possibilità di ammirare un terzo dei circa novecento gorilla di montagna superstiti sul pianeta. Durante gli anni della guerra sono morti migliaia di elefanti e di ippopo-tami del Virunga, ma i gorilla (a rischio di estinzione) sono raddoppiati. In parte per-ché non erano nelle mire dei bracconieri, ma soprattutto perché i coraggiosi ranger del Virunga sono andati ogni giorno nella giungla per controllarli, a volte anche senza il permesso delle milizie.

Il belga Emmanuel de Merode, direttore del parco, ha deinito la sopravvivenza dei

Tra vulcanie gorilla

Martin Fletcher, Financial Times, Regno Unito

Dopo vent’anni di conlitto, la Repubblica Democratica del Congo si apre al turismo. Alla scoperta del parco nazionale Virunga

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curante. I maschi più giovani si battono il petto per impressionarci. Le madri badano ai loro cuccioli mentre i gorilla più piccoli si azzufano per gioco, oltre a fare salti morta-li, arrampicarsi sugli alberi e rotolarsi. Alcu-ni ci siorano e uno di loro fa una piroetta davanti a noi. Per rassicurarli le guide fanno un verso a metà tra un grugnito e una schia-rita di gola.

La cosa più stupefacente dei gorilla è la

◆ Documenti Il visto turistico per la Repubblica Democratica del Congo, che costa 85 euro, va chiesto all’ambasciata prima della partenza. ◆ Arrivare Il prezzo dei voli dall’Italia per Kigali (Turkish Airlines, Ethiopian, Brussels Airlines) parte da 540 euro a/r. Dalla capitale del Ruanda si può raggiungere con un taxi la città di Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, e da lì arrivare al parco nazionale Virunga. ◆ Il parco Safari collection ofre un’escursione di quattro giorni con una guida al parco nazionale per 3.450 dollari (2.700 euro) a persona. Il prezzo comprende i trasferimenti da Kigali, i permessi, l’alloggio e il cibo (thesafaricollection.com). ◆ Leggere Jefrey Tayler, In Congo, Neri Pozza 2003, 8 euro.◆ La prossima settimana Viaggio a Capo Verde, nella città di Mindelo, dov’è nata la cantante Cesária Évora. Avete suggerimenti su tarife, posti dove dormire, mangiare, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni pratiche

RDC150 km

RUANDA

UGANDA

Goma

Kigali

KampalaKisangani

LagoVittoria

VulcanoNyiragongo

Parco NazionaleVirunga

LagoTanganika

loro somiglianza con agli esseri umani: non solo gli occhi e le espressioni del viso, o l’abilità con cui usano le dita e i pollici, ma anche il loro comportamento.

Sono afettuosi, irritabili, teneri, protet-tivi, annoiati, dispettosi, estroversi. “Ogni volta che vedo dei gorilla rimango colpito dalla loro umanità”, dice Mikey Carr-Hart-ley, la guida che ha organizzato la visita al Virunga. Naturalmente i gorilla sono tra i

parenti più prossimi dell’uomo: le due spe-cie si sono separate circa nove milioni di anni fa.

La notte ci godiamo il relativo lusso del Mikeno lodge, che si trova in cima a una col-lina nei campi intorno al quartier generale del parco, a Rumangabo. Il lodge è stato inaugurato nell’ottobre del 2011 durante una tregua, ma ha dovuto chiudere tempo-raneamente appena sei mesi dopo, quando i ribelli del Movimento 23 marzo (M23) han-no ripreso i combattimenti. Il personale del parco è stato costretto a rifugiarsi nella can-tina dei vini. Veniamo accolti da Richard e Gilly Thornycroft, due agricoltori espro-priati dello Zimbabwe che oggi gestiscono il lodge. Ceniamo su un grande terrazzo con vista su una pianura boscosa.

Poi ci ritiriamo nei nostri bungalow con i tetti di paglia. Un cartello avverte: “Se sen-tite colpi d’arma da fuoco prolungati restate nel vostro bungalow e spegnete le luci. In

Repubblica Democratica del Congo. Il vulcano Nyiragongo

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Viaggi

caso di grave pericolo i ranger verranno a prendervi”. Una decina di milizie occupano ancora la parte centrale e settentrionale del parco.

Il giorno dopo ci alziamo presto per sca-lare il Nyiragongo: siamo i primi dopo la resa dell’M23 nel novembre del 2013. Per raggiungere il punto di partenza prendia-mo quella che un tempo era una strada asfaltata e che oggi è un percorso fangoso, costeggiato da piante esotiche, dove s’in-contrano baracche di legno senza acqua né corrente elettrica. Non c’è niente di con-venzionale in Congo, niente di occidentale e omologato. Incrociamo pochissime auto e qualche vecchio camion carico di perso-ne e merci.

Lungo la strada vediamo mercati ani-mati, donne con abiti colorati che portano verdure sulla testa, persone che cantano e ballano davanti a chiese improvvisate. In-contriamo anche bambini che giocano a calcio con palle fatte di buste di plastica arrotolate. Ci sono uomini che trasportano grandi cataste di legno o enormi sacchi di carbone sui chukudus, delle specie di mo-

nopattini di legno che si vedono solo in questo piccolo angolo del paese. Attraver-siamo diversi posti di blocco dell’esercito (la zona è ancora militarizzata) e anche il punto dove ad aprile un gruppo di uomini armati ha tentato di uccidere de Merode in un agguato. Ai piedi del Nyiragongo ci rag-giungono sette ranger armati di mitraglia-tori Ak-47 per difenderci dai ribelli delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), ancora accampati sulla pa-rete opposta del vulcano. Ci sono anche dieci portatori, la maggior parte indossa dei semplici sandali di plastica. Portano tende, sacchi a pelo, viveri e acqua. È una scena imbarazzante. Sembra di essere tor-nati indietro nel tempo, nell’ottocento, all’epoca degli esploratori David Living-stone o Henry Morton Stanley.

C’incamminiamo in salita in mezzo a un’afosa foresta tropicale, attraverso campi di lava friabile che si è depositata con l’eru-zione del Nyiragongo del 2002. Ora questi percorsi sono coperti di iori ino al cratere nero e spoglio. Più si sale e più le valli ricche di vegetazione si allontanano, la tempera-tura si abbassa e l’ascesa diventa ripida. Per cinque ore avanziamo faticosamente in mezzo alle nuvole ino a quando, a 3.740

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metri, la lava spaccata e appuntita termina improvvisamente in un bordo frastagliato oltre il quale le pareti del vulcano sprofon-dano in un enorme cratere pieno di foschia e vapori. È come arrivare al confine del mondo. Da qualche parte, in basso, in mez-zo al bianco denso e vorticoso del vapore sale un ruggito come di mare in tempesta. Si sente l’odore dello zolfo, in mezzo a zaf-fate di aria calda e colonne di vapore che spuntano dalle fessure sulle pareti. Del più grande lago di lava sul fondo del cratere, però, non riusciamo a vedere nulla. È una delusione, ma non c’è tempo di abbattersi. Sta arrivando il buio, si sta alzando il vento e il freddo è pungente.

Lava e vaporeLe otto vecchie capanne per turisti costruite su una spianata poco sotto il cratere non so-no più abitabili, anche se il parco le sta re-staurando: i soffitti sono crollati e i fumi sulfurei del vulcano hanno corroso le strut-ture in acciaio. Così decidiamo di piantare le tende lì vicino, di indossare tutti i vestiti che abbiamo e di riscaldare il cibo su un fuoco acceso con la carbonella. A vigilare sulle operazioni ci sono anche due corvi ne-ri, le uniche altre forme di vita su questa ci-ma desolata. Poco distante, incastrata a martellate nella lava, una croce fatta con spranghe di ferro ricorda una signora cinese precipitata nel cratere nel 2007. A un certo punto notiamo un bagliore arancione nel cielo notturno. Ci arrampichiamo sul bordo del cratere, guardiamo in basso e trattenia-mo il iato sbigottiti. La foschia si è diradata. In fondo al cratere un grande calderone di magma bolle nell’oscurità. La supericie è striata di profonde venature rosse e rime-stata da fontane di lava fusa che schizzano verso l’alto. Il lago sembra quasi vivo, ribol-lente di una specie di energia malevola. “Lì sotto vive il diavolo”, dice un portatore.

Stiamo a guardare rapiti inché il freddo ci costringe a tornare verso il tepore delle nostre tende e dei nostri sacchi a pelo. Quando ci svegliamo, all’alba, la foschia è tornata. Ci sporgiamo dall’orlo del cratere ma non riusciamo a vedere nulla. È come se la visione iammeggiante di questa notte fosse stata un sogno. Mentre cominciamo la lunga discesa ci rendiamo conto che lo stesso Virunga è un po’ come un lago di la-va: una meraviglia visibile al mondo ester-no solo in modo fuggevole e incantato. Per ora è aperto, ma chissà se la pace durerà e se i guerriglieri allontaneranno (o i gorilla attireranno) i visitatori di cui questo parco nazionale bellissimo, ma a corto di inan-ziamenti, ha così tanto bisogno. u fas

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Repubblica Democratica del Congo. Nel parco nazionale Virunga

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Qui tutti lo chiamano “la bestia”.

Questo treno merci con il tetto carico di migranti provenienti dall’America centrale, in fuga dalla miseria e dalla violenza, fa scalo a Ixtepec, una città nel sud del Messico.

Candele su bottiglie, in memoria dei compagni assassinati. Questa sera si è deciso, dopo l’appello del poeta Javier Sicilia, di cominciare una marcia di protesta ino al Messico.

I viaggiatori partiti per cercare lavoro negli Stati Uniti attraversano il paese cercando di non addormentarsi per non cadere sui binari. Hanno tra gli 11 e i 35 anni. Alcuni hanno già cercato di emigrare, ma sono stati fermati e riportati alla frontiera. Altri si avventurano per la prima volta fuori dal loro paese. Qualcuno passerà la notte in uno dei 52 rifugi gestiti dai cattolici. Questo è diretto da padre Alejandro Solalinde, che offre ai migranti accoglienza per la notte, al riparo dai pericoli. In questa regione si aggirano i famosi Zetas. Il gruppo è formato da ex uomini delle forze speciali dell’esercito messicano che oggi guidano il cartello della droga più violento del paese. Sfruttano le persone che transitano sul loro territorio, ricattano i migranti, li sequestrano il tempo necessario a chiamare le famiglie per il riscatto. A volte li violentano, li mutilano. Spesso li uccidono.Oltre agli Zetas, ci sono i militari e gli agenti dell’immigrazione: tutti pericoli da scansare lungo il cammino ino alla frontiera con gli Stati Uniti. Lì, poi, i migranti dovranno trovare qualcuno che gli faccia attraversare il conine, in cambio di molti soldi. A volte in cambio di un trasporto di droga. È questo che i volontari del centro di accoglienza – quasi tutti armati – spiegano ai nuovi arrivati.

Graphic journalism Cartoline dal Messico

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François Olislaeger è un illustratore e autore di fumetti nato nel 1978 a Liegi, in Belgio. Vive e lavora tra Parigi e il Messico.

YA BASTA! Abbasso la corruzione e i sequestri.

Con gli zapatisti, siamo stui di questa sporca guerra!

MIGRARE È UN DIRITTO NON UN DELITTO!

NOI MIGRANTI VOGLIAMO SOLO PASSARE! NIENTE DI PIÙ!

NOI, I MIGRANTI, NON SIAMO CRIMINALI!

SIAMO LAVORATORI

INTERNAZIONALI!

STOP ALLE AGGRESSIONI,

AGLI STUPRI, AI SEQUESTRI, AGLI

OMICIDI!

STOP!

ABSOLUT-AMENTE INETTO

!

MESSICANI UNITI CONTRO LA DELINQUENZA.

Stop alle aggressioni.

Vogliamo la pace.

E la marcia prosegue.

Vogliamo giustizia! Siamo di più a volere la pace.

Basta!

Marciare e pensare

Auto-difesa

femminista

Rispettate i nostri diritti

!

Non uno di più!

Siamo tutti migranti!

Messicani

sul piede di

guerra?

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Cultura

Tv

C arlton Cuse, creatore insieme a Damon Lindelof di Lost, ri-corda ancora quando è stato a Madrid per tenere una lec-tio magistralis. “Mi si è avvi-

cinato uno studente e mi ha detto di essersi chiuso in casa con un pacco di marijuana e la serie completa, per vedersela tutta di se-guito”, dice ridendo. L’aspetto meno signi-icativo di questo aneddoto è la marijuana. Il produttore esecutivo e sceneggiatore rac-conta la storia per parlare dell’esperienza televisiva. “Le serie tv hanno una vita che prima non avevano. C’è stata un’evoluzione

e anche il consumo è cambiato: sono storie complete da seguire al ritmo che ognuno decide. Le serie sono i nuovi libri, una nuo-va forma di letteratura”, dice.

Una volta erano i romanzi

Un’idea condivisa dal pubblico e dalla criti-ca, ma soprattutto da autori, creatori e showrunner, il termine che abbraccia il lavo-ro di scrittore, produttore e in alcuni casi di regista. “Lavoriamo su un modello che ci permette di fare quello che inora hanno fatto benissimo i romanzi: raccontare storie lunghe, con dei personaggi solidi e una pa-rabola drammatica. Dickens sapeva farlo bene. Siamo tornati a quello stile”, spiega Elwood Reid, showrunner di The bridge.

La svolta risale a quindici anni fa. Non c’è una data esatta, ma c’è un nome: David Chase, il creatore della serie I Soprano. C’erano stati altri teleilm popolari, come

Hill street giorno e notte o serie come Twin Peaks. All’inizio degli anni novanta J.J. Abrams e Joss Whedon erano diventati fa-mosi rispettivamente con Alias o Bufy l’am-mazzavampiri. Ma I Soprano ha cambiato le modalità narrative, avvicinandosi di più all’idea di letteratura. “Non c’è dubbio che, per come sono sviluppati i personaggi e le storie, la tv degli ultimi dieci anni è di gran lunga superiore a quello che si può vedere al cinema”, aferma Nic Pizzolatto, autore di romanzi ma anche della serie True detective. Il suo non è l’unico caso di scrittore-sceneg-giatore: Dennis Lehane, un grande del noir, è anche produttore e sceneggiatore di Boar-dwalk Empire.

Come dice Jodie Foster, che ha diretto alcuni episodi di House of cards e Orange is the new black, oggi la tv è un nuovo universo particolarmente afascinante perché a con-tare è soprattutto la storia. “Ann Biderman è prima di tutto una scrittrice”, dice l’attore Liev Schreiber a proposito della creatrice di Ray Donovan, un’altra serie che si distingue per l’uso intelligente delle parole.

Tutti gli showrunner – Michelle Ashford creatrice di Masters of sex, Ronald D. Moore a capo di Outlander, o Matthew Weiner, au-tore di Mad men – si deiniscono scrittori. Sono un gruppo di autori accomunati da un uso particolare delle parole, che si esprimo-no attraverso le immagini, e per cui la rego-la d’oro è “attenersi a quello che è scritto”, non allontanarsi dal copione. “Oserei dire

Storie complesse da seguire al ritmo che decide il pubblico. Per molti le serie tv sono una nuova forma di letteratura

L’età dell’oro

dei teleromanzi

Rocío Ayuso, El País, Spagna

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Lost

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che la tv è il miglior teatro in circolazione”, aggiunge Aaron Sorkin, autore per il cine-ma e per il teatro, ma anche showrunner di West wing e The newsroom.

Le diferenze sorgono sul piano creati-vo. Per Sorkin sono fondamentali il ritmo e il dialogo. Si considera un pessimo narrato-re, ma i suoi dialoghi scorrono come se fos-sero musica. Da buon scrittore, preferisce lavorare da solo. Lo stesso succede ad altri autori come Pizzolatto o Julian Fellowes di Downton Abbey. Quello che apprezzano di più del loro lavoro è la solitudine dello scrit-tore. Elwood Reid non ha nascosto la sua soddisfazione quando Meredith Stiehm, che lavorava con lui a The bridge, se n’è an-data: “Finalmente sto scrivendo la serie che volevo scrivere”, ha detto alla stampa.

La ricerca della solitudine si può spiega-re con il fatto che questi autori arrivano dal-la letteratura. Ma la maggior parte degli showrunner apprezza il lavoro in gruppo. “Io sono per la collaborazione. Sto lavorando con Tom Perrotta e mi piace l’idea di una stanza piena di scrittori. Le idee sono mi-gliori se arrivano da cinque o sei teste diver-se”, dice Lindelof, che per l’ultima serie The leftovers ha unito il suo destino professiona-le a quello dell’autore di Bravi bambini. Per Lindelof la vita di un romanziere è “un’esi-stenza molto solitaria”. Per Cuse, “un mal di denti”. Altri, come i coniugi King (Robert e Michelle), non pensano proprio a chiuder-si a scrivere in solitudine: lavorano alla serie

The good wife insieme e si portano la storia a casa, parlandone anche durante le cene in famiglia. Lo stesso fanno David Crane e Jef-frey Klarik, autori della sitcom Episodes. “Il processo di creazione è continuo”, dice Crane, che ha lavorato anche per Friends.

La stanza più importanteLa cosiddetta writer’s room, o stanza degli sceneggiatori, è il centro della loro creativi-tà. “Il resto della produzione è un male ne-cessario”, aggiunge Ashford. L’importante sono le pagine che escono da quella stanza. A volte al suo interno succede qualcosa di più simile a un bagno di sangue in stile Tro-no di spade che a uno scambio di idee. C’è chi si divide il lavoro per episodi, a seconda della disponibilità. Altri, come i coniugi King, si concentrano sull’argomento anche consultando esperti in materia. Ashford ri-scrive i testi dopo aver ricevuto gli input dei colleghi. Weiner si mette sulla difensiva, accetta le correzioni degli altri, anche se non sempre le applica. “Alla ine è il tuo no-me a rappresentare la serie”, spiega Bider-man, autrice anche di Masters of sex, con-tenta della sua collaborazione ma consape-vole del fatto che la scrittura di una serie non è un processo che si può deinire demo-cratico. “L’ideale è arrivare a pensare come una sola mente”, dice.

La mano dell’autore è più visibile e il suo lavoro somiglia più a quello di uno scrittore nell’episodio pilota e in quello inale. Spes-

so il primo episodio non viene scritto in gruppo o arriva già deinito nella stanza de-gli sceneggiatori che lavorano alle parole e ai dialoghi. Anche quello inale di solito è riservato agli autori. C’è chi giura di avere in mente la ine della storia in dall’inizio. Ma sapere la direzione in cui si muove la storia non elimina l’angoscia per il inale. Lo ricor-da Vince Gilligan, autore di Breaking bad, che ha vissuto la scrittura e la messa in onda della puntata inale come un vero incubo, convinto che non sarebbe stata abbastanza bella.

Nel caso di Cuse e Lindelof l’incubo è diventato realtà: i fan di Lost sono stati delu-si da un inale che gli autori hanno vissuto come una “catarsi”. “La tv è cambiata an-che per il contatto più diretto con i fan”, spiega Lindelof, consapevole del fatto che gli scrittori delle serie hanno perso l’anoni-mato. Adesso gli showrunner sono star. “Sai che dietro Breaking bad c’è Gilligan, e dietro I Soprano c’è Chase. Gli autori hanno un ve-ro seguito”, spiega. Per questo non possono permettersi il blocco dello scrittore. Non c’è tempo. E poi stranamente, anche se si parla di nuova letteratura, quasi nessuno di loro dice di ispirarsi ai libri. Il cinema europeo di Antonioni o Fellini è il riferimento di Cuse. Ann Biderman cita Ingmar Bergman. Non si può non essere d’accordo con Reid quan-do dice che la tv oggi è al centro di una con-versazione “come quella che prima aveva-mo su libri e cinema”. u fr

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Cultura

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Cultura

Cinema

A giudicare da alcuni ilm in uscita, la cucina è il veicolo ideale per difon-dere buoni sentimenti

Un giovane chef indiano tra­piantato nel sud della Francia apre un localino di fronte a un ristorante stellato che scende sul piede di guerra. Amore, cu-cina e curry, diretto da Lasse Hallström e prodotto da Ste­ven Spielberg e Oprah Win­frey, esalta la cucina francese, ma soprattutto quella dispo­sta a integrare nei suoi piatti un tocco di globalizzazione. Un segno dei tempi, soprat­tutto perché gli sceneggiatori (hollywoodiani) non hanno

esitato a completare il piatto con una spruzzata di politica (francese). Tra qualche setti­mana uscirà anche Chef, un altro ilm che celebra le virtù di una gastronomia inventiva e aperta al mondo. Jon Fa­vreau (regista e protagonista) interpreta uno cuoco frustra­

to che per ritrovare se stesso rimedia un food track e co­mincia a dispensare succu­lenti panini in un viaggio tra Miami e Los Angeles. Gli in­gredienti comuni a queste due commedie gastronomi­che sono ecumenismo e buo­ni sentimenti. Hollywood non poteva rimanere insensi­bile al successo dei cuochi in tv. La diferenza è che quelli della tv sono veri. Mentre lo chef che rivoluziona all’india­na la ricetta del boeuf bourgui-gnon è un attore. La cucina è soprattutto cultura ed è quella che bisognerebbe promuove­re, più che i buoni sentimenti. Le Monde

Dalla Francia

Ricette insipide

Italieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana Lee Marshall, collaboratore di Condé Nast Traveller e Screen International.

Anime nereDi Francesco Munzi. Italia 2014, 100’●●●●● Il nuovo ilm del talentuoso Francesco Munzi si apre a Londra con un vertice colom­biano­calabrese che sembra preannunciare un ilm di ma­ia di nuova generazione. Cioè che ammicca a elemen­ti tipici di alcuni generi pur mantenendo un sano, ironico distacco dai suoi personaggi. Romanzo criminale trasporta­to in Calabria, per intendersi. Ma pian piano, immergendo­ci nelle vite dei tre fratelli che sono al centro di Anime nere, ci accorgiamo che l’incipit cool era un bluf. Se c’è un ge­nere di riferimento è la trage­dia greca. Quasi tutti i perso­naggi – dal iglio adolescente che reagisce a un’ofesa spa­rando contro le saracinesche di un bar, allo zio Rocco, per­soniicazione del maioso moderno, dedito ad afari “puliti” a Milano – si illudono di agire liberamente. Solo Luciano (un eccellente Fabri­zio Ferracane), il fratello ri­masto giù ad Africo per cer­care di fare l’agricoltore, si rende conto che tutti sono solo ingranaggi di una mac­china che distrugge ogni co­sa. Come nell’Orestea, questo meccanismo si accanisce quando un mondo arcaico si scontra con nuovi valori. Quando le capre sgozzate in­contrano l’alta inanza. Ani-me nere è forse il ilm di maia più antropologico mai realiz­zato prima.

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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Media

Amore, cucina e curry

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Una promessaDi Patrice Leconte. Con Alan Rickman, Rebecca Hall. Francia/Belgio 2013, 95’●●●●● Il ilm di Patrice Leconte è l’ulteriore prova che i romanzi di Stefan Zweig vanno di gran moda al cinema. Peccato che in Una promessa non resti mol-to di Il viaggio nel passato, no-nostante gli sforzi evidenti compiuti dal regista. Nel gio-co silenzioso dei due protago-nisti che s’innamorano, Le-conte si dimentica quello che è il cuore del romanzo e che ne determina la bellezza: la presenza palpabile del tempo che passa sopra un amore proibito e che si intensiica con la lontananza geograica imposta dalla grande guerra. Relegata verso la ine del ilm, questa storia nella storia viene buttata via, quando invece avrebbe avuto bisogno di pa-zienza, e il inale appare total-mente privo di linfa vitale e lontano da quello del roman-zo. Il diritto del regista di dare una lettura personale, anche se discutibile, di un’opera let-teraria apre scenari comples-si, a volte meravigliosi. Ma c’è da chiedersi cosa gli autori ab-biano letto di Zweig. Perché qui non ce n’è traccia. Né la bellezza né la forza silenziosa e nemmeno il titolo.Noémie Luciani, Le Monde

Good peopleDi Henrik Ruben Genz. Con James Franco, Kate Hudson. Stati Uniti 2014, 120’●●●●● Good people è un thriller che passa dall’essere semplice-mente fatto male a completa-mente assurdo in un batter d’occhio. Una coppia (Kate Hudson e James Franco) in diicoltà trova una grande somma di denaro nell’appar-tamento del loro padrone di casa, morto di overdose. Dopo una veloce esitazione che gli vale l’attributo di “brava gen-te” del titolo, i due decidono di tenersi i soldi. Si troveranno al centro di una guerra tra gangster. La cosa che rende il ilm assurdo è proprio il cam-bio di rotta della coppia, da persone normali a due eroi che afrontano senza paura dei pericolosi criminali. Un terzo atto particolarmente violento non migliora le cose.Gary Goldstein, Los Angeles Times

MedianerasDi Gustavo Taretto. Con Pilar López de Ayala. Argentina/Spagna/Germania 2011, 95’●●●●● Già nel suo cortometraggio da cui poi ha sviluppato Mediane-ras, il regista Gustavo Taretto esprime una delle tesi centrali del cinema di Jacques Tati: la struttura architettonica di una casa, di un quartiere o di una città condiziona il carattere di chi ci abita. Ed è la caotica ar-chitettura di Buenos Aires che impone il suo modello alle vite della coppia protagonista del ilm. Martín e Mariana sono perfettamente integrati nello spirito di una metropoli indivi-dualista e disordinata, dove le strade sono luoghi di transito e le relazioni si svolgono attra-verso computer e telefoni. Sa-rebbe ingiusto, soprattutto verso gli interpreti, liquidare Medianeras come un corto sti-rato e riempito di dettagli ino a diventare un lungometrag-gio. E bisogna riconoscere al regista il tentativo, riuscito so-lo in parte, di afrancarsi dagli stereotipi su cui si reggono da decenni le commedie roman-tiche di tutto il mondo.Ignacio Pablo Rico, Miradas de cine

Boxtrolls. Le scatole magiche (3d)Di Anthony Stacchi e Graham Annable. Stati Uniti 2014, 100’●●●●● Gli abitanti di Cheesebridge sono terrorizzati da orribili creature che vivono nelle fo-gne. Dai produttori di Coraline e ParaNorman non potevamo aspettarci un classico cartone per famiglie. In Boxtrolls il grottesco prevale su ogni altro aspetto. Portateci pure i bam-bini, ma non sorprendetevi se a metà fuggiranno via urlan-do. Tom Huddleston, TimeOut

The look of silenceJoshua Oppenheimer (Danimarca, Regno Unito, Finlandia, Indonesia, 124’)

PasoliniAbel Ferrara (Stati Uniti, 86’)

Anime nereFrancesco Munzi (Italia, 100’)

Una promessa

I consigli della

redazione

In uscita

Sin City. Una donna per cui uccidereDi Frank Miller e Robert Rodri-guez. Con Mickey Rourke, Josh Brolin, Eva Green. Stati Uniti 2014, 102’●●●●● I ilm diretti da Frank Miller e Robert Rodriguez sono un esercizio per raggiungere la parte più noir del noir, per en-trare in un universo oscuro co-sì assoluto che non potrebbe essere più oscuro. Non sarà un’ambizione particolarmen-te profonda ma ha parecchi punti a suo favore. Come il primo ilm della serie Una donna per cui uccidere mescola alcune storie scritte e disegna-te da Frank Miller. Alcune si svolgono dopo i fatti raccon-tanti nel primo ilm, altre pri-ma, attribuendo alla pellicola una piacevole qualità elastica di sequel e prequel simulta-nei. Anche questa volta la ir-ma graica è dinamica e il cast è di prim’ordine. Insomma in diversi modi Sin City 2 rappre-senta un miglioramento del primo capitolo. Nessuno dei quali, ahimé, suicienti per impedirgli di essere nel com-plesso un po’ deludente. Nel 2005 il primo Sin City ofrì una parata di orrori hardboiled (dal cannibalismo all’orribile ma-niaco dalla pelle gialla) che anche se all’epoca non costi-tuivano il motivo principale per andare a vedere il ilm, con il tempo sono rimasti me-morabili. E iniscono per ren-dere banale l’ultraviolenza sti-lizzata del sequel. Lo stile visi-vo, anche se impressionante, nel giro di dieci anni ha perso molta della sua forza. Ci han-no fatto aspettare a lungo, ma gli eccessi stilistici del primo ilm non sono stati superati. Christoper Orr, The Atlantic

Sin City

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Libri

Un saggio della studentessa di medicina Giulia Enders si occupa di un organo di cui non si parla abbastanza Il fatto che Darm mit Charme (Il fascino del colon) abbia venduto circa sessantamila co-pie in due settimane forse di-mostra che molti lettori voglio-no superare i preconcetti che ci fanno associare l’intestino a qualcosa di disgustoso. Il cuo-re, i polmoni e addirittura il fe-gato beneiciano di un’imma-gine decisamente più “pulita” rispetto al lunghissimo tubo, associato soprattutto alle feci e ai batteri, che ci permette di digerire e che inisce con l’in-nominabile retto. “È più facile superare dei luoghi comuni quando si ha a disposizione una buona conoscenza degli argomenti”, aferma l’autrice,

Dalla Germania

Ode all’intestino

Nicola LagioiaLa ferocia Einaudi, 424 pagine, 19,50 euroDei tre romanzi di Lagioia, Occidente per principianti cor-reva su e giù per un’Italia vita-le e grottesca, era un romanzo “geograico”, Riportando tutto a casa evocava gli anni ottanta delle nuove ricchezze e trage-die (la droga con la sua strage di giovani), da ottimo roman-zo “storico”, mentre La ferocia si concentra sul presente di una nuovissima borghesia cre-sciuta sulla prepotenza di un capofamiglia senza scrupoli. È

di Bari e dell’Italia che si parla secondo un modello prossimo al noir, ricco di salti indietro e in avanti, e confrontando la crudeltà sociale con quella na-turale, in una sorta di scambio o confronto etologico tra uo-mini e animali privo di tregue e compassioni.

Vittime come sempre i più deboli, la giovane Clara che muore già nelle prime scene, forse suicida, forse uccisa da qualcuno dell’ambiente in cui si è accanita a buttar la vita al-le ortiche per disgusto di sé e dei suoi e di tutto. Se in Ripor-

tando tutto a casa si narrava l’ascesa di questo mondo, in questo potente e controllatis-simo dopo se ne narra il rapido declino di fronte alla crisi e all’incapacità di dare ordine e senso a un’epoca che li riiuta, a una società senza progetto oltre la violenza della rapina. Storia di famiglia, di ricchi, di italiani, di un’umanità oscena-mente sibrata, stravolta. È nel rapporto, quasi incestuoso, di Clara con il mite fratello Mi-chele che se ne fugge altrove, che forse ci sarebbe speranza, chissà. u

Il libro Gofredo Foi

Umanità stravolta

Italieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana la giornali-sta israeliana Sivan Kotler.

Daria BignardiL’amore che ti meritiMondadori, 252 pagine, 18 euro

●●●●●Aal-maa-Maa-ioo è un richiamo. Un nome, anzi due nomi, Alma e Maio, e due anime profondamente legate al punto di divenire una cosa sola. Inseparabili, come il male e l’amore, due elementi presenti entrambi nella citazione di Max Scheler che apre il libro. Nel suo quarto romanzo, scritto con mano dolce e sicura, Daria Bignardi si supera, grazie alla capacità di costruire personaggi completi e credibili. Il mondo afettivo familiare propone numerose sfumature di vita quotidiana. La magia che rende unite le famiglie rimane il vero mistero intorno al quale ruota questo giallo emotivo o “thriller esistenziale”, nel quale i misteri e le scomparse diventano un pretesto o comunque un invito a una ricerca interiore e solitaria. Il ritmo narrativo, anche se non costante, ci tiene agganciati alla vicenda soprattutto nella parte iniziale e inale del romanzo. Alcune scene sono descritte in modo preciso e attendibile e anche per questo rimangono impresse nella memoria colmando alcune pause. Un bel libro che indaga sul mistero del male e dell’amore e sulla consapevolezza di non meritare sempre quest’ultimo anche di fronte a singoli frammenti di felicità che sofocano terribili segreti e sensi di colpa.

Giulia Enders, studentessa di medicina di 24 anni. Prose-guendo una sua ricerca per l’università, Enders ha deciso di avventurarsi in un terreno ancora non suicientemente esplorato. Non solo per supe-rare dei tabù, ma per divulgare nozioni mediche molto utili

che di solito sono riservate agli specialisti. La futura gastroen-terologa ha deciso di difonde-re il suo sapere anche per ri-durre la distanza tra i semidei in camice bianco e i comuni mortali pazienti. Frankfurter AllgemeineZeitung

Cultura

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John BergerCapire una fotograiaContrasto, 263 pagine, 19,90 euro

●●●●●Questa nuova antologia curata da Geof Dyer comprende più di venti saggi di John Berger sulla fotograia, ed è una lettu-ra essenziale per chiunque sia interessato a capire il potere di questo mezzo d’espressione onnipresente. Il volume, che copre un arco di circa qua-rant’anni, comprende saggi sulla foto del 1967 del cadave-re di Che Guevara, sul signii-cato delle fotograie (“si impa-ra a leggere le fotograie così come si impara a leggere le im-pronte dei piedi o i cardio-grammi”), sullo shock prodot-to dalle immagini di guerra (che depoliticizzano le cause dei conlitti, accusando “nes-suno e ciascuno”), e una bril-lante meditazione sul ritratto di tre agricoltori vestiti in mo-do elegante nel 1914, scattato da August Sander, in cui Ber-ger analizza gli abiti come sim-bolo dell’egemonia culturale gramsciana e del “potere se-dentario” – “il potere dell’am-ministratore e del tavolo delle riunioni”. Ci sono anche saggi penetranti su Paul Strand, Wil-liam Eugene Smith, André Kertész e Henri Cartier-Bres-son. Come sempre negli scritti di Berger, l’aspetto teorico è nutrito dalla rilessione politi-ca e da una umanità profonda e sentita.PD Smith, The Guardian

Percival EverettPercival Everett di Virgin RussellNutrimenti, 267 pagine, 16 euro

●●●●●Nel romanzo secco e sconvol-gente di Percival Everett c’è solo un momento in cui il let-tore sente di stare su un terre-no narrativo sicuro, ed è quan-

do l’autore dedica il libro a suo padre, Percival Leonard Eve-rett, morto nel 2010. Da lì in poi abbiamo a che fare con un libro in cui l’autobiograia si mescola con la inzione, i per-sonaggi cambiano continua-mente identità e le trame si spezzano in frammenti diici-li da ricomporre: tutti i vezzi della narrativa sperimentale sono utilizzati e sovvertiti a servizio di una potente medi-tazione sulla perdita. Quando il romanzo comincia, i due Percival Everett conversano in un centro di assistenza per an-ziani, dove il padre che ha 78 anni, è in sedia a rotelle e or-mai vicino alla morte, passa il tempo raccontando storie al iglio scrittore, storie bizzarre che si dissolvono a metà stra-da. Il lettore ripenserà ad Am-leto che incontra lo spettro del padre e i sentimenti di incer-tezza e disperazione che quell’apparizione scatena. Al-lo stesso modo, nel romanzo di Everett, capiamo presto che il personaggio dell’anziano Everett forse sta parlando solo a tratti o forse per niente, che potrebbe essere in coma o già morto, e che la sua voce è quella del iglio, che cerca di prolungare una vita che non può essere prolungata. La no-ta di tristezza espressa nella dedica echeggia attraverso i relitti della narrazione, rag-giungendo un tono di straor-dinaria angoscia. Una meta-inzione profondamente com-movente.Sam Sacks, The Wall Street Journal

Patrick WhiteIl giardino sospesoBompiani, 185 pagine, 18 euro

●●●●●Fino al 2006 pochi sapevano che esistesse Il giardino sospe-so, il nuovo libro di Patrick White, morto più di vent’anni

Giacomo Di GirolamoDormono sullacollina (Il Saggiatore)

Leila Guerriero Una storia semplice(Feltrinelli)

Charles Jackson Giorni perduti(Nutrimenti)

I consigli della

redazione

Chimamanda Ngozi AdichieAmericanahEinaudi, 466 pagine, 21 euro

●●●●●Qual è la diferenza tra un afroamericano e un america-no-africano? Questa doman-da fa nascere una profonda di-scussione sul tema della razza nel terzo romanzo di Chima-manda Ngozi Adichie, Ameri-canah. La nigeriana Adichie, che ora si divide tra la sua pa-tria e gli Stati Uniti, è una pen-satrice e scrittrice di straordi-naria autoconsapevolezza, che ha la capacità di criticare la società senza scherno, con-discendenza o spirito polemi-co. Americanah parla di cosa vuol dire essere neri in Ameri-ca, in Nigeria e nel Regno Unito, ma è anche una disse-zione chirurgica condotta con mano ferma sull’universale esperienza umana.

È la storia di una donna ni-geriana intelligente e determi-nata di nome Ifemelu che, do-po aver lasciato l’Africa per gli Stati Uniti, attraversa alcuni anni molto diicili prima di laurearsi, aprire Razzabuglio, un blog sui neri americani scritto “da una nera non ame-ricana”, e vincere una borsa di studio a Princeton. Ifemelu ha sempre nei pensieri Obinze, il suo idanzato dei tempi del li-ceo, un nigeriano altrettanto intelligente ma più delicato e schivo, che dopo la scadenza del suo visto lavora illegal-mente a Londra. Ifemelu e Obinze rappresentano mi-granti di un tipo nuovo, im-pantanati nell’insoddisfazio-ne. Non fuggono dalla guerra o dalla carestia, ma “dall’op-

Il romanzo

Gli altri migranti

primente torpore della man-canza di scelte”. Dove Obinze fallisce – presto è rispedito nel suo paese – Ifemelu ha succes-so, in parte perché cerca l’au-tenticità. Ben presto un even-to tremendo fa barcollare Ife-melu, e anni dopo, quando torna in Nigeria, ne è ancora ossessionata. Nel frattempo, a Lagos, Obinze ha fatto fortu-na come agente immobiliare. Anche se il libro rischia di tra-sformarsi nel semplice rac-conto del loro ricongiungi-mento, si estende ino a di-ventare un giudizio feroce sul-la Nigeria, un paese troppo or-goglioso per aver pazienza con gli americanahs – quelli che tornano in patria per smi-nuire i propri connazionali – e tuttavia assoggettato ai valori stranieri, a volte in modo in-consapevole.

Americanah è un romanzo incisivo ed empatico, che ci mette davanti alle sconcertan-ti realtà del nostro tempo. Non suona mai falso. Mike Peed, The New York Times

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Cultura

Libri

Gershom Scholem Le tre vite di Moses DobrushkaAdelphi, 231 pagine, 22 euro Un ebreo nato in Slovacchia alla metà del settecento studia da rabbino ed è educato nel milieu del leader religioso Ja-cub Frank, che aveva aferma-to di essere il messia e aveva predicato la necessità di so-spendere l’osservanza delle leggi mosaiche. Un cattolico che lavora per l’imperatore asburgico Giuseppe II scrive poesie e fonda una loggia massonica mistica ed esoteri-

ca: i fratelli asiatici. Un cittadi-no francese, entusiasta giaco-bino, pubblica opere per spro-nare il popolo a liberarsi dalle catene della religione, salvo poi inire ghigliottinato insie-me a Danton.

In un libro appassionante Gershom Scholem, amico di Walter Benjamin e grande esperto di mistica e di cabala, racconta come queste tre esi-stenze furono in realtà tre fasi di una sola vita e prova a capi-re come la persona che le at-traversò conservò sempre una sua coerenza mentre passava

dall’una all’altra, cambiando addirittura nome. Nato Moses Dobrushka divenne infatti Franz Thomas Edler von Schönfeld e inine Junius Frey.

Ancora più che il gioco del-le identità, a colpire il lettore è il fatto che non furono pochi in quell’epoca a condividere le scelte di Dobrushka, e che fa-cendolo, nel giro di una trenti-na d’anni parteciparono a una più generale evoluzione che condusse “dal messianesimo al nichilismo”: un’evoluzione che forse, oggi, vale la pena di tornare a studiare. u

Non iction Giuliano Milani

Da Giacobbe ai giacobini

fa. Romanzo incompiuto, che si può deinire un capolavoro in divenire. Il mondo che de-scrive è quello tipico di White, eppure è fresco e originale: due bambini, Eirene Sklavos e Gilbert Horsfall, tutti e due lontani da casa (rispettiva-mente la Grecia e Londra in tempo di guerra) sono stati trasportati a Sydney e aidati alle cure della signora Bulpit, una vedova inglese spinta da un intermittente senso del do-vere a ospitare i piccoli nella sua casa sospesa su una sco-gliera. Con sapiente disinvol-tura, Il giardino sospeso si muo-ve dalla prima alla seconda al-la terza persona, dal punto di vista di Eirene a quello di Gil-bert, della signora Bulpit e di altri, dando voce agli intensi desideri – emotivi, sessuali, so-ciali, creativi, spirituali – che sono il contrassegno dell’ope-ra di White. Questo schizzo in-compiuto è la tarda prova vir-tuosistica di un maestro, ma schizzo in questo caso è la pa-rola adatta. È proprio negli

schizzi dei grandi pittori che ci avviciniamo all’energia grezza dei creatori. Leggendo Il giar-dino sospeso si ha un’impressio-ne simile.Jane Gleeson-White, Sydney Morning Herald

Nickolas ButlerShotgun lovesongsMarsilio,317 pagine, 18 euro

●●●●●Alcuni libri sono l’equivalente letterario di un tizio che ti af-ferra per la gola e ti ordina di ascoltarlo. Altri, come questo romanzo di Nickolas Butler, ti strisciano addosso lentamen-te, trovano una via per pene-trare nella tua mente inché non è la loro storia quella che senti. Visto in supericie, que-sto racconto di quattro uomini che crescono insieme nel Wisconsin rurale è uno sguar-do semplice sulla natura dell’amicizia: le bugie che di-ciamo e i segreti che serbiamo, le trappole in cui cadiamo e i piccoli compromessi dell’età. Il suo potere deriva dalla sua

onestà e dal modo in cui l’au-tore dà pari valore ai piccoli e ai grandi momenti della vita. Il nostro eroe è Henry, un uomo tranquillo, che parla piano e pensa profondamente. Manda avanti la fattoria paterna e ha sempre saputo che questo sa-rebbe stato il suo ruolo. Per lui la vita è un afare misero e i-nanziariamente precario, alle-viato dall’amore della moglie e dei igli. Invece Lee, il migliore amico di Henry, aveva sempre saputo che avrebbe lasciato il Wisconsin. Lee è una star del-la scena folk, eppure la fama e la ricchezza gli servono solo a struggersi per una vita diversa. Butler descrive acutamente il successo, come lo si guadagna e come lo si perde. Ma il suo è un romanzo sulle vite ordina-rie. Un inno ieramente senti-mentale all’esistenza di perso-ne che troppo facilmente igno-riamo, una celebrazione ma-gniicamente scritta del potere tenace di diversi tipi di amore.Sarah Hughes, The Independent

Educazione

DR

William DeresiewiczExcellent sheep Free PressDeresiewicz, ex professore di inglese a Yale, sostiene che le università statunitensi non in-segnano più a pensare in modo innovativo perché hanno spo-stato l’attenzione dagli studi umanistici a materie conside-rate più “pratiche”.

Michael S. RothBeyond the university Yale University PressRoth, presidente della Wesle-yan university (Connecticut), traccia la storia degli studi umanistici negli Stati Uniti, mettendone in luce l’impor-tanza attuale.

Harry LewisExcellence without a soul PublicAfairsStimolante saggio che analizza le ragioni per cui le università d’élite degli Stati Uniti, come Harvard, hanno abbandonato la loro missione principale, quella di educare gli studenti, oltre che istruirli. Harry Lewis è professore di computer science ad Harvard.

Dana GoldsteinThe teacher wars DobledayVivace e ricca storia di circa duecento anni di iniziative e ri-forme nella scuola pubblica statunitense. Goldstein è una giornalista di New York che si occupa principalmente della scuola pubblica.Maria Sepausalibri.blogspot.com

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Cultura

LibriRicevuti

Fumetti

Viaggio schizofrenico

Jim Henson, Jerry Juhl, Ramon K. PerezTale of sandPanini 9L, 152 pagine, 24,90 euro Preso dal successo crescente dei suoi anarchici pupazzi del Muppet Show e di Sesame Street, Jim Henson abbando-nò l’idea di un lungometraggio con attori, ma dai toni visiona-ri, di cui aveva scritto la sce-neggiatura (tre versioni tra il 1967 e il 1974) insieme all’ami-co scrittore e buratti naio Jerry Juhl. Rimasta sepolta negli ar-chivi della Jim Henson Com-pany, ora questa Storia di sab-bia rivive come romanzo a fu-metti psichedelico e coloratis-simo grazie alla iglia di Hen-son, Lisa, oggi presidente della compagnia.

Henson passò dal suo amo-re per Disney alla passione per gli sperimentatori della visua-lizzazione dell’astratto grazie alle animazioni del celebre Norman McLaren. E qui si ve-de. Il protagonista parte da un “non luogo” (una cittadina si-

tuata nel deserto che sembra uscita dall’immaginario pre-fabbricato e plastiicato statu-nitense) per passare in altret-tanti non luoghi e giungere, con sconcerto e assurda felici-tà, al punto di partenza.

Sulla strada s’imbatte in un’ininità di situazioni e per-sonaggi incongrui che sem-brano ectoplasmi generati dalla mente di una persona schizofrenica perché incapace di adattarsi ai cambiamenti di un mondo caotico e insensato, il tutto sottolineato dal mon-taggio delle sequenze nell’im-paginazione vorticosa delle tavole.

Sembra quasi di essere dal-le parti del ilm Hellzapoppin’ o del Jim Thompson messo in scena da Terry Gilliam in Pau-ra e delirio a Las Vegas, e mal-grado il segno graico di Ra-mon K. Perez non sia dei più originali, oltre all’efetto di spaesamento che fa rilettere, è assicurato il divertimento puro.Francesco Boille

Ugo Mattei e Alessandra QuartaL’acqua e il suo dirittoEdiesse, 138 pagine, 12 euro La ricostruzione della campa-gna referendaria sull’acqua come bene comune in Italia e la deinizione normativa del servizio idrico integrato e dei suoi modelli di gestione.

Emanuele MacalusoI santuariCastelvecchi, 92 pagine, 12 euro Un viaggio nell’Italia degli an-ni settanta, dove la maia, la massoneria e i servizi segreti gestiscono la politica e l’eco-nomia del paese.

Stephen KingMr. MercedesSperling & Kupfer, 470 pagine, 19,90 euro Una Mercedes grigia piomba su una folla di persone in cer-ca di lavoro. Un anno dopo un poliziotto in pensione riceve un misterioso messaggio.

Marco MalvaldiIl telefono senza iliSellerio, 192 pagine, 13 euro Una nuova avventura per i vecchietti del BarLume.

Blaine HardenFuga dal Campo 14Codice, 290 pagine, 16,90 euro La storia di Shin Dong-hyuk, nato in un campo di prigionia della Corea del Nord grande come Los Angeles, che riesce a fuggire negli Stati Uniti.

CiscoOh belli ciao!ciscovox.it, 214 pagine, 14 euro Viaggi interminabili, album di successo, incontri, condivisio-ni, bevute, trioni, cadute e fu-riose litigate. Ecco la biograia romanzata del leader dei Mo-dena City Ramblers.

Ragazzi

Diventare cittadini

Angelo Petrosino Valentina in parlamentoIllustrazioni di Emily Sutton. Piemme, 271 pagine, 13,50 euroValentina è cocciuta, capar-bia, curiosa. Non si ferma alle apparenze. Vuole sapere e vuole che le persone attorno a lei conoscano il più possibile. Valentina vuole essere cittadi-na e non limitarsi a pascolare nella vita senza capire nulla. È una ragazza, ma già si preoc-cupa del suo essere donna. Ed ecco che magicamente questa sua curiosità innata la porta a esplorare una delle cose più belle che l’Italia ha prodotto, la costituzione della Repub-blica italiana. Tutto comincia quando Valentina e i suoi compagni di scuola, con la su-pervisione della maestra Lin-da, partecipano a un concorso del ministero dell’istruzione. I vincitori del concorso potran-no andare a Roma a presenta-re il loro disegno di legge in parlamento. Una responsabi-lità bella grossa insomma. Ma come si fa una proposta di leg-ge? Valentina si addentra nei meandri della costituzione, degli emendamenti, dei diritti ancora negati.

Questo la porterà a fare degli incontri speciali, come quello con la stafetta parti-giana che incoraggia i giovani scolari a fare di più perché l’Italia è ancora piena di disu-guaglianze nonostante le tan-te lotte fatte. Petrosino, che è stato maestro elementare, in-troduce i ragazzi a concetti complessi. E parola dopo pa-rola la politica diventa meno dura da digerire. Igiaba Scego

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Cultura

1 Imogen Heap Cycle song Un trekking in Bhutan

raccogliendo tutti i suoni che ne conseguono: gli yak, il tiro con l’arco, i passi nella neve, le preghiere dei monaci e un sac-co di campanelle. È una delle tante storie dal mondo che la cantante raccoglie nel suo nuovo album Sparks, realizzato in crowdsourcing con suoni in-viati dai fan, suoni sponsoriz-zati, suoni testimonianza, e decine di vocine sue sovrainci-se, con un tocco che ricorda un poco il Peter Gabriel dei bei tempi, e anche gli azzeccati collage sonori di Matthew Herbert per tutto un mondo di ricicli e tricicli.

2 Ólöf Arnalds Patience E intanto, in un’altra re-

gione del medesimo territorio di yak, yogurt, eli, ghiacciai e polifonie iterative, riecco una nipotina di Björk (passaporto islandese a sua volta, la voce meno spigolosa, un approccio soft living e una formazione da cellista) che intinge le sue lin-de corde vocali nel pop elettro-nico e molto tattile di Palme, nuovo album che la vede inte-ragire in studio con colleghi molto hipster di nome Gunnar, e insomma ne esce tutta una psichedelica dolcezza da tra-sognato brunch all’Hangar Bi-cocca, ma con quella pace in-teriore del grande nord.

3 Raury God’s whisperEra lì, imboscato nei tito-

li di coda di Lucy di Luc Besson dopo la canzone di Damon Al-barn, quasi un premio per chi non si stufa a vedere tutti i no-mi, tutta questa gente da met-tere a borderò, il catering di Taipei e il parrucchieri di Pari-gi. Ma questo è un 17enne di-sarmante black folker di Atlan-ta che sente il sussurro di Dio: “facendo delle opere belle, buone e generose”, per dirla con Giovanni Segantini, cia-scuno di noi può attingere a qualcosa di divino dentro di sé. Questa canzone in fondo ai ti-toli di coda comunica lo stesso concetto. Mica male.

MusicaDal vivoLust For Youth Milano, 9 ottobre, associazioneohibo.it; Roma, 10 ottobre, circoloartisti.it; Padova, 11 ottobre

Swans + Pharmakon Torino, 9 ottobre, hiroshimamonamour.org; Bologna, 10 ottobre, estragon.it; Roma, 11 ottobre, circoloartisti.it; Milano, 12 ottobre, alcatrazmilano.com

Yann Tiersen Bologna, 11 ottobre, estragon.it

Gruf Rhys Bologna, 10 ottobre, covoclub.it; Torino, 11 ottobre, spazio211.com

Honeyblood Bologna, 11 ottobre, covoclub.it

Special Providence Bologna, 10 ottobre, locomotivclub.it

Black Stone Cherry Milano, 11 ottobre, magazzinigenerali.it

Morrissey Roma, 13-14 ottobre, atlanticoroma.it; Milano, 16 ottobre, linear4ciak.it

Thom Yorke ha pubblicato un album con BitTorrent, il re del ile sharing

Non è una novità: a Thom Yorke, il cantante dei Radio-head, piace essere un punto di riferimento per chi cerca di distribuire la musica in for-mato digitale scavalcando il monopolio della grande in-dustria. Nel 2007 l’album della sua band, In rainbows, si poteva acquistare online a prezzo libero, e l’anno scorso Yorke ha fatto un duro attac-co al servizio di streaming Spotify. Ora, per vendere il suo nuovo album Tomorrow’s modern boxes, il cantante ha scelto un servizio a pagamen-

to di BitTorrent, inora popo-lare soprattutto per scaricare ile illegalmente.

“È un esperimento per ve-dere se il grande pubblico rie-sce a usare questo program-ma”, ha dichiarato Yorke. “È il primo sistema che mette in contatto diretto l’artista e i suoi fan”, dice Matt Mason, responsabile per i contenuti

di BitTorrent. “Tutto nasce dal lavoro fatto insieme a Yorke e al suo produttore Ni-gel Godrich. Noi siamo un’azienda di tecnologie, sia-mo bravi a spostare i ile. Ma non siamo capaci di fare i li-bri, i dischi o i ilm. Quindi cerchiamo di lasciar gestire la vendita dei prodotti diret-tamente a chi li fa”. Il parere di Mason sulla recente pro-mozione del nuovo disco de-gli U2, regalato a tutti gli utenti di iTunes, è impietoso: “Mezzo miliardo di persone si è trovato nel telefono un disco che non voleva: mi sembra una pessima idea”. Stuart Dredge, The Guardian

Dal Regno Unito

Il nuovo fronte digitale

Playlist Pier Andrea Canei

Soundsourcing

Morrissey

Thom Yorke, 2013

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Album

Leonard CohenPopular problems(Columbia)●●●●●

Alcuni non diventano mai adulti, altri sembrano nascere già anziani. Tra i musicisti rock, la prima categoria preva-le con percentuali allarmanti, mentre l’esempio più evidente della seconda è Leonard Cohen. Il cantautore canadese ha aumentato la sua popolarità nel corso degli anni, diventan-do un faro per un’intera gene-razione. Ma soprattutto ha sa-puto mantenere il buon umo-re, senza farsi travolgere dalle miserie della società contem-poranea. Pubblicato in occa-sione del suo ottantesimo compleanno, Popular problems vede Cohen rispolverare il ca-ratteristico ringhio baritonale per proporci nitide metafore sulle delusioni sentimentali e sull’immoralità della politica, piene di umorismo. Le canzo-ni, sorprendentemente sem-plici e dal ritmo rilassato, sono dominate da un organo vaga-mente blues e dal piano elettri-co, con i cori femminili ormai tipici del suo sound. Andy Gill, The Independent

Aphex TwinSyro(Warp)●●●●●

Sono passati tredici anni dall’ultimo album di Aphex Twin, Drukqs, e il nuovo disco appena arrivato solleva subito una domanda: perché proprio ora? Richard D. James non ha più niente da provare a nessu-no. Negli anni novanta ha for-se prodotto il miglior album di musica ambient di sempre, Se-lected ambient works volume II, del 1994. Ora è tornato. Grazie a Dio, perché Syro è un disco

troppe melodie che spingeva-no per uscire fuori, e lui è stato costretto a farle andare. Bene così. Noi ringraziamo e ora ci chiediamo quando arriverà il prossimo disco.Louis Pattison,

New Musical Express

Tony Bennett & Lady GagaCheek to cheek(Interscope)●●●●●

Questi due italoamericani hanno più cose in comune di quel che verrebbe da pensare. Sono tutti e due cresciuti im-mersi nel jazz e condividono il culto delle grandi canzoni de-gli Stati Uniti. È lei che ha più da guadagnare dall’album, che vede questa coppia inedita swingare allegramente attra-verso undici classici. Tutti so-no convinti che il talento di Lady Gaga dipenda da Auto-Tune, ma Cheek to cheek rivela una cantante dalla voce calda e profonda. La coppia dà il me-glio di sé nei pezzi più veloci, dove i sessant’anni di diferen-za tra i due svaniscono, e in Goody goody lei che si scatena nelle improvvisazioni, mentre Bennett resta tranquillo, è uno spettacolo. Gaga dovrebbe fa-re cose del genere più spesso. Caroline Sullivan, The Guardian

Tweedy

Sukierae(dBpm)●●●●●

Jef Tweedy è un autore incre-dibilmente versatile, e per ca-pirlo basta pensare a quello che ha prodotto con i Wilco. È un musicista che contiene moltitudini, abilmente rappre-sentate in Sukierae, album d’esordio dei Tweedy, nome appropriato per un duo com-posto da Jef e dal iglio diciot-tenne Spencer, alla batteria. Valzer malinconici, distorsioni elettriche improvvise, som-messi brani folk: le specialità del frontman dei Wilco ci sono tutte. Low key, una vera mera-viglia pop, è irresistibile. Flo-wering, con le sue chitarre alla Nick Drake, scorre disinvolta. E, con la sua melodia strug-gente e le evanescenti voci di sottofondo, Nobody dies any-more è semplicemente stupen-da. Brani come questi rendono grande un disco che, con 20 tracce in 72 minuti, non proce-de sempre agilmente. In ogni caso i molti pezzi riusciti can-cellano quasi il ricordo di quel-li mediocri. Jef Tweedy si con-ferma un artista sorprendente-mente dotato, e Spencer è una felice sorpresa. David Brusie, A.V. Club

Marc-André HamelinJanáček: Sul sentiero di rovi, Schumann: Waldszenen, Kinderszenen

Marc-André Hamelin, piano (Hyperion)●●●●●

Schumann e Janáček sono più vicini di quel che sembra: la lo-ro è musica capace di tradurre istintivamente un sentimento o uno stato d’animo. Hamelin ci ofre uno Janáček vicino a Debussy e un limpido Schu-mann portato dal canto. Stéphane Friédérich,

Classica

meraviglioso: ci sono suoni che rappresentano la quintes-senza di Aphex Twin, ma che allo stesso tempo sembrano qualcosa che il musicista bri-tannico non ha mai fatto pri-ma, con una manciata di jam electro funk zeppe di melodie. Emblematico è il pezzo d’aper-tura minipops 67 (source ield mix), caratterizzato da beat in-termittenti, da uno stile vocale alla Windowlicker e una melo-dia che oscilla tra l’innocenza e l’inquietudine. È solo l’inizio. Poi arrivano i dieci minuti di XMAS_EVET10 (thanaton3 mix), un insieme di sintetizza-tori indistinti e beat molli. Syro è un disco che afascina e se-duce, e alla ine addirittura spiazza con Aisatsana, un bra-no sereno che rievoca Erik Sa-tie. Dicevamo, ma perché pro-prio ora Syro? Chi lo sa, forse è semplicemente perché nella testa di Aphex Twin c’erano

Lady Gaga e Tony Bennett

DR

Ten WallsWalking with elephants

WatermätBullit

The Magician feat. Years & YearsSunlight

Leonard Cohen

DR

DanceScelti da Claudio

Rossi Marcelli

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Cultura

Fotograia

Geof Dyer

Kim Ludbrook Pretoria11 settembre 2014

Susan Sontag ha scritto che le fotograie so-no imbattibili come prove, ma hanno un si-gniicato debole. Dimostrano che una per-sona era nel luogo in cui è stata scattata la foto e mostrano quello che stava facendo. Le testimonianze verbali possono essere ambigue, perché le persone si sbagliano, ricordano male o mentono. Come strumen-to investigativo, per determinare la colpe-volezza o l’innocenza di qualcuno, la mac-china fotograica è imprescindibile e anche oggi, nelle sabbie mobili dell’era digitale, la fede nella prova fotograica è intatta.

Ma cosa ci dicono le foto dei volti delle persone? Gli attori pensano che la faccia ri-veli molte cose del personaggio, anche se

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alla ine rimane inconoscibile. L’inconosci-bilità totale si ottiene facendo il minimo possibile, in modo che il volto debba essere scrutato in cerca di una risposta, ino a tro-vare ininite interpretazioni. Durante il pro-cesso a oscar Pistorius, temi come questo sono emersi in continuazione. in mancanza dell’equivalente di foto incriminanti o di una qualsiasi testimonianza diretta a parte quella dell’imputato, siamo stati costretti, con una certa frustrazione, a studiare la sua voce e il suo volto. La sua performance.

agli antipodi del minimalismo iconico alla Steve McQueen, Pistorius traboccava di emozioni. Con la voce rotta e tremante, gemeva, singhiozzava e vomitava, con le mani sulle orecchie per non sentire. Pensa-vamo che sarebbe crollato da un momento all’altro, schiacciato dai ricordi orribili, dal senso di colpa e dalla consapevolezza della duplice tragedia: quella di aver ucciso acci-dentalmente la sua idanzata reeva Steen-kamp e quello di dover afrontare un pro-cesso come imputato per il suo assassinio. abbiamo osservato Pistorius andare e veni-re, reagire a quello che veniva detto in tribu-nale, anche se non ci è stato permesso –

mancanza cruciale – di assistere alla sua testimonianza.

tuttavia, nonostante la quantità travol-gente di emozioni e di liquidi che fuoriusci-vano dalla sua bocca e dal suo viso, non è stato facile interpretare ciò che abbiamo visto. L’ipotesi più probabile è che da un certo punto in poi Pistorius abbia creduto nella sua innocenza. Da allora, come è stato detto, si è calato così a fondo nella parte che le contraddizioni della sua storia non sem-bravano essere frutto di evasività e menzo-gne, ma della persecuzione dell’accusa.

e alla ine ecco la foto della reazione di Pistorius alla sentenza. Speravamo che da qui trapelasse qualcosa. non è stato così, non poteva esserlo. Se intorno al collo aves-se avuto una medaglia d’oro, avrebbe potu-to benissimo essere in piedi sul podio, tra-volto dalle emozioni nell’ascoltare l’inno nazionale del Sudafrica. in realtà, siamo di fronte al capovolgimento dell’afermazione di Sontag: un’immagine inutile come pro-va, ma piena di signiicato. u lp

Geof Dyer è uno scrittore britannico,

autore di L’ininito istante (Einaudi 2005).

Una prova inutile

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Pretoria, Sudafrica, 11 settembre 2014. Oscar Pistorius alla ine del processo

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Jasper JohnsCourtauld gallery, Londra, ino al 14 dicembre Jasper Johns è noto per la sua reticenza. Non parla mai di sé perché preferisce far iltrare le notizie a poco a poco, con un’oscura intensità poetica, at-traverso la sua arte profonda-mente personale e provocato-riamente enigmatica. Negli anni cinquanta e sessanta ha prodotto solo capolavori, tutte reliquie che portano il segno di una delle più grandi storie d’amore dell’arte, quella tra Johns e Rauschenberg, amanti dal 1950. Il letto sporco di ver-nice di Rauschenberg traspor-tato al Moma dal suo loft di Manhattan, evoca notti di pas-sione. Sopra ci sono dei graiti di Cy Twombly, il terzo prota-gonista di questo triangolo amoroso di geni. Il loro legame emotivo formò i rispettivi stili fortemente personali, ma stra-tegicamente simili. Tutti e tre accennano costantemente alle storie che non hanno mai apertamente raccontato. Sulle grandi tele sensuali di Twom-bly, le stesse passioni segrete che Rauschenberg sfoggiava e Johns sublimava sono grandio-samente e romanticamente elaborate. Rauschenberg è morto nel 2008, Twombly nel 2011. È rimasto Johns e la nuo-va serie di lavori esposti alla Courtauld, realizzati dopo la morte di Twombly, parlano apertamente di amore, arte e morte. Partono tutti dalla stes-sa immagine: una foto di Lu-cian Freud scattata da John Deakin nel 1964. Fu trovata nello studio di Francis Bacon dopo la sua morte. Era stata strappata, piegata, dipinta. Ba-con era innamorato di Freud. L’immagine è lo specchio della vita e delle perdite di Johns. I quadri allontanano l’inevitabi-le: Johns gioca sulla soglia del-la morte. The Guardian

Cultura

Arte

Burning down the house X biennale di Gwanju, ino al 9 novembreDavanti all’ediicio allestito per la biennale di Gwanju c’è una spianata dove sono stati collocati due contenitori con dei fori. Guardando attraverso i fori si vedono dei cassetti che contengono resti umani: teschi e ossa. Appartengono a dei ca-daveri esumati in luoghi re-moti di tutto il paese: comuni-sti o presunti tali giustiziati tra il 1950 e il 1953. Dopo anni di silenzio, è cominciata la ricer-ca di queste fosse comuni. Mi-nouk Lim ha ilmato i discen-

denti delle vittime mentre si addentravano in foreste incan-tevoli che si sono rivelate fune-ree. In alcuni momenti le im-magini sono quasi insopporta-bili. Ha perino ottenuto che tutte le parti accettassero di vedere gli scheletri in movi-mento, una visione pietriican-te. Il pubblico è avvisato im-mediatamente che la biennale è dedicata alla storia nazionale e alla tragedia. Non poteva es-sere diversamente. Nel 1980 gli studenti della città di Gwanju si sollevarono contro la dittatura militare. Il 27 mag-gio furono massacrati

dall’esercito: duecento morti uiciali, più verosimilmente duemila. Nel 1995 inalmente il massacro è stato riconosciu-to e il 1995 è anche l’anno della prima biennale. La satira bur-lesca del militarismo statuni-tense secondo Edward Kien-holz, la satira fredda del potere maschile secondo Birgit Jür-genssen, il macabro della ca-panna buia di Eduardo Basual-do, gli incubi di Lee Bul: sono alcuni esempi di artisti che suggeriscono assonanze con il tema. Ci sono anche rivelazio-ni di artisti sconosciuti e ap-passionanti. Le Monde

Corea del Sud

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Lee Bul, Untitled (Cravings red)

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1. Sto per intervistare Youssou N’Dour. Sono seduto negli studi della sua emittente televisiva.

2. Questa settimana a Dakar hai imparato a control-lare la respirazione nuotando nell’Atlantico, il bagnino ti ha mostrato come trascorre le giornate sulla spiagget-ta di sassi vicino a Magicland, lungo la Corniche.

3. Sei pronto per l’intervista?, mi ha chiesto Koyo Kouoh in macchina mentre andavamo a Pointe des Almadies.

4. Chiudo gli occhi e immagino una versione kenio-ide della storia di Youssou N’Dour e di come ha incon-trato Neneh Cherry.

5. Youssou N’Dour è nato nel villaggio di Balafon, in Senegal, nel 1959, qualche settimana do-po la grande siccità arrivata dopo la mor-te di un grande marabout, Issa Sall. La sua era una famiglia di grandi cantanti, grandi vasai. Youssou era un bravo mu-sulmano, un bravo cristiano. A scuola s’impegnava molto e, anche se non era il più brillante della classe e non riusciva a pronunciare come si deve la “r” francese, il preside gesuita, padre Yves Après, lo considerava diligente e svelto nell’assi-milare qualunque dolore o castigo gli ve-nisse somministrato dalla scuola. Era coerente.

6. Dopo il diploma in conservazione del suolo padre Après lo raccomandò per una borsa di studio in Francia, finanziata dal governo francese e da una famiglia franco senegalese chiamata Du Pain, che fornisce il gra-no per le decine di milioni di baguette vendute ogni mattina e ogni sera in tutta l’Africa francofona.

7. 1986. Il giorno prima della partenza per Parigi, il nonno di Youssou N’Dour uccide la sua ultima capra e gli compra un nuovo boubou azzurro, appena lavato e stirato con del nuovo Franco-Dash azzurro.

8. Mamadou, proprietario dell’unico pickup del vil-laggio, porta gli abitanti del villaggio all’aeroporto di Dakar. Così Youssou N’Dour arriva a Parigi per studia-re informatique pour le développement de la région du Sahel indossando ancora l’abito della laurea all’univer-sità Léopold Sedar Senghor e portando tre boubou nella valigia (uno per le occasioni speciali, due per tutti i gior-ni). Il suo bagaglio a mano è una ventiquattrore di pelle comprata da suo zio nel 1956 quando studiava in Ma-rocco, e in questa ventiquattrore ci sono tutti i suoi atte-stati, il certiicato di vaccinazione per la febbre gialla, un album di foto e qualche gris-gris.

Ora è solo una questione di accelerazione

Youssou N’Dour non è nato in un villaggio. Dakar è sempre stata afropolitana. Dal primo giorno. Dakar non ha nessuna voglia di diventare Brooklyn. O Nairobi.

9. Il giovane Youssou va matto per Dolly Parton e Johnny Hallyday, che ascolta su Radio-France Afrique. Nel suo villaggio è considerato un igo.

10. Ha appena passato la dogana, il viso gli brucia per l’umiliazione dopo che un agente della dogana mar-tinichese lo ha preso in giro facendo battute sgradevoli sul suo accento francese. Lo prende in giro perché in-dossa l’abito della laurea. Va a cambiarsi nel bagno de-gli uomini e mette il suo nuovo boubou.

Al ritiro bagagli si gira e colpisce maldestramente una signora, che perde l’equilibrio e cade, ansimando “TESTA DI CAZZO, CHE CAZZO FAI”.

11. Youssou è degno iglio di sua madre. Il suo corpo è stato allenato a muoversi con grazia e afabilità in ogni circostanza della vita sociale. Per questo il suo boubou non si spiegazzerà mai. Per questo non c’in-ciamperà mai sopra rovinando stofe di qualità. Per questo suo cugino lavora co-me capo uicio alla Banca per lo sviluppo africano ad Abidjan.

12. Neneh, i cui braccialetti di cuoio e argento sono sparsi per terra, alza lo sguardo e lì, vicino al naso, sente l’odore del cotone appena stirato, guarda e vede due sottili ginocchia blu polvere piegate,

e due mani scure che stringono i suoi bracciali con le borchie, alza lo sguardo e vede una cosa che non ha mai visto così vicino a sé in uno spazio pubblico: occhi gran-di, buoni e mortiicati. Youssou ha gli occhi lucidi.

13. Del moccio le spunta dall’anello al naso. Merda. Il labbro le sanguina. Se ne accorge solo perché mentre si alza aiutata da lui, gli occhi ancora pieni di ininito cotone azzurro stirato, vede il fazzoletto bianco più grande del mondo srotolarsi dal cielo azzurro di cotone sopra la vita di lui, e le tocca il labbro ed è subito profa-nato da chiazze di rosso e moccio.

14. “Chi sei, uno di quei principi africani fuori di te-sta?”.

15. Youssou arrossisce. “Per… eh… studi… Désertii-cation informatique pour le dévelopment de Sahel”.

16. Fa un sorriso grande come la penisola di Dakar e le mostra la lettera stirata dell’università di Rennes, che sua madre ha inilato in una cartellina trasparente di plastica.

17. A Neneh Cherry piace Youssou N’Dour. A tutti piace Youssou N’Dour.

18. Siamo arrivati negli studi della tv di Youssou N’Dour. Sto per intervistare Youssou N’Dour. Ci chie-

BINYAVANGA WAINAINA

è uno scrittore e giornalista keniano. Il suo ultimo libro è Un giorno scriverò di questo posto (66thand2nd 2013). Sarà al festival di Internazionale a Ferrara, dal 3 al 5 ottobre. Questo articolo è uscito su The Chimurenga Chronic con il titolo It’s only a matter of acceleration now.

Binyavanga Wainaina

Pop

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dono di aspettare un attimo.19. Patricia Tang, che scrive molto bene di musica

popolare in Senegal, ci spiega alcune cose interessanti sullo mbalax.

20. “Il sabar è unico. È tipico delle popolazioni wo-lof. È un tamburo suonato con una mano e una bacchet-ta. Molti altri tamburi si suonano con due mani o con due bacchette. Un altro aspetto interessante del sabar è che non si riduce ai ritmi complessi, ai poliritmi delle

varie parti che si uniscono, sono interessanti anche le composizioni lunghe, chiamate bakks”.

21. Non ho idea di come si balli lo mbalax. Ieri sera ero in un locale dove si esibiva un certo Tiziocaio Diop. Questi uomini alti e ossuti, neri come la polvere, sem-brano muoversi a scatti e ondeggiamenti. Ci sono vari tamburi che suonano vari ritmi molto velocemente, quindi non c’è un ritmo semplice a cui agganciare dei movimenti strutturati. Mi limito a ondeggiare. Dopo,

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Pop

gofo-disinvolto, scatto qua e là, sentendomi in sintonia con tutti, e poi sono fatto e lo zucchero comincia a esau-rirsi, e grondo sudore mieloso e mi metto a roteare en-trambe le braccia intorno alla testa, chinandomi a terra. Solo poche persone comprano birra. La musica dal vivo comincia dopo l’una di notte a Dakar. Balliamo ino all’alba.

22. Lo mbalax esisteva prima di Youssou. È stato lui a rinnovarlo, a ribattezzarlo e a farne un business.

23. Youssou N’Dour non è nato in un villaggio.24. I griot indossano jeans, ascoltano l’hip-hop, e la

roba loro la conoscono e la rinnovano bene. Dakar è sempre stata afropolitana. Dal primo giorno.

25. Dakar non ha nessuna voglia di diventare Brooklyn.

26. O Nairobi.27. Ieri sera nel locale mbalax c’erano gruppetti di

donne che ballavano vicino a me. Una di loro mi ha at-taccato, puntando il dito verso il mio petto. Ho pensato che volesse ballare e le ho rivolto qualche frullo di eli-cottero e lei si è fermata, con le braccia contro i ianchi, e mi ha issato con aria minacciosa.

28. Patricia Tang. “C’è un bakk che è stato composto dagli Mbaye Family Drummers, il gruppo di percussio-nisti con cui ho lavorato. È un bakk che chiamano Bakk de spectacle. È il loro bakk virtuosistico, che nessun’altra famiglia sa suonare. L’ho trascritto nel mio libro e se lo trascrivi usando la notazione occidentale occupa molte pagine. Ma dura quattro o cinque minuti. È molto com-plesso. Mi ci sono voluti mesi per impararlo, cioè, per impararlo a lezione di percussioni. A quanto pare molti dei percussionisti del complesso riuscivano a suonarlo dopo il secondo o il terzo ascolto”.

29. I senegalesi stanno sempre conversando dentro i loro tanti mondi poetici.

30. Non so perché la donna nel locale mbalax ce l’ha con me. Mi si pianta davanti, come i miei neuroni specchio, con gli occhi infuocati, e comincia a muove-re i gomiti vicino alla sua testa piegata, no, non è un frullo selvaggio di elicottero, è una meditazione piega-ta. Sto mandando a puttane la poesia. Ah. Avverto im-mediatamente la sua rabbia, sono privo di grazia, e lei ha deciso che il Senegal sta per crollare e diventare la Costa d’Avorio, un covo di individui ultrasecolari che si dimenano astorici e iperinfervorati sciogliendosi nelle loro tele cerate tropicali. E poi fanno a botte per strada. Devo imparare la poesia.

31. Hanno portato quattro sedie nel giardino di Youssou N’Dour.

32. Mentre venivamo qui Koyo mi ha chiesto: sei pronto per l’intervista?

33. I postumi di una sbornia sono meditazione. Que-sta mattina sono andato a nuotare a Magicland. Sentivo i toni lenti e pigri del mio cuore. Gli strumenti a iato della sera prima mi sbufavano intorno alle orecchie. Ho guardato fuori, verso la pancia dell’Atlantico, per-ché con i singhiozzi del vento la mia zampogna nausea-ta rischiava di goniarsi ed emettere pesce grigliato morto e riso.

34. PT: “Il griot in pratica prende dei valori tradizio-nali e prova a difonderli. È questo che fanno i griot e la

musica mbalax in generale, le canzoni tendono a essere didattiche. Ma sono sempre costruttive nel modo in cui consigliano alle persone come comportarsi. Ci sono poche critiche. Quelle sono tipiche dei cantanti di rap e hip-hop. Sono loro che criticano apertamente il gover-no, criticano la corruzione, roba del genere. Nella mu-sica mbalax trovi poche critiche, pochi attacchi diretti. Ancora una volta penso che sia dovuto al fatto che la musica mbalax nasce dalla tradizione dei griot, in cui ci si aspetta che l’artista celebri le persone, non che le stronchi pubblicamente, a meno che non se lo meritino proprio ”.

35. Lo mbalax di ieri sera mi ha lasciato discordante, con il suono rapido e violento delle bacchette che si per-cuotono tra loro nel mio mal di testa. Rapidissimo. Quella voce acuta e metallica in una lingua che non co-nosco è troppo sciropposa per oggi. Muovo il corpo per evitare che mi afoghi nello zucchero, che mi faccia ve-nire troppa nausea. Un lago di gin e tonic sta provando a eruttare dal cuore attraverso la gola. Mi rimane den-tro. Una mosca – lo fanno sempre – si avvicina in cerca dello zucchero che trasuda denso dalla mia pelle. Mi alzo e mi dirigo verso la spiaggia con un asciugamano sulla spalla.

36. Youssou N’Dour sta parlando delle diverse ge-nerazioni e di come ognuna sia guidata dal proprio obiettivo.

37. “I settori dell’arte e dello spettacolo non sono una priorità per la classe politica africana. C’è una certa libertà, una libertà di creare. È quello che succede nella musica… o nei ilm di Nollywood. Ci sono persone che provano a fare cose contando solo sulle proprie forze. Eppure queste cose funzionano. E funzionano proprio perché non sono una priorità per l’élite politica e per il governo. E grazie a questo loro scarso interesse per l’ar-te e la cultura e lo spettacolo, chi è attivo in questi campi è libero di fare cose, di lanciare iniziative. Si spiega così, in parte, perché siamo più bravi in questi campi”.

38. E nel tuo cervello strapazzato dalla sbornia, pen-si alle dense zuppe di sostanza organica che sono ap-parse in migliaia di storie della creazione: pantani, uova, vie lattee, tutte dalla madre originaria. Chiudi gli occhi quando ti tui con la testa in avanti. Vedi le stelle. Guardale in ogni notte di Dakar, minuscoli spruzzi di latte rigurgitato sul tetto nero notte dell’intero Sahel.

39. Youssou N’Dour sta parlando.40. “È anche una ricetta contro la frustrazione. Il

numero di persone che lavorano nel mondo dell’arte e dello spettacolo è impressionante, ma poche di loro ce la fanno. Si vedono sempre più persone della cosiddetta società civile nei settori creativi. Tutto questo nasce in gran parte dal loro passato e dalla frustrazione attuale, sono le persone che denunciano il sistema attraverso l’arte”.

41. Ieri il bagnino mi ha mostrato un nuovo modo per muovere le gambe e spingermi in avanti. L’altro ieri mi ha mostrato come prendere iato e schiacciare le lab-bra contro il naso mentre la testa entra in acqua per far uscire lentamente l’aria. Tre secondi pieni, poi fai la mossa a cuore con le braccia. Un cuore che spinge avan-ti i palmi religiosamente allacciati, le mani si tufano

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davanti alla tua testa fendendo l’acqua. Scalcia, fai la mossa a cuore 3D e torna al petto. Ancora. E ancora.

42. Youssou N’Dour sta parlando.43. “Qui se il settore informale decide di bloccare il

paese può farlo. Il peso economico di questo gruppo, che non ha appoggi, sta crescendo sempre di più. Mi piace molto questa immagine: un uomo in boubou che arriva nella sua Mercedes ed entra in banca con una va­ligetta diplomatica. Non è in giacca e cravatta, ma è ricco e di successo a modo suo. E quando chiedi se è un uomo del governo ti rispondono di no, ha un negozio al mercato. Sono cose che si vedono sempre più spesso”.

44. Sono in acqua. È ghiacciata e la nausea si è pla­cata. Riempio i polmoni con la testa fuori. Scalcio. Cin­que, sei, sette bracciate e trovo un ritmo.

45. “Penso che in Africa questa massa, quest’enor­me onda di giovani, che è molto importante ma non è

né controllata né strutturata dal governo, abbia dichia­rato una sorta di guerra allo status quo”.

46. “Le cose sono cambiate. Non si può più decidere di tenere nascoste delle informazioni. I giovani sanno. Possono uscire dalle loro case (imita il rumore delle di­ta su una tastiera) e scoprire tutto. Ora è solo una que­stione di accelerazione”.

47. Venti bracciate e non ho più stomaco, solo un misterioso formicolio interiore in fondo a un luogo freddo. Trenta e sento i nervi, poi il corpo fatto calore, poi più nulla tranne il ritmo che ondeggia e afonda. Nuoti da quando hai cinque anni. Ma questa sicurezza è nuova. Sotto di te, decine di migliaia di non più per­sone, non ancora schiavi, fantasmi, nel gelido verde Atlantico. Respira. Di nuovo sott’acqua. Come una preghiera.

48. Dico a Youssou: “Però il potere è sempre

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Storie vereDopo una rapina in banca a Mercedes, in California, la polizia aveva dei buoni elementi per identiicare il colpevole, che se n’era andato con 2.748 dollari: aveva dei grandi tatuaggi sul viso, sul collo e sulle braccia. Poco dopo Shawn Lee Canield, 25 anni, che corrispondeva alla descrizione, è stato fermato dagli agenti mentre s’inilava delle banconote nelle mutande ed è stato portato in questura per essere interrogato. Mentre saliva le scale, ha cominciato a perdere soldi dai pantaloni. Alla ine per terra c’erano esattamente 2.748 dollari. Canield è stato arrestato e ha confessato la rapina.

nelle stesse mani…”.49. Mentre nuotavo, una domanda tagliente mi ha

stordito le narici piene d’acqua e di sale. L’ho soiata fuori.

50. “Ora è solo una questione di accelerazione”. 51. 1559. La caduta dell’impero jolof e, presto, il

commercio atlantico degli schiavi, famiglie guerriere in subbuglio in tutta la Senegambia e oltre. Commercio di schiavi, tanti regni musulmani, e confraternite. Spargi­mento di sangue. Sangue sparso. Eppure. La maggior parte non si converte all’islam.

52. Più o meno nel periodo dell’arrivo dei francesi e dell’ascesa dei muridi, l’esaurimento di secoli di tumul­ti, guerre, incertezze. L’inizio di una cooperazione tra molte genti che oggi si chiama Senegal.

53. Youssou N’Dour sta parlando: “In Senegal sap­piamo che il potere appartiene alle persone. Ora lo sap­piamo, ne siamo certi. Nessuno può rubare un’elezione. Nessuno può dire che ci sarà un solo vincitore e quello sono io, come diceva Laurent Gbagbo: ‘Vinciamo o vin­ciamo’. Qui le persone sanno che sono loro a decidere. E questo cambia tutto”.

54. Questo non è il Kenya, dove il confronto tra i po­poli – la sete di sangue – sembra sempre appena comin­ciato. Qui le buone maniere sono state imparate con così tanto sangue per così tanto tempo che le persone hanno accettato di cooperare. Perché? Scaccio dalla mente le grida insanguinate di Westgate e mi rimetto a nuotare.

55. Il padre di Youssou era wolof. Sua madre serer. La maggior parte dei senegalesi parla wolof. La cultura wolof è diventata dominante.

56. Ma. Qui la cooperazione è complessa e civile.57. Sono quasi scoppiate violenze quando Abdou­

laye Wade ha provato a imbrogliare. La cooperazione le ha disinnescate. Questo non è il Kenya.

58. Tra le famiglie dell’élite serer – come quella della madre di Youssou N’Dour – esiste ancora una classe di sacerdoti, anche se i loro regni si sono spesso lasciati conluire nelle acque dominate dai wolof di gran parte del Senegal. Ma qui le persone sono state semplici cor­renti nei più ampi mari delle cose: grandi e antiche piat­taforme come il Ghana, l’impero Songhai, l’impero Jo­lof, il Mali – che si sono rotte in mille pezzi e tutte porta­no molte lingue, e compiti e ruoli diversi sono rimasti in ile e colonne che si confondono e svaniscono, e hanno ucciso e cooperato – e a volte queste cose si portano ostinatamente dietro della roba nelle nuove acque; per­ino complessi ritmi di percussioni che un tempo erano le parole di qualcuno, o forse no. Hanno portato lonta­no perino il rap, o forse no. Ma rap senz’altro. L’hip­hop è il sound del griot dopo la nave.

59. Ma qui esiste ancora lo stigma. Le caste. E molti strati e conini invisibili. Per un musicista griot? Senza un diploma universitario francese? Nessun politico in famiglia? Che vuole entrare in politica?

60. Youssou sta parlando: “Bisognava arrivare al punto in cui era ormai chiaro a tutti che chiunque avreb­be potuto guidare il paese, non solo un Senghor o un Sall, ma chiunque. Appartiene a tutti noi”.

61. Poi c’è la musica.

62. I senegalesi sono molto preparati. Qui quasi nul­la è lasciato al caso. I comportamenti sono controllati. Predeterminati da antiche e cocciute poesie. Come il primo chitarrista di Youssou N’Dour, Mamadou Jimi Mbaye, che prese un barattolo e delle corde per fabbri­care una chitarra e trasformò quei suoni nei suoni dello strumento a corde africano più complesso che ci sia, la kora.

63. Qui, in Senegal, qualcosa di Grande, Tagliente e Serer tira rapidamente la testa fuori dall’acqua più volte in ogni canzone di mbalax e fa un profondo respiro na­zionale per tutti.

64. A Dakar la maggior parte dei giovani serer non parla serer. Parla wolof.

65. Youssou N’Dour nella sua carriera celebra dei santi di tutte le principali confraternite musulmane. Ma sua madre viene da una famiglia di griot di griot. Questo secolarismo è una cooperazione tra incrollabili creden­ti che convivono con molte contraddizioni concordate e che riiutano di entrare nelle battaglie globali tra reli­gioni altrui. L’islam murido e africanizzato.

66. Perché serer? Perché nelle eruzioni, negli tsuna­mi, nelle tempeste di un millennio, in Senegal (quasi) solo i serer sono riusciti a non far diventare una cosmo­logia ricca, indipendente e ancora funzionante né Co­rano né Bibbia. Il cuore del sacerdozio è intatto, perino vivo.

67. Questi hanno pure un inno nazionale.68. “Fañ na NGORO Roga deb no kholoum O Fañ­

in Fan­Fan ta tathiatia”. Nessuno può far nulla contro il proprio vicino senza la volontà di Roog.

69. Chiedo a Youssou: “Ma il poeta, il griot, hanno un potere speciico in un sistema sociale, può succedere che lo perdano entrando nella realpolitik?”.

70. Youssou: “Sì. No. In passato era così. Se sei un griot come me… perché cos’è essere griot a parte il talen­to? È una questione di conoscenza. Oggi questa cono­scenza è su internet! [ride] Che tu sia a Touba o a Thiès, se ti stai chiedendo chi è Doudou N’Diaye Rose, trovi tutto lì! La storia di Cheikh Anta Diop. È tutto lì! La rete ha diminuito il lavoro del griot”.

71. Wikipedia: “I serer collegano il mito della crea­zione e il ruolo della parola nella nascita dell’universo. Due termini serer rimandano al verbo del mito della creazione: A nax e A leep. Il primo indica un breve com­ponimento narrativo che racconta un breve mito o un’espressione proverbiale ed è equivalente al verbo. Il secondo è più complesso e ingloba sia la parola che indica il mito della creazione sia la creazione stessa, e comincia con la frase Naaga reetu reet, così era all’ini­zio”.

72. Youssou N’Dour sta parlando. “Nell’album par­lo di alcune guide, in particolare Cheikh Ahmadou Bamba, che combatté gli europei perché volevano dif­fondere nuove religioni mentre lui cercava di predica­re l’islam, e così si oppose. Era tutto molto politico all’epoca”.

73. In questo paese a maggioranza musulmana su­i, in questo paese molto raramente cattolico. In que­sto paese a maggioranza pagana. In questo paese che si comporta come il paese più secolare, più paciico

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dell’Africa…74. Mamadou mi dice che nella storia del Senegal

solo UN personaggio pubblico ha dichiarato di non cre-dere in nessuna religione, neppure tradizionale. Ousmane Sembène. Marxista. Pubblicamente ateo.

75. Un aereo strilla sopra l’acqua diretto verso l’aero-porto, così mi giro sulla schiena, ruoto e guardo la spiag-gia e i corpi neri sono piccole serpentine tipograiche che corrono in lontananza. Migliaia di giovani uomini e donne inondano le spiagge ogni giorno per giocare, al-lenarsi, meditare.

76. Il Kenya sta collassando mentre scrivo. Bombe ieri, oggi. Morte. Quattromila somali arrestati e portati nel nostro stadio principale per essere controllati.

77. Il creatore dell’universo serer. Roog, l’Immensi-tà. Maschile e femminile al tempo stesso.

78. La mia testa si solleva, prendo iato, gli occhi si

aprono per cercare in lontananza la boa arancione che è il mio traguardo. In qualunque angolo di qualunque centimetro dove due senegalesi si riuniscono, accendo-no un piccolo fuoco e fanno un tè denso e zuccherato. Si riduce bollendo.

79. Tutto Twitter è la Nigeria che urla di dolore. #bring our girls back.

80. Chi è Youssou N’Dour?81. Un giocoliere di cose antiche. Un rinnovatore.

Come Cheikh Ahmadou Bamba, come Cheikh Anta Diop, come quel furbo saggio Senghor.

82. “Alcuni di loro piangono, altri cadono in uno sta-to quasi comatoso. Ci sono dentro”.

83. Senegal. Tieni il corpo sempre dentro le tue umane poesie d’acqua, dove tutte le correnti si parla-no, anche le tempeste. Risali spesso sulla terra per re-spirare. Continua ad allenarti. L’acqua e la terra e l’aria

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insieme sono sagge. Il tempo è ininito se hai la musica giusta. Il dramma basato solo sulla terra è ivoriano. Keniano.

84. A un certo punto, però, la terra ti convocherà là fuori perché tu renda conto del tuo allenamento.

85. Il mio corpo è caldo di zucchero. Non immagini la sensazione di zucchero quando il tuo cuore pompa il sangue a mille. Sgorga da un piccolo bollitore di stagno e spruzza tutto intorno i nervi del tuo cranio.

86. Wiki: Così Roog parlando fece l’universo.87. Acqua! Aria! TERRA!88. A leep descrive la scena del tempo primordiale

nei termini seguenti.89. Le parole balzano nello spazio, egli portava il

mare sulla testa, il irmamento sulle spalle, la terra nel-le mani.

90. Ora stai muovendo le gambe velocemente, han-no energia. Riesci a vedere la riva.

91. Youssou N’Dour sta parlando: “Se pensiamo al-la storia, dobbiamo ricordare gli scritti di Cheikh Anta Diop sul ruolo dell’Africa nell’umanità in generale, e in particolare sul suo collegamento con l’antico Egitto. Dobbiamo riprendere quei testi di Cheikh Anta Diop per capire più di quanto io possa spiegare ora, ma sap-piamo che ha aperto una strada. Il secondo punto è che ha scritto anche del rapporto tra l’islam… più precisa-mente tra un certo tipo di islam chiamato sui e quello che si nota qui, nel modo in cui le persone praticano la loro spiritualità come fossero in estasi”.

92. Youssou: “Se consideriamo attentamente tutto questo… perché Diop sta attirando la nostra attenzione su queste somiglianze… vediamo che ciò che là viene chiamato sui è simile ai talibé, che sono così disciplina-ti… alcuni piangono, altri cadono in uno stato quasi co-matoso… ci sono dentro”.

93. L’Africa Rotola in su in giù.94. “…che sono così disciplinati…”.95. La prima sera in Senegal, sei anni fa, a una con-

ferenza di Pen international, ti hanno portato, riluttan-te, al teatro del balletto nazionale. Io volevo andare a ballare. Ma l’Ospitalità Uiciale Senegalese era molto testarda. Dopo una breve infatuazione da liceale, hai trovato Senghor (serer) piuttosto noioso. Per un africa-no nato dopo l’indipendenza, i teatri nazionali sono si-nonimo di sonno e riti brutti. L’autobus ci ha messo una vita ad arrivare. Autobus in ila circondati da motoci-clette del governo. Una vita. Inchino, saluto.

Hai preso posto in un teatro ammuito. Eccoli che arrivano. I Ballerini Africani con i loro Cazzo di Gonnel-lini. Come nelle Recite di Fine Anno al Liceo.

Si muovevano rumorosi sul palco, passi vari di vec-chie e barbose afro-regine. Afro-re, vecchi con il gesso nei capelli. Bastoni da passeggio.

Aiii.Poi sono usciti due tizi con la kora. Io? La kora!? Ma

igurati…Non sono mica male. Un po’ tipo Salif Keita. Un po’

tipo world music fatta per bene. Ma solo un brano, per favore. Loro strimpellavano.

Poi Roog Sene, l’Immensità ha inondato il mondo di latte. Orgasmici Zampilli di Gioia Efervescente nella sala. No, non eravamo noi che applaudivamo, non eravamo noi balzati in piedi, ma seduti nelle pol-trone. Non era il tempo sospeso. Era il suono delle ko-ra, così forte. Così FOOORTE che sarebbe indecente registrarlo.

Ecco com’è architettato il mondo, anzi ecco come la kora ha architettato e creato l’universo, e come canti di numeri e parole hanno creato le anime. Quella notte ho pianto.

E ancora non sofrivo di diabete.Siamo usciti nel mondo insipido, strimpellando, de-

lusi dalle cose della terra, decisi a innalzare la terra ino alle corde.

Barcollo verso la riva. Sei pronto a intervistare Youssou N’Dour? u fs

Coma vigile: così è stato deinito lo stato della ricerca scientiica nei paesi dell’Europa meridionale. Buona salute sarebbe lo stato in Germania e nell’Europa del nord. La Francia sarebbe a mezza stra-da. Un quadro comparativo è stato abbozzato da Carlo Di Foggia sul Fatto quotidiano e ripreso nella “Lettre de l’éducation” di Le Mon-de: più che in Portogallo, Spagna, Italia, dove i centri di ricerca sono molto più devastati e avviliti dalla riduzione dei fondi e dalla perdita di autonomia, in Francia il mondo

della ricerca sarebbe ancora in grado di avere sussulti di protesta per cercar di scuotere l’opinione pubblica e forse il governo.

Un sussulto importante è l’ini-ziativa Sciences en marche. Libéra-tion ha seguito sin dall’inizio il movimento: un gruppo di ricerca-tori di Montpellier (biologi, etolo-gi, ingegneri, storici, politologi) ha lanciato l’idea che dalle città universitarie ricercatori con rego-lare permesso o congedo (non vuol essere uno sciopero) s’in-camminino verso Parigi. Coinvol-

gendo anche studenti (fuori orario di lezione), si muovono con mezzi propri, eventualmente “adottati” da privati per l’ospitalità. Meta: la Porte d’Orléans il 18 ottobre. A ogni tappa del cammino sono in programma iniziative per spiegare le proposte e le richieste dei vian-danti, molto moderate, ma con-crete, e per cercare di avvicinare l’opinione pubblica alla compren-sione della rilevanza civile, socia-le, economica della ricerca di ba-se. Adesioni stanno arrivando da parecchi paesi. u

Scuole Tullio De Mauro

Nuovi clerici vagantes

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Scienza

La vecchiaia fa bene al pianeta

L’invecchiamento delle società occidentali potrebbe avere un risvolto positivo. Malgrado i ti-mori per l’aumento delle spese

sanitarie, i costi astronomici delle pensioni e il calo della forza lavoro, sembra che l’in-vecchiamento della popolazione possa ri-portare le emissioni di anidride carbonica della Germania a livelli che non si vedeva-no da prima degli anni cinquanta.

L’età media aumenta nella maggior par-te dei paesi, soprattutto in quelli industria-lizzati, perché si vive di più e ci sono meno nascite. La Germania ha un tasso di fecon-dità di 1,4 igli per donna e un’aspettativa di vita di ottant’anni. La metà della sua popo-lazione ha 46 anni o più, un record mondia-le che condivide con il Giappone. Il paese ha inoltre un numero di abitanti oltre i 65 anni che supera del 60 per cento quello di chi ha meno di 14 anni. Secondo un rappor-to dell’inizio del 2014, elaborato per il mini-

stero delle inanze, i costi dell’invecchia-mento e la diminuzione delle entrate rica-vate dalle imposte sul reddito possono ri-durre il pil del paese del 3 per cento.

In base a un dettagliato studio sull’an-damento dei consumi per fasce d’età (pub-blicato su PlosOne), però, più grigio è sino-nimo di più verde. Fanny Kluge e i colleghi del Max Planck institute per la ricerca de-mograica di Rostock, in Germania, hanno scoperto che le emissioni di anidride carbo-nica pro capite nei paesi occidentali au-mentano progressivamente via via che i bambini diventano adulti e che gli adulti diventano più ricchi, ma dopo i sessant’an-ni, quando si va in pensione e si viaggia di meno, le emissioni scendono di circa il 20 per cento.

L’invecchiamento della popolazione complessiva di un paese ha sempre seguito lo stesso andamento, sostiene Kluge. Man mano che i igli del baby boom raggiungono la mezza età le emissioni salgono a dismi-sura, mentre diminuiscono con l’aumento dei pensionati. Se il tasso di mortalità supe-ra quello di natalità, la lessione viene ac-centuata dal calo della popolazione.

Kluge calcola che dal 1950 l’invecchia-mento ha prodotto in Germania un aumen-to del 30 per cento delle emissioni di anidri-de carbonica. Dopo il 2020, però, “con l’au-

I consumi per fasce d’età suggeriscono che in Germania il previsto aumento degli ottantenni farà calare signiicativamente le emissioni di anidride carbonica

Fred Pearce, New Scientist, Regno Unito

mento degli ultraottantenni e il calo della popolazione, le emissioni scenderanno ino a raggiungere, nel 2100, livelli precedenti al 1950”.

Pensioni e sanitàGli efetti positivi non si fermano qui, ag-giunge la ricercatrice. L’ipotesi allarmante che un giorno i pensionati supereranno i lavoratori potrebbe non avverarsi. Nel 2050 il numero di over 65 in Germania dovrebbe passare dall’attuale 21 per cento al 33 per cento. Ma l’esigenza di provvedere a più pensionati sarà compensata dall’aumento delle lavoratrici e dal calo delle nascite.

Certo, le spese sanitarie saliranno. Nel 2050 l’aspettativa di vita media per le don-ne in Germania potrebbe essere di no-vant’anni. Eppure, sostiene Kluge, studi recenti dimostrano che la maggior parte delle spese destinate agli anziani riguarda gli ultimi due anni di vita, a prescindere dall’età. Gli autori scrivono che l’aspettati-va di vita sana aumenta di pari passo con l’aspettativa di vita totale, eppure ammet-tono che il crescente tasso di demenza può modiicare questo andamento.

Anche se nel 2050 i pensionati saranno forse un miliardo e mezzo, secondo il nuo-vo studio questa prospettiva potrebbe non essere poi così funesta. u sdf

Sun City, Arizona 2014

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IN BREVE

Paleoantropologia La tecnica usata dalle popolazioni primiti-ve per costruire utensili in pie-tra, detta Levallois, sarebbe sta-ta sviluppata in modo indipen-dente da più gruppi. Le popola-zioni dell’Eurasia l’avrebbero messa a punto senza avere con-tatti con le popolazioni africane che già la conoscevano, scrive Science. L’analisi è stata fatta su pietre trovate a Nor Geghi, in Armenia, risalenti a un periodo tra i 325 e i 335mila anni fa.Demograia Uno studio con-dotto negli Stati Uniti tra il 1975 e il 2010 indica che il tasso di fe-condità diminuisce al crescere della disoccupazione e che l’ef-fetto aumenta con il tempo. Nel-la fascia d’età tra i 20 e i 24 anni l’1 per cento di disoccupazione in più riduce di sei nati su mille il numero medio di igli per don-na. Quando le donne raggiun-gono i 40 anni, il calo arriva a 14,2, scrive Pnas.

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ASTRONOMIA

Le origini dell’acqua L’acqua sulla Terra è nata prima del Sole. Con modelli che simu-lano la chimica delle prime fasi di vita del sistema solare, un gruppo di planetologi dell’uni-versità del Michigan ha dedotto che l’acqua pesante (che contie-ne deuterio al posto dell’idroge-no) era già presente nella nube di gas e polveri da cui si è forma-to il Sole 4,5 miliardi di anni fa. Circa la metà dell’acqua sulla Terra deriverebbe da questo ghiaccio pesante antecedente al sistema solare. La scoperta, spiega Science, contraddice la teoria oggi più accreditata della formazione dell’acqua attraver-so una serie di processi innesca-ti dalle forti radiazioni del Sole appena formato. Le condizioni che hanno favorito la presenza dell’acqua, e quindi della vita, potrebbero non essere esclusive del nostro sistema solare.

SALUTE

Cala il tasso di mortalità Tra il 1970 e il 2010 in quasi tutti i paesi del mondo c’è stata una riduzione del tasso di mortalità, soprattutto per il calo della mor-talità infantile, dichiara il Pro-gramma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. Tra il 2000 e il 2010 i decessi dei bambini tra zero e quattro anni sono diminuiti del 34 per cento. Le condizioni non sono migliorate nei paesi dove l’aids è molto difuso e in quelli colpiti da violenze e conlitti.

Astronomia

I cieli limpidi di Hat-P-11b

È stato trovato vapore acqueo su un esopianeta privo di nuvole. di dimensioni simili a Nettuno, Hat-P-11b è il più piccolo pianeta conosciuto fuori del sistema solare in cui è stato individuato ossigeno, presente sotto forma di acqua. I telescopi spaziali Hubble e Spitzer hanno rivelato anche una grande abbondanza di

idrogeno. Situato nella costellazione del Cigno, a più di 120 anni luce dalla Terra, Hat-P-11b ha un raggio pari a circa quattro volte quello terrestre. Finora era stato impossibile determinare la presenza di acqua nell’atmosfera dei piccoli esopianeti, perché troppo lontani per inviarvi una sonda e troppo opachi per essere studiati dalla Terra. Osservando la diferenza tra la luce stellare che entra nell’atmosfera e quella che esce, i telescopi riescono in genere a determinare le componenti assorbite dall’atmosfera e quindi la composizione chimica di quest’ultima. Ma la presenza di nubi, formate per esempio da polvere, in alcuni casi impedisce alla luce di iltrare. Nel caso di Hat-P-11b, la limpidezza degli strati esterni ha permesso una buona analisi che darà informazioni anche sulla parte solida del pianeta, oltre a contribuire a una migliore comprensione della formazione ed evoluzione dei pianeti. u

Nature, Regno Unito

Farfalle contaminateNutrite con foglie raccolte nei dintorni della centrale nucleare di Fu-kushima, tra i 16 e i 20 mesi dopo l’esplosione, le farfalle blu Zizeeria maha hanno un più alto tasso di mortalità e di malformazioni. Le fo-glie avevano livelli di radiazioni inferiori alla soglia issata per il con-sumo umano. I risultati sugli insetti non sono direttamente applica-bili agli esseri umani, scrive Bmc Evolutionary Biology. u

Biologia NEUROSCIENZE

Allenamenti linguistici I bambini tra i quattro e i sette mesi di vita possono essere alle-nati a distinguere i suoni che fanno parte di una lingua, scrive il Journal of Neuroscience. In questo modo si facilita la forma-zione nel cervello di una mappa acustica, una tappa necessaria nel processo di acquisizione del linguaggio. L’allenamento, idea-to dall’équipe di April Benasich, consiste in un gioco in cui il bambino viene premiato con la visione di un breve video colora-to ogni volta che in una sequen-za di suoni coglie quello che po-trebbe appartenere a una lingua. Rischio stimato all’inizio di ogni singola fascia.

Il rischio di morte per fasce d’età, %

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Il diario della Terra

-68,9°CPolo Sud,Antartide

Cina

Somalia

Svizzera

Stati Uniti

Lowell

Rammasun

Mozambico

Nuova Zelanda

5,4 M

Grecia5,2 M

Stati Uniti6,2 M

Indonesia4,8 M

Iran6,1 M

StatiUniti7,9 M

Grecia5,0 M

Nepal

Marie

Rachel

BrasileParaguay

Stati Uniti6,0 M

Perù6,9 M

Cile6,4 M

Cina5,1 M

Perù5,1 M

Romania4,6 M

Argentina6,2 M

Filippine6,4 M

Russia6,6 M

Indonesia

Canada5,8 M

Egitto4,2 M

Giappone5,2 M

Giappone

Grecia4,7 M

46,7°CHafar Al-Batin,Arabia Saudita

Islanda

Norvegia

Estonia

Marocco

Panamà

Cambogia

Filippine5,2 M

Corea del Sud

Senegal

A legna, a pellet, a metano, a propano, con l’elettricità: il ca-minetto o la stufa possono fun-zionare in diversi modi, ognu-no con pregi e difetti per l’am-biente e le persone. La scelta migliore dipende da molti fat-tori, come il budget, le caratte-ristiche del camino e la dispo-nibilità del combustibile. Per esempio, la legna sembra una buona scelta: in genere è pro-dotta localmente, è una fonte rinnovabile ed è considerata neutrale quanto a emissioni di anidride carbonica. Tuttavia, quando brucia emette alcune sostanze inquinanti. Per que-sto, spiega Grist, in alcune zo-ne ci sono norme restrittive sull’accensione delle stufe a le-gna, in particolare in quelle con un forte inquinamento at-mosferico.

L’alternativa più vicina alla legna è il pellet, che è prodotto con materiali considerati di scarto, come la segatura. Poi-ché è molto secco, il pellet bru-cia in modo più pulito. Un aspetto negativo è che la stufa a pellet richiede un po’ di elet-tricità per funzionare. Anche il gas è più pulito della legna, e molto più facile da usare. Si tratta però di una fonte fossile, non rinnovabile, che in qual-che caso potrebbe derivare dal fracking. L’elettricità è invece il sistema più pulito, soprattutto se deriva da una fonte rinnova-bile, come l’energia idroelettri-ca. Ma è adatta soprattutto per gli ambienti non troppo gran-di. Anche la struttura del cami-netto è importante: quelli a in-casso – sostanzialmente stufe inserite nei focolari – sono più efficienti di quelli tradizionali, e quasi altrettanto piacevoli di un bel caminetto tradizionale.

Cosa brucianel camino

Ethical living

Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 5,1 sulla scala Richter ha colpito il sudest del Perù, causando la morte di otto per-sone. Altre scosse sono state registrate in Argentina, in Giappone, in Indonesia, nelle Filippine, in Nuova Zelanda, in Grecia e in Alaska.

Alluvioni Quattro bambini sono morti quando le forti piogge hanno fatto straripare un iume vicino a Ouarzazate, cittadina nel sud del Marocco.

Trombe d’aria Una tromba d’aria ha fatto naufragare un’imbarcazione sul iume Pa-raguay, al conine tra Brasile e Paraguay. Undici persone so-no morte.

Incendi Un incendio che si è sviluppato a est di Sacra-mento, in California (Stati Uniti), ha costretto tremila persone a lasciare le loro case.

Cicloni L’uragano Rachel

ha portato forti piogge sulla penisola della Baja California, nel nordovest del Messico.

Valanghe Un alpinista italiano e uno tedesco sono morti travolti da una valanga sul monte Shisha Pangma, nell’Himalaya, in Cina.

Elefanti Ventidue elefanti sono stati uccisi dai bracco-nieri nella prima metà di settembre nel parco nazionale di Niassa, in Mozambico. Lo ha annunciato la Wildlife conservation society.

Alberi Più di tre milioni di alberi sono stati piantati in un solo giorno sull’isola di Mindanao, nelle Filippine, nell’ambito di un programma di rimboschimento.

Siccità L’ondata di caldo in Australia tra il 2013 e il 2014 è legata al cambiamento clima-tico. È quanto risulta dall’ana-lisi di più studi, pubblicata su Bams. Il riscaldamento dovu-to all’attività umana avrebbe aumentato la probabilità di temperature estive estreme.

Epidemie Confermato il primo caso di ebola negli Stati Uniti. Si tratta di un uomo arrivato dalla Liberia. L’ultimo

bilancio dell’Oms in Africa occidentale conta 6.574 casi e 3.091 morti. Da settimane non si registrano nuovi casi in Nigeria e Senegal.

Biodiversità Negli ultimi 40 anni metà della vita selvatica mondiale è andata perduta, denuncia il rapporto Living planet del Wwf e della Lon-don zoological society. Tra il 1970 e il 2010 le popolazioni di mammiferi, uccelli, rettili, anibi e pesci sono diminuite del 52 per cento. La biodiver-sità è calata soprattutto nei pa-esi a basso reddito: in America Latina è diminuita dell’83 per cento, mentre è aumentata del 10 per cento nei paesi ad alto reddito. Tuttavia, avendo delocalizzato lo sfruttamen-to ambientale, i paesi ricchi usano cinque volte più risorse dei paesi poveri. Tra le oltre diecimila specie di vertebrati considerate, quelle terrestri e marine sono scese del 39 per cento, quelle d’acqua dolce del 76 per cento.

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Paruro (Cuzco), Perù

Sfruttamento 37 | Degrado, cambiamenti dell’habitat 31,4 | Perdita dell’habitat 13,4 Cambiamento climatico 7,1 | Specie, geni invasivi 5,1 | Inquinamento 4 | Malattie 2

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Principali minacce per le specie considerate nell’indice Pianeta vivente del Wwf, in %

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Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014 125

u Nell’estate del 2014 il bacino orientale dell’Aral sud o Grande Aral si è prosciugato del tutto.

La foto scattata il 19 agosto 2014 dal satellite Terra della Nasa mostra il Grande Aral sen-za la sua parte orientale, con la supericie approssimativa che l’Aral aveva nel 1960 segnata dal contorno nero. Confrontan-dola con la foto piccola in alto a destra, che risale al 25 agosto 2000, i cambiamenti sono evi-denti.

“È la prima volta, in tempi moderni, che il bacino orientale si prosciuga completamente”,

ha dichiarato Philip Micklin, geo grafo emerito della Western Michigan university ed esperto dell’Aral. “Probabilmente è la prima volta che si svuota del tutto in seicento anni, dal pro-sciugamento del medioevo le-gato alla deviazione del iume Amu Darya nel mar Caspio”.

Negli anni cinquanta e ses-santa il governo dell’Unione So-vietica deviò il corso dell’Amu Darya e del Syr Darya, i princi-pali iumi della regione, per irri-gare i terreni agricoli, decretan-do il graduale arretramento del lago.

Nel 2000, quando il satellite Terra è diventato operativo, il lago si era già diviso in Aral nord o Piccolo, nel Kazakistan, e in Aral sud o Grande, nell’Uz-bekistan. L’Aral sud si era poi ul-teriormente suddiviso in una parte occidentale e in una orientale.

Nel 2009 la parte orientale del Grande Aral ha rischiato di prosciugarsi, per poi crescere notevolmente nel 2010. Il livel-lo dell’acqua ha continuato a oscillare con l’alternarsi di anni asciutti e piovosi.

Secondo Micklin, il prosciu-gamento del 2014 è dovuto al calo delle precipitazioni di piog-gia e neve che ha drasticamente ridotto il lusso dell’Amu Darya, la cui sorgente si trova nei lon-tani monti del Pamir. Per di più, l’acqua del iume continua a es-sere usata con regolarità per l’ir-rigazione. La diga Kokaral sullo stretto di Berg – un canale che unisce l’Aral nord all’Aral sud – ha svolto un ruolo importante, ma per Micklin non è stato un fattore determinante nel 2014.

“Questa parte dell’Aral mo-stra, da un anno all’altro, varia-zioni che dipendono dal lusso dell’Amu Darya”, ha spiegato. “Mi aspetto che la tendenza prosegua per un bel po’ di tempo”.–Kathryn Hansen

Il lago d’Aral è un grande bacino situato al conine tra Kazakistan e Uzbekistan. Dagli anni sessanta a oggi si è drasticamente ridotto.

Il pianeta visto dallo spazio

Il lago d’Aral, in Asia centrale

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Tecnologia

Come molte aziende tecnologi-che, Google è un posto per uo-mini. Fondata da due maschi, ha una maggioranza di dirigenti

maschi. E sette dipendenti su dieci sono uomini. In un rapporto presentato nel 2013 all’Equal employment opportunity com-mission (la commissione statunitense per le pari opportunità), l’azienda ha dichiarato che solo tre dei suoi 36 dirigenti sono don-ne. Ai dirigenti di Google questa scarsa di-versità di genere non piace, come non piace il basso numero di dipendenti neri e ispani-ci dentro l’azienda. Per questo hanno adot-tato un piano d’azione per correggere que-ste percentuali. Il progetto prevede dei se-minari sulla diversità. Ma Google non è ancora sicura che basti.

L’azienda vuole combattere i pregiudizi culturali più radicati e l’atteggiamento di chiuso cameratismo che domina il mondo della tecnologia. Google dice che il suo non è un piano estemporaneo e che da anni sta

cercando di favorire la diversità, sponsoriz-zando programmi per l’aumento del nume-ro di donne nel mondo tecnologico e inter-venendo sui suoi metodi di assunzione per ridurre i pregiudizi. Le rivelazioni di Google sulla composizione etnica e di genere dei suoi dipendenti hanno innescato un’ondata di inziative simili in tutto il settore. E così Facebook, la Apple, Yahoo e altri hanno dif-fuso dati sulla loro forza lavoro. E le cifre sono deprimenti.

Chi lava i piattiI seminari di Google, cominciati l’anno scorso e frequentati da più della metà dei suoi quasi 49mila dipendenti, si basano su un campo di ricerca emergente della psico-logia sociale: il pregiudizio inconscio, ossia l’insieme di preferenze nascoste che forma la nostra visione del mondo e può inluen-zare l’accoglienza che viene data ai nuovi assunti.

L’interesse di Google per la materia è nato nel 2012, quando Laszlo Bock, il re-sponsabile delle risorse umane dell’azien-da, ha letto sul New York Times uno studio sulla discriminazione sistematica nei con-fronti delle donne candidate per posti di lavoro di tipo scientiico nelle università.

Secondo questa ricerca, la discriminazione è determinata da pregiudizi culturali incon-sci, più che da un sessismo esplicito. Per Google in realtà l’obiettivo di favorire la di-versità non serve solo a pulirsi la coscienza. Citando degli studi che dimostrano che le squadre eterogenee possono essere più ef-icienti di quelle omogenee, Bock ha spie-gato che la diversità della manodopera mi-gliora i risultati economici dell’azienda.

Il settore risorse umane di Google, chia-mato People operations, funziona come un laboratorio di ricerca universitario, con scienziati che analizzano il funzionamento interno della società. Bock ha chiesto a Brian Welle, uno di questi ricercatori, di ideare un progetto sui pregiudizi inconsci. Dopo qualche mese lo studioso ha organiz-zato un seminario di novanta minuti, pen-sato per il tipico dipendente di Google: scet-tico e di mentalità scientiica. Il seminario parte da un presupposto triste: siamo tutti un po’ razzisti o sessisti. E secondo Brian Welle, i preconcetti più pericolosi sono in-consci: le cose peggiori si fanno senza vo-lerlo. I pregiudizi sono potenti, e per il ricer-catore non vengono mitigati dalla presunta cultura meritocratica della Silicon valley.

Secondo Google il corso di formazione ha ridotto i pregiudizi. Ultimamente l’azien-da ha inaugurato una nuova sede e qualcu-no ha notato che tutte le sale conferenze erano intitolate a scienziati maschi. I nomi sono stati cambiati. Un tempo non si sareb-be nemmeno parlato di una cosa del genere. Durante una recente riunione, in cui un gruppo di manager uomini doveva decidere se promuovere o no un’ingegnera, uno di loro, un partecipante del seminario, ha fatto notare che i presenti erano tutti uomini. “È bastato sottolineare questa cosa per farci rilettere”, racconta Bock. Alla ine la donna è stata promossa. Un’altra volta, durante una presentazione, un intervistatore ha chiesto a un manager e a una manager che da poco condividevano l’uicio: “Chi di voi lava i piatti?”. La sfumatura sessista della domanda è stata intercettata da un dirigen-te che ha urlato dalla folla: “Pregiudizio in-conscio!”.

Bock considera questi esempi la dimo-strazione che il corso di formazione funzio-na. “Siamo passati dall’inconsapevolezza all’idea che il problema è difuso”, conclude il dirigente. Resta da capire se questa presa di coscienza produrrà o no un vero cambia-mento per Google e per l’intero mondo del-la tecnologia. u fp

Il motore del pregiudizio

Google prova a combattere il maschilismo che domina il mondo della tecnologia.Anche tra i suoi dipendenti

Farhad Manjoo, The New York Times, Stati Uniti

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La sede di Google a Singapore, l’8 settembre 2014

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128 Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014

Economia e lavoro

L’Unione europea e il Canada hanno celebrato già tre volte il Ceta (Comprehensive econo-mic and trade agreement), il

trattato di libero scambio che hanno sotto-scritto di recente. Nell’ottobre del 2013 han-no festeggiato il raggiungimento di un’inte-sa generale e nell’agosto del 2014 la stesura inale del testo. Inine il 26 settembre a Ot-tawa è stata celebrata la conclusione dei negoziati. Ma non mancheranno altre occa-sioni per festeggiare. Le 1.500 pagine del trattato saranno tradotte in 23 lingue e rati-icate dal Canada, dai paesi dell’Unione e dal parlamento europeo. L’accordo dovreb-be entrare in vigore nel 2016.

Il Ceta raforza dei rapporti economici che già erano intensi, visto che l’Unione eu-ropea è il secondo partner commerciale del Canada. In uno studio presentato nel 2008,

all’apertura dei negoziati, si stimava che un trattato di libero scambio avrebbe aumen-tato le entrate annuali dell’Unione di 11,6 miliardi di euro e quelle del Canada di 8,2 miliardi. Gli scambi complessivi sarebbero cresciuti del 20-24 per cento.

Bruxelles ha ottenuto concessioni nel settore dei servizi, nell’assegnazione degli appalti pubblici e diversi vantaggi per l’in-dustria automobilistica (i cui standard sa-ranno riconosciuti dai canadesi), chimica e meccanica, le telecomunicazioni e le assi-curazioni. Il Canada otterrà un accesso pri-vilegiato al mercato dell’Unione e si aspetta vantaggi per l’esportazione di metalli e mi-nerali, per l’industria della trasformazione e per il settore agricolo e forestale.

Gli ostacoli alla ratiicaLa ratifica dell’accordo non va data per scontata. In Germania cresce l’opposizione nonostante i vantaggi che il trattato garan-tisce alla sua economia. Per il governo tede-sco l’approvazione del trattato dipende dalla modiica di un articolo molto discus-so: la protezione degli investimenti, un meccanismo che permette alle imprese straniere di ricorrere a un tribunale arbitra-le per difendersi da un provvedimento del

governo locale che ritengono dannoso per il loro investimento. E anche il parlamento europeo potrebbe assumere una posizione simile alla Germania. La commissione eu-ropea ha accennato alla necessità di istitui-re e puntualizzare nuove norme di traspa-renza per i tribunali arbitrali in modo da evitare un ridimensionamento del margine d’azione dei governi in campi come la dife-sa dell’ambiente o della sanità pubblica.

I canadesi guardano con ottimismo al Ceta, ma anche loro hanno dubbi sulla tute-la degli investitori, soprattutto a causa dell’esperienza del Nafta, l’Accordo norda-mericano per il libero scambio sottoscritto con gli Stati Uniti e il Messico. In vent’anni il Canada è stato citato in giudizio da azien-de straniere 35 volte. Un altro dubbio riguar-da i brevetti dei farmaci, che dureranno uno o due anni in più e potrebbe far lievitare i costi del sistema sanitario. Desta malumo-re, poi, il fatto che per la prima volta un trat-tato internazionale obbligherà le città cana-desi ad aprire le gare d’appalto alle aziende straniere. Inine alcuni criticano la scarsa tutela dei prodotti culturali.

Tra le due parti ci sono state lunghe di-scussioni sull’apertura dei mercati agricoli. I canadesi non volevano rinunciare alla chiusura del loro mercato del latte e del pol-lame, mentre gli europei volevano conti-nuare a proteggere i loro produttori di carne di manzo e di maiale. Alla ine i canadesi hanno ottenuto l’esenzione dai dazi doga-nali sull’esportazione di una certa quota di carne di manzo e di maiale, ma devono ga-rantire che nel mercato europeo non arrivi manzo trattato con gli ormoni. Inoltre il Ca-nada aprirà il suo mercato delle bevande alcoliche. Un compromesso è stato raggiun-to sulla tutela di determinati marchi regio-nali, ma in alcuni casi gli efetti sono singo-lari. Per esempio il marchio Schwarzwälder Schinken (prosciutto della Foresta nera) sarà protetto, ma non lo sarà la sua versione inglese Black Forest ham. u fp

Alleanza commercialetra Ottawa e Bruxelles

L’Unione europea e il Canada hanno siglato un trattato di libero scambio che promettegrandi vantaggi per tutti. Ma ci sono proteste sulle norme che proteggono gli investitori

Frankfurter Allgemeine Zeitung, Germania

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Ottawa, Canada, 26 settembre 2014. Le celebrazioni per il Ceta

u Al contrario di quello che è successo con il Canada, nel trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, il Ttip (Transatlantic trade and investment partnership), in corso di negoziazione, l’Unione europea intende chiedere che non sia applicato il sistema di protezione degli investitori attraverso il ricorso a un tribunale arbitrale. Die Tageszeitung

Da sapere I negoziati per il Ttip

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Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014 129

GERMANIA

Risparmi all’estero “Gli interessi oferti dalle ban-che in Germania sono ormai prossimi allo zero, così molti te-deschi spostano miliardi di euro in banche straniere che ofrono rendite più alte”, scrive il Wall

Street Journal. A luglio il tasso d’interesse medio per un conto in una banca tedesca è crollato allo 0,5 per cento, mentre la me-dia dell’eurozona è dell’1,32 per cento. È così che i depositi delle famiglie tedesche presso le ilia-li di banche straniere che opera-no in Germania sono aumentati di quasi l’80 per cento rispetto al 2010, arrivando a 190 miliardi di euro. I tedeschi preferiscono le banche olandesi (negli ultimi due anni la Rebobank ha raccol-to in Germania 7,6 miliardi di euro), ma non disdegnano ne-anche quelle di paesi in crisi, co-me il Portogallo e la Russia. Ri-scuote successo anche una ban-ca che opera solo online, la Sa-vingglobal, che è nata a dicem-bre e in Germania ha già cinque-mila clienti.

IN BREVE

Cina Alibaba ha ottenuto una li-cenza bancaria in Cina. Il grup-po di e-commerce cinese potrà possedere il 30 per cento di un istituto di Hangzhou, che si chiamerà Zhejiang Mybank. Da tempo Alibaba è attiva nel setto-re inanziario con lo strumento di pagamento online Alipay e il fondo d’investimento Yu’e Bao.Francia Parigi non ridurrà il suo deicit sotto il 3 per cento ri-spetto al pil prima del 2017, due anni più tardi del previsto.

KOSOVO

Investitori in fuga “Il Kosovo è un buco nero per gli investitori europei”, scrive il quotidiano Bota Sot. “La sta-gnazione economica e l’instabi-lità politica sono cattivi segnali per chi punta sul paese. Non c’è più la guerra e l’indipendenza dalla Serbia è consolidata, ma la corruzione e le istituzioni deboli scoraggiano gli investimenti”. Non ci sono dati deinitivi, ma “è certo che sono calati rispetto al 2013, quando il 28 per cento dei capitali stranieri arrivava dalla Turchia, seguita con il 14 per cento dalla Svizzera.” Nella foto: il premier kosovaro Thaçi

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Il 16 per cento dei lavoratori dipendenti in Italia è povero. Per raforzare il reddito dei la-voratori, molti paesi hanno in-trodotto il salario minimo: in Spagna è di 4,48 euro all’ora, nel Regno Unito di 7,5 euro e in Francia di 9,35 euro. In Germa-nia sarà introdotto dal 2015 un salario minimo di 8,5 euro all’ora. A quel punto saranno sei i paesi dell’Unione euro-pea, tra cui l’Italia, che non lo prevedono. I sindacati si sono sempre opposti a questa misu-ra, sostenendo che i contratti collettivi nazionali issano già dei minimi retributivi. Ma è

così anche in Francia, Germa-nia e Spagna. In Italia il salario minimo serve per almeno tre motivi. Primo, perché la co-pertura dei contratti collettivi non supera l’80 per cento dei lavoratori dipendenti. Una quota consistente del restante 20 per cento è a rischio pover-tà. Secondo, perché la contrat-tazione collettiva tutela sem-pre meno i lavoratori a rischio di salario basso: il 13 per cento dei dipendenti nei settori co-perti dalla contrattazione col-lettiva ha un compenso orario lordo inferiore al minimo con-trattuale rilevante per il settore

d’appartenenza. Terzo, perché le retribuzioni inferiori ai mi-nimi contrattuali sono sottosti-mate dalle statistiche, che non considerano i lavoratori con contratti parasubordinati, gli autonomi (senza dipendenti) e gli irregolari occupati nel som-merso. È positivo che il gover-no voglia introdurre, in via sperimentale, un “compenso orario minimo”. Ma è un con-trosenso limitare la misura ai settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle or-ganizzazioni sindacali e dei datori di lavoro più rappresen-tative sul piano nazionale. u

Il regime iscale di cui gode la Apple in Irlanda è un aiuto di stato mascherato. Secondo la Commissione europea, dà all’azienda statunitense un “vantaggio competitivo incompatibile con il mercato interno”. Bruxelles, scrive il sito EUobserver, “ha aperto a giugno un’inchiesta sull’accordo tra la Apple e l’Irlanda, una sulla Fiat in Lussemburgo e una terza su Starbucks nei Paesi Bassi”. La Apple, la cui sede internazionale è a Cork, in Irlanda, “paga un’aliquota sul reddito del 3,7 per cento e dal 2010 al 2012 ha versato circa venti milioni di euro di imposte”. u

Unione europea

Inchiesta sulla Apple

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Cork, Irlanda. La sede della Apple

Tasso d’interesse medio sui depositi bancari, paesi selezionati

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132 Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014

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GUSTAV, LEI HA UN’IDEA PER SBARAZZARSI DELLO HUBUDULZ?

È FACILISSIMO. NON BISOGNA FARE ALTRO CHE STORCERE FORTE GLI OCCHI. NESSUNA CREATURA CON QUATTRO OCCHI RIESCE A SOPPORTARLO.

MALEDIZIONE! NON VEDE CHE I MIEI OCCHI SONO RIMASTI STORTI?

MA CERTO! SONO MOLTO COLPITO!

LEI È IL MIGLIORE ALLIEVO CHE MI SIA

MAI CAPITATO.

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L’oroscopo

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errore simile, Leone. Cerca di ca-pire in cosa ti stai cacciando, che si tratti di un nuovo accordo, di un invito interessante o di un’oppor-tunità allettante.

VERGINE

Oliver Evans (1755-1819) fu un proliico inventore statu-

nitense. Ebbe idee brillanti, come la macchina a vapore e l’illumina-zione a gas per le città. Fece anche una previsione sconvolgente: “Un giorno le persone viaggeranno su carrozze trainate da macchine a vapore, che si sposteranno quasi alla velocità degli uccelli, a 25 o 30 chilometri all’ora”. È sorprendente che un innovatore geniale come lui abbia minimizzato in questo modo le possibilità del futuro. Ho il so-spetto che un giorno anche tu ride-rai di quanto hai sottovalutato le potenzialità che hai oggi. Te lo di-co proprio perché spero che tu smetta di sottovalutarti.

SCORPIONE

“Caro cosiddetto astrologo, i tuoi oroscopi non sono

inutili, peggio: sono pieni di scioc-chezze poetiche e ilosoiche che non si applicano alla mia vita quo-tidiana. Per piacere, lascia perdere le metafore fantasiose. Dimmi so-lo se ci sono soldi, amore o guai in arrivo, come fanno tutti gli altri oroscopi”.–Scorpione Scettico.

Caro Scettico, credo che presto tu e gli altri Scorpioni subirete lo stesso tipo di pressione che hai provato a esercitare su di me. Vi chiederanno di essere diversi da quello che siete. Il mio consiglio? Non dategli retta.

SAGITTARIO

Oggi i pomodori sono uno degli ingredienti principali

della cucina italiana, ma in Europa sono rimasti sconosciuti ino al cinquecento, quando gli esplorato-ri spagnoli li importarono dall’America Latina. Oggi l’Ecua-dor è un grande produttore di ba-nane grazie ai marinai portoghesi, che nel sedicesimo secolo impor-tarono le piante dall’Africa occi-dentale. Prevedo che nei prossimi mesi nella tua vita potrebbe verii-carsi un processo simile. Hai già messo gli occhi su una risorsa lon-

tana che vorresti portarti a casa?

CAPRICORNO

Qualche anno fa hai vissuto un’esperienza così travol-

gente che non sei riuscito ad af-frontarla nel modo adeguato, e meno che mai a capirla. Per tutto questo tempo ha continuato a co-vare nel tuo inconscio, ma non sei riuscito ad assorbirla. Prevedo che nei prossimi mesi la situazione cambierà. Troverai inalmente il modo di far venire a galla quell’esperienza e di esplorarla con grazia e coraggio. Sarai spa-ventato. Ma ti assicuro che la paura è solo il residuo della tua vecchia confusione, non un segno di vero pericolo. Per ottenere una comple-ta liberazione, comincia subito la tua ricerca.

ACQUARIO

È arrivato il momento di fa-re cose che non sono facili

né rilassanti, ma non sono nean-che dolorose. Per esempio: rivol-gere oferte di pace ai tuoi avversa-ri, provare a riavvicinarti a risorse preziose dalle quali sei stato sepa-rato e a potenziali alleati dai quali ti sei allontanato. Sperimentare nuovi giochi in cui non sei ancora bravo. Cercare di conoscere me-glio alcune persone interessanti che ancora ti sfuggono. Capito co-sa voglio dire? In questo momento allontanarti dalla tua zona di sicu-rezza ti darà forza e non sarà trop-po faticoso.

PESCI

Ho costruito il tuo oroscopo sui brevi testi dell’artista

concettuale Jenny Holzer. Tra centinaia, ne ho scelti sei che co-stituiscono esattamente il tipo di saggi consigli di cui hai bisogno in questo momento. Il tuo compito è tesserli insieme in un’unica sinfo-nia: 1) È fondamentale avere un’immaginazione attiva. 2) Assi-curati che la tua vita sia un lusso continuo. 3) Io penso ogni genere di cose, e non me ne vergogno. 4) L’animalità è perfettamente sana. 5) Provare estremo piacere farà di te una persona migliore se scegli con cura quello che ti entusiasma. 6) Quando il tuo corpo ti parla, ascoltalo.

BILANCIAPer il diploma delle superiori Jimmy Fallon ricevette uno strano regalo: un troll doll, uno di quei pupazzetti di plastica con i capelli crespi e coloratissimi. Più o me-

no nello stesso periodo, sua madre lo spinse a partecipare a una gara di comicità. Jimmy preparò un numero in cui imitava vari personaggi famosi che si presentavano a un’audizione per di-ventare portavoce dei troll doll. Con l’aiuto di quei pupazzetti vinse il concorso che avrebbe dato il via alla sua carriera di co-mico. Prevedo uno sviluppo simile nella tua vita: una strana be-nedizione o un dono inaspettato ti permetteranno di esprimere al massimo il tuo talento.

COMPITI PER TUTTI

Questa settimana emetti ogni giorno suoni

insensati per un intero minuto. E poi

raccontami i risultati.

ARIETE

Quando passeggio tra i bo-schi al crepuscolo sento

sempre stridere i grilli in lontanan-za. Dovunque vada, il loro canto mi sembra distante, mai vicino. Com’è possibile? Si allontanano quando mi avvicino? E cosa c’entra questo con te? Il mio rapporto con i grilli somiglia a un mistero della tua vita. C’è un’esperienza che ti chiama ma rimane sempre irrag-giungibile. Pensi che ci sei quasi, che stai per toccarla e trovartici dentro, ma ineluttabilmente ti sfugge. La buona notizia è che è in arrivo un cambiamento: sarà come se improvvisamente i grilli che cantano mi venissero intorno.

TORO

Fra tre anni a partire da og-gi comprenderai delle veri-

tà su te stesso che ora non riesci a cogliere. A quel punto, alcuni eventi del passato che ti hanno la-sciato confuso avranno inalmen-te un senso. Saprai qual era il loro scopo e perché sono avvenuti. Ti va di aspettare tutto questo tem-po? Se non te la senti, ho un’idea: immergiti in una meditazione in cui vedi te stesso fra tre anni. Im-magina di chiedere al tuo io futuro di dirti cosa ha scoperto. Forse le rivelazioni che ti darà ci metteran-no un po’ a concretizzarsi, ma pre-vedo che tra una settimana avrai già avuto qualche intuizione.

GEMELLI

Il viaggio che ti aspetta è breve ma epico. Durerà rela-

tivamente poco, ma ti ci vorranno mesi per capirlo completamente. Ti sembrerà un viaggio normale,

ma in realtà sarà piuttosto eroico. Preparati meglio che puoi, ma tie-ni presente che per quanto tu pos-sa sforzarti non sarai mai del tutto pronto per le azioni spontanee che dovrai compiere. Non essere ner-voso! Scommetto che riceverai aiuto da una fonte inaspettata. Forse avrai una sensazione di déjà vu, ma in realtà tutto quello che succederà sarà senza precedenti.

CANCRO

Solo un’ostrica su diecimila produce perle. La maggior

parte di quelle che si trovano in commercio proviene da ostriche d’allevamento. Come puoi imma-ginare, le perle naturali sono con-siderate molto più preziose. Usia-mo quest’informazione come me-tafora per rilettere su quello che ti aspetta nei prossimi otto mesi. So-no convinto che acquisirai o gene-rerai una nuova bellissima fonte di ricchezza. C’è la possibilità che tu t’imbatta in un tesoro equivalente a una perla naturale, ma è minima. Quindi ti consiglio di seguire la strada più sicura e di lavorare sodo per creare un tesoro che sarà come una perla coltivata.

LEONE

Nel giugno del 2012 un se-natore statunitense ha pre-

sentato una proposta di legge in base alla quale tutti i deputati del congresso devono conoscere il te-sto delle leggi che si apprestano a votare. La proposta non è ancora stata approvata e probabilmente non lo sarà mai. Questo mi lascia molto perplesso. Tutti i parlamen-tari dovrebbero sapere cosa stanno approvando. Non commettere un

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Le regole Fantasmi1 senti rumori strani in casa durante la notte? prima di chiamare gli acchiappafantasmi, compra una trappola per topi. 2 se il tuo bisnonno si mette in contatto con te dall’aldilà, chiedigli di passarti elvis. 3 il lenzuolo bianco non va più: il fantasma moderno porta solo microibra. 4 prima di scappare a gambe levate, fatti un selie con lo spettro. 5 ricorda: l’importante non è se tu credi ai fantasmi, ma se i fantasmi credono in te. [email protected]

“Un giorno tutto questo sarà nostro!”.

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“il malcontento sociale lo canalizziamo nell’impianto per il trattamento dei riiuti solidi urbani”.

centro di reclutamento dello stato islamico. “me la cavo con Flash, video editing e decapitazioni”.

tremila migranti morti nel mediterraneo nel 2014.“ho capito che bisognava tagliare le spese,

ma è una buona idea portarne solo uno di ogni specie?”.

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Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014 i

3-4-5 ottobre

a l centro delle storie ci sono persone, strade, atmosfere. Nelle immagini e nei testi di Teju Cole si incontrano culture

e arti diverse. Le sue fonti d’ispirazione sono le fotograie di Henri Cartier-Bres-son, i libri di J. M. Coetzee e V. S. Naipaul, i

I romanzi e le fotograie di Teju Cole rispecchiano la frammentarietà della vita. Lontano da stereotipi e luoghi comuni

A occhi aperti

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Teju Cole vicino a Ramallah, in Cisgiordania, il 5 giugno 2014

ilm di Fellini, i dipinti di Caravaggio e la realtà che lo circonda. Scrittore, fotografo e storico dell’arte, Teju Cole, 38 anni, è na-to negli Stati Uniti da genitori nigeriani, è cresciuto in Nigeria e a diciassette anni è tornato in America. Ora vive a New York. “Quando vado in giro a fare fotograie m’interessa cogliere l’imprevisto o esser-ne colto”, ha scritto Cole. Questo senso di sospensione e di curiosità si rilette nei suoi romanzi, Città aperta e Ogni giorno è per il ladro, entrambi pubblicati da Einau-di. La lunga peregrinazione per le strade di New York di Julius, il giovane psichiatra

tedesco-nigeriano protagonista del primo libro, cede il passo, nel secondo, a un viag-gio dentro Lagos e attraverso i pensieri del narratore. L’amore, l’appartenenza, l’iden-tità, l’amicizia e la memoria s’intrecciano in un racconto a cui il lettore è invitato a dare un senso. “È questo il mio obiettivo”, ha spiegato l’artista, “testimoniare la com-plessità dell’esperienza in un linguaggio semplice”. u

Teju Cole sarà a Ferrara il 5 ottobre per parlare di letteratura, arte e politica con John Berger e Maria Nadotti.

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ii Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014

Sala Stampa via Vaspergolo, 4/6

Circolo Arci Zuni

Cinema Apollo Biblioteca Ariostea

Teatro comunale

Palazzo Roverella

Economia, Aula Magna

Cinema Boldini

Piazza CastelloSala Estense

Salone d’onore del MunicipioPiazza Municipale

Castello Estense

Largo Castello

Mercato coperto

Giardino delle Duchesse

Libreria del festivalChiostro di San Paolo

e chiostro piccolo di San Paolo

Infopoint e shopPiazza Trento e Trieste

Giurisprudenza, Aula Magna

u Nel 2015 Ferrara Arte presenterà un grande programma espositivo, con mo­stre sulla storia dell’arte internazionale e appuntamenti per la valorizzazione del patrimonio cittadino.

Dal 30 gennaio 2015 il Castello Estense ospiterà una selezione di dipin­ti e opere su carta di due tra i più impor­tanti artisti ferraresi: Giovanni Boldini e Filippo de Pisis. Tornerà così in mo­stra un patrimonio che, dopo il terre­moto del maggio del 2012, è rimasto per lo più inaccessibile al pubblico. Il per­corso espositivo si apre con Boldini, i­gura di spicco della pittura italiana e in­

ternazionale, prima nella Firenze mac­chiaiola, poi nella Parigi degli impres­sionisti e inine negli ambienti cosmo­politi della belle époque. La parabola creativa di De Pisis sarà protagonista della seconda parte dell’allestimento, con la sua rivisitazione della pittura me­taisica, le vedute parigine degli anni trenta e i capolavori della tarda ma­turità.

Dal 19 aprile 2015 al palazzo dei Dia­manti la mostra La rosa di fuoco. La Bar-cellona di Picasso e Gaudí evocherà la ioritura artistica nota come moderni­smo catalano, che tra il 1888 e il 1909 cambiò il volto della città facendone uno dei centri dell’arte e dell’architettu­ra europea. I capolavori di Antoni Gaudí e di Pablo Picasso saranno accompa­gnati dalle opere di molti altri architetti, pittori, scultori, musicisti e scrittori pro­tagonisti di quel rinnovamento artistico e culturale. La mostra presenterà un ri­tratto dettagliato della scena artistica dell’epoca a Barcellona, mettendo a confronto le molteplici espressioni di quella stagione creativa.

Info palazzodiamanti.itRagazza in camicia, Pablo Picasso

Ferrara in mostraUn giro in città

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C’È POSTO PER TUTTI

u Tutti gli incontri del festival sono a ingresso libero, senza prenotazione. Alcuni laboratori per bambini sono a pagamento, mentre l’ingresso ai documentari della rassegna Mondovisioni costa 3 euro (il biglietto si può fare alla cassa del cinema Boldini).

Per accedere agli incontri al teatro Comunale e al cinema Apollo è necessario un tagliando, che si può ritirare allo stand in piazza Trento e Trieste. Lo stand sarà aperto venerdì 3 e sabato 4 ottobre dalle 9 alle 18 e domenica 5 ottobre dalle 9 alle 15. I tagliandi si potranno ritirare solo per gli appuntamenti della giornata in corso. Garantiranno l’ingresso agli incontri, ma senza nessuna precedenza: una volta ritirato il tagliando si può restare in coda oppure andare via e tornare tassativamente venti minuti prima dell’inizio dell’incontro. Un’altra ila è riservata alle persone che non sono riuscite a prendere il tagliando, che possono aspettare e vedere se si liberano dei posti. Lo stesso sistema sarà usato per l’evento del 3 ottobre alle 22.30 al Mercato coperto e per gli incontri del 5 ottobre alle 12.30 e alle 15 alla Sala Estense. Donne incinte e persone con disabilità avranno un accesso prioritario e non dovranno ritirare il tagliando. Info internazionale.it/festival/ile-e-tagliandi

SEMPRE COLLEGATI

u In molte parti del centro di Ferrara è possibile collegarsi a internet gratuitamente attraverso il servizio WiFe. Per accedere al servizio occorre ritirare un codice presso l’infopoint del festival oppure all’uicio Urp del comune. Nei tre giorni del festival è attivo il servizio Mobyt, che permette di ricevere sms con aggiornamenti sul programma del festival. Basta inviare un messaggio (costo in base al proprio piano tarifario) con il testo “Internazionale” al numero 320 2041294. La ricezione degli sms è gratuita. Info internazionale.it/festival/mobyt

SOCIAL NETWORK

u È possibile seguire il festival anche su Facebook all’indirizzo facebook.com/internazfest; e su Twitter: @Internazfest #intfe

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u Quali sono le radici della crisi economi-ca e cosa l’ha provocata? Come funziona la politica economica dell’Unione europea? Chi alimenta lo scontro tra diversi modelli di capitalismo?

Per comprendere il sistema globale della inanza, quest’anno il festival d’In-ternazionale organizza una serie di incon-tri nell’aula magna della facoltà di econo-mia. Le tre lezioni saranno tenute da Ales-sandro Somma, giornalista e professore all’università di Ferrara e all’università San Marcos di Lima, e da Lucio Poma dell’università di Ferrara. In ogni incontro sarà analizzata e spiegata una parola chia-ve per orientarsi nella lettura dei giornali e comprendere meglio la crisi e il mondo dell’economia.

Il 3 ottobre Lucio Poma parlerà del de-bito, del ruolo delle banche e delle strade verso la ripresa. Il 4 ottobre ci sarà invece Alessandro Somma a spiegare il iscal com-pact, la politica economica dell’Unione europea, la ristrutturazione del debito pubblico e le conseguenze sui cittadini. Il 5 ottobre sarà il turno della competitività: una lezione di Somma sulle ricette propo-ste dalle istituzioni internazionali e su co-me si misura lo stato di salute di un’econo-mia. Un glossario per sfatare i luoghi co-muni e afrontare con semplicità concetti che spesso ci sono presentati dai mezzi d’informazione in modo complesso e con-fuso.

Info internazionale.it/festival

A lezione di economia

Appuntamenti Incontra l’autore

Incontri

In una delle sessioni del Jaipur litera-ture festival del 2014, Jhumpa Lahiri si è deinita “una scrittrice senza

una vera lingua”. “È una sensazione che stranamente mi aiuta a vedere in modo più chiaro”, spiega, “ma, come qualsiasi altro aspetto della mia vita, è anche sconcertante”. Nata a Londra nel 1967, Lahiri si è trasferita negli Stati Uniti con i genitori, originari del Bengala, quando aveva due anni. “Lingua, identità, luo-go, casa: sono parti di un tutto”, aferma. “Il dilemma fondamentale della mia vi-ta è quello che contrappone il mio desi-derio di appartenere a qualcosa e il so-spetto che nutro verso l’appartenenza”.

Per tutta la vita la scrittrice ha osservato gli efetti causati dallo sradicamento su persone profondamente radicate.

Cresciuta negli Stati Uniti, un paese che non ha mai sentito come davvero suo, e incapace di sentirsi a casa a Calcutta, ha sempre avvertito una forte tensione tra le lingue. Negli ultimi tre anni Lahiri ha vis-suto a Roma e, anche se parla un buon ita-liano, la sua sensazione di spaesamento

rimane. Dopo aver visto la madre sofrire di nostalgia per tutta la vita, Lahiri ha de-ciso molto presto di non appartenere ad alcun luogo. Questa decisione è stata li-beratoria, anche se invidia ai genitori il fatto di avere un centro di gravità da qualche parte nel mondo.

Il progetto a cui sta lavorando ora – un libro di saggi e un racconto scritti in italiano – è più personale. “È un esperi-mento, una sorta di autobiograia lingui-stica”, racconta. Il suo amore per l’italia-no è cominciato vent’anni fa, quando ha visitato il paese per la prima volta. L’Ita-lia, spiega Lahiri, ha completato un triangolo nella sua vita. “Ora posso ve-dere oltre i due antipodi rappresentati da Stati Uniti e India e, stranamente, sentirmi davvero a casa a Roma, per il momento”, racconta. “Da un punto di vista letterario e geograico, l’Italia è in mezzo tra gli altri due paesi. Anche da un punto di vista culturale è situata in un qualche punto intermedio”. u

Jhumpa Lahiri sarà a Ferrara il 4 otto-bre per l’incontro “Le metamorfosi” con Caterina Bonvicini e Alberto Notarbartolo di Internazionale, e per presentare il libro L’amore che ti meriti di Daria Bignardi.

Oltre l’appartenenza

La scrittrice Jhumpa Lahiri parla di lingua, identità e del triangolo nella sua vita tra Stati Uniti, India e Italia

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Jhumpa Lahiri

Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014 v

u I libri presentati durante i tre giorni del festival.

ALESSANDRA CASTELLANI

Storia sociale dei tatuaggi Donzelli 2014, 22 euro Il 4 ottobre al chiostro di San Paolo con Welt e Thierry Vissol.

CRISTINA UBAX ALI FARAH

Il comandante del iume 66th and 2nd 2014, 15 euro Il 4 ottobre al chiostro di San Paolo con Piero Melati.

FRANCESCA BELLINO

Sul corno del rinoceronte L’Asino d’Oro 2014, 12 euro Il 4 ottobre al chiostro di San Paolo con Francesca Caferri.

Info: internazionale.it/festival

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tica dell’Unione Sovietica, dell’enorme ri-tardo accumulato nei confronti dell’occi-dente, della necessità di cambiamenti ri-levanti (riconosciuta dagli elementi più il-luminati del Kgb, incluso il capo Jurij An-dropov) e dell’ascesa ai vertici dell’appa-rato governativo della generazione nata negli anni sessanta, che aveva creduto al disgelo e sperava di salvare la Russia dal fallimento comunista ispirandosi alle so-cialdemocrazie e trasformandola in un mercato comune dell’Europa orientale. Uomo simbolo di questa generazione e protetto di Andropov, Michail Gorbačëv aveva incarnato la rinascita dell’aspirazio-ne europea della Russia. Ma gli occidenta-li si sono sempre riiutati di aiutarlo, anzi lo hanno sistematicamente indebolito per colpire la Russia nel timore di un ritorno dei conservatori alla guida del paese. Peg-gio ancora, hanno applaudito Boris Eltsin come un eroe della democrazia e il sac-cheggio delle privatizzazioni come un trionfo del libero mercato. Così hanno spianato la strada a Vladimir Putin e al suo autoritarismo, al nazionalismo e all’anti-occidentalismo. Abbandonando Gorbačëv hanno perso un’occasione stori-ca, ritrovandosi a dover gestire l’ostilità odierna della Russia.

Per quanto imperdonabili, gli errori dell’occidente non sono irreparabili, per-ché la Russia non può vivere nell’autar-chia e nemmeno rischiare di inire nelle mani della Cina. I miliardari e la nuova borghesia non intendono rompere con

G li occidentali non sanno quasi nulla della Russia. La maggior parte di loro ignora perino la geograia del paese più gran-

de del mondo, coninante con l’Europa occidentale, la Cina e i paesi musulmani eurasiatici. Molti non sanno che perdendo le frontiere dell’Unione Sovietica, i russi hanno perso anche quelle di un impero se-colare che non si era formato grazie a con-quiste lontane, ma attraverso un’estensio-ne progressiva a partire da Kiev, la capita-le dell’attuale Ucraina. Gli occidentali ignorano inoltre che il 7 per cento della popolazione della Federazione russa è composto da musulmani; che esistono im-portanti minoranze russe nei paesi diven-tati indipendenti dopo la caduta del muro di Berlino; che la lingua e la cultura russe sopravvivono in tutto il vecchio impero; che i russi si sentono accerchiati da mondi ostili e che nel corso della loro storia han-no vissuto in equilibrio tra tre aspirazioni contraddittorie: il riavvicinamento all’Eu-ropa, l’ancoraggio all’Asia e l’isolamento di una potenza ortodossa che persegue una via propria, deinita dall’esaltazione di una vaga identità nazionale.

A queste lacune se ne aggiunge un’al-tra, ancora più grave. Gli occidentali non hanno compreso il senso della perestrojka, i quattro anni di sconvolgimenti che han-no preceduto il crollo sovietico. Conside-rano quel periodo solo un vano tentativo di riformare un sistema comunista immu-tabile e dunque irriformabile. Non capi-scono che la perestrojka è stata in realtà frutto del iasco della rivoluzione informa-

Europa e Stati Uniti dovrebbero imparare dagli errori passati nei rapporti con la Russia. E dare una risposta politica alla crisi in Ucraina

La Russia non è

così misteriosa

l’occidente, da cui prendono in prestito lo stile di vita e le aspirazioni. Per gli occi-dentali la Russia non è ancora perduta, e questa prospettiva storica, economica e sociologica è fondamentale per analizzare la crisi ucraina, partendo da un elemento troppo spesso sottovalutato. Come reagi-rebbero statunitensi ed europei se la Con-federazione svizzera decidesse di entrare in un’alleanza militare dominata dalla Ci-na? E se il Messico si unisse a un’intesa guidata dalla Russia? Naturalmente si sentirebbero minacciati. La ragione di sta-to gli impedirebbe di accettarlo e farebbe-ro di tutto per scongiurare questa even-tualità. In poche parole, farebbero esatta-mente quello che ha fatto la Russia con l’Ucraina. L’alleanza atlantica non ha mai garantito che non si sarebbe allargata ino ai conini russi, e questa è senz’altro la pri-ma motivazione della guerra in Ucraina.

Lo spettro della guerraQuindi dovremmo capire Putin e perdo-narlo senza reagire? Assolutamente no, per tre motivi. Il primo è che nel momento in cui Mosca ha aperto la crisi impedendo agli ucraini di irmare il partenariato eco-nomico con l’Unione europea non c’era alcuna prospettiva di un ingresso di Kiev nella Nato. La stragrande maggioranza degli ucraini non ci pensava nemmeno. La Casa Bianca non li aveva incoraggiati in questa direzione e gli europei erano so-stanzialmente contrari. Non è per rispon-dere a una minaccia per la sicurezza della Russia che Putin si è pericolosamente im-mischiato negli afari interni dell’Ucraina. La verità è che il Cremlino vuole ricostitu-ire l’impero russo rimettendo le mani su-gli stati usciti dall’Unione Sovietica, e te-me che l’afermazione del processo demo-cratico nei paesi ex sovietici possa far ve-nire strane idee anche ai russi. Il secondo motivo per cui il comportamento del

Non sappiamo ino a che punto intende spingersi Putin, ma è possibile che voglia assoggettare il resto dell’ex Unione Sovietica

Bernard Guetta per Internazionale

vi Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014

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Cremlino è inammissibile è che Mosca ha brandito una minaccia immaginaria per annettere la Crimea nel disprezzo del di-ritto internazionale. Il terzo motivo, ini-ne, è che la Russia sta usando la forza per costituire un protettorato sulle province orientali dell’Ucraina.

Non possiamo sapere ino a che punto intende spingersi Putin ed esiste la possi-bilità che voglia assoggettare il Kazaki-stan, la Georgia, la Bielorussia e il resto dell’ex Unione Sovietica. Da parte del Cremlino sarebbe stato più ragionevole lanciare un ultimatum e far sapere quale sarebbe stata la sua reazione nel caso in cui la Nato avesse aperto la porta all’Ucraina, ma non possiamo accettare questa sostituzione delle armi al diritto in-ternazionale. A questo punto sarebbe molto pericoloso rassegnarsi, perché sull’Europa incombe ormai lo spettro di una guerra. Ma cosa possono fare l’Unio-ne europea e gli Stati Uniti dato che (per fortuna) i loro popoli e i loro leader non in-

tendono usare la forza contro Putin? La risposta è di natura politica. Biso-

gnerebbe far capire alla Russia che l’alle-anza atlantica non vuole accerchiarla; che spera, al contrario, nella neutralità dei pa-esi che la circondano; che è pronta a ofri-re tutte le garanzie necessarie e a imporle a questi paesi, e che un nuovo referendum sotto la supervisione internazionale do-vrebbe decidere la sorte della Crimea. Nel frattempo, inché le truppe russe saranno in Ucraina, le sanzioni economiche do-vrebbero essere raforzate ino all’arresto delle importazioni energetiche, a cui l’Eu-ropa dovrà prepararsi. Gli occidentali do-vrebbero proporre al Cremlino un’alterna-tiva chiara. Gli imprenditori, la classe me-dia e l’opinione pubblica della Russia do-vranno essere consapevoli che la scelta è tra l’isolamento economico del loro paese (con conseguente ingresso nell’orbita ci-nese) e un accordo sulla stabilità e la coo-perazione in Europa, che porterebbe van-taggi a entrambi i pilastri del continente.

Bisogna quindi invertire l’onere della pro-va davanti a una Russia che oggi crede alle menzogne del suo presidente. Non pos-siamo più scommettere sull’inesistente buona volontà di Putin, ma dobbiamo metterlo in diicoltà (economica e politi-ca) e stabilire nel frattempo una linea ros-sa al di là della quale l’Europa e gli Stati Uniti non esiterebbero a reagire armando l’Ucraina. Vladimir Putin non è Hitler. Il suo obiettivo non è conquistare il mondo intero, anche perché non ne avrebbe i mezzi. Ma questo non signiica che gli oc-cidentali, dopo aver commesso una serie ininita di errori nei rapporti con la Russia, dovrebbero lasciare che l’Europa sprofon-di nell’abisso. u as

Bernard Guetta sarà a Ferrara il 4 ottobre per parlare dei rapporti tra Europa e Stati Uniti con Josef Joffe, David Rieff e Luigi Spi-nola, e il 5 ottobre per l’incontro sulla Russia e la crisi in Ucraina con Ilya Azar, Georgij Bovt e Andrea Pipino di Internazionale.

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Turisti di fronte alla cattedrale di San Basilio, a Mosca

Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014 vii

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Ci servono per fare pressione, per cam-biare le cose, per liberare gli esponenti dell’opposizione e dei movimenti giova-nili, per organizzare una campagna con foto e video su YouTube. Dunque in un certo senso i social network oggi sono di-ventati più eicaci.

Secondo lei quale sarà il ruolo dei giova-ni nel determinare il futuro dell’Egitto?

I giovani sono la principale forza di cambiamento. Tutto quello che è succes-so in Egitto è partito da loro e solo in se-guito si sono uniti altri gruppi. I giovani vogliono ancora migliorare il paese, op-pongono resistenza a qualsiasi tentativo di ritorno al passato. Continuano a fare pressione in piazza, vogliono mettere ine a qualsiasi forma di violazione dei diritti umani. Esercitano ancora un ruolo deci-sivo, che però non ha più a che fare solo con la rivoluzione. Cercano di partecipa-re alla costruzione del paese. –Harvard Political Review

Esraa Abdel Fattah sarà a Ferrara il 3 ottobre per parlare di movimenti di protesta nel Mediterraneo con Doris Gutiérrez Palacín, Gianluca Solera e Fabio Laurenzi del Cospe.

Il volto della rete

P er l’impegno durante le proteste del 2008 e del 2011 lei è diventata famo-sa come “la ragazza di Facebook” .

Qual è stato il ruolo dei social network nei movimenti emersi in Egitto in quel periodo?Nel 2008 e nel 2011 in Egitto i social net-work sono stati innanzitutto uno stru-mento per il cambiamento. Ogni volta li abbiamo usati secondo i bisogni del mo-mento, in base a quello che volevamo ot-tenere. Nel 2008 sono serviti a invitare gli egiziani a partecipare allo sciopero del 6 aprile, e nel 2011 a chiamare il popolo a unirsi a noi all’inizio della rivoluzione.

L’utilizzo dei social network è cambiato dopo la rivoluzione?

Sì, perché lo stato ha cominciato a sfruttare la rete per comunicare. Gli espo-nenti della società civile, invece, oggi usano i social network per raggiungere gli altri cittadini, e non solo per promuovere la partecipazione alle manifestazioni a piazza Tahrir, com’è accaduto nel 2011.

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L’attivista e blogger egiziana Esraa abdel Fattah spiega com’è cambiato il ruolo dei social network nel suo paese

Esraa Abdel Fattah

Focus

Anniversari

diversi

L’informazione è tra i ili condut-tori di questa edizione del festi-val. Il giornalista britannico Da-

vid Randall, uno dei più assidui a Ferra-ra, quest’anno festeggerà i suoi qua-rant’anni di carriera. Senior editor del settimanale The Independent on Sun-day, columnist di Internazionale e fon-datore della casa editrice Black Toad, Randall è autore di alcuni tra i più im-portanti saggi sul giornalismo. Il 3 otto-bre a palazzo Roverella svelerà i segreti della professione agli studenti dei licei Roiti e ariosto di Ferrara.

In occasione dei vent’anni dall’omi-cidio della giornalista di Rai 3 Ilaria alpi e del cineoperatore Miran Hrovatin, il 4 ottobre alla biblioteca ariostea si parlerà di traico di riiuti in Italia e nel mondo durante l’incontro “Da Ilaria alpi alla Terra dei fuochi”. Interverranno amalia De Simone del Corriere.it, andrea Pal-ladino del Fatto Quotidiano e il giornali-sta e regista Emanuele Piano. L’incon-tro, organizzato in collaborazione con l’associazione Ilaria alpi, sarà introdotto e moderato da annalisa Camilli di Inter-nazionale. a seguire sarà proiettato il documentario Toxic Somalia di Paul Mo-reira. u

Info: internazionale.it/festival

I quarant’anni di carriera di David Randall e i vent’anni dall’omicidio di Ilaria alpi: a Ferrara le date da ricordare

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viii Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014

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L’altro cinema

Documentari e spettacoli

u Dopo il 2 ottobre, la rassegna di cinema d’autore internazionale Mondocinema, a cura di Francesco Boille, prosegue il 3 e il 4 ottobre alla sala Estense. Qui saranno proiettati gratuitamente gli altri tre ilm scelti per dare visibilità a opere che sten-tano a trovare distribuzione in Italia. Il primo sarà L’image manquante, vincitore del premio Un certain regard al Festival di Cannes 2013 e candidato agli Oscar 2014 come miglior ilm straniero. Attraverso statuette d’argilla il documentarista cam-bogiano-francese Rithy Pahn ripercorre la storia della sua infanzia e della sua fa-

Negli ultimi anni la Grecia è diven-tata un caso, con un partito di si-nistra, Syriza, che potrebbe anda-

re al governo alle prossime elezioni e in-luenzare la politica del resto di Europa. Fino a poco tempo fa il leader di Syriza, Alexis Tsipras, era una igura poco nota, ma ora potrebbe diventare il prossimo pri-mo ministro greco. È impegnato in politi-ca da alcuni anni ed è stato in grado di conquistare molti elettori delusi dai vecchi partiti. Il nostro ilm intende mostrare la trasformazione di Syriza, seguendo gli svi-

miglia, distrutte dal genocidio commesso in Cambogia dai Khmer rossi tra il 1975 e il 1979. El estudiante di Santiago Mitre, premiato a Locarno, segue invece la for-mazione politica di uno studente arrivato a Buenos Aires. A chiudere la rassegna sa-rà Pelo Malo, di Mariana Rondón, in cui si illustra il diicile rapporto di un bambino di nove anni, Junior, con la madre vedova e disoccupata, in una Caracas violenta che imprigiona rapporti e sentimenti.

Info internazionale.it/festival/mondocinema

luppi interni al partito a partire dalla cam-pagna per le elezioni di giugno del 2012. Volevamo raccontare una igura politica emergente, capire meglio le sue intenzioni e il modo in cui si muove insieme al parti-to in un momento storico cruciale. Abbia-mo anche cercato di spiegare come le vi-sioni e le idee politiche evolvono nelle di-scussioni a porte chiuse e sono in seguito presentate al pubblico da Tsipras. Abbia-mo seguito da vicino l’uomo che ha guida-to l’opposizione al piano di salvataggio im-posto dall’Europa ascoltando i suoi discor-si, incontrando i suoi amici, familiari e colleghi e documentando il suo rapporto con gli elettori. Abbiamo voluto dare spa-zio anche a momenti lontani dalla scena politica, facendo attenzione a un gesto, a un oggetto o a un silenzio. L’obiettivo era seguire nella prima parte del documenta-rio il corso degli eventi come in una crona-ca, e poi rivelare gradualmente la perso-nalità di Tsipras in un ritratto che unisca le sue tante sfaccettature. u

Info La rassegna Mondovisioni è a cura di CineAgenzia. I documentari saranno proiettati al cinema Boldini. internazionale.it/festival/documentari

Ritratto di un leader

Hope on the line

Alexandre Papanicolaou ed Emilie Yannoukou raccontano Alexis Tsipras, alla guida del partito di sinistra greco Syriza

Le elezioni del parlamento europeo nel maggio del 2014 hanno modi-icato gli equilibri di potere all’in-

terno dell’assemblea di Strasburgo. Chi comanda davvero in Europa? E quali sa-ranno gli obiettivi del parlamento nei prossimi cinque anni? Questi temi saran-no trattati durante l’incontro organizzato in collaborazione con la Commissione europea il 5 ottobre al Teatro comunale.

A parlare di democrazia e giochi di po-tere nell’Unione saranno Ferdinando Giugliano del Financial Times, l’editore Giuseppe Laterza, Enzo Moavero Mila-nesi, giurista, avvocato ed ex ministro per gli afari europei, e Lucio Battistotti della Commissione europea. Parteciperanno anche i disegnatori Niels Bo Bojesen, Marco Tonus e Gianfranco Uber, che rea-lizzeranno vignette dal vivo. L’incontro sarà introdotto e moderato da Adriana Cerretelli del Sole 24 Ore, e sarà precedu-to dalla premiazione della migliore vi-gnetta politica pubblicata sulla stampa italiana nel 2014, scelta attraverso il con-corso organizzato dalla Rappresentanza in Italia della Commissione europea in collaborazione con Internazionale. Sa-ranno presenti Thierry Vissol della Com-missione europea e Gianfranco Uber, vincitore dell’edizione del 2013. u

Info internazionale.it/festival

Dove va l’Europa?

I partiti euroscettici e l’indebolimento dell’asse franco-tedesco hanno imposto un nuovo ordine all’interno dell’Unione europea

Focus

La vignetta vincitrice del 2013

Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014 xi

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Portfolio 2013

La chiusura del festival 2013 al Teatro comunale

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xii Internazionale 1071 | 3 ottobre 2014

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