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ISSN: 2038-7296 POLIS Working Papers [Online] Istituto di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS Institute of Public Policy and Public Choice – POLIS POLIS Working Papers n. 210 December 2013 La garanzia dei diritti culturali: Recepimento delle norme internazionali, sussidarietà e sistema dei servizi alla cultura Massimo Carcione UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo AvogadroALESSANDRIA Periodico mensile on-line "POLIS Working Papers" - Iscrizione n.591 del 12/05/2006 - Tribunale di Alessandria

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ISSN: 2038-7296POLIS Working Papers

[Online]

Istituto di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLISInstitute of Public Policy and Public Choice – POLIS

POLIS Working Papers n. 210

December 2013

La garanzia dei diritti culturali:Recepimento delle norme internazionali,

sussidarietà e sistema dei servizi alla cultura

Massimo Carcione

UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro” ALESSANDRIA

Periodico mensile on-line "POLIS Working Papers" - Iscrizione n.591 del 12/05/2006 - Tribunale di Alessandria

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PREFAZIONE

La tesi di dottorato qui pubblicata, frutto delle ricerche condotte dall’autore nel cor-so del XXIV ciclo – primo del DRASD - è stata discussa il 16 febbraio 2012 e valutata con giudizio “molto positivo” dalla Commissione (composta dai professori Guido Meloni, Giorgio Grasso e Vincenzo Salvatore Gonario Satta), secondo la quale le ricerche “presenta-no spunti originali anche alla luce del caso studio presentato”. Già la presentazione del tutor, peral-tro, aveva evidenziato che lo studio “si segnala per l’originale tentativo di ridiscussione critica di al-cune questioni comunemente trascurate dalla dottrina”.

In seguito, anche l’avvocato Raffaele Tamiozzo1, interpellato per un giudizio critico dal coordinatore del dottorato, in qualità di esperto di legislazione e amministrazione in campo culturale, ha definito la parte generale sui diritti culturali “un proficuo tentativo di intro-duzione di una categoria concettuale innovativa nella delicata e complessa materia dello studio e dell’analisi della funzione affidata al patrimonio culturale”.

Proprio in considerazione dell’attualità e originalità, alcune parti della tesi – opportu-namente rielaborate e aggiornate – sono già state in precedenza2 o stanno a per essere og-getto di pubblicazione nell’ambito di riviste o collane specializzate:

Ong internazionali e volontariato: sussidiarietà e partecipazione, per la salvaguardia e la sicurezza del patrimonio culturale, in Aedon, Rivista di arti e diritto on line, n. 1-2/2012, Il Mulino, Bo-logna3;

Dal riconoscimento dei diritti culturali nell'ordinamento italiano alla fruizione del patrimonio cultu-rale come diritto fondamentale, in Aedon, Rivista di arti e diritto on line, n. 2/2013, Il Mulino, Bologna4;

Dalle reti di solidarietà e conoscenze, al sistema integrato di valorizzazione del patrimonio culturale, in PICCHIO FORLATI L. (a cura di), Il patrimonio culturale immateriale di Venezia come pa-trimonio europeo, Sapere l'Europa, sapere d'Europa 1, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2014 (in c.d.p.)5;

I diritti culturali nelle convenzioni UNESCO e nell'ordinamento nazionale, in ZAGATO L. (a cura di), Al cuore della cittadinanza europea, i diritti culturali, Sapere l’Europa, sapere d’Europa 3, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2014 (in c.d.p.)6.

La tesi è corredata di un secondo volume, dedicato all’analisi di un caso di studio par-ticolarmente significativo e rilevante, a livello nazionale e locale, a sua volta pubblicato in questa stessa collana7.

1 Avvocato dello Stato del Ministero per i Beni e le Attività culturali e docente presso l’Università di Roma “La Sapienza”, già Capo di Gabinetto del Ministro per i Beni culturali dal 1983 al 1987. 2 Già nel corso del triennio di dottorato erano stati pubblicati nell’Annuario DRASD (a cura di R.BALDUZZI, Giuffré editore) i due saggi: “Gestione dei siti culturali ‘patrimonio dell’umanità’ e sussidiarietà” (2010) e “Per una definizione dei Diritti Culturali garantiti dall'ordinamento italiano” (2011). 3 http://www.aedon.mulino.it/archivio/2012/1_2/carcione.htm 4 http://www.aedon.mulino.it/archivio/2013/2/carcione.htm 5 Il volume raccoglie le conferenze del Seminario “Il patrimonio culturale immateriale di Venezia: fino a quando?” organizzato dal Coordinamento delle Scuole Grandi di Venezia; in particolare questa lezione si è tenuta alla Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, il 27 gennaio 2012. 6 Il volume raccoglie gli atti del convegno tenutosi il 4 giugno 2013, presso l’Aula “Baratto”, Rettorato dell’Università di Venezia Ca’ Foscari, promosso dal CESTUDIR, Centro studi sui diritti umani e con il patrocinio dela Commissione Europea. 7 POLIS Working Papers n. 211, dicembre 2013. in: http://polis.unipmn.it/pubbl/

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La garanzia dei diritti culturali

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Università del Piemonte Orientale

Amedeo Avogadro

Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali

Tesi di dottorato nel

Corso Dottorato di Ricerca in Autonomie locali, Servizi pubblici

e Diritti di cittadinanza (XXIV Ciclo)

Coordinatore:

prof. Renato Balduzzi

Titolo:

LA GARANZIA DEI DIRITTI CULTURALI: RECEPIMENTO DELLE NORME INTERNAZIONALI,

SUSSIDIARIETÀ E SISTEMA DEI SERVIZI ALLA CULTURA.

Tutor Dottorando

prof. Luca Geninatti Saté dott. Massimo Carcione

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Massimo Carcione

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INDICE PREMESSA .............................................................................. ……………… p. 7 1. I PROBLEMI DEL RECEPIMENTO DELLE

FONTI INTERNAZIONALI IN AMBITO CULTURALE ............................................................. …………….. p. 15

1.1 Norme, strumenti e prassi internazionali 1.2 Il ruolo dell’UNESCO e delle istituzioni

internazionali ed europee 1.3 I diritti culturali: una nozione internazionalistica 1.4 Le norme internazionali di protezione del patrimonio culturale

e paesaggistico 1.5 Il procedimento italiano di candidatura alla Lista del patrimonio

mondiale presso l’UNESCO 1.6 Per una definizione delle caratteristiche giuridiche

proprie dei siti UNESCO 2. IL PROBLEMA DEL RICONOSCIMENTO

NEL DIRITTO POSITIVO DELLA CATEGORIA DEI “DIRITTI CULTURALI” .... ………………… p. 51

2.1 La concezione della cultura nell’ordinamento italiano 2.2 La dottrina italiana che accetta una nozione unitaria

di diritti culturali 2.3 I diritti culturali recepiti nell’ordinamento italiano

a) Le convenzioni internazionali ratificate b) Gli altri documenti internazionali in materia c) Catalogo sistematico dei diritti

2.4 Tutela dei diritti, definizione delle competenze e organizzazione dei servizi

2.5 Per una definizione sintetica dei diritti culturali

3. LA RIDEFINIZIONE DELLE FUNZIONI AMMINISTRATIVE IN CAMPO CULTURALE E IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ ...................................................... ……………….. p. 101

3.1 Il rapporto tra la tutela e le altre funzioni a) La dialettica tra Regioni e Stato dopo la riforma del Titolo V b) L’evoluzione del quadro normativo ante 2001

3.2 Le funzioni di valorizzazione e promozione a) Valorizzazione b) Promozione della cultura e della conoscenza

3.3 Connessioni e distinzioni rispetto alle altre funzioni a) Tutela b) Gestione

3.4 Le competenze e le relazioni interistituzionali

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La garanzia dei diritti culturali

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a) Chi governa la valorizzazione? b) Per una effettiva sussidiarietà in ambito culturale c) Un nuovo criterio di amministrazione

3.5 Istituti e strumenti per l’attuazione del principio sussidiarietà a) esercizio unitario di funzioni e livello ottimale (provinciale) della funzione di coordinamento b) l’accordo di programma come garanzia di leale collaborazione e buon andamento c) partecipazione della cittadinanza e dell’individuo

3.6 Per una nuova definizione della fruizione 4. L’ORGANIZZAZIONE DEL SISTEMA

DI SERVIZI, PUBBLICI E PRIVATI, PER LA CULTURA E LA CONOSCENZA ................ ……………. p. 187

4.1 Bisogni culturali e personalizzazione della cultura 4.2 Indagine sui servizi considerati “culturali” a livello locale

a) Criteri utilizzati b) Catalogo

4.3 La correlazione tra servizi culturali, fruitori e loro diritti 4.4 Il quadro normativo vigente 4.5 Servizi privi di rilevanza economica in quanto “non remunerativi” 4.6 Forme di gestione dei servizi culturali: un raffronto tra gli esiti di

due studi applicativi a) Gestione diretta, concessione o esternalizzazione b) Società c) Aziende speciale e società consortile d) Istituzione e) Associazione f) Fondazione g) Consorzio

4.7 Autonomia e pluralismo degli istituti della cultura a) Garanzie statutarie e finanziarie b) Competenza e indipendenza degli amministratori c) Rappresentanza di diritti collettivi e interessi diffusi in campo culturale

4.8 L’integrazione dei servizi: reti, itinerari, sistemi 4.9 Per una definizione dei caratteri propri dei servizi

culturali

5. CONCLUSIONI E SPUNTI PER ULTERIORI RICERCHE ................................................................. ………………. p. 277

a) Un’opportunità: attuare le norme per il riconoscimento e la valorizzazione del volontariato culturale qualificato

b) Una novità: i “Programmi unitari di valorizzazione territoriale” e le loro analogie con i piani di gestione dei siti UNESCO

c) Una prospettiva: il “Diritto a Internet” a garanzia dei l.e.p. dei servizi di promozione e fruizione culturale nelle aree periferiche

BIBLIOGRAFIA GENERALE ............................................ p. 295

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PREMESSA

Sed ne cui vestrum mirum esse videatur me in quaestione legitima et in iudicio publico (…)

hoc uti genere dicendi, quod non modo a consuetudine iudiciorum, verum etiam a forensi sermone abhorreat; quaeso a vobis,

ut in hac causa mihi detis hanc veniam, adcommodatam huic reo, vobis (quem ad modum spero) non molestam, ut me (…)

uti prope novo quodam et inusitato genere dicendi. CIC., Arch. 38

È buona norma, in ogni lavoro scientifico, partire dalla definizione dei concetti fondamentali; si consideri dunque in primo luogo la nozione di cultura nella recente defini-zione di Jörg Luther9, che viene senz’altro recepita, condivisa e adottata, e costituirà un punto di riferimento costante ai fini della successiva trattazione:

«Per cultura si possono intendere non soltanto oggetti (“reificazioni”) aventi valore simbolico, ma anche le forme di vita delle singole comunità, nonché gli elementi di comunicazione o modelli di comportamento che determinano l’identità della persona. Questo può includere le attività di formazione dello spirito, istruzione e religione, ma anche lo sport e tutte quelle attività “ricrea-tive” della persona che cercano di dare un senso al “tempo libero”. Le stesse attività politiche ed economiche possono essere oggetto di cultura e possono avere per oggetto la cultura. Quel che contraddistingue la cultura è la qualità di particolare attività e di beni creati o protetti dall’uomo, atti alla formazione autonoma della coscienza degli esseri umani, delle loro ricerche e dei loro giudizi di senso e di valore».

Poiché sovente si tende a restringere l’ambito culturale a quello più prettamente ar-tistico, è opportuno riportare anche la definizione di opera d’arte, elaborata qualche anno fa dalla Cassazione10: «L’opera d’arte è quella che, obbedendo a criteri estetici, sia espressione del modo di sentire o interpretare la vita secondo la personalità dell’autore, e valga a susci-tare stati emotivi, a procurare godimento spirituale, a trasformare sentimenti, passioni o idee, a commuovere o a convincere».

Se invece si considera la definizione di arte proposta qualche anno fa da Francesco Rimoli (impeccabile sul piano scientifico, ma alquanto astrusa della terminologia)11, appare

8 “Perché a nessuno di voi sembri strano che io (...) favelli in uno stile che è assai remoto da

quello che comunemente si usa nel tribunale, ma discorda eziandio dal parlare avvocatesco, io vi prego che (...) voi mi permettiate che io mi valga di una forma di orazione nuova”, trad. da M.T. CICERONE, Pro A. Licinio Archia poeta,, Roma, Dante Alighieri, 1984, pp. 12-14; sono debitore della citazione a Giulio Volpe (G. VOLPE, Manuale di diritto dei beni culturali. Storia e attualità, Padova, Cedam, 2007, p. 9). La vi-cenda faceva riferimento alla difesa del poeta Archia, che nel 62 a.C. era stato accusato di usurpazione del titolo di cittadino romano per ragioni politiche, titolo che venne vittoriosamente rivendicato proprio sul presupposto dei suoi alti meriti letterari.

9 J. LUTHER, Le frontiere dei diritti culturali in Europa, in G. ZAGREBELSKY (a cura di), Diritti e Costituzione nell’Unione Europea, Laterza, Bari 2004, p. 226.

10 Cass. Sez. III, 22 aprile 1963, in Cass. Pen. Mass. Ann., 1964, p. 232, m. 355, che offre un’ulteriore dimostrazione del fatto che è possibile esprimersi in termini rigorosamente giuridici senza per questo risultare criptici.

11 F. RIMOLI, La libertà dell’arte nell’ordinamento italiano, Padova, Cedam, 1992, p. 11; va detto che è

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La garanzia dei diritti culturali

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evidente una significativa differenza in termini di immediatezza ed efficacia espositiva, spe-cialmente per chi non è avvezzo a leggere testi giuridici, come la quasi totalità di coloro che applicano quotidianamente nel proprio lavoro il diritto della cultura:

«L’arte si pone come un agire ontologicamente denotato da una semanticità non normativizza-bile a priori, e spesso fondato su un rapporto dialetticamente negativo nei confronti del contesto sociale in cui si realizza, sì da costituirne in buona sostanza il momento di più intimo sovver-timento, (...) ben poco cristallizzabile in un sistema deontologico di tipo giuridico-normativo».

Poiché è auspicabile che amministratori e tecnici del patrimonio culturale siano in-dotti a trarre da questa ricerca riferimenti, materiali e strumenti – riferibili alla fisiologia amministrativa, piuttosto che alla patologia forense – originali e utili al loro lavoro, lo stile espositivo12 sarà più amministrativo-gestionale13 che non accademico o forense: pertanto tenderà a evitare, almeno tendenzialmente, il linguaggio e la terminologia dell’ultima cita-zione, la quale con tutta evidenza non è d’aiuto nel superare le difficoltà ermeneutiche e l’alto tasso di ambiguità semantica dell’ambito culturale.

Ciò giustifica la scelta, quasi obbligata, di una “tesi sperimentale”, rivolta non solo all’accademia ma anche alle amministrazioni statali e agli enti locali interessati, potendo ri-sultare in qualche misura utilizzabile nelle relative procedure di indirizzo e programmazio-ne; concordando in questo, come per molti altri punti di vista, con Michele Ainis, secondo il quale «la scienza del diritto non può nutrirsi unicamente di domande: è bene ricordare in-fatti che essa serve in primo luogo a regolare casi pratici»14.

Quanto ai riferimenti bibliografici, nell’impossibilità di fornire sempre un quadro esaustivo del dibattito su tutti i numerosi e diversi argomenti che dovranno essere via via considerati, sono stati individuati alcuni testi di riferimento: quelli considerati fondamentali, in quanto hanno anticipato di anni i punti di vista e le posizioni qui espresse, rispetto a una dottrina contraria del tutto prevalente; altri, in ragione del fatto che sono particolarmente recenti, completi ed aggiornati – il che è ancor più significativo, trattandosi di un ambito che è stato oggetto di recentissime e radicali riforme – e proprio per questo costituiscono il migliore e più completo riferimento per chi voglia approfondire uno o più dei temi che nel corso della disamina potranno essere solo sfiorati.

Ciò doverosamente premesso, ed entrando subito in medias res, è ben noto che

l’ordinamento italiano ancora non riconosce esplicitamente la categoria dei “diritti cultura-

lo stesso Autore a denunciare sin dall’introduzione il «palese stato di disagio in cui si viene a trovare il giurista» alle prese con il fenomeno culturale.

12 Cfr. M. AINIS, L’intervento culturale, Promozione e libertà della cultura nel disegno costituzionale, Roma, 1988, p. 40-41 (studio ripubblicato, in versione ampliata, con il titolo Cultura e politica, Milano, Giuffré, 1991); si rinvia in merito all’intero capitolo secondo (pp. 39-110) ed in particolare alle ampie e argomen-tate considerazioni su «Diritto e linguaggio» (pp. 49-56), pienamente condivise e fatte proprie dall’estensore di questa ricerca.

13 Avendo intrapreso questa ricerca due decenni dopo la tesi di laurea di diritto internazionale pubblico (La protezione dei beni culturali nei conflitti armati, Relatore prof. A. Marazzi, Università di Torino) inevitabilmente il metodo, lo stile e la terminologia di questo lavoro ne risentono; dopo una carriera ventennale come funzionario direttivo negli enti pubblici locali, il fatto di operare da giurista in settori dell’amministrazione della res publica (organi istituzionali, relazioni con il pubblico, pubblica istruzione, attività culturali, organizzazione di eventi, direzione di istituti culturali) ha infatti determinato la tendenza a un approccio operativo ai problemi e ai relativi atti amministrativi. Infine, il ritorno alla didattica e alla ricerca in ambiti non giuridici (nei corsi di laurea di Sviluppo locale e territorio della Facoltà di Scienze Politiche e presso un istituto di storia della resistenza), ha reso poco frequenti le occasioni di utilizzo dell’armamentario argomentativo propriamente giuridico.

14 Cfr. M. AINIS , L’intervento culturale, cit., p. 14.

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li”, che pure è stata sancita dapprima dall’art. 22 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, quindi dai Patti ONU del 1966 e da molti altri strumenti internazionali ed europei, tutti ratificati dall’Italia; non viene infatti ritenuto sufficiente a tal fine il generi-co richiamo operato dall’art. 2 Cost., né i numerosi riferimenti diretti e indiretti che si pos-sono trovare tra i principi fondamentali (artt. 3, 6, 8 e 9) e nella prima parte della Carta co-stituzionale (artt. 15, 19, 21, 33 e 34).

La concezione che sta alla base di questo atteggiamento si può così sintetizzare: 1) ancora oggi prevale l’idea di una “Cultura nazionale” di esclusiva o prevalente com-

petenza statale, che si ritiene adeguatamente garantita da un lato dalla storica fun-zione di tutela ex art. 9 Cost. e dall’altro dal sistema della “Pubblica istruzione”, uni-co ambito in cui è universalmente riconosciuta l’esistenza di diritti individuali;

2) tuttavia l’effettività della competenza nazionale di tutela, inscindibilmente legata all’esercizio di funzioni autoritative (il vincolo sui beni privati), viene fortemente con-dizionata dall’altrettanto storica carenza di risorse statali, mentre il diritto all’istruzione – in genere concepita più come un dovere (la scuola dell’obbligo) – vie-ne rivendicato solo in caso di gravi carenze o discriminazioni; praticamente nessuno in Italia, infine, riconosce valore “culturale” al diritto di accesso agli atti o alla liber-tà di religione, opinione ed espressione;

3) ciò conferma che non si tiene conto in modo adeguato dell’insieme delle norme in-trodotte nell’ordinamento dal recepimento di fonti internazionali, anche quando potrebbero essere utili al fine di riorganizzare le funzioni di valorizzazione, promo-zione e fruizione.

Dopo la riforma iniziata con i Decreti “Bassanini” e portata a compimento con il nuovo Titolo V della Costituzione, alla competenza statale in materia di tutela è stata però affiancata (art. 117 c. 3) la competenza regionale - sulla base dei principi statali, trattandosi di competenza concorrente - in materia di valorizzazione dei beni e di promozione delle at-tività culturali, peraltro riconosciuta sin dal 1977 e poi formalizzata, dopo il 1990, con rife-rimento alle funzioni degli enti locali.

Queste competenze e funzioni fanno dunque capo al sistema delle regioni e delle autonomie locali, che da sempre si caratterizzano per una maggiore attenzione ai principi di decentramento, pluralismo, leale collaborazione, trasparenza e partecipazione, oltre che per la maggiore disponibilità di risorse e strutture finalizzate alla organizzazione di servizi pub-blici per la fruizione del patrimonio culturale, materiale e immateriale.

Tale sistema, la cui azione è oggi fondata sul principio costituzionale di sussidiarietà verticale (art. 118 c.1) e sulle rispettive norme statutarie, dialoga e collabora strettamente con il c.d. “terzo settore”, composto da singoli cittadini e volontari, associazioni, fondazio-ni e altre istituzioni culturali, private ma finalizzate anch’esse al perseguimento di “interessi generali”, sulla base del correlato principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 c.4).

Dunque la garanzia dei diritti culturali, formalmente trascurata dall’ordinamento sta-tale (e per conseguenza da giurisprudenza e dottrina), se non per quanto concerne l’istruzione, sino ad oggi è stata almeno in parte assicurata sul piano sostanziale dal sistema delle regioni, delle autonomie locali e della società civile, attraverso l’azione dei molteplici servizi pubblici e privati del settore culturale.

Nei confronti di questa tipologia di servizi pubblici locali, come di tutte le altre, i cittadini vantano sia diritti individuali (servizi di fruizione e di accesso), che diritti collettivi (servizi di tutela, gestione, promozione e informazione); ma si possono anche configurare interessi diffusi alla promozione della cultura e alla valorizzazione del patrimonio, benché al momento non risultino ancora attivabili adeguati meccanismi di garanzia, che potrebbero forse essere mutuati dall’omologa legislazione in materia di tutela ambientale.

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La garanzia dei diritti culturali

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Per una migliore tutela dei diritti culturali – fatta salva l’eventualità di adeguate ga-ranzie giurisdizionali - è dunque necessario in primo luogo implementare (prendendo spun-to proprio da principi, linee guida e standard internazionali) l’autonomia delle istituzionali culturali e la partecipazione della cittadinanza, la competenza tecnico-scientifica delle istitu-zioni stesse e una collaborazione non solo leale, ma stabile e strutturata, tra tutti i diversi attori pubblici e privati che compongono la rete (meglio sistema) nazionale di valorizzazione e promozione culturale.

Questo ragionamento teorico è stato dapprima strutturato, e poi verificato empiri-camente, attraverso l’analisi approfondita di un case study non molto conosciuto, in quanto tuttora in itinere, ma emblematico di quasi tutte le problematiche poc’anzi prospettate: attra-verso l’analisi puntuale dei procedimenti istituzionali e amministrativi, completati o attual-mente in corso, viene posto in evidenza il ruolo determinante degli enti locali – pur ope-randosi in una zona monumentale di proprietà dello Stato, inserita da anni nella tentative list italiana presso l’UNESCO – per la valorizzazione e gestione del sito e nella promozione e gestione delle attività ad esso connesse, rispetto alle quali le istituzioni regionali e nazionali hanno recitato e recitano un ruolo del tutto marginale.

Oltre al prof. Renato Balduzzi e al prof. Luca Geninatti Saté, ai quali va tutta la mia

gratitudine per la disponibilità, pazienza e comprensione dimostrata nel seguire l’evoluzione di questo lavoro, ringrazio per i preziosi consigli e le osservazioni critiche i professori E. Bruti Liberati, S. Cassese, A. Crosetti, E. Greppi, J. Luther, L. Zagato; grazie anche ai proff. L. Casini, M. Cavino, e ai colleghi e amici del XXIV Ciclo del DRASD, per le utili discus-sioni e il proficuo confronto di idee.

Una menzione particolare, tra i tanti illustri Docenti del corso, merita certamente il prof. Peter Häberle, che ho avuto l’onore di ascoltare e conoscere personalmente solo una settimana prima della conclusione del triennio e a pochi mesi dalla discussione della tesi; come si vedrà in conclusione, da un passaggio della Sua magistrale lectio ho potuto trarre la conferma più autorevole e incoraggiante a un’ipotesi che fino a quel momento mi era sem-brata ancora del tutto prematura e assai poco sostenibile.

Grazie a Giacomo Balduzzi, Paola Borrione, Dimitri Brunetti, Enrico Ercole, Gian-luca Famiglietti, Maria Vittoria Giacomini ed Elisa Ravarino e con cui ho condiviso, sotto ottiche disciplinari diverse, alcune ricerche e analisi; a Cecila Bisio, Simona Dinapoli, An-drea Foco, Nadia Ghizzi, Roberto Maestri, Cesare Manganelli, Rita Rossa e tutti gli altri amici e colleghi di istituzioni e associazioni culturali, per i molti spunti di discussione e ri-flessione.

Ringrazio l’Isral “C.Gilardenghi”, in persona di Carla Nespolo, Luciana Ziruolo e Paolo Carrega, per avere accolto, ordinato, conservato e messo a disposizione di studiosi e amministratori l’archivio dal quale sono tratte quasi tutte le informazioni sul caso di studio. Per la disponibilità della documentazione amministrativa sono inoltre debitore nei confron-ti dei servizi (culturali) messi a disposizione dall’Archivio Generale, dal Cedres, dal Servizio Beni culturali, dal Servizio Sviluppo Economico e dall’Ufficio progettazione tecnica della Provincia di Alessandria; ne sono quindi grato ai colleghi Responsabili. Ma il mio più senti-to ringraziamento va a al dott. Francesco Paolo Castaldo e al dott. Alessandro Casagrande, per l’interesse non solo istituzionale hanno sempre dimostrato nei confonti di questo lavo-ro.

Sono infine grato a mia moglie, che in questi anni ha talora smesso di parlare (quasi sempre delle sue dotte ricerche di storiografia greca), rispettando così anche i miei diritti cul-turali.

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1. I PROBLEMI DEL RECEPIMENTO DELLE FONTI INTERNAZIONALI IN AMBITO

CULTURALE

1.1. Norme, strumenti e prassi internazionali

Si intende dimostrare che non sarebbe corretto considerare la tutela e la valorizza-zione del patrimonio culturale e paesaggistico, come pure la promozione della cultura (di cui l’istruzione è parte integrante) o della ricerca scientifica, soltanto in funzione della ge-stione di una specifica e limitata categoria di beni materiali e di attività di pubblico interesse.

Tutt’al contrario, si tratta di attività intese ad amministrare un patrimonio e una serie di servizi ad esso correlati, di cui i cittadini oggi hanno il diritto di fruire, a condizione di non pregiudicare l’uguale e altrettanto legittima aspettativa delle generazioni future; solo attra-verso l’esercizio delle essenziali competenze e funzioni pubbliche di conservazione, pro-mozione, educazione e formazione, risulta possibile garantire l’effettiva attuazione del prin-cipio fondamentale proclamato all’art. 9 della nostra Carta costituzionale, e con esso anche il riconoscimento e la migliore garanzia di quella controversa categoria di diritti inviolabili, cui fanno implicito riferimento gli artt. 2 e 3 Cost., essendo inscindibilmente connessi alla dignità dell’uomo, sulla base dei principi universali dello jus gentium. La cultura, intesa nel senso più ampio di civiltà e conoscenza, è da decenni oggetto di principi1, norme e istituti del diritto internazionale pattizio che promana dalle organizza-zioni internazionali (universali o regionali), il quale da tempo ormai non ha più ad oggetto le sole relazioni interstatali, ma tende sempre più a regolare e garantire anche i diritti e le li-bertà fondamentali dell’individuo2.

L’insieme delle norme internazionali, formalmente recepite dal nostro ordinamento, ha sempre determinato nel diritto interno un vincolo di fonte pattizia e un conseguente ob-bligo di adeguamento3; il che comportava e comporta necessariamente, così come da tem-po avviene in ambito europeo per il tramite del diritto comunitario, l’adozione anche in Ita-lia di istituti, definizioni e persino categorie giuridiche teoriche che in precedenza non ave-vano trovato accoglienza da parte della nostra dottrina.

1 P. HÄBERLE, Per una dottrina della Costituzione come scienza della cultura, Roma, Carocci, 2001, p.

156, rileva che «il diritto internazionale universale e quello regionale hanno anticipato molti degli aspetti di umanità» propri dello Stato costituzionale, facendo emergere le «linee fondamentali di un patto sociale mondiale in materia di cultura e natura» grazie al quale l’umanità si costituisce come «multiculturalità».

2 R. BALDUZZI, I diritti umani, in L. ELIA e a., Corso di formazione politica, Genova, Il tempietto, 1990, pp. 75-90; B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, ES, 1997, pp. 139 ss; A. PIZZORUSSO, Diritto della cultura e principi costituzionali, in Quaderni costituzionali, 2000, pp. 317 SS.; A. CASSESE, I diritti umani oggi, Bari, Laterza, 2005, pp. 28 ss; U. DRAETTA, Principi di diritto delle organizzazioni internazionali, Milano, Giuf-fré, 2006, in particolare pp. 63 e ss. e 170 ss.; sull’individuo nel diritto internazionale G. CANSACCHI, Isti-tuzioni di diritto internazionale pubblico, Torino, Giappichelli, 1979, pp. 83 ss.; R. CHIARELLI, Profili costituzio-nali del patrimonio culturale, Torino, Giappichelli 2010, pp. 479-481.

3 Rinvio in merito alle considerazioni di F. SORRENTINO, Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale e comunitario, in Regioni, diritto internazionale e diritto comunitario (Atti del convegno dell’Associazione italiana dei costituzionalisti), Genova, 2002; il testo è disponibile nel sito: www.associazionedeicostituzionalisti.it; sulla protezione del patrimonio culturale mi permetto di riman-dare a M. CARCIONE, Gestione dei siti culturali, patrimonio dell’umanità e sussidiarietà, in R. BALDUZZI (a cura di), Annuario Drasd 2010, Milano, Giuffré, 2010, pp. 200-206.

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Nella Costituzione del 1948 esistevano già due principi fondamentali relativi al dirit-to e all’organizzazione internazionale: l’art. 10, in base al quale «l’ordinamento giuridico ita-liano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» (le con-suetudini, ma anche i principi fondamentali delle convenzioni più largamente ratificate e condivise a livello internazionale) e l’art. 11 secondo cui «l’Italia (…) promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte (…) alla pace tra le nazioni», il che costituisce, come noto, lo scopo ultimo non solo dell’ONU, ma anche dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza, la Cultura e la Comunicazione (UNESCO)4.

Ciò nonostante, la dottrina prevalente5 sembra ancora considerare le norme di dirit-to internazionale come un ambito separato e distinto6 rispetto al nostro ordinamento, an-

che una volta che i relativi trattati sono stati ratificati dal Parlamento (ex art. 80 Cost.) con la clausola «piena ed intera esecuzione è data alla convenzione», la quale attribuisce loro ad ogni formale effetto, forza vincolante nell’ordinamento interno, non trattandosi di una me-ra clausola di stile7. Il che è tanto più vero ove si tratti di norme redatte in modo puntuale e

preciso, con un contenuto direttamente precettivo, tale da consentire la loro diretta applica-zione (self-executing).

Pur costituendo, per il tramite formale dell’ordine di esecuzione, un «punto di con-tatto tra l’ordinamento internazionale e quello interno»8, la ratifica non ha garantito in pas-

sato ed in parte ancor oggi l’effettivo recepimento e rispetto delle norme di origine interna-zionale, in particolare a livello regolamentare e amministrativo9. Eppure la maggiore forza e

resistenza di tali leggi10 è stata ribadita, in modo esplicito, con la l.cost. 18 ottobre 2001, n. 3

4 Convenzione di Londra del 16 novembre 1945, articolo 1 (Scopi e funzioni): «L'Organizza-

zione si propone di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza favorendo, attraverso l'educa-zione, la scienza e la cultura, la collaborazione tra le nazioni».

5 Una rilevante eccezione è costituita da N. ASSINI, G. CORDINI, I beni culturali e paesaggistici. Diritto interno, comunitario, comparato e internazionale, Cedam, Padova, 2006. 6 È singolare e merita di essere sottolineato il fatto che il Testo unico dei Beni culturali (TUBC, d.lgs n. 490/1999) riconoscesse solennemente all’art. 20 che l’attività di tutela e valorizzazione «si conforma ai principi di cooperazione tra Stati, anche nell’ambito di organizzazioni internazionali, stabiliti dalle convenzioni rese esecutive in Italia in materia di protezione del patrimonio culturale mondiale»: una disposizione solo in teoria pleonastica, che malgrado il principio di cui all’art. 10 c. 2 lett. d)l. n. 137/2002 (“Delega per il riassetto e la codificazione in materia di beni culturali”), è poi sparita dal Codice dei Beni culturali del 2004, il che tuttavia nulla toglie al valore e all’importanza del principio enunciato. 7 In questo senso P. CARETTI, U. DE SIERVO, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, Giappichelli, 2002, p. 709, secondo i quali l’antica e rigida concezione di una netta separazione tra i due sistemi normativi «appare ormai superata». 8 Ibidem, p. 178; anche secondo F. CUOCOLO, Istituzioni di Diritto pubblico, Milano, Giuffré, 2003, p. 122, le norme internazionali, per il tramite e per effetto dell’ordine di esecuzione «divengono norme dell’ordinamento statale». 9 La Corte Costituzionale (Sentenza n.188/1980, richiamata anche dalla n. 62/1981) ha tuttavia sempre negato l’applicabilità di queste disposizioni alle regole pattizie dello Stato; la costante giurisprudenza della Consulta «esclude le norme internazionali pattizie, ancorché generali, dall’ambito di operatività dell’art. 10 Cost., mentre l’art. 11 neppure può venire in considerazione» se non risulta individuabile una limitazione della sovranità nazionale, cosa che non avviene in questo caso, trattandosi sempre di azioni subordinate alla richiesta o al consenso dello Stato in cui il bene culturale si trova: cfr. M. FRIGO, La protezione internazionale nel diritto internazionale, Milano, Giuffré, 1986, pp. 179, 277 e 300. Ne risultava dunque una maggiore rilevanza delle norme non scritte del “diritto delle genti”, cui è attribuito in questo modo rango costituzionale, rispetto a quelle codificate dagli Stati nell’ambito di convenzioni internazionali multilaterali. 10 La forza delle norme delle convenzioni internazionali (nel caso specifico quelle della CEDU), una volta recepite nell’ordinamento nazionale, è stata definita come una «posizione preminente» di rango

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recante “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”11, nel novellato art.

117 c. 1 della Costituzione, secondo il quale «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto (...) dei vincoli derivanti (...) dagli obblighi internazionali»; con il che è ormai precluso in modo esplicito a una legge ordinaria successiva di abrogare o modi-ficare sic et simpliciter le norme internazionali introdotte nell’ordinamento da una convenzio-ne ratificata.

Ne ha dato riscontro pochi anni dopo la stessa Corte Costituzionale12, nel definire i

trattati recepiti come «fonti interposte» nei giudizi di legittimità sulle leggi, che devono quindi obbligatoriamente conformarsi ad essi («dovere di rispettare gli obblighi»): il che non significa, comunque, che essi acquistino la stessa forza delle norme costituzionali, ma solo che «integrano il parametro costituzionale» rimanendo pur sempre ad un livello inferiore. Questo comporta, ovviamente, che anche i trattati stessi devono essere conformi, a loro volta, alla Costituzione.

In questo senso si è espresso anche Sabino Cassese, per il quale «il diritto dei trattati internazionali costituisce solo un primo livello di diritto internazionale, accanto a quello consuetudinario» (non conventional o non treaty law-making), al di sotto del quale c’è «un secon-do livello, costituito da norme che non derivano da accordi», dirette non solo agli Stati e ai poteri pubblici statali, ma anche alla società civile13. Se dunque non è in questione il recepimento in senso giuridico delle fonti, non al-trettanto si può affermare quanto alla diffusione e condivisione (in senso culturale, più an-cora che scientifico) dei correlati concetti normativi, dal momento che – come vedremo tra breve – la questione dei diritti culturali è affrontata in Italia in modo alquanto singolare, tra-scurando cioè il ruolo che essi hanno acquisito nell’ordinamento internazionale; viene me-no di conseguenza anche la possibilità di cogliere in modo adeguato i profili che derivano dal porre al centro dell’attenzione l’individuo e la comunità, piuttosto che i beni materiali e il loro valore storico o estetico.

Ai fini del più proficuo svolgimento di questa ricerca, si curerà quindi di rivolgere particolare attenzione alle norme derivate dal recepimento in Italia delle convenzioni inter-nazionali in materia culturale; si considereranno a tal fine non solo le norme giuridiche in senso stretto, ma anche i principi, gli orientamenti, i criteri e le indicazioni metodologiche che ne costituiscono il presupposto e la conseguenza, sebbene si tratti di strumenti for-malmente privi di forza cogente e quindi non vincolanti.

L’interesse e la validità di questo approccio trova poi ulteriore conferma dal fatto che il sito monumentale scelto come caso di studio sia oggetto di una procedura interna-zionale finalizzata al conseguimento di un ben noto quanto ambito riconoscimento; alla lu-ce di questa disamina applicativa, si intende pertanto perseguire il disegno di integrare e completare il sistema di regole amministrative, procedurali e organizzative effettivamente applicabili nel nostro ordinamento, contribuendo a una migliore conoscenza e applicazione

«sopralegislativo»: si veda A. GARDINO, La convenzione europea dei diritti dell’uomo: una nuova stagione per la protezione dei diritti in essa sanciti?, in R. BALDUZZI (a cura di), Studi in onore di Fausto Cuocolo, Milano, Giuffré, 2005, p. 528.

11 Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 248 del 24 ottobre 2001; Sulla suddivisione delle compe-tenze prima della riforma e sui frequenti conflitti di attribuzioni tra Stato e regioni si veda A.R. PELILLO, I beni culturali nella giurisprudenza costituzionale: definizioni, poteri, disciplina, in Aedon, (2) 1998. 12 Sentenze n. 348 e 349 del 2007, con nota sul punto di R. DICKMANN, in www.federalismi.it; cfr. R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto Costituzionale, Torino, Giappichelli, 2008, pp. 342-343.

13 S. CASSESE, Oltre lo Stato, Bari, Laterza, 2006, pp. 27-29, che richiama in proposito un corpo di regole costituzionali e di principi che «si trovano consacrati in trattati, norme primarie dettate dalle stesse organizzazioni internazionali, norme secondarie, precedenti giurisprudenziali».

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del quadro normativo vigente e con esso, se possibile, anche lo stato di “salute” del nostro sofferente patrimonio culturale. 1.2. Il ruolo dell’UNESCO e delle istituzioni internazionali ed europee

Da qualche tempo si sta verificando un fenomeno, definito come “globalizzazione della cultura”14, la cui esistenza è dimostrata da un lato dalla frequenza con cui si invoca, ta-lora a sproposito, l’intervento e il supporto europeo ed internazionale per la soluzione di molte situazioni di difficoltà e sofferenza del nostro patrimonio culturale, e dall’altro dal si-gnificativo incremento di interesse registratosi in Italia a partire dagli anni ‘90 nei confronti dell’attività dell’UNESCO e delle altre organizzazioni internazionali ed europee, la cui con-tinua e meritoria attività di studio e promozione di nuovi strumenti e progetti sta alla base della codificazione internazionale.

È dunque in certa misura inevitabile, e può senz’altro essere considerata in modo positivo, una progressiva “internazionalizzazione” dei metodi e delle procedure di rispetto e salvaguardia – o, se si preferisce adottare la terminologia italiana, di tutela e valorizzazione – del patrimonio culturale e paesaggistico15. Questa valutazione trova numerose ragioni di giustificazione, se si tiene conto del fatto che in questo modo:

- vengono recepite in Italia norme che sono frutto di anni di confronto e mediazione tra tutte le migliori esperienze nazionali a livello continentale e mondiale, e che pro-prio per questa ragione sono caratterizzate da un elevato grado di condivisione 16;

- le relative norme di attuazione, linee guida e metodologie sono redatte con il sup-porto tecnico-scientifico di esperti internazionali di tutti i settori della cultura;

- il quadro di riferimento è costituito da poche norme di principio, semplici e chiare, integrate da un numero ragionevole di regole amministrative e tecniche di attuazio-ne;

- tali disposizioni vengono periodicamente aggiornate dalle strutture tecniche delle diverse Organizzazioni internazionali, in base all’evoluzione del contesto, della tec-nologia, ecc.

- si tratta di testi normativi che, anche quando sono finalizzati a specifiche attività di protezione, salvaguardia o valorizzazione dei beni culturali, come pure di promo-zione della cultura e della conoscenza, lo fanno sempre nel rispetto del più generale principio di garanzia dei diritti culturali proclamati dalle stesse organizzazioni.

Per tutte queste ragioni, dunque, a differenza di quanto normalmente avviene allor-ché si analizzano le problematiche giuridiche ed amministrative relative alla gestione del pa-trimonio culturale italiano, questo studio non si limiterà a considerare la legislazione nazio-nale e regionale17, estendendo invece l’attenzione anche alle convenzioni internazionali

14 Cfr. L. CASINI, La globalizzazione dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 2010. 15 Si tratta di un fenomeno per molti versi simile a quella avvenuto in un passato non lontano

nel diritto amministrativo e degli enti locali (e più ancora nell’organizzazione dei relativi procedimenti gestionali e contabili), grazie al graduale recepimento della normativa europea e delle procedure di gestione dei diversi fondi UE, su cui si veda infra.

16 M. FRIGO, La protezione, cit., pp. 172-178 e 278 considera le forme di cooperazione della Convenzione di Parigi del 1972 le «più avanzate» nell’ambito del sistema internazionale di protezione dei beni culturali.

17 Nel corso della ricerca, a titolo esemplificativo ed in virtù dello specifico riferimento al caso di studio (e ad altre situazioni emblematiche, in primis quella di Venaria Reale e delle altre Residenze

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promosse e approvate dalla comunità internazionale, in primo luogo da parte dell’UNESCO e, più in generale in sede di Organizzazione delle Nazioni Unite, di Unione Europea, di Consiglio d’Europa e con l’apporto di tutte le altre organizzazioni internazio-nali e regionali che si occupano a diverso titolo di promozione e tutela della cultura18.

A tal fine, si segnala sin d’ora che possono risultare di notevole rilevanza anche le fonti secondarie, come i regolamenti delle organizzazioni o le linee guida (guidelines) per l’applicazione delle Convenzioni, le quali, essendo state approvate da Comitati intergover-nativi (cioè da organi composti da rappresentanti di Stati)19 possono rientrare nel novero di

quelle che Benedetto Conforti definisce «fonti previste da accordo»20, risultando sostan-

zialmente vincolanti a livello nazionale, anche se la loro natura ed eventuale sanzione resta formalmente di natura internazionalistica.

L’UNESCO, l’organizzazione specializzata che nel sistema delle Nazioni Unite si dedica in modo prioritario all’ambito culturale, sul presupposto (definito all’art. 1 del suo Atto costitutivo), che essa è nata con lo scopo di «garantire il rispetto universale della giu-stizia, della legge, dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali che la Carta delle Nazioni Unite riconosce a tutti i popoli, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione»21.

Si tornerà ampiamente tra breve sulle diverse azioni svolte dall’UNESCO in special modo ai fini della protezione del patrimonio culturale, operando tramite comitati intergo-vernativi22 e con il supporto operativo della struttura denominata World Heritage Center (WHC).

Sabaude), l’attenzione sarà concentrata sulla sola legislazione della Regione Piemonte, disponibile per la consultazione nel sito: http://arianna.consiglioregionale.piemonte.it.

18 È di particolare conforto il fatto che anche a giudizio di A. PIZZORUSSO, Diritto della cultura, cit., p. 319 il diritto della cultura va studiato non solo con riferimento all’ordinamento nazionale e regio-nale ma anche «dal punto di vista del diritto internazionale e di quello proprio delle organizzazioni inter-nazionali».

19 Nel caso specifico della Convenzione di Parigi del 1972, ai sensi degli articoli 8 e 21: cfr. Orientations devant guider la mise en oeuvre de la Convention du patrimoine mondial, WHC.08/01, Paris, UNESCO, 2008; S. CASSESE, Oltre lo Stato, cit., pp. 11-12.

20 Cfr. B. CONFORTI, op.cit., p. 149; si veda anche U. DRAETTA, op.cit., pp. 162-163 21 Quanto alle concrete modalità di azione, il secondo comma dello stesso articolo 1 specifica

che l’Organizzazione: « a) Favorisce la conoscenza e la comprensione reciproca delle nazioni, prestando la sua opera agli organi di informazione di massa; a questo scopo essa sollecita quegli accordi internazionali che ritiene utili per facilitare la libera circolazione del pensiero, attraverso la parola o l’immagine; b) Imprime un efficace impulso all’educazione popolare ed alla diffusione della cultura, collaborando con gli stati membri che lo desiderano, per aiutarli a sviluppare la loro azione educatrice; istituendo la collaborazione delle nazioni onde gradualmente realizzare per tutti l’ideale di una eguale possibilità di educazione, senza distinzione di razza, sesso e condizione economica e sociale; suggerendo adeguati metodi di educazione per preparare i giovani di tutto il mondo alle responsabilità dell’uomo libero; c) Aiuta il mantenimento, il miglioramento e la diffusione del sapere: vegliando sulla conservazione e protezione del patrimonio universale di libri, opere d’arte, monumenti di interesse storico o scientifico, raccomandando ai popoli interessati delle convenzioni internazionali a tale effetto; favorendo la cooperazione tra le nazioni in tutti i settori dell’attività intellettuale e lo scambio internazionale sia di rappresentanti dell’educazione, della scienza e della cultura che di pubblicazioni, opere d’arte, materiale di laboratorio e di ogni altra utile documentazione; facilitando con adeguati metodi di cooperazione internazionale l’accesso di tutti i popoli a quanto pubblicato da ciascuno di essi».

22 In particolare il Comitato del Patrimonio mondiale, istituito sin dal 1972, il Comitato intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (dal 2003) e infine il Comitato per la protezione dei Beni cul-turali, operante solo dal 2006 in attuazione del II Protocollo addizionale del 1999 alla Convenzione dell’Aja del 1954, con cui è stata istituita una nuova lista mondiale di siti monumentali, ma anche di mu-sei, biblioteche e archivi, così importanti da dover essere protetti anche in caso di conflitto armato (“Protezione rafforzata”), con le relative procedure nazionali e internazionali: cfr. L. ZAGATO, Lezioni di

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Sotto l’egida dell’Organizzazione operano inoltre una serie di istituzioni internazio-nali specializzate nella conservazione e nel restauro del patrimonio (come l’ICCROM), op-pure nella diffusione, formazione e sensibilizzazione (ad esempio FMACU e IIHL), cui si affiancano le ormai storiche organizzazioni professionali del settore (ICOM, ICOMOS, ICA, IFLA23), di recente coordinate nell’ICBS24 ai fini della protezione nelle situazioni di rischio.

Tutti questo soggetti esercitano funzioni di consulenza, stimolo e formazione a li-vello internazionale e nazionale, ma non hanno svolto fino ad oggi25 alcuna attività pro-priamente amministrativa, né operativa, ai fini della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, fatta eccezione per la collaborazione tra l’ICOMOS e lo stesso WHC. Infine, l’UNWTO, Organizzazione delle Nazioni unite per il Turismo, si limita a curare la promo-zione dello sviluppo del turismo responsabile, durevole e accessibile a tutti, con particolare attenzione agli interessi dei paesi in via di sviluppo, ivi inclusa la tutela dei relativi diritti cul-turali26.

Quanto al livello continentale, solo recentemente la cultura è entrata a far parte del-le competenze normative e operative dell’Unione Europea (UE)27, mentre in precedenza essa costituiva solamente uno dei possibili contenuti di progetti e reti, ad esempio informa-tiche, di educazione e formazione, oppure ancora di sviluppo territoriale28; in questo modo essa risultava beneficiaria solo in modo indiretto delle politiche comunitarie in materia di turismo, recupero di immobili, edifici e strutture – nelle aree a declino industriale oppure in

diritto internazionale ed europeo del patrimonio culturale, Venezia, Cafoscarina, 2011, pp. 44 ss.; M. CARCIONE, Nuove prospettive dopo l’attuazione del II Protocollo de L’Aja del 1999, in L. CIANCABILLA (a cura di), Bologna in guerra. La città, i monumenti, i rifugi antiaerei, (Atti del convegno “Proteggere l’arte, proteggere le persone”, Bologna, 23-24 novembre 2007), Minerva, Bologna 2010, pp. 123-137. 23 L’ICOMOS, Consiglio internazionale dei monumenti e dei siti, è l’organizzazione che riunisce professionisti ed esperti della conservazione e del restauro; è consulente dell’UNESCO per la Lista del Patrimonio mondiale per specifica disposizione della Convenzione di Parigi del 1972 (art. 13.7). L’ICOM, Consiglio internazionale dei musei, riunisce i professionisti museali; ICA e IFLA sono rispettivamente le organizzazioni internazionali degli archivi e delle biblioteche.

24 Sull’ICBS come organismo internazionale di coordinamento del volontariato in ambito culturale si veda quanto prospettato infra, nelle Conclusioni.

25 Le linee guida per l’attuazione del II Protocollo del 1999, approvate dall’UNESCO a dicembre 2009, devono ancora essere recepite e messe in atto sia dal Comitato PBC che dall’Italia, la quale ha ratificato solo di recente lo stesso strumento internazionale (l. n. 45/2009).

26 Si veda: www.unwto.org. 27 Nel Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, alla materia sono consacrati gli artt. 165 (Istru-

zione) e 167 (Cultura); quest’ultimo consente all’UE di intervenire in difesa del patrimonio culturale di im-portanza europea, concetto che non ha ancora acquisito un proprio contenuto giuridico specifico a livello comunitario, mediante un’azione concorrente con quella statale. Esso è assunto a principio informatore dell’intervento comunitario in ambito culturale, alla luce del par. 2 dell’art. 167, secondo il quale: “L’azione dell’Unione è intesa ad incoraggiare la cooperazione fra Stati membri e, se necessario, ad ap-poggiare ed integrare l’azione di questi ultimi”, il che lascia all’Unione, che può intervenire solo quando l’azione degli Stati sia insufficiente allo scopo, un ruolo alquanto ridotto. Cfr. I. QUADRANTI, La politica culturale europea nel periodo di riflessione sul futuro dell’Unione, in Aedon, (2) 2006.

28 L’intervento legislativo dell’UE è limitato dal momento che, come stabilito dal par. 5 dello stesso art. 167, le istituzioni comunitarie possono adottare raccomandazioni non vincolanti e «azioni di incentivazione, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri». Dunque per la tutela dei beni storico-artistici vige ancora una ripartizione delle competenze che privilegia fortemente il ruolo del legislatore statale. U. VILLANI, Istituzioni di diritto dell’Unione europea, Bari, Cacucci, 2008; G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova, Cedam, 2005; A. GIOIA, La normativa dell’Unione Europea, in F. MANISCALCO (a cura di), La tutela dei beni culturali in Italia, Napoli, Massa, 2002, pp. 307-314.

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quelle rurali a rischio di spopolamento – ed anche nell’ambito di alcuni specifici programmi in tema di nuove tecnologie informatiche e multimedialità, formazione professionale, ge-mellaggi, scambi universitari e così via29.

Solo negli anni ’90, con l’avvio dei primi progetti pilota (in particolare Raffaello), si era tentato di realizzare un intervento diretto dell’UE nell’ambito della conservazione e promozione del patrimonio culturale, che ha poi trovato in Cultura 2000 il proprio pro-gramma-quadro30; ad esso si sono affiancati progetti preesistenti e nuovi (le Città europee della cultura, Erasmus, Euromed Heritage, ecc.) la cui consistenza complessiva sul piano finanziario e organizzativo non è tuttavia lontanamente paragonabile ai fondi strutturali o a grandi pro-grammi come Interreg o Central Europe, i quali hanno continuato nondimeno a includere azioni con finalità culturali e di valorizzazione (ma quasi mai di conservazione) del patri-monio tra le loro possibili modalità operative di intervento.

Resta tuttavia una sostanziale resistenza degli Stati membri, e quindi della stessa Unione, ad adottare autentiche e significative politiche culturali europee, nella consapevo-lezza che si tratta di uno dei temi che più intimamente coinvolgono e quindi mettono in di-scussione la sovranità e l’identità nazionale: d’altro canto il forte accento posto sulla coope-razione e sugli scambi, nel chiaro intento di rafforzare il patrimonio culturale comune dell’Europa (in questo caso più che altro linguistico, storico-letterario o delle tradizioni, dunque in senso eminentemente immateriale)31, mantiene quale riferimento imprescindibile il principio di sussidiarietà, espresso ora nell’art. 5 del Trattato, il quale ispira tutta l’azione comunitaria in materia culturale e, a fortiori, nel settore specifico della tutela dei beni cultura-li; di conseguenza, l’intervento comunitario viene caratterizzato essenzialmente dalla sua na-tura di contributo all’integrazione delle politiche nazionali32. Anche se in Italia, come in tutta Europa, lo Stato nazionale rivendica e difende con forza il proprio ruolo a tutela della cultura33, chiedendo solo che l’UE si faccia eventual-mente carico di parte dei costi34, il confronto costante con le istituzioni europee (Commis-

29 Si veda il sito http://europa.eu/pol/cult/index_it.htm. 30 Gli obiettivi dell’attuale programma Cultura (2007-2013) sono: sensibilizzare i cittadini

all’importanza dei beni culturali di rilievo europeo e promuoverne la salvaguardia; incentivare la mobilità transnazionale degli operatori del settore culturale; incoraggiare la circolazione transnazionale delle opere d’arte e di prodotti culturali ed artistici; stimolare il dialogo interculturale.

31 I. QUADRANTI, op.cit., p. 2, secondo cui a livello continentale emerge come «l'affermazione di un’identità propriamente europea, fondata sulle eredità culturali, religiose e umanistiche, sulle specificità linguistico-culturali, ovvero su quei valori che contraddistinguono la diversità insita nella stessa natura dell’Unione, non sia nella pratica un fatto acquisito».

32 Il Parlamento Europeo nella risoluzione del 5 settembre 2001 sulla cooperazione culturale ha però posto in evidenza che in un'Unione allargata è fondamentale realizzare un «vero spazio culturale europeo, tramite il superamento degli ostacoli alla cooperazione culturale derivanti da un’interpretazione prevalentemente amministrativa del principio di sussidiarietà, basata cioè sul rigido criterio della non ingerenza tra livello comunitario e livelli nazionali»: cfr. I. QUADRANTI, op.cit., p. 2.

33 Secondo l’opinione di R. MASTROIANNI, Il ruolo del principio di sussidiarietà nella definizione delle competenze statali e comunitarie in tema di politiche culturali, in Riv.Trim.dir.Pubbl., 1994, I, pp. 82 ss, nei rapporti tra Stati e UE sussisterebbe una «presunzione di competenza» a favore dello Stato.

34 L’osservazione vale in particolare per il territorio interessato al caso di studio, la Provincia di Alessandria, che è solo marginalmente interessato da fenomeni di declino industriale – nella Valle Scrivia tra Novi e Tortona – e di abbandono delle aree rurale. Rilevanti interventi in ambito museale sono stati infatti realizzati a Novi con il Museo dei Campionissimi nell’ex-Italsider e a Tortona con il Museo Orsi nell’omonima fabbrica di macchine agricole; anche in provincia di Torino, il recupero della Reggia di Venaria è stato possibile – su una scala qualitativa e quantitativa ben maggiore – grazie allo stesso tipo stesse opportunità offerto dai fondi comunitari del c.d. “Obiettivo 2”.

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sione e Parlamento) e con le competenti direzioni a Bruxelles potrebbe consentire di orien-tare l’evoluzione della normativa e degli strumenti di attuazione.

Ciò consentirebbe di ottimizzare l’accesso alle numerose opportunità offerte dai programmi, dalle misure e dagli obiettivi delle politiche europee di sviluppo, anche in setto-ri apparentemente assai lontani da quello più specificamente culturale, come ad esempio il sostegno all’artigianato tipico; è tuttavia improprio e illusorio, come dimostra il caso di stu-dio, attendersi significativi interventi europei nel caso in cui le aree interessate non rientrino tra le zone di diretto intervento comunitario, in particolare in quelle a declino industriale o agricolo.

Per quanto concerne gli aspetti più propriamente normativi, si deve invece al Con-siglio d’Europa l’approvazione delle vere e proprie “convenzioni culturali” europee35; in questo stesso contesto, alcune opportunità di promozione e valorizzazione sono inoltre conseguibili grazie allo strumento degli itinerari europei, di cui si è fatta carico la stessa or-ganizzazione36 con il programma di studio e organizzazione delle Routes de la culture37.

Dunque, malgrado la ben nota fragilità e limitata incisività della sua azione, soprat-tutto dal punto di vista finanziario, esiste l’interessante possibilità di coniugare norme inter-nazionali di salvaguardia del patrimonio culturale europeo, alcuni strumenti transnazionali di promozione e valorizzazione del patrimonio stesso, la tutela giurisdizionale internaziona-le dei relativi diritti, non disgiunti dalla disponibilità di sedi istituzionali (scarsamente con-flittuali), utili a favorire la cooperazione e il confronto tra i diversi livelli politici continentali di numerosi paesi, molti dei quali non rientrano nell’UE; anche l’ambito regionale e delle autonomie locali, infine, è rappresentato grazie a uno specifico organo, il Congrès des pouvoirs locaux et régionaux38. Anche l’azione delle istituzioni europee, come quella delle organizzazioni globali in ambito culturale (intergovernative o non governative), si basa infine sulla nozione di diritti culturali che scaturisce, come vedremo infra, dai trattati, dalle convenzioni, dagli statuti e dagli altri documenti da esse promossi: ed è proprio in questo che può essere ravvisata la più importante differenza, formale e sostanziale, rispetto al modo di operare che caratteriz-za le nostre istituzioni pubbliche nazionali39.

35 In particolare La Convenzione Culturale Europea (Parigi, 19 dicembre 1954), e gli altri strumenti

in materia di architettura e archeologia nella Convenzione quadro sul valore del Patrimonio culturale per la società, approvata a Faro il 27 ottobre 2005, non ancora in vigore; da segnalare anche la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1959, che istituisce e regola la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

36 M. D’ANGELO, P. VESPERINI, Politiques culturelles en Europe: une approche comparative, Strasbourg, Editions du Conseil d’Europe, 1998, p. 235 ss.

37 Tra le quali si trovano ad esempio la Via Francigena, il Cammino di Santiago de Compostela, ed anche l’itinerario delle “strade di Vauban e Wenzel”, che è stato specificamente dedicato alle fortificazioni, collegandosi evidentemente in modo funzionale al circuito francese del Réseau Vauban ; si vedano le pagine del portale Cultureheritage nel sito: www.coe.int.

38 Si tratta di un’assemblea politica paneuropea composta da 636 amministratori locali (consiglieri regionali, provinciali e municipali, sindaci e presidenti di regioni) in rappresentanza di più di 200.000 enti locali dei 47 paesi della “Grande Europa”; cfr: www.coe.int/t/congress/presentation

39 Ne è riprova la circostanza, altrimenti inspiegabile, che in Italia gli organismi a vario titolo rappresentativi dell’UNESCO (Commissione Nazionale italiana e FICLU) e del sistema delle OnG che ad essa fanno direttamente capo (ICOM Italia, ANAI, Comitato Italiano ICOMOS e AIB) esercitano un’azione alquanto limitata, godendo di prestigio e considerazione poco conformi alle loro funzioni e prerogative internazionali; a riprova di questo stato di cose sta anche lo scarso numero di soci italiani delle organizzazioni professionali del settore e dei Club UNESCO, a fronte del numero complessivo di responsabili, operatori e addetti culturali delle migliaia di diverse istituzioni culturali nazionali e locali.

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1.3. I diritti culturali: una nozione internazionalistica

Solo in tempi relativamente recenti, una parte ancora assai circoscritta della dottrina

giuspubblicistica italiana ha iniziato ad utilizzare la categoria dei “diritti culturali”, che pure era stata adottata dall’UNESCO sin dalla redazione della Dichiarazione Universale dei Di-ritti dell’Uomo del 1948. Sino alla metà del XX secolo, infatti, il valore culturale40 è stato considerato dal di-ritto e dalle organizzazioni internazionali soltanto a fini di tutela della proprietà privata, per mere ragioni di compiacimento estetico o di conservazione della memoria, contro il rischio di distruzioni o saccheggi, o a fini di salvaguardia di beni (come monumenti, musei, biblio-teche o luoghi di culto) a loro volta unicamente destinati a soddisfare aspirazioni spirituali, estetiche o intellettuali. A partire dal secondo dopoguerra, però, i beni culturali sono stati riconosciuti e protetti anche in quanto estrinsecazione della natura più profonda e nobile dell'uomo, della sua intelligenza, sensibilità, socialità, in una parola della sua umanità, che nei secoli ha preso forma di opera d'arte e di scienza, di paesaggio urbano o rurale, di documento storico op-pure di testo letterario, di struttura architettonica o di luogo di culto41. Così considerate, l'arte e la cultura non sono più, come in passato, destinate inelut-tabilmente a sottostare in tempo di pace alle necessità prevalenti dello sviluppo economico, o a quelle della violenza bellica nel corso dei conflitti armati, contesto a fronte del quale il principio di rispetto dei beni culturali (nato alla fine del XIX secolo proprio per reazione alle distruzioni belliche) è stato codificato per la prima volta nella Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (L’Aja, 14 maggio 1954)42: anzi, i monumenti sono considerati oggi la rappresentazione tangibile del diritto dell'uomo ad una propria storia, co-scienza, libertà e dignità, in una parola a ciò che lo distingue da ogni altro essere vivente43. Ne dà conferma il secondo alinea del preambolo della Carta delle Nazioni Unite del 26 giugno 1945, affermando la «fede nella dignità» della persona umana, mentre tra i fini

40 Si richiama la definizione (già riportata in premessa) elaborata in J. LUTHER, Le frontiere, cit., p.

226; cfr. anche S. CASSESE, Problemi attuali dei beni culturali, in Giorn.Dir.Amm., (10) 2001, p. 1065, secondo il quale c’è oggi un «internazionalismo culturale che è diventato predominante», il che richiede di rivedere la legislazione dei beni culturali alla luce del fatto che essi «non appartengono a una nazione ma all’Umanità»: L. CASINI, La globalizzazione, cit., pp. 11 ss.

41 Su tema si vedano in particolare F. FRANCIONI, A. DEL VECCHIO, P. DE CATERINI (a cura di), Protezione internazionale del patrimonio culturale: interessi nazionali e difesa del patrimonio comune della cultura, Roma, Luiss, 2000; M. FRIGO, op.cit., pp. 95 ss.; E. GREPPI, La protezione generale dei beni culturali nei conflitti armati dalla Convenzione dell’Aja al Protocollo del 1999, in P. BENVENUTI, R. SAPIENZA (a cura di), La tutela internazionale dei beni culturali nei conflitti armati, Giuffré, Milano, 2007, pp. 75-102; sulle connessioni con il diritto umanitario, si rimanda al breve saggio di chi scrive, Diritti culturali: alle radici dei Diritti dell’Uomo, in M. CARCIONE, G. RAVASI (a cura di), Patrimonio in pericolo, Milano, Nagard, 2003, pp. 111-116.

42 Ratificata con l. 7 febbraio 1958, n. 279; non diversamente dal principio di rispetto delle vittime, che era stato codificato, (con la Convenzione di Ginevra del 1864), dopo la battaglia di Solferino e San Martino, insieme all’istituzione della Croce Rossa: cfr. A. MARAZZI, Nozioni di diritto bellico, Torino, Giappichelli, 1989, pp. 181 ss.; M.FRIGO, op.cit., pp. 73 ss.; sugli sviluppi recenti L. ZAGATO, La protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato all’alba del secondo protocollo del 1999, Torino, Giappichelli, 2007.

43 A. CASSESE, I diritti umani, cit., pp. 54 ss.; Y. SANDOZ, Conclusioni, in M.T. DUTLI (a cura di), Protection des biens culturels en cas de conflit armé. Rapport d’une réunion d’experts (2000), Geneva, CICR, 2001, pp. 139 ss.; l’art. 53 del I Protocollo alle Convenzioni di Ginevra del 1977, vieta di compiere atti di ostilità di-retti contro monumenti storici, opere d’arte o luoghi di culto, in quanto «patrimonio culturale o spiritua-le dei popoli».

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dell’ONU, all’art. 1.3, è indicato il conseguimento della cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi «di carattere culturale», al fine di conseguire il rispetto del principio di eguaglianza dei diritti (art. 55 b). A sua volta, il già citato atto costitutivo dell’UNESCO dedica l’art. 1 alla difesa della pace e dei diritti umani inalienabili, oltre che alla cooperazione tra i popoli attraverso la cul-tura, mentre al c. 2, lettera c) dell'art. 1 si afferma il dovere dell'Organizzazione di mantene-re, incrementare e diffondere le conoscenze finalizzate ad assicurare la conservazione e protezione del patrimonio culturale44. Alla base della concezione internazionale è infatti posta l’idea che il rispetto dei di-ritti culturali, unitamente alla pratica del dialogo e della tolleranza, possa educare e indurre l’individuo a rispettare anche gli altri diritti individuali e collettivi dei suoi simili, a qualun-que religione, etnia o popolo essi appartengano45; per questo la nozione internazionale di diritti culturali include anche le libertà di opinione e di religione nell’ambito culturale, men-tre la dottrina italiana è tuttora riluttante a ricomprenderveli.

Anzi il diritto internazionale, che originariamente consentiva solo la protezione di singoli edifici o beni mobili, essendo improntato al principio di rispetto della proprietà (dapprima solo privata, poi anche pubblica) dei beni materiali, è giunta in tempi relativa-mente recenti a considerare le violazioni più gravi dei diritti culturali, come la persecuzione per ragioni etniche, culturali e religiose o la distruzione volontaria e sistematica di monu-menti o di edifici destinati ad attività educative, artistiche, scientifiche o di culto46, tra i cri-mini di guerra47.

È stato di recente rilevato48, tuttavia, che ancor oggi in dottrina l’analisi e la rico-struzione dei diritti culturali occupano, malgrado le numerose fonti internazionali in mate-ria, «uno spazio minuscolo», anche nell’ambito della letteratura sui diritti umani, restando ancora inadeguatamente sviluppati49 ed anche per questa ragione alquanto problematici. Questo rafforza il convincimento che ci possa essere un qualche nesso tra la limita-ta accettazione e considerazione dei diritti culturali del cittadino, sia da parte del nostro le-gislatore nazionale che in ambito dottrinale, e la concezione assai limitativa e conservatrice delle politiche culturali che ha caratterizzato l’Italia già sin dai primi anni del ‘900, epoca

44 Sul ruolo dell’Organizzazione per la tutela dei diritti culturali, cfr. A.A. YUSUF (a cura di),

L’action normative à l’Unesco, I, Leiden, Unesco-Nijhoff, 2007, pp. 111 ss. 45 P. LEUPRECHT, Le sous-developpement des droits culturels vu depuis le Conseil de l’Europe, in AV.VV.,

Les Droits culturels au Conseil de l’Europe (1949-1997), Strasbourg, Conseil de l’Europe, 1997, pp. 26-27, evidenzia il legame tra approccio multiculturale e «necessario riconoscimento dei diritti culturali dell’uomo».

46 Art. 85 c. 4 d) del I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra (1977); art. 7 c. 1 h) e 8 c. 2 b) dello Statuto del Tribunale Penale internazionale (1998); cfr. E. GREPPI, Distruzione di beni culturali in guerra come crimine internazionale nei conflitti contemporanei, in N. LABANCA, L. TOMASSINI (a cura di), Forze armate e beni culturali, Unicopli, Milano 2007, pp. 33-46.

47 F. FRANCIONI, Culture, Heritage and Human Rights: an Introduction, in F. FRANCIONI, M. SCHEININ, Cultural human rights, Leiden-Boston, Maryinus Nijhoff, 2008, pp. 11 ss.; avendo ricordato che a Norimberga, alcuni gerarchi nazisti erano stati condannati per crimini contro il patrimonio culturale, in anni recenti il Tribunale penale internazionale per l’ex Yugoslavia (presieduto da F. Pocar), con la Sentenza ITCY n. IT-95-14/2T del 26 febbraio 2001, par. 207, contro Kordic e Cerkez, ha condannato gli autori di saccheggi e distruzioni ingiustificate di beni culturali nella Valle Lasva (Bosnia Herzegovina), ed in questo modo ha sancito che la protezione dei monumento in guerra è assurta a consuetudine internazionale. Sul tema si veda A. CASSESE, Il sogno dei diritti umani, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 120 ss.

48 Da F. FRANCIONI, Culture, cit. p. 2. 49 Basti pensare alla rivendicazione del ritorno al luogo di origine delle opere d’arte illecitamente

esportate e alla tutela dell’intangible heritage; si veda anche P. LEUPRECHT, op. cit., pp. 17 ss.

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della prima codificazione delle norme di tutela e conservazione di quelle che, all’epoca e per lungo tempo ancora, erano state definite solo come “antichità e belle arti”. 1.4. Le norme internazionali di protezione del patrimonio culturale e paesaggistico

È noto che, malgrado gli sforzi delle strutture amministrative dello Stato e delle Re-gioni, i beni culturali italiani sono sempre stati e continuano tuttora ad essere afflitti da in-curia, usi impropri o inadeguata valorizzazione gestione; risulta dunque di grande utilità re-cepire ed attuare in modo più ampio e generalizzato le norme e le buone pratiche interna-zionali, nella legislazione nazionale e regionale di settore, nei regolamenti e atti di indirizzo e programmazione a livello territoriale, come pure nella prassi amministrativa e gestionale.

Per questa ragione una particolare attenzione va dedicata a quei diritti culturali che sono più direttamente e strettamente connessi alla conservazione e fruizione del patrimonio culturale e paesaggistico (che è anche l’oggetto principale del nostro caso di studio), e quin-di anche a tutte le norme, prassi e metodologie operative internazionali che si sono venute instaurando nella seconda metà del XX secolo, ipotizzando di applicarle in modo generaliz-zato alla realtà italiana, al fine di conseguire una migliore valorizzazione e gestione dei beni culturali e paesaggistici nazionali, nonché dei relativi servizi rivolti all’utenza.

Questa modalità di organizzazione dei rapporti istituzionali e dei procedimenti am-ministrativi e gestionali conseguenti non deve tuttavia essere necessariamente circoscritta solo al ristretto ambito50 dei siti tutelati dall’UNESCO ai sensi della Convenzione sulla protezio-ne del patrimonio culturale e naturale mondiale (Parigi, 16 novembre 1972, di seguito “Conven-zione”)51, in quanto iscritti o candidati alla Lista del Patrimonio Mondiale; ove necessario e

conveniente, infatti, le stesse modalità e procedure possono certamente trovare applicazio-ne, con gli opportuni adattamenti, anche ad altri beni e siti culturali e paesaggistici.

Come è ormai noto anche al grande pubblico, l’iter di attribuzione ai siti culturali e naturali dell’ambita qualifica di “Patrimonio dell’Umanità” consiste nell’individuazione – a livello prima governativo e poi intergovernativo – delle opere dell’uomo e della natura che devono essere salvaguardate, avendo un valore universale eccezionale dal punto di vista storico, artistico, etnologico o antropologico, estetico, scientifico, oppure della conserva-zione o della bellezza naturale.

La Convenzione del Patrimonio mondiale prevede e regola, a tal fine, una serie di meccanismi internazionali di salvaguardia e controllo, ed anche di incentivazione e soste-gno, richiedendo nel contempo agli Stati firmatari l’adozione di ulteriori misure in ambito nazionale; le disposizioni che almeno in parte hanno un contenuto direttamente precettivo (ad es. gli artt. 5, 17 o 2752), possono risultare suscettibili di diretta esecuzione (self-executing)

50 Si tratta di 44 siti italiani, molti dei quali però sono multipli o seriali. 51 Cfr. M.C. CICIRIELLO, La protezione del patrimonio culturale a venticinque anni dalla Convenzione

dell’Unesco del 1972, Napoli, Ed. Scientifica, 1997; M. FRIGO, La protezione internazionale, cit., p. 293; F. FRANCIONI, A. DEL VECCHIO, P. DE CATERINI, Protezione internazionale, cit.

52 Si veda ad esempio l’art. 5 della Convenzione: «Afin d'assurer une protection et une conservation aussi efficaces et une mise en valeur aussi active que possible du patrimoine culturel et naturel situé sur leur territoire et dans les conditions appropriées à chaque pays, les États parties à la présente Convention s'efforceront dans la mesure du possible: (…) b) d'instituer sur leur territoire, dans la mesure où ils n'existent pas, un ou plusieurs services de protection, de conservation et de mise en valeur du patrimoine culturel et naturel, dotés d'un personnel approprié, et disposant des moyens lui permettant d'accomplir les tâches qui lui incombent; c) de développer les études et les recherches scientifiques et techniques

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e quindi dovrebbero trovare puntuale e generale applicazione anche in assenza di norme nazionali di recepimento e attuazione.

Sono ormai oltre novecento53 i siti iscritti nella celebre lista istituita presso il Comi-

tato intergovernativo della protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale, istituito dagli artt. 8 e ss. della Convenzione: deve trattarsi di beni unici e insostituibili, il cui degrado o scomparsa, secondo il preambolo della Convenzione, «costituisce un impoverimento ne-fasto del patrimonio di tutti i popoli del mondo»; per questa ragione «è dovere dell’intera collettività internazionale partecipare» alla loro protezione, «a qualsiasi popolo appartenga-no», per assicurarne la trasmissione alle generazione future54.

Va ricordato che i criteri di selezione definiti all’UNESCO, in collaborazione con l’ICCROM e le organizzazioni professionali del settore55, non sono intesi a creare una sorta

di catalogo di tutto ciò che di bello esiste al mondo, ma mirano piuttosto a costituire una ben più ristretta lista delle realtà uniche o per lo meno esemplari di ciascuna categoria di mo-numenti o di paesaggi.

Considerando la ragione per la quale ogni Stato domanda l’iscrizione, si può infatti notare che i criteri internazionali richiamati nelle diverse schede di candidatura non sono soltanto improntati a fattori estetici, storico-artistici o paesaggistici, dal momento che ri-chiedono che i beni culturali candidati o iscritti debbano:

1) rappresentare un capolavoro del genio creativo umano, 2) mostrare un interscambio di valori umani considerevole in un periodo di tempo dato o in un'area

culturale determinata, relativamente agli sviluppi dell'architettura o della tecnologia, delle arti mo-numentali, dell'urbanistica o della progettazione paesaggistica;

3) rappresentare una testimonianza unica o almeno eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa;

4) essere un eminente esempio di edificio o ensemble architettonico o tecnologico o paesaggistico che illu-stri uno stadio significativo o stadi significativi nella storia umana;

5) rappresentare un esempio eccezionale di un insediamento umano tradizionale o di utilizzo tradi-zionale del territorio o del mare che sia rappresentativo di una o più culture, oppure dell'interazio-ne umana con l'ambiente, specialmente quando quest'ultimo è divenuto vulnerabile per l'impatto di cambiamenti irreversibili;

6) essere direttamente o tangibilmente associato ad eventi o tradizioni viventi, a idee e credenze, a ope-re artistiche o letterarie di valore universale56;

et perfectionner les méthodes d'intervention qui permettent à un État de faire face aux dangers qui menacent son patrimoine culturel ou naturel; (…) e) de favoriser la création ou le développement de centres nationaux ou régionaux de formation dans le domaine de la protection, de la conservation et de la mise en valeur du patrimoine culturel et naturel et d'encourager la recherche scientifique dans ce domaine». Si rimanda anche al già citato M. CARCIONE, Gestione dei siti culturali, cit., pp. 200-206.

53 I siti iscritti alla World Heritage List a dicembre 2011 sono 936, di cui 725 culturali e 28 misti, presenti in 153 Stati su 188 che hanno ratificato la Convenzione.

54 Come già ricordato, scopo dell’UNESCO non è solo «aider au maintien, à l’avancement et à la diffusion du savoir en veillant à la conservation et protection du patrimoine universel» ma anche e soprattutto di «contribuer au maintien de la paix et de la securité en resserrant par l’éducation, la science et la culture, la collaboration entre nations» (Atto costitutivo, art. I.1), dal momento che, come proclamato in modo solenne all’inizio del Preambolo, «les guerres prennent naissance dans l’ésprit des hommes» e dunque «c’est dans l’esprit des hommes que doivent être élevées les défenses de la paix».

55 Si vedano gli artt. 13 e 14 della Convenzione, che individuano a tal fine il già citato ICOMOS e l’Unione internazionale per la conservazione della natura (UICN).

56 Va segnalato che il Comitato del Patrimonio mondiale ha espresso l’orientamento di considerare sempre questo criterio, qualora debba giustificare l’inclusione nell’elenco, preferibilmente unitamente ad altri.

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7) rappresentare un fenomeno naturale o un'area di bellezza naturale e di importanza estetica ecce-zionale;

8) essere un esempio eminentemente rappresentativo dei principali stadi della storia della terra, com-prese le testimonianze della vita, di processi geologici in corso nello sviluppo delle forme terrestri o di elementi geomorfici o fisiografici di grande significato;

9) essere un esempio eminentemente rappresentativo di processi ecologici e biologici in essere nello svi-luppo e nell'evoluzione degli ecosistemi terrestri e delle comunità di piante ed animali, delle acque dolci, costiere e marine;

10) contenere gli habitat più importanti e significativi per la conservazione in situ delle diversità biolo-giche, comprese quelle in cui sopravvivono specie minacciate di eccezionale valore universale dal punto di vista scientifico o della conservazione57.

L’iter in questione, al di là delle vicende che si svolgono a livello internazionale58, si articola in tre procedimenti amministrativi nazionali, connessi ma distinti, finalizzati all’adozione definitiva degli atti relativi: l’adozione della lista nazionale di pre-candidatura (presupposto necessario ma non sufficiente per il prosieguo dell’iter), la scelta del sito e conseguente predisposizione del dossier di candidatura da inviare all’UNESCO, ed in paral-lelo ad essa l’adozione (e attuazione) del piano di gestione.

Giova sottolineare che a seguito dell’inserimento nella Lista, l’UNESCO non im-pone sui beni di proprietà privata, ulteriori e speciali vincoli di tutela, né peraltro ne avreb-be alcun potere: le «misure giuridiche» di protezione e conservazione previste dall’art. 5 let-tera d) della Convenzione, infatti, sono esclusivamente di livello nazionale o regionale, es-sendo il risultato dell’applicazione della normativa di tutela e di quella in materia di piani re-golatori o paesistici. Ciò non toglie che l’azione coerente e debitamente funzionalizzata di questi strumenti e del piano di gestione possa offrire in modo indiretto maggiori stimoli, incentivi e quindi garanzie (se non la piena certezza) di una effettiva e piena tutela e valo-rizzazione, grazie all’attuazione di metodologie gestionali collaudate da anni con successo a livello internazionale.

È di particolare interesse, ai fini della trattazione, il fatto che l’elaborazione e appro-vazione del dossier richiesto dall’UNESCO per consentire la valutazione tecnica della candi-datura (prima di ICOMOS o UICN a titolo consultivo, in seguito da parte del Comitato in-tergovernativo), comporta la predefinizione in modo formale e impegnativo – cosa che nel-la prassi nazionale non sempre avviene, in altre situazioni analoghe – delle modalità con cui le amministrazioni a vario titolo coinvolte dovranno affrontare i problemi di gestione e go-vernare i reciproci rapporti istituzionali e organizzativi.

L’esame di questo complesso procedimento consente quindi di verificare come il principio di sussidiarietà e la conseguente nuova ripartizione delle competenze tra i vari li-velli istituzionali vengono effettivamente messi in atto nel settore culturale. Infatti le forme e modalità con cui vengono implementate le relative attività, soprattutto di valorizzazione e gestione, risultano di particolare interesse per meglio comprendere come i sottostanti rap-porti di cooperazione istituzionale vengono instaurati, tanto se si considera che è l’unico caso in cui (a differenza di quanto previsto per la generalità dei beni culturali italiani) ciò

57 Orientations, cit., Par.II. D, n.77, p. 22: il documento è disponibile anche on-line nel sito web:

http://whc.unesco.org 58 Al tema della partecipazione dei soggetti coinvolti, statali o sub-statali, ai procedimenti

regolati da norme del diritto internazionale, è dedicato il capitolo Un giusto procedimento globale?, in. S. CASSESE, Oltre lo Stato, cit., pp. 142-143; vale la pena di segnalare che uno degli esempi citati è appunto costituito dall’iter della Convenzione del Patrimonio mondiale.

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avviene in modo non spontaneo, essendo regolato da atti e processi puntualmente predefi-niti e in qualche misura persino cogenti.

Si tratta di rapporti che normalmente intercorrono tra i diversi livelli di governo comunale, intercomunale, provinciale, regionale e statale (con le rispettive competenze legi-slative e amministrative), ad anche tra questi enti pubblici e la c.d. “società civile”, che può essere anche rappresentata – in qualche caso – dai proprietari di beni e aziende di produ-zione e commercio, con le loro associazioni o consorzi (soggetti privati), che devono en-trambi confrontarsi con un’obbligazione a carattere internazionale stipulata dallo Stato. Ciò pone interessanti quesiti circa la qualificazione e definizione del valore giuridico degli atti amministrativi posti in essere e la loro impugnabilità, alla luce della titolarità dei diversi di-ritti o interessi legittimi eventualmente pregiudicati.

Ove poi la valutazione dell’UNESCO risultasse positiva, con l’iscrizione nella Lista tale collaborazione diventerebbe permanente ai fini dell’attuazione concreta del piano di ge-stione, che sin d’ora può essere evidenziato come lo strumento amministrativo strategico al fine di assicurare una migliore tutela e valorizzazione di siti che, pur essendo teoricamente dichiarati rappresentativi dell’intero patrimonio culturale nazionale e mondiale, fino ad oggi mantengono – giuridicamente e soprattutto nella sostanza – le medesime forme e modalità di gestione e tutela degli altri beni culturali italiani.

Essi restano dunque, appunto come tutti gli altri monumenti e paesaggi, costante-mente a rischio59 di calamità, degrado, incuria, furti, vandalismo e anche, non di rado, della

cattiva amministrazione e dell’utilizzo improprio non solo da parte dei proprietari privati, ma anche degli enti pubblici, incluso lo Stato.

La possibilità di porre rimedio a questo stato di cose è diventata alquanto più con-creta e stringente dacché la pre-candidatura, la candidatura e soprattutto l’inserimento nella Lista dell’UNESCO di un sito monumentale o paesaggistico, hanno acquisito con la legge 20 febbraio 2006, n. 7760 una rilevanza sostanziale nell’ordinamento culturale nazionale: in-fatti l’iscrizione non solo conferisce al bene un attestato di unicità61, ma gli attribuisce

“priorità” ai fini degli interventi di tutela e valorizzazione62.

59 Mentre la Convenzione del 1972 ha ottenuto in Italia un ragguardevole, seppur tardivo,

successo, altri strumenti internazionali altrettanto importanti, anzi ad essa cronologicamente e sistematicamente precedenti, resta del tutto disattesa e persino ignorata la Convenzione de L’Aja del 1954 con i due Protocolli aggiuntivi (1954 e 1999) sulla protezione dei beni culturali in guerra, applicabile anche nelle altre situazioni di rischio come le calamità naturali o gli incendi. Pur essendo stata promosse dall’Italia, e malgrado i ripetuti disastri che hanno colpito in modo clamoroso siti iscritti alla Lista dell’UNESCO come il Palazzo Reale di Torino, il Castello di Moncalieri, la Basilica di Assisi o la Reggia di Caserta, la sua attuazione – per lo meno con riferimento alle misure di salvaguardia e prevenzione in tempo di pace – resta ancora assai lungi dall’essere conseguita. Cfr. L. ZAGATO, Lezioni, cit., pp. 127 ss.; in generale sul tema si rimanda a F. MANISCALCO (a cura di), La tutela del patrimonio culturale in caso di conflitto, Napoli, Massa, 2002.

60 Recante ‘Misure speciali di tutela e fruizione dei siti italiani di interesse culturale, paesaggistico e ambientale, inseriti nella “lista del patrimonio mondiale”, posti sotto la tutela dell' UNESCO’ (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 58 del 10 marzo 2006).

61 L’articolo 1 (“Valore simbolico dei siti italiani UNESCO”) della l. n. 77/2006 definisce i siti iscritti quali «punte di eccellenza del patrimonio culturale, paesaggistico e naturale italiano e della sua rappresentazione a livello internazionale», mentre all’art. 4 si definiscono in modo dettagliato le misure di sostegno e valorizzazione.

62 Cfr. l’art. 2 della stessa legge, secondo cui gli interventi relativi ai siti UNESCO per questo solo fatto «acquisiscono priorità di intervento qualora siano oggetto di finanziamenti secondo le leggi vigenti», secondo le modalità definite in sede di redazione e attuazione di un piano di gestione vincolante.

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1.5 Il procedimento italiano di candidatura alla Lista del patrimonio mondiale presso l’UNESCO

Ai fini della verifica dell’effettivo recepimento delle norme costituzionali e legislati-ve in materia di diritti culturali, nonché del rispetto da parte delle Amministrazioni coinvol-te dei principi di sussidiarietà e di partecipazione, il procedimento italiano di candidatura alla Lista del Patrimonio mondiale si caratterizza in primo luogo per il fatto che la formale proposta di candidare un nuovo sito compete ancora al Ministero per i Beni e le Attività culturali63, che successivamente la comunicano in modo formale agli eventuali enti propo-nenti64 o che comunque vengono ritenuti esponenziali del territorio.

Il fatto che la procedura prenda avvio sul (solo) presupposto che, a giudizio degli esperti nazionali del Gruppo di lavoro, il sito rientri tra quelli selezionati per una possibile candidatura nella lista del Patrimonio mondiale, è sintomatico di un approccio verticistico, non certo improntato al rispetto dello spirito, e per il vero neppure della forma, della Con-venzione e dello stesso principio costituzionale di sussidiarietà.

Una volta individuato e perimetrato l’oggetto della candidatura, con gli opportuni accertamenti e sopralluoghi da parte delle strutture ministeriali e regionali, prende avvio una seconda fase di studio finalizzata alla redazione del dossier di candidatura, per la quale si do-vrebbero individuare, acquisire e mettere a fattore comune tutte le competenze e i saperi disponibili presso le istituzioni del territorio65, a partire da università, musei, biblioteche, ar-chivi e istituti di ricerca66, ove presenti e disponibili. Inoltre i diversi soggetti pubblici e pri-

vati locali, all’occorrenza coordinati dalla relativa Provincia, dovrebbero essere coinvolti

63 L’Ufficio Patrimonio Mondiale UNESCO, istituito nel 2004, svolge all’interno del Ministero per i

Beni e le Attività Culturali la funzione di coordinamento delle attività connesse all’attuazione della Con-venzione, oltre ai compiti di supporto tecnico-scientifico al Gruppo di lavoro interministeriale permanente per il Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, attivo dal 1995 e formalmente istituito nel 1997 presso lo stesso MiBAC; è infine parte della Commissione di Coordinamento per l’implementazione delle politiche di salvaguardia e promozione del patrimonio culturale immateriale e delle diversità culturali, istituita con d.m. 10 aprile 2008 e coor-dinata dal Direttore dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione; si veda: www.unesco.beniculturali.it.

64 A differenze di altre procedure regolate a livello nazionale (come ad es. quella della Francia), in Italia non è ancora stata codificata una vera e propria fase di proposta da parte della realtà locale; ne consegue che anche quando ciò avviene, come si è verificato nel caso di studio, non esiste la certezza che l’iter prenda effettivamente avvio, mentre si possono verificare candidature “calate dall’alto” e non condivise in alcun modo dal territorio e dalla comunità locale, almeno fino al momento (che si può concretizzare anche anni dopo) della stipula dei protocolli d’intesa.

65 In qualche caso si è invece privilegiata la scelta di attivare pur qualificate consulenze: opzione senz’altro più rapida ed efficiente, che però non evita – anzi può contribuire a creare o incrementare – l’insorgere di difficoltà, diffidenze e ritardi sul piano concreto dei rapporti interistituzionali e delle connesse procedure amministrative, come è stato ad esempio dimostrato dal recente caso dei Paesaggi vitivinicoli del Piemonte: cfr. M. CARCIONE, Gestione dei siti culturali, cit., p. 21.

66 Ad esempio, per le ricerche e la documentazione relativa all’arte, alla storia locale e al patrimonio intangibile di tradizioni popolari, sarebbe logico ricorrere all’esperienza e alle conoscenze dei musei o ecomusei locali, delle accademie e associazioni culturali e Pro Loco del territorio; si richiama a tale proposito la già citata Convenzione di Parigi del 2003. Cfr. in tema anche R. LOMBARDI, La candidatura dei paesaggi vitivinicoli del basso Piemonte a “territorio patrimonio dell’umanità”: brevi note a margine della tutela dei paesaggi rurali, in Nuove Autonomie, (2-3) 2009, pp. 389-397.

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nell’organizzazione della promozione e dell’accoglienza turistica locale, adottando se del ca-so le opportune intese con il volontariato67.

Nell’esperienza concreta, tuttavia, tali regole e modalità, coerenti e rispettose non solo delle Linee guida internazionali ma anche e soprattutto dei principi costituzionali in materia, sono ancora lungi dal trovare piena e generale applicazione nel concreto esercizio dei rapporti interistituzionali; se infatti si esaminano in questa ottica le intese stipulate a tal fine tra il Ministero per i Beni culturali e le istituzioni locali interessate alla candidatura68, si potrà ad esempio rilevare che viene demandato alle Province interessate di «acquisire for-male parere favorevole [...] delle Amministrazioni comunali», sul presupposto che Stato, Regioni e Province, di comune accordo, «possono promuovere la cooperazione con altri sog-getti, a livello nazionale o internazionale»: dunque non si prende in ulteriore considerazione il livello locale, neppure per quanto concerne i privati coinvolti, nonostante si tratti di sog-getti che dovrebbero essere costituzionalmente garantiti dall’art. 118 della Costituzione69. Quanto alla partecipazione (e alla connessa necessaria trasparenza dei procedimenti amministrativi), l’UNESCO ritiene che l’inserimento di un sito nel Patrimonio mondiale presupponga un ruolo di primo piano degli attori del relativo territorio, cioè di tutti i sog-getti pubblici e privati a vario titolo coinvolti70. Una scarsa o inappropriata informazione e partecipazione, infatti, ha buone probabilità di determinare scarsa consapevolezza e condi-visione, non solo negli amministratori, ma anche negli operatori economici e nei semplici cittadini, che potrebbero infatti percepire la candidatura solo come l’ennesima iniziativa a carattere turistico-promozionale71.

67 Occorre sempre ricordare che le disposizioni degli artt. 111 e ss. (Capo II, Principi della

valorizzazione) del Codice, sono state concepite e finalizzate avendo riguardo in primo luogo alla definizione delle modalità di gestione diretta di monumenti e siti da parte del Ministero per i Beni e le attività culturali; per questo in molti casi, allorché si opera in casi o situazioni di competenza regionale o degli enti locali, non sempre risultano rispettose dell’art. 117 c. 3 Cost., pur essendo state emanate successivamente. Cfr. G. SCIULLO, Gestione dei servizi culturali, e governo locale dopo la pronuncia 272 del 2004 della Corte Costituzionale, in Aedon, (3) 2004, pp. 3 ss.

68 In specifico si tratta di quella sottoscritta nel 2008 (in forma di Protocollo), per l’avvio dell’iter di candidatura dei Paesaggi vitivinicoli di Monferrato, Langhe e Roero, tra il Ministero, la Regione Piemonte e le Province di Alessandria, Asti e Cuneo. In M. CARCIONE, Gestione dei siti culturali, cit., pp. 217-231, l’intera procedura è stata raffrontata a quella parallelamente attivata ai fini dell’analoga candidatura dei paesaggi vitivinicoli francesi della Borgogna e della Champagne.

69 Senza un lavoro sistematico di informazione e formazione, svolto già nel corso della prima fase del procedimento da Province e soggetti intercomunali, preferibilmente avvalendosi del supporto di esperti delle Università, delle istituzioni e delle associazioni culturali locali, il procedimento ha molte probabilità di non conseguire il risultato atteso o addirittura di suscitare reazioni in senso contrario. Cfr. F. DONATO, F. BADIA, La valorizzazione dei siti culturali e del paesaggio. Una prospettiva economico-aziendale, Fi-renze, Olschki, 2008, pp. 9-10, secondo cui «la valorizzazione dei siti culturali e del paesaggio necessita, all’atto della definizione delle scelte, di un approccio che vada dal basso verso l’alto, e che si basi sui concetti di partecipazione, trasparenza ed identità locale».

70 Anche in sede di valutazione del dossier , l’effettivo coinvolgimento di tutti i soggetti interessati alla candidatura e poi alla gestione del sito può avere una rilevanza non secondaria. Se infatti lo Stato può candidare e gestire in modo diretto o comunque prevalente un grande sito storico-monumentale, specie se posto sotto la diretta responsabilità del Ministero per i Beni e le Attività culturali, questo può risultare assai improprio e quindi problematico quando si tratti invece di una città d’arte, di una serie di beni culturali posti in un territorio vasto o addirittura di un paesaggio culturale, specialmente se densamente antropizzato: M. CARCIONE, Gestione dei siti culturali, cit., pp. 231 ss.

71 L’iscrizione nella Lista dell’UNESCO, a differenza di altre procedure nazionali ed europee, non prevede finanziamenti, ed anzi comporta pesanti oneri e vincoli di tutela, che non si possono capire e accettare se non si conoscono e apprezzano le straordinarie implicazioni ideali, culturali e di immagine a livello mondiale, che stanno alla base del concetto stesso di “Patrimonio dell’Umanità”. Così mentre in

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Sabino Cassese ha individuato questa procedura come uno dei casi esemplificativi di un vero e proprio diritto di partecipazione ai procedimenti internazionali, gestiti da istitu-zioni globali come l’UNESCO; tuttavia è stato evidenziato solo il fatto che le guidelines «di-spongono la partecipazione degli Stati membri nel procedimento relativo all’iscrizione nella lista dei beni del patrimonio mondiale» e che «deve essere garantita la partecipazione dello Stato membro interessato anche nei procedimenti per la correzione e la cancellazione dei beni dalla lista»72.

Non viene dunque evidenziata (pur essendo citata) la necessaria partecipazione al procedimento degli «organi consultivi» del Comitato – che hanno statuto di OnG – ed è trascurato il ruolo della società civile, cui pure l’Autore fa esplicito riferimento in altro con-testo, allorché sottolinea che «la rule of law globale si estende alle stesse amministrazioni na-zionali, dando la possibilità ai cittadini di uno Stato di invocarla per ottenere il soddisfaci-mento di un diritto: in tal modo, le amministrazione statali vengono anch’esse assoggettate al diritto globale»73.

A conferma di ciò le guidelines, al punto 108 (Systèmes de gestion)74 affermano la «prefe-

renza per i metodi partecipativi» da parte dell’UNESCO: concetto che poi viene ripreso al punto 111, con l’auspicio di una «conoscenza condivisa» e della partecipazione di tutti i par-tenaires e attori interessati. Ma è soprattutto significativo il principio proclamato dal punto 123 dello stesso documento che, nel dettare le regole per la presentazione del dossier di candidatura, afferma che « la partecipazione della popolazione locale al processo di propo-sta d’iscrizione è essenziale per poter condividere con lo Stato parte la responsabilità della gestione del bene. Gli Stati parte sono incoraggiati a preparare le proposte d’iscrizione con la partecipazione di una larga gamma di attori interessati, ivi compresi i gestori dei siti, le autorità locali e regionali, le comunità locali, OnG e altre parti interessate ».

Se le linee guida internazionali non sono fonti primarie direttamente recepite a livel-lo nazionale, nel documento di indirizzo che le recepisce a livello nazionale75, si possono

trovare due paragrafi intitolati rispettivamente «(4.6) Coinvolgimento delle comunità locali» e «(4.14) Formazione e sensibilità locale», che perseguono entrambi l’intento dichiarato di concretizzare quanto affermato dai Fondamenti del Piano, al punto 1.3 (Metodo della demo-crazia deliberativa).

Gli indirizzi ministeriali prevedono il coinvolgimento diretto, nel corso della proce-dura istruttoria, dei Sindaci territorialmente competenti e, in una successiva fase, l’assenso formale degli organi rappresentativi dei rispettivi Comuni; sarebbe tuttavia opportuno, an-che se non è sancito in modo obbligatorio, prevedere esplicitamente l’attivazione di istituti

tutto il mondo le comunità locali fanno a gara (forse anche troppo) per ottenere dall’UNESCO l’ambita iscrizione, in Italia si sono registrati casi (ad esempio in Piemonte) di resistenza e opposizione alla candidatura e quindi ai relativi piani di tutela.

72 S. CASSESE, Oltre lo Stato, cit., pp. 142-143. 73 Ibidem, p. 4; per l’Autore gli organismi globali hanno stabilito rapporti diretti con la società

civile e le ONG, il che risulta essere cruciale e indispensabile, assicurando al processo di decisione maggiori conoscenze e competenze (pp.9-10); altri riferimenti si possono trovare alle pp. 19-20 e 176-178.

74 Secondo le Orientations, cit., p. 28: «le bien devrait être preservé, de preference par les moyens participatifs».

75 Cfr. la sez. IV, parte IV - Progetti strategici del sistema culturale locale, in AA. VV., Il modello del piano di gestione dei Beni culturali iscritti alla lista del Patrimonio dell’Umanità. Linee guida, Comm.naz.siti UNESCO e sistemi turistici locali, Roma, Ministero per i Beni e le attività culturali, 2004; si tratta di un documento elaborato e diffuso in modo alquanto informale, in particolare tramite il sito www.unesco.beniculturali.it.

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di consultazione e partecipazione tali da informare e far esprimere l’intera comunità locale coinvolta76.

A questo proposito, non va dimenticato che la gestione unitaria e coerente del sito iscritto nella Lista necessita della previa definizione di un credibile modello di governance per l’attuazione del piano di gestione: dunque occorre individuare e costituire (possibilmente prima dell’esito della procedura internazionale) un soggetto autonomo77, che assicuri in modo adeguato – anche dal punto di vista finanziario – le attività di gestione e valorizza-zione del sito.

Infine, una volta ottenuta l’iscrizione del sito, per rimanere nella Lista è necessario che ai siti del patrimonio mondiale sia garantito un livello adeguato di tutela, conservazione e valorizzazione, con la previsione e realizzazione (monitorata periodicamente dagli organi-smi internazionali) di interventi di recupero e restauro.

La Convenzione ha infatti recepito (art. 11 c. 4) le sollecitazioni dell’UNESCO e degli organismi tecnici non governativi, basate sulla constatazione che tutti i monumenti e i paesaggi sono costantemente minacciati non soltanto dalle cause tradizionali di degrado ma anche dall'evoluzione della vita sociale ed economica, che li aggredisce con fenomeni di modificazione o di distruzione: in questo senso l’UNESCO annovera tra i fattori di perico-lo, insieme alle guerre e alle calamità naturali, anche le grandi opere pubbliche o private, lo sviluppo urbano troppo rapido e l’eccessivo turismo78.

In caso contrario potrebbero, a livello nazionale ed internazionale, manifestarsi pro-teste e campagne pubbliche di sensibilizzazione, oppure essere sollevati rilievi tecnici da parte di esperti79, che potrebbero portare l’UNESCO a richiedere l’adozione di misure di

salvaguardia intese a una migliore protezione o valorizzazione del sito, per non incorrere in ultimo nelle procedure e nei meccanismi sanzionatori – più che altro morali, ma gravemen-te controproducenti sul piano del prestigio e dell’immagine internazionale80 - posti a garan-zia del rispetto della Convenzione81.

76 In tal senso assumono un particolare significato alcune delle azioni strategiche, come

l’informazione e sensibilizzazione del pubblico (tramite stampa, media o siti web) o la costituzione, anche nello spirito dell’art. 17 della Convenzione, di associazioni di sostenitori, in quanto esponenziali e rappresentative di interessi diffusi della cittadinanza: B.M. FEILDEN, J. JOKILEHTO, Guide de gestion des sites du patrimoine culturel mondial, Roma, Iccrom-Icomos-Unesco, 1996, pp. 99 ss.

77 In alcuni casi si può utilizzare un preesistente ente, competente a livello comunale, intercomunale o interprovinciale sul sito o per la specifica materia, (ad esempio un ecomuseo, un parco naturale), mentre il problema non si pone per le città d’arte; qualunque ente gestore si potrà comunque avvalere del contributo e sostegno di Provincia e Regione, sotto la vigilanza delle strutture statali ai fini della tutela e conservazione del sito: M. CARCIONE, Gestione dei siti culturali, cit., pp. 222-223.

78 B.M. FEILDEN, J. JOKILEHTO, op.cit., p. 9; si veda anche H. STOVEL, Risk preparadness: a management manual for world cultural heritage, Roma, Iccrom-Icomos-Unesco, 1998, pp. 19 ss.

79 Si ricordi quanto avvenuto in anni recenti in Italia, nei casi delle Eolie e della Val d’Orcia, oppure per l’ancor più clamoroso caso di Dresda che ha portato in ultimo alla cancellazione del sito dalla Lista. A tal fine sono determinanti i Rapports de visite, che vengono normalmente redatti dai professionisti associati all’ICOMOS (in occasione delle visite che possono effettuare anche a titolo personale) e poi inviati al Segretariato Internazionale dell’Organizzazione, che nei casi di «grave minaccia per la conservazione e l’integrità dei beni culturali» può segnalare (in via del tutto riservata) eventuali situazioni critiche all’UNESCO: cfr. www.international.icomos.org/world_heritage_fre/visite.htm.

80 M. MACCHIA, La tutela del patrimonio culturale mondiale: strumenti, procedure, controlli, in L. CASINI, La globalizzazione, cit., pp. 57 ss.

81 Nei casi più gravi un sito è passibile dapprima di inscrizione nella Liste du patrimoine mondial en péril, ai sensi dell’art. 11 c. 4 e, successivamente, qualora non risultasse più rispettato l’impegno che lo Stato ha assunto di fronte alla Comunità internazionale all’atto dell’iscrizione, addirittura di cancellazione dal Patrimonio mondiale; M. MACCHIA, op.cit., pp. 64-75; B.M. FEILDEN, J. JOKILEHTO, op.cit., p. 10;

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1.6 Per una definizione delle caratteristiche giuridiche proprie dei siti UNESCO

Abbiamo così portato a termine la disamina delle forme e modalità di gestione di

quella parte del patrimonio nazionale che dovrebbe essere almeno teoricamente oggetto di tutela prioritaria: certo non solo per rispettare gli impegni assunti a livello internazionale, ma soprattutto per farne (in ragione delle comprovate ricadute promozionali a livello mondia-le) la “punta di diamante” della nostra offerta turistica in ambito culturale, settore economi-co considerato strategico e trainante per lo sviluppo nazionale dei prossimi decenni.

Provando quindi a trarre dalle vicende analizzate alcune indicazioni utili, eviden-ziando i fattori che possono contribuire alla migliore salvaguardia e protezione (per usare la terminologia internazionalistica) dell’intero patrimonio culturale italiano, si deve riconosce-re in primo luogo che quando un’azione di valorizzazione e promozione culturale coinvol-ge aree vaste e realtà complesse, con l’interessamento di più livelli e fattori politici, territo-riali e anche produttivi, con inevitabili (anzi auspicabili) ricadute sulle prospettive di svilup-po, i tradizionali meccanismi incentrati sul ruolo accentratore e dirigista dello Stato, ma an-che della Regione, non risultano più essere adeguati e sufficienti82.

Appare inoltre evidente che gli abitanti o fruitori delle località o zone interessate – siano essi cittadini, imprenditori, contadini, scolari, turisti o semplici visitatori – non posso-no essere trattati come “beni culturali”, soggetti passivi dell’azione di tutela del Ministero come lo sono le opere d’arte e i reperti archeologici, dal momento che essi vantano diritti culturali (individuali, collettivi o diffusi) e interessi legittimi, comunque degni di tutela.

Ne consegue che solo l’attuazione coerente di quanto richiesto dalla normativa in-ternazionale, in particolare con riferimento all’attuazione dei piani di gestione (implicita-mente richiamata dall’art. 3 c. 3 della stessa legge n. 7783), che coinvolgono non solo lo Sta-

to ma anche le istituzioni rappresentative del territorio in quanto democraticamente elette, può garantire la cooperazione interistituzionale e la rappresentanza dei diversi interessi e indirizzi politici delle comunità, anche con specifico riferimento alle procedure finalizzate alla candidatura, nel doveroso rispetto dei vincoli imposti dai trattati internazionali84.

Il problema può essere risolto in modo ottimale dalle Regioni, senza incidere ulte-riormente sulla già cospicua legislazione nazionale, esercitando anche in modo differenziato le rispettive competenze legislative e regolamentari in materia di valorizzazione e promo-zione culturale85; a riprova di quanto affermato si può constatare che proprio nelle Regio-

82 G.C. DE MARTIN, Un Ente strategico ancorché misconosciuto: la Provincia, in Le Province, 5,

Settembre-Ottobre 2009, p. 23, critica la persistenza nella cultura istituzionale e amministrativa italiana di una visione «per così dire gerarchica delle istituzioni territoriali (statocentrica o regionocentrica)» giudicandola in netto contrasto con la Costituzione.

83 La norma relativa agli «accordi tra i soggetti pubblici istituzionalmente competenti alla predisposizione dei piani di gestione e ai relativi interventi» fa rinvio alle forme e modalità previste dal TUBC (artt. 112 c. 4, 113 e 115 del Codice) e non al TUEL o alla l. n. 241/1990; sono quindi esclusi i soggetti privati, anche se sono portatori di competenze e interessi, oppure esponenziali di importanti interessi diffusi.

84 Sull’azione degli Enti locali per la garanzia dei diritti individuali si veda F. PIZZETTI, La tutela dei diritti nei livelli substatuali, in Studi in onore di Fausto Cuocolo, cit., pp. 1033-1080 85 Ciò dovrebbe avvenire, nel rispetto del principio costituzionale di decentramento, con il trasferimento della gran parte della funzioni amministrative in primis ai Comuni, e poi ove necessario agli enti intermedi, tenendo conto delle rilevanti differenze di dimensione (ai fini della verifica dell’adeguatezza), e curando inoltre di tutelare le prerogative dei privati e delle loro associazioni o istituzioni, aziende e altre attività commerciali o comunque a fini di lucro.

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ni86 in cui non è arrivata a compimento l’attribuzione alle Province di un ruolo strutturato e

finanziato in campo culturale (e da parte delle stesse Province stesse l’assunzione di tale ruolo), la gestione di procedure complesse come quelle richieste dalla candidatura UNE-SCO ha determinato problemi e ritardi, in gran parte suscitati dall’inadeguata attuazione dei principi di sussidiarietà, trasparenza e partecipazione.

Al momento, dunque, l’esito di questa parziale ma alquanto probante verifica dell’effettività, a quasi dieci anni dalla riforma del Titolo V, dei principi di leale collabora-zione, autonomia e decentramento in campo culturale, non si può certo considerare positi-vo.

Appare per contro evidente, sulla base di quanto sin qui esposto, che la vigente legi-slazione italiana e le consolidate prassi nazionali di tutela si potrebbero gradualmente ma radicalmente innovare proprio grazie alla più ampia, generalizzata e consapevole recezione degli strumenti normativi e organizzativi, come pure delle procedure amministrative che sono state introdotte in Italia87, da qualche decennio a questa parte, agli specifici fini della gestione e valorizzazione dei siti, monumenti e paesaggi già riconosciuti e protetti dall’UNESCO, facendo quindi perno sui seguenti principi e indirizzi:

1) introduzione di un criterio di priorità, concetto sinora inusuale per l’ordinamento culturale italiano, legato alla tradizionale concezione secondo cui la tutela deve esse-re (almeno in teoria) esercitata in modo indifferenziato nei confronti di ogni genere di beni culturali;

2) previsione, in modo cogente e non solamente come mera eventualità, di un accordo di programma tra gli enti coinvolti;

3) gestione unitaria del sito monumentale o paesaggistico (che può includere anche musei, aree archeologiche, biblioteche o archivi), andando oltre la rigida separazione per competenze tecniche, tipica del sistema italiano delle Soprintendenze, e così pure quella per ambiti territoriali comunali o provinciali;

4) partecipazione degli attori pubblici e privati del territorio interessato alle azioni di valorizzazione, che deve essere garantita e sollecitata da parte dello Stato;

5) natura di veri e propri sistemi di servizi qualificati per la valorizzazione e gestione dei beni culturali88, in particolare nel caso dei siti c.d. “seriali”89, tanto più che la stessa

Lista è il sistema dei sistemi a livello nazionale e mondiale;

86 In particolare il Piemonte, che sta proprio per portare a termine la difficile e contrastata

candidatura dei Paesaggi vitivinicoli di Langhe, Monferrato e Roero, ma già in anni recenti le vicende si sono svolte – molto ambiziose e anche per questo controverse – delle candidature e poi della gestione delle Residenze Sabaude e dei Sacri Monti. Per questi ultimi, a cinque anni dall’iscrizione, si registrano (esemplare il caso di Crea) seri problemi per il finanziamento e l’avvio di un piano organico di restauri, oltre alla scarsa sensibilità e collaborazione degli enti del territorio, fatti salvi beninteso i Parchi regionali che sono titolari della gestione; un interessante seminario tecnico sul tema si è tenuto a Domodossola il 14 novembre 2008: gli atti sono stati pubblicati in S. MINISSALE (a cura di), La gestione del sito UNESCO Paesaggio culturale dei Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia, Domodossola, Riserva Naturale Speciale del Sacro Monte, 2009

87 Sul tema si segnala anche A. PAPA, Le influenze del diritto internazionale sulla tutela dei beni culturali nell’ordinamento italiano, in Alberico Gentili: la salvaguardia dei beni culturali nel diritto internazionale, Milano, Giuf-frè, 2008.

88 Pergovernare adeguatamente tutti i processi e servizi organizzativi e amministrativi (di ricerca, conservazione, formazione e promozione), si deve normalmente agire in una posizione istituzionale intermedia tra il livello comunale-intercomunale e il livello regionale-nazionale, cioè quella che in Italia è occupata dalle Province. Anche nel già citato AA. VV., Il modello del piano di gestione, cit., pp. 8 e 41, si fa riferimento alla «aggregazione di interessi, da coinvolgere in una entità giuridica deputata a gestire le attività del sito della logica del processo di integrazione e di sistema». Per la distinzione tra le nozioni di rete e sistema si rimanda infra, par. 4.8.

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6) la pianificazione della gestione90, che oltre ad essere richiesta in modo vincolante e ad

implicare la programmabilità e la pluriennalità degli interventi (superando quindi la logica emergenziale, altra deleteria tradizione nazionale), è oggetto di valutazione periodica;

7) la possibilità di incorrere in sanzioni (iscizione nel “Patrimonio a rischio”, esclusione dalla Lista) in caso di mancato rispetto degli impegni assunti dallo Stato, e quindi di violazione dei diritti connessi alla tutela del patrimonio culturale e paesaggistico ai sensi delle Convenzioni internazionali; proprio questa caratteristica, lungi dal costi-tuire una vuota affermazione retorica, dimostra l’esistenza di un obbligo giuridico as-sunto dallo Stato nei confronti non solo dell’Umanità in senso generico, ma della comunità (nazionale e locale) e di ciascun individuo che ne fa parte.

Per quest’ultima ragione, è indispensabile affrontare, in modo analitico e approfon-dito, una disamina dei diversi diritti culturali che gli strumenti giuridici internazionali pro-mossi dall’UNESCO mirano a riconoscere e garantire, per poi riprendere a considerare in tale diversa prospettiva le relazioni che intercorrono tra questi innovativi (chè tali rimango-no per il nostro ordinamento, anche se la loro prima formulazione risale al 1948) principi di origine internazionale e il nuovo sistema delle competenze istituzionali e dei relativi servizi nazionali e locali in ambito culturale.

89 Per rimanere nell’ambito piemontese, si pensi ad esempio alle Residenze della Casa reale di

Savoia, una quindicina tra castelli, palazzi e altri edifici monumentali con i relativi parchi, ai Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia; anche i nove Paesaggi vitivinicoli di Langhe, Monferrato e Roero, attualmente candidati, hanno questa caratteristica.

90 Art. 3 commi 1 e 2 della l. n. 77/2006; giova rammentare che in una prima l’UNESCO si è limitata a raccomandare l’adozione di tale strumento di programmazione, in precedenza non previsto dalle leggi italiane, e che anche quando è stato attuato (per lo più in modo formalistico), non era normalmente soggetto a verifiche ex post. Cfr. M. FRIGO, La protezione, cit., p. 294; B.M. FEILDEN, J. JOKILEHTO, op.cit., pp. 10 ss.

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2. IL PROBLEMA DEL RICONOSCIMENTO NEL DIRITTO POSITIVO DELLA CATEGORIA

DEI “DIRITTI CULTURALI”

2.1. La concezione della cultura nell’ordinamento italiano

In Italia vige tradizionalmente, tanto nel comune sentire che nell’azione delle istitu-

zioni pubbliche, nella giurisprudenza come nel giudizio della dottrina – fatte salve le rare eccezioni che segnaleremo nominatim tra breve – una separazione piuttosto netta tra i diritti, le competenze, le funzioni e le prerogative che si possono ricomprendere nell’ambito lato sensu culturale: tutela e valorizzazione del patrimonio, promozione della cultura e della ri-cerca, libertà di espressione artistica e autonomia delle istituzioni culturali da un lato; diritto all’educazione e all’istruzione, diritto allo studio, libertà di insegnamento e autonomia delle istituzioni scolastiche, universitarie e accademiche dall’altro.

Tale distinzione appare criticabile, da un lato perché sono soprattutto le istituzioni formative di ogni ordine e grado a promuovere la cultura e la ricerca scientifica; dall’altro perché la considerazione dei beni e delle attività culturali in senso materiale e astratto (sep-pure nel rispetto dei più alti valori storici ed estetici), prescindendo dai loro autori e destina-tari, mal si concilia con la concezione internazionale1 secondo cui il patrimonio storico-

artistico va preservato e valorizzato non solo ai fini della sua materiale protezione e conser-vazione, ma anche e soprattutto nell’intento di perseguire la sua piena condivisione e frui-zione da parte di tutti. Esso è considerato quale ideale strumento di espressione e veicolo di educazione2, intesa alla migliore conoscenza, convivenza e comprensione reciproca tra le

diverse comunità e nazioni3, quasi sempre caratterizzate da lingue, religioni, tradizioni4 ed espressioni artistiche differenti5.

1 S. CASSESE, Oltre lo Stato, cit., pp. 29 e 183 afferma che la rigida divisione tra diritto

costituzionale e internazionale «si attenua», dal momento che da carte o convenzioni a carattere universale «deriva un diritto più alto di quello costituzionale, che sancisce garanzie generali più vaste». Sull’argomento v. anche AA.VV., Les droits culturels en tant que droits de l’homme, Paris, UNESCO, 1970; F. FRANCIONI, M. SCHEININ, op.cit.

2 Può essere utile, a proposito del rapporto inscindibile tra tutela e dei beni culturali, promozione della cultura e istruzione, richiamare la fondamentale Sentenza della Corte Cost. n. 118 del 6-9 marzo 1990: «lo Stato deve curare la formazione culturale dei consociati alla quale concorre ogni valore idoneo a sollecitare e ad arricchire la loro sensibilità come persone, nonché il perfezionamento della loro personalità ed il progresso anche spirituale oltre che materiale. In particolare, lo Stato deve porsi gli obiettivi della promozione e dello sviluppo della cultura, deve provvedere alla tutela dei beni che sono testimonianza materiale di essa ed assumono rilievo strumentale per il raggiungimento dei suddetti obiettivi (…); deve, inoltre, assicurare alla collettività il godimento dei valori culturali espressi da essa», concetto in seguito ripreso anche da Cons.Stato n. 2009/2008.

3 Una visione decisamente più nazionalistica emerge dalla lettura che del concetto di patrimonio culturale dà Salvatore Settis, secondo il quale si tratta piuttosto del «fulcro dell’identità nazionale» e quindi di un «valore fondante della società civile, di un senso condiviso di identità, di cultura e di cittadinanza»: cfr. S. SETTIS, Italia S.p.A, Torino, Einaudi, 2007, p. 131

4 Oggi a livello internazionale è diffusa e accreditata l’assai ampia nozione di “patrimonio imma-teriale”, come definito dall’art. 2 c. 1 della Convenzione per la salvaguardia del Patrimonio immateriale (20 aprile 2003, che non considerare solo il patrimonio etno-antropologico in senso stretto, dal momento che in-clude «le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumen-

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Quest’ultimo modello teorico è recepito e attuato, in Italia, per lo più mediante l’esercizio decentrato delle funzioni di valorizzazione dei beni culturali e di promozione del-la cultura, alla luce della previsioni dell’art. 2 c. 4 del Codice (che definisce il patrimonio cul-turale come «destinato alla fruizione della collettività»), ben più di quanto non lo sia tramite le tradizionali funzione statali di gestione del sistema scolastico e di tutela di “antichità e belle arti”.

È noto che l’ordinamento italiano ha sempre privilegiato, sin dalla storica legge di tutela del 19396, la conservazione e il restauro7 di monumenti e capolavori artistici, come

pure lo studio e la promozione delle lettere, delle arti e delle scienze intese nel senso più classico del termine8. Dopo l’avvento della Repubblica, si è coerentemente scelto a parame-tro di riferimento il principio fondamentale sancito dalla seconda parte dell’art. 9 della Co-stituzione9, con particolare riguardo all’impegno posto in capo allo Stato di tutelare il pa-

trimonio storico-artistico, attuato per oltre mezzo secolo (senza peraltro allontanarsi di molto dallo storico impianto della legge Bottai) con il profluvio di leggi nazionali recente-mente condensate dapprima nel Testo unico del 1999 e quindi nel “Codice Urbani”10.

Non essendosi in questo caso interpretato il termine “Repubblica” come compren-sivo degli altri livelli istituzionali, questo riferimento è stato storicamente inteso dall’Amministrazione centrale come un mandato pieno ed esclusivo allo Stato, ritenuto suf-ficiente di per sé a garantire l’effettiva protezione e salvaguardia dei monumenti e dei pae-saggi italiani, senza che ci si facesse tuttavia carico dei correlati diritti e interessi legittimi dei

ti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale».

5 Si richiama ancora una volta l’Atto costitutivo dell’UNESCO, che al quinto punto del Preambolo ricorda «la dignità dell’uomo che esige la diffusione della cultura e l’educazione di tutti per il raggiungimento della giustizia, della libertà e della pace»; su questo presupposto gli Stati, per perseguire la finalità di «assicurare a tutti il completo ed eguale accesso all’educazione, il libero perseguimento della verità oggettiva e il libero scambio di idee e di conoscenze, si impegnano a sviluppare e moltiplicare le relazioni tra i loro popoli per una migliore comprensione e ad acquisire una conoscenza più profonda e più reale delle loro rispettive consuetudini».

6 La legge n. 1089/1939 «Tutela delle cose d’interesse artistico e storico» ha rappresentato per sessant’anni la legge fondamentale in materia di tutela dei beni culturali; ne fu relatore Giuseppe Bottai, Ministro per l’Educazione Nazionale del Governo Mussolini.

7 Vedremo meglio infra che, senza nulla togliere alla universalmente nota e apprezzata competenza tecnica specialistica delle scuole italiane di conservazione e restauro, sarebbe meglio in questo senso agire preventivamente per evitare il verificarsi del danno, come hanno finalmente sancito i commi 1-3 dell’art. 29 del Codice dei Beni culturali.

8 Ben al di là del dato testuale delle norme, sono universalmente note la difficoltà e la scarsa attitudine degli uffici statali di tutela (fatte salve alcune importanti eccezioni) ad occuparsi in modo sistematico di un ambito importante e rilevanti come quello demo-etno-antropologico, o di farsi carico di quel significativo settore del patrimonio culturale che ancora rientra nella definizione convenzionale di “archeologia industriale”, evitando (per carità di patria) di considerare l’attenzione garantita dal Ministero nei confronti dell’arte e dell’architettura contemporanea, della fotografia o dell’audiovisivo.

9 «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

10 Sull’evoluzione della legislazione nazionale in ambito culturale e paesaggistico si rimanda a F. TAORMINA, La tutela del patrimonio artistico italiano, Torino, Giappichelli, 2001; M.A. CABIDDU, N. GRASSO, Diritto dei Beni culturali e del paesaggio, Torino, Giappichelli, 2004; C. BARBATI, M. CAMMELLI, G. SCIULLO, Il diritto dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 2006; A. CROSETTI, D. VAIANO, Beni culturali e paesaggistici, Torino, Giappichelli, 2009; R. TAMIOZZO, La legislazione dei Beni Culturali e paesaggistici, Milano, Giuffré, 2009.

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cittadini11, fatto salvo il solo diritto all’istruzione che ha sempre goduto in modo autonomo della più alta considerazione.

Già nei lavori preparatori della Costituente, Massimo Severo Giannini aveva indivi-duato tra le competenze culturali dello Stato, in modo lungimirante ed originale, taluni «mezzi di educazione finora accessibili solo a ristrette classi (arti, spettacolo, turismo)»12, concetto che solo di recente è stato ripreso e sancito formalmente dal Codice e dalla legge quadro sul turismo13.

Sono stati però necessari decenni per conseguire il pieno riconoscimento a livello legislativo (dapprima nel TUBC e poi nel Codice stesso) dell’esistenza della “nuova” cate-goria degli istituti culturali14 – musei, biblioteche, archivi, aree archeologiche, parchi storici, ecc. – che della funzione educativa dei beni culturali mobili e immobili costituiscono la principale struttura di servizio, direttamente rivolta all’utenza: e, ciò nonostante, non è stato ancora possibile fare l’ultimo e decisivo passo nel senso del loro riconoscimento quali istitu-zioni culturali, dotate cioè di autentica autonomia scientifica15, che garantirebbe loro la pos-sibilità di contribuire, attivamente e fuori dai condizionamenti partitici o ideologici, alla co-struzione della politica della cultura.

L’espressione “costituzione culturale” (assunta come lemma sintetico che designa l’insieme delle norme in materia presenti nella Carta fondamentale16) potrebbe essere intesa in un senso ben più ampio e trasversale, che non dovrebbe più sottostare alle tradizionali categorizzazioni. Concorrono a questa impostazione l'art. 3 c. 2, sul presupposto che tra gli ostacoli di ordine sociale c’è, sicuramente, il basso livello culturale di una ancora troppo lar-ga parte della popolazione. Rispetto ad essa la Repubblica deve impegnarsi attivamente on-de assicurare il pieno rispetto di tutte le norme costituzionali in materia, e con esse certa-mente del diritto all’istruzione17 e della libertà di insegnamento, ma anche delle garanzie in materia di lingua, religione, opinione ed espressione, che in questo senso devono essere ac-

11 La stessa Costituzione, nella sua formulazione letterale, appare intesa a garantire in modo del

tutto impersonale e astratto la cultura e le sue espressioni istituzionali, artistiche e materiali in quanto tali, il che non parrebbe consentire una considerazione diretta ed esplicita di quelli che a livello internazionale sono definiti come diritti culturali dei cittadini, i quali devono avere la possibilità di accedere non soltanto all’educazione scolastica, ma anche a tutte le altre forme di cultura e conoscenza, le quali proprio per questa ragione devono essere sempre caratterizzate da autonomia e pluralismo. Contra però è G. VOLPE, op.cit., p. 166. 12 Cfr. M.S. GIANNINI, Relazione preliminare sul tema «I rapporti tra Stato e cittadini attinenti all’eguaglianza e alla solidarietà sociale», in G. D’ALESSIO (a cura di), Alle origini della Costituzione italiana, Il Mulino, Bologna, 1979, p. 677 ss.

13 Art. 1 c. 2 c) del d.lgs. n. 135/2001. 14 A riprova che si tratta di categorie e nozioni assolutamente consolidate a livello internazionale

si vedano ad esempio il Manifesto UNESCO delle Biblioteche o il Codice di deontologia delle professioni museali dell’ICOM (su cui v. infra).

15 In questo senso deve essere inteso il generico riferimento dell’ultimo comma dell’art. 33, non potendosi certamente individuare come istituzioni di alta cultura soltanto quelle citate dalla l. n. 508/1999 (le accademie nazionali di belle arti, di arte drammatica e di danza, i conservatori di musica) né quelle inserite, in modo più o meno arbitrario, nell’art. 1 c. 5 della l. n. 311/2004 (Finanziaria 2005), nella cui lista figurano realtà di indiscutibile prestigio e livello nazionale come l’Accademia dei Lincei o quella della Crusca, il CNR o l’ENEA (ma non ad es. Italia Nostra o la Dante Alighieri), ed anche decine di “istituti” assai meno rinomati e reputati.

16 L’espressione è stata recentemente utilizzata in particolare con riferimento alla normativa europea in materia: cfr. ed es. D. FERRI, La costituzione culturale dell’Unione Europea, Padova, Cedam, 2008.

17 Sul dibattito in tema di diritto all’istruzione e di autonomia scolastica cfr. V. CAMPIONE, A.M. POGGI, Sovranità, decentramento, regole, Bologna, Il Mulino, 2009.

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comunate e strettamente correlate alla promozione della cultura e alla tutela del patrimonio culturale e paesaggistico.

Non giova però a tal fine che la fruizione della cultura in Italia venga proposta dai media e generalmente percepita a livello popolare come qualcosa di imposto (e dunque da subire passivamente, nei limiti del dovuto), e non piuttosto di indispensabile (che andrebbe quindi rivendicato); ciò sembra trasparire in modo sintomatico e può fors’anche essere sta-to indotto da alcuni ricorrenti riferimenti terminologici18, condizionando in modo negativo la percezione e il riconoscimento dell’accesso alla cultura e alla conoscenza come vero e proprio diritto che spetta a “tutti i cittadini”19, superando l’errata ma tradizionale convin-zione che essa sia prerogativa soltanto di un’élite sociale sensibile alle più elevate libertà in-tellettuali, oppure di ancor più circoscritte rivendicazioni proprie delle comunità minorita-rie, in quanto connesse alla loro specifica identità linguistica o religiosa.

Ecco allora che, per l’influsso deleterio di questo diffuso condizionamento sociale, ben difficilmente si condivide l’dea che la concreta e quotidiana possibilità di accedere ai più elementari servizi (locali in primis) del settore culturale e della conoscenza, usufruendo di una biblioteca o di una postazione Internet pubblica, costituiscano il presupposto per il rispetto del diritto di ciascuno: ne deriva, in ultima analisi, che la cultura è universalmente considerata correlata all’interesse nazionale o al più collettivo, mentre assai raramente la si reputa ricollegabile a quello individuale20.

È anche sulla base di queste brevi considerazioni, che si è ritenuto di capovolgere l’approccio assai riduttivo che tutt’ora prevale nella communis opinio di quanti si occupano a vario titolo di cultura, recuperando e valorizzando un punto di vista che ancora non trova condivisione e apprezzamento generalizzato nella comunità scientifica nazionale ed ancor meno nella vulgata, continuando ad essere percepito come connotato ideologicamente21, nonostante sia ispirato da concezioni tutt’altro che recenti e originali, universalmente con-

18 La questione di fondo, cui andrebbe consacrato un supplemento di indagine in quell’area grigia

che si trova al confine tra diritto e sociologia, è che l’utilizzo reiterato ed in certa misura esasperato, nell’ambito della nostra legislazione culturale, di formulazioni normative più punitive che incentivanti, come “vincolo storico-artistico”, “esproprio a fini di tutela”, “obbligo scolastico”, per arrivare alla nozione costituzionale del “dovere di contribuire al progresso” (art. 4 Cost.), ha probabilmente fatto sì che in Italia la conoscenza venisse percepita dai più come un onere, invece che come una opportunità.

19 Il riferimento forse più pregnante, in tal senso, può rinvenirsi nella sentenza della C.Cost. n. 364/1998, in materia di ignoranza incolpevole della legge, laddove alla tradizionale concezione di un onere incombente sul cittadino di informarsi (e quindi conoscere) tutte le norme vigenti sin dal momento della loro pubblicazione, per quanto possano essere talora formulate in modo complesso, oscuro e per nulla conforme alle norme di drafting legislativo, si inizia a contrapporre una crescente considerazione non solo dell’eventuale caso limite dell’impossibilità culturale di conoscere e comprendere le leggi, ma anche del ruolo fondamentale che l’amministrazione sarebbe tenuta ad esercitare, al fine di mettere in grado tutti i destinatari di conoscere la legislazione che li riguarda, senza essere costretti ad abbonarsi a una banca dati informatica a pagamento o a ricorrere continuamente a un avvocato.

20 Nella prassi istituzionale e nella connessa terminologia istituzionale ed amministrativa (si pensi all’intitolazione delle competenze ministeriali o assessorili), scuola e università vengono distinte dalle attività culturali, mentre la tutela dell’arte viene perseguita a prescindere dal suo effettivo rapporto con le diverse formazioni sociali che se ne occupano o ne usufruiscono, operando una separazione che è difficilmente spiegabile sul piano della mera logica. Cfr. M. AINIS, M. FIORILLO, L’ordinamento della cultura, Milano, Giuffré, 2003, p. 91, secondo cui le cose d’arte non vanno considerate statiche e inerti, senza che ne sia incentivata «l’interazione con la società civile».

21 In connessione da un lato con la deprecata azione di propoganda totalitaria fascista del “Min.Cul.Pop.” e dall’altro con il tradizionale timore nei confronti dell’egemonia culturale dei partiti di sinistra; a ciò si aggiungono (come avviene in Francia o in Spagna) i timori passati e recenti nei confronti di un legame tra diritti culturali e rivendicazioni separatistiche.

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divise nella comunità internazionale, la quale peraltro si compone a sua volta di ordinamen-ti basati su concezioni giuridiche e tradizioni culturali assai differenti tra loro.

2.2. La dottrina italiana che accetta una nozione unitaria di diritti

culturali Nel vasto panorama della dottrina giuspubblicistica nazionale, ben pochi studiosi

italiani hanno accettato e condiviso a partire dalla seconda metà del XIX secolo l’utilizzo della categoria dei diritti culturali, evidenziandone inoltre, volta per volta, in modo diverso e non di rado contraddittorio, solo una o più delle molteplici prospettive che li caratterizzano e definiscono.

Per primo Enrico Spagna Musso, nel trattare già cinquant’anni or sono le caratteri-stiche e le problematiche dello Stato di cultura22, ha dedicato particolare attenzione ai diritti (pubblici) culturali, cui consacra l’intera seconda parte del suo studio23: essi vanno indivi-duati, indipendentemente dalla loro definizione formale (che può essere diversa presso cia-scun ordinamento), in quanto tutelano in via immediata, diretta e specifica gli interessi24 con la cui protezione si realizza la libertà e lo sviluppo della cultura.

Risultano concepiti in senso unitario, proprio perché l’Autore ritiene non conveniente «analizzare in via distinta le situazioni definite» come tali, dal momento che ognuna appare ma-nifestazione di una medesima regolazione di settore, identificata dalla materia culturale ed ispi-rata dagli stessi principi fondamentali della Costituzione25.

Sulla base di questa premessa è espressamente citata in primo luogo la libertà della cultura (definita come principio fondamentale dell’ordinamento), la quale postula che sia la cultura stessa ad autodeterminarsi26, con una normazione che istituisca e garantisca la tutela di una serie di diritti soggettivi, i quali costituiscono un limite all’intervento dello Stato; ad essa si ricollega la libertà di manifestazione dell'arte e della scienza, sul presupposto che l’organizzazione delle istituzioni culturali, nella loro attività tipicamente culturale, deve esse-re indipendente dalla volontà statale. L’effettiva partecipazione dei cittadini alla scelta dei fini ultimi dell’azione statale, inoltre, si basa a suo giudizio sulla loro maturità, che si esplica nell’idoneità a realizzare una scelta libera e cosciente27.

Si fa poi riferimento alla libertà di insegnamento, che varrebbe solo per

22 E. SPAGNA MUSSO, Lo stato di cultura nella costituzione italiana, Napoli, Morano, 1961, p. 55,

secondo il quale uno Stato è democratico in quanto «si basi sulla cultura» tutelando la propria democraticità anche tramite la garanzia degli «istituti direttamente formativi della cultura»; la democraticità di un ordinamento è infatti garantita dalla effettività di partecipazione dei cittadini, che sotto il profilo qualitativo è condizionato alla loro maturità, ovverosia la idoneità di ogni cittadino a realizzare una scelta libera e cosciente. Cfr. G. FAMIGLIETTI, Diritti culturali e diritto della cultura - La voce “cultura” dal campo delle tutele a quello della tutela, Torino, Giappichelli, 2010, pp. 192-195, secondo il quale «può pacificamente dirsi» che l’art. 9 Cost. proclama il principo (rectius la “clausola”) dello stato di cultura, affermando un principio generale che trova specificazione nell’art. 33 e 34..

23 E. SPAGNA MUSSO, op.cit, pp. 127 SS.. 24 Ibidem, pp. 57-58 25 Ibidem, pp. 102 e 128. 26 Ibidem, p. 41 e 54-56: viene posto in rilievo a tale proposito che il fondamento di questo

diritto si può trovare solo «nel campo delle strutture giuridiche che sono proprie allo Stato», senza assumere direzioni di sviluppo a carattere obbligatorio ed esclusivo, ma soprattutto evitando di assumere posizioni metagiuridiche relative ai «valori intimi della cultura».

27 Ibidem, pp. 46-47 e 55.

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l’insegnamento scolastico, l’unico ad essere ritenuto «preordinato in via strutturale alla rea-lizzazione immediata» di uno scopo di istruzione ed educazione28; essa include anche la li-bertà di istituire scuole, che non viene dunque considerato un diritto distinto29. Il diritto all'istruzione (o all’educazione) viene invece ritenuto l’unico che «presenta un contenuto idoneo a caratterizzarlo quale diritto civico», attribuendosi allo Stato un facere positivo quale obbligo correlativo al suo esercizio (vale a dire la pretesa di ottenere un’istruzione tramite il servizio scolastico per ogni ordine e grado); infine si fa riferimento a una distinta libertà dell’istruzione, complementare al precedente diritto, da intendere come possibilità di sce-gliere (pluralismo) tra gli indirizzi scolastici quanto a materia, metodo e finalità.

Particolarmente critico nei confronti della definizione di Spagna Musso è stato Fa-bio Merusi30, il quale ha però ribadito a sua volta il valore della libertà della cultura, in quan-to costituzionalmente garantita; dopo avere riconosciuto che il dibattito intorno all’art. 9 della Costituzione, malgrado la scarsa attenzione dei Costituenti, coinvolge istituti «essen-ziali per la caratterizzazione dell’intero ordinamento giuridico», egli afferma dunque che la istituzioni devono limitarsi a fornire solamente le condizioni e i presupposti per il libero svi-luppo della cultura31.

Francesco Rimoli32 ha invece focalizzato la propria attenzione sulla libertà dell’arte, garantita dall’art. 33 della Costituzione nella sua connessione con la libertà di manifestazio-ne del pensiero e con la libertà di espressione, rispetto alle quali il fenomeno artistico mantie-ne una propria peculiarità33. Vengono posti quindi in evidenza i due connessi e tra loro spe-culari diritti individuali, ad esso correlati: il diritto d’autore e il diritto del fruitore di godere liberamente dell’opera; anche la libertà di insegnamento artistico, incluso quello extrascola-stico (di particolare rilievo con riferimento ad esempio alle botteghe d’arte) ha trovato spe-cifica considerazione.

Si sottolinea quindi la necessità dell’intervento pubblico di promozione culturale e ar-tistica, in quanto considerato strumento di realizzazione dei già menzionati obiettivi di eguaglianza sostanziale. Infine, il tratto certamente più originale del lavoro di Rimoli è l’affermazione di un diritto all’errore, che in ogni attività di ricerca (inclusa quella artistica) co-stituisce il “fondamento necessario per ottenere risultati di eccellenza”34.

Già nei suoi primi studi sul tema35, nel definire e analizzare l’intervento culturale pub-blico, Ainis si era invece riferito succintamente ma in modo esplicito tanto alla libertà della cultura che al diritto alla cultura36; considerando quest’ultimo come un diritto sociale, in

28 Ibidem, pp. 84 e 137; se ciò poteva valere all’inizio degli anni ’60, oggi si includono

pacificamente in questo ambito le attività parascolastiche o extrascolastiche, le biblioteche di studio, la didattica museale ed anche i viaggi di istruzione (turismo scolastico); si ricorda che in una relazione introduttiva ai lavori della Costituente venivano individuati come «mezzi di educazione» anche lo spettacolo e il turismo: cfr. G.D’ALESSIO, op.cit,, p. 677 SS.

29 E. SPAGNA MUSSO, op.cit, p. 101. 30 F. MERUSI, s.v. Articolo 9, in Commentario della Costituzione, Principi fondamentali (a cura di G.

BRANCA), I, Roma, Il Foro italiano-Zanichelli, 1975, p. 441, sostiene (a margine del commento all’art. 9) che l’espressione sarebbe «infelice» e non avrebbe «alcuna utilità classificatoria», tanto che la si liquida come «una cattiva traduzione di cattive letture tedesche»; v. anche F. RIMOLI, op.cit., pp. 160-163, al quale la definizione proposta «non pare in verità del tutto opportuna». Critica ripresa tra gli altri anche da A. PIZZORUSSO, Diritto della cultura, cit., p. 318.

31 F. MERUSI, Articolo 9, cit., pp. 434-439. 32 F. RIMOLI, op.cit. 33 Ibidem, p. 286 SS.: il legame concettuale tra i due appare a suo giudizio «innegabile», fermi

restando però i rispettivi tratti distintivi 34 Ibidem, p. 28 e 298. 35 M. AINIS, L’intervento, cit., p. 125. 36 Ibidem, p. 20 SS., che a tal fine richiama e commenta a sua volta N. BOBBIO, Politica e cultura, cit.

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quanto configurato dall’art. 9 della Costituzione come oggetto di attività discrezionale dei pubblici poteri, egli poneva però in rilievo il fatto che l’impegno a difendere e valorizzare la cultura è «strumentale al raggiungimento di condizioni d’eguaglianza sostanziale», in linea con l’art. 3. L’Autore evidenzia quindi l’attività di educazione, informazione e promozione culturale, in quanto la reputa essenziale alla formazione di un «cittadino maturo e consape-vole», in grado di opporre alla «minaccia dell’appiattimento culturale» un ampio ventaglio di opinioni e valori37.

In tempi più recenti, Alessandro Pizzorusso38 ha invece consacrato ai rapporti tra i principi costituzionali e quello che egli definisce in senso prevalentemente oggettivo come il «diritto della cultura», una breve ma puntuale analisi, da cui risulta – insieme all’iniziale ri-chiamo a quelle che vengono «generalmente considerate» come libertà dell’arte, della scien-za e d’insegnamento39 – un ben più argomentato riferimento al diritto a sviluppare libera-mente la propria identità culturale; quest’ultima viene dunque affermata avendo riguardo a «ciascun gruppo etnico, linguistico o religioso, o tale da combinare più caratteristiche di questo tipo», tanto ove esso sia posto in una condizione di minoranza (sia in senso demo-grafico che politico), come pure laddove assuma invece il ruolo di maggioranza etnica e po-litica dello Stato, che quindi non deve «in alcun modo prevaricare il diritto degli altri gruppi che coesistono con esso in un certo ambito territoriale».

A tal fine l’Autore fa riferimento all’art. 27 del Patto sui Diritti civili e politici del 1966, che sancisce (come vedremo tra breve) il diritto allo sviluppo delle proprie particola-rità etniche, linguistiche o religiose, che viene garantito però solo per le minoranze, mentre deve essere ritenuto affermabile «ovviamente anche per le maggioranze», nell’intento di co-struire uno stato pluralista caratterizzato quindi da un’identità «nazionale complessiva».

Nel pieno del dibattito sul progetto di Costituzione per l’Europa approvata con il Trat-tato di Roma del 2004, Jörg Luther40 ha collocato il tema nell’ottica europea e con un ap-proccio comparatistico. A suo giudizio, già con la Carta dei Diritti fondamentali dell’UE del 2001, si può configurare a livello continentale l’esistenza di una vera e propria «costituzione culturale, fondata su diritti culturali», il cui disegno è però «molto più difficile da decifrare» rispetto alla costituzione economica41.

Si tratta comunque, tutelando la cultura, di garantire non solo l’identità della perso-na, ma anche «la formazione autonoma della coscienza degli esseri umani, delle loro ricer-che e dei loro giudizi di senso», tenendo conto del fatto che le stesse attività politiche ed economiche «possono essere oggetto di cultura e possono avere per oggetto la cultura»42. Anche se i diritti fondamentali di questa categoria, a lungo considerati poveri, non sono giudicati riconducibili a un unico right to culture, essendo sempre declinati al plurale (così come avviene per lo stesso termine “culture”)43, essi sono però «tradizionalmente qualificati sia a livello internazionale sia a livello nazionale44 come diritti culturali»; in tutta Europa si

37 M. AINIS , L’intervento, cit., p. 147; lo scopo dell’intervento culturale pubblico è individuato nel

«miglioramento del livello culturale dei consociati», che possono così diventare cittadini colti, mentre l’assenza di tale attività di promozione si risolverebbe in un danno, in primo luogo, per le minoranze e per i «soggetti privi di adeguati mezzi finanziari»; v. anche pp. 16, 27 e 82.

38 A. PIZZORUSSO, Diritto della cultura, cit., p. 319-331. 39 Lo stesso rimanda in proposito ad A. PIZZORUSSO, La libertà d’insegnamento, in Atti del congresso

celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione. La pubblica sicurezza, Vicenza, Neri Pozza, 1967, pp. 395 ss.

40 J. LUTHER, Le frontiere, cit., pp. 221-243 41 Ibidem, pp. 224-225 42 Ibidem, p. 226 43 Ibidem, p. 227 44 Non essendo citato alcun autore in particolare, il riferimento è da intendersi al «livello

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possono enucleare caratteristiche «comuni» rispetto a questo genere di diritti che, al di là delle definizioni formali, troverebbero quindi riscontro anche in Italia.

Secondo Luther, la Carta di Nizza ha riconosciuto tre diritti (culturali) «fonda-mentali», dei quali è dunque lasciata alla normativa nazionale solamente la specificazione: il diritto all’educazione, che per Walzer è «diritto culturale per eccellenza»45; la libertà dell’arte, della scienza e della creazione artistica, che include l’autonomia delle accademie e università; il diritto alla proprietà intellettuale. Dalla Carta si possono però enucleare numerosi altri diritti culturali «nuovi», o che sono stati almeno in parte riformulati, con uno sforzo di elaborazione dagli esiti controversi46, e tra i quali l’Autore enuclea e pone in particolare evidenza il diritto (individuale) alla multiculturalità.

Ne risulta la necessità di una «cultura della difesa dei diritti culturali», che deve esse-re oggetto di vigilanza da parte delle istituzioni europee (prima ancora che di garanzie giuri-sdizionali), in quanto assicurano la garanzia culturale degli altri diritti fondamentali; viene af-fermato di conseguenza il carattere giuridico dei diritti culturali, in quanto si pongono alla base di conflitti che sono oggetto di procedure, tanto amministrative quanto giudiziarie.

È infine posto in evidenza che i diritti culturali riguardano tanto l'individuo che la comunità, con l’inevitabile conseguenza che vengono messi in gioco gli aspetti religiosi, lin-guistici e identitari, in quanto forieri di problemi quasi sempre politici (se diventano nazio-nalismi) più che giuridici; il loro esercizio risulta dunque determinare diritti individuali, che divengono però potenzialmente collettivi. Il che non deve far dimenticare che essi non sono stati concepiti esclusivamente come diritti particolari, più favorevoli alle culture nazionali o regionali che non a quelle sovranazionali, dal momento che anzi si riconducono a valori universali, da conservare nel rispetto delle culture e delle tradizioni nazionali (o locali)47.

La dottrina più recente tende ad utilizzare più comunemente alcuni dei termini in questione, facendo riferimento in particolare alla libertà della cultura48 o più genericamente alle libertà culturali49, mentre stenta ancora a recepire in modo generalizzato e ad adottare convintamente il termine “diritti culturali”, che è stato per lo più utilizzato con diretto o in-diretto riferimento alle sole disposizioni dei Patti del 196650.

Emblematico in tal senso è il contributo di Giulio Volpe51 che, a sua volta, fa fre-

nazionale» di tutti gli Stati europei e non in modo specifico all’Italia, la cui dottrina prevalente si è infatti ben guardata dal riconoscere, sia tradizionalmente che di recente, la categoria dei diritti culturali; Ibidem, pag. 228

45 Secondo la definizione di M. WALZER, Quali diritti per le comunità culturali?, in E. VITALE (a cura di), Diritti umani e diritti delle minoranze, Torino, Rosemberg & Sellier, 2000, p. 21.

46 Luther propone la seguente lista di diritti: il diritto di sposarsi e costituire una famiglia, intesa come comunità culturale; la libertà di pensiero, di coscienza e di religione; la libertà di espressione e informazione; la libertà di riunione e associazione; il diritto alla non discriminazione per tendenze sessuali; il diritto all’istruzione e alla formazione; il diritto alla non discriminazione per aspetti culturali (la lingua, le religione, le convinzioni politiche), anche nelle comunicazioni con gli organi dell’UE; il diritto al rispetto della diversità culturale (con particolare riferimento alle minoranze etniche); il diritto alla parità delle donne; il diritto del bambino nelle relazioni con i genitori; i diritti di partecipazione di anziani e disabili alla vita culturale.

47 Per J. LUTHER, Le frontiere, cit., p. 227 e 238, i diritti culturali non sono necessariamente individuali, dal momento che l’identità è del singolo (soggettiva), ma la somma costituisce l’identità collettiva (oggettiva), fino ad implicare garanzie per le formazioni sociali, a partire dalla famiglia fino alle persone giuridiche e alle confessioni religiose.

48 A. PIZZORUSSO, Diritto della cultura, cit., p. 317. 49 R. CHIARELLI, op.cit., p. 481. 50 Cfr. AA.VV., I diritti economici, sociali e culturali nella prospettiva di un nuovo stato sociale, Padova,

Cedam, 1990. 51 G. VOLPE, op.cit, pp. 115, 157.

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quenti riferimenti alla libertà della cultura, salvo però citare i diritti culturali soltanto allor-ché illustra i rapporti con la Chiesa cattolica: non a caso una fonte basata su un trattato (al-meno formalmente) internazionale52, che garantisce il diritto di accesso alle biblioteche, il diritto allo studio dei beni librari e la loro corretta circolazione interbibliotecaria, fino a configurare a beneficio di studiosi e bibliofili (che evidentemente sono considerati oltre Te-vere una categoria particolarmente meritevole di rispetto e considerazione) un diritto a fruire di un soggiorno confortevole in biblioteca.

Malgrado le perduranti resistenze e le perplessità della maggioranza degli studiosi italiani, dunque, sono sempre più numerosi coloro che, soprattutto dall’inizio di questo se-colo, adottano la categoria de qua53; si è però dovuto attendere un recentissimo studio per poter disporre di una disamina esaustivamente e specificamente dedicata a questo tema54, il quale viene tuttavia discutibilmente considerato e declinato attribuendo un’assoluta pre-ponderanza all’ottica identitaria, intesa soprattutto – se non esclusivamente – alla tutela dei diritti delle minoranze linguistiche o religiose.

Anche se non è ovviamente possibile dare conto, in poche righe, dell’ampia e assai articolata disamina dedicata a questo profilo della categoria di diritti dei quali ci stiamo oc-cupando, può essere sufficiente evidenziarne la non convenzionale definizione, proposta nei seguenti termini: «i diritti culturali (rectius, il diritto alla tutela della propria vita culturale)»

55, cui secondo questa dottrina si dovrebbero connettere da un lato il diritto a non essere discriminati nel godimento dei diritti fondamentali per il fatto di appartenere a una mino-ranza56, ma per altro verso anche (in connessione con i fenomeni migratori) il diritto dell’individuo a rinunciare alla propria identità culturale originaria, per sposarne una nuova e diversa57.

L’evidente enfasi posta sull’asserita coincidenza tra diritti culturali e diritto all’identità non esime tuttavia l’Autore dal riconoscere altrettanta dignità e valore alla «liber-tà della cultura, nelle sue manifestazioni artistiche e scientifiche»58, come pure un diritto alla fruizione (artistica, culturale e persino scientifica), che viene definito come collettivo ed alla cui base viene condivisibilmente posto in evidenza un più ampio «diritto individuale alla cultura (inteso come libertà positiva)»59.

Una parte delle obiezioni italiane alla nozione dei diritti culturali è comune alle criti-che e ai rilievi della dottrina d’Oltralpe, che però vanno lette alla luce di un fatto tutt’altro che irrilevante: in Francia è pacificamente riconosciuto il “diritto alla cultura”, espressione

52 Gli artt. 7 e 8 Cost. dall’intesa tra Ministero per i Beni culturali e CEI del 26 gennaio 2005,

integrativa di quella del 18 aprile 2000; per l’equiparazione del Concordato a un trattato internazionale cfr. la sentenza C.Cost. n.16/1978; AA. VV., Il Concordato: trattato internazionale o atto politico?, Roma, Borla, 1978.

53 Si vedano anche R. CHIARELLI, op.cit., p. 34; i già ricordati J. LUTHER, Le frontiere, cit.; J. LUTHER, Il pane dei filosofi e i denti dei giuristi: diritti culturali fondamentali?, cit.; G. MELEGARI, Libertà dell’arte e rispetto delle diversità culturali: fondamento dei diritti culturali, in M. SCUDIERO (a cura di), Il diritto costituzionale comune europeo, Napoli, Jovene, 2002; in ultimo (ma non cronologicamente) si veda anche M. CARCIONE, Diritti culturali, cit.

54 G. FAMIGLIETTI, Diritti culturali e diritto della cultura, cit. 55 Ibidem, p. 64; in un altro passaggio viene però utilizzata, in connessione con il concetto di

«senso di appartenenza», la più consueta dizione di “diritto all’identità culturale” (pp. 114-115). 56 Ibidem, p. 107. 57 Ibidem, p. 77. 58 Questo in stretta connessione con l’esplicito riconoscimento dell’autonomia della cultura

stessa: ibidem, p. 195; altrove (p. 252) si parla invece di una libertà di creazione e trasmissione della cultura, che assicura il libero svolgimento dell’attività culturale).

59 Ibidem, pp. 252-253 e 287; viene anche definita come libertà (e possibilità) di fare uso dei beni culturali, che deve essere assicurata da «garanzie giuridiche».

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oramai «entrata nel costume giuridico» (secondo Jean Marie Pontier)60, essendo stato pro-clamato sin dal Preambolo costituzionale del 1946; esso però non coincide del tutto con la nozione di cui ci stiamo occupando, tanto da avere determinato non poche difficoltà inter-pretative proprio per la necessità di distinguere tra loro i due concetti61.

Trattandosi quindi di una categoria residuale, il dibattito sui diritti culturali ha Oltral-pe ben altro significato e giustificazione rispetto al contesto italiano ed europeo; in primo luogo, proprio perché essi non costituiscono la mera applicazione del diritto alla cultura62, si afferma che occorre accettarne una concezione “larga”, vale a dire includendo non solo il diritto al patrimonio culturale o alla partecipazione alla vita culturale, ma anche i diritti di espressione, religiosi o linguistici; si è quindi posta in via preliminare la questione se si tratti solo di diritti individuali (il che per certi versi eviterebbe di porre alcune questioni contro-verse) o se debbano essere considerati anche, o soltanto, in quanto diritti collettivi. Si è giustificata tale opposizione di principio con l’inevitabile rimando al problema dell’identità locale o regionale in relazione a quella nazionale o estera: ciò sembrerebbe però costituire piuttosto un’obiezione di natura politica, tanto che si è arrivati a considerare i di-ritti culturali la «causa di una rottura del consenso sui diritti dell'uomo, il che non può che determinare discussioni»63.

Nonostante tutto, si può concordare con Pontier quando sostiene che, in ultima analisi, «il riconoscimento dei diritti culturali è ineluttabile», a condizione di considerarne gli aspetti positivi64 invece di concentrarsi – come succede appunto in Francia – solo su quelli che finiscono inevitabilmente per comportare problemi e contrasti, soprattutto a causa dei conflitti identitari e linguistici.

A conclusione di questa ricognizione, seppure sommaria, si può constatare che an-che coloro che ammettono l’esistenza della categoria, ne forniscono definizioni e cataloga-zioni alquanto disparate e disomogenee, non esaustive né tantomeno riferite in modo espli-

60 J.M. PONTIER, Entre le local, le national et le supranational: les droits culturels, in L’actualité juridique-

Droit Administratif, n. spec. 20.9.2000, pp. 50 ss.; a riprova di ciò in Francia dagli anni 90 è stato riconosciuto come disciplina universitaria propria il Diritto della cultura (regolato dal diritto pubblico ma anche dal diritto privato, e diviso tra livello nazionale e diritto internazionale), mentre l’Italia si è limitata a codificare un diritto molto più limitata di beni culturali. La dottrina italiana non ha mai spiegato per quale ragione ci debba essere una così antitetica differenza tra due ordinamenti per altri versi assai simili, avendo origini comuni ed essendo oggetto di molteplici reciproche influenze specialmente in età napoleonica.

61 Secondo la dottrina francese, il diritto alla cultura può essere definito come rientrante nella categoria dei diritti economici e sociali, classificabile dunque tra i droit créances, cioè quelli che non implicano un’astensione da parte dello Stato, ma piuttosto un’azione positiva intesa a rendere questi diritti effettivi: si tratta quindi di una categoria di diritti che richiedono un intervento dei poteri pubblici, che si tratti dello Stato o delle collectivités territoriales; cfr. J.M. PONTIER, Droit de la culture, Paris, Dalloz, 1997; P.L. FRIER, Droit du patrimoine culturel, Parigi, PUF, 1997.

62 Anche in Francia, come in Italia, per contestare l’accettabilità della nozione si sottolinea la mancanza di unità dei diritti culturali, che si rapportano a differenti oggetti come l’arte, la scuola e l’università, la ricerca scientifica, i monumenti, gli archivi, i libri, le creazioni dell’ingegno, e accettandone la nozione più ampia anche la religione, i media e persino le opinioni; la seconda obiezione è che i diritti culturali sarebbero privi di efficacia (vale a dire che non sarebbero giustiziabili), pur costituendo parametro di riferimento del controllo di costituzionalità, dal momento che sono considerati principi aventi valore costituzionale. Si veda E. FOREY, H. MONNIER, Droit de la culture, Parigi, Gualino, 2009.

63 J.M. PONTIER, Entre le local, cit., p. 55 64 Un riscontro sintetico quanto efficace a questo approccio teorico si può rinvenire nella Charte

de mission de service public pour le spectacle vivant del 22 ottobre 1998 che ha sancito «la massima libertà di ogni cittadino nella scelta delle proprie pratiche culturali»: ibidem, p. 55. In tema di diritto alla cultura si veda: www.culture.gouv.fr/culture/infos-pratiques/droit-culture/index.htm.

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cito a fonti e riferimenti di diritto positivo; ciò vale a dimostrare che non è inutile provare a svolgere un’articolata e completa ricognizione65 dei diritti culturali che, ad oggi, sono stati effettivamente recepiti dall’ordinamento positivo italiano, nella convinzione che la scarsa consapevolezza ed effettività può essere indotta proprio dalla insufficiente conoscenza delle fonti (ancora un problema culturale!) da parte degli operatori del diritto e dell’ammi-nistrazione pubblica.

2.3 I diritti culturali recepiti dall’ordinamento italiano a. Le convenzioni internazionali ratificate

Il 10 dicembre 1948 veniva proclamata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Uni-te, sulla base di un progetto predisposto dall’UNESCO a soli tre anni dalla sua creazione, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (DUDU), che per la prima volta citava espressa-mente all’art. 22 i diritti culturali; lo strumento, avendo carattere essenzialmente program-matico, non è però ancora considerato universalmente vincolante, anche se molte Nazioni lo considerano già come tale66. Dunque la norma positiva cui fare riferimento è il Patto internazionale sui Diritti econo-mici, sociali e culturali (PDESC), adottato dall'Assemblea Generale dell'ONU il 26 dicembre 196667 che, imponendo agli Stati di fare quanto è necessario per il mantenimento, lo svilup-po e la diffusione della scienza e della cultura, consacra ben tre articoli ai diritti culturali Ma il termine si ritrova anche al terzo capoverso del preambolo del coevo Patto internazionale sui diritti civili e politici (PDCP), che reca all’art. 27 un’importante norma in tema di diversità cul-turale. Anche questi strumenti, che pure costituiscono uno svolgimento dei principi affer-mati dalla DUDU, sono privi di una effettiva forza cogente, rilievo che però può essere fat-to anche con riferimento ad altre fonti in materia di diritti umani68. Ma l’effettività dei diritti culturali è stata vieppiù garantita grazie agli strumenti intergovernativi istituiti, nel corso de-gli anni, dalla Conferenza dell’UNESCO e poi resi operativi – anche se non cogenti, rima-nendo nell’ambito della soft law – da parte dell’Organizzazione, nei confronti degli stessi Stati firmatari, tramite meccanismi di controllo, stimolo, promozione e finanziamento che sono ritenuti alquanto efficaci, almeno per gli standard internazionali69. Tra i circa trenta trattati approvati in oltre mezzo secolo possono essere citati, ad esempio: le due Convenzioni sui Diritti d’Autore (6 settembre 1952 e 24 luglio 1971); la Conven-zione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (14 maggio 1954), con i Protocolli

65 Una prima versione della ricognizione è già stata presentata in M. CARCIONE, Per una defini-

zione dei diritti culturali garantiti dall’ordinamento italiano, in R. BALDUZZI (a cura di), Annuario DRASD 2011, Milano, Giuffré, 2011, pp. 305-334.

66 In tal senso A. CASSESE, I diritti umani, cit., p. 32 ss. (in particolare pp.48-49), ma solo allorché si tratta di violazioni «gravi, ripetute e sistematiche» di alcuni diritti umani; contra P. CARETTI, U. DE

SIERVO, op.cit., p. 128-129. Sul tema si veda anche B. BOUTROS GHALI, Le doit à la culture et la Déclaration Universelle des droits de l’homme, in AA.VV., Les droits culturels en tant que droits de l’homme, cit., pp. 77-79.

67 Il Patto è entrato in vigore solo il 23 marzo 1976; l’Italia lo ha ratificato il 15 settembre 1978, a seguito della l. 25 ottobre 1977, n. 881; AA.VV., I diritti economici, sociali e culturali nella prospettiva di un nuovo stato sociale, Padova, Cedam, 1990.

68 A. CASSESE, I diritti umani, cit., pp. 99 ss.; F. FRANCIONI, Culture, cit., p. 3, evidenzia che tali critiche si possono prospettare anche con riferimento ai diritti economici e sociali.

69 M. FRIGO, op.cit., pp. 172-178 e 278; M. MACCHIA, op.cit., pp. 64 ss.

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aggiuntivi del 1954 e del 1999; la Convenzione sulla circolazione illecita delle opere d’arte (14 no-vembre 1970); la Convenzione per la protezione del Patrimonio Mondiale (16 novembre 1972); la Convenzione per la salvaguardia del Patrimonio immateriale (20 aprile 2003), il cui preambolo ri-chiama la DUDU e il PDESC; ed in ultimo la Convenzione sulla protezione e promozione della di-versità delle espressioni culturali (CDC, 20 ottobre 2005)70. Al di fuori dell’ambito UNESCO, anche la Convenzione sui Diritti dell'Infanzia (CDI) del 20 novembre 198971, rafforza i principi generali enunciati poc'anzi, garantendo in modo particolare i diritti culturali dei bambini; analogamente la IV Convenzione di Ginevra per la pro-tezione delle persone civili in tempo di guerra (12 agosto 1949)72, nel sancire il diritto all'educazione per i minori, tutela la cultura originale della popolazione dei territori occupati. Le norme europee presentano, a loro volta, un numero relativamente limitato, ma non meno rilevante, di norme in ambito culturale: già nel preambolo dei Trattati costituti-vi73 spicca ad esempio il richiamo alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uo-mo e delle libertà fondamentali (CEDU), come pure il principio generale posto dall’art. 3, che impone il rispetto della «ricchezza della diversità culturale e linguistica»; all’argomento sono poi consacrati gli artt. 165 (Istruzione) e 167 (Cultura) del Trattato sul funzionamento dell’Unione. Grande attenzione ai temi culturali è stata dedicata dalla Carta dei Diritti fonda-mentali dell’UE (CDF) proclamata a Nizza il 7 dicembre 200074. Ancora a livello di UE, infi-ne, occorre considerare la Carta Europea dei ricercatori, adottata con Raccomandazione della Commissione UE dell’11 marzo 2005. Ampi riferimenti ai diritti culturali sono rinvenibili nelle Convenzioni del Consiglio d’Europa, a partire dalla suddetta CEDU (Roma, 4 novembre 1950)75, la quale fa appello al «patrimonio comune di tradizioni» di cui sono forti gli Stati europei, senza tuttavia conside-rare in modo specifico il tema della cultura, il che è stata giudicata una lacuna grave76, anche perché sull'Europa grava la responsabilità di innumerevoli beni culturali distrutti o depreda-ti nel corso dei secoli in tutto il mondo77; il diritto all’istruzione è stato inserito nel Proto-collo addizionale del 1952. La Convenzione Culturale Europea (Parigi, 19 dicembre 1954), incentrata sull'idea di pa-trimonio culturale comune dell'Europa, è stata integrata con gli altri strumenti in materia di architettura e archeologia nella Convenzione quadro sul valore del Patrimonio culturale per la società

70 Tutte le convenzioni sono state ratificate dall’Italia, inclusa quella del 2005 (recepita il 19

febbraio 2007), che cita espressamente nell’ultimo capoverso del preambolo «l’esercizio dei diritti culturali». Tra le convenzioni UNESCO non ratificate si ricorda, in tema di diritto all’educazione, la Convenzione sul riconoscimento delle qualifiche relative all’insegnamento superiore nella Regione Europee (Lisbona, 1997).

71 Ratificata dall’Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176. 72 La ratificata del Parlamento italiano è avvenuta con l. 27 ottobre 1951, n. 1739. 73 Testo consolidato con il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007. 74 La Carta è poi stata adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 ed è in vigore con il Trattato di

Lisbona a partire dal 1 dicembre 2009: J. LUTHER, La sfida dei diritti culturali in Europa, in B. HENRY, A. LORETONI (a cura di), La carta dei diritti fondamentali, verso una costituzione europea?, in Quaderni Forum per i problemi della pace e della guerra, XV (2), 2001, pp. 81-94; J. LUTHER, Le frontiere, cit., pp. 221 ss., per il quale in tutta Europa si possono enucleare caratteristiche «comuni» rispetto a questo genere di diritti.

75 P. LEUPRECHT, op.cit., p. 21 ss. 76 F. FRANCIONI, Culture, cit., p. 1.

77 Un significativo richiamo ai diritti culturali si ritrova all’art. 22 della Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli (CADP), adottata a Nairobi il 27 giugno 1981 dall’Organizzazione dell’Unità Africa-na, per la quale «tutti i popoli hanno diritto al loro sviluppo (...) culturale, nello stretto rispetto della loro libertà e della loro identità» insieme al diritto a «fruire in modo uguale del Patrimonio comune dell’Umanità»: M. CARCIONE, Diritti culturali, cit., p. 103.

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(CQPC), approvata a Faro il 27 ottobre 2005, non ancora in vigore78. Si segnalano poi la Carta sociale europea, approvata a Torino (1961)79 e la Carta europea delle lingue regionali (1992), mentre alla protezione delle minoranze nazionali è dedicata la Convenzione quadro di Stra-sburgo (1995)80. Dunque quasi tutte le convenzioni internazionali sin qui citate sono state ratificate dall’Italia, la quale è parte, avendone condiviso statuti e finalità, sia dell’ONU che dell’UNESCO; tanto il PDESC che le più importanti Convenzioni UNESCO godono inol-tre di consenso ormai universale da parte della comunità internazionale, esplicitato in modo formale dall’alto numero di ratifiche81 e in modo sostanziale da una generale attuazione. Dunque un principio generale di rispetto dei diritti culturali potrebbe essere presto configurabile addirittura come norma consuetudinaria, essendo in via di consolidamento nello jus gentium, in quanto generalmente riconosciuto dal diritto internazionale82. b. Gli altri documenti internazionali in materia

Molti documenti internazionali, seppure tecnicamente rientranti nel concetto di soft law83, in quanto del tutto privi di valore vincolante, richiamano e specificano il contenuto dei diritti culturali; non di rado, anzi, li citano esplicitamente, dimostrando di considerarli quali valori condivisi dalla Comunità internazionale. L’ONU ha per esempio adottato dap-prima una Dichiarazione sui diritti delle minoranze (1992) e poi la recente Dichiarazione universale dei Diritti delle popolazioni indigene (2007), che cita tra i diritti indigeni quelli alla propria cultura e all’istruzione. Tra le raccomandazioni e dichiarazioni dell’UNESCO si possono ricordare la Di-chiarazione dei principi della cooperazione culturale internazionale (1966), che parte dal presupposto che «ogni cultura ha una dignità e un valore che devono essere rispettati e salvaguardati» (art. I.1), citando espressamente i diritti culturali, che vengono declinati anche come doveri; la Raccomandazione sull’educazione relativa ai diritti dell’uomo (1974), che richiama esplicitamente il PDESC; l’analoga Dichiarazione sul ruolo dell’informazione (1978); oppure la Dichiarazione sulle politiche culturali (1982)84. Ancor più pertinente è, infine, la Dichiarazione Universale sulla diversità culturale (DUDC) del 2001 che, oltre a citare l’esercizio dei diritti culturali già al terzo capoverso del

78 L’Italia, pur essendo parte della prima Convenzione sin dal 1957, non ha fino ad oggi firmato

né ratificato quest’ultima e ben più aggiornata versione del trattato. 79 Nel 1996 a Strasburgo è stata firmata una versione aggiornata e coordinata della Carta sociale,

che include le disposizioni del 1961, quelle del protocollo del 1988 e una nuova lista di diritti in campo economico e sociale; tale versione è stata ratificata dall’Italia con l. 9 febbraio 1999, n. 30.

80 Ratificata dall’Italia con l. 28 agosto 1997, n. 302. 81 Sono 146 gli Stati che hanno ratificato i Patti del 1966; 186 la Convenzione del 1972 sul Pa-

trimonio mondiale; 185 la IV Convenzione di Ginevra del 1949; 123 la Convenzione del 1954 sulla pro-tezione dei beni culturali in guerra; 100 la Convenzione del 2005 sulla diversità culturale. Il più alto nu-mero di ratifiche (191) compete alla Convenzione del 1989 sui Diritti del bambino. 82 P.M. DUPUY, L’incidence des instruments juridiques adoptés par l’Unesco sur le droit international général, in YUSUF, op.cit., pp. 371-384. Si ricorda la restituzione volontaria ai Paesi di provenienza di opere d’arte illecitamente acquistate da musei, o l’effettivo rispetto delle norme di protezione dei beni culturali inserite in convenzioni non ratificate, anche in situazioni in cui non sarebbero applicabili. Tuttavia A. CASSESE, I diritti umani, cit., p. 32, non ritiene i diritti culturali già acquisiti nelle consuetudini internazionali.

83 Cfr. A.M. POGGI, Soft law nell’ordinamento comunitario, in Annuario Aic, 2005, nel sito web: www.associazionedeicostituzionalisti.it.

84 Per un breve commento, si veda P. HÄBERLE, op. cit., p. 22.

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preambolo, reca all’art. 5 la significativa rubrica: «I diritti culturali, ambito favorevole alla diversità culturale». Il documento fondamentale in materia sarebbe però stata la Dichiarazione sui diritti culturali in quanto Diritti dell’Uomo85, che tuttavia non è mai stata approvata formalmente dagli organi dell’UNESCO; dopo avere affermato la libertà della conoscenza quale diritto fon-damentale dell’uomo, il progetto di dichiarazione si concludeva con l’affermazione del «di-ritto alla cultura», il quale presupporrebbe «la possibilità per ciascuno di disporre dei mezzi necessari per sviluppare la sua personalità, grazie alla partecipazione diretta alla creazione di valori umani, e di diventare così padrone della propria condizione, tanto sul piano locale che su scala mondiale». Nei lavori preparatori, Boutros Ghali86 aveva proposto di definire il diritto alla cul-tura come «diritto di ogni uomo ad accedere alla conoscenza, alle arti e alle lettere di tutti i popoli, di partecipare al progresso della scienza e di godere dei suoi benefici, di portare il proprio contributo all’arricchimento della vita culturale». Altri documenti internazionali si sono occupati dei diritti culturali a vario titolo, contribuendo dal punto di vista politico o economico a definirne ambito e rilevanza: ad esempio il Codice Etico del Turismo87 della UNWTO richiama esplicitamente il PDESC, au-spicando il rispetto delle tradizioni e delle pratiche culturali delle popolazioni delle zone tu-ristiche, oltre che del patrimonio culturale e paesaggistico. Tra i documenti adottati da organizzazioni non rientranti nell’ambito ONU, che contengono disposizioni in tema di diritti culturali, si può inoltre ricordare la Dichiarazione sui diritti dell'uomo nell’Islam88; l’esempio storicamente più rilevante è però costituito dall’Atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Helsinki, 1 agosto 1975)89, che poneva alcuni principi di rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo, derivanti dal fonda-mentale valore della dignità umana ed essenziali al suo libero e pieno sviluppo. Infine la Carta di Algeri del 1976 (CA)90 afferma tra i “diritti dei popoli” numerosi diritti culturali, in primis quello al rispetto dell’identità culturale. Tra le organizzazioni non governative91, l’ICOMOS ha adottato una Dichiarazione in occasione del 50°anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (DDS, Stoccolma 1998), prendendo spunto dall’idea di utilizzo compatibile delle risorse, per evidenziare al-cuni “nuovi” diritti culturali riferiti al patrimonio culturale. Anche lo Statuto dell’ICOM e il correlato Codice deontologico delle professioni museali, approvato per la prima volta nel 1986 e poi aggiornato più volte (in ultimo nel 2004), forniscono norme utili ai fini del corretto approc-cio alla fruizione da parte dei professionisti della cultura.

Di grande interesse scientifico, ma priva di rilevanza formale, è infine la Dichiarazio-

85 AA.VV., Les droits culturels en tant que droits de l’homme, cit., pp. 109-111, esito finale della

Riunione di esperti tenutasi nel 1968 presso la sede dell’UNESCO. 86 B. BOUTROS GHALI, op.cit., p. 77; Segretario Generale dell’ONU dal 1992 al 1996, aveva

partecipato nel 1968 alla riunione in qualità di esperto dell’Università del Cairo. 87 Strumento approvato con la Risoluzione dell’Assemblea Generale ONU del 21 dicembre

2001, su proposta dell’Assemblea dell’Organizzazione mondiale del Turismo, svoltasi a Santiago del Cile nel 1999.

88 Adottata il 5 agosto 1990 al Cairo, durante la 19ª Conferenza islamica dei Ministri degli Affari esteri, afferma all’art. 11 lett. b) il diritto dei popoli di «conservare la loro propria identità», riconoscendo il diritto all’educazione e quello alla tutela dei diritti d’autore.

89 Pur non costituendo un vero e proprio accordo internazionale, è stato sottoscritto dai Capi di Stato di 35 Nazioni in ambito OSCE, dopo due anni di riunioni.

90 Si rimanda a tal fine a G. CARLINI, I diritti dei popoli, in L. ELIA, op.cit., pp. 99-100, per il quale i diritti culturali sono considerati, in riferimento agli individui, come accessori.

91 A. CASSESE, I diritti umani, cit., pp. 137 ss.

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ne di Friburgo (DDF) del 7 maggio 200792, il cui preambolo definisce in modo pregnante i diritti culturali come «espressione ed esigenza della dignità umana», con un originale riferi-mento alla dimensione culturale dell’insieme dei diritti dell’uomo; risulta del tutto originale il principio secondo cui essi dovrebbero essere interpretati secondo criteri di universalità, in-divisibilità e interdipendenza (art.1).

Riprendendo il ragionamento inteso a individuare la nozione condivisa di diritti cul-turali, al momento non parrebbe quindi riscontrabile una sufficiente omogeneità delle fonti e delle singole disposizioni, e neppure un utilizzo generalizzato e sistematico della termino-logia considerata nei vari strumenti. Tale principio non è dunque stricto sensu definibile come di origine pattizia, e pertanto lo si potrebbe forse includere solo tra quei principi “non scrit-ti” posti a tutela dei diritti inviolabili dell'Uomo, che sono in ultima istanza intesi ad assicu-rare la pace tra le Nazioni, finalità principale sia dell’ONU che dell’UNESCO. Se così fosse, lo si potrebbe forse ritenere costituzionalizzato, sulla base del combi-nato disposto degli artt. 10 c. 1 e 11 della Costituzione93, prima ancora che del nuovo art. 117 c. 1, attribuendogli quel valore e rango che sinora non sempre è stato riconosciuto sulla base del generico richiamo ai diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost.94.

2. Catalogo sistematico dei diritti culturali

Nel 1997 il Consiglio della cooperazione culturale del Consiglio d’Europa pose ma-no alla redazione di una lista completa ed argomentata dei diritti culturali – integrativa di quelli già solennemente sanciti dalla CEDU – che avrebbe dovuto risultare dunque valida almeno per tutti i paesi del vecchio continente.

Venne dapprima stilato un elenco, sul solo presupposto che potessero essere qualificati come “culturali”; essendosi però determinato un numero eccessivo di voci, si fece quindi ricor-so a criteri più rigorosi, chiedendo cioè che fossero fondamentali, universali, corrispondenti a un bisogno reale e giustiziabili: sulla base di tali parametri, scaturì una lista di quindici voci, due delle quali (il diritto al nome e il diritto di replica) non trovano però riscontro in nessuna delle altre fonti considerate.

L’esito non troppo incoraggiante di quell’esercizio, pubblicato nel rapporto Les Droits culturels au Conseil de l’Europe95, come pure di altri tentativi più recenti e altrettanto au-torevoli96, ci ha indotto a riproporre tale disamina97, con l’intento di produrre un elenco completo ed esaustivo delle diverse voci riconoscibili e condivisibili, per poi tentare di farne una sintesi il più possibile efficace, essendo fondata sugli elementi essenziali che le acco-

92 P. MEYER-BISCH (a cura di), Les droits culturels. Projet de déclaration, Parigi-Friburgo, UNESCO-

Editions Universitaires, 1998; redatta da un gruppo internazionale di esperti dell’Istituto interdisciplinare di etica e dei diritti dell’Uomo dell’Università di Freiburg (Svizzera) e rimaneggiata in seguito a un vasto dibattito, è stata infine proposta all’attenzione della comunità internazionale.

93 Sull’adattamento dell’ordinamento italiano alle norme del diritto internazionale dopo la l.cost. n. 3/2001 si veda F. SORRENTINO, op.cit., pp. 3-4; sul quadro precedente si veda V. CRISAFULLI, L. PALADIN, Commentario breve alla Costituzione, Padova, Cedam, 1990, pp. 59-63, che richiamava le pronunce in materia della Corte Costituzionale, in particolare la Sentenza n. 188/1980 sulle norme internazionali generalmente riconosciute.

94 R. BALDUZZI, I diritti, cit., p. 82. 95 AA.VV., Les Droits culturels au Conseil de l’Europe (1949-1997), Project : ‘Démocratie, droits de l’homme,

minorités: les aspects éducatifs et culturels’, CDCC, DECS/SE/DHRM (97-5), Strasburgo, Conseil de l’Europe, 1997; cfr. J.M. PONTIER, Entre le local, cit., p. 54, secondo cui con questi criteri sarebbe risultato ammissibile il solo diritto all’insegnamento gratuito in una scuola pubblica.

96 Una sommaria elencazione è stata fatta anche da F. FRANCIONI, Culture, cit., pp. 1-2. 97 M. CARCIONE, Per una definizione dei diritti culturali, cit., pp. 317-330.

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munano, più che su quelli accessori che inducono a distinguerle. A differenza dei precedenti cataloghi, inoltre, si è inteso fondare la ricerca su un da-

to positivo indiscutibile, costituito dalla formale ratifica da parte del Parlamento italiano delle relative convenzioni internazionali; i riferimenti ad altri già menzionati documenti di rilievo internazionale (significativi se non altro a fini interpretativi e di indirizzo della ricer-ca) sono invece riportati in nota98. Di ciascuno dei diritti enunciati si evidenziano inoltre i riscontri, diretti o indiretti99, comunque presenti nell’ordinamento italiano, pur limitando l’indagine alle sole norme costituzionali e ad alcune leggi in ambito culturale, in quanto con-tenenti principi generali.

I. PRINCIPI FONDAMENTALI

Si pone preliminarmente, per dare risposta negativa100, la questione se esista un ge-nerico “diritto alla cultura”, ove si volesse interpretare in tal senso l’affermazione dell’art. 22 DUDU che «ogni individuo in quanto membro della società», ha diritto alla realizzazio-ne dei diritti culturali, definiti come «indispensabili alla dignità e al libero sviluppo della sua personalità»101. Anche il preambolo del PDESC (che, giova ricordarlo, reca il termine diritti culturali nell’intestazione) afferma che l’essere umano libero può godere della «libertà dal timore e dalla miseria» soltanto se vengono create le condizioni che permettano a ognuno di godere dei propri diritti culturali; altri riferimenti si ritrovano nel preambolo del PDCP e in quello della CDC102.

Tuttavia nella nostra Costituzione non c’è alcun esplicito riconoscimento di tale di-ritto alla cultura103, fatti salvi i riferimenti indiretti di cui all’art. 2, ai diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali (quindi anche culturali) in cui si svolge la sua personalità, e all’art. 3, che pone il fondamentale principio di pari dignità, finalizzato al pieno sviluppo della persona umana104.

Il DIRITTO A PARTECIPARE ALLO SVILUPPO CULTURALE E SCIENTIFICO trova esplici-to riconoscimento all’art. 27 c. 1 della DUDU, nell’art. 15 c. 1 lettere a) e b) del PDESC,

98 Per lo svolgimento degli acronimi degli strumenti internazionali citati, si rimanda al

precedente paragrafo. 99 Secondo E. SPAGNA MUSSO, op.cit, p. 13, è necessario identificare i «principi impliciti» del

sistema costituzionale, per consentire un’interpretazione delle norme in materia di cultura che trovi proprio nella sistematicità il proprio fondamento.

100 Per J. LUTHER, Le frontiere, cit., p. 227, a livello europeo i principi comuni non riconducono a un «unico right to culture», essendo piuttosto declinabili al plurale.

101 P. HÄBERLE, Costituzione e identità culturale, Milano, Giuffré, 2006, p. 5, osserva che in tutto il mondo si verifica un ripensamento della cultura in quanto forza costitutiva dell’identità e della libertà «in riferimento diretto alla dignità dell’uomo».

102 Per l’art. 5 della DUDC, i diritti culturali sono parte integrante dei diritti dell’uomo; si veda-no anche il punto VII dell’atto di Helsinki e il titolo stesso della DDF, che definisce solennemente all’art. 1 i diritti culturali come «essenziali alla dignità umana», ribadendo che devono essere considerati «parte integrante dei diritti dell’uomo». Soltanto il mai formalizzato progetto di Dichiarazione sui diritti culturali, dunque, citava espressamente e come tale (al punto 11) il diritto alla cultura.

103 R. BALDUZZI, Cultura e costituzione: avevano ragione i costituzionalisti?, in La Voce, (36) 2010, p. 25.

104 Il solo M. AINIS, L’intervento, cit., pp. 125-126 , sostiene l’esistenza del diritto alla cultura, mentre G. FAMIGLIETTI, Diritti culturali, cit., p. 252 e 287, fa solo cenno al diritto (individuale) alla cultura in senso soggettivo, preferendo di solito parlare di diritto della cultura, libertà della cultura o costituzione culturale.

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che cita la possibilità di godere dei relativi benefici, e all’art. 31 della CDI, in merito ai diritti dei bambini. Ma soprattutto è proclamato dalla CDC, il cui art. 2 lo definisce come «diritto fondamentale»105. Il preambolo della CDF lo connette invece al progresso sociale e agli svi-luppi scientifici e tecnologici106.

A livello costituzionale un riscontro è offerto dall’art. 3 secondo comma che, in connessione con lo sviluppo della persona umana, fa specifico riferimento alla partecipazione (dei lavoratori)107 all’organizzazione sociale e quindi culturale del Paese; lo stesso principio di promozione della cultura, di cui all’art. 9 c. 1, risulterebbe peraltro svuotato di senso se concepito solo in forma impersonale, benché un obbligo a carico dello Stato non implichi di per sé il diritto dell’individuo a partecipare alle relative iniziative, beneficiando di tale at-tività promozionale. La partecipazione della “società civile” è infine garantita, ove le attività culturali vengano riconosciute di interesse generale, dal principio di sussidiarietà (art. 118 c. 4 Cost.)108.

Del DIRITTO ALLA PROPRIA CULTURA E AL RISPETTO DELLA DIVERSITÀ CULTURALE, si può rinvenire un riferimento chiaro ed esplicito, se non testuale, nel PDCP, il cui art. 27 regola il diritto delle minoranze (non solo etniche e linguistiche) ad avere una vita culturale propria, condivisa con gli altri membri della propria comunità109. Riferimenti diretti e pre-gnanti si trovano all’art. 30 della CDI, che tutela il diritto del bambino appartenente a una minoranza alla propria vita culturale, e all’art. 50 della IV Convenzione di Ginevra che au-spica «l'educazione, possibilmente a cura di persone della stessa nazionalità, lingua e religio-ne, dei fanciulli».

Il tema va considerato anche – in ottica multiculturale – alla luce della Conven-zione sulla diversità culturale, il cui preambolo fa esplicito riferimento agli «strumenti in-ternazionali adottati dall’UNESCO riguardanti l’esercizio dei diritti culturali», poi ripreso dall’art. 2.1 con il richiamo ai diritti consacrati dalla DUDU. Anche la CDF dedica un ca-poverso del preambolo alla tutela delle tradizioni dei popoli europei e all ’identità naziona-le degli Stati membri, mentre l’art. 22 è dedicato al diritto individuale alla multiculturalità; così pure per gli articoli 3 e 165 (improntato al «pieno rispetto delle diversità culturali e

105 Per l’art. 2 c. 5, la cultura «rappresenta un settore essenziale dello sviluppo, gli aspetti culturali

ed economici dello sviluppo assumono pari importanza. Gli individui e i popoli hanno il diritto fondamen-tale di parteciparvi e di usufruirne».

106 Anche all’art. 5 della DUDC si può trovare un rimando ai diritti culturali; la CQPC (non rati-ficata dall’Italia) vi fa invece riferimento al preambolo e all’art. 1; un ulteriore cenno si può infine trovare nella DDF, all’art. 5.b, in tema di accesso e partecipazione alla vita culturale. Soltanto nella DDS, con specifico riferimento alla modalità associativa, e nella DDF (art. 8), è affermato il «diritto a partecipare alle decisioni» sul patrimonio; la norma trova però numerosi riscontri indiretti, ad esempio nell’art. 17 della Convenzione del Patrimonio mondiale e nelle relative Guidelines106 di attuazione, come pure nella CQPC.

107 Per M. AINIS , L’intervento, cit., p. 146, sarebbe incostituzionale qualsiasi forma di monopolio, pubblico o privato, in campo culturale; cfr. A. PIZZORUSSO, Diritto della cultura, cit., p. 322.

108 Si consideri anche l’art. 4 Cost., secondo il quale il «concorrere al progresso spirituale della società» va inteso solo come dovere, senza presupporre un correlato diritto a beneficiarne; così pure l’art. 17, ove il diritto a partecipare alle riunioni pubbliche venga considerato un presupposto per il libero scambio di idee e opinioni. A livello legislativo si può richiamare il Codice dei Beni culturali (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e s.m.i., art. 112 c. 8 e 9), oltre all’art. 9 della l. 8 giugno 1990, n. 241 in tema di partecipazione dei soggetti rappresentativi di diritti collettivi e interessi diffusi, che potrebbe riguardare la garanzia dei servizi culturali, così come già avviene in riferimento alle problematiche ambientali.

109 Cfr. J. LUTHER, Le frontiere, cit., p. 227, secondo il quale se «la titolarità dei diritti culturali non può essere automaticamente riservata agli individui», tuttavia il loro esercizio «determina in ogni caso l’identità culturale soggettiva di un individuo», che a sua volta concorre all’identità culturale collettiva; sul tema v. anche F. FRANCIONI, Culture, cit., p. 4.

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linguistiche») dei Trattati UE110. Infine due Protocolli CEDU, quello del 1984 (art. 5) e quello del 2000 (art. 1), regolano rispettivamente la parità di genere e la non discrimina-zione.

L’art. 6 della Costituzione è la norma fondamentale del nostro ordinamento in ma-teria di tutela delle minoranze linguistiche111; si deve inoltre richiamare l’art. 117 c. 7, con riferimento alla piena parità di uomini e donne112 nella vita culturale, come pure le norme costituzionali e legislative che con diverse finalità (si pensi agli artt. 8 e 21 Cost., rispettiva-mente in ambito religioso e in quello dei media) promuovono e difendono il valore del plu-ralismo113.

Il DIRITTO ALLA PROPRIA RELIGIONE, viene garantito dall’art. 18 della DUDU, che fa riferimento alla possibilità di cambiarla (il che è tutt’altro che scontato, ove si tratti di una religione di Stato o comunque preponderante nella comunità) e di manifestarla, anche nell’insegnamento. La CEDU ha consacrato i diritti religiosi all’art. 9; la CDF dedica loro l’art. 10, che include la libertà di cambiare, manifestare e insegnare la propria religione, mentre l’art. 22 tutela la diversità religiosa114. Nel nostro ordinamento è l’art. 8 Cost. a porre il principio di tutela della pari libertà di tutte le confessioni religiose, anche nei confronti della religione storicamente preponderante, cui è dedicato l’art. 7115.

Viene poi in considerazione il DIRITTO ALLA PROMOZIONE DELLA CULTURA, che trova la sua fonte nell’art. 15 c. 2 del PDESC, il quale garantisce il mantenimento, lo svilup-po e la diffusione, regolando le misure statali necessarie per conseguirne la piena attuazio-ne, mentre per l’art. 2 c. 5 della CDC, la cultura rappresenta un settore essenziale dello svi-luppo; in ambito europeo, i Trattati UE hanno consacrato al tema l’art. 167, c. 2116. Non

110 Per la DUDC (art. 1) la diversità è «patrimonio culturale» dell’Umanità; l’art. 5 fa riferimento

a un conseguente diritto di esercitare le proprie pratiche culturali, raccomandando il rispetto della libertà di esprimersi e diffondere le proprie opere nella lingua di propria scelta (in particolare nella lingua ma-dre). L’art. 22 della CADP attribuisce tale diritto in modo uguale a ciascuno; gli artt. 2, 13 e 15 della CA affermano il diritto al rispetto dell’identità culturale, a parlare la propria lingua e a non vedersi imporre una cultura estranea. La DDS auspica il rispetto del patrimonio in quanto espressione di identità e diver-sità culturale, riferimento presente negli artt. 3 e 4 della DDF.

111 E. PALICI DI SUNI, Minoranze linguistiche riconosciute ed operatività diretta dell'art. 6 della Costituzio-ne, in Giurisprudenza Italiana, 1992, I, 1, pp. 1213-1218 e La lingua tra globalizzazione, identità nazionale e iden-tità minoritarie, in Percorsi costituzionali, 2008, n. 2-3, pp. 101-113; M. AINIS, L’intervento, cit., p. 135-140, ri-tiene che se alle comunità stanziate sul territorio nazionale va accordata una specifica tutela, essa «non può non estendersi alle loro espressioni di cultura», dal momento che si tratta della «medesima cosa»; tuttavia in tal senso è l’art. 9 a offrire copertura costituzionale, e non già l’art. 6; cfr. anche A. PIZZORUS-

SO, Diritto della cultura, cit., p. 321 e G. MELEGARI, op.cit., p. 651. R. CHIARELLI, op.cit., pp. 391 e 413 di-stingue nettamente le tematiche linguistiche da quelle etniche e identitarie, evidenziando l’assenza di tu-tela costituzionale rispetto alla parità delle diverse culture.

112 E. PALICI DI SUNI, Donne e principio di uguaglianza, in A. LIGUSTRO, A. MANNA (a cura di), Le libertà delle donne in Europa e nel Mediterraneo, Bari, Laterza, 2003, pp. 30-39; G. FAMIGLIETTI, op.cit., pp. 51-53.

113 V. anche la l. 15 dicembre 1999, n. 482 di attuazione dell’art. 6 Cost., nonché il d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 che valorizza le espressioni culturali degli stranieri (art. 42), sul presupposto che la differenza culturale è un «valore».

114 La DDF, dedicando al tema religioso puntuali riferimenti nell’art. 3.a, in tema di identità e art. 6.c sull’educazione, evidenzia il valore culturale della religione.

115 Si ricorda l’art. 9 del Codice sui «beni di interesse religioso». 116 L’art. 22 della CADP riconosce ai popoli il diritto al loro sviluppo culturale, nello stretto

rispetto della loro libertà. Il Punto VIII dell’Atto di Helsinki evidenzia il Diritto dei popoli di «perseguire come si desidera» il proprio sviluppo culturale; riferimenti possono trovarsi nella CA (art. 13) e nella DDF, in special modo all’art. 8 (cooperazione culturale), il quale definisce il diritto di ciascuno di concorrere allo sviluppo culturale della comunità cui appartiene.

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occorre alcuno sforzo esegetico per individuare nel già richiamato art. 9, primo comma, della Costituzione la fonte del principio di promozione dello sviluppo culturale nel nostro ordinamento117.

Il DIRITTO ALLA PROTEZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE è posto alla base della Convenzione del Patrimonio mondiale (definito come appartenente all’Umanità intera) e della connessa Convenzione de L’Aja del 1954118; i Trattati UE (art. 167) hanno l’obiettivo di tutelare il patrimonio culturale comune europeo119. È intuitivo connettere questo diritto all’art. 9 c. 2 della Costituzione120, che tuttavia afferma il principio di tutela del patrimonio storico-artistico in senso materiale e impersonale, sminuendone alquanto il valore e il signi-ficato proattivo121.

II. DIRITTI DI LIBERTÀ

Alla LIBERTÀ DI ESPRESSIONE (DEL PENSIERO E DELLE OPINIONI), la DUDU dedica l’art. 19, riferendola al poter «ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mez-zo», includendo dunque l’arte e la letteratura, un allestimento museale come una conferenza pubblica; l’art. 18 è invece consacrato alla libertà di coscienza. Più esplicitamente il PDCP include (art. 19, c. 2) nella libertà di espressione quella di diffondere le idee «in forma arti-stica»122, che è promossa anche dall’art. 7.2 della CDC. La CEDU ha consacrato alla libertà di pensiero e di coscienza l’art. 9 e alla libertà di espressione, che include quella di opinione, l’art. 10; la CDF (art. 10) include invece la libertà di coscienza, mentre dedica l’art. 11 c. 1 alla libertà di opinione e comunicazione, termine che in questo caso non si riferisce ai media, cui è dedicato il c. 2 dello stesso articolo123.

La Costituzione consacra, all’art. 21, seppure con formulazione leggermente diversa, la libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero, senza tuttavia porla in relazione con la cultura124; questo malgrado si possa facilmente cogliervi il riferimento nella garanzia di manifestare liberamente il proprio pensiero con «ogni mezzo» di diffusione, incluse le forme artistiche e lo spettacolo, menzionato espressamente all’ultimo comma125.

117 M. AINIS, L’intervento, cit., p. 145, evidenzia che la costituzione culturale, richiedendo un

intervento attivo dei poteri pubblici, si propone un «fine progressivo». 118 Gli obblighi, rafforzati da collaudati meccanismi di cooperazione internazionale posti nei

confronti degli Stati (art. 4), troverebbero in tal caso riscontro nel diritto degli individui, delle comunità, delle nazioni, dell’umanità intera e perfino delle generazioni future. Cfr. M. FRIGO, op.cit., pp. 265 ss.; M. MACCHIA, op.cit., pp. 60 ss.

119 Si veda anche l’art. 1 della CQPC (non ratificata dall’Italia). La CA (art. 14) riconosce ai po-poli il diritto alle proprie ricchezze culturali, mentre la DDS afferma il diritto al buon uso del patrimonio, poiché «il diritto al patrimonio culturale è parte integrante dei diritti dell’uomo (...). Questo diritto de-termina delle responsabilità per gli individui e le società come per le istituzioni e gli Stati».

120 F. RIMOLI, op.cit., p. 156. 121 M. AINIS, M. FIORILLO, op.cit., p. 91; varie norme del Codice dei Beni culturali regolano

l’utilizzo del patrimonio pubblico, l’apposizione di pubblicità nelle aree monumentali (art. 49), la fruizione dei beni privati recuperati (art. 104) o la gestione dei beni culturali pubblici, al fine di valorizzarli, scongiurandone il degrado (art. 115).

122 Sul ruolo sociale degli artisti e degli scrittori secondo l’UNESCO, cfr. AA.VV., Les droits culturels en tant que droits de l’homme, cit., p. 15.

123 Sono consacrati a questo diritto anche l’art. 5 della DUDC e gli artt. 3 e 5 della DDF, la quale include dunque in modo esplicito tale libertà tra i diritti culturali

124 Nel commentare l’articolo 9, F. MERUSI, Articolo 9, cit., p. 441, cita esplicitamente la «libertà di cultura»; E. SPAGNA MUSSO, op.cit., p. 41 e 54-56, la definisce «principio fondamentale dell’ordinamento»; cfr. anche R. CHIARELLI, op.cit., p. 481.

125 Particolarmente originale è il riferimento di Chiarelli alla libertà di espressione linguistica, su

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Alla LIBERTÀ DI INFORMAZIONE fa un riferimento implicito l’art. 10 della CEDU in tema di libertà di espressione, dal momento che si afferma che radio e televisione, così co-me il cinema (oggi per estensione si può includere anche Internet) non devono subire l’ingerenza dell’autorità pubblica. Anche l’art. 11 c. 2 della CDF, come poc’anzi accennato, richiede il rispetto del pluralismo dei media; in stretta connessione si pone il diritto di ac-cesso agli atti nell’ambito dei procedimenti amministrativi, cui fa riferimento la stessa Carta (art. 41) nel riconoscere il diritto al contraddittorio procedimentale126.

Il già richiamato art. 21 Cost. si limita per contro ad affermare che la stampa non è soggetta a censura, dando in questo modo un riconoscimento solo implicito a tale libertà, che viene presa in considerazione esclusivamente quale prerogativa dei media, e dunque in senso “attivo”. È invece privo di esplicita copertura costituzionale, fatto salvo l’art. 97 in materia di imparzialità e buon andamento della P.A., il diritto all’informazione “passiva” 127, in particolare mediante la partecipazione ai procedimenti e l’accesso ai documenti ammini-strativi128.

La LIBERTÀ DI RICERCA SCIENTIFICA ha la sua fonte, ancora una volta, nell’art. 15 c. 3 del PDESC, mentre in ambito europeo si basa sull’art. 13 della CDF, che richiede anche il rispetto della connessa libertà accademica129. Anche questo caso non pone problemi inter-pretativi, dal momento che l’art. 33 c. 1 afferma in modo chiaro che la scienza è libera130; il sesto comma garantisce poi il diritto di università, accademie e istituti di alta cultura131 che

base evidentemente volontaria, in greco e latino, da porsi più che altro a tutela della cultura classica: ibidem, pp. 392-393.

126 Dello stesso tenore la DDF che considera esplicitamente quali diritti culturali non solo il partecipare a un’informazione pluralistica (art. 3), ma anche il diritto di ricercare informazioni (art. 7) come avviene ad esempio accedendo all’URP di un ente pubblico. Sempre in materia di comunicazione si può ancora configurare uno specifico «diritto di rispondere alle informazioni erronee», affermato ancora dalla DDF (art. 7), che potrebbe rientrare nel diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero, il che include che questo non venga male interpretato o distorto da altri.

127 Un aspetto assai specifico, ma di grandissima rilevanza, è costituito dal tema del “consenso informato” posto a tutela del fondamentale diritto alla salute; in questo caso la Corte costituzionale (sent. n. 438/2008), pur parlando esplicitamente di «diritto a ricevere le opportune informazioni», che si arriva anche a qualificare come un «vero e proprio diritto della persona», non ha ritenuto di riferirsi ai diritti culturali, richiamando invece il «diritto all’autodeterminazione», citando a tal fine l’art. 2 e l’art. 13: cfr. R. BALDUZZI, D. PARIS, Corte costituzionale e consenso informato tra diritti fondamentali e ripartizione delle competenze legislative, in Giurisprudenza costituzionale, (6) 2008, p. 4960-4964; R. BALDUZZI (a cura di), La responabilità sanitaria in ambito professionale, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 25.

128 Garantito dall’art. 7 della l. n. 241/1990 e s.m.i., che costituisce principio generale dell’ordinamento; in merito si è affermato anche da parte della giurisprudenza amministrativa che va inteso come direttamente finalizzato all’acquisizione della conoscenza effettiva: si veda TAR Lazio, Roma II quater, n. 481 del 21.1.2009; CdS, sez. IV, n. 19 del 7.1.2008. Cfr. M.T. SEMPERVIVA, C. SILVESTRO, Il nuovo procedimento amministrativo, Napoli, Simone, 2009, pp. 119-121. Il Codice dei Beni culturali ha dedicato l’art. 14 c. 2, alla comunicazione che dovrebbe essere finalizzata all’accesso alle informazioni sugli atti in materia di procedimenti di dichiarazione dei beni culturali, senza però fare esplicito riferimento a un diritto ad avere tali informazioni dalla Soprintendenza procedente.

129 La Carta europea dei Ricercatori, al primo paragrafo, pone l’obiettivo di orientare l’attività di ricerca al bene dell’umanità e all’ampliamento delle frontiere della conoscenza scientifica, pur godendo della libertà di pensiero ed espressione: in questo senso va il richiamo alla «libertà di stabilire i metodi per risolvere i problemi», secondo pratiche e principi etici condivisi dalla comunità scientifica.

130 F. RIMOLI, op.cit., p. 28 e 298, afferma l’esistenza di un «diritto all’errore», che in ogni attività di ricerca (inclusa quella artistica) costituirebbe il «fondamento necessario per ottenere risultati di eccellenza». Si veda anche l’art.13 del d.lgs. 30 gennaio 1999, n. 381 (Principi per l’attività di ricerca), che garantisce ai ricercatori la libertà di ricerca e l’autonomia professionale.

131 Si tratta di una categoria non chiaramente definita, salvo alcune limitate tipologie (tra cui

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svolgono ricerca scientifica a «darsi ordinamenti autonomi»132.

Alla LIBERTÀ DI ATTIVITÀ CREATIVA ED ARTISTICA sono dedicati l’art. 15 c. 3 del PDESC e il già ricordato art. 19, c. 2 del PDCP, che tutela la libertà di diffondere le idee at-traverso l’arte; a livello continentale si possono ricordare l’art. 13 della CDF e la CQPC, che dedica al diritto a contribuire all’arricchimento del patrimonio culturale l’art. 4133.

In questo caso sono ben due i riferimenti costituzionali: ovviamente l’art. 33 Cost., per il quale l’arte è libera134, insieme al più volte citato art. 21, laddove garantisce la libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero anche nelle forme artistiche che rientrano nella nozione di spettacolo (teatrale, cinematografico, di strada, ecc.), purché non contrarie al buon costume.

Certamente annoverabile nella categoria dei diritti culturali è la LIBERTÀ DI INSE-

GNAMENTO, cui la CDF dedica l’art. 14, includendovi anche la connessa libertà di creare istituti consacrati a tal fine135. Altrettanto limpido è il riferimento all’art. 33 c. 1 Cost., che non si deve evidentemente intendere riferito solo all’insegnamento artistico e scientifico136; come già detto, il comma 6 garantisce a università e accademie il diritto a un ordinamento autonomo, anche in quanto svolgono attività didattica. III. DIRITTI SOCIALI ED ECONOMICI

Il DIRITTO ALL’EDUCAZIONE E ALL’ISTRUZIONE è universalmente riconosciuto co-me diritto culturale, tanto più essendo considerato propedeutico ad ogni altro; esso è pro-clamato dall’art. 26 della DUDU, secondo la quale l’istruzione deve essere gratuita e obbli-gatoria (al livello fondamentale), accessibile, indirizzata a pieno sviluppo della personalità e al mantenimento della pace137; inoltre il comma 2 afferma solennemente, a vantaggio dei genitori, il diritto alla priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai propri figli. Con gli articoli 13 e 14 del PDESC, questi diritti trovano compiuta regolazione; lo Statuto dell’UNESCO, sin dalla denominazione dell’Organizzazione e poi nel preambolo, cita l’educazione, insieme a scienza e cultura, come uno dei tre settori basilari di attività. La CDF, all’art. 14, afferma anche il diritto dei genitori di educare i propri figli, che dunque non è ritenuto rilevante solo come dovere; così pure l’art. 2 del Protocollo CEDU del 1952. Solo la Carta sociale europea afferma anche il connesso diritto alla «formazione professionale»

rientrano ad esempio i Conservatori musicali, ma non i Musei e le Biblioteche nazionali) e il riferimento a elenchi di enti culturali sovvenzionati dallo Stato.

132 Secondo F. MERUSI, Articolo 9, cit., p. 437, manca in Costituzione la tutela della libertà del ricercatore di «partecipare alle decisioni» circa l’oggetto della ricerca; per M. AINIS, L’intervento, cit., pp. 131-132, esiste l’esigenza di un «trattamento adeguato degli uomini di scienza»; cfr. S. LABRIOLA, Libertà di scienza e promozione della ricerca, Padova, Cedam, 1979.Appare paradossale, in un ordinamento che stenta a riconoscere la stessa esistenza della categoria dei diritti culturali individuali, la solenne attribuzione da parte della Costituzione di tale diritto in capo a persone giuridiche (anche se la loro attività implica e si basa sull’opera di studiosi e ricercatori), come le università, accademie e istituzioni di alta cultura. Si veda però E. SPAGNA MUSSO, op.cit., pp. 162-163.

133 La DDF (artt. 3-7) definisce la libertà di espressione artistica come un diritto culturale. 134 Per R. CHIARELLI, op.cit., p. 279 esiste anche la libertà di valorizzazione dei prodotti culturali,

che fa riscontro alla crescente domanda di fruizione del patrimonio, mentre M. AINIS , L’intervento, cit., p. 127 parla di «diritto alla divulgazione».

135 La DDF dedica al tema l’art. 6. 136 In questo caso il termine «scienza» va senz’altro inteso nel senso più generale di conoscenza;

cfr. E. SPAGNA MUSSO, op.cit., p. 12. 137 Anche in connessione con la Carta ONU, che all’art. 55 lettera b) fa riferimento alla

collaborazione internazionale in materia di educazione.

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(art. 14)138. Ampi e articolati sono i riferimenti costituzionali, che vanno dall’art. 30 sul diritto-

dovere dei genitori di istruire ed educare, agli art. 33 e 34; proprio l’art. 34 c. 3 dedica parti-colare attenzione al diritto allo studio per capaci e meritevoli, mentre l’art. 38 c. 3 garantisce il diritto dei disabili all’educazione139. Un riferimento, seppure assai indiretto, si potrebbe ancora rinvenire, infine, all’art. 27 c. 3 in materia di tendenziale finalità (ri)educativa della pena.

Con riguardo al profilo economico si è affermato il DIRITTO ALLA PROPRIETÀ IN-

TELLETTUALE, che fa riferimento alla produzione scientifica, artistica e letteraria; esplicita-mente enunciato dall’art. 27 c. 2 della DUDU, si configura in modo lampante come avente carattere individuale e attiene appunto all’interesse non solo morale ma anche materiale (con riferimento a brevetti e diritti d’autore) di ciascun artista o inventore. Anche l’art. 15 c. 1 lett. c) del PDESC fa riferimento al diritto a godere della relativa tutela140, che ha trovato la più specifica sanzione nelle due Convenzioni UNESCO del 1952 e 1971, espressamente dedicate al tema.

In Costituzione (art. 4) si trova solo il perentorio riferimento al dovere di concorrere al progresso della società, senza che questo apporto possa dirsi tutelato a livello individuale, neppure nel caso delle opere dell’arte e dell’ingegno, fatta salva la generica tutela del lavoro e della sua equa retribuzione di cui agli artt. 35 e 36141.

Giungendo infine agli aspetti che più direttamente riguardano il tema della ricerca, e sui quali ci soffermeremo maggiormente nel prosieguo della trattazione, particolare rilevan-za assume, nell’era della comunicazione globale, la LIBERTÀ DI SCAMBIO DELLE CONO-

SCENZE, che trova fondamento nel preambolo dello Statuto dell’UNESCO e negli artt. 6 e 7 della CDC, che promuove la libera circolazione delle idee. In ambito continentale, l’art. 10 della CEDU la definisce libertà di «ricevere o comunicare» informazioni o idee142. Un riscontro nel nostro ordinamento si può trovare nell’art. 15 Cost., che garantisce la libertà di corrispondenza e comunicazione143.

È all’art. 27 c. 1 della DUDU144 che viene invece proclamato, nel modo più chiaro,

138 Si ricorda anche la Convenzione di Lisbona del 1997 (UNESCO) sul diritto all’educazione in

Europa, ratificata da 50 Stati europei - ma non dall’Italia - nel cui preambolo si afferma che esso è un «Diritto dell’Uomo»; v. anche l’art. 5 della DUDC. La DDF dedica all’istruzione gli artt. 3-6.

139 E. SPAGNA MUSSO, op.cit., pp. 161-164; M. REGUZZONI, Il diritto all’istruzione nell’ordinamento internazionale e in Italia, in AA.VV, I diritti, cit., pp. 93-123; A.M. POGGI, Istruzione, formazione e servizi alla persona tra regioni e comunità nazionale , Torino, Giappichelli, 2007.

140 La DDF (art. 5) presta attenzione a questo aspetto, che è più volte richiamato anche dalla Carta Europea dei Ricercatori.

141 La protezione del diritto d’autore è regolata a livello legislativo dalla l. 22 aprile 1941, n. 633 e s.m.i., quella sui brevetti dal d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (sulla proprietà industriale). È significativo in proposito che M. AINIS , L’intervento, cit., pp. 132-135, ritenga necessario ribadire che «il concetto di lavoro coinvolge le esperienze di chi pratica un’attività artistica o scientifica».

142 La Carta ONU evidenzia all’art. 1 che la pacifica convivenza richiede la «collaborazione culturale», auspicata anche dall’art. 55; il PDESC fa riferimento (art. 15) ai benefici dello «sviluppo dei contatti e dalla collaborazione internazionale» in campo scientifico e culturale; in tema è poi intervenuta la Dichiarazione sulla cooperazione culturale. Anche l’art. 165 dei Trattati UE, infine, regola specificamente l’azione comunitaria intesa a «sviluppare lo scambio di informazioni e di esperienze sui problemi comuni dei sistemi di istruzione».

143 Secondo A. PIZZORUSSO, Diritto della cultura, cit., p. 323, la circolazione dei prodotti culturali è «necessaria».

144 C. VITALE, La fruizione dei beni culturali tra ordinamento internazionale ed europeo, in L. CASINI, La globalizzazione, cit., pp. 171 ss.

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esplicito e solenne il DIRITTO A FRUIRE DELLE ARTI; non si trova, tuttavia, nessun altro ri-scontro diretto in convenzioni internazionali o europee145, fatta eccezione per la CQPC, che riconosce anche a livello continentale (art. 4) il diritto di beneficiare del patrimonio cultura-le146.

Si constata che nella Nazione che vanta il maggior numero di siti iscritti nella Lista del Patrimonio mondiale, non esistono norme costituzionali a tutela di questo diritto147, sal-vo appellarsi al principio generale dell’art. 3 in quanto tutela il pieno sviluppo della persona (che potrebbe includere anche questa forma di educazione)148; rimuovere gli ostacoli di or-dine sociale, d’altronde, implica che la cultura non sia più ritenuta prerogativa di pochi pri-vilegiati, come è stato sino a non molti anni fa149.

In ultimo, dando per scontato che esista un diritto al lavoro intellettuale, si propone di riconoscere anche il DIRITTO ALLO SVAGO INTELLETTUALE, che si può giovare della tu-tela indiretta offerta dall’art. 24 della DUDU, ma trova esplicita consacrazione all’art. 7 c) del PDESC, che insieme al riposo cita espressamente gli svaghi, tenendoli distinti dalle fe-rie150.

Tradendo la fama che ci contraddistingue in tutto il mondo, ma ancor più per il condizionamento derivante dal nostro tradizionale approccio alla fruizione del patrimonio storico-artistico, l’art. 36 c. 3 Cost. si limita invece a sancire il diritto al riposo, senza conno-tarlo in alcun modo in senso intellettuale né tantomeno culturale151. 2.4. Obiezioni contrarie e argomentazioni favorevoli

Se dunque i diritti culturali sono da considerarsi pacificamente codificati nel diritto positivo nazionale di fonte convenzionale, essendo come tali riconosciuti da una parte non

145 Si segnala in questo ambito la Sentenza della Corte di Giustizia Europea n. C-388-01 del 16

gennaio 2003, che ha condannato l’Italia per l’illegittima discriminazione a danno dei cittadini di altri Stati membri nelle tariffe di ingresso agevolato ai musei, in violazione degli artt. 12 e 49 del Trattato CE.

146 Si ricorda che la Convenzione non è ratificata dall’Italia; la DDF (art. 3) utilizza la dizione «accedere». Dopo la fine del colonialismo ed in epoca di limiti alla circolazione delle persone, l’art. 22 della CADP afferma il diritto di ciascuno (Africani inclusi, evidentemente) a «fruire in modo uguale» del Patrimonio comune dell’Umanità, con un richiamo implicito alla Convenzione di Parigi del 1972.

147 Nondimeno F. RIMOLI, op.cit., pp. 350 ss., cita espressamente un diritto del fruitore a «godere liberamente» dell’opera d’arte; R. CHIARELLI, op.cit., pp. 478-79 definisce la libertà di fruizione come «universale»; v. anche G. FAMIGLIETTI, op.cit., p. 253 e 287.

148 Non andrebbe sottovalutata la portata generale dell’art. 2, posto a garanzia di tutti i diritti inviolabili dell’uomo, tra i quali dovrebbero essere senz’altro inclusi almeno quelli esplicitamente proclamati dalla DUDU, come appunto quello ex art. 27; cfr. F. RIMOLI, op.cit., pp. 171-174; sull’omologazione di diritto all’istruzione e libertà di fruizione dei beni culturali si veda R. CHIARELLI, op.cit., p. 482-484.

149 Il Codice dei beni culturali, all’art. 2 c. 4 e all’art. 102, afferma (con valore di principio gene-rale dell’ordinamento) che beni, istituti e luoghi culturali, pubblici o appartenenti a enti no profit, sono «destinati alla fruizione» della collettività.

150 Il preambolo e l’art. 7 del Codice Etico del turismo, affermano l’esistenza del «diritto al turismo», che viene inteso (art. 4) come avente intenti culturali, allorché ha specifiche finalità di fruizione del pa-trimonio artistico e paesaggistico. Altro riscontro, seppure alquanto “eversivo” rispetto a una certa con-cezione tradizionale della cultura, è l’art. 3 dello Statuto dell’ICOM, laddove afferma che uno degli scopi del museo è il «diletto» dei suoi visitatori.

151 La l. n. 135/2001 si limita a menzionare il turismo (art. 1 c. 2) come «fattore di crescita culturale» e di valorizzazione. Invece la definizione di museo di cui all’art. 101 c. 2 lett. a) del Codice dei Beni culturali, che recepisce quasi testualmente la definizione dell’ICOM, si guarda bene dal riprodurre la sconveniente finalità di diletto del visitatore, universalmente accettata e condivisa.

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marginale della dottrina, che ormai si sta orientando in modo sempre più convinto, spe-cialmente negli ultimi anni, a sostenere l’esistenza della categoria giuridica dei diritti cultura-li, se non di un unico e generale diritto alla cultura, nondimeno, permangono una serie di re-sistenze e obiezioni152 cui occorre a questo punto tentare, seppure in modo sommario e sin-tetico, di dare riscontro.

Preliminarmente, la supposta configurabilità delle posizioni giuridiche soggettive in oggetto come meri interessi legittimi, implicherebbe il fatto di trovarci di fronte a un preva-lente interesse pubblico alla tutela del patrimonio culturale della Nazione, che però appare con evidenza solo nei casi (ben distinti e tutto considerato limitati) in cui tale tutela prevale effettivamente sul diritto individuale del privato.

Ciò avviene nei casi di beni culturali di proprietà privata che vengono espropriati a fini di tutela e conservazione, oppure sono oggetto di dichiarazione e conseguente vincolo; possono essere ancora considerate quelle rare situazioni in cui l’interesse nazionale può davvero limitare i diritti e le libertà individuali, per ragioni di sicurezza nazionale o di tutela del segreto di Stato; ma al di fuori di queste situazioni non si vede quale ulteriore interesse generale avrebbe ragione di prevalere sulla pretesa del cittadino di ottenere e di offrire istru-zione, cultura, conoscenza e informazione153, che anzi possono solo portare benefici al no-stro Patrimonio culturale.

Obiezione consueta alla configurabilità dei diritti culturali è poi quella relativa al fat-to che sarebbero condizionati finanziariamente dalla disponibilità di risorse economiche, come peraltro è riconosciuto anche dallo stesso art. 22 della Dichiarazione e dall’art. 32 Cost.; circostanza che però non può essere opposta nei casi e nelle situazioni in cui adegua-te risorse sarebbero invece disponibili ma vengano stornate a favore di altre finalità, assai meno garantite sul piano normativo (ad esempio il gioco del calcio o i format televisivi). In tal caso saremmo dunque certamente di fronte a diritti incondizionati e intangibili, così co-me in tutte le altre circostanze in cui si può ormai ovviare ai limiti finanziari e organizzativi (ad esempio di effettivo accesso a università, biblioteche o musei delle aree metropolitane da parte degli abitanti di realtà periferiche o montane) con le sempre più diffuse e meno co-stose tecnologie multimediali, una volta rese effettivamente accessibili a tutti sul piano tec-nico154.

Affermare che i diritti culturali non attribuirebbero allo Stato un obbligo di facere positivo, correlato al loro esercizio, se non per quanto attiene alle norme sulla scuola dell’obbligo155, contrasta invece con l’esistenza di norme di diritto positivo in base alle quali i beni e gli istituti culturali pubblici sono destinati alla fruizione156: dunque appare difficile so-stenibile che un sito, un museo, un archivio, un teatro o una biblioteca possono essere arbi-

152 Cfr. ad esempio E. SPAGNA MUSSO, op.cit., p. 58, 98 e 156, il quale ha dato ampio e

circostanziato riscontro, confutandolo, al noto rilievo di V. CRISAFULLI, La costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, Giuffré 1952, p. 36, circa la supposta genericità e indeterminatezza dell’art. 9 Cost. (peraltro si tratta di un’obiezione poi ritrattata anche dallo stesso Crisafulli); si ricordano le risposte ai rilievi proposte da F. FRANCIONI, Culture, cit, p. 3, per il quale tali critiche si potrebbero prospettare anche con riferimento a molti altri diritti economici e sociali.

153 E. SPAGNA MUSSO, op.cit., pp. 65-66 e 77. 154 M. AINIS , L’intervento, cit., p. 127, nel porre in rilievo le «gravi disparità che viziano la libertà

della cultura», sottolinea la necessità di dare priorità, anche in questo specifico settore, agli interventi a favore della categorie più deboli (come in effetti è poi avvenuto ad esempio in anni recenti con i contributi statali a favore dell’acquisto di personal computers e relativa connessione ADSL).

155 E. SPAGNA MUSSO, op.cit., p. 156. 156 Art. 2 c. 4 e art. 101 c. 3 del Codice Urbani; secondo F. RIMOLI, op. cit., p. 21-22, è

necessario considerare anche la fruizione delle manifestazioni artistiche, da intendersi come (libera) manifestazione di pensiero non solo dell’artista ma anche dei destinatari.

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trariamente chiusi al pubblico, poiché una volta che sono stati realizzati e attivati, ogni cit-tadino ha diritto a usufruirne, trattandosi di servizi pubblici157 e non già di attività meramen-te discrezionali della pubblica amministrazione.

Inoltre non è corretto sostenere che i diritti culturali non sarebbero tutelati da nor-me cogenti, non ravvisandosi un altro preminente interesse pubblico che possa essere po-sto a motivazione delle norme penali del Codice dei Beni culturali che sanzionano, talvolta in modo tutt’altro che lieve (anche penalmente)158, la violazione delle norme di tutela del patrimonio culturale mobile e immobile, oppure del paesaggio, con disposizioni che vinco-lano anche la stessa P.A. allorché interviene sui beni culturali pubblici; analoga considera-zione può essere fatta anche per i divieti di discriminazione, oppure per le norme contro la contraffazione o l’utilizzo abusivo di prodotti oggetto di brevetti e diritti d’autore, come pure per le sanzioni poste a tutela del diritto all’accesso agli atti amministrativi.

L’affermazione secondo cui, essendo collettivi, i diritti culturali spetterebbero esclu-sivamente a una comunità o nazione, e quindi sarebbero tutelati solo in quanto riferiti a una minoranza, linguistica, etnica o religiosa159, non può di per sé escludere che essi costituisca-no anche (e su questo concorda la dottrina in ultimo citata) diritti di ogni singolo individuo che forma la comunità160; d’altronde, essendo unanimemente riconosciuti come diritti di una minoranza, ben difficilmente si potrebbe sostenere che non spettino, a maggior ragio-ne, anche a favore della rimanente maggioranza dei cittadini, almeno nei confronti delle possibili prevaricazioni dei pubblici poteri161 ma anche, in casi limite che pure si sono posti in altri Stati, nei confronti di minoranza particolarmente prevaricatrici e violente.

In ultimo si potrebbe ipotizzare che i diritti culturali debbano essere considerati di-sponibili da parte dei singoli titolari, il che potrebbe configurare, per assurdo, una sorta di “libertà di ignoranza”, che dovrebbe prevalere una volta ottemperato al mero adempimento dell’obbligo scolastico: tuttavia a questo paradosso si può opporre, anche alla luce del prin-cipio generale di promozione della cultura (art. 9 Cost.), l’art. 4 Cost. che proclama il dovere di concorrere al progresso, anche spirituale162, il quale compete certamente a ogni cittadino e non soltanto a coloro che raggiungono i più alti gradi dell’istruzione essendo «capaci e meritevoli», dal momento che la facoltà di scelta dell’attività o funzione da svolgere è con-dizionata alle effettive possibilità intellettuali di ciascuno, e non al mero interesse o spirito di impegno.

Deve essere ancora affrontato, in conclusione, lo spinoso problema delle classifica-zione dei diritti culturali, che va affrontato necessariamente con modalità non consuete:

157 V. anche M.S. GIANNINI, I beni culturali, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 1976, p. 3 ss., il quale

affermava in proposito che «fruibilità significa obbligo di permettere la fruizione»; si noti che già la L. n. 286 del 28 giugno 1871 sui fedecommessi tutelava con espliciti divieti e relative sanzioni lo jus fruendi della cittadinanza, prevalente sull’analogo diritto del privato proprietario: cfr. G. VOLPE, op.cit., pp. 59-65.

158 Si vedano gli artt. 169 ss. (Sanzioni penali relative alla Parte seconda) del Codice dei Beni culturali, ed in particolare l’art. 176 che punisce con la reclusione fino a tre anni chi si impossessa di beni culturali appartenenti allo Stato, oppure l’art. 178 che punisce con la reclusione da tre mesi a quattro anni la contraffazione di opere d’arte.

159 F. RIMOLI, op.cit., p. 20, nota 3; si veda anche S. FOIS, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, in A. VIGNUDELLI, La libertà di informazione: scritti sulla libertà di informazione e la sua diffusione, Milano, Maggioli, 1957, pp. 76-79.

160 Cfr. anche J. LUTHER, Le frontiere, cit, p. 227, secondo il quale se «la titolarità dei diritti culturali non può essere automaticamente riservata agli individui», tuttavia il loro esercizio «determina in ogni caso l’identità culturale soggettiva di un individuo» che a sua volta concorre all’identità culturale collettiva; con il che si garantisce l’interesse soggettivo all’affermazione di un’identità culturale personale.

161 In tal senso A. PIZZORUSSO, Diritto della cultura, cit., p. 321. 162 M. AINIS , L’intervento, cit., pp. 132-133.

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questo perché essi sono stati definiti come sociali, in quanto mirano a rimuovere in positivo eventuali fattori di inferiorità sociale, a fronte delle quali sono necessarie politiche attive da parte dei poteri pubblici (dunque sarebbero programmatici)163.

Ma rientrano anche nel novero delle libertà di contenuto negativo: sono infatti posti a protezione degli individui nei confronti dell’intromissione – e quindi dal condizionamento culturale, ideologico o anche solo propagandistico – da parte dello Stato, o meglio del Go-verno e di chi da esso è autorizzato a divulgare (ad esempio attraverso la televisione o in occasione di manifestazioni pubbliche di massa) modelli culturali che poi diventano facil-mente sociali e quindi politici. Solo se considerati unitariamente e trasversalmente164, dun-que, i diritti culturali possono essere riconosciuti, rientrando anche a pieno titolo nel nove-ro dei diritti civili e come tali precettivi 165.

Infine, atteso che i più significativi tra essi, come il diritto all’istruzione e la libertà dell’arte, sono universalmente riconosciuti166 come intangibili e inalienabili, appare corretto attribuire tale dignità di rilievo costituzionale, con il relativo sistema di garanzie167 assicurato dall’ordinamento nazionale e internazionale, anche alla categoria generale che tutti li ricom-prende e contempera168, senza bisogno di perdersi ancora oltre il dovuto nella declinazione che pure abbiamo doverosamente riportato supra. 2.5. Tutela dei diritti, definizione delle competenze e organizzazione dei servizi

Per dimostrare in modo analitico e argomentato la rilevanza della tutela dei diritti culturali ai fini di una migliore organizzazione dell’azione pubblica in campo culturale, il prosieguo della ricerca è consacrato (anche sulla base degli esiti del caso di studio) dappri-ma alle relazioni tra i diversi livelli istituzionali competenti in materia e le relative funzioni o attività, che da oltre un decennio169 sono oggetto di una lenta e non agevole (almeno per

163 E. SPAGNA MUSSO, op.cit., p. 46. 164 Secondo J. LUTHER, Le frontiere, cit., pp. 226, a livello europeo oggi i d.c. costituiscono una

«categoria trasversale sia rispetto ai diritti di libertà a contenuto negativo, sia rispetto ai diritti sociali (o di prestazione) a contenuto positivo».

165 M. AINIS , L’intervento, cit., pp. 150-151. 166 Si veda il preambolo della Dichiarazione sulle politiche culturali dell’UNESCO (Città del

Messico, 1982) secondo cui «La cultura può oggi essere considerata come l’insieme dei tratti distintivi, spirituali e materiali, intellettuali e affettivi, che caratterizzano una società o un gruppo sociale. Essa ingloba (...) i diritti fondamentali dell’essere umano»; cfr. HÄBERLE, Per una dottrina, cit., p. 23, il quale sottolinea che alcuni di questi principi sono destinati a diventare «elementi di un diritto costituzionale della cultura in fieri, una sorta di soft law».

167 Se ne potrebbe forse dedurre la possibilità di qualificare almeno i d.c. espressamente garantiti dalla Costituzione come diritti non degradabili o inaffievolibili, di fronte alla carenza di potere della P.A.; in questo senso sembrerebbe andare la pronuncia del Consiglio di Stato - Sez. VI n. 556 del 13 febbraio 2006, che si è espresso con specifico riferimento alla sola libertà di religione, in quanto tutelata a livello costituzionale (il che però, come si è visto, è vero anche per altri diritti culturali come quello all’istruzione), sulla base della constatazione che dal provvedimento amministrativo impugnato siano de-rivati danni a diritti fondamentali della persona; ciò conferirebbe loro prerogative analoghe a quelle del ben più rispettato e garantito diritto alla tutela della salute: cfr. P.A. CAPOTOSTI, I limiti costituzionali all’organizzazione e al funzionamento del S.S.N. nella giurisprudenza della Corte Costituzionale in R. BALDUZZI, Annuario Drasd 2010, cit., pp. 315-336.

168 Infatti per F. RIMOLI, op.cit., p. 162, la libertà culturale deve essere considerato un «valore primario».

169 R. BALDUZZI, Le autonomie locali dopo la revisione costituzionale del Titolo V, in Quaderni Regionali,

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quanto concerne questo specifico ambito) riorganizzazione sulla base dei due criteri della sussidiarietà170, quindi all’individuazione, organizzazione e coordinamento dei relativi servizi culturali.

Se infatti, accettando e condividendo la posizione ancora minoritaria della dottrina sin qui richiamata, iniziamo a porre l’insieme dei diritti culturali garantiti dagli strumenti in-ternazionali e dalla “costituzione culturale”, in diretta connessione con le diverse tipologie di servizi pubblici in ambito culturale, possiamo constatare che essi sono volta per volta tu-telati da funzioni ed attività171 che solo in minima parte vengono poste in essere dallo Stato, per il tramite delle strutture centrali e periferiche del Ministero per i Beni e le Attività cultu-rali. In tutti gli altri casi, invece, occorre fare riferimento a servizi direttamente amministrati o che comunque promanano in primo luogo dal sistema delle autonomie locali172, ma che sono gestiti, non di rado, anche da soggetti di diritto privato a carattere “non lucrativo”173.

Ad esempio mostre, teatri, auditorium ed ogni altro istituto o attività di promozione culturale aventi come obiettivo e finalità, in pari misura, la garanzia del diritto a godere delle arti e la speculare libertà di espressione in forma artistica – che ma possono essere anche funzionali al più generale diritto allo sviluppo della cultura – sono per la grande maggioran-za gestiti da istituzioni civiche o comunque a carattere locale174, mentre in assoluto sono al-quanto limitate numericamente (anche se normalmente godono di grande prestigio e com-petenza) le analoghe istituzioni nazionali.

Parimenti la gestione dei musei, la manutenzione e sicurezza dei beni demaniali ed anche (in casi estremi) il sistema di protezione civile dei beni culturali, sono tutti ugualmen-te orientati all’attuazione del fondamentale principio costituzionale di tutela del patrimonio storico-artistico e dei correlati diritti individuali e collettivi; in specifico, ad esempio, i musei etnografici o le iniziative di salvaguardia e promozione del patrimonio linguistico, popolare o tradizionale, che attengono al pluralismo e alla tutela della dignità e identità, secondo il principio di non discriminazione delle minoranze ed a tutela del diritto ad un proprio pa-trimonio culturale, sono per la quasi totalità di pertinenza non statale175.

L’attività di tutela e conservazione, posta a sua volta a presidio e garanzia fonda-mentale dei diritti relativi al patrimonio, compete certamente in prima istanza allo Stato: tuttavia vedremo meglio infra che anche in questo caso una parte tutt’altro che trascurabile di tali funzioni è svolta a livello amministrativo dalle Regioni, mentre gli enti locali possono concorrervi a vario titolo, ai sensi dell’art. del Codice176.

2003, pp. 63-88.

170 Sul tema si veda M. CAMMELLI, Riordino dei beni culturali in una prospettiva di forte decentramento istituzionale, in Le Regioni, agosto 1996, p. 619 ss.

171 Su tema si veda G. PIPERATA, I modelli di organizzazione dei servizi culturali: novità, false innovazioni e conferme, in Aedon, (1) 2002, p. 13.

172 Cfr. A. BARBIERO, L’ente locale nel sistema culturale, in GNA, (1) 2006, pp. 17-29. 173 Cfr. G. FRANCHI SCARSELLI, Sul disegno di gestire servizi culturali tramite associazioni e fondazioni, in

Aedon, (3) 2000. 174 Sulla riorganizzazione in forma decentrata dei servizi alla cultura cfr. M. AINIS, Beni culturali:

decentramento possibile, in Aedon, (1) 1998. 175 Si segnala il Museo Nazionale Etnografico “L. Pigorini” di Roma, realtà di eccellenza che

costituisce però, proprio nella sua unicità, la conferma che in Italia quasi tutti i musei etnografici e delle tradizioni fanno capo alle amministrazioni civiche o a soggetti privati (associazioni, fondazioni, ecc.); non molto diversa è la situazione dei musei scientifici, anche in questo caso con rare seppur importanti eccezioni, come il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano.

176 Secondo il dettato dell’art. 5 «Cooperazione delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali in materia di tutela del patrimonio culturale», primo comma, «Le regioni, nonché i comuni, le città metropolitane e le province, di seguito denominati “altri enti pubblici territoriali”, cooperano con il Ministero nell’esercizio delle funzioni di tutela in conformità a quanto disposto dal Titolo I della Parte

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Le scuole di ogni ordine e grado, le università e accademie, gli archivi e le bibliote-che, come tutte le altre istituzioni di studio e ricerca, con le relative attività scientifiche e di-vulgative (convegni e pubblicazioni in primis, che sono anche le sedi naturali della liberta di espressione), concorrono invece a rendere effettivi il diritto all’educazione e all’istruzione, cui deve corrispondere specularmente la garanzia della libertà di insegnamento per i docenti e di ricerca scientifica per gli studiosi, nonché il diritto allo studio almeno per i capaci e me-ritevoli.

Più in generale, è inoltre in questione il diritto alla conoscenza e all’accesso ai pro-cedimenti, fondamentale come si è visto per il consapevole esercizio dei diritti civili e poli-tici da parte dei cittadini. Infatti la comunicazione pubblica, con sportelli e materiali infor-mativi (inclusi quelli turistici), servizi URP, siti web e giornali istituzionali, ha come scopo ultimo la libertà di pensiero e di opinione o, per lo meno, il diritto all’informazione oggetti-va sull’attività istituzionale e politica, oltre che sull’andamento dei diversi procedimenti amministrativi di interesse generale o particolare177. 2.6. Per una definizione sintetica dei diritti culturali

Possiamo dunque considerare acquisito che il termine “diritti culturali” è presente, oltre che nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, in ben quattro convenzioni ratifi-cate dal Parlamento, cui l’ordinamento si deve adeguare ai sensi dell’art. 117 c. 1 della Costi-tuzione178, anche alla luce dei principi e criteri direttivi di cui alla l. n. 137/2002 (“Delega per il riassetto e la codificazione in materia di beni culturali”) che all’art. 10 c. 2 lett. d) chie-deva che l’allora redigendo Codice179 si conformasse «al puntuale rispetto degli accordi in-ternazionali».

Lasciando ad altri l’elaborazione di una più approfondita valutazione180, alla luce dell’interpretazione sistematica di tutte le norme considerate, in merito all’esistenza di un co-mune denominatore e all’effettivo valore ermeneutico della categoria dei diritti culturali, ci limi-teremo dunque ad affrontare un tentativo di riconsiderazione sintetica dei quindici diversi diritti poc’anzi enucleati, in senso funzionale, avendo cioè presente qual’è il “bene della vita” fonda-mentale tutelato a prescindere dal contesto e dalla finalità specificamente considerata.

Sulla base delle considerazioni svolte da taluni autori, sarebbe risultato ancor più semplice adottare, anche sull’esempio francese181, la chiara e univoca dizione “diritto alla cul-

seconda del presente codice».

177 A questo proposito si richiama anche quanto già rilevato supra con riferimento allo specifico, ma del tutto analogo e omologo, ambito sanitario, in cui al diritto al consenso informato vengono ricollegate la «dignità del paziente» da un lato e la capacità di organizzazione dei servizi, intesa quale «momento non secondario e marginale, ma strettamente collegato al profilo dei diritti, e dunque al tema dell’attuazione costituzionale»: cfr. R. BALDUZZI, La responsabilità sanitaria, cit., p. 23; si veda anche, nello stesso volume, B. GARDELLA TEDESCHI, M. GRAZIADEI, Prevenire è meglio che curare: l’informazione al paziente, la responsabilità del medico e il governo del rischio clinico, pp. 400 ss.

178 F. SORRENTINO, op.cit., pp. 3 ss. 179 Si è ricordato nell’introduzione che già l’art. 20 del TUBC del 1999 affermava il principio per

cui l’attività di tutela e valorizzazione «si conforma ai principi di cooperazione tra Stati, anche nell’ambito di organizzazioni internazionali, stabiliti dalle convenzioni rese esecutive in Italia in materia di protezione del patrimonio culturale mondiale».

180 Si rimanda in particolare a G. FAMIGLIETTI, op.cit., pp. 14-66. 181 PONTIER, Entre le local, cit., p. 51.

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tura”, che Giulio Carlo Argan aveva lucidamente evocato già nel 1968182; o forse si poteva riproporre, secondo l’originale formula utilizzata da Boutros Ghali, il «diritto di accedere alla conoscenza».

D’altronde quest’ultimo può rilevare in concreto solo come diritto di libertà, oppure (così come avviene per un altro diritto sociale “fondamentale”, il diritto alla salute183), mani-festarsi come diritto sociale a fruire delle prestazioni erogate dai diversi servizi culturali, pur non trattandosi in alcun modo di porre a carico della collettività una obbligazione di risulta-to (in questo caso: l’effettiva conoscenza)184, dal momento che si viene a determinare sol-tanto l’obbligo di realizzare, in ogni ambito, un contesto sociale favorevole al conseguimen-to della conoscenza da parte di ciascun cittadino, il quale resta libero di decidere o meno di avvalersene

Poiché invece c’è un generale consenso in Italia sul fatto che sia inappropriato riu-nire in un unico concetto una pluralità eterogenea di soggetti, oggetti e garanzie, appare plausibile proporre per la categoria dei diritti culturali soltanto due definizioni, sintetiche e onnicomprensive, tra loro coordinate185, che prendono in debita considerazione l’ormai consolidata duplice prospettiva:

- la LIBERTÀ DI CREARE E DIFFONDERE LA CULTURA E LA CONOSCENZA, che rileva

quando è posto in rilevo il dovere dei poteri pubblici di non limitare, ed anzi di promuovere, l’impulso a esprimere, manifestare e produrre (o riprodurre) la cultura, la conoscenza e, più in specifico, le opinioni;

- il DIRITTO A FRUIRE DELLA CULTURA E DELLA CONOSCENZA, che si configura quando invece necessita l’azione degli stessi poteri, direttamente finalizzata a rispondere, in modo commisurato alle risorse finanziarie e tecniche disponibili, al bisogno di acquisire186

cultura e conoscenza187, per il tramite del sistema dei servizi

182 Intendendolo come diritto riconosciuto ad ogni individuo di «fare la cultura», svolgendo un

ruolo attivo della comunità: G.C. ARGAN, Deux Cultures?, in AA.VV., Les droits culturels en tant que droits de l’homme, cit., p. 93; v. nota 54 in merito alla posizione di M. AINIS , L’intervento, cit., p. 126; contra J. LUTHER, Le frontiere, cit., p. 227.

183 Sul tema cfr. R. BALDUZZI, Salute (diritto alla), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cas-sese, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 5393-5402; R. BALDUZZI (a cura di), Sistemi costituzionali, diritto alla salute e organizzazione sanitaria. Spunti e materiali per l’analisi comparata, Bologna, Il Mulino, 2009.

184 Il fatto che l’ordinamento si limiti in questo modo a riconoscere un diritto a prestazioni non preclude, con tutta evidenza, che siamo di fronte a un diritto fondamentale, quantunque condizionato finanziariamente (stante il carattere limitato delle risorse disponibili), come avviene appunto pacificamente nel caso del diritto alla salute o all’unica tipologia di diritti culturali effettivamente tutelata dall’attuale ordinamento, rappresentata specificamente dalla libertà di insegnamento e dal diritto all’istruzione. Poiché tale diritto si traduce, essenzialmente, in un diritto alla fruizione del patrimonio e delle attività di promozione della cultura e della ricerca (l’istruzione e l’università in primis), esso implica la messa a disposizione delle risorse umane e materiali necessarie per assicurare i servizi relativi, risolvendosi pertanto in un diritto soggettivo di ottenere dei mezzi appropriati, che nel caso della conoscenza e della cultura possono oggi limitarsi a una connessione a internet per accedere a musei, biblioteche e archivi digitali.

185 Per E. SPAGNA MUSSO, op.cit., pp. 56-57, i due principi fondamentali di sviluppo della cultura e di libertà della cultura sono solo apparentemente in antitesi, mentre in realtà il loro rapporto è di «implicazione e integrazione»; M. AINIS, L’intervento, cit., p. 122, evidenzia che la Costituzione predica l’ingerenza dei poteri pubblici, ponendo però al tempo stesso il valore della libertà della cultura, rilevando che il raccordo sta nel fatto che «l’intervento sulla cultura serve a renderla libera» (il corsivo è suo). Cfr. G. FAMIGLIETTI, op.cit., pp. 240 e 252, che propone invece una concezione tripartita, includendo anche la garanzia del diritto alla diversità culturale.

186 Fatto salvo l’adempimento (che sempre più si sta collocando su un piano meramente formale) dell’obbligo scolastico minimo, oltre che con riserva di contribuire, se non al progresso

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culturali.

Questa impostazione recepisce dunque la sollecitazione di coloro che sostengono188 che i diritti culturali, così intesi, mirano a tutelare non solo la civiltà, l’arte, la scienza e il pa-trimonio (culturale e paesaggistico) di una comunità, ma anche la personale capacità critica di ogni singolo cittadino, promuovendo il pluralismo cultuale al fine di garantire l’indipendenza del suo giudizio critico, anche ai fini della definizione dell’indirizzo politico generale, mediante il pronunciamento nell’ambito del corpo elettorale.

Ciò richiede che sia assicurata la «partecipazione consapevole alle sorti della cosa pubblica», consentendo alla cittadinanza, ma in ultima analisi ad ogni individuo (elettore), la possibilità effettiva di acquisire un «solido patrimonio di conoscenze», indispensabili alla sua crescita civile189 e al pieno sviluppo della sua personalità.

Vengono invece limitati, per quanto possibile, i riferimenti agli aspetti più specifi-camente identitari e religiosi190, potenzialmente detonatori di impulsi nazionalistici e di con-flitti interconfessionali, se non addirittura di degenerazioni a sfondo xenofobo o razzista.

Così circoscritti, i diritti culturali potranno essere ritenuti, in quanto autonoma cate-goria, meritevoli di considerazione e tutela anche da parte di coloro che sinora ne paventa-vano, non senza ragione, gli aspetti più pericolosi191: se non altro per avvalersene, con la necessaria prudenza, come parametro o clausola generale, al fine di verificare l’effettiva apertura del sistema ai principi fondamentali di garanzia dei diritti umani, di pluralismo e di democraticità dell’ordina-mento192. Se, dunque, si ritenesse necessario operare un’ulteriore valutazione di rilevanza, e quindi di priorità nella tutela, tra le due categorie così sintetizzate, si dovrebbe tenere nel debito conto che mentre la libertà di diffondere cultura attiene a chi (in quanto artista, professo-re o giornalista) ha potuto acquisire e già possiede un bagaglio di conoscenze, che mette a disposizione della comunità193, il diritto a fruire della cultura spetta, anche e soprattutto, a tutti

spirituale, almeno a quello materiale ex art. 4 Cost.

187 Si richiama ancora, a questo proposito, la già citata sentenza della Corte costituzionale n. 438/2008, in materia di «diritto a ricevere le opportune informazioni», qualificato come un «vero e proprio diritto della persona».

188 In particolare M. AINIS, L’intervento, cit., p. 154; anche E. SPAGNA MUSSO, op.cit., pp. 47-52 sostiene che esiste un rapporto di dipendenza tra la democraticità dell’ordinamento e la piena e libera formazione culturale del cittadino, posto così in grado di valutare la propaganda. Per M. MAZZIOTTI DI

CELSO, Appunti sulla libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, in Scritti in onore di Vezio Crisafulli, Padova, Cedam, 1985, pp. 517 ss., va difesa la «soglia di coscienza» dei destinatari delle manifestazioni di pensiero, esercitando un «pregiudizio critico razionale» sul contenuto dei messaggi; v. anche F. RIMOLI, op.cit., p. 18 e nota 1, e A. PIZZORUSSO, Diritto della cultura, cit., p. 320; contra, F.S. MARINI, Lo statuto costituzionale della cultura, Milano, Giuffré, 2002, p. 186.

189 M. AINIS, L’intervento, cit., pp. 144-150; cfr. anche F. MERUSI, Articolo 9, cit., che pone in rilievo il ruolo della cultura nella determinazione dell’indirizzo politico, e R. CHIARELLI, op.cit., pp. 272-273.

190 Anche se è di contrario avviso M. AINIS, L’intervento, cit., p. 137-138; un’ampia disamina dei diritti culturali in tale ottica è ora in G. FAMIGLIETTI, op.cit., pp. 66-177.

191 R. BALDUZZI, Cultura e Costituzione, cit., p. 25, secondo il quale per questo motivo la dottrina italiana ha sempre visto con «sfavore» l’utilizzo del termine diritti culturali, trovando riscontro nella «paura» dimostrata dai costituenti nei confronti del termine cultura; sul rischio di connessione diritti culturali-nazionalismo cfr. J. LUTHER, Le frontiere, cit., p. 238.

192 In questo senso andavano le conclusioni svolte da Renato Balduzzi, in qualità di Président de séance dell’Atelier «Existe-t-il un patrimoine commun euro-méditerranéen?», nell’ambito delle II Doctoriades euro-méditerranéennes (7-8 dicembre 2010, Université du Sud Toulon-Var).

193 Per R. CHIARELLI, op.cit., p. 429, il pluralismo è prerogativa propria dei «soggetti attivi», che per questo sono definibili come «creatori di cultura».

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coloro che non hanno ancora avuto questa opportunità e si aspettano quindi dalla Repub-blica l’adempimento, anche sotto questo specifico profilo, dei principi di garanzia dei diritti inviolabili dell’Uomo, di pari dignità sociale e di eguaglianza sostanziale, solennemente pro-clamati dagli articoli 2 e 3 della nostra Carta fondamentale194. Per questa ragione, oltre che per la connessione con il caso di studio, nel prosieguo della trattazione l’attenzione sarà essenzialmente focalizzata sulla fruizione e sui servizi pubblici ad essa funzionali.

194 Si aggiunga che, mentre coloro che già detengono cultura e conoscenza hanno la possibilità

di influenzare coloro che ne sono sprovvisti, questi ultimi proprio per la ragione opposta (e quindi per la carenza di spirito critico) sono facilmente influenzabili anche ai fini dell’esercizio dei loro diritti politici.

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3. LA RIDEFINIZIONE DELLE FUNZIONI AMMINISTRATIVE IN CAMPO CULTURALE

E IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ

3.1. Il rapporto tra la tutela e le altre funzioni

Uno degli aspetti che maggiormente caratterizza ancor oggi, pur essendo ormai trascorso un decennio dalla riforma del Titolo V della Costituzione, praticamente tutta la trattatistica e la manualistica in materia di Diritto dei Beni culturali (rectius, della Cultura), è il fatto che l’attenzione e l’analisi della dottrina (e quindi anche gli spazi di discussione e approfondimento) rimangono tutt’ora concentrati in modo preponderante sul tema della tutela; alla valorizzazione e alla promozione sono normalmente dedicati solo brevi paragrafi, mentre alla gestione e alla fruizione quasi sempre non restano che poche e frettolose note a margine. a) L’evoluzione del quadro normativo ante 2001

È rilevato in dottrina il fatto che il patrimonio culturale nazionale soffra storicamente di una condizione di cronica precarietà, accentuata dal vuoto legislativo che ha caratterizzato la legislazione unitaria almeno fino al 19021; anche dopo l’avvio dell’organizzazione di un sistema nazionale di amministrazione della cultura, nell’ambito del Ministero dell’Istruzione pubblica, tuttavia, a questa condizione di diffuso degrado e precarietà non avevano posto rimedio né la Legge Bottai2, né la costituzionalizzazione del principio di tutela.

Non era stata più utile, ed anzi era risultata ininfluente, a partire dagli anni ’50, la formale ratifica delle convenzioni dell’UNESCO e del Consiglio d’Europa in materia di salvaguardia, protezione e rispetto dei beni culturali. Tralasciando gli aspetti prettamente tecnico-scientifici di questo fenomeno, su cui è disponibile una vastissima letteratura delle diverse discipline3, fino alla fine degli anni ’80 del XIX secolo alla base degli endemici problemi di conservazione stavano alcune importanti concause politiche e sociali, ma anche giuridico-amministrative, che possono essere sinteticamente riassunte come segue:

1) scarsa consapevolezza e sensibilità rispetto al tema4 da parte dei cittadini (elettori) e

1 La prima legge unitaria in campo culturale è stata infatti la l. 12 giugno 1902, n. 185, poi

completata e sviluppata qualche anno dopo con la Legge per gli Uffici e il personale delle Antichità e Belle Arti del 27 giugno 1907, ed infine con la Legge Rosadi n. 364/1909; cfr. G. VOLPE, op.cit., pp. 59-96.

2 L. n. 1089/1939; cfr. F. TAORMINA, op.cit., pp. 33-37. 3 Si rimanda al recente libro-denuncia di S. SETTIS, Italia S.p.A., cit., pp. 14-20, e all’ampia

bibliografia ivi citata; a dimostrazione che la situazione non è molto cambiata nel corso della storia recente, si veda il quadro sconfortante della situazione di «crisi del patrimonio artistico italiano» alla fine degli anni ’70, sintetizzato in AA, VV., La difesa del patrimonio artistico, Milano, Italia Nostra-Mondadori, 1978, con scritti di R. Bossaglia, M. Valsecchi e A. Carandini.

4 Non è qui il caso di riprendere e approfondire il discorso dell’incidenza dell’educazione scolastica su questo stato di cose, facilmente riscontrabile ove si ponga attenzione alle sorti di una disciplina tradizionalmente del tutto marginale, nell’ambito del nostro sistema di istruzione, quale è la Storia dell’Arte: cfr. S. SETTIS, op.cit., pp. 58 ss.

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quindi degli amministratori (politici) nazionali e locali, nell’esercizio della funzione di indirizzo politico;

2) conseguente cronica inadeguatezza delle risorse (umane, organizzative e finanziarie) destinate a tal fine dallo Stato in via ordinaria5;

3) ostinata rivendicazione, malgrado tali carenze, da parte del Ministero competente della preminente competenza a provvedere alla cura del patrimonio culturale nazionale, non solo per quanto attiene all’esercizio della tutela in senso strettamente “poliziesco”6, ma anche per la gestione diretta dei più importanti complessi e beni culturali, nonché per gli interventi di valorizzazione e promozione in genere;

4) conseguenti difficoltà nell’assicurare in modo adeguato lo svolgimento delle primarie funzioni ispettive e di controllo del territorio, a dispetto del grave e costante stato di pericolo in cui versano monumenti, siti e collezioni;

5) costante marginalizzazione normativa e istituzionale, in campo culturale, di autonomie locali, istituzioni e associazioni, a dispetto del loro ruolo secolare di riferimento e presidio del patrimonio culturale civico e territoriale, nonché del significativo apporto in termini di risorse, anche umane;

6) scarso sostegno e limitata considerazione delle istituzioni culturali in genere (università, accademie, musei e biblioteche, ecc.), cui sono state sempre anteposte e sovraordinate le Soprintendenze.

Una prima svolta rispetto a questo quadro si era registrata, almeno sul piano normativo (dal momento che il recepimento amministrativo e organizzativo ha fatto seguito con particolare lentezza e difficoltà), inizialmente con la legge di riforma delle autonomie locali – la quale ha portato a compimento la prima fase del processo di attuazione dell’art. 5 Cost. – e subito dopo con la ben nota “Legge Ronchey” del 19937.

Questa fonte è stata la prima a porre, seppure in modo assai cauto, i presupposti per l’effettivo orientamento del patrimonio alla fruizione pubblica, principio prima di allora proclamato solo in via teorica da qualche autorevole voce8, ma privo di concreta attuazione,

5 Alcuni degli interventi più rilevanti di recupero e valorizzazione dei beni culturali sono stati

resi possibili solo per la concomitanza con grandi eventi internazionali (Giubileo, manifestazioni sportive, città europee della cultura, ecc.) o dal verificarsi di calamità naturali che hanno determinato interventi straordinari di messa in sicurezza e restauro del patrimonio culturale, nonché l’implementazione della Carta nazionale del rischio; sempre di natura straordinaria debbono considerarsi i fondi messi a disposizione del Ministero a partire dal 1997 grazie all’incremento degli introiti del gioco del Lotto (l. n.662/1996, art. 3, c. 83), per loro stessa origine aleatori, così come quelli destinati dai contribuenti nell’ambito dell’8 per mille dell’Irpef.

6 Questa analisi è condivisa da M.B. MIRRI, La cultura del bello. Le ragioni della tutela, Roma, Bulzoni, 2000, p. 18, che azzarda una definizione ancor più drastica della «struttura centralistica del Ministero per i Beni e le attività culturali e delle Soprintendenze, dotate di potere di vita o di morte, per certi aspetti (si pensi all’autorizzazione ai lavori su immobili vincolati, soprattutto nei centri storici, o ai poteri di veto delle Soprintendenze archeologiche in certe città)».

7 La legge 14 gennaio 1993, n. 4, di conversione, con modificazioni, del d.l. 14 novembre 1992, n. 433, recante “Misure urgenti per il funzionamento dei musei statali e disposizioni in materia di biblio-teche statali e di archivi di stato”, prevedeva in particolare all’art. 3 che «Per assicurare l’apertura quoti-diana, con orari prolungati, di musei, biblioteche e archivi di Stato, il Ministero per i beni culturali e am-bientali» può stipulare convenzioni con le organizzazioni di volontariato aventi finalità culturali, mentre con l’art. 4 venivano istituiti per la prima volta i «servizi aggiuntivi offerti al pubblico a pagamento»; la legge introduceva inoltre alcune innovazioni in materia di gestione del personale e di sicurezza. Tutte le norme in oggetto fanno ora parte del Codice dei Beni culturali. Cfr. G. VOLPE, op.cit., p. 311; A. CRO-

SETTI, D. VAIANO, op.cit., p. 122. 8 Si fa riferimento in particolare all’affermazione per cui la fruibilità implica un «obbligo di permettere la fruizione» a carico dell’amministrazione pubblica: cfr. M.S. GIANNINI, I beni culturali, cit, p.

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come si poteva desumere dall’alto numero di musei, siti archeologici e monumenti nazionali9 che ancora alla metà degli anni ’90 versavano in stato di degrado, o erano sprovvisti di personale e strutture adeguate e per queste ragioni rimanevano chiusi al pubblico. Tuttavia, va posto in luce il fatto che l’avvio della complessa fase (tuttora in corso) di recupero e rilancio del settore culturale italiano, è venuto a coincidere cronologicamente da un lato con l’attribuzione al sistema delle autonomie locali della competenza amministrativa in materia di valorizzazione e dall’altro con la “invenzione” dei servizi aggiuntivi e del coinvolgimento dei privati.

Se si aggiunge che in quello stesso periodo non si è verificata – salvo taluni aspetti procedurali e organizzativi – alcuna sostanziale modifica del consolidato sistema delle norme e dei dispositivi di tutela, ne consegue che alle innovazioni in materia di valorizzazione va attribuita una parte preponderante, se non la totalità, del merito per il significativo incremento fatto registrare negli anni recenti, in termini di efficacia ed efficienza complessiva10, del sistema di amministrazione del patrimonio culturale e paesaggistico, che era stato a suo tempo posto dal legislatore a garanzia della piena attuazione dell’art. 9 Cost.11. Una conferma puntuale a quanto appena prospettato si può ravvisare proprio nella mancata attuazione dell’unico tentativo di incidere in modo concreto nel sistema di “tutela diretta” del patrimonio culturale nazionale, dettagliatamente previsto dall’art. 150 c. 1 del d.lgs. n. 112/199812 ai fini dell’individuazione dei «musei o altri beni culturali statali la cui gestione rimane allo Stato e quelli per i quali essa è trasferita, secondo il principio di sussidiarietà, alle regioni, alle province o ai comuni»; come noto, a questa vicenda si è venuta a sovrapporre quella, altrettanto problematica, dei criteri tecnico-scientifici e degli standard minimi che si sarebbero dovuti osservare nell'esercizio delle attività trasferite, in modo da «garantire un adeguato livello di fruizione collettiva dei beni, la loro sicurezza e la

3 ss; in tema di pubblico godimento dei beni culturali cfr. G. SANTANIELLO, Trattato di Diritto Amministrativo, cit., pp. 164-178.

9 Occorre sempre por mente alla distinzione giuridica e organizzativa tra il patrimonio culturale direttamente gestito dallo Stato (tramite il Ministero per i Beni Culturali oppure tramite il FEC del Ministero degli Interni), quello di proprietà e responsabilità degli enti delle altre istituzioni culturali locali, ed infine quella che invece rientra nell’immenso patrimonio storico-artistico della Chiesa e delle istituzioni religiose, che pur essendo soggetto alla normativa di tutela gode di uno status del tutto peculiare e per certi versi privilegiato, grazie alla plurisecolare tradizione di cura e buona gestione (basti pensare alla catalogazione) dei beni culturali ecclesiastici: cfr. G. VOLPE, op.cit. pp. 144 ss.

10 Proprio con riferimento al patrimonio culturale, si rimanda all’interessante distinzione tra l’efficacia “qualitativa” (che esprime il grado di soddisfazione e apprezzamento dei fruitori) e l’efficacia “sociale” (estendendo la valutazione al medio-lungo periodo, in coerenza con il perseguimento degli scopi istituzionali), rispetto alla tradizionale accezione quantitativa del concetto: cfr. F. DONATO, F. BADIA, op.cit., p. 5.

11 Anche a questo proposito può essere significativo verificare l’attenzione posta e la cura dedicata dal sistema culturale nazionale all’attuazione dei meccanismi di valorizzazione istituiti dalla Convenzione del Patrimonio mondiale: i siti italiani nella Lista dell’UNESCO sono passati infatti dai soli 8 iscritti tra il 1979 e 1993 agli odierni 45, di cui ben 20 inseriti tra il 1994 e il 1999.

12 D. JALLÀ, Il d.lg. 112/1998: un’occasione (per tutti), in Aedon, (1) 1998, secondo il quale la nuova legislazione sarebbe stata «utile non tanto per individuare i musei e i beni che resteranno allo stato e quelli che dovranno essere trasferiti agli enti territoriali, ma per imporre a tutti una riflessione sui propri modelli gestionali e per cercare e sperimentare soluzioni adatte ai grandi complessi come ai piccoli musei, ai centri maggiori come ai comuni minori. E i termini chiave su cui riflettere ed elaborare non sono tanto trasferimento e proprietà quanto autonomia e controllo, compartecipazione e integrazione di sistemi».

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prevenzione dei rischi»13, di cui al settimo comma dello stesso articolo14. Poiché il Ministero ha mantenuto il controllo amministrativo e gestionale di

praticamente tutti i beni culturali teoricamente oggetto di tale procedura15, né pare ritenersi vincolato in modo formale al rispetto di quegli stessi standard (oggi richiamati dall’art. 114 del Codice), che pure erano stati così solennemente elaborati e proclamati, se ne dovrebbe dedurre che per i numerosi beni culturali che restano tuttora sotto la diretta gestione dello Stato16 si debba continuare a presumere juris et de jure la conformità alla vigente normativa di tutela e valorizzazione, e quindi l’ottimale stato di conservazione e gestione.

Atteso che così non è, si registrare una qualche anomalia nell’esercizio dei propri poteri e funzioni da parte della pubblica amministrazione centrale, che non può solo essere spiegata con la consolidata prassi di resistenza al cambiamento, in qualche caso persino contra legem, da parte degli apparati burocratici: si tratta infatti di un caso, piuttosto eclatante, di auto-esonero dall’applicazione di norme costituzionali e legislative di riforma, sul mero presupposto che non sarebbero di diretta emanazione dell’apparato ministeriale, il quale si viene così a porre in uno stato di “specialità permanente”17, rimanendo sostanzialmente impermeabile ai principi della più generale riforma della pubblica amministrazione18. b) La dialettica tra Regioni e Stato dopo la riforma del Titolo V

Malgrado i molti tentativi di riforma e riorganizzazione del sistema culturale nazionale, non è dunque stato sin qui possibile scalfire l’imponente apparato ministeriale preposto alla gestione diretta di una porzione rilevante del patrimonio culturale nazionale19;

13 Proprio le attività finalizzate alla fruizione, sicurezza e prevenzione dei beni culturali, che più

chiaramente e propriamente connotano la valorizzazione rispetto a quelle (come la conoscenza o il restauro) che si intersecano strettamente con la tutela, risultano ancor oggi meno sviluppate e garantite, nonostante la competenza concorrente di Stato e Regioni.

14 Approvati con d.m. del 10 maggio 2001: cfr. G. VOLPE, op.cit., pp. 318-321; D. JALLÀ, Il museo contemporaneo, Torino, UTET, 2000, pp. 166-178.

15 Non si può infatti considerare pienamente come tale, malgrado la concomitanza cronologica, neppure l’iter di costituzione della fondazione del Museo Egizio di Torino.

16 Sulla gestione dei beni culturali statali cfr. N. AICARDI, Recenti sviluppi sulla distinzione tra "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali e sul ruolo del ministero per i Beni e le Attività culturali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale, in Aedon, (1) 2003, il quale ha posto in rilievo che «la potestà amministrativa del ministero in materia di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale non riguarda, indistintamente, tutti i beni che vi sono compresi, ma solo quelli aventi un interesse nazionale, con esclusivo riguardo ai quali il legislatore statale, evidentemente, ha ritenuto sussistenti esigenze di esercizio unitario tali da richiedere il mantenimento della funzione a livello centrale, in applicazione dell’art. 118, c. 1, Cost.». Sulla forme e modalità di esercizio della competenza regionale per la fruizione e valorizzazione di beni culturali in regime di appartenenza, oppure di disponibilità, non statale (differenziandosi così da quelli tutt’ora appartenenti allo Stato), cfr. A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., p. 117.

17 F. PIETRANGELI, Il riparto di funzioni legislative fra Stato e Regioni in materia di beni culturali, in P. BILANCIA (a cura di), La valorizzazione dei beni culturali tra pubblico e privato. Studio dei modelli di gestione integrata, Milano, F.Angeli, 2005, p. 45 concorda con M.Cammelli sul fatto che la materia culturale abbia mantenuto la sua «vocazione alla specialità» anche nel contesto della riforma costituzionale del 2001: cfr. M. CAMMELLI, Il nuovo titolo V della Costituzione e la Finanziaria del 2002, in Aedon, (1) 2002.

18 Questa “eccezione culturale” viene sovente riproposta, secondo una prassi non sempre condivisibile, sul presupposto dell’affermata unicità della materia culturale e della conseguente specialità delle misure legislative e amministrative finalizzate alla sua tutela, anche per la l. n. 241/1990 in materia di trasparenza e partecipazione, per le norme in materia di appalti pubblici e per altre leggi di riforma amministrativa.

19 Tale gestione comporta per l’amministrazione statale, come noto, rilevanti oneri di personale,

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dal che risulta evidente che l’amministrazione statale resta tuttora «essenzialmente arroccata nella rappresentazione della gestione dei beni, a difesa dei livelli territoriali di interesse delle istituzioni culturali», la quale si è tradotta «nell’avallo e nella perpetuazione di politiche neocentralistiche»20. Non è facile individuare le ragioni per cui lo Stato si ritiene impegnato a tutelare e valorizzare in questo modo non solo siti e istituzioni di rilevo nazionale, ma anche realtà del tutto secondarie, quando non addirittura di mero interesse locale21, trascurando invece beni culturali e siti paesaggistici di rilevanza internazionale, come quelli oggetto del nostro caso di studio22. È stato correttamente rilevato, peraltro, come «l'appartenenza statale dei beni culturali non sembra poter costituire, di per sé, una ragione sufficiente a perpetuare l'esercizio della funzione di valorizzazione in capo al Ministero, per lo meno ogniqualvolta non emerga che detto esercizio risponde ad obiettive esigenze unitarie di rilevanza nazionale»23.

Nondimeno, l’acritica accettazione dello status quo in materia di competenze e funzioni ministeriali è tuttora avvalorato dalla dottrina giuspubblicistica24 che, nel dedicare un’attenzione crescente al Diritto della Cultura, continua a consacrare i proverbiali “fiumi d’inchiostro” ai diversi istituti, procedimenti e meccanismi tecnici di esercizio della funzione statale di tutela e alle problematiche che scaturiscono dalla sua applicazione25; la ben più fisiologica attività di valorizzazione26 continua invece ad essere relegata in un ruolo

custodia, manutenzione, pulizie, ecc. di cui si riesce a ravvisare con non poche qualche difficoltà l’inerenza alle competenza statale di “tutela” in senso proprio.

20 M. AINIS, M. FIORILLO, op.cit., p. 129; si vedano anche M. AINIS , Cultura e Politica, cit., pp. 203 ss., G. VOLPE, op.cit., pp. 374-375 e M. MANCINI, La ripartizione delle competenze in materia di ‘beni culturali’ nel nuovo Titolo V, Parte Seconda, della Costituzione, in Studi Senesi, (2) 2004, pp. 195-238.

21 Un caso emblematico è costituito dal Forte di Gavi, in Provincia di Alessandria, che fa capo alla Soprintendenza piemontese ai Beni Architettonici e Paesaggistici.

22 Per restare all’ambito appena menzionato, lo Stato ha trascurato per decenni la Cittadella di Alessandria, come risulta ampiamente documentato nel caso di studio, ed anche altre realtà analoghe (ad es. le Fortezza di Vinadio, Exilles o Verrua Savoia), del tutto assimilabili a quella di Gavi, se non più significative quanto a rilevanza storica e pregio architettonico.

23 N. AICARDI, Recenti sviluppi, cit.; ne consegue che non basta la proprietà statale a far sorgere e a giustificare, in modo automatico, l’esercizio della funzione di valorizzazione del bene culturale da parte del Ministero.

24 Tralasciando gli accenti di esaltazione, per certi versi quasi “mistica”, che pure permangono da parte di non pochi tecnici e cultori del settore, si cita ancora una volta, a questo proposito, il punto di vista di Giulio Volpe, che ha accusato le recenti riforme di voler «esautorare le soprintendenze territoriali dall’applicazione di una sapienza secolare» (G. VOLPE, op.cit., p. 166); si intendeva così dare in qualche modo voce alle posizioni degli storici dell’arte, degli architetti e dei giuristi “ministeriali” nei confronti della rivoluzione culturale degli anni ’90 del XX secolo, testimoniate dalle prefazioni di Andrea Emiliani e Salvatore Settis: in special modo quest’ultimo, si scaglia «contro la tentazione ricorrente di ignorare la saggezza della tradizione in favore di una “modernizzazione” becera e incolta, che si traduce della svendita del patrimonio», cui si contrapporrebbe solo lo storica baluardo rappresentato dalla «cultura della conservazione attraverso la normativa e la prassi giuridica» della legge di tutela. Cfr. S. SETTIS, Talebani a Roma? in Italia S.p.A., cit., pp. 3-6, dove si paventa l’intento di «smantellare l’amministrazione dei beni culturali», affermando che «la legge sull’alienabilità del patrimonio culturale e le altre misure analoghe sono una specie di “bomba a orologeria” che eroderà più o meno velocemente la nostra cultura della conservazione, e di conseguenza il nostro patrimonio».

25 Certo non è indifferente ai fini di questo maggiore interesse dei giuristi il fatto che si tratti dell’ambito più frequentemente oggetto di contenzioso e quindi di pronunce delle diverse giurisdizioni, con particolare riguardo ai poteri di vicolo, di espropriazione e di limitazioni alla circolazione delle opere d’arte.

26 Come vedremo la scarsa attenzione vale anche per le funzioni di tutela ordinariamente svolte

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del tutto marginale e apparentemente privo di risvolti problematici, se non per qualche aspetto inerente la controversa concessione ai privati dei servizi aggiuntivi dei grandi musei o siti archeologici statali.

A conforto di quanto affermato si riporta il giudizio formulato, in merito a quello che viene definito il «nuovo regime dei beni culturali», da Michele Ainis e Mario Fiorillo27: «non basta un’adeguata attività di tutela, non è sufficiente un miglioramento dell’organizzazione gestionale se, partendo da questo, le istituzioni preposte non dimostreranno la capacità di incrementare, innanzi a un quadro che appare oggi decisamente sconsolante, i livelli di fruizione del bene culturale».

Per contro è stata da più parti contestata, ancora in tempi recenti, persino la stessa distinzione della valorizzazione rispetto alla tutela, sul presupposto che si tratterebbe di «un’inscindibile endiadi, che esprime un unico concetto, a meno di concepire la tutela in termini mortificanti, negativi, di meri divieti, quando invece implica anche un progetto di conservazione e di fruizione, dunque di valorizzazione»28; dal che conseguirebbe che «la loro distinzione è speciosa e dannosa, contraria a ogni principio di buona amministrazione in quanto produce il frazionamento dell’azione amministrativa e la dispersione delle responsabilità»29. Proprio nell’intento di ridiscutere quest’ultimo approccio, tuttora maggioritario, ci concentreremo dunque in modo preponderante sulle competenze e sulle attività di valorizzazione e promozione, dando per acquisito tutto il dibattito che per decenni è stato consacrato al necessario (ma per nulla sufficiente) rispetto della legislazione di tutela, che si ritiene comunque costituire una funzione a sé stante, sulla quale con ogni probabilità non rimane praticamente più nulla di originale da dire.

Si ritiene infatti ormai acclarato che, come ha affermato ancora recentemente la Consulta30, «il proprium della legislazione di tutela risiede sì nel perseguimento di finalità di individuazione, protezione e conservazione dei beni culturali, ma solo attraverso misure che danno vita, unilateralmente, a vincoli conformativi della proprietà. In ogni altro caso, pare invece fondato ritenere che si sia in presenza di norme di valorizzazione».

Da qui la scelta di ribaltare quella che Diego Vaiano31 definisce una «fondamentale

dalle Regioni stesse, a riprova che si tratta solo di un problema di miopia istituzionale, che induce i molti che ne sono affetti a ritenere che in Italia la cultura coincida con le funzioni svolte dal Ministero per i Beni e le Attività culturali, ignorando il federalismo culturale che da decenni si è affermato, nonostante tutto, nel nostro Paese: cfr. G. MARCHI, I beni e le attività culturali nelle scelte del legislatore regionale, in Aedon, (3) 2000.

27 Alla voce Beni culturali, in S. CASSESE, Trattato di Diritto Amministrativo, II, Giuffré, Milano, 2003, pp. 1479-1482, arrivando ad affermare che «la minaccia può essere evitata solo producendo uno sforzo di immaginazione degli studiosi nel ripensare le nozioni tradizionali delle funzioni», mettendo in campo «un’interpretazione quanto più possibile evolutiva del nuovo ordinamento», tale da pervenire a coordinare e armonizzare le nozioni stesse.

28 G. LOSAVIO, Tutela, le funzioni dello Stato, in Beni culturali, quale riforma?, Roma, Bianchi Bandinelli, 1996, pp. 20 ss.; v. anche G. SEVERINI, I principi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Giorn. Dir. Amm., (5) 2004, p. 472.

29 S. SETTIS, Un programma per i beni culturali, in MicroMega, (1) 2003, p. 18 ss.; inutile dire che la condivisione di tali obiezioni, che possono essere valide anche per molti altri ambiti di attività della pubblica amministrazione (si pensi alla sanità, alle politiche sociali e del lavoro o allo stesso ordine pubblico, in considerazione del ruolo della polizia locale), finirebbe per costituire la giustificazione alla negazione di ogni forma di autonomia regionale e locale, in nome di un ritorno al centralismo quasi assolutistico, che pure in campo culturale è tuttora rimpianto.

30 Sentenza della Corte costituzionale n. 94 del 26-28 marzo 2003; cfr. N. AICARDI, Recenti svi-luppi, cit., e F. PIETRANGELI, op.cit., p. 51.

31 A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., p. 15.

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alternativa concettuale», dedicando quindi maggiore attenzione in primo luogo alla vise en valeur, e con essa agli interessi primari (individuali e collettivi) che persegue. 3.2. Le funzioni di valorizzazione e promozione

Si è inteso concentrare in primo luogo l’attenzione sulla valorizzazione, consideran-

done ormai acquisita la «sicura centralità nel sistema»32, il che appare ancor più significativo se ci si pone nell’ottica della più vasta e generale questione dell’attuazione, attraverso il gra-duale processo di riordino delle relative funzioni amministrative, dei principi di decentra-mento, sussidiarietà e adeguatezza.

Trattiamo infatti di una delle poche competenze che erano state create ex novo negli anni ’70, in concomitanza con l’istituzione delle Regioni, non dovendo quindi scontare i condizionamenti derivanti dalla stratificazione amministrativa pregressa, indotta da decenni di centralismo ministeriale, non avendo neppure la necessità conseguente di rivendicare presso il Governo nazionale il trasferimento di competenze e risorse, come avvenne per quasi tutte le altre materie di cui al d.p.r. 24 luglio 1977 n. 616.

Questo non ha però impedito allo Stato di contrastare a lungo, anche in occasione della più recente riforma “Bassanini”, l’affermazione della valorizzazione come autonoma competenza spettante a regioni e autonomie locali33, in modo formalmente e sostanzial-mente indipendente dall’apparato centrale (fatto salvo il rispetto dei principi fondamentali): ciò a ulteriore riprova – se ve ne fosse ancora la necessità – della reticenza delle ammini-strazioni burocratiche centrali ad ogni forma di autentico decentramento, a dispetto delle diverse indicazioni del legislatore.

Per questa ragione la valorizzazione, venendo a costituire il fulcro del nuovo sistema normativo in materia di patrimonio culturale e paesaggistico, è certamente l’aspetto che maggiormente catalizza l’attenzione dei più recenti commentatori, che hanno però concentrato la loro analisi quasi esclusivamente sulla sua controversa distinzione rispetto alla “storica” tutela.

È invece minima34 l’attenzione dedicata dalla dottrina alla funzione di promozione delle attività culturali, che pure è posta a garanzia del principio fondamentale della nostra Carta costituzionale cui è consacrata la prima e più significativa disposizione dell’art. 9 Cost. («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura») e che va dunque posta, anche sotto questo profilo, in ben maggiore rilievo. a. Valorizzazione

Il temine venne utilizzato per la prima volta in Italia nel titolo (e quindi anche nell’incipit dell’art. 1) della l. 26 aprile 1964, n. 31035 “Costituzione di una commissione d'in-

32 Ibidem, p. 122. 33 F. PIETRANGELI, op.cit., pp. 48-54. 34 Forse ha inciso in tal senso il fatto che in Italia si sia consolidata come disciplina scientifica,

ma in realtà sulla base di esigenze prevalentemente accademiche e didattiche, il Diritto dei Beni culturali con la relativa manualistica, mentre stenta ad affermarsi un più ampio e onnicomprensivo Diritto della Cultura, che dovrebbe includere non solo la vasta letteratura in materia di istruzione, ma anche quella relativa alla promozione, che è stata al centro dell’attenzione dei costituzionalisti, soprattutto in sede di commenti alla Carta Costituzionale.

35 Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 128 del 26 maggio 1964.

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dagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio”, la quale però, nell’istituire quella che è passata alla storia come la “Commissio-ne Franceschini”, non fornì alcuna concreta indicazione in merito alla definizione dei con-tenuti e delle finalità dell’attività de qua36.

Non fu d’aiuto, a tal fine, neppure il fondamentale Rapporto presentato dalla Commissione, al termine dell’indagine, il 10 marzo 196637: infatti nel preambolo introdutti-vo del “Documento di base” si evidenziava solo che dalla definizione (anch’essa relativa-mente nuova38) dei beni culturali come «un preminente valore di civiltà (...) tale da caratteriz-zarlo come patrimonio dell’umanità»39, conseguiva «in ordine al metodo e alla struttura degli strumenti di tutela e di valorizzazione, una chiara delimitazione dei fini e dei mezzi, e pertan-to una decisa priorità degli aspetti scientifici e culturali»40. Il recepimento legislativo del temine si fece attendere ancora a lungo, dal momento che per il decreto del Presidente della Repubblica 14 gennaio 1972, n. 3 “Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di assistenza sco-lastica e di musei e biblioteche di enti locali e dei relativi personali ed uffici”41, pur facendo espressamente riferimento (art. 7) ad attività oggi pacificamente rientranti nel concetto – quali «la sicurezza e il godimento pubblico», il «coordinamento delle attività dei musei e del-le biblioteche» o l’organizzazione di mostre – non si era ritenuto di adottare coerentemente la nuova terminologia42.

Per riscontrare un utilizzo significativo del termine in un testo normativo avente forza cogente, occorre dunque attendere – a oltre dieci anni di distanza dalla legge 310 –

36 Secondo l’art. 1 della l. n. 310/1964, approvata su proposta del Ministro della Pubblica

Istruzione , «è affidato ad una commissione l’incarico di condurre una indagine sulle condizioni attuali e sulle esigenze in ordine alla tutela e alla valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio e di formulare proposte concrete al fine di perseguire i seguenti obiettivi: 1) revisione delle leggi di tutela (in coordinamento, quando necessario, con quelle urbanistiche) nonché delle strutture e degli ordinamenti amministrativi e contabili; 2) ordinamento del personale, in rapporto alle effettive esigenze; 3) adeguamento dei mezzi finanziari».

37 Cfr. il Rapporto Per la salvezza dei beni culturali, 3 voll., Roma, Colombo, 1967; G. VOLPE, op.cit., p. 116-117; pur essendo stato formalizzato in una sede parlamentare, si tratta con tutta evidenza di un atto di natura meramente amministrativa.

38 In realtà la definizione era già stata introdotta nell’ordinamento italiano grazie alla l. 7 febbraio 1958, n. 279 (G.U. n. 87 dell’11 aprile 1958), di ratificata della Convenzione dell’Aja del 1954 “Protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato”.

39 Merita di essere sottolineato che la Commissione ha concluso i suoi lavori ben cinque anni prima dell’approvazione della Convenzione UNESCO sul Patrimonio mondiale.

40 La citazione testuale è tratta dalla Relazione della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione dei patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, in Riv.Trib. Dir. Pub., 1966, p. 143.

41 Emanato in attuazione della legge 16 maggio 1970, n. 281 recante “Provvedimenti finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario”.

42 Art. 7: «Sono trasferite alle Regioni a statuto ordinario le funzioni amministrative degli organi centrali e periferici dello Stato in materia di musei e biblioteche di enti locali. Il trasferimento riguarda, tra l’altro, le funzioni concernenti: a) l’istituzione, l’ordinamento ed il funzionamento dei musei e delle biblioteche di enti locali o d’interesse locale, ivi comprese le biblioteche popolari ed i centri di pubblica lettura istituiti o gestiti da enti locali e gli archivi storici a questi affidati; b) la manutenzione, l’integrità, la sicurezza e il godimento pubblico delle cose raccolte nei musei e nelle biblioteche di enti locali o d’interesse locale; c) gl’interventi finanziari diretti al miglioramento delle raccolte dei musei e delle biblio-teche suddette e della loro funzionalità; d) il coordinamento dell’attività dei musei e delle biblioteche di enti locali e d’interesse locale; e) le mostre di materiale storico ed artistico organizzate a cura e nell’ambito dei musei e biblioteche di enti locali o d’interesse locale».

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l’art. 2 del d.p.r. n. 805/197543, che nel dettare le norme di “Organizzazione del Ministero per i beni culturali e ambientali”, stabiliva che le Regioni «concorrono all'attività di valoriz-zazione secondo programmi concordati con lo Stato», oltre a prevedere (art. 4, punti 2 e 6) che i componenti del Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali che rappresenta-vano le stesse Regioni e le Autonomie locali dovessero essere scelti tra “persone partico-larmente qualificate, per titoli posseduti o per funzioni svolte, nella tutela e valorizzazione dei beni culturali e ambientali”.

La sola chiara differenza rispetto alla tutela sembrava solo risiedere, a quell’epoca, nel fatto che nella valorizzazione apparivano assenti le «funzioni conservative dei beni», mentre non si trovava ancora un fondamento normativo all’asserzione, fatta poi propria

dalla dottrina recente, secondo cui essa concerne piuttosto le funzioni di organizzazione44, che sono strettamente correlate «all’incremento della qualità economica del bene, mediante l’assicurazione di maggiori entrate finanziarie»45.

Anche l’art. 48 del d.p.r. n. 616/197746, nel completare il trasferimento di compe-tenze dallo Stato alle Regioni, faceva cenno alle «funzioni amministrative delle regioni e de-gli enti locali in ordine alla tutela e valorizzazione del patrimonio», demandandone la puntua-le definizione a una successiva «legge sulla tutela dei beni culturali», che si sarebbe dovuto emanare entro il 31 dicembre 1979.

Oltre dieci anni dopo, è stato l’art. 14 della l. n. 142/199047 ad affidare alle Province l’ancora indefinita competenza in materia di «valorizzazione dei beni culturali», (primo comma, lettera c), senza però innescare sull’intero territorio nazionale l’avvio di politiche organiche e di sistematiche attività amministrative (fatte salve alcune positive esperienze nelle realtà regionali più progredite), come sarebbe invece richiesto dalla natura stessa della funzione.

Se infatti è propria delle materie oggetto di competenza regionale concorrente la possibilità che le leggi regionali adottino forme e priorità diverse, con la conseguente even-tualità di adottare modalità anche significativamente differenziate nell’esercizio delle relative competenze amministrative48, suscita non poche perplessità la circostanza che in alcune re-gioni italiane si siano registrati ritardi e carenze tali da pregiudicare la stessa esistenza – in una forma adeguatamente istituzionalizzata e organizzata – di un vero e proprio sistema di servizi di valorizzazione dei beni culturali49.

43 Emanato in attuazione della legge 29 gennaio 1975, n. 5, di “Conversione in legge, con modi-

ficazioni, del decreto-legge 14 dicembre 1974, n. 657, concernente la istituzione del Ministero per i beni culturali e ambientali”. 44 R. CHIARELLI, op.cit., p. 269; interessante la considerazione di L. L. CASINI, Valorizzazione e fruizione dei beni culturali, in Giorn. Dir. Amm., (5) 2004, p. 481, per il quale la valorizzazione costituisce un’attività imprenditoriale, in quanto implica la presenza di un’organizzazione.

45 M. AINIS, M. FIORILLO, op.cit., p. 125, pongono tuttavia in evidenza il fatto che «l’aumento della domanda di accesso ai beni culturali, lo sviluppo dei servizi aggiuntivi, l’incremento delle sponsorizzazioni, rappresenta sì un profitto, ma vincolato alla maggiore offerta del bene culturale, in altri termini alla sua più ampia fruizione».

46 Decreto emanato in attuazione della legge 22 luglio 1975, n. 382; cfr. A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., pp. 12-13.

47 Ora art. 19 del TUEL. 48 G. VOLPE, op.cit., p. 392, evidenzia come la legislazione regionale «registra approcci di

intensità diversa», il che in qualche caso ha impedito di dedicare «sufficiente attenzione alla definizione di organizzazione e funzionamento delle strutture museali e dei beni la cui gestione avrebbe dovuto essere decentrata (…), pur avendo in merito piena autonomia».

49 M. CAMMELLI, Riordino dei beni culturali, cit., pp. 619 ss.; tralasciando la peculiare situazione del-le Regioni a statuto speciale, non c’è dubbio che a parità di competenze statali di tutela, ci sono aree del Paese come l’Emilia Romagna o l’Umbria, da sempre all’avanguardia in questo ambito, in cui è stata ef-

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Proprio per questa ragione, d’altronde, sin dal 1970 era stata prevista la possibilità per lo Stato di intervenire a garantire le «esigenze di carattere unitario», tramite l’azione di indirizzo e coordinamento del Ministero50, il che tuttavia poteva risultare ulteriormente lesivo dell’art. 5 Cost., mentre sarebbe stato piuttosto auspicabile perseguire una più definita, completa e cogen-te attribuzione di competenze e responsabilità al livello (intermedio) regionale e provinciale, al fine di assicurare una soddisfacente attuazione di queste nuove funzioni 51.

Come noto, oggi la materia assume ben maggiore rilevanza, in seguito alla legge co-stituzionale di riforma del Titolo V della Costituzione, che all’art. 117 c. 2 lett. s) affida allo Stato la legislazione esclusiva in materia di tutela dei beni culturali, mentre con il terzo comma ha definito come materie di legislazione concorrente la «valorizzazione dei beni cul-turali e ambientali», affiancandola alla «promozione e organizzazione di attività culturali»; la relativa potestà legislativa e regolamentare è demandata alle Regioni, salvo che per quanto attiene alla determinazione dei principi fondamentali, riservati alla legislazione esclusiva del-lo Stato.

L’importanza di questo passaggio, non solo per la definitiva attribuzione della com-petenza al sistema delle autonomie, ma addirittura per la stessa definitiva e generale accetta-zione del termine in questione, anche da parte della dottrina più tradizionalista e ostile, è attestata da chi ritiene52 che solo in quel momento sia diventato «plausibile occuparsi di co-desto ambito funzionale anche sul piano sostanziale», quasi che prima si trattasse di una competenza attribuita a Regioni e Province in modo meramente ipotetico e virtuale. Peraltro, questo innovativo impianto costituzionale, basato in linea di principio sull’attuazione del “nuovo” principio di sussidiarietà53, sancito dal successivo art. 118, traeva ispirazione dal d.lgs n. 112/199854, che all’art. 148 del Capo V (consacrato a Beni e attività cultura-li), aveva definito in modo assai puntuale e analitico la valorizzazione, distinguendola chiara-mente rispetto alla tutela, avendola intesa come «ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ambientali e ad incrementarne la fruizione».

Ne consegue che essa risultava già perfettamente distinguibile non soltanto rispetto alla tutela (di cui si ribadiva la tradizionale concezione, che include «ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali»), ma anche rispetto alla nuova definizione di gestione, che però era stata attribuita in modo alquanto enigmatico a

fettivamente assicurata sin dagli anni ’80 una certa fruizione del patrimonio culturale e dei relativi servizi, mentre in altre (ad esempio in alcune regioni del Sud, ma anche in Piemonte, con la sola eccezione del sistema delle biblioteche di cui alla l.r. n. 78/1978) le amministrazioni regionali e provinciali trascuravano in tutto o in parte l’attivazione di tali funzioni; secondo F. PIETRANGELI, op.cit., p. 47, che cita anche A.M. Poggi, ciò deve essere considerato alla luce dei nuovi «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (LEP), che trovano esplicita garanzia all’art. 117 c. 2 m) della Costituzione, su cui si tornerà brevemente nelle conclusioni.

50 Con riferimento all’art. 17 lett. a) della l. n. 281/1970, che faceva anche riferimento agli «impegni derivanti dagli obblighi internazionali», che nel nostro casi riguardavano il recepimento delle Convenzioni dell’UNESCO e del Consiglio d’Europa, già ampiamente ricordate supra.

51 Cfr. B.L. BOSCHETTI, La valorizzazione, in M.A. CABIDDU, N. GRASSO (a cura di), Diritto dei beni culturali e del paesaggio, Torino, Giappichelli, 2004, p. 219, a giudizio della quale «la cooperazione su più livelli nell’ambito della valorizzazione dei beni culturali può dirsi in un certo senso connaturata anche alla tipologia di strutture organizzative che l’esplicazione delle funzioni e attività in essa rientranti richiedono». Cfr anche G. VOLPE, op.cit., pp. 372 ss.

52 Ibidem, p. 298. 53 A giudizio di N. AICARDI, L’ordinamento amministrativo dei beni culturali. La sussidiarietà nella tutela

e nella valorizzazione, Torino, Giappichelli, 2002, p. 14, si tratta di «una novità che potrà avere conseguenze oggi forse non ancora del tutto prevedibili».

54 La c.d. “Riforma Bassanini” a costituzione invariata, emanata solo qualche anno prima in attuazione della legge 15 marzo 1997, n. 59.

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«ogni attività diretta, mediante l'organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali e ambientali, concorrendo al perseguimento delle finalità di tute-la e di valorizzazione».

La valorizzazione era stata ulteriormente regolamentata dal successivo art. 152, che ne attribuiva la cura a Stato, regioni ed enti locali, ciascuno nel proprio ambito55; inoltre si disponeva che essa venisse “di norma” attuata mediante forme di cooperazione strutturali e funzionali tra i diversi livelli istituzionali della Repubblica. Pertanto, sulla base di questo ar-ticolato e assai analitico sistema normativo, risultava indiscutibile che le funzioni e i compiti di valorizzazione dovessero comprendere (almeno) le attività concernenti:

- il miglioramento della conservazione fisica dei beni e della loro sicurezza, integrità e valore; - il miglioramento dell'accesso ai beni e la diffusione della loro conoscenza anche mediante riprodu-

zioni, pubblicazioni ed ogni altro mezzo di comunicazione; - la fruizione agevolata dei beni da parte delle categorie meno favorite; - l'organizzazione di studi, ricerche ed iniziative scientifiche anche in collaborazione con università

ed istituzioni culturali e di ricerca; - l'organizzazione di attività didattiche e divulgative anche in collaborazione con istituti di istruzio-

ne; - l'organizzazione di mostre anche in collaborazione con altri soggetti pubblici e privati; - l'organizzazione di eventi culturali connessi a particolari aspetti dei beni o ad operazioni di recupe-

ro, restauro o ad acquisizione; - l'organizzazione di itinerari culturali, individuati mediante la connessione fra beni culturali e am-

bientali diversi, anche in collaborazione con gli enti e organi competenti per il turismo.

Anche se questo primo intervento di ripartizione e specificazione delle funzioni, in cui si sostanzia la competenza di valorizzazione, è stato subito giudicato «di estrema impor-tanza»56, tali norme di carattere generale sono state successivamente recepite e attuate in modo per nulla soddisfacente, sia dalla legge di riforma del Ministero57, come pure dalle va-rie norme regionali di recepimento e ulteriore trasferimento di competenze agli enti locali. Ma soprattutto non si è conformata pienamente ad esse la nuova legislazione nazionale in ambito culturale, vale a dire il TUBC (d.lgs. n. 490/1999), che aveva infatti mantenuto qua-si integralmente lo storico impianto dell’ormai mitica “Legge Bottai” del 193958.

55 Secondo A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., pp. 18-19 la valorizzazione è «pienamente emersa»

quale nuova funzione solo con le norme del 1998, mentre prima si sarebbe trattato di una mera «enunciazione di principio» a fronte della generale e tradizionale funzione statale di tutela; ne conseguiva che potesse essere valutata solo alla stregua di un provvedimento attuativo dell’art. 9 Cost., «nella parte in cui questo aveva assegnato al patrimonio storico-artistico nazionale un ruolo dinamico quale mezzo per la crescita culturale della società, attraverso l’ampliamento della pubblica fruizione dei beni culturali da parte della collettività. Nulla di più o di diverso»; il che però appare a giudizio di chi scrive tutt’altro che limitativo, ed anzi meritevole della massima considerazione, proprio nella prospettiva della garanzia dei diritti culturali.

56 M. AINIS , M. FIORILLO, op.cit., p. 127. 57 Art. 2 c. 2 a) e art. 10 c. 1 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 “Istituzione del Mini-

stero per i beni e le attività culturali, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59”, che all’art. 1 stabilisce che «il Ministero provvede, secondo quanto previsto dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, e dalle disposizioni del presente decreto, alla tutela, gestione e valorizzazione dei beni culturali e ambientali e alla promozione delle attività culturali».

58 Si trattava d’altronde di una normativa saldamente ancorata alla tradizionale concezione centralistica della tutela, funzione di natura potestativa, quasi esclusivamente statale, che ancora poco spazio lasciava alle attività discrezionali e non necessariamente ministeriali di valorizzazione e promozione. Per questa ragione, secondo M. AINIS, M. FIORILLO (op.cit., p. 127), con il TUBC si deve registrare, rispetto al d.lgs. n. 112/1998, «un arretramento delle funzioni di valorizzazione (…) a

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Infine, il già più volte richiamato Codice dei Beni culturali59 è ulteriormente interve-nuto, teoricamente al fine di ridisegnare in forma definitiva la legislazione nazionale: quindi avrebbe dovuto limitarsi (nel rispetto dei limiti costituzionali ex art. 117 c. 3 in materia di valorizzazione e promozione) a formulare solo alcuni chiari principi fondamentali, per poi lasciare spazio alla successiva legislazione regionale di dettaglio, ma ancor più ai sempre in-vocati ma raramente adottati regolamenti di attuazione.

In questo senso può essere letto l’art. 1 (Principi), che dopo avere richiamato l’articolo 9 della Costituzione, ribadisce che è dovere della Repubblica tutelare e valorizzare60 il patrimonio culturale, in coerenza con le attribuzioni di cui al successivo art. 117: si tratta infatti di funzioni che devono coerentemente concorrere a “preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura”.

La legge delega n. 131/2003 “La Loggia”, pur non essendo stata intesa ad operare una riallocazione delle (peraltro limitatissime) strutture statali, finalizzate a garantire l’esercizio delle «funzioni attualmente esercitate», è infine intervenuta ulteriormente in ma-teria, configurando ancora la controversa distinzione tra le attività di valorizzazione «di in-teresse nazionale» (di esclusiva competenza statale) e quelle «di interesse regionale e locale», il che non fa che complicare ulteriormente il quadro normativo d’insieme 61.

Se ne deduce che spetta a Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni – ancora enumerati, al terzo comma dell’art. 1, nell’ordine gerarchico originario, ignorando quello del novellato art. 114 Cost.62 – il compito di assicurare e sostenere (tutti insieme, dunque) la conservazione del patrimonio culturale, favorendo la pubblica fruizione, che viene regolata ma tuttora non definita dagli art. 101 ss. del Codice stesso63. Quanto agli altri soggetti pubblici, essi pure assicurano nello svolgimento della loro attività, la conservazione e la pubblica fruizione del loro rispettivo patrimonio culturale.

Nondimeno, al comma 6 si torna a richiamare la tradizionale e ancora valida norma “di chiusura” del sistema, per la quale le attività concernenti la conservazione, la fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale sono comunque «svolte in conformità alla nor-mativa di tutela», in quanto rimasta di esclusiva competenza statale: il che mira a mantenere comunque in capo al Ministero per i Beni e le Attività culturali la possibilità di dire l’ultima parola in materia: si potrebbe in tal modo configurare (come avviene in settori strategici per l’interesse nazionale, quale la tutela della concorrenza) una ulteriore competenza “trasversa-le” dello Stato, ancora una volta a danno di prerogative regionali lungamente rivendicate e solo in minima parte conseguite64.

vantaggio della funzione di tutela, la cui prevalenza dei contenuti normativi tipici emerge, rispetto alla varietà e modernità delle forme di fruizione collettiva». 59 Per una più approfondita disamina delle norme in materia si rimanda a G. LEONE, A.L. TARASCO (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, Padova, Cedam, 2006, pp. 67 ss.; cfr. anche R. TAMIOZZO (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, Giuffrè, 2005; G. TROTTA, G. CAIA, N. AICARDI (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Nuove leggi civili commentate, Padova, Cedam, (5/6) 2005 e (1) 2006; M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, Giuffrè, 2006.

60 Circa il rischio della sovrapposizione tra le definizioni, che vengono definite insufficienti dal momento che sono «circolari», cfr. S. CASSESE, I beni culturali, cit., p. 674.

61 G. VOLPE, op.cit., p. 302, nota. 19. 62 È questa un’ulteriore dimostrazione, di natura tutt’altro che formalistica, del fatto che in

campo culturale esistono ancora prassi e tradizioni, aventi influenza sull’amministrazione ed anche sulla legislazione di settore, che arrivano a prevalere persino sulla volontà del legislatore costituzionale. 63 R. CHIARELLI, op.cit., p. 274.

64 Concordano sul rischio di «invasività delle funzioni di tutela rispetto a quelle di gestione e valorizzazione» anche M. AINIS, M. FIORILLO, op.cit., pp. 129-130; G. VOLPE, op.cit., p. 320 ricorda che le

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Giova rammentare a questo proposito che la Costituzione del 1948, con gli artt. 117 e 118, aveva affidato formalmente alle Regioni la sola competenza legislativa (e le corri-spondenti funzioni amministrative, che si sarebbero però dovute delegare agli enti locali) in materia di «musei e biblioteche di enti locali»65; in seguito, la legge e gli Statuti66 ne hanno ampliato non poco l'azione, estendendola agli ambiti della promozione, della gestione e persino (aspetto sovente trascurato dagli stessi addetti ai lavori) della tutela dei beni librari, in seguito al trasferimento alle Regioni delle relative Soprintendenze67. Coerentemente, l’art. 7 del Codice ribadisce oggi che spetta alla legislazione nazio-nale (cioè al Codice stesso) fissare i principi fondamentali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale, vincolando in questo modo la potestà legislativa regionale, che dovrà essere sempre esercitata nel rispetto di tali principi68; quanto all’attuazione amministrativa, si ribadisce che il «Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali devono perseguire69 il coordinamento, l’armonizzazione e l’integrazione delle attività di valorizzazione dei beni pubblici», in attuazione del principio costituzionale di leale collaborazione ex art. 120 Cost.70. Altri principi fondamentali, sempre nella prima parte del Codice, scaturiscono dall’art. 6 che, nel fornire una nuova e in parte diversa definizione di valorizzazione del pa-trimonio culturale71, afferma che essa «consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, anche da

Regioni hanno solo in parte rinunciato a «una lotta di mezzo secolo» con cui era rivendicata nei confronti dello Stato la competenza in materia di tutela.

65 G. VOLPE, op.cit., p. 372-374, ricorda che gli artt. 47 e 49 del d.p.r. n. 616/1977 avevano este-so tale concetto a musei e biblioteche «comunque di interesse locale», nonché a «istituzioni culturali di in-teresse locale operanti nel territorio regionale e attinenti precipuamente alla comunità regionale».

66 Si vedano i relativi articoli riportati in G. VOLPE, Il governo dei beni culturali, Genova, ECIG, 1996, pp. 52-54; sui riferimenti alla cultura negli stessi Statuti dopo la loro recente revisione, imposta dalla l. cost. 22 novembre 1999, n. 1, cfr. G. VOLPE, Manuale, cit., p. 377; C. TUBERTINI, I beni e le attività culturali nei nuovi statuti regionali, in Aedon, (2) 2005.

67 Ai sensi del d.p.r. n. 3/1972, art. 8: «Le soprintendenze ai beni librari sono trasferite alle Re-gioni a statuto ordinario nel cui territorio hanno sede. Le soprintendenze stesse cessano contempora-neamente dall’esercitare le loro competenze sul territorio di altre Regioni».

68 Per una rapida disamina della legislazione regionale ante riforma del Titolo V si veda G. MARCHI, I beni, cit., p. 3, che pone in rilievo la «disomogeneità che emerge nelle previsioni delle diverse regioni», con particolare riferimento alla «mancanza di organicità nelle disposizioni regionali in materia di beni e attività culturali».

69 L’uso di questo termine potrebbe essere sintomatico delle perduranti perplessità del legislatore statale circa l’effettiva possibilità di immediata e agevole attuazione della norma.

70 Come vedremo meglio infra, il d.lgs. n. 156/2006 è intervenuto sull’art. 112 c. 4 al fine di completare quello che viene definito un «sistema integrato di valorizzazione», ex art. 7 c. 2: cfr. G. VOLPE, op.cit., pp. 299-300, il quale sembra ancora ritenere, nel rispetto della tradizionale concezione gerarchica, che spetti in primo luogo al Ministero operare «direttamente», d’intesa con altre entità statali, promuovendo gli accordi di cui agli artt. 2 e 112, e che «in mancanza di tali accordi» ciascuno possa limitarsi a «garantire la valorizzazione dei beni di cui ha comunque la disponibilità«; l’esperienza e la prassi amministrativa dimostrano che è soprattutto grazie all’autonoma iniziativa degli Enti locali, sostenuti dalla rispettiva Regione, che sono state possibili molte e importanti intese di valorizzazione, coinvolgendo anche i diversi apparati statali, nella più corretta ottica della sussidiarietà. Si veda anche B.L. BOSCHETTI, op.cit., pp. 218-219.

71 C. BARBATI, La valorizzazione del patrimonio culturale (art. 6), in Aedon, (1), 2004, secondo cui questa norma è «diventata il terreno per la ricerca di una difficile composizione fra le istanze e le ragioni espresse dal centro e quelle di cui si sono interpreti le autonomie territoriali, che nella valorizzazione e nella individuazione degli interventi in cui si estrinseca, riconoscevano l’ambito aperto alla loro azione».

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parte delle persone diversamente abili, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura». È evidente in questa formulazione il tentativo di ritagliare, rispetto alla più chiara

definizione del 1998, una configurazione della funzione “su misura” degli uffici ministeriali, che si guardano bene (salvo rari ed encomiabili casi) dal realizzare in modo concreto le non semplici attività in questione, mentre sono assai più interessati a disciplinarle attraverso l’esercizio di funzioni, che così possono tornare ad essere di natura autoritativa, in modo da imporsi in modo discrezionale – proprio come quelle di tutela – su eventuali iniziative giu-dicate eccessivamente autonomistiche (e quindi pericolosamente centrifughe), che dovesse-ro essere assunte da regioni, enti ed istituzioni pubbliche locali o, peggio ancora, dalle “te-mibili” realtà culturali private.

Eppure c’è sempre stata una generale condivisione, in primis da parte di Regioni ed enti locali, rispetto al concetto che la mise en valeur debba essere, in ogni caso, attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze; anzi è proprio in questo spirito che, malgrado una certa cautela, la Repubblica favorisce e sostiene anche la partecipazione dei soggetti privati, singoli o associati al rilancio e migliore utilizzo dei nostri beni culturali72.

Nondimeno, si sottolinea la scissione tra la volontà del Parlamento e del Governo pro tempore73 da una parte, e quella degli apparati burocratici del Ministero dall’altra; allorché questi ultimi hanno materialmente redatto e poi recepito il testo del Codice e i relativi stru-menti attuativi, hanno opposto una tenace e poco silenziosa resistenza passiva al cambia-mento, ed anzi talora l’hanno osteggiato in modo plateale.

Le specifiche disposizioni del Codice in materia sono successivamente accomunate dalla esplicita rubrica «Principi della valorizzazione dei beni culturali», dalla quale si può de-sumere che l’articolato testo derivante dal combinato disposto degli articoli da 111 a 12174, risulta la più dettagliata, puntuale e cogente definizione di cosa si debba effettivamente in-tendere per «attività di valorizzazione», nelle singole e puntuali istituzioni, realtà, situazioni e circostanze.

In questo senso, la maggiore attenzione va senz’altro dedicata al primo comma dell’art. 111, secondo il quale si definiscono e si pongono correttamente in evidenza, in quanto principi generali validi rispetto alla normativa regionale di attuazione, le seguenti fondamentali75 modalità di attuazione:

1) la costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti;

72 Appare particolarmente equilibrata e condivisibile la definizione (in un’ottica propriamente

manageriale) della valorizzazione come «capacità di avviare iniziative che consentano, in modo complementare e sinergico» di creare attorno al patrimonio culturale «autonome iniziative imprenditoriali che consentano l’attivazione di flussi economici e la creazione di ricchezza diffusa, per il miglioramento della qualità della vita della comunità tutta»: in F. DONATO, F. BADIA, op.cit., p. 4.

73 Mai come in questo caso l’azione dei ministri era stata univocamente bipartisan, come risulta facilmente riscontrabile per la circostanza stessa che le varie parti della riforma portano indifferentemente i nomi di Bassanini e Urbani, Melandri, La Loggia o Veltroni.

74 Si riportano di seguito le rubriche degli articoli del Capo II del Titolo II “Fruizione e valoriz-zazione”, che si possono ritenere significativi in tal senso: art. 112, Valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica; art. 113, Valorizzazione dei beni culturali di proprietà privata; art. 114, Livelli di qualità della valorizzazione; art. 115, Forme di gestione; art. 117, Servizi per il pubblico; art. 118, Promo-zione di attività di studio e ricerca; art. 119, Diffusione della conoscenza del patrimonio culturale; art. 120, Sponsorizzazione di beni culturali.

75 Non appare del tutto condivisibile il giudizio di L. CASINI, Valorizzazione e fruizione, cit., p. 481, secondo il quale ciò costituirebbe un minus quam rispetto all’iniziale inserimento tra i compiti fondamentali della Repubblica (art. 1 del Codice), come pure nei confronti della generale funzionalizzazione rispetto al miglioramento delle condizioni di fruizione.

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2) la messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali.

Il fatto che, pur essendo state trascurate, se non ignorate da quasi tutta la dottrina, siano proprio queste – a sommesso avviso di chi scrive – le disposizioni più rilevanti ai fini della soluzione dell’enigma di cui si stiamo occupando, risulterà comprovato nel prosieguo del presente studio, ed in particolare nella parte consacrata all’approfondimento della que-stione relativa ai tuttora poco studiati sistemi culturali metropolitani e territoriali.

Meritano ancora attenzione, come ulteriori esempi di norme a carattere generale, i commi 3 e 4 dell’art. 111, in quanto affermano i princìpi di «libertà di partecipazione, plura-lità dei soggetti, continuità di esercizio, parità di trattamento, economicità e trasparenza del-la gestione» nell’esercizio della valorizzazione ad iniziativa pubblica; la valorizzazione ad iniziativa privata viene invece riconosciuta come «attività socialmente utile», in quanto è ri-tenuta avente finalità di solidarietà sociale76.

Decisamente meno significative77, al fine di definire l’ambito e i principi che occorre prendere a riferimento, nell’esercizio delle competenze legislative regionali in materia di at-tività di valorizzazione, appaiono invece le disposizioni del Codice relative alle forme di ge-stione (art. 115) e ai «servizi di assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico» di cui all’art. 117, che non a caso erano stati inizialmente definiti solo come «servizi aggiuntivi».

Questo avveniva a dispetto del fatto che tra essi fossero state incluse e regolate in modo dettagliato78 le attività a carattere espositivo ed editoriale (in particolare le grandi mo-stre e i relativi cataloghi79), che hanno invece sin dal primo momento catalizzato l’interesse della dottrina e l’attenzione, non sempre disinteressata, degli addetti alla tutela statale, sen-sibili alle conseguenti opportunità di gratificazione scientifica e visibilità mediatica80, oltre

76 Ibidem, p. 217, la quale rileva in proposito che «dal momento che queste finalità sono spesso in contrasto con la libertà di godimento del proprietario, la disciplina in tema di valorizzazione dei beni culturali tende a comporre gli opposti interessi della proprietà e della collettività alla tutela e alla fruizione del patrimonio culturale, modulando le garanzie di pubblica fruizione e utilizzazione in ragione dell’appartenenza dei beni»; cfr. anche G. VOLPE, op.cit., pp. 300-301; sulla valorizzazione come funzione di utilità sociale R. CHIARELLI, op.cit., p. 254.

77 Che questo giudizio non sia condiviso da tutti è dimostrato dallo spazio dedicato a questo specifico tema in G. VOLPE, op.cit., pp. 307-318, che non ritiene di consacrare altrettante pagine del suo studio a tutte le altre complesse questioni inerenti la valorizzazione (pp. 297-307).

78 Alcune disposizioni particolarmente puntuali e analitiche sono evidentemente riferite ai soli istituti culturali direttamente gestiti dal Ministero, non costituendo certamente principi generali della legislazione regionale in materia, come nel caso del c. 3 dell’art. 117 («I servizi di cui al c. 1 possono essere gestiti in forma integrata con i servizi di pulizia, di vigilanza e di biglietteria») o quello ancor più evidente del c. 2 dell’art. 110: «Ove si tratti di istituti, luoghi o beni appartenenti o in consegna allo Stato, i proventi di cui al c. 1 sono versati alla sezione di tesoreria provinciale dello Stato, anche mediante versamento in conto corrente postale intestato alla tesoreria medesima, ovvero sul conto corrente bancario aperto da ciascun responsabile di istituto o luogo della cultura presso un istituto di credito. In tale ultima ipotesi l’istituto bancario provvede, non oltre cinque giorni dalla riscossione, al versamento delle somme affluite alla sezione di tesoreria provinciale dello Stato. Il Ministro dell’economia e delle finanze riassegna le somme incassate alle competenti unità previsionali di base dello stato di previsione della spesa del Ministero, secondo i criteri e nella misura fissati dal Ministero medesimo». Per chiarire la differenza, si consideri la norma di cui al c. 2 dell’art. 115, in base alla quale la gestione diretta degli istituti culturali (inclusi Archivi. Biblioteche e Musei civici e provinciali) deve essere svolta “per mezzo di strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico”, anche in considerazione della stretta connessione con le norme in materia di conservazione e tutela.

79 Sulle mostre come attività che sono state per molto tempo «a mezzo tra le funzioni di valorizzazione dei beni culturali e quelle di promozione delle attività culturali» (che oggi sono però disciplinate dal Codice in modo accorpato): cfr. B.L. BOSCHETTI, op.cit., p. 253.

80 Si da per scontato il fatto che, nell’esercizio delle funzioni di curatore di una mostra o di una

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che alle indubbie connessioni con l’effettivo esercizio delle indispensabili funzioni di con-trollo e di studio, finalizzate a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale81.

Resta da verificare come queste norme, concepite e scritte soprattutto avendo pre-sente il punto di vista statale (per la precisione, ministeriale) siano effettivamente applicabili a tutti i casi in cui le singole legislazioni regionali dovessero eventualmente adottare, nel corso del tempo – alcune lo hanno già fatto, ad esempio in tema di sistemi museali o di bi-blioteche82 – nuove e diverse norme di dettaglio, fermi restando i principi fondamentali di cui agli articoli 1, 6 e 7 del Codice83.

Estendendo infine l’analisi al ben più vasto ambito della legislazione in materia di turismo culturale, la Legge quadro nazionale del settore84 afferma (art. 1) che la Repubblica «tutela e valorizza le risorse ambientali, i beni culturali e le tradizioni locali anche ai fini di uno sviluppo turistico sostenibile», definendo questa norma come «principio fondamentale della politica del turismo» e mettendo in particolare rilievo a tal fine «il ruolo delle comuni-tà locali, nelle loro diverse ed autonome espressioni culturali ed associative», con particola-re riferimento alle associazioni Pro loco, la cui attività è regolata da fonti legislative regiona-li85.

Particolare interesse, a riprova della crescente rilevanza della valorizzazione, assu-me anche l’art. 3 della legge n. 77/2006 che, come si è visto supra, ha dettato “Misure spe-

pubblicazione, il singolo Soprintendente o funzionario ministeriale svolga un compito d’ufficio inscindibilmente connesso alla funzione di tutela e quindi non debba chiedere alcuna remunerazione agli organizzatori dell’attività di valorizzazione; ove si configurasse invece un’attività occasionale retribuita, si verrebbe a porre con tutta evidenza un conflitto di interesse (anche in riferimento all’autorizzazione ai prestiti) che consiglierebbe al Ministero il diniego della necessaria autorizzazione preventiva, di cui all’art. 53 del d.lgs. 165/2001, richiesta per «tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso».

81 Appare discutibile a questo proposito che l’art. 118 preveda invece la sola possibilità di svol-gere «anche con il concorso delle università» (cui spetterebbe un ruolo scientifico ben più autonomo e incisivo, nel rispetto degli artt. 33 c. 4 e 9 Cost.) la realizzazione, promozione e sostegno di «ricerche, studi ed altre attività conoscitive aventi ad oggetto il patrimonio culturale», che sono realizzate «anche congiuntamente» da Ministero, regioni e altri enti pubblici territoriali; secondo l’art. 119 c. 2 ( come mo-dificato dal d.lgs. 26 marzo 2008, n. 62), le «apposite convenzioni con le università» possano invece ri-guardare «l’elaborazione e l’attuazione di progetti formativi e di aggiornamento, dei connessi percorsi didattici e per la predisposizione di materiali e sussidi audiovisivi, destinati ai docenti ed agli operatori didattici». Cfr. B.L. BOSCHETTI, op.cit., p. 219.

82 Si possono citare a questo proposito alcune recenti leggi regionali, come la l.r. Liguria n. 33 del 31 ottobre 2006, la l.r. Marche n. 4 del 9 febbraio 2010, oppure la l.r. Toscana n. 21 del 25 febbraio 2010; anche in passato erano state approvate alcune importanti “leggi di sistema” a livello regionale, come quelle del Piemonte n. 78/1978 (biblioteche) e n. 31/1995 (ecomusei), oppure la l.r. Emilia-Romagna n. 29/1995 di riordino dell’IBC – Istituto regionale per i beni artistici, culturali e naturali.

83 Ciò risulta di particolare rilevanza con riferimento all’ambito dei servizi pubblici locali in ambito culturale, a loro volta oggetto di diverse norme statali e comunitarie, nella misura in cui venissero considerati come aventi rilevanza economica (in particolare nelle grandi realtà turistico-culturali) o per lo meno fossero definiti “contendibili”, ai fini della tutela della libertà di concorrenza; v. infra par. 3.2.5.

84 D.lgs. 29 marzo 2001, n. 135 di “Riforma della legislazione nazionale del turismo”, art. 1, c. 2 - lettere c) e g).

85 Ad esempio, in Piemonte, con la l.r. 7 aprile 2000, n. 36 che all’art. 2 ha attribuito a tali associazioni (oltre alle ben note funzioni nel campo dell’accoglienza turistica, che includono in special modo festeggiamen-ti e manifestazioni enogastronomiche) i compiti ed obiettivi di proporre alle amministrazioni competenti «il miglioramento ambientale ed estetico della zona e tutte le iniziative atte a tutelare le bellezze naturali», proprio al fine di «valorizzare il patrimonio culturale, storico-monumentale ed ambientale»; esse possono infatti (lett. b) «promuovere ed organizzare, anche in collaborazione con gli enti pubblici e/o privati, iniziative quali visite, escursioni, ricerche, convegni, spettacoli, (...) nonché azioni di solidarietà sociale, recupero ambientale, restauro e gestione di monumenti».

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ciali di tutela e fruizione dei siti italiani di interesse culturale, paesaggistico e ambientale, inseriti nella ‘lista del patrimonio mondiale’, posti sotto la tutela dell'UNESCO”: per assi-curare la conservazione dei più importanti siti italiani e «creare le condizioni per la loro va-lorizzazione», è infatti prevista la predisposizione e approvazione di appositi piani di gestio-ne, che definiscono in particolare le priorità di intervento e le relative modalità attuative86; sono regolati a tal fine gli accordi tra i soggetti pubblici istituzionalmente competenti alla predisposizione dei piani di gestione e alla realizzazione dei relativi interventi, sempre nel rispetto delle disposizioni del Codice87, aspetto che appare piuttosto strategico e problema-tico, su quindi torneremo ancora nel prosieguo dello studio.

In conclusione, sempre restando nel contesto legislativo nazionale, è utile conside-rare brevemente – a margine del discorso – la legislazione in materia di bilancio e di risa-namento dei conti pubblici; va infatti sottolineato come a fronte della ormai esaustiva legi-slazione nazionale in materia di valorizzazione culturale, resti tuttora in sospeso la questio-ne della sovrapposizione terminologica tra le norme appena richiamate del Codice e alcune disposizioni delle diverse Leggi finanziarie che, a partire dal 2002, avevano affidato prima ai Ministeri delle Finanze e della Difesa, e poi all’Agenzia del Demanio88, la dismissione, con-cessione onerosa o locazione di una serie di immobili demaniali, che sono stati per lo più

dismessi in particolare dall’amministrazione militare. Anche in tal caso, infatti, le attività e le procedure vengono definite di “valorizza-

zione”, nonostante che ai fini del Codice le uniche attività del Ministero per i Beni culturali (nel caso per nulla raro di rilevanza storico-architettonica, dei beni interessati), siano indub-biamente finalizzate al rispetto dei vincoli di tutela.

L’ambiguità di questa specifica accezione del termine, la cui valenza – da taluni re-putata “mercantile”, nella misura in cui allude al valore venale, piuttosto che a quello cultu-rale – traspare in qualche misura anche dal tenore degli articoli da 55 a 62 dello stesso Co-dice Urbani, può avere contribuito a porre in una luce negativa, agli occhi degli addetti ai lavori, l’intera attività di valorizzazione del patrimonio culturale, la quale ha certamente pre-supposti e finalità più ideali.

b. Promozione della conoscenza

Si è già detto della scarsa attenzione della dottrina, seppure con qualche rilevante eccezione, ascrivibile in particolare ad Ainis89, alla funzione di promozione della cultura, nonostante l’assoluto rilievo attribuitole dal dettato costituzionale; su questa base, si può anche capire come il termine sia restato a lungo privo di una definizione adeguatamente sintetica e di uso corrente fino al 199890.

A tal fine lo stesso Autore si è limitato a fare cenno all’adozione di «specifiche tecniche di incoraggiamento, quali l’erogazione di un premio, d’un contributo a fondo perduto, di una esenzione fiscale», che sono attivate – come in tutti gli altri casi di attuazione di norme costituzionali di natura premiale – al fine di propiziare i comportamenti indicati dalla norma ed in tal modo di «modificare l’assetto dei rapporti sociali»; non

86 Sul recepimento della Convenzione di Parigi del 1972 si richiama quanto già detto al par.

2.3.1, rimandando per il resto infra al par. 4.7 e al caso di studio. 87 Si rimanda a tale proposito a M. MACCHIA, La tutela del patrimonio culturale, cit., pp. 64 ss., e a

M. CARCIONE, Gestione dei siti culturali, cit., p. 215. 88 In seguito alla l. 27 dicembre 2006, n. 296, legge Finanziaria per l’anno 2007. 89 M. AINIS , Cultura e politica, cit., pp. 109 ss. 90 Cfr., fra tanti, G. VOLPE, op.cit., pp. 114-5; F. MERUSI, s.v. Articolo 9, cit.; V. CRISAFULLI, L.

PALADIN, Commentario breve alla Costituzione, Padova, Cedam, 1990.

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sarebbe infatti sufficiente, per definire un fenomeno così complesso, limitarsi ad affermare che «l’azione condotta dai poteri pubblici deve ridursi alla predisposizione dei soli mezzi materiali indispensabili al progresso della vita culturale, senza interferire con il suo libero sviluppo» 91. Forse ciò si riscontra proprio perché la promozione è percepita come una funzione culturale sui generis, caratterizzata appunto dal fatto che il suo esercizio è prerogativa degli enti locali e delle regioni, più che dello Stato (Ministero), ed in tale ambito più degli organi politici che di quelli tecnici.

Questo è vero tanto più se la si mantiene distinta, come è sempre avvenuto, rispetto alle fondamentali funzioni relative a conoscenza, educazione, formazione, istruzione, studio e ricerca scientifica92, che pure sono a loro volta basate, per una parte non trascurabile, sul sostegno “logistico” storicamente posto a carico degli stessi enti locali, in particolare per quanto attiene all’organizzazione delle attività e strutture necessarie al corretto esercizio di tali servizi93. Ma neppure collegare nel modo più esplicito e diretto l’attività di promozione della cultura a quella di educazione e istruzione, basta a rendere il senso di quell’intima connes-sione con la valorizzazione del patrimonio culturale stesso, che già Massimo Severo Gian-nini aveva lucidamente individuato – solamente quanto ai contenuti, dato che all’epoca il termine non era ancora in auge – e proposto con rara lungimiranza ai Costituenti, definen-do le arti, lo spettacolo e il turismo (ovviamente culturale) come «mezzi di educazione»94. Dunque per pervenire a una definizione sintetica della promozione è stato necessa-rio ancora una volta attendere il più volte citato art. 148 del decreto “Bassanini”, per il qua-le sulla base del combinato disposto dei punti f) e g) si deve fare riferimento a ogni «attività diretta a suscitare e a sostenere le attività culturali», quelle che sono cioè rivolte a «formare e diffondere espressioni della cultura e dell'arte».

Secondo il primo comma dell’art. 153 poi, anche in questo caso, così come avviene per le altre funzioni, «lo Stato, le regioni e gli enti locali provvedono, ciascuno nel proprio ambito, alla promozione delle attività culturali», mediante forme di cooperazione strutturali e funzionali. Le funzioni e i compiti di promozione comprendono in particolare, a norma del terzo comma dello stesso articolo, le attività concernenti:

- gli interventi di sostegno alle attività culturali mediante ausili finanziari, la predisposizione di strutture o la loro gestione;

- l'organizzazione di iniziative dirette ad accrescere la conoscenza delle attività culturali ed a favo-rirne la migliore diffusione;

- l'equilibrato sviluppo delle attività culturali tra le diverse aree territoriali;

91 M. AINIS, Cultura e politica, cit., pp. 21-22, che giudica infatti quest’ultima comune

interpretazione come «mistificante e nel migliore dei casi ingenua», se non è adeguatamente integrata appunto dalla corretta definizione del verbo promuovere; si vedano anche pp. 109 ss. e 243-244, ove la promozione culturale è considerata come un “valore”, dal momento che l’art. 9 non ha «provveduto quantomeno ad indicare le forme necessarie per l’esercizio di tale competenza».

92 Si segnala che per il d.lgs n. 204/98 di riordino del CNR, la ricerca scientifica in senso stretto – lungi dal costituire un ambito separato rispetto al mondo della cultura e dell’istruzione, come ancora oggi molti dimostrano di considerarlo – è finalizzata allo sviluppo della conoscenza.

93 Si pensi alla progettazione, realizzazione, gestione e manutenzione di edifici e laboratori scolastici, biblioteche, mense e convitti universitari, spazi per spettacoli, convegni e mostre, servizi di trasporto pubblici degli studenti e così via. F.S. MARINI, Lo statuto costituzionale della cultura, cit., p. 281 ricorda che la voce “organizzazione delle attività culturali” rientra nelle materie di legislazione concorrente ex art. 117 c. 3 Cost.

94 Allegato al verbale n. 36 del 15 giugno 1946: cfr. M.S. GIANNINI, I rapporti tra Stato e cittadini, cit., pp. 677 ss.

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- l'organizzazione di iniziative dirette a favorire l'integrazione delle attività culturali con quelle rela-tive alla istruzione scolastica e alla formazione professionale;

- lo sviluppo delle nuove espressioni culturali ed artistiche e di quelle meno note, anche in relazione all'impiego di tecnologie in evoluzione.

Oggi, però, il secondo comma dell’art. 1 del Codice ha ulteriormente complicato il quadro definitorio, avendo sancito che tanto la tutela che la valorizzazione «concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo svilup-po della cultura»; a sua volta, l’art. 6 afferma che alla valorizzazione è assegnato il «fine di promuovere lo sviluppo della cultura», per ribadire ancora una volta che tutte le nozioni in esame si identificano e si completano vicendevolmente. Ciò non toglie, tuttavia, che le attività di promozione incluse nella valorizzazione dei beni non esauriscano il quadro ben più ampio e articolato delle attività e modalità intese a perseguire lo sviluppo della cultura nazionale95. Ne consegue che, al di là di alcuni aspetti specifici e particolarmente mirati, nell’ambito della funzione de qua debbano intendersi in-cluse, con tutta evidenza, tutte quelle attività che servono a garantire nel concreto – in par-ticolare mediante contributi, sussidi e altre provvidenze – l’effettivo esercizio di quei diritti culturali96 che sostanziano la libertà di creare e diffondere la cultura e la conoscenza, e che si sintetizzano proprio nel termine “espressione”, ancora una volta formulato in modo im-personale invece che in termini di libertà individuale e collettiva, come sarebbe del tutto lo-gico attendersi con riferimento alla stretta correlazione tra l’art. 9 e gli artt. 21 e 33 della Costituzione, già evidenziata supra. Anche in questo caso, per proseguire il parallelo con la valorizzazione del patrimo-nio culturale, viene a porsi però il problema dell’organizzazione e gestione di strutture, an-che ad elevato tasso di tecnologia (nel caso della multimedialità e della rete web), di cui trat-teremo infra: è bene rilevare sin d’ora, tuttavia, che questo riferimento non è stato assolu-tamente evidenziato e contestato dalla dottrina, dal momento che, con tutta evidenza, non poteva avere nulla a che fare97 con la funzione ministeriale di tutela dei beni culturali. Così la funzione di garanzia del rispetto dei valore fondamentale del pluralismo cul-turale, della libertà dell’arte e della scienza, dell’autonomia delle istituzioni finalizzate all’insegnamento, alla ricerca e più in generale alla promozione culturale98, è invece insita

95 In questo dissentendo da A. CROSETTI, D. VAIANO, op,.cit., p. 24, dove si sostiene che la

nozione di promozione è stata integrata dal Codice (come quella di gestione) nell’unico e più ampio concetto di valorizzazione, sul presupposto dell’art. 3.

96 Si ricorda che ciò non riguarda solo i cittadini italiani, dal momento che ai sensi dell’art. 42 del d.lgs. del 25 luglio 1998, n. 286 gli enti locali devono «favorire la conoscenza e la valorizzazione delle espressioni culturali degli stranieri»; anche nell’ambito scolastico (art. 43) le differenze culturali devono essere intese come “valori”.

97 Questo secondo la concezione tradizionale, dal momento che nell’ambito della riforma del Ministero (d.lgs. 368/1998 e s.m.i., in ultimo con il d.p.r. n. 233/2007) sono state create nuove strutture istituzionali preordinate alla «promozione della qualità architettonica e urbanistica e dell’arte contemporanea» (art. 3 d.p.r. n. 173/2004), il ruolo statale nell’esercizio della funzione di promozione della cultura dovrebbe quindi essere rivendicato almeno con altrettanta forza rispetto a quello storico di tutela delle “Antichità e Belle arti”, cosa che invece non si è per nulla verificato, a riprova del fatto che gran parte delle rivendicazioni dell’indefettibile ruolo del Ministero e delle Soprintendenze a tutela della cultura nazionale è alquanto pretestuosa.

98 Sempre M. AINIS, Cultura e politica, cit., p. 30, pone in evidenza con efficace sintesi che l’incentivo culturale è «intrinsecamente selettivo: esso implica che venga preliminarmente individuata la sfera dei rapporti meritevole d’incoraggiamento; al tempo stesso occorre inoltre stabilire i criteri in base ai quali la misura di favore verrà distribuita». Chiunque abbia pratica dei metodi di assegnazione dei contributi economici in molti enti pubblici,specialmente medio-piccoli, sa che tale semplice e logica

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nella stessa previsione costituzionale di questa autonomia, la quale garantisce che nessun apparato governativo vi si possa ingerire per provare a svolgere una impropria funzione di “tutela delle attività culturali”, che in questo caso rischierebbe di assumere ben altri signifi-cati e risvolti problematici. 3.3. Connessioni e distinzioni rispetto alle altre funzioni

Avendo così completato la disamina delle competenze oggi demandate al sistema delle Regioni (con la competenza legislativa concorrente) e delle autonomie locali (per l’amministrazione e gestione), pur senza pretendere di averne esaurito e chiarito le molte sfaccettature ancora problematiche, per le quali si rimanda senz’altro a studi più specifici e approfonditi99, è ora possibile affrontare in modo conseguente100 e, se possibile, risolutivo la loro distinzione rispetto alla tutela, alla gestione e alla fruizione: funzioni, attività e finalità culturali che sono oggetto delle norme costituzionali e legislative già più volte richiamate, oltre che di un numero ormai esorbitante101 di studi da parte della dottrina giuspubblicistica; anche se non si pretende certo, con questo, di porre fine al dibattito sviluppatosi nel corso degli ultimi anni in modo assai ampio e controverso102

Rinunciando a definire problematicamente le altre categorie, enucleandole e distin-guendole in modo residuale rispetto alla tutela, si intende fare esattamente l’operazione inversa, dando per definitivamente acquisito ciò che pacificamente (anche a livello interna-zionale) si ritiene debba configurare l’attività di mise en valeur dei beni culturali, così come é concretamente esercitata al fine di incrementarne la fruizione. Successivamente, questa attività può essere connessa, logicamente e funzionalmente, da un lato alla gestione del patrimonio e dall’altro alla promozione delle attività culturali (tra le quali vanno incluse

affermazione è ben lungi dal trovare sempre un puntuale riscontro nella realtà dei fatti.

99 Si veda in particolare la più volte citata miscellanea, frutto di una vasta ricerca condotta dal Dipartimento Giuridico-Politico dell’Università di Milano: P. BILANCIA, La valorizzazione, cit., cui ha fatto seguito P. BILANCIA (a cura di), La valorizzazione dei beni culturali. Modelli giuridici di gestione integrata, Milano, F.Angeli, 2006. 100 Secondo F. DONATO, F. BADIA, op.cit. p. 8, nel passaggio da una visione astratta ad una più concreta e pragmatica «la distinzione netta tra i diversi orientamenti tende a venir meno ed emerge piut-tosto la loro complementarietà e sinergia», facendo risaltare quella che si definisce la sinergica combinazione dei due approcci intesi alla conservazione e alla valorizzazione. 101 F. PIZZETTI, Introduzione (Qualche riflessione al termine di una lunga ricerca), in P. BILANCIA, La valorizzazione, cit., p. 10, fa riferimento alla «tormentata vicenda» che sta conducendo alla «ricostruzione di equilibri, peraltro ancora instabili, che caratterizzano i rapporti e la ripartizione delle competenze», mentre a parere di G. VOLPE, op.cit., p. 302, né il nuovo Titolo V né il nuovo Codice riescono ad «attenuare l’ormai annosa conflittualità tra i soggetti istituzionali, nonché l’imbarazzo degli interpreti circa la corretta individuazione degli ambiti funzionali», citando a supporto le controverse sentenze della C.Cost n. 94/03, 9/04 e 26/03-04.

102 Alcune argomentazioni ed eccezioni proposte da parte della dottrina più legata alle concezioni tradizionaliste, dapprima per contestare la basilare distinzione tra tutela e valorizzazione, poi per negare la stessa esistenza di un’autonoma funzione di gestione, intendevano probabilmente trovare un sostegno teorico alla volontà dell’amministrazione centrale statale di resistere al “pericolo” di un eccessivo decentramento dell’apparato di gestione burocratica del patrimonio culturale nazionale (qui piuttosto nel senso di ministeriale). Non potendosi dubitare della competenza, viene da chiedersi se tali argomentazioni siano state davvero poste in buona fede, essendo difficile sostenerle sul piano giuridico, soprattutto da quando si pongono in aperto contrasto non solo con gli artt. 5 e 9, ma anche con il dettato del Titolo V della Costituzione, come riformato nel 2001.

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l’istruzione e le ulteriori forme di fruizione culturale)103; dopo di che non si ravvisa alcuna difficoltà nel definire, in ultimo ed in modo residuale, l’oggetto e le forme della tutela.

Quest’ultima funzione è l’unica, d’altronde, a essere stata codificata sin dalle prime leggi unitarie in materia, con norme estremamente chiare, analitiche e in molti casi tassative, che conferiscono agli istituti e alle procedure che competono in via esclusiva allo Stato sotto il profilo legislativo – ma che non per questo, come si vedrà tra breve, gli spettano sempre amministrativamente104 – quel carattere di tipicità che è proprio delle funzioni autoritative, vincolate per ciò stesso al principio di legalità105.

Il che non può invece affermarsi per le funzioni ed attività culturali già considerate, che sono certamente di pubblico interesse e utilità, ma restano del tutto prive di questa fondamentale prerogativa, tanto da poter essere pacificamente demandate anche a soggetti privati, in forme consensuali per nulla tipizzate.

a. Tutela

Nell’affrontare le problematiche poste dall’esercizio della funzione di tutela, è prima di tutto opportuno ribadire che non si intende in alcun modo mettere in discussione la sua necessaria priorità, che d’altronde deriva non tanto dalla lettera dell’art. 9 Cost., quanto semmai dal Codice, che la proclama nel modo più solenne ed esplicito sin dall’art. 1 c. 6, per il quale «le attività concernenti la conservazione, la fruizione e la valorizzazione del pa-trimonio culturale indicate ai commi 3, 4 e 5 sono svolte in conformità alla normativa di tu-tela»106. Ciò doverosamente chiarito, è possibile e opportuno evitare la contrapposizione concettuale tra conservazione e valorizzazione, condividendo in questo il suggerimento di Diego Vaiano, per il quale la tutela prevale secondo «criteri di compatibilità», posti a guida delle altre funzioni (in modo particolare della valorizzazione), in modo da «consentire la loro conciliazione»107: il che implica, evidentemente, di non attribuire più alcuna considerazione all’ipotesi inizialmente formulata dalla dottrina della sostanziale coincidenza108 tra la valorizzazione e la stessa tutela, su cui evitiamo senz’altro di ritornare.

103 V. NARDELLA, I beni e le attività culturali tra Stato e Regioni e la riforma del Titolo V della Costituzio-ne, in Dir. Pubb., 2002, p. 677, utilizza per descrivere la relazione tra i diversi livelli di competenza l’immagine dei «cerchi concentrici»: al centro la tutela, intorno alla quale si estendono sempre più ampie le altre competenze, sulla base di principi di autonomia e cooperazione. Cfr. G. VOLPE, op.cit., p. 375, no-ta 49.

104 Anche l’equivoco della necessaria corrispondenza tra competenza legislativa e amministrativa era stato a lungo giustificato in modo discutibile dalla dottrina (ma quasi mai adeguatamente motivato), fingendo di ignorare che già la lettera dell’art. 118 Cost. nella sua formulazione originaria andava nel senso del decentramento a livello regionale, provinciale e comunale, peraltro affermato dall’art. 5 come principio generale della Repubblica, valido dunque anche per il Ministero per i Beni e le Attività culturali, almeno fino a prova contraria.

105 Cfr. A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., p. 8. 106 Si ricorda che secondo la Sentenza della C.Cost. n. 9/2004, la tutela si sostanzia in un

«intervento sulla struttura materiale del bene», al fine di impedire che possa degradarsi. Cfr. PETRANGELI, op.cit., p. 53

107 A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., p. 124; l’assunto si basa sulla constatazione, che al di là delle polemiche nessuno ha mai posto davvero in dubbio, per la quale «nel rapporto tra sfruttamento economico e preservazione del bene, l’ordinamento privilegia chiaramente e senza indugi la seconda esigenza ed afferma la subordinazione delle attività di valorizzazione rispetto alle superiori esigenze della sua protezione dai rischi inevitabilmente collegati alla sua (eccessiva) esposizione e destinazione alla pubblica fruizione».

108 Per la ricostruzione dell’ampio dibattito sul punto cfr. in particolare A. CROSETTI, D.

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Così pure va sin d’ora colta e recepita la sollecitazione a evitare la scorretta, ma a lungo riproposta, commistione e sovrapposizione tra tutela e gestione109, su cui comunque torneremo brevemente infra. Ne consegue che il punto di equilibrio per la completa riconsiderazione (e, si auspi-ca, definizione) di tutta la vicenda che ha visto per oltre un decennio impegnati, ma non di rado contrapposti tra loro, esponenti delle istituzioni pubbliche, addetti ai lavori e opinioni-sti, con il concorso delle diverse scuole della migliore dottrina giuridica nel settore, può es-sere indicato nell’evidenza del fatto che, per dirla con Nicola Aicardi, la tutela “determina effetti limitativi della sfera soggettiva dei destinatari, nel presupposto di un contrasto, quan-to meno potenziale, tra il libero svolgimento delle situazioni soggettive degli stessi sui beni culturali e l’interesse pubblico a salvaguardarne il valore culturale” (avendo l’apposizione di vicoli o limitazioni un chiaro carattere autoritativo).

Le norme di valorizzazione, invece, «assecondano ed esplicano il valore culturale dei beni cui si riferiscono, attraverso la soddisfazione di situazioni soggettive di terzi, con-vergenti con detto valore», costituendo la base per la concessione di ausili o per l’accesso alla fruizione110.

Se si preferisce, mentre la valorizzazione «assicura dei vantaggi»111 che tutti richie-dono e normalmente apprezzano, la tutela è dai più concepita come un’ingerenza sgradita dello Stato nel diritto di proprietà, il che è abbastanza comprensibile nel caso dei privati, ma non di rado si deve riscontrare (cosa assai meno spiegabile) anche da parte delle ammini-strazioni pubbliche, in seguito alle limitazioni imposte dalle Soprintendenze nella realizza-zione di interventi sugli immobili o sui siti di loro proprietà o disponibilità112.

Avendo chiarito preliminarmente che non si intende in alcun modo porre in dubbio la prevalenza e preponderanza della funzione di tutela, rispetto ad ogni altra modalità di azione dei diversi soggetti pubblici e privati a beneficio del patrimonio culturale e paesaggistico nazionale, si può affrontare con altrettanto serenità e trasparenza quello che è stato autorevolmente definito il «rischio di invasività delle funzioni di tutela», sulla base della pretesa onnicomprensività delle competenze ministeriali113, che qualcuno è arrivato a definire come una sorta di «assolutismo illuminato» della tutela114. A ciò si aggiunga che, nel concreto, l’azione amministrativa statale non è affatto co-sì pervasiva, assoluta e incondizionata come si era tradizionalmente affermato da parte dei fautori di una concezione «totalizzante» della tutela115, e come qualcuno intenderebbe tutto-

VAIANO, op.cit., pp. 18-19; R. CHIARELLI, op.cit., pp. 159-161.

109 G. FAMIGLIETTI, op.cit., p. 258. 110 Cfr. N. AICARDI, L’ordinamento amministrativo dei beni culturali, cit., pp. 12 ss., oltre al già citato

N. AICARDI, Recenti sviluppi sulla distinzione, cit. Anche N. ASSINI, G. CORDINI, I beni culturali e paesaggistici, cit., p. 41 concordano sul fatto che ormai «il bene culturale non è più oggetto di semplice tutela statica».

111 Ibidem, p. 25, ove si pone in evidenza che ciò si può intendere riferibile tanto all’utente dei servizi di fruizione che al proprietario del bene culturale in questione. 112 Nondimeno, circa l’interferenza tra le esigenze della tutela e la recente tendenza alla delegificazione e semplificazione nelle procedure amministrative, si segnala che l’art. 1 c. 1 della l. n. 229/2003, recante modifiche all’art. 20 della l. n. 59/97 “Bassanini”, procedendo nella «eliminazione degli interventi amministrativi autorizzatori e delle misure di condizionamento della libertà contrattuale», ha chiarito che ciò è possibile solo «ove non vi contrastino gli interessi pubblici (...) alla salvaguardia del patrimonio culturale».

113 S. CASSESE, Trattato, cit., p. 1481. 114 Per R. CHIARELLI, op.cit., p. 160, un tradizionale argomento a sostegno di tale legittimazione è proprio «la complessa, ibrida ed equivoca fisionomia della valorizzazione».

115 Secondo N. AICARDI, L’ordinamento, cit., l’unanime più risalente dottrina riteneva che «con il termine tutela si potesse designare la generalità degli istituti e dei compiti inerenti ai beni culturali»; cfr. A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., pp. 18-19.

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ra far credere, aprendo così la strada non già alla discrezionalità (tecnica) ma addirittura all’arbitrio, sulla base dei gusti estetici o delle competenze specifiche di chi ha la ventura di istruire il procedimento di dichiarazione di un bene culturale, oppure di autorizzazione al-lorché si deve realizzare un intervento di conservazione116. La terza obiezione di fondo, ancor più fondata (benché meno sostenuta nel corso del dibattito sopra richiamato), sta nel fatto che malgrado la teoricamente esclusiva e indefettibile competenza statale a svolgere, in conseguenza della competenza legislativa, anche tutte le altre funzioni normative ed amministrative di tutela, queste stesse funzioni erano già state attribuite dai rispettivi Statuti ad alcune Regioni a statuto speciale117. Con la riforma del Titolo V, a maggior ragione, ciò è stato previsto anche per le Regioni a statuto ordinario, sulla base di intese: in tal senso va l’art. 116, che rende possibili per le Regioni ordinarie «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti non solo le materie di cui al terzo comma dell'articolo 117» (tra cui c’è, come noto, la valorizzazione dei beni culturali), ma soprattutto nella materia indicata dal secondo comma del medesimo articolo alla lettera s), cioè proprio la «tutela dei beni culturali»; anche l’art. 118 c. 2, poco considerato e attuato, dispone a sua volta in materia di «forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali», che anzi non sono necessariamente limitate (dato il tenore letterale della disposizione) esclusivamente a Stato e Regioni, tassativamente citate solo nella prima parte del testo118.

Tutto ciò potrebbe dunque avvenire in futuro, superando una volta per tutte l’affermata esigenza di garantire prioritariamente, attraverso l’azione statale, l’interesse nazionale alla conservazione del patrimonio culturale e i relativi livelli essenziali di fruizione; dunque la concreta garanzia di questi ultimi non verrebbe più considerata dallo stesso Costituente (così come avviene ad esempio in campo sanitario) di stretta e necessaria pertinenza dello Stato, neppure a livello legislativo, fatta salva beninteso la loro sola «determinazione» ex art. 117 c. 2 lett. m). D’altronde, coloro che hanno criticato e contestato quest’ultimo “attentato” alla sacralità della tutela del patrimonio culturale nazionale, dimenticano che già sin dagli anni ’70 le Regioni ordinarie esercitano pacificamente la tutela a livello amministrativo con riferimento ai beni librari119; ciò ha determinato un cortocircuito logico e tecnico-giuridico difficilmente giustificabile rispetto a tutte le affermazioni di principio ricordate, tanto più che il patrimonio librario ha costituito e costituisce ancor oggi il fondamento materiale della conoscenza e della ricerca scientifica120.

116 Secondo una singolare affermazione un Autore particolarmente vicino alla sensibilità degli

ambienti ministeriali come G. VOLPE, op.cit., p. 122, si arriverebbe a configurare come giustificabile, ed anzi normale, il fatto che la tutela venga in realtà esercitata «in misura proporzionata alla sensibilità del singolo funzionario».

117 Si segnala in particolare la Sicilia, che avendo legislazione esclusiva in materia di tutela, ai sensi della l.r. n. 80/1977, gestisce le soprintendenze regionali (nonché i musei, le gallerie, i siti e le pinacoteche) con tutte le relative procedure amministrative; anche in Val d’Aosta e in Trentino Alto Adige le soprintendenze (rispettivamente regionale e provinciali) per i beni e le attività culturali esercitano tutte le funzioni di tutela.

118 art. 118 c. 2 Cost.: «La legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’articolo 117».

119 Competenza esplicitamente ribadita dal nuovo art. 5 c. 2 del Codice (che prima non ne faceva cenno) a seguito del d.lgs. n. 156 del 24 marzo 2006, esercitabile quindi in materia di «manoscritti, autografi, carteggi, incunaboli, raccolte librarie, nonché libri, stampe e incisioni, non appartenenti allo Stato». 120 Il che rende ancora meno plausibile e comprensibile il fatto che la dottrina praticamente non se ne curi: cfr. però A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., pp. 12-15, che fanno cenno al fatto che le

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Analogamente si potrebbe (meglio, si dovrebbe) procedere, attivando le procedure previste dall’art. 116 Cost., per porre in capo alle Regioni ulteriori funzioni di tutela relative almeno alle “nuove” e ancora neglette categorie di beni culturali, riconosciute e definite agli artt. 10 e 11 del Codice121, cui si potrebbero forse aggiungere anche l’archeologia industriale e l’architettura contemporanea, di cui ben difficilmente le Soprintendenze territoriali possono e potranno in futuro farsi carico, per evidenti ragioni di carenza di risorse ad anche di professionalità specifiche. Analoghe considerazione si possono fare, a maggior ragione, per il vasto e ancora assai problematico tema della tutela del patrimonio immateriale, codificato dalla Convenzione UNESCO del 2003122.

Una volta definito con chiarezza in che misura (e dunque con quali limiti) le funzioni statali si possono ancora effettivamente considerare come prioritarie e preponderanti in rapporto a quelle decentrate, restano da definire i termini esatti delle competenze e delle attività che fanno capo ad altri non meno significativi aspetti della conservazione, vale a dire quelle attività previste dall’art. 29 del Codice: programmazione, manutenzione, conservazione e restauro che, come noto, costituiscono altrettanti punti dolenti del nostro sistema normativo, amministrativo e soprattutto organizzativo-gestionale di tutela dei beni culturali.

In passato la normativa nazionale si era sempre focalizzata sul generico concetto di tutela e, solo recentemente aveva distinto e definito in modo chiaro ed esplicito123 in cosa consistono specificamente le attività di conservazione e restauro. Ora il Codice prevede che «la conservazione del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro», il che tuttavia è ancora ben lungi dal potersi dire effettivamente garantito dalla pubblica amministrazione, anche con riferimento ai beni culturali demaniali, neppure quando sono affidati alla diretta gestione del Ministero per i Beni e le Attività culturali.

Particolarmente interessante, ai fini della definizione del ruolo degli enti locali e del volontariato nell’ottica della sussidiarietà, è la distinzione per la quale si deve intendere per prevenzione il complesso delle attività idonee a limitare le situazioni di rischio124 connesse al bene culturale nel suo contesto (c. 2), mentre per manutenzione si intende il complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale e dell’identità del bene e delle sue

Soprintendenze ai Beni librari «vennero semplicemente trasferite alle dipendenze degli enti territoriali minori», e che di conseguenza le relative competenze relative alla notificazione furono «almeno delegate alle Regioni», ma senza approfondire in alcun modo le motivazioni che già allora, senza alcuno specifico appiglio costituzionale, si ponevano alla base di un’eccezione così rilevante rispetto alla regola (teoricamente inderogabile) dell’attribuzione all’apparato statale della funzione di tutela.

121 Si segnalano, a titolo esemplificativo, le fotografie, con relativi negativi e matrici, le pellicole cinematografiche ed i supporti audiovisivi in genere, aventi carattere di rarità e di pregio, i siti minerari; le navi e i galleggianti, oppure le architetture rurali aventi interesse storico od etnoantropologico quali testimonianze dell’economia rurale tradizionale (art. 10, lett. e, i e l); così pure possono essere inclusi tra i beni culturali che ad oggi non arrivano a godere di particolare considerazione e tutela da parte degli uffi-ci periferici del Ministero anche (art. 11 lett. f, g, h, i) le documentazioni sonore o verbali di manifesta-zioni, i mezzi di trasporto, i beni e gli strumenti di interesse per la storia della scienza e della tecnica o le vestigia della Prima guerra mondiale (cui dovrebbero peraltro aggiungersi anche quelle della Seconda).

122 Ratificata dall’Italia con l. 27 settembre 2007, n. 167. 123 Art. 34 ss. del TUBC, d.lgs. n. 490/1999. 124 Particolare interesse riveste a tal fine la l. 19 aprile 1990, n. 84 in materia di “Piano organico

di inventariazione, catalogazione ed elaborazione della carta del rischio dei beni culturali” (Gazz. Uff., 26 aprile 1990, n. 96), la cui attuazione risulta ad oggi ben lungi dall’essere pienamente completata: cfr. G. VOLPE, op.cit., p. 175.

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parti (c. 3)125. Questo potrebbe dare luogo ad una ulteriore confusione e sovrapposizione di

competenze, dal momento che, stando al decreto “Bassanini”, la sicurezza rientrerebbe nell’ambito della gestione (art. 150 lett. c) e il suo miglioramento in quello della valorizzazione (art. 152 c. 3 a); non dovrebbe dunque costituire esercizio della funzione di tutela, pur restando ad essa subordinata, come tutte le altre attività di gestione e valorizzazione.

Se dunque vogliamo individuare, al di là delle consolidate e ben note procedure di dichiarazione (vincolo) e di autorizzazione all’effettuazione degli interventi di conservazione (salvo quelle che, come si è appena visto, sono già da tempo attribuite alle Regioni), un aspetto della funzione di tutela indubitabilmente spettante allo Stato, dobbiamo concentrare l’attenzione sull’attività ispettiva e di controllo, di cui agli artt. 18 e 19 del Codice126: una funzione di grande rilievo, che potrebbe e dovrebbe essere garantita in modo indifferenziato su tutto il territorio nazionale, da parte del personale qualificato delle diverse Soprintendenze, mentre costituisce ancora una volta un aspetto del tutto trascurato dalla dottrina, così come si deve riscontrare non di rado nella prassi amministrativa.

È infatti stabilito, in modo particolarmente puntuale ed esplicito, che la vigilanza sui beni culturali compete al Ministero127, fatta salva la sola possibilità che, quando si tratta di cose che appartengano alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali, lo stesso vi provveda “anche mediante forme di intesa e di coordinamento con le regioni medesime128. I Soprin-tendenti dovrebbero dunque procedere in ogni tempo, con preavviso non inferiore a cin-que giorni, fatti salvi i casi di estrema urgenza, ad ispezioni volte ad accertare l’esistenza e lo stato di conservazione o di custodia dei beni culturali129.

Si tratta dunque di una funzione che non solo appare essenziale per assicurare l’effettivo esercizio del potere statale di tutela del patrimonio, ma che opportunamente non è mai stato oggetto di richieste di ulteriore e maggiore decentramento130, benché si trattasse di uno degli aspetti per cui sono più evidenti le difficoltà organizzative e le carenze di risor-

125 Mentre il Codice specifica che «gli interventi di manutenzione e restauro (…) sono eseguiti

in via esclusiva da coloro che sono restauratori» (c. 6 dell’art. 29), nulla si dice in materia di prevenzione. Spetta comunque al Ministero definire le linee di indirizzo, le norme tecniche, i criteri e i modelli di intervento in materia, con il concorso delle regioni e con la collaborazione delle università e degli istituti di ricerca competenti (c. 5): dunque è indubbio che si tratta di materia che necessita di una puntuale regolamentazione amministrativa a livello nazionale e regionale, per consentire poi la concreta attuazione dei «modelli di intervento».

126 Cfr. A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., p. 17, pongono in evidenza la «soggezione ad un potere di intervento pubblico puntuale e penetrante» che, secondo un’affermazione di Ungari, porta a far sì che «il proprietario non può praticamente amministrarlo senza una diretta vigilanza dell’amministrazione», il che costituisce un obbligo di pati (dovere negativo di sopportazione). 127 PIZZORUSSO, Diritto della cultura, cit., p. 331; con riferimento alla necessaria titolarità pubblica

dei controlli: A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., p. 125; G. VOLPE, op.cit., pp. 197-198. 128 Questo comma è stato modificato dal d.lgs. 26 marzo 2008, n. 62.

129 Il Consiglio di Stato (Sez. Cons. per gli Atti Norm., parere n. 1354/02 del 1 luglio 2002) ha rilevato che per la vigilanza e il controllo, a tutela dell’autonomia dei privati garantita proprio dal principio di sussidiarietà, il legislatore deve individuare criteri di ragionevolezza e proporzionalità: cfr. G. VOLPE, op.cit., pp. 383-384.

130 Appare infatti opportuno evitare, per quanto possibile, le commistioni o le interferenze tra la politica e questo particolare genere di gestione tecnico-scientifica; anche se il TUEL sancisce in modo formale la separazione tra indirizzo politico e gestione dirigenziale, non c’è dubbio che tendenzialmente l’espletamento di attività ispettive e di controllo è più problematico nell’ambito delle amministrazioni locali (come si è dovuto constatare, ad esempio, in materia di lotta all’inquinamento e tutela dell’ambiente) piuttosto che nelle agenzie indipendenti o nelle strutture tecnico-burocratiche statali.

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se umane e strumentali ministeriali, a livello sia centrale che periferico. A queste mancanze aveva tentato di porre rimedio oltre un secolo fa, in modo assai

moderno e innovativo, la legge n. 386/1907 la quale nel creare la figura dell’Ispettore onorario gli attribuiva proprio il compito di «coadiuvare alla tutela»; il che avveniva per l’appunto vi-gilando, dando notizia alla Soprintendenza competente e promuovendo «i necessari prov-vedimenti», oltre a svolgere le ulteriori «incombenze che siano state loro commesse» dallo Stato.

Purtroppo, questa storica ed originale forma di sussidiarietà ante litteram, dopo avere assicurato per decenni, con alterne fortune, l’espletamento di tali compiti, è caduta in so-stanziale desuetudine131, paradossalmente proprio nell’epoca in cui il coinvolgimento attivo del volontariato e della società civile sta caratterizzando in molti ambiti la legislazione na-zionale recente, incluso il Codice dei Beni culturali132; il che costituisce un’ulteriore confer-ma del fatto che il Ministero non è propenso a farsi realmente carico di questa poco gratifi-cante (in quanto giudicata “poliziesca”, e quindi non abbastanza culturale133) ed assai onero-sa incombenza. b. Gestione

Come tutti i beni materiali, i beni culturali richiedono di essere gestiti (o amministrati, allorché si tratta di beni pubblici)134, cosa che appare difficilmente contestabile anche da parte dei più convinti assertori dell’unicità e onnicomprensività della nozione di tutela; peraltro, era stato lo stesso Ministero a sottolineare che il Codice aveva provveduto, giustamente, a eliminare la “confusa” nozione di gestione, in precedenza introdotta dal d.lgs. n. 112/1998, dal momento che «la gestione del bene culturale non è un’autonoma funzione, ma è l’insieme delle attività strumentali di tutela e valorizzazione»135 (ed anche, aggiungiamo noi, di promozione). Questa condivisibile precisazione fa finalmente giustizia delle posizioni della

131 In passato veniva inteso per lo più come gratificazione “onorifica”, da attribuire a esperti e

studiosi delle diverse discipline storico-artistiche; anche a seguito di casi di utilizzo improprio della qualifica da parte di singoli esperti, l’istituto è da tempo in declino.

132 Secondo l’art. 112, c. 9, per «regolare servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali», possono essere stipulati ulteriori accordi con «associazioni culturali o di volontariato, dotate di adeguati requisiti, che abbiano per statuto finalità di promozione e diffusione della conoscenza dei beni culturali».

133 Ancora una volta si deve constatare come la qualifica professionale del personale delle Soprintendenze abbia inciso pesantemente su queste scelte, dal momento che storici del’arte, architetti, archivisti o archeologi sono comprensibilmente assai più portati allo studio, alla ricerca, alla catalogazione e ad altre attività di valorizzazione, che non al poco stimolante e gratificante esercizio di mansioni amministrative, contabili, gestionali, tra cui c’è anche per l’appunto la verifica concreta sul territorio del rispetto delle normative in materia di tutela; ciò nonostante, gli stessi hanno sovente dimostrato di mal tollerare ed anzi rifiutare l’inserimento nei ruoli ministeriali di personale meramente amministrativo.

134 Il Consiglio di Stato ha provveduto a da tempo elaborare (Sez. VI, n. 561/1996) una com-pleta definizione a carattere generale della gestione, seppure non specificamente relativa ai beni culturali. 135 Cfr. G. VOLPE, op.cit., p. 302, nota 18; altrove si ribadisce che la gestione è «attività strumen-tale, finalisticamente neutra, che si connota quindi per essere in rapporto di propedeuticità sia con la tu-tela sia con la valorizzazione». Concorda sul punto anche F.S. MARINI, Lo statuto costituzionale della cultura, cit., pp. 280-281; R. CHIARELLI, op.cit., pp. 250-253 nell’individuare la ragione sostanziale del grande inte-resse per il tema della gestione del patrimonio culturale sottolinea che al di là di arte, estetica, identità e significati dei beni culturali (in precedenza trattati come una sorta di «reliquie»), oggi in ultima analisi conta più che altro la loro utilità economica.

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dottrina più rigidamente conservatrice, che in precedenza aveva insistito nel considerare la gestione come attività «riconducibile alla tutela», e dunque di esclusiva competenza statale al fine della garanzia della necessaria unitarietà136. La definizione cui si faceva riferimento era ancora una volta quella dell’art. 148, che individuava «ogni attività diretta, mediante l'organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali e ambientali, concorrendo al perseguimento delle finalità di tutela e di valorizzazione»137; il c. 4 dell’art. 150 faceva riferimento in particolare, all'autonomo esercizio delle attività concernenti:

- l'organizzazione, il funzionamento, la disciplina del personale, i servizi aggiuntivi, le riprodu-zioni e le concessioni d'uso dei beni;

- la manutenzione, la sicurezza, l'integrità dei beni, lo sviluppo delle raccolte museali138; - la fruizione pubblica dei beni, concorrendo al perseguimento delle finalità di valorizzazione.

Questa disposizione, mescolando e confondendo voci e materie che lo stesso decre-to legislativo aveva già incluso, volta per volta, anche nella valorizzazione (come la sicurez-za e i servizi aggiuntivi), con altre tipologie che sono indubbiamente proprie della gestione stricto sensu, come la disciplina del personale o la concessione dei beni, costituisce senz’altro uno dei passaggi meno felici del testo del 1998; dal che non è lecito, tuttavia, dedurre l’inesistenza o anche solo l’irrilevanza della questione, che anzi a giudizio di molti (e anche di chi scrive) ha costituito per molto tempo il vero punto debole dell’intero sistema, nella misura in cui vi si cercava una giustificazione teorica al mantenimento di musei, siti o istituti e luoghi139 della cultura (e del relativo personale non scientifico) nella diretta responsabilità amministrativa delle strutture ministeriali.

Ancora nel 2001, un atto formale140 della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome in materia di beni culturali aveva posto quale primo obiettivo delle attività di governo nazionale il fatto che queste avrebbero dovuto «prioritariamente rivolgersi non più all'amministrazione del patrimonio, che va decentrata e raccordata con la gestione delle au-tonomie locali in un ottica di valorizzazione, ma puntare ad un’attività di indirizzo, pro-

136 Si vedano i riferimenti a tali posizioni dottrinarie, come riassunti in CASSESE, Trattato, cit., pp.

1476-78; cfr. anche G. FAMIGLIETTI, op.cit., p. 283; G. VOLPE, op.cit., pp. 308 e 383. Anche F.S. MARINI, Lo statuto costituzionale della cultura, cit., p. 281, rileva che «tali sovrapposizioni erndono ancora più complesso il problema della competenza legislativa in materia di ‘gestione’. È infatti incerto se l’omessa previsione legislativa della gestione negli elenchi dell’art. 117 valga a farla rientrare nella competenza legislativa esclusiva della Regione». 137 Anche lo stesso G. VOLPE, op.cit., p. 379, normalmente assai critico in merito, reputa che sia «difficile e inopportuno» prescindere dalle nozioni ormai codificate dalla “Bassanini”; M. AINIS, M. FIORILLO, op.cit., p. 128.

138 Questa equivoca definizione può essere ammessa solo in quanto la si possa intendere riferibile, ragionevolmente, alla procedura amministrativa e contabile di acquisto o di acquisizione in deposito o donazione di opere d’arte o reperti, nell’ambito di una collezione museale, la cui conduzione scientifica, per il resto, ben difficilmente può sfuggire dall’ambito delle nozioni di tutela e valorizzazione.

139 Un interessante riferimento si può trovare in G. SANTANIELLO, Trattato, cit., pp. 164-178, che cita la gestione e protezione dinamica dei paesaggi culturali, in quanto necessaria per garantire uno sviluppo sostenibile dei “luoghi” e non solo dei singoli immobili a carattere monumentale.

140 Il documento approvato nella seduta del 25 ottobre 2001, partiva dalla premessa che nel cor-so dell’iter di revisione del Titolo V della Costituzione «le Regioni avevano già richiesto durante il dibat-tito che anche la tutela fosse considerata potere concorrente», come in effetti è già in materia di beni li-brari, nonché di paesaggio; nel documento si fa altresì riferimento a «quanto già approvato dalla “Confe-renza Stato, Regioni e Autonomie” circa l’impegno di Stato, Regioni ed Enti locali a garantire che la ge-stione di tutti i musei e degli altri beni culturali, prescindendo dalla titolarità della gestione, sia esercitata sulla base dell’Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei, ap-provato dalla Conferenza Stato, Regioni e Autonomie» e poi adottato con d.m. 10 maggio 2001.

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grammazione e controllo, che deve rivolgersi a tutti gli enti e concernere l'intero patrimonio culturale italiano, promuovendo a tal fine l'impiego degli strumenti della programmazione negoziata».

Successivamente la Corte Costituzionale, nel censurare la discutibile interpretazione del Ministero, intesa a sostenere che la gestione fosse da considerarsi interamente assorbita dalla tutela141, ha provveduto a fare chiarezza142, definendo il quadro costituzionale in mate-ria e ribadito che la gestione «è funzionale sia alla tutela che alla valorizzazione» 143.

Si ritiene tuttavia ancor più corretto, portando a compimento l’iter logico e argo-mentativo, richiamare ultimativamente l’assai condivisibile analisi di Aicardi144, il quale giunge alla conclusione che «la gestione, avendo come proprio scopo la valorizzazione, rien-tra in tale ambito materiale, mentre il rispetto delle esigenze della tutela rappresenta una condizione prioritaria posta al perseguimento, attraverso la gestione, delle finalità della va-lorizzazione».

3.4. Le competenze e le relazioni interistituzionali a. Chi governa la valorizzazione?

Una volta ridefinito il quadro delle competenze e delle funzioni pubbliche, si può affrontare il non meno complesso problema dell’individuazione dei soggetti istituzionali cui tali funzioni competono, nonché delle loro reciproche interrelazioni, ridefinite ormai dieci anni fa (anche in questo caso capovolgendo la concezione tradizionale) dalla riforma costi-tuzionale del 2001, in coerente attuazione del principio di sussidiarietà145. Va detto subito, tuttavia, che il Codice, pur essendo stato redatto e approvato pochi

141 N. ASSINI, G. CORDINI, I beni culturali e paesaggistici, cit., p. 44, ribadiscono che «la gestione dei

beni culturali da parte del Ministero non ha come scopo la loro tutela». Non appare infondato il sospetto che l’apparato statale intendesse più che altro negarne la temuta competenza esclusiva regionale, nell’intento di preservare lo status quo relativo alle strutture e al personale statale.

142 Con la fondamentale Sentenza n. 9 del 18 dicembre 2003-13 gennaio 2004; G. VOLPE, op.cit., p. 306 critica aspramente la Corte, sottolineando il fatto che essa nella decisione in esame «si spertica nelle definizioni di “tutela”, di “valorizzazione” e persino di “gestione” proprio mentre il nuovo Codice va sgombrando il campo da questo terzo ambito funzionale» (il corsivo è mio).

143 Quanto al fatto che il Decreto Bassanini del 1998 resti valido, sotto il profilo interpretativo e definitorio, anche dopo la riforma del Titolo V, la Consulta si è pronunciata in senso positivo con la Sentenza n. 26 del 19 dicembre 2003-20 gennaio 2004, proprio avendo presente la sua natura e finalità di legislazione sul conferimento di funzioni alle autonomie locali, dunque in piena coerenza con la successiva l.cost. n. 3/2001, il cui significato è definito come «sostanzialmente corrispondente» quanto alla vexata quaestio della distinzione tra tutela, valorizzazione e gestione: argomento che, peraltro, aveva già richiesto l’attenzione della Corte Cost. in occasione della Sentenza n. 94 del 26-28 marzo 2003. Si vedano i commenti di A.R. PELILLO, I beni culturali, cit., e di F.S. MARINI, Il riparto delle competenze in materia culturale, in Studi e interventi, Istituto di studi “Massimo Severo Giannini”, sito web www.issirfa.cnr.it. 144 Nel commentare il ben noto Parere del Cons.Stato, Sez. VI, n. 1794/2002, in N. AICARDI, Recenti, cit., p. 8; concordano sul fatto che la gestione «va ricondotta nell’ambito della valorizzazione» N. ASSINI, G. CORDINI, I beni culturali e paesaggistici, cit., p. 42.

145 Ampio spazio è stato dedicato dalla dottrina al tema del «governo dei beni culturali»: si veda ad esempio M. OROFINO, La ripartizione delle funzioni amministrative nel nuovo Titolo V della Costituzione con specifico riferimento al settore dei beni culturali, in P. BILANCIA, La valorizzazione, cit., pp. 63 ss.; G. VOLPE, op.cit., pp. 295 ss.; M. AINIS, M. FIORILLO, op.cit., pp. 146 ss.; M.A. CABIDDU, N. GRASSO, op.cit., pp. 23-59; sul quadro ante riforma cfr. in particolare M. AINIS , Cultura e politica, cit., pp. 251 ss.

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anni dopo la riforma, non appare prima facie impostato nel senso di recepire tale fondamentale innovazione; al contrario sin dalle norme di principio, quasi a voler ribadire la “specialità” della disciplina in materia di beni culturali, afferma (art. 1 c. 3) che «lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni assicurano e sostengono la conservazione del patrimo-nio culturale e ne favoriscono la pubblica fruizione e la valorizzazione»: disposizione alquanto sibillina, che è stata meglio specificata dall’art. 4, c. 1, in base al quale «al fine di garantire l’esercizio unitario delle funzioni di tutela146, ai sensi dell’art. 118 della Costituzione, le fun-zioni stesse sono attribuite al Ministero per i beni e le attività culturali» per quanto riguarda il patrimonio culturale, mentre per il sesto comma dell’art. 5 «le funzioni amministrative di tute-la dei beni paesaggistici sono esercitate dallo Stato e dalle Regioni (…) in modo che sia sem-pre assicurato un livello di governo unitario ed adeguato alle diverse finalità perseguite».

Ne consegue che il corretto livello di attuazione dei principi di sussidiarietà e ade-guatezza, i quali implicherebbero per loro stessa natura una pur minima flessibilità e adatta-bilità ai singoli contesti, è già stato definito preventivamente ex lege, senza tenere in alcun conto le forti istanze in senso contrario provenienti dalle Regioni; ferma restando però la tutela in materia paesaggistica (ma abbiamo visto che c’è anche quella per i beni librari) e fatta salva l’ulteriore eventuale applicazione della clausola di intesa di cui all’art. 118 c. 3 Cost147. In merito alla valorizzazione, la norma di principio codificata dall’art. 7 c. 2 è im-prontata e basata sull’azione comune, intesa a perseguire genericamente il coordinamento, l’armonizzazione e l’integrazione delle attività; il concetto è ripreso e ribadito dall’art. 112 c. 1. Quando però si scende nel dettaglio, si riscontra che:

- in materia di istituti e luoghi della cultura di appartenenza pubblica «lo Stato, e per esso il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali definiscono accordi», in assenza dei quali «ciascun soggetto pubblico è tenuto a garantire la fruizione dei beni di cui ha comunque la disponibilità» (art. 102 c. 4);

- in materia di valorizzazione «lo Stato, per il tramite del Ministero e delle altre am-ministrazioni statali eventualmente competenti, le regioni e gli altri enti pubblici ter-ritoriali possono costituire, nel rispetto delle vigenti disposizioni, appositi soggetti giu-ridici»148, in assenza dei quali «ciascun soggetto pubblico è tenuto a garantire la valo-rizzazione dei beni di cui ha comunque la disponibilità» (art. 112 commi 5 e 6);

- anche in altre situazioni specifiche, come nel caso delle attività di studio e ricerca di cui all’art. 118 («il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali, anche con

146 Vale la pena di ricordare che alla luce della Sentenza della C.Cost. n. 9/2004, la tutela si

dovrebbe esercitare in modo unitario sulla base del presupposto (alquanto immaginifico, in verità) della peculiarità dei beni culturali che costituiscono il patrimonio nazionale, i quali andrebbero «considerati nel loro complesso come tutt’uno»: cfr. PETRANGELI, op.cit., p. 54.

147 M. OROFINO, op.cit., p. 76, ipotizza che il concorso regionale nell’attività statale possa riguar-dare «funzioni non legate direttamente alla tutela del bene culturale in senso stretto (vale a dire all’imposizione di vincoli ed autorizzazioni) » come la conservazione o il restauro. In materia di attribu-zione delle competenze regionali e provinciali, prima e dopo la riforma del Titolo V, si vedano le senten-ze C.Cost. n. 343/1991 e n. 303/2003.

148 Ad essi si vorrebbe affidare l’elaborazione e lo sviluppo dei piani previsti e regolati al comma 4, cioè «accordi per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per elaborare i conseguenti piani strategici di sviluppo culturale e i programmi, relativamente ai beni culturali di pertinenza pubblica»: ciò in effetti avviene già in molti ambiti territoriali e tematici, tramite consorzi turistici, fondazioni o distretti culturali, anche se essi fanno riferimento ed operano essenzialmente in attuazione della legge quadro sul turismo (l. n. 135/2001), piuttosto che dell’art. 112 del Codice Urbani; a ciò si aggiunga la gestione dei siti UNESCO su cui si tornerà tra breve. Cfr. P.A. VALENTINO, Le trame del territorio, Politiche di sviluppo dei sistemi territoriali e distretti culturali, Milano, Sperling & Kupfer, 2003.

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il concorso delle università e di altri soggetti pubblici e privati, realizzano, promuo-vono e sostengono, anche congiuntamente»), oppure dell’art. 121 c. 1 relativo alla collaborazione con le fondazioni («il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici ter-ritoriali, ciascuno nel proprio ambito, possono stipulare, anche congiuntamente, pro-tocolli di intesa»), appare lampante che tutte queste forme di collaborazione vengo-no sempre concepite e configurate dal legislatore statale come meramente eventuali;

- in ultimo, proprio nella situazione di maggiore rilevanza ed interesse concreto, cioè quando si intende «regolare servizi strumentali comuni, destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali», il Codice (art. 112, c. 9) dispone ancora una volta che possono essere stipulati «accordi tra lo Stato, per il tramite del Ministero e delle altre amministrazioni statali eventualmente competenti, le regioni, gli altri enti pub-blici territoriali e i privati interessati”, con i quali “possono essere anche istituite for-me consortili non imprenditoriali per la gestione di uffici comuni”; per le stesse fi-nalità “ulteriori accordi possono essere stipulati dal Ministero, dalle regioni, dagli altri enti pubblici territoriali, da ogni altro ente pubblico (…), con le associazioni cultu-rali o di volontariato».

Dunque nel caso per nulla improbabile che non si intenda o non si riesca a rendere operativamente possibili le intese, si può tranquillamente fare a meno degli accordi o degli atti di costituzione di soggetti giuridici, la cui realizzazione d’altronde rimane del tutto even-tuale, in quanto rimessa alla buona volontà e alla spontanea (leale) collaborazione tra i di-versi livelli istituzionali149; «in assenza» della quale, ciascun Ente può limitarsi a operare nel proprio ambito al fine di perseguire, assicurare e garantire quanto richiestogli, senza che ovviamente, in caso di mancato conseguimento degli obiettivi della valorizzazione (in primis l’incremento di fruizione) ciò comporti alcuna conseguenza negativa.

Beninteso, la reciproca autonomia non è di per sè negativa, almeno in linea di prin-cipio, soprattutto nell’ottica dell’art. 5 Cost. e della garanzia del pluralismo culturale, il quale appunto «richiede pluralità di interventi pubblici reciprocamente indipendenti»150; lo aveva confermato la Corte Costituzionale, ancora prima della riforma del Titolo V, allorché in due importanti pronunce rilevava come «il fine della tutela (…) del patrimonio storico ed artistico nazionale sia imposto alla Repubblica, vale a dire allo stato-ordinamento e perciò, nell’ambito delle rispettive competenze istituzionali, a tutti i soggetti che vi operano»; il che deve avvenire «secondo un modello ispirato al principio di leale collaborazione: principio che, quando si tratti di attuare un valore primario, può acquisire (…) più ampie possibilità di applicazione»151.

149 La leale collaborazione per la C. Cost. n. 452/1989 si riferisce a procedure di intesa, mutua

informazione, obbligo di preavviso in caso di provvedimenti sostitutivi, consultazione reciproca, raccor-do tra i diversi livelli istituzionali; concetti poi ribaditi anche da C.Cost. n. 6/2004, che pone in evidenza la necessità di cooperazione anche per esercizio delle funzioni statali.

150 Secondo M. AINIS , L’intervento, cit., p. 145, solo la dislocazione di una pluralità di livelli di governo prevista dall’art. 5 Cost. è in grado di soddisfare pienamente il reale decentramento culturale; circa la garanzia delle esigenze unitarie a fronte di una pluralità di ordinamenti cfr. G. VOLPE, op.cit., p. 376, nota 52.

151 Si vedano le Sentenze della C.Cost. n. 94/1985 e n. 151/1986; nel primo caso la Corte partiva dal presupposto che il patrimonio storico ed artistico «costituisce un valore cui la Costituzione ha conferito straordinario rilievo, collocando la norma che fa carico alla Repubblica di tutelarlo tra i principi fondamentali dell’ordinamento», mentre nel secondo caso aveva affermato la «primarietà del valore estetico-culturale e della esigenza di una piena e pronta realizzazione di esso».

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b. Per una effettiva sussidiarietà in ambito culturale

Nel contesto odierno, l’istituzione investita dell'onere di assumere le valutazioni e di organizzare i procedimenti finalizzati non solo alla migliore conservazione, ma anche alla piena valorizzazione in primo luogo dei beni di proprietà statale ed in generale dei più im-portanti siti e complessi monumentali e paesaggistici, è ancora in primis il Ministero; a parti-re dalla riforma operata dal d.lgs. n. 368/1998, ciò avviene tramite la Direzione Regionale competente territorialmente, volta per volta supportata dalle diverse Soprintendenze di set-tore, che sono invece competenti ratione materiae.

Ad essa si affianca la Regione territorialmente competente, la quale se prima della riforma costituzionale152 aveva solo compiti in materia di musei e biblioteche di enti locali,

oggi come si è visto – in virtù dell’art. 117 c. 3 Cost. – esercita in concorso con lo Stato la propria competenza legislativa (cui corrispondono ancora, in molti casi, quasi tutte le com-petenze amministrative153) in materia di valorizzazione e promozione, coordinandola con le

competenze e funzioni in materia di istruzione e di governo del territorio; quest’ultima in-clude, a sua volta, la programmazione economica e la pianificazione territoriale in campo culturale154. La gestione amministrativa dei progetti di valorizzazione può essere eventualmente demandata, ancora secondo un discutibile ma consolidato meccanismo “a cascata”, alle Province, enti intermedi che, a partire dalla l. n. 142/1990, dovrebbero esercitare non po-che funzioni amministrative155 in materia, connettendo la stessa valorizzazione dei beni cul-

turali del proprio territorio ad una serie di competenze in ambiti strettamente connessi ad essa, come il turismo (e quindi la viabilità e i trasporti pubblici), l’edilizia scolastica, la for-mazione professionale e l’assistenza tecnico-amministrativa ai Comuni, senza trascurare la competenza relativa all’adozione del Piano territoriale di coordinamento156.

Nonostante la riforma operata dal nuovo Titolo V, tuttavia, le Province non si sono dimostrate in grado di assicurare l’esercizio unitario delle funzioni “di area vasta”, in tutti

152 Secondo la precedente formulazione dell’art 117 Cost., come attuato solo dal d.p.r. n.

616/1977; secondo G. VOLPE, op.cit., pp. 126-128, si faceva riferimento in realtà alle istituzioni di interes-se locale, dunque sulla base di un criterio ben diverso da quello adottato comunemente; secondo C.Cost. n. 921/1988, in applicazione del principio di legalità, il potere governativo di indirizzo e coordinamento posto a garanzia dell’interesse nazionale, deve essere espressamente previsto dalla legge V. anche G.C. DE MARTIN, Autonomie e policentrismo, cit., p. 407.

153 Si veda in proposito il giudizio di G.C. DE MARTIN, Un Ente, cit., p. 21, che sottolinea la necessità di spostare a livello provinciale gran parte delle funzioni amministrative attualmente allocate a livello regionale. Sul superamento anche in ambito culturale del parallelismo tra funzioni legislative e amministrative v. F.S. MARINI, Il riparto delle competenze, cit., p. 2 e G. PASTORI, Le funzioni dello Stato in materia di tutela del patrimonio culturale, in Aedon, (1) 2004, p. 3 il quale non esita a definire «sconcertante» l’atteggiamento statale, ed in particolare del Ministero competente.

154 A giudizio di M. AINIS, L’intervento, cit., p. 37, le peculiari caratteristiche dell’intervento cultu-rale pubblico offrono un ottimo argomento a favore della competenza regionale nel settore della cultura: i rischi di discriminazione si riducono sensibilmente grazie alla «concorrenza di più attori dotati di fun-zioni distinte, ma pur sempre convergenti».

155 Ora regolate dagli artt. 19 e 20 del TUEL. 156 A questo proposito si può ricordare l’art. 5 della Convenzione del 1972, inteso ad assicurare

la fruizione del patrimonio culturale e a garantire alle strutture di protezione e promozione i necessari finanziamenti e la disponibilità di personale appropriato, per il quale è prevista l’istituzione di Centri regionali di formazione professionale specializzati. Va sottolineato inoltre che il punto a) dello stesso art. 5 impone di prevedere l’integrazione della protezione del Patrimonio culturale e naturale nei programmi di pianificazione generale; anche in questo caso non appare del tutto improprio collegare questa disposizione con le ulteriori competenze regionali e provinciali in materia di programmazione territoriale (Piani provinciali di coordinamento e Piani paesistici).

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quei casi in cui esse non possono essere garantite in via primaria dai Comuni157; per questa ragione, esse non hanno saputo o potuto fino ad oggi assumere nel settore culturale (traen-do legittimazione dalle storiche funzioni in materia scolastica) una nuova centralità, facen-dosi carico del ruolo strategico di regia dello sviluppo locale e dei servizi a rete, che gli spet-terebbe a pieno titolo, quanto meno perché nessun altro livello istituzionale è stato sinora in grado di garantirlo.

A questo proposito non si può non rilevare come la parte dedicata a “Beni e attività culturali” (articoli da 148 a 156) del d.lgs n. 112/1998, tassello strategico della riforma Bas-sanini, sia stata recepita in modo non del tutto convinto, coerente e organico da tutte le Re-gioni allorché hanno dovuto attuarla adeguando la propria legislazione, attribuendo o dele-gando le competenze alle Province o agli altri enti locali. Esemplare in tal senso è la funzio-ne di coordinamento e promozione delle reti provinciali di servizi alla cultura158.

Questa debolezza, che fa venire meno una funzione istituzionale che pure è stata definita come «non surrogabile in campi decisivi per assicurare effettività ai principi costi-tuzionali sull’autonomia locale»159, contribuisce a fare sì che oggi l’ente torni ad essere anco-

ra una volta in bilico tra il rilancio come sede ottimale della governance e la definitiva sop-pressione.

Ci sono infine le competenze e funzioni amministrative che nel settore della cultura vengono storicamente e tradizionalmente esercitate dal Comune160, avendo però trovato so-

lo recentemente il più alto riconoscimento nell’art. 118 Cost. novellato; a dispetto della tut-tora scarsa considerazione da parte del Codice, tali funzioni locali risultano determinanti al fine di conseguire l’effettiva valorizzazione e l’efficace gestione del nostro patrimonio, so-prattutto per la loro fondamentale azione di cerniera nelle relazioni con le formazioni socia-li e di volontariato che operano a livello civico161.

157 In questo si sostanzia una delle maggiori necessità di differenziazione da Regione a Regione

della normativa di valorizzazione; è noto infatti che ci sono regioni in cui i “piccoli Comuni” hanno mediamente una popolazione di qualche decina di migliaia di abitanti (ad esempio in Emilia Romagna o in Puglia), mentre in altre – il Piemonte e la Liguria in particolare – la media scende all’ordine delle migliaia, ma sono del tutto consueti comuni con un centinaio di abitanti. A ciò si aggiungano le grandi differenze relative alle comunità montane, collinari o insulari, nonché alla prospettiva dell’eventuale costituzione di Città metropolitane, le quali come noto non sono presenti in tutte le realtà regionali.

158 In alcune regioni tale competenza è già stata da tempo attribuita o delegata al livello provinciale; in Piemonte invece è stato regolata solo con la l.r. n. 44/2000 e s.m.i., attribuendo appunto alle Province la relativa competenza; tale riforma è però restata a livello di principi, essendo tuttora in attesa delle necessarie norme di attuazione. Risultano avviati solo alcuni progetti-pilota di reti museali o ecomuseali, quasi mai esplicitamente riferiti però alla prima attuazione dell’art. 126: cfr E. ERCOLE, M. GILLI, G. BELLA, M. CARCIONE, Il progetto di sistema dei musei della Provincia di Alessandria: analisi della domanda e dell’offerta museale, in B. SIBILIO PARRI (a cura di), Creare e valorizzare i distretti museali, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 273-274.

159 G.C. DE MARTIN, Un Ente, cit., p. 22. 160 Dovrebbero con ogni probabilità essere riconosciute tra le funzioni comunali fondamentali,

ai sensi dell’art. 117 c. 2 lett. p); in questo senso va l’art. 2 della c.d. Carta delle Autonomie (d.d.l. “Individuazione delle funzioni fondamentali di Province e Comuni”, già approvato dalla Camera nel giugno 2010, ora A.S.2259) che riconosce ai Comuni anche compiti di conservazione dei beni culturali; parrebbe destinato invece a scomparire il riferimento alla competenza provinciale in materia di valorizzazione dei beni culturali, salvo intenderla rientrante nella più generica «organizzazione di servizi pubblici di interesse generale in ambito provinciale» (art. 3 lett f), mentre restano le competenze in materia di «valorizzazione dell’ambiente» e di servizi scolastici, seppure ancora limitati al livello di istruzione secondaria.

161 Anche se esistono istituzioni, associazioni e fondazioni culturali di ambito e respiro sovracomunale, la grande maggioranza di tali soggetti è costituito ed opera a livello comunale, a partire dalla storica e poco considerata rete delle quasi 6.000 associazioni Pro loco, cui fa esplicito riferimento

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Questo consolidato schema di relazioni interistituzionali, ha dato non poche buone prove, nelle situazioni ordinarie in cui è richiesta un’attività di tutela, valorizzazione e ge-stione nei confronti di realtà e strutture territorialmente circoscritte, essendo oggetto di ben definite competenze (come ad esempio il recupero di un singolo complesso monumentale o la realizzazione di specifici servizi culturali integrati in un’area metropolitana); esso tutta-via viene a complicarsi oltremodo nelle situazioni più articolate e complesse, che peraltro nella realtà italiana costituiscono la regola e non l’eccezione.

Mentre infatti per la gestione di un intervento di non grande complessità giuridico-istituzionale, circoscritto nel tempo e nelle modalità realizzative. come può essere appunto il restauro dei beni culturali pubblici, esiste un sistema consolidato di collaborazione tra i vari enti, secondo le procedure previste dalla l. n. 241/1990 e s.m.i. e dalla legge quadro su-gli appalti pubblici, non sono rari i casi in cui occorre ragionare in termini di valorizzazione e gestione di grandi siti o sistemi territoriali, quindi su un arco temporale di medio-lungo periodo162.

I più convinti fautori della indefettibile ed esclusiva competenza dello Stato a tutela-re, valorizzare e gestire tutto il patrimonio “nazionale”, si ostinano anche in queste situa-zioni a ritenere ottimale l’attuale quadro organizzativo, di gran lunga preferibile163 ad altre paventate soluzioni di decentramento o, peggio ancora, di privatizzazione. Eppure ad esso già da un decennio dovrebbe essere più correttamente riconosciuto un carattere residuale, perdurando solo fintanto che ciascuna Regione non sia ancora intervenuta legislativamente per modificarlo, adattandolo – sulla base di principi generali statali – alle proprie diverse esigenze, optando per un’altra delle possibili soluzioni normative, organizzative e gestionali realizzabili nella concreta realtà territoriale ed amministrativa italiana. A tale proposito, appare quanto meno sproporzionata l’attenzione dedicata, fino ad oggi, dalla dottrina alla questione della competenza legislativa – in particolare di quella esclusiva statale ex art. 117 c. 2 lett. s) – ponendo invece in secondo piano il problema del suo effettivo esercizio, a partire proprio dalla connessa riorganizzazione delle relative fun-zioni amministrative. Essendo stato ormai completato un Codice che detta tutti i necessari principi fondamentali in materia164, infatti, non c’è più ragione perché le Regioni non prov-

l’art. 1 c. 2 g) l’art. della legge quadro nazionale sul turismo n. 135/2001 («La Repubblica (….) valorizza il ruolo delle (…) associazioni pro loco»); il tentativo di Soprintendenze e Regioni di instaurare relazioni dirette con esse, facendosi rispettivamente forza da un lato della funzione di tutela e dall’altro della capacità di finanziamento dei progetti, si scontra quasi sempre con la difficoltà di mantenere un rapporto costante e diretto, tanto a livello progettuale che di controllo ex post, che nella pratica amministrativa non di rado finisce per essere ridotto (sulla base non tanto delle poche norme statali, ma soprattutto della ricchissima legislazione regionale di settore) a una serie di meri adempimenti burocratici e formali.

162 È questo il caso della procedura utilizzata, non a caso, come study case della presente ricerca, la quale ci offre il catalogo completo di queste problematiche, consentendo la chiara dimostrazione delle ragioni tecniche, organizzative, ma anche legislative ed amministrative che stanno alla base di molte delle difficoltà in cui continua a dibattersi il patrimonio culturale nazionale, nonostante quasi vent’anni di ri-correnti riforme.

163 Appare chiaro a chiunque conosce il mondo della cultura italiana, che tutte le clamorose polemiche e prese di posizione da parte ministeriale e degli intellettuali più in vista avevano in realtà come oggetto esclusivo il patrimonio culturale delle grandi città d’arte o di alcuni tra i più significativi siti monumentali iscritti al Patrimonio mondiale (certo non tutti, basti pensare a Crespi d’Adda o alle Cinque Terre): costoro evidentemente ignorano o fingono di dimenticare la triste realtà di abbandono da parte dello Stato di quel patrimonio diffuso, di cui peraltro non si manca in altre occasioni e ad altri fini di magnificare l’unicità e l’importanza storico-artistica, magari per denunciarne il generale stato di degrado.

164 Ai sensi dell’art. 7 c. 1: «Il presente codice fissa i princìpi fondamentali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale. Nel rispetto di tali princìpi le regioni esercitano la propria potestà legislativa».

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vedano ad esercitare le loro competenze, iniziando a differenziare sulla base delle rispettive disposizioni legislative e regolamentari – se ed ove necessario – anche le strutture e le pro-cedure organizzative e amministrative, ben più di quanto sia già avvenuto dagli anni ’70 ad oggi. Ciò comporterebbe, evidentemente, anche una drastica e radicale riconsiderazione di tutto il complesso sistema di uffici e strutture amministrative, oggi ancora statali, nella misura in cui non esercitano reali competenze di tutela: dunque potrebbe e dovrebbe (come già previsto dall’inattuata riforma “Bassanini”) diventare provinciale o comunale la compe-tenza a gestire, eventualmente ancora sotto il controllo e la direzione scientifica delle Soprin-tendenze, quasi tutti i musei e siti monumentali165, palazzi, chiese e fortezze, per arrivare, sull’esempio francese, sino agli archivi di Stato. Dal fatto che su tale questione il dibattito è inferiore solo alla concreta attuazione, si può dedurre, in ultima analisi, che essa mantiene ancor oggi un significato lato sensu politi-co166, magari con l’intento di trarne il fondamento e la giustificazione per il mantenimento in essere della correlata competenza amministrativa e gestionale del Ministero su un rilevan-te numero di beni e istituti culturali nazionali; il che costituisce da sempre l’autentica vexata questio, per le ben note (ma non per questo condivisibili) ragioni burocratico-sindacali, di entità del bilancio, di consenso e prestigio ministeriale. Ed è soprattutto per dare riscontro a queste istanze, insieme a quelle, certo più no-bili ma altrettanto velleitarie, legate ad una presunzione di ottimale difesa dell’identità cultu-rale nazionale167, che per decenni si è opposta una strenua resistenza ad ogni ipotesi di ulte-riore regionalizzazione o privatizzazione del settore168.

Dunque ancora sussiste, dieci anni dopo la riforma del Titolo V, una notevole di-stanza tra il modello teorico di relazioni istituzionali e la realtà amministrativa; non appare improprio sostenere che la riorganizzazione delle competenze e la riattribuzione delle fun-zioni amministrative tra i diversi livelli di governo, e tra essi e i privati, costituisce ancora il principale (anche se non l’unico) ostacolo al conseguimento dell’effettiva valorizzazione del patrimonio culturale italiano: un ostacolo di carattere sistematico, che assume dunque un evidente valore strategico.

Il Codice non ha risolto queste difficoltà in modo convincente e pienamente rispet-toso dell’autonomia degli enti locali; lo si può costatare considerando, ad esempio, come la legge statale pretenda di stabilire puntualmente che cosa e come essi «possono» fare in sede di accordi non solo con lo Stato e la Regione, ma anche tra di loro e con i loro stessi citta-

165 L’unica eccezione potrebbe forse essere costituita, in considerazione della necessaria

proprietà statale dei beni immobili e mobili, dai siti archeologici, per i quali tuttavia nulla osterebbe a una delega da parte delle Soprintendenze delle sole funzioni di valorizzazione e gestione (in particolare per i servizi aggiuntivi).

166 Ad esempio F. PIETRANGELI, op.cit., pp. 42-48, ritiene che «tra le modifiche che la l.cost. n. 3/2001 ha apportato al Titolo V della Costituzione, la profonda riorganizzazione della funzione legislativa è ovviamente una delle più significative» anche in tema di beni culturali, dal momento che «si colloca entro questo contesto in maniera del tutto particolare», risultando diviso in «due submaterie».

167 G. VOLPE, op.cit., pp. 114 e 372, sottolinea che l’art. 9 Cost. non offre alcun criterio di distinzione, neanche per il riparto di competenze tra centro e periferia, e segnatamente tra amministrazione statale e regioni, privilegiando «l’importanza di un buon raccordo delle competenze piuttosto che di un loro netto riparto, così da scongiurare ogni litigiosità tra diversi livelli amministrativi».

168 F. PIZZETTI, Introduzione, cit., pp. 11-13, fa riferimento al fatto che ciò suscita «reazioni emotive e istinti» sia da parte degli apparati burocratici ministeriali che di quella parte della cultura del Paese che è «radicata nell’ambito della tradizionale gestione del settore» (magari, si potrebbe aggiungere, nell’esercizio di nobili e assai ben remunerate mansioni di progettista, restauratore, consulente o curatore di mostre e musei nazionali).

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dini, singoli o associati. I rapporti interistituzionali regolati dall’art. 112 del Codice, come modificato nel 2006, dovrebbero infatti sottostare alle disposizioni del quarto comma in materia di accordi strategici in ambiti territoriali definiti – che «possono» coinvolgere anche privati e settori produttivi – e del comma 9, il quale entra pesantemente nel merito degli ac-cordi regolanti i «servizi strumentali comuni» di fruizione e valorizzazione, arrivando addi-rittura a prevedere in modo puntuale che si utilizzino «forme consortili non imprenditoriali per la gestione di uffici comuni»169.

In questa nuova prospettiva, assume un particolare rilievo e interesse ricordare quanto già visto supra circa i diversi procedimenti relativi alla candidatura dei siti alla Lista del Patrimonio mondiale UNESCO, da momento che proprio all’art. 112 del Codice rinvia espressamente (anche quanto a forme e modalità) l’art. 3 c. 3 della l. n. 77/2006, ai fini della regolazione di specifici accordi in materia di adozione dei piani di gestione dei siti candidati o iscritti alla Lista internazionale; si tratta dunque di uno dei rari casi170 in cui l’accordo (di programma) può essere per lo meno considerato, pur in assenza di un esplicito obbligo, come la forma normalmente richiesta per l’adozione di questa particolare categoria di stru-menti di valorizzazione culturale e paesaggistica171.

c. Un nuovo criterio di amministrazione

Nelle nuove legislazioni regionali di valorizzazione culturale e paesaggistica172, quin-di, potrebbe essere codificata e incentivata, ai fini dell’avvio e della gestione dei progetti e delle iniziative, l’adozione di un nuovo e generale criterio di priorità, cui dovrebbe improntarsi l’azione amministrativa già a partire dalle attività di indirizzo, consultive e programmatorie poste in essere dagli organi politico-istituzionali; coerentemente, lo stesso criterio dovrebbe essere adottato nella riorganizzazione di tutte le procedure amministrative finalizzate alla proposta e alla progettazione degli interventi e delle attività, alla comunicazione agli interes-sati, alla conclusione di accordi o concertazione, con l’eventuale attribuzione ed erogazione di finanziamenti, fino ad arrivare alla valutazione comparativa degli interessi pubblici e pri-

169 Ad integrazione delle norme già riportate all’inizio del paragrafo, si ricorda che per l’art. 5 del

d.lgs. 42/2004 e s.m.i. gli enti pubblici territoriali «cooperano con il Ministero nell’esercizio delle funzioni di tutela», rimandando a specifici accordi o intese che possono prevedere «particolari forme di cooperazione con gli altri enti pubblici territoriali» mentre, sempre con formulazioni alquanto generiche, secondo l’art. 6 la Repubblica – che in questo caso dovrebbe essere intesa del senso più ampio del termine – «favorisce e sostiene la partecipazione dei privati, singoli o associati, alla valorizzazione del patrimonio culturale».

170 L’accordo di programma è previsto anche per l’adozione dei piani di gestione dei SIC (siti interesse comunitario), di cui alla “Direttiva Habitat” n. 92/43/CEE e all’art. 4 c. 2 del relativo regolamento di attuazione (d.p.r. 8 settembre 1997, n. 357 e s.m.i.).

171 L. n. 77/2006, art. 3. (Piani di gestione): «1. Per assicurare la conservazione dei siti italiani UNESCO e creare le condizioni per la loro valorizzazione sono approvati appositi piani di gestione. 2. I piani di gestione definiscono le priorità di intervento e le relative modalità attuative, nonché le azioni esperibili per reperire le risorse pubbliche e private necessarie, in aggiunta a quelle previste dall’articolo 4, oltre che le opportune forme di collegamento con programmi o strumenti normativi che perseguano finalità complementari, tra i quali quelli disciplinanti i sistemi turistici locali e i piani relativi alle aree pro-tette. 3. Gli accordi tra i soggetti pubblici istituzionalmente competenti alla predisposizione dei piani di gestione e alla realizzazione dei relativi interventi sono raggiunti con le forme e le modalità previste dal decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42».

172 Le regioni stanno procedendo, proprio in seguito alla riforma del Titolo V, alla predisposizione e approvazione di nuove leggi o T.U. regionali in materia di cultura e di sistemi culturali: cfr. ad es. la l.r. Liguria n. 33/2006.

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vati potenzialmente confliggenti, anche al fine di prevenire un possibile contenzioso. Questo criterio, fortemente improntato alla sussidiarietà, che ancora non sembra

trovare adeguati riscontri nella normativa e nelle prassi amministrative generalmente riscon-trabili – non solo nell’ambito culturale – si potrebbe così configurare:

1) in primo luogo, e sin dal primo momento, andrebbero considerati gli eventuali pri-vati173 proprietari o gestori dei siti o monumenti interessati, in quanto debbono es-sere coinvolti e resi attivamente partecipi (come recita il comma 4 dello stesso art. 118) nella loro veste di «cittadini, singoli e associati», che svolgono «attività di inte-resse generale», e dei quali, sempre in ossequio al principio di sussidiarietà orizzon-tale, dovrebbe essere favorita «l’autonoma iniziativa», evitando di considerarli come soggetti meramente passivi – se non antagonisti – dell’attività di tutela e valorizza-zione; con essi vanno coinvolte le istituzioni174 e associazioni culturali, ambientali, di promozione turistica, ecc., in quanto rappresentative della comunità, ed anche le aziende del territorio, quando interessate175;

2) allo stesso modo e nello stesso tempo dovrebbero essere presi in considerazione i Comuni, i quali sin dall’inizio dei processi devono essere posti in condizione di esercitare la fondamentale funzione di rappresentanza degli interessi e di promozio-ne dello sviluppo della comunità locale, che storicamente e istituzionalmente com-pete loro, ad esempio nel caso dei sistemi museali civici176; sullo stesso livello si col-locano le varie forme di convenzioni, associazioni o consorzi intercomunali, della più varia natura e finalità;

3) la Provincia e gli altri enti locali intermedi (ove costituiti), andrebbero coinvolti in quanto e nella misura in cui risultasse necessario – cosa che normalmente avviene nella costruzione di reti e sistemi territoriali di ecomusei, biblioteche, archivi o aree archeologiche – rappresentare e tutelare, a partire dal livello politico, gli interessi e le esigenze unitarie e comuni all’area (vasta) interessata, mediante azioni e strumenti di coordinamento, pianificazione e sviluppo del territorio177;

173 Naturalmente rientrano in questa definizione anche associazioni, fondazioni e altri soggetti

che a vario titolo possono ideare, realizzare e promuovere un progetto di valorizzazione del patrimonio culturale senza che le istituzioni pubbliche siano direttamente coinvolte, se non eventualmente come finanziatrici; si possono citare ad esempio i circuiti di visita a castelli e residenze private aderenti all’ADSI, oppure le molte iniziative di associazioni nel settore della musica, della storia locale o dell’arte contemporanea.

174 L’esempio più rilevante anche dal punto di vista qualitativo (sia del patrimonio posseduto che delle risorse organizzative e tecniche utilizzate) è costituito dalla rete delle Diocesi, le quali grazie al sostegno della CEI hanno sempre svolto in Italia una efficace azione di valorizzazione dei beni culturali religiosi e dell’arte sacra, con particolare attenzione per temi storicamente trascurati dalle strutture statali come la catalogazione o la sicurezza.

175 Ad esempio quelle che si occupano di servizi culturali e didattici, turismo o artigianato tipico, come è peraltro previsto dallo stesso Ministero, giustamente attento alle ricadute anche profit finalizzate allo sviluppo locale: cfr. AA. VV., Progetto di definizione di un modello per la realizzazione dei Piani di Gestione dei siti UNESCO, Roma, MiBAC-Ernst & Young, 2005, pp. 164-169.

176 In molti casi queste reti locali possono includere anche istituzioni gestite dalla provincia, dalla regione ed anche dallo Stato: esemplare a tal fine il sistema dei musei della città di Torino, che annovera tra i poli aderenti il Museo regionale di Scienze naturali e il Museo (nazionale) Egizio, oltre a realtà civiche e private. Si noti che proprio questa rete ha costituito la base organizzativa per la successiva realizzazione del sistema di promozione museale regionale Carta Musei Torino Piemonte, a sua volta gestito da un soggetto consortile di natura privatistica.

177 Si veda G.C. DE MARTIN, Autonomie e policentrismo, cit., pp. 393-400; cfr. A. PACCHIAROTTI, Federalismo amministativo e riforma costituzionale delle autonomie, UPI-Maggioli, Pesaro, 2004, pp. 381-398, con l’analisi delle molte competenze della “nuova” provincia.

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4) per alcune funzioni in materie connesse alla valorizzazione, come la ricerca, l’istruzione e la formazione o il coordinamento delle iniziative economiche, do-vrebbero essere previsti dalla normativa regionale adeguati meccanismi per agevola-re e incentivare sempre il coinvolgimento delle autonomie funzionali del territorio (Università, istituti scolastici e Camere di commercio), ciascuna per il rispettivo am-bito di azione178;

5) sempre su scala territoriale provinciale, deve essere favorita con opportuni meccani-smi179 l’interazione con gli uffici statali decentrati (in primis gli Archivi di Stato, ed anche eventuali musei e biblioteche nazionali), avvalendosi del naturale tramite isti-tuzionale costituito dalla Prefettura180, la quale opera a tal fine come Ufficio Territoria-le del Governo, con compiti di coordinamento che possono utilmente interagire con quelli, omogenei per ambito territoriale, dell’Ente provincia181;

6) la Regione, ferma restando l’esercizio delle proprie competenze legislative in mate-ria, in concorso con lo Stato nazionale (se necessario differenziandosi dalle altre realtà regionali), dovrebbe quindi limitarsi ad esercitare in modo diretto le proprie funzioni amministrative, nei casi e per le sole questioni di effettivo rilievo sovrapro-vinciale: ad esempio ai fini dell’adozione degli indispensabili strumenti generali di programmazione e pianificazione territoriale, per l’assegnazione e la verifica del cor-retto utilizzo delle risorse finanziarie, oltre che per la gestione di eventi, progetti e circuiti che coinvolgono gran parte o l’intero territorio della regione stessa;

7) alla Direzione regionale per i Beni Culturali e paesaggistici, con le relative Soprin-tendenze di settore, spetta e incombe infine l’esercizio delle prerogative e delle fun-zioni tecnico-scientifiche in nome e per conto dello Stato182, assicurando comunque in forma decentrata «l’esercizio unitario» (ex art. 4 c. 1 del Codice) della fondamen-tale funzione di tutela dei beni, dei luoghi e degli istituti culturali oggetto del proget-to di valorizzazione, la cui azione può e deve sempre mirare non solo all’incremento della loro fruizione da parte del pubblico, ma anche alla migliore conservazione e

178 Nei casi citati, questo può concretizzarsi ad esempio nell’apporto delle strutture universitarie

(mediante convenzioni di ricerca) ai comitati scientifici e alle attività di allestimento, a quello delle istituzioni scolastiche nell’ambito didattico, mentre gli enti camerali possono sostenere e promuovere le attività imprenditoriali, ad esempio quelle alberghiere e di ristorazione, delle cooperative di guide turistiche o degli artigiani che realizzano il merchandising, collegate ai progetti di valorizzazione.

179 Si può trattare di tavoli di concertazione più o meno formali, che in molti caso sono stati anche codificati e istituzionalizzati sotto forma di Patti territoriali, Distretti di promozione turistica, convenzioni o accordi di programma quadro.

180 Il d.lgs. 21 gennaio 2004, n. 29 ha introdotto modifiche alla precedente organizzazione, in base alle quali in ambito provinciale, le prefetture svolgono un’azione propulsiva, di indirizzo, di mediazione sociale e di intervento, di consulenza e di collaborazione, anche rispetto agli enti locali, in tutti i campi del “fare amministrazione”, in esecuzione di norme o secondo prassi consolidate, promuovendo la semplificazione delle procedure amministrative. I Prefetti sono coadiuvati nelle nuove complesse funzioni da una Conferenza permanente (d.p.r. 3 aprile 2006, n. 180), presieduta dai medesimi e composta dai responsabili delle strutture periferiche dello Stato. Si veda il sito: www.interno.it.

181 Tuttaltro che trascurabile in ambito culturale, ad esempio, è il problema del coordinamento degli apparati di sicurezza nelle città e sul territorio: a fronte del costante incremento di furti di opere d’arte, di scavi archeologici clandestini e di atti vandalici non può certo bastare la pur encomiabile azione del minuscolo Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dei Carabinieri, l’unico posto istituzionalmente alle dipendenze del Ministero per i Beni e le Attività culturali.

182 Va sottolineato che queste ultime non dovrebbero travalicare nell’esercizio di funzioni di indirizzo politico, dal momento che si caratterizzano per una notevole discrezionalità che dovrebbe sempre rimanere su un piano esclusivamente tecnico.

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sicurezza di opere d’arte e monumenti183.

Se ne deduce che al Governo (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministeri e or-gani della P.A. di livello nazionale) restano da esercitare sole le residue competenze ammi-nistrative di livello effettivamente nazionale, eventualmente avvalendosi di organismi o au-torità indipendenti, come l’Agenzia del Demanio; nello specifico delle competenze in mate-ria di cultura, in particolare, il Ministero per i Beni e le Attività culturali, dovrebbe pertanto “accontentarsi” di esercitare l’attività amministrativa di sostegno e vigilanza sulle istituzioni di alta cultura (la cui autonomia è però garantita dall’art. 33 Cost.184), di organizzazione e gestione delle grandi iniziative di rilievo nazionale185, nonché di promozione della cultura nazionale all’estero, fungendo da interlocutore a livello internazionale (d’intesa con il Mini-stero per gli Affari Esteri) nei confronti degli altri Stati, dell’Unione Europea, del Consiglio d’Europa e dell’UNESCO.

A tal fine non sarebbe improprio ipotizzare, in coerenza con tutta l’impostazione teorica di questo studio, con la già richiamata legge di ratifica della Convenzione di Parigi del 1972 ed ancor più con i principi recentemente codificati nella l. n. 77/2006, che l’attività nazionale di valorizzazione dovrebbe concentrarsi in modo assolutamente prioritario (se non esclusivo) sull’ormai vasta e assai articolata rete dei siti iscritti alla Lista dell’UNESCO, cui andrebbero aggiunti gli altrettanto numerosi e problematici siti iscritti nella lista di attesa (tentative list) che già sono stati valutati in prospettiva meritevoli di tale priorità186.

Per il momento invece il Codice e le leggi regionali, dimostrando uno scarso rispet-to per i principi fondamentali della nostra Costituzione e dell’ordinamento delle autonomie locali, non riconoscono ancora in modo adeguato ai cittadini (singoli e associati) e alle isti-tuzioni municipali, intercomunali e provinciali interessate a progetti di tutela e valorizzazio-ne del rispettivo patrimonio culturale e paesaggistico – che si caratterizza appunto per il fat-to di essere estremamente diffuso nel territorio – un ruolo formale e sostanziale da prota-gonisti delle diverse procedure amministrative in atto.

Eppure sono diverse le opportunità offerte a tal fine dal quadro normativo, ad esempio con riferimento al potere di richiedere e convocare le conferenze dei servizi, oppu-re alla possibilità di proporre (in modo vincolante) la stipula e l’attivazione di convenzioni per la gestione dei servizi, che includano da un lato le Soprintendenze e dall’altro il volonta-riato, o ancora alla priorità (se non l’esclusiva) che può essere stabilita ex lege ai fini della ri-chiesta e del conseguimento dei finanziamenti.

Eppure non è contestabile che sulla base del quadro istituzionale oggi vigente187, promotori e diretti responsabili dell’esercizio di gran parte delle funzioni di valorizzazione debbano essere, sin dall’inizio di ogni procedimento amministrativo finalizzato ad iniziative

183 In questo senso le strutture periferiche del Ministero, piuttosto che occuparsi direttamente di

convenzioni tra enti o di appalti dei servizi aggiuntivi, potrebbero concentrare assai più proficuamente le scarse risorse umane e organizzative, ad esempio, nelle attività di formazione dei direttori, dei conservatori e dei volontari, oppure nella realizzazione di laboratori di restauro decentrati sul territorio, a servizio dei sistemi locali.

184 Non dovrebbe essere necessario sottolineare che tale autonomia spetterebbe anche a quella particolare categoria di istituti di alta cultura in cui rientrano i musei, le biblioteche e gli archivi nazionali, che non possono più restare relegati come in passato a meri uffici amministrativi del Ministero.

185 Si possono citare ad esempio le molteplici attività dei Comitati Nazionali per le Celebrazioni, istituzioni come la Biennale e la Mostra del Cinema di Venezia, oppure eventi come le Giornate europee del Patrimonio (promosse dal Consiglio d’Europa); quanto ai veri e propri progetti di valorizzazione, si possono citare la Via Francigena, i Borghi d’italia o le Strade del Vino.

186 Si veda infra, il punto b) delle conclusioni. 187 M. OROFINO, op.cit., pp. 74-75.

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ed attività complesse previste dal Codice Urbani e dalle leggi in materia188, proprio gli enti e soggetti pubblici (ed anche privati, ad esempio nel caso dei consorzi di gestione o promo-zione) a diverso titolo esponenziali del rispettivo territorio.

Solo essi hanno d’altronde la possibilità di esercitare una funzione di rappresentanza degli interessi della comunità locale, sulla base dei rispettivi Statuti e regolamenti, cui è strumentale il corretto esercizio delle rispettive prerogative istituzionali e competenze am-ministrative e gestionali: il che però comporta, se si intende dare finalmente (anche in cam-po culturale) effettività e concretezza ai principi costituzionali di autonomia e sussidiarietà, l’assunzione del ruolo di attori consapevoli, competenti, responsabili e partecipi anche da parte dei singoli amministratori – a partire da Sindaci e Presidenti di Provincia, con i loro rispettivi assessori delegati – nel più rigoroso rispetto dell’indirizzo politico adottato dagli organi rappresentativi, e dunque dell’autonomia civica nel senso più ampio del termine189.

3.5. Istituti e strumenti per l’attuazione del principio di sussidiarietà

L’interrelazione e sovrapposizione di funzioni e competenze tra i diversi livelli am-ministrativi, che in altri settori costituisce normalmente un’eventualità, è dunque del tutto normale e fisiologica (tanto da essere sancita e promossa dal legislatore) in ambito cultura-le190; ne consegue che l’inevitabile problema della loro distinzione – o per lo meno del loro migliore coordinamento, essenziale nell’ambito della valorizzazione – si può risolvere solo rispettando rigorosamente il criterio di sussidiarietà ex art. 118 comma primo.

Questa constatazione si basa su alcuni presupposti che appaiono evidenti: - spetta ai privati cittadini, alle associazioni e alle altre persone giuridiche di diritto

privato, alle confessioni religiose, alle istituzioni pubbliche e agli enti locali, in quanto proprietari, concessionari o comunque gestori, disporre della grande maggioranza del patrimonio culturale nazionale, non solo per scopi culturali o istituzionali ma anche civili o commerciali191; essi provvedono anche, quando è possibile, a incrementarne la fruizione, garantendone conservazione e valorizzazione, nel rispetto dei principi e delle norme di tutela esercitati dallo Stato, che solo in rari casi interviene anche con un sostegno finanziario, ex art. 35 ss. del

188 Quando si fa riferimento a procedimenti e attività complesse si intende sottolineare, come si

è già segnalato e come si tornerà a specificare meglio infra, che in un caso come quello in esame non viene coinvolta soltanto l’amministrazione statale di tutela per gli aspetti storico-artistici o paesaggistici, ma anche le istituzioni competenti in materia di pianificazione, ambiente, trasporti, turismo, edilizia e attività produttive, sviluppo socio-economico e occupazione, ecc.

189 G. FAMIGLIETTI, op.cit., pp. 226 e 271 ss., con riferimento alla garanzia costituzionale dei li-velli istituzionali in ambito culturale, richiama il pensiero di Häberle in materia di «federalismo culturale»; si veda anche A.M. POGGI, Il principio di sussidiarietà e il “ripensamento” dell’Amministrazione Pubblica. (Spunti di riflessione sul principio di sussidiarietà nel contesto delle riforme amministrative e costituzionali), in Studi in onore di Fausto Cuocolo, cit., pp. 1103-1126. V. anche F.S. MARINI, Il riparto delle competenze, cit., e G. PASTORI, Prin-cipio di sussidiarietà e riparto delle funzioni amministrative, in www.issirfa.cnr.it.

190 M.T. SEMPREVIVA, C. SILVESTRO, Il nuovo procedimento amministrativo, Napoli, Simone, 2009, p. 161 rilevano correttamente che «il ricorso a strumenti pattizi tra amministrazioni trova maggiore applicazione in sistema amministrativi, complessi e disaggregati, in cui il principio della gerarchia viene soppiantato da modelli organizzativi e funzionali di tipo orizzontale».

191 Non si deve dimenticare che negli edifici di rilevanza storico-artistica è normale lavorare ed abitare, essendo innumerevoli i palazzi e i castelli dei centri storici, adibiti a residenze, uffici, sedi di banche o alberghi.

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Codice192; - la Regione legifera, nel rispetto di principi e standard definiti a livello nazionale,

organizzando le procedure di valorizzazione e promozione, oltre a svolgere alcune limitate funzioni di tutela; solo in qualche caso svolge anche una (minima) azione di gestione del proprio patrimonio culturale, consistente per lo più in palazzi, archivi storici o musei regionali;

- lo Stato adotta leggi di principio, tra cui anche la ratifica dei trattati internazionali e il recepimento delle norme comunitarie, oltre a gestire il patrimonio di propria appartenenza; ma, come dimostra il caso di studio, i beni demaniali di rilevanza storico-artistica (in particolare quelli che erano sede di funzioni pubbliche dismesse: caserme, carceri, ecc.) non sono sempre gestiti in modo rigorosamente conforme alle norme di tutela, specialmente allorché non sono stati direttamente affidati alla responsabilità del Ministero per i Beni e le Attività culturali oppure del Ministero degli Interni-FEC per il tramite delle Prefetture.

Anche in quest’ultimo caso, peraltro, lo Stato sovente necessita, per tentare di porre rimedio alle molte e ben note situazioni di abbandono e degrado, della collaborazione di altri soggetti pubblici e privati; gli stessi siti UNESCO, di cui si è già trattato supra, pur costituendo in linea teorica il livello di assoluta eccellenza della conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico, presentano non poche situazioni di criticità; essi sono comunque soggetti, nel concreto perseguimento delle finalità di conservazione e gestione, alle competenze di comuni, province e regioni, ma non di rado devono fare i conti anche con i diritti e le esigenze dei privati proprietari o gestori e necessitano dell’intervento e della collaborazione volontaria e gratuita dei componenti di associazioni culturali.

Occorre tenere presente, per comprendere in modo corretto questo stato di cose, la condivisibile considerazione secondo la quale «il concetto di sussidiarietà va inteso su un duplice versante: quello della ‘sostituzione’ sussidiaria, per cui un soggetto interviene sosti-tuendosi a un altro quando non è idoneo o non è disponibile tout court a svolgere una certa funzione; ma anche e soprattutto quella dell’aiuto, per cui il soggetto (…) prima di interve-nire in via sostitutiva ha il compito di aiutare quello che prima dovrebbe intervenire»193.

Ciò conferma la scarsa fondatezza di gran parte delle diatribe sorte in ambito dot-trinario194, allorché la valorizzazione è stata enucleata come competenza e funzione delle autonomie ed anche dei privati, tenendola distinta rispetto alla storica tutela statale, inne-scando un meccanismo che per qualcuno sarebbe addirittura perverso, mentre in realtà non fa che riconoscere ciò che pacificamente avviene nella prassi, risalente in molti casi a epo-che antecedenti la stessa Unità d’Italia195.

192 Secondo G. VOLPE, op.cit., pp. 390-391, sussidiarietà orizzontale e sussidiarietà verticale si affiancano, non sono alternative; spetta alle regioni e agli enti locali, e non dunque allo Stato, decidere le forme e modalità del coinvolgimento dei privati.

193 F. DALLA MURA, Le convenzioni, cit., p. 43, il quale ricorda che «l’esercizio delle funzioni pubbliche, cioè le pubbliche responsabilità relative al perseguimento dei valori di pubblico interesse, non deve essere riservato soltanto alle istituzioni pubbliche, ma può (anzi, in linea di principio deve) essere affidato o riconosciuto anche in capo agli individui e alle formazioni sociali che compongono la società civile». 194 Occorre tenere presente che la sussidiarietà non concerne la distribuzione delle competenze tra i livelli ma il loro esercizio, vale a dire quali poteri si possono esercitare in rapporto alle competenze date; il suo presupposto è quindi proprio l’esistenza di competenze uguali e concorrenti: cfr. G. SANTANIELLO, Trattato, cit., pp. 40-41.

195 Si pensi alle più antiche istituzioni civiche o agli enti morali che gestiscono musei, monumenti e siti, senza trascurare la stessa Chiesa.

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Malgrado ciò, i nuovi principi costituzionali e legislativi di ripartizione, nell’ottica della sussidiarietà, delle competenze e attribuzioni in campo culturale, pur essendo del tutto coerenti sul piano squisitamente normativo196, necessitano di concreto recepimento e pun-

tuale applicazione nell’ambito dei regolamenti di attuazione, ma più ancora nelle procedure e prassi amministrative, che connotano nel loro insieme la “filiera” burocratica e gestionale responsabile a diverso titolo della conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale italiano197. Per garantire un effettivo valore cogente alle disposizioni costituzionali, le strut-

ture burocratiche del Ministero per i Beni culturali dovrebbero dunque adeguarsi alla vo-lontà del legislatore, nazionale ma anche regionale, rinunciando coerentemente a perseguire l’acritica difesa dell’ormai supera competenza esclusiva dello Stato sulla cultura198: un mo-nopolio che formalmente non esiste più da decenni, e che in realtà non è mai stata tale, proprio alla luce delle secolari prerogative municipali e accademiche.

Una volta recepiti pienamente tali indirizzi, potranno essere ridefinite dapprima in sede di normativa regionale, e poi se necessario mediante accordi e intese autonomamente promosse dai soggetti interessati, delle modalità innovative e stabili per la soluzione – o al-meno per una significativa riduzione – delle frequenti e in certa misura inevitabili199 resi-stenze, inefficienze e controversie, in modo da consentire agli enti locali di perseguire effi-cacemente con i rispettivi atti amministrativi il «bilanciamento non autoritativo di interessi, realizzato attraverso la collaborazione tra le amministrazioni portatrici di interessi»200.

In questa prospettiva si propongono alcune chiavi di lettura del principio di sussi-diarietà che non hanno sino ad oggi attirato l’attenzione della dottrina specializzata in ambi-to culturale, mentre potrebbero offrire alcuni utili spunti di riflessione, a sostegno di una sua più generale condivisione e attuazione, anche nello specifico settore di cui ci occupia-mo. Si tratta infatti di applicare, anche a questa materia, alcuni istituti e principi di valenza generale, che possono conferire una certa concretezza e operatività, sulla base di norme giuridiche positive, alle affermazioni teoriche sin qui proposte.

a. L’esercizio unitario di funzioni e il livello ottimale (provinciale) della funzione di coordinamento

196 Se ne veda l’efficace sintesi fatta dalla Corte Costituzionale nella Sentenza n. 9/2003-2004. 197 Questo principio rimane sottoposto alla quotidiana verifica dei fatti, che deve tutt’ora

scontare la distanza rilevante che in Italia intercorre (sia cronologicamente che nel merito) tra gli annunci politici, la produzione legislativa, la sua attuazione regolamentare e amministrativa. Si riporta a questo proposito una condivisibile considerazione di G.C. DE MARTIN, Un Ente, cit., p.20, secondo il quale deve essere ancora (2009) «sviluppato il processo riformatore di riassetto istituzionale e amministrativo volto finalmente ad applicare quanto previsto dalla novella del 2001».

198 Si dovrebbe dunque evitare di sollevare eccezioni di competenza, agendo nel senso di stimolare e favorire in ogni modo la piena collaborazione degli organi e uffici statali ai processi di riorganizzazione e coordinamento in oggetto.

199 Nell’odierno clima di contrapposizione tra gli schieramenti politici e di personalizzazione delle vicende istituzionali, è sempre più raro che le decisioni amministrative, a livello locale, siano assunte con atti formali e vincolanti (delibere pubblicate all’albo pretorio, ora on-line), mentre si tende a privilegiare un rapporto personale e diretto tra amministratori, che ovviamente non è formalizzabile; è inoltre deteriore quanto costante prassi la contrapposizione tra rappresentanti degli enti locali, anche della stessa parte politica, a detrimento del buon andamento e della leale collaborazione. Per ovviare a ciò sarebbe certamente auspicabile la formalizzazione di protocolli, convenzioni, accordi di programma e altre intese formali, che talora si evita di adottare proprio per non discuterle nel merito, in sedi pubbliche (commissioni consiliari, consiglio), dovendo anche sottostare al parere o al giudizio degli organi gestionali e di controllo interno.

200 D. IELO, Commento all’art. 15, in AA. VV., L’azione amministrativa. Commento alla l. 7 agosto 1990, n. 241 modificata dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15 e dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, Milano, Giuffré, 2005, p. 492.

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La cultura non dovrebbe costituire un’eccezione alla regola generale secondo cui tutte le relazioni interistituzionali vanno improntate alla concreta attuazione del fondamen-tale principio costituzionale sancito all’art. 5, che impone allo Stato di riconoscere e pro-muovere le autonomie locali201, affidando alla Repubblica il compito di attuare «nei servizi

che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo» e di adeguare «i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramen-to»202.

Secondo l’impostazione del Codice, compete in primo luogo al Ministero per i Beni e le Attività culturali, attraverso l’azione della Soprintendenza regionale assicurare, special-mente nell’ambito di un progetto di valorizzazione di beni statali (ex art. 112 c. 2), il coordi-nato e concorde esercizio delle funzioni di specifica competenza di ciascun soggetto inte-ressato, coinvolgendo volta per volta gli enti e le comunità del territorio, al fine di tutelare i diritti e gli interessi pregiudicati; a tal fine, nell’organizzare i relativi procedimenti ammini-strativi, gli uffici ministeriali sono ovviamente tenuti a conformarsi alle norme statali (spe-ciali) del Codice Urbani203 in materia di tutela, valorizzazione e gestione.

Poiché normalmente vengono coinvolti a tal fine altri soggetti pubblici e privati, con le specifiche e in parte diverse modalità di esercizio dei rispettivi servizi pubblici locali, non solo a carattere prettamente culturale204, risulta necessario coordinare tali disposizioni

speciali con quanto previsto – ad esempio in merito alle forme e modalità di amministra-zione o gestione – della legislazione di settore della Regione interessata e, più in generale, dalla normativa in materia di gestione dei servizi che fanno capo alle autonomie locali205.

Il Ministero sino ad oggi ha conformato con una certa difficoltà le sue procedure a questa “nuova” concezione206, in nome del non sempre dimostrabile interesse a preservare

(rectius tutelare) il patrimonio culturale nazionale: eppure, come si è visto, persino l’UNESCO richiede che, nell’ambito della procedura internazionale finalizzata

201 Secondo G.C. DE MARTIN, Autonomie e policentrismo, cit., pp. 393-400, che richiama anche F.

Pizzetti, essendo Comune e Provincia parimenti garantiti sul piano costituzionale (come la Regione, ma in modo distinto da essa), essi sono titolari di un potere di indirizzo politico-amministrativo per il rispettivo territorio e corpo sociale, definibile come «autogoverno locale» (p. 395); è in tal modo che «le autonomie territoriali concorrono a plasmare la stessa essenza della sovranità popolare» (p. 396).

202 Sempre in base al principio di sussidiarietà, alla luce della Sentenza C.Cost. n. 408/1998, l’individuazione delle funzioni ai fini del passaggio di competenze, rispetto a quelle per cui prevale l’esercizio unitario, spetta al legislatore nazionale in materia di tutela, ma spetta alle Regioni in materia di valorizzazione e promozione

203 La l. 241/1990 è richiamata espressamente dall’art. 14 c. 5 del Codice (anche se soltanto con riferimento al procedimento di dichiarazione), cosa che non avviene invece agli artt. 112 ss. in materia di accordi per la valorizzazione.

204 Sulla gestione dei servizi culturali, su cui si tornerà ampiamente nel terzo capitolo, cfr. E. BRUTI LIBERATI, Pubblico e privato nella gestione dei beni culturali: ancora una disciplina legislativa nel segno dell’ambiguità e del compromesso, in Aedon, (3) 2001; si considerino in proposito le implicazioni che possono riscontrarsi con le normative che regolano ad es. i servizi turistici, di istruzione scolastica e formazione professionale o di trasporto locale, oltre che in materia di commercio, pianificazione urbanistico-territoriale, sviluppo locale, ecc.

205 In particolare gli artt. 30 ss. e il Titolo V (artt. 112 ss.) del TUEL. 206 A proposito del ruolo e la funzione esercitata dallo Stato attraverso il Ministero per i Beni e

le Attività culturali nella gestione diretta di un vasto patrimonio monumentale, cfr. G. PASTORI, Le funzioni, cit., p. 2 ss.; si richiama in particolare il problema della gestione ministeriale degli Archivi di Stato, di moltissimi musei e singoli monumenti definiti “nazionali”, in epoche lontane e per altrettanto remote ragioni, in qualche caso senza un riscontro nell’effettivo valore monumentale e storico-artistico. Si veda anche A.R. PELILLO, I beni culturali, cit., p. 5 che evidenzia la connessione tra titolarità e livello dell’interesse (nazionale o locale).

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all’inserimento di un sito nel Patrimonio mondiale, sia garantito il tempestivo e diretto coinvolgimento degli attori pubblici e privati del relativo territorio207, temperando in qual-che misura l’assoluta preminenza della struttura politico-amministrativa ministeriale, che ancora caratterizza la legislazione culturale italiana.

Non sembra quindi eccessivo affermare che lo Stato e i Ministeri competenti, le Regioni e i relativi enti strumentali, ma anche i Comuni con le rispettive strutture interco-munali a carattere più o meno consortile, non hanno sino ad oggi saputo affrontare e risol-vere in modo strutturale una questione strategica, che può trovare risposta solo nella più efficace e sistematica attuazione della sinora troppo trascurata funzione di “coordinamen-to”.

Tale funzione, che era stata collocata al livello provinciale (benché non fosse anco-ra, all’epoca, costituzionalmente garantito) già a partire dalla l. n. 142/1990, almeno in linea di principio è ancor oggi compito delle Province, salve le superiori esigenze di coordina-mento tra Stato e Regione, ai sensi del terzo comma dell’art. 118 Cost. e con riserva delle già ipotizzate modifiche al TUEL.

Si tratta di un essenziale ruolo di “cerniera”, strettamente conseguenza correlato all’esercizio delle competenze provinciali in materia di pianificazione territoriale e pro-grammazione economico-sociale di area vasta208; strumenti che non possono non regolare anche la materia di cui ci occupiamo, se è vero (come è vero) che nei prossimi decenni una parte significativa delle prospettive di sviluppo economico-sociale nazionale dovrà sempre più basarsi proprio sulla fruizione turistica del nostro straordinario patrimonio culturale e paesaggistico.

La conferma in tal senso era venuta dall’impostazione delle leggi regionali di rece-pimento della riforma Bassanini, che ha attribuito in particolare alle province le funzioni amministrative in materia di promozione e di coordinamento delle reti provinciali di servizi culturali209.

A ciò si aggiunge che da tempo i Comuni più piccoli si coordinano – in modo più o meno spontaneo e virtuoso – in comunità, unioni, associazioni o consorzi, oppure chieda-no sempre più spesso alla loro Provincia di farsi carico, anche in campo culturale e turisti-co-promozionale, dell’azione di coordinamento e sostegno di specifiche funzioni o proget-ti210, che assumono in questo modo valenza inter-comunale, che è per definizione “di area

207 Cfr. B.M. FEILDEN, J. JOKILEHTO, op.cit., pp. 5 ss. 208 Il termine è da intendersi riferibile alle tradizionali province “territoriali”, soprattutto nelle

regioni caratterizzate da un grande numero di Comuni di dimensioni ridotte o minime, come pure alle prossime eventuali aree metropolitane, le uniche in cui ha un senso l’ipotesi di abolizione della Provincia tradizionale, a condizione che siano finalmente istituite le nuove entità concepite ormai vent’anni fa e riconosciute anche a livello costituzionale dal nuovo art. 114.

209 Ad esempio la già ricordata l.r. Piemonte n. 44/2000, all’art. 126 lett. a), affida alle province la realizzazione di tali reti «in materia di musei, biblioteche, archivi, aree archeologiche e complessi monumentali e degli altri beni culturali del proprio territorio, a carattere provinciale o sovracomunale in accordo con i Comuni e gli enti interessati». Fino ad oggi in alcune regioni sono risultate del tutto carenti o inadeguate le norme attuative, come pure la risposta istituzionale e organizzativa delle stesse amministrazioni provinciali; migliore sorte hanno invece avuto altre realtà (come ad esempio l’Emilia Romagna), anche in ragione del fatto che già la previgente legislazione regionale era da tempo andata in quella direzione, anticipando tendenze che sono state recepite solo dopo anni e con grande difficoltà a livello nazionale dalla stessa riforma “Bassanini”.

210 Non si deve dimenticare che gli artt. 19 e 10 del TUEL assegnano alla Provincia compiti in materia di realizzazione di «opere di rilevante interesse provinciale» sia nel settore turistico che in quello culturale. Già il primo progetto di legge nazionale di tutela (1872, Ministro Cesare Correnti), partendo dal presupposto, all’epoca tutt’altro che scontato, secondo cui «lo Stato ha il supremo interesse di veglia-re e di accertarsi che siano convenientemente conservati i monumenti preziosi d’arte e d’antichità», pre-

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vasta”, ma non per questo assurge subito a livello regionale o addirittura nazionale. In questa prospettiva, una semplice analisi organizzativa può suffragare la tesi che la

specifica competenza di valorizzazione dei beni culturali richiede di essere esercitata in mo-do coordinato con le altre competenze provinciali ad essa funzionali211: oltre a pianificazio-ne territoriale e sviluppo del territorio, naturalmente, anche l’istruzione e formazione pro-fessionale, il trasporto locale e il turismo, senza dimenticare funzioni ancora più tecniche come la realizzazione della segnaletica stradale e turistica, l’informatizzazione o l’assistenza tecnica ai Comuni. Il livello ottimale per l’esercizio unitario di tali funzioni, le quali non possono essere assicurate dai Comuni medio-piccoli, è quello provinciale, come dimostrato proprio dalla singolare tendenza secondo cui, a ogni messa in discussione del ruolo dell’ente intermedio si è paradossalmente accompagnato un aumento delle funzioni ad esso assegnate212; proprio al livello provinciale, inoltre, si organizzano i soggetti sociali (le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro), il mondo economico (le Camere di commercio), i servizi sanitari (le Aziende sanitarie locali sono di norma provinciali) ed anche, non ulti-mo, quasi tutti gli uffici decentrati dello stesso Stato, coordinati dalla Prefettura - UTG213. Non può dunque stupire che i più consolidati ed efficaci tavoli, più o meno istitu-zionalizzati e strutturati 214 a fini di concertazione e collaborazione, si svolgono a loro volta su scala provinciale: mentre le funzioni di istruzione, promozione, ricerca e persino di tutela delle memorie legate all’identità locale si sono sempre svolte a livello comunale (come è dimostrato dalla storica esistenza di scuole e musei civici), l’ormai ineludibile realizzazione di reti e strutture di cui all’art. 111 del Codice, con la correlata messa a disposizione di competenze e risorse215 – presupposti per una corretta valorizzazione – potrebbero essere

vedeva che alla conservazione dei beni culturali pubblici privati avrebbe concorso la Provincia; era previ-sta inoltre l’istituzione di commissioni conservatrici provinciali presiedute dal Prefetto; la realizzazione del primo catalogo dei monumenti della provincia. Cfr. G. VOLPE, op.cit., p. 75.

211 Si tratta pertanto di una tipica funzione interassessorile, che proprio perché investe moltepli-ci e diverse funzioni, dovrebbe poter fare capo a una struttura tecnica di coordinamento posta presso la Presidenza (quando sono prevalenti i profili di indirizzo politico-istituzionale), oppure in staff alla Dire-zione generale (se si attribuisce invece rilevanza preminente agli aspetti gestionali), potendo poi avvalersi secondo le necessità delle strutture e del personale di tutti gli uffici sopra menzionati. Per questa ragione non appare del tutto corretto e coerente confinare l’esercizio della competenza di valorizzazione nel solo ambito dei compiti dell’Assessorato alla Cultura e dei relativi Servizi e uffici, che infatti quasi mai riescono a farvi fronte in modo convincente, per oggettive carenze di risorse e professionalità. 212 Lo stesso accade in Francia con i Dipartimenti: cfr. A. BOYER, Faut- il supprimer le departement?, in Annuario DRASD 2010, cit., pp. 17-31.

213 R. BALDUZZI, La provincia di Rattazzi: una mal-aimée?, in Annuario Drasd 2010, cit., pp. 1-7, se-condo cui esiste a livello legislativo una «linea che vede nell’ente provincia il riferimento istituzionale in-dispensabile per i servizi di rete e di area vasta, a fronte della concentrazione in capo ai comuni e alle lo-ro forme associative dei servizi alla persona».

214 Si pensi ad esempio allo strumento del Patto territoriale (istituito dalla delibera CIPE del 21 marzo 1997, punto 2, che indica l’istituto come «espressione del partenariato sociale e frutto dell’accordo di più soggetti per la realizzazione d’interventi di promozione dello sviluppo locale»), oppure ai numerosi comitati, consulte e organi provinciali di coordinamento in tema di lavoro e occupazione, ordine pubblico, politiche sociali, pari opportunità, ambiente, ecc.

215 A tale proposito resta da risolvere l’annoso problema legato al fatto che i fondi necessari non potrebbero essere trasferiti da Stato e Regione, proprio perché non si tratta di funzione attribuita o dele-gata dai livelli superiori, bensì di una competenza propria dell’Ente provinciale ai sensi dell’art. 19 del TUEL. La Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge il 30 giugno 2010, passato all’esame del Senato (AS 2259), che prevede tra l’altro la definizione delle funzioni fondamentali degli enti locali; l’art. 3 nella sua attuale formulazione non prevede più la valorizzazione dei beni culturali, ma solo la pianifica-zione territoriale (h), la tutela e la valorizzazione dell’ambiente (m) e la promozione e il coordinamento

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sviluppati in modo efficace ed efficiente su scala metropolitana e provinciale o al più regio-nale216, mentre diventano verosimilmente di difficile gestione e hanno scarse possibilità di successo se portate su scala nazionale217. b. La leale collaborazione e il buon andamento

Alla luce di quanto sin qui esposto, emerge che l’attuazione dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione può essere resa effettiva e garantita soprattutto, se non esclusivamente, dal-la corretta e piena attuazione della l. n. 241/1990218 che, nel codificare il procedimento ammini-strativo e regolare il diritto di accesso agli atti219, regola procedure e atti che sempre più sovente sono utilizzati in altri ambiti della pubblica amministrazione, ma la cui rilevanza ai nostri fini non è stata adeguatamente posta in rilievo.

Si tratta del complesso meccanismo burocratico costituito dalla conferenza di servizi e dal conseguente accordo di programma, la cui istituzionalizzazione contribuisce in modo determinante a far uscire la sussidiarietà verticale dal limbo delle affermazioni di mero principio, poiché può essere promosso dal Comune, cosa che accade con sempre maggiore frequenza anche in merito a grandi questioni o interventi: si tratta di uno dei rari casi, dunque, in cui lo Stato può essere convocato e sedere al tavolo dell’intesa (con la Regione, la Provincia e gli eventuali ulteriori soggetti interessati), per concordare e concertare le scelte e le modalità da adottare, rinunciando a imporre dall’alto le proprie prerogative e potestà, come avveniva d’abitudine un tempo.

Tuttavia risulta chiaro dal tenore dell’art. 14, ed è confermato dalla prassi in materia, che l’attivazione della procedura de qua non è affatto obbligatoria220, neppure nelle situazio-ni ordinarie che richiedono un «esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un

dello sviluppo economico del territorio provinciale (s), cui si aggiungerebbe per le città metropolitane (ex art. 4) anche la strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici: tutti ambiti che do-vrebbero dunque includere anche gli aspetti sin qui considerati; naturalmente la valorizzazione potrebbe (o meglio dovrebbe) essere attribuita o delegata dalla Regione in attuazione dei principi costituzionali e di quelli del Codice dei Beni culturali. Va sottolineato a questo proposito che, grazie alle economia di scala, potrebbero essere sufficienti importi tutto sommato ridotti – corrispondenti per ogni anno al co-sto di un grande evento o di un intervento di restauro di media entità – a fronte della ricaduta di imma-gine che sarebbe garantita nel medio termine; cfr. F. DONATO, F. BADIA, op.cit., pp. 20 ss.

216 Come ha rilevato Stefano Monti Bragadin in occasione della recente tavola rotonda “L’identità del Comune nella gestione associata dei servizi” (Cassine, 12 novembre 2011 (atti in c.d.p. a cura di A. Casagrande, SFA Volpedo), le istituzioni comunali o nazionali sono legate all’identità, all’appartenenza e alla storia della comunità sociale e quindi «vincono sempre perché non si possono modificare per decreto»; invece le strutture di servizio, organizzate «in ragione della razionalità, efficacia ed efficienza» e modificabili «in ragione dell’evoluzione dei bisogni», si possono collocare al livello in-termedio. Cfr. S. MONTI BRAGADIN (a cura di), Localismo e federalismo in alcune compagini politiche italiane, Torino, Lindau, 2002.

217 Se il livello regionale può essere ancora adeguato nel caso di piccole realtà (il caso dell’Umbria è emblematico in proposito), l’esperienza delle reti e dei sistemi nazionale di valorizzazione non appare soddisfacente: per riprendere un esempio già citato, basti pensare alla complessa e controversa realizzazione della parte italiana della Via Francigena, progetto di valenza europea, che ha assorbito ingenti risorse ma non sembra avere raggiunto gli scopi prefissati.

218 E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, Giuffré, 2004, pp. 363 ss.; I. FRANCO, Il nuovo procedimento amministrativo, Bologna, Cedam, 1995; G. PASTORI, Dalla legge n. 241 alle proposte di nuove norme generali sull'attività amministrativa, in Amministrare, (3) 2002, pp. 305-320.

219 Alcuni contributi vanno però nel senso qui privilegiato, tra cui M.T. SEMPREVIVA, C. SILVESTRO, op.cit., pp. 141-184, in particolare pp. 160-161.

220 L. n. 241/1990 e s.m.i., art. 14 (Conferenza di servizi), c. 1: «Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, l’amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi».

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procedimento amministrativo». Nei casi regolati dal comma 3, in cui risulta indispensabile «l'esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti amministrativi connessi, ri-guardanti medesimi attività o risultati», la formulazione normativa secondo cui la conferen-za «è indetta» (il che parrebbe implicare una sua necessità, se non un obbligo) dall'ammini-strazione che cura l'interesse pubblico prevalente potrebbe invece apparire più stringente.

Si consideri però l’eventualità, tutt'altro che rara, che emergano difficoltà o contro-versie nell’individuazione di tale prevalenza: ecco dunque che risulta neecessario ricorrere a un’ulteriore «previa informale intesa», ovviamente a sua volta del tutto eventuale221, per de-finire quale delle amministrazioni interessate debba in ultima analisi procedere alla convo-cazione222.

Questi strumenti si potrebbero considerare – in attesa di una loro prescrizione co-gente in sede legislativa223 – almeno come procedura ordinaria da adottarsi almeno in via di prassi in ogni caso, salvo deroga motivata nei soli casi in cui non è possibile per ragioni og-gettive o è legislativamente escluso; si dovrebbe anche prevedere la competenza ordinaria del Comune competente (o del più importante tra quelli coinvolti) per la convocazione del-la conferenza, salvo che lo stesso ne faccia esplicita richiesta224 a un livello superiore.

In questo modo, nel corso di procedimenti amministrativi complessi (come appunto quelli finalizzati ai grandi interventi di valorizzazione culturale e paesaggistica), le prerogative spettanti agli enti locali sarebbero sempre garantite, e con esse la possibilità che ciascuno di essi svolga appieno le proprie funzioni e attività gestionali, rispettando il principio costituzionale di buon andamento, in modo da raggiungere gli obiettivi che sono stati discussi, predefiniti e asse-gnati loro, in modo coerente e concertato in sede di conferenza225.

Un esercizio delle funzioni amministrative rispettoso del principio di sussidiarietà verticale, garantirebbe in modo più adeguato quei cittadini (singoli o associati) che svolgono anche in questo settore attività di interesse generale; in questo modo, infatti, essi hanno mi-nori probabilità di essere condizionati (e magari pregiudicati) dalle scelte di amministratori e funzionari pubblici degli enti di livello superiore, regionale o statale, che più difficilmente sono in grado di effettuare l’indispensabile valutazione ponderata dei diversi interessi, con-dizione essenziale per un corretto esercizio della discrezionalità.

Per concludere questo breve e assai sommario cenno al complesso tema della leale collaborazione, si può ancora ricordare che è proprio l’art. 120 della Costituzione a preve-dere – pur senza citare esplicitamente le competenze culturali – che solo «nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione» è consentito allo Stato, in caso di perdurante inadempienza di Regioni ed enti locali, esercitare (previa formale diffida)

221 G. VOLPE, op.cit., pp. 150-153 rileva infatti che anche dopo la l. n. 241/1990, gli enti

mantengono intatta la loro piena discrezionalità ai fini dell’adesione a intese o accordi endoprocedimentali.

222 Non appare di particolare utilità a tal fine la prescrizione dell’ultima parte del c. 3, secondo cui «L’indizione della conferenza può essere richiesta da qualsiasi altra amministrazione coinvolta», dal momento che non risolve in modo chiaro a quale amministrazione dovrebbe essere indirizzata tale richiesta.

223 Come potrebbe essere già avvenuto limitatamente allo specifico ambito dei progetti di valorizzazione dei siti UNESCO a seguito della l. n. 77/2006.

224 Trattandosi di un’importante scelta di indirizzo politico, si può supporre che dovrebbe essere adottata dal Consiglio e non dalla Giunta, e non già mediante atto monocratico (più o meno formale) del Sindaco.

225 A tal fine non è irrilevante il fatto che normalmente l’accordo di programma assuma una valenza pluriennale e vincolante, il che gli conferisce una particolare efficacia quale strumento di programmazione (ben più degli strumenti di carattere generale, come la Relazione previsionale e programmatica al bilancio) per l’individuazione di singoli progetti di grande rilevanza e dei relativi obiettivi da conseguire.

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il potere sostitutivo conseguente al mancato rispetto dei trattati internazionali226.

Ciò risulta di particolare interesse, ancora una volta, ai fini del corretto svolgimento della più volte citata procedura di attuazione della Convenzione del Patrimonio mondiale, la quale normalmente implica, in effetti, l’esercizio di competenze regionali e degli enti loca-li, regolate a sensi di legge mediante un accordo, per il quale è a sua volta richiesta la parte-cipazione attiva e consapevole della comunità locale. c. La partecipazione della cittadinanza e dell’individuo

Così come sono importanti per il buon andamento gli strumenti di leale collaborazione, non meno essenziali per la reale garanzia del principio di sussidiarietà orizzontale appaiono i meccanismi di partecipazione, individuale e collettiva, ai procedimenti amministrativi, tanto più laddove essi sono garantiti e integrati anche dagli Statuti dei rispettivi enti locali (oggi fonti costituzionalizzate)227.

Richiamando sinteticamente il tema della trasparenza dei procedimenti amministrati-vi, principio la cui generalizzata attuazione dovrebbe228 appunto rendere possibile in con-creto la partecipazione dei cittadini alla fase istruttoria dei provvedimenti amministrativi, si vuole dimostrare che questo insieme di garanzie e modalità di comportamento richieste alla P.A. è in realtà finalizzato a tutelare e garantire, in ultima istanza, il diritto alla conoscenza229 dei presupposti di fatto e di diritto, oltre che del contenuto dei provvedimenti, nonché il diritto a partecipare allo sviluppo culturale, che spetta230 a ciascun cittadino, singolo o associato, an-che alla luce degli artt. 2 e 118 c. 4 della Costituzione.

Nella fase propedeutica alla definizione degli indirizzi politici relativi a tutti gli in-terventi pubblici di particolare complessità e importanza, dovrebbe d’altronde essere non solo doveroso, ma anche molto opportuno e conveniente (specialmente per gli amministra-tori degli enti locali più direttamente coinvolti) attivare i meccanismi previsti dalla legge al fine di consultare, in modo formale, «qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento»231.

Si rileva sin d’ora, infatti, che le associazioni di promozione e tutela del patrimonio culturale e paesaggistico, a vario titolo esponenziali di vasti settori della cittadinanza, rien-trano tra i soggetti che hanno diritto di prendere visione degli atti del procedimento e di pre-

226 Confermando che può esistere lo spazio d’azione per le autonomie anche in campo

internazionale (art. 117 c. 5), cosa che ancor oggi lo Stato nazionale ammette e tollera con una certa riluttanza: cfr. F. PIZZETTI, La tutela, cit., pp. 1062-1064.

227 Anche in questo caso la normativa di riferimento è costituita dalla l. n. 241/1990 e s.m.i. 228 Sino ad oggi nella prassi questo principio è stato recepito e attuato in modo inadeguato dalla

P.A., portata a considerarla piuttosto come fastidiosa incombenza burocratica, intesa esclusivamente a consentire al singolo cittadino l’accesso e estrazione di copia degli atti che lo possono direttamente interessare ed eventualmente danneggiare.

229 Come affermato ad esempio dal Consiglio di Stato, sez. IV, n. 19 del 7.1.2008; cfr. SEMPERVIVA, SILVESTRO, op.cit., pp. 119-121.

230 V. supra, al punto 1 del par. 1.2.2.3, ove si è posto in evidenza che secondo l’art. 2 della Convenzione UNESCO del 2005 sulla diversità delle espressioni culturali si tratta di un diritto fondamentale; il concetto è ripreso in particolare dall’art. 5b della Dichiarazione di Friburgo sui Diritti culturali, relativo al diritto di accesso e partecipazione alla vita culturale.

231 Artt. 9 c. 1 e 10 della L. n. 241/1990 e s.m.i.; si ricorda che l’art. 10 fa salvo a tale proposito quanto previsto dall’articolo 24. Cfr. A. ANDREANI, Funzione amministrativa, procedimento, partecipazione nella l. 241/1990, in Dir. Proc. Amm., 1992, p. 676; R. VILLATA, La trasparenza dell’azione amministrativa, in Dir. Proc. Amm., 1992, p. 528; CASETTA, op.cit., pp. 395-404.

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sentare memorie scritte e documenti, che l'amministrazione procedente ha l'obbligo di valu-tare, ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento232.

La finalità della norma non è solo, infatti, il miglioramento della qualità intrinseca dei provvedimenti o la loro maggiore e più certa conformità all’interesse pubblico233: il legi-slatore ha inteso in ultima analisi perseguire una riduzione del contenzioso, consentendo a tal fine – in base all’art. 11 – di concordare con i controinteressati (sul presupposto che sus-sista un potenziale pregiudizio) alcuni contenuti del provvedimento; il che può risultare as-sai più semplice e proficuo ove sia possibile intervenire al momento della predisposizione degli atti di indirizzo e programmazione, piuttosto che nelle fasi successive di attuazione234. Con tutto ciò non si vuole affermare che le decisioni delle autorità debbano ri-sultare condizionate in modo troppo diretto e vincolante da quello che (proprio con r i-ferimento all’art. 2 Cost) Michele Ainis235 definisce il «pluralismo partecipativo»: l’auspicata «apertura dei processi di decisione amministrativa agli enti esponenziali della comunità» deve, infatti, essere garantita in modo equilibrato e ponderato, per non cor-rere il rischio che la partecipazione scada in mera discussione fine a se stessa, dando adito a «pesanti distorsioni» che farebbero prevalere il particolarismo localistico o cor-porativo236.

Infine, il principio di sussidiarietà orizzontale può trovare un’ulteriore applicazione qualora, richiamando quanto dedotto dall’analisi delle norme in materia di garanzia dei di-ritti culturali, si condivida l’impostazione di fondo secondo la quale, in ultima analisi, il vero protagonista e destinatario di tutto il sistema di servizi attivati dalla P.A. nella subiecta materia non può che essere il “pubblico”: con questo termine infatti non si può solo definire l’insieme dei turisti e visitatori di monumenti o musei, dovendosi fare riferimento (in parti-colare se si pensa a servizi culturali come gli archivi, le biblioteche o le scuole) anche e so-prattutto alla cittadinanza, locale e non solo, titolare di diritti o per lo meno di interessi le-gittimi, che potrebbero essere tutelati anche in sede giurisdizionale, se del caso avvalendosi del nuovo strumento della class action237.

Anche in questo caso le associazioni che in diversa misura rappresentano la “società civile” (come il Touring Club, Italia Nostra, gli Amici dei musei ed anche le pro loco o le as-sociazioni di consumatori) potrebbero contribuire allo svolgimento di un’azione di tutela

232 Si è già posto in rilievo che il Codice dei Beni culturali, all’art. 14 c. 2, si limita a garantire

l’accesso alle informazioni solo sugli atti dei procedimenti di dichiarazione dei beni culturali (non quindi su quelli più generalmente relativi ad attività di tutela o valorizzazione), senza neppure fare esplicito rife-rimento a un diritto ad avere tali informazioni dalla Soprintendenza procedente.

233 Ibidem, p. 395, ove si constata che «la norma apre la via alla esternazione non tipizzata degli interessi pubblici, indipendentemente dalla richiesta avanzata dal responsabile del procedimento».

234 Ibidem, pp. 397 e 400; l’Autore fa riferimento a “forme di istruttoria pubblica orale e aperta a tutti gli interessati, nell’ambito della quale l’amministrazione possa raccogliere degli elementi rilevanti. Si tratterebbe di un utile strumento soprattutto con riferimento ai procedimenti destinati a sfociare in atti generali”, quelli cioè che si rivolgono a una pluralità indistinta di soggetti.

235 M. AINIS, L’intervento, cit., pp. 141-142. 236 Ibidem, pp. 143-144, ove si pone l’accento sul pericolo che «gli istituti di partecipazione si

trasformino in istituti della discussione, quando l’accumulo della tensione pluralistica impedisca una reale selezione degli interessi e sfoci invece in una mediazione debole tra le forze in campo, se non in un vero e proprio stallo decisionale»; la «tendenza panpartecipativa» ha l’indubbio vantaggio e merito di “introdurre il pluralismo».

237 Nel caso dei servizi pubblici di fruizione e magari anche di quelli regolati dal “Codice del Consumo”, con riferimento ai servizi di natura commerciale direttamente correlati al sito, che proprio per questo dovrebbero essere previsti e regolati in modo adeguato dal piano di gestione, come previsto dall’art. 4, c. 2 lettera l) della l. 4 marzo 2009, n. 15, integrato e attuato dal d.lgs. n. 150/2009 e dal d.lgs. n. 198/2009; si veda anche l’art. 140 del d.lgs. n. 206 del 6 settembre 2005.

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dell’interesse pubblico in modo almeno pari, se non maggiore, di quella posta in essere dalle diverse amministrazioni, anche locali. 3.6. Per una nuova definizione della fruizione

In conclusione, la nostra attenzione si può dunque concentrare sulle finalità ultime

dell’azione dei pubblici poteri in campo culturale, che concettualmente sono cosa diversa dalle funzioni pubbliche di valorizzazione del patrimonio culturale, nonché di promozione della cultura che le perseguono, essendo ad esse funzionalizzate238.

In questo senso è infatti da interpretare, positivamente, il fatto che il Codice dedichi alla fruizione (art. 102) più spazio di quanto le fosse concesso dal TUBC del 1999, per quanto si possa ritenere con la migliore dottrina che essa «non abbia una propria autonomia funzionale»239. È del tutto condivisibile, parimenti, l’affermazione di Lorenzo Casini, se-condo il quale «le amministrazioni pubbliche tutelano e valorizzano, al limite gestiscono il patrimonio culturale, non lo fruiscono, ma realizzano le condizioni per consentirne la frui-zione da parte della collettività»240.

Per questa ragione la fruizione è ormai arrivata – in special modo dopo il 2004 con l’approvazione del Codice – a costituire l’autentico «cuore» della disciplina sui beni cultura-li241, pur non essendo ancora definita in modo puntuale, soprattutto nelle sue molteplici re-lazioni (evidenziate poc’anzi) con la valorizzazione da un lato e con la promozione dello sviluppo della cultura, dall’altro, arrivando in quest’ultimo caso ad includere anche gli op-portuni riferimenti all’ambito della divulgazione e del marketing pubblicitario.

Completando l’individuazione dei suoi tratti fondamentali, si può ancora dire che la fruizione costituisce, quanto meno, il «risultato minimo» della valorizzazione, nel senso che la si deve «assicurare in ogni caso per i beni culturali presenti negli istituti e nei luoghi della cultura»242; essa va perciò intesa come godimento pubblico dei beni culturali, venendo in tal modo a costituire, «sul piano sistematico, solo un aspetto della valorizzazione, più esatta-mente una finalità che questa deve perseguire»243.

Per cogliere ancor meglio il senso dell’art. 6 del Codice, visto in una chiave dinami-ca e proattiva, possiamo ricordare che la valorizzazione è mirata all’obiettivo di costituire le migliori condizioni di fruizione: dunque non è sufficiente limitarsi a porre rimedio al degrado e alla chiusura al pubblico dei siti e degli istituti, ma occorre integrare e migliorare l’offerta di condizioni di accesso, che restano tutt’ora, in molti casi, minimali e quindi del tutto ina-

238 N. ASSINI, G. CORDINI, I beni culturali e paesaggistici, cit., p. 39-40, affermano che «tutela, frui-

zione e valorizzazione sono un continuum che non si può segmentare senza paralizzare l’intera macchina amministrativa e culturale». Anche se c’è chi come G. LEONE, A.L. TARASCO, op. cit., p. 67 si limita a ri-levare che «valorizzazione non coincide tout court con la fruizione, consistendo in un accrescimento di questa».

239 G. VOLPE, op.cit., p. 201; anche a giudizio di A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., p. 118, non sembra potersi configurare una funzione di fruizione.

240 L. CASINI, Valorizzazione e fruizione, cit., p. 481. 241 R. CHIARELLI, op.cit., p. 274, che tuttavia in precedenza (p. 162) aveva rilevato come «la

valorizzazione sembra assurgere a forma di direzione e organizzazione di una fruizione che parrebbe finire per essere quasi assorbita dalla valorizzazione stessa»; si veda anche CASSESE, Trattato, cit., pp. 1469-70.

242 L. CASINI, Valorizzazione e fruizione, cit., p. 481; per G. VOLPE, op.cit., p. 302, nota. 18, la fruizione fungerebbe invece da «saldatura della ‘frattura’ tra tutela e valorizzazione».

243 Cfr. G. SCIULLO, Le funzioni, in C. BARBATI, M. CAMMELLI, G. SCIULLO, op.cit., p. 44.

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deguate244. Ne è testimone diretto lo stesso Ministero per i Beni e le Attività culturali245, secon-

do il quale ormai il «servizio pubblico di fruizione» è «il punto di sintesi nella gestione di un bene culturale»; ma per arrivare a questo risultato, non è più sufficiente limitarsi a consenti-re, essendo piuttosto indispensabile garantire la fruizione; e questo non solo a beneficio della collettività, ma anche e soprattutto del singolo cittadino (che lo si voglia considerare come utente o come cliente), ogniqualvolta questi chiede di accedere a un istituto o a un luogo della cultura e di poterne utilizzare i servizi246.

E ciò, si badi bene, va anche al di là del pur legittimo intento di rendere – nei ter-mini condivisibili in cui è stato posto in evidenza da Sabino Cassese – la gestione del patri-monio culturale più efficace ed efficiente, «nel senso che la produzione di reddito da parte dei beni culturali consente maggiori entrate; e che maggiori entrate possono assicurare mi-gliore tutela e fruizione più ampia dei beni culturali», in una logica di circolarità che va ben oltre gli aspetti meramente definitori247.

A giudizio del Consiglio di Stato, anzi, i monumenti devono «rispondere alla fon-damentale esigenza di una destinazione d’uso coerente con il valore culturale protetto e strumentale al suo pieno godimento da parte della collettività» 248; ne deriverebbe pertanto, anche alla luce dell’art. 101 ss. del Codice, l’obbligo di «destinare i complessi monumentali249 alla pubblica fruizione e all’espletamento di un servizio pubblico».

Sviluppando fino in fondo, in senso logico e consequenziale, questo ragionamento, ed avendo presente anche l’art. 102 c. 1 («Lo Stato, le regioni, gli altri enti pubblici territo-riali ed ogni altro ente ed istituto pubblico, assicurano la fruizione dei beni presenti negli isti-tuti e nei luoghi») e c. 4 («ciascun soggetto pubblico è tenuto a garantire la fruizione»)250 del Codice, nel rispetto del principio generale previsto dall’art. 2 c. 4 («I beni del patrimonio

244 Si pensi alla differenza riscontrabile, anche nel novero delle strutture statali, tra certi musei

tradizionali, presidiati solo dai custodi, privi di catalogo e di qualsiasi servizio di fruizione (fatta eccezio-ne per i cartellini delle vetrine) e le più moderne strutture museali, non di rado anche civiche o private, concepite e realizzate a misura di visitatore, con pannelli illustrativi e didascalie tradotte in più lingue, in-stallazioni multimediali interattive, audioguide e servizi didattici, una caffetteria per ristorarsi e al termine del percorso un attrezzato bookshop.

245 Nel dossier illustrativo Nuovo codice dei beni culturali e paesaggistici, in data 16 gennaio 2004, citato da G. VOLPE, op.cit., p. 164 e scaricabile dal sito www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/index.asp.

246 F.S. MARINI, Lo statuto costituzionale della cultura, cit., p. 281 segnala che se la gestione rientrasse nella competenza esclusiva della Regione «dovrebbe ritenersi che la disciplina dell’organizzazione tesa alla fruizione pubblica non sia riconducibile alla materia della tutela dei beni culturali».

247 S. CASSESE, I beni culturali, cit., pp. 673 ss.; cfr. anche A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., pp. 122-123.

248 CdS, sez. VI, n. 5509/2008. 249 Che il termine sia qui da intendersi nel senso più ampio è comprovato dalla citazione nella

stessa sentenza, nell’ambito dello stesso punto 5, dei «beni ambientali in senso ampio», in cui si comprendono «la conservazione e valorizzazione dei beni culturali» e «dei monumenti e dei centri storici», il che parrebbe escludere solo il patrimonio immateriale e le attività culturali.

250 Il fatto che sia rimasta irrisolta, a distanza di oltre un decennio dalla mancata attuazione della procedura prevista dal Decreto “Bassanini”, la questione dell’effettivo rispetto di tale disposizione da parte dello stesso Ministero, con riferimento alla tuttora inadeguata fruizione e valorizzazione dei beni in sua diretta gestione e responsabilità, è certificato dal c. 5 dello stesso articolo, per il quale «il Ministero può altresì trasferire alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali, in base ai principi di sussidiarietà, dif-ferenziazione ed adeguatezza, la disponibilità di istituti e luoghi della cultura, al fine di assicurare un’adeguata fruizione e valorizzazione dei beni ivi presenti».

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culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività»)251, possia-mo ritenere ormai acquisito che:

- in linea di principio, una volta che si è regolarmente pagato l’eventuale tassa di iscri-zione o biglietto di ingresso, nessuno può essere escluso da un sito, museo, biblio-teca, archivio, conferenza, spettacolo, scuola, università, o altro servizio pubblico culturale;

- ciò configura un diritto individuale, posto in capo al cittadino-utente del servizio in questione, a fruire (godere) dei relativi beni o attività culturali, per il loro interesse scientifico o educativo, per il loro valore estetico, oppure anche “solo” per mero di-letto;

- tale diritto si può comprimere solo in presenza di un effettivo interesse pubblico su-periore, che imponga di limitare o escludere l’accesso al bene stesso, nel rispetto delle «ragioni di tutela» (finalizzate a ineludibili necessità tecniche di conservazione e sicurezza252), oppure di eventuali ulteriori «esigenze di uso istituzionale» di cui all’art. 2 del Codice;

- non si può quindi ammettere sic et sempliciter, come giustificazione per la mancata fruizione, la storica carenza di risorse pubbliche statali, atteso che già a partire dal TUBC (1999) si prevedevano diverse forme di coinvolgimento delle autonomie lo-cali e della società civile; nella definizione degli indirizzi politici e delle priorità di spesa, peraltro, la garanzia dei servizi culturali dovrebbe essere sempre anteposta al-le funzioni e attività che non godono delle stesse garanzie costituzionali e legislative.

Nella misura in cui la pubblica amministrazione è tenuta, mediante il servizio cultu-rale – eventualmente erogato anche da un privato, concessionario o comunque esercente una «attività socialmente utile» (art. 111 c. 4 del Codice) – ad assicurare la produzione di tali beni e servizi, e con essi di un’utilità nei confronti del pubblico253, essa si trova dunque con tutta evidenza a dover soddisfare un diritto soggettivo254, che ha come fine proprio la frui-zione del bene o dell’attività culturale in questione; la conferma ci viene dallo stesso art. 3 del Codice, per il quale anche la stessa tutela dei beni culturali è sempre diretta a «garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione»255 (e quindi a ciò dovrebbe

251 Il principio è ribadito dall’art. 101 commi 3 e 4, il quale specifica che in tal modo viene esple-

tato un «servizio pubblico», mentre gli analoghi beni privati aperti al pubblico costituiscono un «servizio privato di utilità sociale».

252 Tale non sarebbe, quindi, la consueta motivazione della carenza di personale di custodia, laddove risulti possibile utilizzare le risorse offerte dalla tecnologia oppure, meglio ancora (per contenere i costi), attivare convenzioni con le associazioni di volontariato.

253 Si anticipa la definizione di servizio pubblico locale contenuta nell’art. 112 del TUEL: sono tali, infatti, «i servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali». Si veda infra, cap. 3.2.

254 Si ricorda a questo proposito che secondo M.S. GIANNINI, I beni culturali, cit., pp. 3 ss., «fruibilità significa obbligo di permettere la fruizione», cui evidentemente non può che corrispondere un correlato diritto del fuitore.

255 Si ricorda che, a giudizio di G. SCIULLO, Le funzioni, cit., p. 44, si tratta di una finalità che la pubblica amministrazione «deve perseguire»; secondo Vaiano, dal punto di vista specificamente funzio-nale il fine (la fruizione) è un elemento della funzione (la valorizzazione o la promozione); non appare in contraddizione la formulazione letterale dell’art. 1 c. 3 del Codice, secondo cui «lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni assicurano e sostengono la conservazione del patrimonio cul-turale e ne favoriscono la pubblica fruizione e la valorizzazione», tanto più che secondo il c. 4 «gli altri sog-getti pubblici, nello svolgimento della loro attività, assicurano la conservazione e la pubblica fruizione del loro patrimonio culturale», il che se inteso alla lettera finirebbe paradossalmente per configurare un mag-giore onere e impegno a carico di questi ultimi soggetti. piuttosto che in capo allo stesso sistema delle istituzioni, del Ministero in primis: cfr. A. CROSETTI, D. VAIANO, op.cit., p. 118.

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essere funzionale). In questo senso non c’è più alcuna ragione di limitarsi a constatare, ancora una vol-

ta, che la dottrina256 non ha sinora configurato in alcun modo questa fattispecie come una delle modalità ordinarie di esercizio da parte dei cittadini di un loro fondamentale diritto culturale (e della loro garanzia, attraverso l’organizzazione dei servizi pubblici, da parte delle istituzioni pubbliche), che come detto supra può essere felicemente sintetizzato nella dizio-ne DIRITTO A FRUIRE DELLE ARTI

257. Questo diritto non ha ancora trovato, in modo alquanto inspiegabile, alcun esplicito

richiamo nella Costituzione e nella legislazione nazionale italiana258, pur essendo stato pro-clamato sin dalla Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo del 1948.

Ciò nonostante, avendo constatato che, con tutta evidenza, esso non si contrappo-ne mai ed in alcun modo alla nostra secolare tradizione di tutela (anzi ne costituisce l’autentica ragione fondante259) possiamo dunque affermare che i «fini di pubblica fruizio-ne» cui il patrimonio culturale è destinato, presupponendo una garanzia di effettività, ne posso quindi costituire anche l’implicito e definitivo riconoscimento – per utilizzare la ter-minologia utilizzata da Raffaele Tamiozzo – di un vero e proprio “diritto di godimento” dei beni culturali260.

256 Neppure una ricerca correttamente improntata alla correlazione tra norme internazionali e

interne come quella di N. ASSINI, G. CORDINI, I beni culturali e paesaggistici, cit., p. 41, si spinge al di là della sottolineatura di un «intento di favorire la fruizione collettiva del bene», che «garantisce alla collettività una fruizione ampia ed effettiva», dunque senza fare esplicito riferimento a un correlato diritto individuale o almeno collettivo. L’unica eccezione, assai interessante, ci viene offerta da F. RIMOLI, op.cit., p. 286, che afferma l’esistenza di un «diritto del fruitore a godere liberamente» dell’opera d’arte, il quale viene però proposto esclusivamente come «risvolto della libertà dell’artista di disporre dell’impiego della medesima».

257 Tale traduzione, più chiaramente riconducibile alla terminologia del Codice, è preferibile alla più usuale di “diritto a godere”; l’art. 27 della DUDU, nei testi originali, cita il “droit de jouir des arts”, ovvero il “right to enjoy the arts”. Cfr. C. VITALE, La fruizione dei beni culturali tra ordinamento internazionale ed europeo, cit., pp. 171-180.

258 A. PAPA, Il turismo culturale in italia, cit., p. 1, rileva come in Italia siano “mancate sino ad oggi politiche riguardanti in modo specifico il ‘turismo culturale’ e più in generale la fruizione dei beni culturali”.

259 La percezione della cultura come diritto favorirebbe la maturazione di un sostegno sociale tale da assicurare il consenso generalizzato (a tutti i livelli sociali) e la condivisione collettiva che in Italia, al di là dei tanti luoghi comuni, sino ad oggi è sempre mancata.

260 R. TAMIOZZO, La legislazione, cit., pp. 255 ss., il quale tuttavia definisce ancora la fruizione come “attività istituzionale” dello Stato, posta in una “posizione mediana tra tutela e valorizzazione”; particolarmente interessante a questo proposito è il fatto che l’Autore operi un interessante collegamen-to con l’istituto della dicatio ad patriam, in virtù del quale si configura appunto un “diritto di godimento di beni culturali acquisito nel corso del tempo”. Si richiama anche la già citata Sentenza della Corte Costi-tuzionale n. 118 del 6-9.3.1990, in base alla quale lo Stato «deve porsi gli obiettivi della promozione e dello sviluppo della cultura (…); deve, inoltre, assicurare alla collettività il godimento dei valori culturali».

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4. L’ORGANIZZAZIONE DEL SISTEMA DI SERVIZI, PUBBLICI E PRIVATI, PER LA CULTURA

E LA CONOSCENZA 4.1. Bisogni culturali e personalizzazione della cultura

Non è questa la sede per analizzare in modo approfondito l’evoluzione dei fattori sociologici e politologici che hanno condizionato, in questi ultimi decenni, la percezione e considerazione del rapporto tra cittadini, cultura e fruizione turistica del patrimonio; può essere utile, tuttavia, almeno una loro disamina sommaria, se non altro per comprendere una serie di (altrimenti inspiegabili) repentine modifiche degli indirizzi politici del settore, tanto a livello nazionale, che regionale e locale1.

Rimandando al vasto dibattito in materia2, anche solo una lettura superficiale del fenomeno ci può suggerire che, almeno fino agli anni ‘60 del secolo scorso, il conseguimento di un diploma di scuola superiore potesse essere generalmente considerato un livello più che accettabile di qualificazione culturale; l’esistenza della scuola pubblica e di numerose fonti generaliste di informazione e conoscenza (giornali, radio e televisione) po-tevano quindi essere considerati offrire un adeguato e più che sufficiente livello di servizi pubblici in ambito culturale.

Nel ventennio successivo, però, non solo questa “asticella” si è gradualmente innal-zata fino al livello universitario, ma già alla metà degli anni ’903 ha cominciato a manifestarsi l’esistenza di nuovi bisogni culturali: così viene richiesta da parte di strati sociali sempre più ampi e differenziati4 la possibilità di accedere in modo agevole (e possibilmente piacevole) agli altri «mezzi di educazione» cui già faceva cenno Massimo Severo Giannini più di sessant’anni fa, che sono oggi rappresentati dalle grandi mostre, da eventi e festival, da musei, siti e monumenti di facile accesso, accoglienti e ben attrezzati, da biblioteche e archivi (reali o digitali) sempre più aggiornati e accessibili, da spettacoli di alto livello ma alla portata di tutti, e così via.

1 Quasi tutte queste variazioni si possono indicativamente collocare tra il 1993 e il 2006; non

può sfuggire il fatto che tale periodo coincida con quello della riscoperta e del rilancio nel nostro Paese del sistema di strumenti di valorizzazione del patrimonio culturale, realizzato proprio grazie al recepimento e l’attuazione delle diverse norme convenzionali promananti dall’UNESCO, a partire da quelle della Convenzione di Parigi del 1972. A riprova di quanto affermato, sui 47 siti oggi iscritti nella World heritage list, ben 28 (molti dei quali seriali) sono stati iscritti nel periodo considerato.

2 Alcuni riferimenti al tema sono reperibili nel recente saggio di E. ERCOLE, Cultura materiale e prodotto turistico: autenticità, unicità, senso ed emozioni, in M. GILLI, P. GRIMALDI (a cura di), Imparare la tradizione, Quaderni di Astiss, Asti, Diffusione Immagine, 2007, pp. 35-44.

3 Cfr. in proposito quanto riportato nel 29° Rapporto sulla situazione sociale del paese, Milano, Censis, 1995, pp. 76 ss., secondo il quale «i bisogni culturali stentano (…) a trovare una cittadinanza anche a livello istituzionale», dal che traspare che ancora a quell’epoca relativamente recente «la cultura resta un bisogno privato, soggettivo, quasi voluttuario, senza più alcun valore collettivo, un valore esterno all’area della responsabilità sociale».

4 E. ERCOLE, op.cit., p. 35, fa riferimento alla necessità sentita da individui e gruppi di costruire «la propria identità attraverso azioni e soprattutto consumi di tipo simbolico, quali il consumo di cultura, arte e turismo», dunque (secondo la lettura sociologica di P.Bordieu) proprio attraverso «meccanismi sociali di distinzione, al cui interno i consumi simbolici costituiscono un importante indicatore».

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Questa fruizione diffusa, dunque sempre meno elitaria e connotante una specifica classe sociale, ha fatto salire in modo vertiginoso il numero complessivo dei turisti culturali che sempre più affollano i monumenti e le città d’arte, un tempo per lo più meta preferita dagli stranieri5, tanto che oggi è normale ragionare in termini di centinaia di migliaia di visitatori delle principali mostre, e di milioni per i grandi musei e siti archeologici nazionali.

Ciò ha progressivamente suscitato l’attenzione e l’interesse degli economisti, degli esperti di marketing6, i quali si sono illusi per un ulteriore ventennio (a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo) che fosse possibile fare business grazie a questo fenomeno7; da qui la crescente fortuna, presso legislatori e amministratori pubblici, di modelli organizzativi e gestionali spiccatamente aziendalistici, presto recepiti anche in alcune norme che hanno significativamente innovato il settore, essendo ispirate più al diritto (privato) commerciale che a quello (pubblico) dei beni culturali.

Dopo qualche anno di verifica fattuale8, tuttavia, si sta cominciando a comprendere che l’industria culturale richiede grandi numeri e scelte standardizzate9, mentre il vero “turista” (nel senso storico-etimologico del termine10), ben difficilmente si fa rinchiudere in “pacchetti” preconfezionati, di rado torna nello stesso luogo, se non a distanza di anni, ed anzi cerca sempre luoghi ed emozioni nuove, possibilmente senza essere costretto forzosamente a condividerle con troppi simili11.

5 A. PAPA, Il turismo culturale in italia: multilevel governance e promozione dell’identità culturale locale, in

Federalismi.it, (4) 2007, p. 2, rileva come “la legislazione, in materia di beni culturali, ha sempre privilegiato la conservazione piuttosto che la valorizzazione del patrimonio culturale” nella “convinzione che la conoscenza del patrimonio culturale avesse un carattere ‘elitario’, come tale riservato a coloro che erano da soli in grado di apprezzare la bellezza e il valore culturale di un’opera”. Ancora oggi, specialmente nell’immaginario collettivo e per i mass media, sono le spiaggie delle località balneari, e non certo le città d’arte, i luoghi istituzionalmente deputati alle patrie vacanze e alle gite “fuori porta”.

6 Secondo W. SANTAGATA, G. SEGRE, M. TRIMARCHI, Economia della cultura: la prospettiva italiana, in Economia della Cultura, (4) 2007, l’attenzione degli economisti sulla cultura si è manifestata solo a parti-re dal 1982; si vedano anche G. BROSIO, W. SANTAGATA Economia dell’arte e della cultura in Italia, Torino, Fondazione G. Agnelli, 1991; W. SANTAGATA (a cura di), Economia dell’Arte, Torino, Utet, 1998; L. ZAN, Economia dei musei e retorica del management, Milano, Electa, 2003; G. CANDELA, A.SCORCU, Economia della arti, Bologna, Zanichelli, 2004.

7 Correttamente però G. SEGRE, Economia della cultura: facciamo il punto, EyesReg, 1 (2), Luglio 2011, rileva che «la corretta spinta a generare valore economico attraverso la cultura non può e non deve appiattirsi sull’offerta di quei soli beni e servizi per i quali esistono un mercato e un prezzo».

8 Secondo G. PIPERATA, Natura e funzione dei servizi aggiuntivi nei luoghi di cultura (nota a margine dell’ordinanza 27 maggio 2009, n. 12252 della Suprema Corte), in Aedon, (1) 2010, p. 1, i servizi museali «non solo non hanno avuto quella diffusione che si sperava, ma soprattutto hanno generato flussi finanziari ben al di sotto di quelli attesi e difficilmente paragonabili con i risultati positivi registrabili in analoghe esperienze realizzate nei musei stranieri».

9 È questo fenomeno, fatto di comitive organizzate sulla base di programmi predefiniti, circuiti turistici rigidi e selettivi, con percorsi stabili e di facile gestione da parte di albergatori, ristoratori e aziende di trasporto pubblico, che ha portato al concentramento di grandi flussi turistici, persino eccessivi e pericolosi per la corretta fruizione e conservazione degli stessi beni culturali interessati, solo su alcune località italiane (in particolare Venezia, Firenze, Pisa, Roma e Pompei).

10 Come noto, i termini turista e turismo sono stati usati ufficialmente per la prima volta dalla Società delle Nazioni (1937), ma già in precedenza si riferivano alla pratica culturale del Grand Tour, che i giovani aristocratici europei iniziarono a fare in Italia sin dal XVII secolo, dapprima fino a Napoli e poi nel XIX secolo (su ispirazione di Stendhal e Goethe) fino alla Sicilia: tale esperienza di viaggio era infatti considerata il necessario completamento della preparazione culturale delle nuove classi dirigenti.

11 E. ERCOLE, op.cit., p. 38; già una quindicina di anni fa, in G. BERTOCCHI, S. FOA, Il turismo come servizio pubblico, Milano, Giuffré, 1996, pp. 14-15, veniva proposta come categoria più numerosa (che all’epoca rappresentava il 20,2 della popolazione turistica italiana), quella dei c.d. “cultori del viaggio” cioè quelli che «sono informati, hanno letto libri, riviste, non si sono quindi rivolti alle agenzie di

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Si sta anche riscontrando, specialmente negli ultimi anni, un crescente interesse non solo per i siti e i beni culturali di paesi lontani, ma anche per quelli del proprio territorio, in questo percepiti come emblematici di identità e memoria12, dunque espressione (per non dire sinonimo) di storia e tradizione, oltre che per banali ragioni di limitazione dei costi e dei tempi di viaggio e soggiorno13. Di conseguenza hanno acquistato rilevanza e interesse, anche per le amministrazio-ni pubbliche, l’organizzazione di attività didattiche per le scuole, di itinerari da fare a piedi o in bicicletta, magari utilizzando le audioguide personalizzate scaricabili dal web, favorendo i soggiorni in agriturismi, castelli e conventi; si è quindi inteso privilegiare strumenti ammini-strativi di sostegno e incentivo all’organizzazione della fruizione turistica e culturale del ter-ritorio caratterizzata dal fatto di essere tendenzialmente individuale, a basso costo e impatto socio-ambientale, a fronte di un alto valore di esperienza individuale e a positive ricadute sul piano dello sviluppo locale delle aree rurali ed ex-industriali14.

D’altronde anche la concessione a imprenditori privati della gestione di servizi più spiccatamente commerciali, come i bookshop o le caffetterie dei grandi musei e siti visitabili, oppure dello sfruttamento dell’immagine di celebri opere d’arte o monumenti storici, non dovrebbero mai trasformare un settore fino a pochi anni fa di nicchia come il turismo cul-turale, in un prodotto da gestire e vendere con logiche prettamente industriali15.

Al contrario, la fruizione generalizzata del patrimonio artistico, storico e paesaggistico nazionale, che costituisce la vera prerogativa e attrattiva italiana, dovrebbe essere sostenuta, gestita e messa a disposizione tanto dei turisti che dei cittadini, se necessa-rio anche sotto forma di servizio “sociale”, riconoscendole il valore primario di tutela della memoria e dell’identità locale, oltre a valorizzare il fatto che può costituire una forma moderna (anche piacevole) di educazione continua16.

Ciò nondimeno, la legislazione e l’amministrazione culturale e turistica italiana sono tuttora concepite secondo la tradizionale concezione per cui i destinatari della promozione e valorizzazione culturale, come pure dell’istruzione pubblica, continuano ad essere consi-

viaggio», potendo anche contare su una buona scolarità; di conseguenza «si interessano di patrimonio artistico, degli aspetti antropologici e culturali dei luoghi da visitare, osservare, fotografare, senza alcuna ‘full immersion’ nell’ambiente di vacanza». Un aspetto che certamente è cambiato rispetto all’interessante analisi di Bertocchi e Foa è il fatto che questo genere di turista non porrebbe «particolare attenzione alla qualità del cibo», cosa che invece sempre più sovente caratterizza il turismo di cui ci occupiamo, che in alcune regioni (si pensi a Emilia, Toscana, Lazio, Puglia, cui si sta ultimamente aggiungendo anche il Piemonte) è sempre più basato sul binomio vincente arte-enogastronomia.

12 Rileva A. PAPA, Il turismo culturale in italia, cit., p. 6-8, che “ogni colunità sceglie i beni culturali che la rappresentano e li tutela, vietandone la distruzione e l’uscita dal Paese. È per lo stesso motivo che lo usa per manifestare alle altre comunità la propria tradizione culturale. È indubbio infatti che il patrimo-nio storico-artistico di un Paese sia il principale motivo che spinge cittadini di altri Stati a visitarlo”.

13 Ibidem, pp. 16 e 69, che sintetizzano l’evoluzione affermando che «si sta diffondendo sempre più la cultura turistica», che include anche una maggiore capacità critica e una «crescente sensibilizzazione verso le tematiche ambientali».

14 Ne è riprova formale il fatto che proprio verso questo genere di azioni di sviluppo locale si sono orientati numerosi bandi, progetti e misure comunitarie di finanziamento, sia a carattere strutturale (fondi UE obiettivo 2 e 5b) che tematico (Cultura 2000, Interreg, Euromed, Central Europe, ecc.).

15 Non dovrebbe esserlo neppure la visita di Roma, Firenze, Venezia o Pompei, anche se i grandi numeri di turisti l’hanno ormai resa per molti versi tale: G. GOLINELLI, Le necessità del sistema museale, in Aedon, (2) 2008, p. 2, correttamente rileva che «il nostro patrimonio culturale deve contribuire a generare flussi turistici di qualità», l’unico modo grazie al quale «il benessere di tutto un territorio può essere implementato facendo leva sui beni museali valorizzati»; cfr. anche G. BERTOCCHI, S. FOA, op.cit., pp. 47-49.

16 R. CHIARELLI, op.cit., pp. 271-273; E. ERCOLE, op.cit., pp. 42-43.

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derati nella veste di scolari, spettatori o turisti, dunque in un’accezione passiva (suffragata anche da alcuni riferimenti legislativi in tal senso) che li relega al ruolo di utenti, specialmen-te quando si parla di grandi siti, musei o mostre.

Solo di recente le norme nazionali e regionali si stanno adeguando – e con esse l’organizzazione amministrativa e le relative prassi, a partire dal livello locale – alla nuova realtà, in cui i beneficiari di questa particolare categoria di servizi pubblici17 hanno titolo e chiedono di essere considerati (e tutelati) in quanto lettori, studiosi, curiosi o appassionati: in ogni caso come cittadini fruitori, che possono esercitare in tal modo un ruolo attivo, da veri protagonisti della cultura, proprio nello spirito della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e di altri documenti internazionali già richiamati nei precedenti capitoli18.

Questa prospettiva innovativa ha dunque iniziato a trovare i primi riconoscimenti giuridici (di pari passo con l’analoga evoluzione registrata dagli studi sociologici ed econo-mici) e si sta progressivamente affermando nella legislazione regionale e nell’operato quoti-diano degli amministratori e dei professionisti del settore culturale19, specialmente di quelli operanti a livello regionale, negli enti locali e nel “terzo settore”; trova per contro ancora rari e controversi riscontri nelle sedi istituzionali e nella prassi operativa delle amministra-zioni statali, ministeriali o decentrate, che a vario titolo hanno competenze in materia di cultura, comunicazione, istruzione e turismo. 4.2. Indagine sui servizi considerati “culturali” negli enti locali a. Criteri utilizzati

Prima di esaminare il quadro normativo di riferimento, può essere utile compiere (o forse meglio introdurre) un’operazione di correlazione fra le diverse tipologie di diritti cul-turali già individuate e le corrispondenti tipologie di servizi, soprattutto locali, rispetto alla quale occorre preliminarmente chiarire che:

1) su questo tema le ricostruzioni dottrinali sono rare e alquanto parziali, essendo con-centrate sui servizi (e sui relativi strumenti di gestione) più rilevanti dal punto di vi-sta economico ed industriale;

2) questa operazione appare utile al fine di dimostrare che lo spettro dei servizi cultu-rali in senso lato è assai più ampio, complesso ed articolato di quanto comunemente si intenda;

3) la correlazione non potrà tuttavia essere compiuta in modo compiutamente siste-matico, dal momento che attiene alla discrezionalità degli enti pubblici titolari delle relative funzioni, e più ancora dei soggetti privati che ad essi sempre più sovente si affiancano o addirittura si sostituiscono, la valutazione e decisione definitiva e so-stanziale, in merito alla rilevanza delle molteplici esigenze della comunità di riferi-

17 Cfr. G. BERTOCCHI, S. FOÀ, op.cit., pp. 63 ss . 18 Con specifico riferimento ai servizi culturali, si ricordano in particolare il Manifesto

UNESCO-IFLA sulle biblioteche pubbliche, le linee guida UNESCO-ICOMOS sulla gestione dei siti monumentali, archeologici e paesaggistici, oppure i Codici etici dei Musei (ICOM) e del Turismo (UNWTO).

19 Si veda ad es. S. LANDI, I sistemi turistici locali per lo sviluppo di turismo e ospitalità nel Mezzogiorno, Roma, Confindustria, 2003, indica tra i problemi strutturali cruciali del sistema turistico italiano (insieme ai noti aspetti infrastrutturali) proprio la «limitata valorizzazione del patrimonio culturale»; v. anche AA. VV., Annuario Turismo e Cultura, Milano, Touring Club Italiano, 2010.

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mento e dei servizi che devono, caso per caso, rispendere loro (avendo presente il contesto territoriale e socio-economico).

Si intende dunque verificare cosa nell’esperienza concreta viene definito20, o almeno è proposto oppure può essere identificabile come servizio di rilevanza culturale21; è doveroso chiarire, infatti, che sono rarissimi i casi in cui risulta effettivamente adottata in modo for-male, ed utilizzata esplicitamente, la dizione “servizi culturali”22.

Se in alcuni casi emblematici i comuni e le province inseriscono in modo esplicito la voce “cultura” nell’ambito dei servizi alla persona23, nella quasi totalità degli enti locali la fun-zione è annoverata (significativamente) solo tra le competenze assessorili e le connesse strutture burocratiche, senza che risulti perciò evidenziata in alcun modo la loro natura di servizi finalizzati alla fruizione, da parte della cittadinanza come di visitatori e turisti.

Le competenze in materia culturale sono normalmente inserite nell’ambito delle strutture amministrative24 che si occupano anche di turismo (spesso associato con lo sport e il tempo libero), oppure di istruzione, ma non di rado le si ritrova citate nel novero dei ser-vizi generali dell’ente, oppure di quelli più propriamente istituzionali e di comunicazione; la cultura è talora associata anche con il lavoro e la formazione professionale e in un caso per-sino con la sanità25.

20 Viene qui presentato l’esito di una indagine empirica effettuata sui siti web di un certo

numero di enti locali italiani, rappresentativi in prima approssimazione delle diverse tipologie, livelli e dimensioni – dalla capitale, alle regioni, fino alle comunità montane e ai piccoli comuni – presenti in aree più o meno vocate alla cultura e al turismo. I venticinque enti considerati, da nord a sud, sono: Comune di Ayas (AO), Regione Piemonte, Provincia di Asti, Comune di Tortona, Comunità Montana Valle Arroscia (Imperia), Comune di Vigevano, Comunità Montana di Valle Camonica (Brescia), Comune di Bressanone, Provincia di Rovigo, Comune di Palmanova, Comune di Parma, Regione Emilia Romagna (IBC), Provincia di Modena, Unione di Comuni Isola d’Elba, Comune di Urbino, Regione Umbria, Provincia di Viterbo, Città di Roma, Comunità Montana Alto Molise (Isernia), Provincia di Sassari, Comune di Capaccio-Paestum, Comune di Lecce, Regione Basilicata, Comune di Riace, Comune di Milazzo. Altri venti Enti, incluso il Ministero per i Beni e le attività culturali, sono stati presi in esame per verificare singole tipologie o modalità di denominazione e gestione dei rispettivi servizi culturali. Il campione statistico non è stato definito in modo scientifico.

21 G. PIPERATA, I modelli di organizzazione, cit., pp. 3-4, li definisce più ampiamente come «servizi culturali e del tempo libero», evidenziando che il legislatore non ha inteso indicarne gli «elementi caratterizzanti», lasciando in questo modo «agli enti locali ampia autonomia nella scelta delle attività da gestire attraverso i modelli organizzativi», che in allora erano previsti dall’art. 113 bis del TUEL, poi dichiarato incostituzionale.

22 Esemplare in questo senso è il caso del Comune di Bressanone, unico tra gli enti considerati che distingue tra i servizi per il cittadino (nei quali sono incluse le scuole e il sostegno alle attività culturali) e servizi di sviluppo culturale, che comprendono la biblioteca e gli spazi espositivi o per riunioni, ma anche la disponibilità di sedi per le associazioni e un premio letterario.

23 Si segnala il caso di un grande comune che dispone di una struttura tecnica specificamente dedicata alla gestione, all’amministrazione ed anche al controllo dei servizi culturali; un altro definisce dettagliatamente i servizi della biblioteca (prestito, consultazione, lettura); una provincia ha creato una struttura amministrativa competente in materia di beni, servizi culturali e spettacolo; un’altra, infine, definisce un proprio progetto denominato “Luoghi della cultura” come un vero e proprio sistema di servizi culturali.

24 È determinante a tal fine la dimensione e complessità organizzativa dell’ente, che può andare dal singolo addetto del piccolissimo comune che deve occuparsi di funzioni e attività non necessariamente affini, fino al caso eclatante dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (IBC), nel cui articolato organigramma vengono evidenziate funzioni, competenze e attività specializzate, in modo assai dettagliato e articolato.

25 Forse in ottemperanza all’adagio «mens sana in corpore sano» (Giovenale, Satire, X, 356).

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b. Catalogo26

1. MANUTENZIONE E GESTIONE DI EDIFICI SCOLASTICI. Servizi e interventi finalizzati alla manutenzione, al riscaldamento e alle pulizia, alle misure e ai dispositivi di sicurezza, non-ché alla gestione di spazi esterni (verde, aree sportive, parcheggi, ecc.) e di attività extrasco-lastiche27; tali funzioni implicano compiti onerosi, in molti casi di particolare complessità tecnica.

2. PROMOZIONE DELLE ATTIVITÀ CULTURALI. Grandi manifestazioni, eventi e festival, atti-vità culturali in genere, come ad esempio concorsi e premi letterari, normalmente proposti in connessione ed ai fini della promozione (presso la cittadinanza e non solo) dell’immagine pubblica della località e dell’amministrazione stessa28.

3. PROMOZIONE DI SPETTACOLI E ATTIVITÀ MUSICALI. Organizzazione, produzione, soste-gno e promozione di concerti e rassegne, gestiti o coordinati, in molti casi, in collaborazio-ne con istituzioni e associazioni culturali del territorio29.

4. ACCOGLIENZA E INFORMAZIONE TURISTICA. Quasi mai considerato e organizzato come servizio culturale, in molti casi è gestito in connessione con la progettazione e l’allestimento di strutture di documentazione e itinerari turistico-culturali30.

5. CREAZIONE O SOSTEGNO A ISTITUTI E SPAZI CULTURALI. Il teatro civico è uno dei più tipici esempi di istituto culturale al servizio della cittadinanza, cui possono affiancarsi con-servatori, scuole di musica e corsi bandistici; il palazzo delle esposizioni o l’auditorium pos-sono in qualche caso offrire grandi opportunità culturali e promozionali31, ma normalmente si tratta di strutture medio-piccole, poste al servizio della comunità locale e delle sue esi-genze32.

6. GESTIONE DI BIBLIOTECHE. Si tratta del servizio culturale più regolamentato, finanziato e sostenuto, dalle norme tecniche ministeriali come dalla legislazione regionale; la biblioteca deve a tal fine garantire i servizi di prestito, consultazione e lettura33, ma in molti casi opera anche come centro culturale, per l’organizzazione di eventi di promozione.

7. GESTIONE E ACCESSO AGLI ARCHIVI. L’archivio storico è il più classico dei servizi cul-turali, strettamente connesso all’attività amministrativa ed istituzionale ed imprescindibile ai fini della ricerca storica; non meno significativo a tal fine è l’archivio amministrativo e tecnico di deposito, in quanto destinato a diventare a sua volta storico34.

26 I servizi sono enumerati in un ordine che tiene conto, in senso decrescente, della frequenza

con cui sono stati riscontrati negli enti considerati. 27 Sono salve ovviamente le attività prettamente didattiche, di ogni ordine e grado, e quelle

gestionali e amministrative strettamente funzionali ad esse, di pertinenza delle singole istituzioni scolastiche autonome.

28 I qualche caso si realizzano a veri e propri servizi come il calendario degli eventi o il supporto agli scambi tra le associazioni; in un caso viene proposta un’attività di promozione del cinema.

29 Si è anche riscontrata un’attività locale specificamente dedicata ai musicisti di strada. 30 La realizzazione di materiale promozionale e informativo turistico è considerata come

servizio culturale da un solo comune; in rari casi si predispongono circuiti escursionistici, archeologici, naturalistici.

31 Si pensi in particolare all’Auditorium-Parco della Musica di Roma, gestito per conto dell’Amministrazione Comunale dalla Fondazione Musica per Roma, che ospita annualmente oltre duemila eventi con circa 2.500.000 presenze di pubblico.

32 In alcuni casi si sono riscontrate specifiche istituzioni (ad es. una Casa degli Artisti), fondazioni o consorzi, finalizzati alla gestione di centri culturali e di ricerca della più varia natura.

33 In alcuni casi sono evidenziati servizi specifici, come ad es. la “Biblioteca dei ragazzi” o il Bibliobus.

34 Si segnalano casi di servizi archivistici di area vasta e di sostegno al recupero e riordino di

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8. GESTIONE DI SALE E SPAZI ESPOSITIVI. L’allestimento e la gestione di gallerie d’arte o spazi espositivo in genere, è finalizzato all’organizzazione diretta oppure all’ospitalità di esposizioni artistiche offerte alla cittadinanza e ai turisti, raramente a pagamento, quasi sempre con il corredo di catalogo e sussidi didattici; è altrettanto frequente l’organizzazione di mostre (professionali o amatoriali) di limitate dimensioni e rilievo, denotanti un più mar-cato carattere di promozione delle diverse forme espressive.

9. GESTIONE E VALORIZZAZIONE DI MUSEI E BENI CULTURALI. Non sono frequenti, mal-grado la tradizione delle istituzioni civiche, i casi di musei e pinacoteche effettivamente ge-stiti e organizzati come servizi pubblici, piuttosto che come mere collezioni esposte in loca-li più o meno idonei, e affidati ad associazioni culturali o Pro loco; più frequente è la gestione di monumenti, ville, palazzi, castelli, parchi storici, siti e aree archeologiche, nei molti casi di beni non gestiti direttamente dallo Stato; non di rado tali immobili ospitano anche la sede istituzionale o altri servizi dell’Amministrazione.

10. ATTIVITÀ DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE. Vengono proposte strutture e attività educa-tive e didattiche, anche a supporto dell’università (foresterie e spazi di ricettività, funzioni di orientamento, attività di tutorato, ecc.), oppure a sostegno delle attività di educazione per-manente e alle c.d. Università della terza età; sono frequenti le attività parascolastiche, forma-tive e seminariali, come laboratori, corsi di orientamento musicale, stages in Italia e all’estero.

11. VALORIZZAZIONE DELLE TRADIZIONI. Identità e tradizioni locali sono al centro di mol-teplici attività degli enti locali, che vanno dal sostegno alle attività musicali popolari, all’organizzazione di rievocazioni storiche o, più semplicemente e frequentemente, di sagre e feste tradizionali.

12. COMUNICAZIONE CULTURALE ED ISTITUZIONALE. In ottemperanza alle norme sulla tra-sparenza, sono sovente (ma non sempre) attivati sportelli e servizi informativi per le rela-zioni con il pubblico, i c.d. URP, che talvolta gestiscono riviste e giornali istituzionali, anche con finalità di marketing territoriale e di promozione dell’immagine della città o del territo-rio, ma che non sono mai connessi funzionalmente agli altri istituti culturali35; è quasi sem-pre presente il sito web36, sovente si cura la realizzazione e diffusione di materiali promo-zionali, turistici e di sostegno all’editoria locale, mediante acquisto, presentazione e distribu-zione di volumi37.

13. ATTIVITÀ CONVEGNISTICA. Molto frequente è l’offerta di servizi e spazi – a partire dalla Sala consiliare dell’Ente – ai fini dell’organizzazione di convegni o conferenze, con la con-nessa organizzazione di segreteria, ufficio stampa, registrazione, audiovisivi, catering, ecc); in alcuni casi si riscontra l’ospitalità di corsi e seminari di varia natura e finalità, gestiti tramite strutture specificamente dedicate, che includono talora attività formative in materia di valo-rizzazione dei beni culturali.

14. VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO LINGUISTICO. Anche al di fuori delle Regioni a Statuto speciale, che possono contare su specifiche norme in materia, sono numerose le at-tività di tutela, valorizzazione e promozione della conoscenza di lingue minoritarie e dialet-ti, sostegno e coordinamento delle iniziative di enti e associazioni, con alcuni casi di attività scolastiche e formative in lingua o dialetto.

archivi storici.

35 Non di rado l’URP funge da ufficio informazioni o biglietteria per gli spettacoli o gli eventi. In un solo caso di particolare rilievo si è riscontrata l’esistenza di un unico Dipartimento politiche culturali e comunicazione, mentre in un altro vengono considerati unitariamente i temi Comunicazione e media.

36 Un solo comune lo inserisce tra i servizi culturali. 37 Solo un’Amministrazione provinciale cita espressamente la cura e realizzazione (come vera e

propria casa editrice) di proprie autonome pubblicazioni.

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15. ORGANIZZAZIONE DELLA FRUIZIONE. Nei rari casi di strutture museali o espositive specificamente orientate all’utenza, si trovano esempi di gestione diretta o di concessione a soggetti terzi dei servizi aggiuntivi, tra cui in particolare l’offerta di visite guidate e laborato-ri di didattica.

16. UTILIZZO DI EDIFICI PUBBLICI. In molte realtà vengono messe a disposizione del pub-blico, in via permanente, palestre o sale polifunzionali, oppure l’aula magna per il polo uni-versitario locale38; di particolare rilievo sono i casi di concessione (gratuita o al mero costo) di spazi adibiti come sedi di associazioni e progetti culturali o di promozione.

17. ORGANIZZAZIONE E GESTIONE DI SISTEMI. Sono numerosi ma piuttosto differenziati (essendo condizionati dalle rispettive norme regionali in materia) i casi di strutture di coor-dinamento delle reti, che in genere si limitano ad autodefinirsi come “sistema museale” o “sistema delle biblioteche”39; in alcune situazioni le attività di sistema assumono anche la forma specialistica dell’attività di organizzazione e coordinamento di progetti territoriali40.

18. GESTIONE DI COLLEZIONI STORICO-ARTISTICHE. L’attività di censimento, inventaria-zione e catalogazione non è quasi mai istituzionalizzata, fatti salvi gli aspetti prettamente patrimoniali41; raramente è riscontrabile l’esistenza di veri e propri centri di catalogazione dei beni culturali o servizi specificamente dedicati alla richiesta di immagini e al prestito di opere d’arte42.

19. CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI. La manutenzione e il restauro dei beni librari costituiscono il caso più frequente di servizi di tutela non statali, essendo gestiti a livello re-gionale dalle Soprintendenze a suo tempo trasferite dal Ministero43; un aspetto di particola-re rilevanza e interesse è costituito dai servizi di prevenzione e protezione44, che nei casi di minore rilevanza storico-artistica e complessità organizzativa sono demandati alle locali squadre di protezione civile45.

20. INIZIATIVE DI VALORIZZAZIONE INTERNAZIONALE DEL PATRIMONIO. I servizi di pro-mozione e accoglienza dei visitatori, specialmente nelle situazioni particolarmente rilevanti dal punto di vista qualitativo e quantitativo (città d’arte, grandi siti archeologici o parchi sto-rici), tendono a specializzarsi nella progettazione e gestione di procedure finalizzate all’inclusione del monumento o sito in itinerari o circuiti nazionali ed internazionali, il cui

38 Un comune definisce come servizio culturale l’offerta di sedi e altri spazi alle associazioni

locali. 39 Rilevanti eccezioni sono costituite dai centri operativi dei sistemi di musei e biblioteche, da una

struttura centralizzata di gestione, amministrazione e controllo dei servizi culturali, dal servizio centralizzato di promozione e qualificazione dell’offerta culturale sul territorio o ancora l’attività tecnica per i musei e le biblioteche.

40 Meritano di essere segnalate almeno le reti telematiche e multimediali di una Regione e la Festa dei musei, degli archivi e delle biblioteche di una Provincia.

41 Un’importante eccezione è offerta dall’IBC Emilia Romagna 42 L’eccezione è del tutto giustificabile in considerazione dell’assoluto rilievo dell’Ente in

questione (la Città di Roma). 43 Si evidenziano casi di attività di promozione della tutela e di organizzazione di laboratori di

restauro. 44 Specificamente organizzati e definiti come tali solo in un caso, relativo a una grande realtà

metropolitana. 45 In un Comune, ad esempio, il servizio comunale di P.C., collocato presso il Comando Vigili

urbani, predispone corsi, esercitazioni di sgombero e piani di emergenza per gli istituti culturali, anche in collaborazione con diverse associazioni di volontariato del settore culturale.

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livello più alto è costituito dalla Lista del Patrimonio mondiale dell’UNESCO, ed in seguito alla gestione delle iniziative e attività delle relative reti46.

21. STUDI E RICERCHE. Le attività di studio e ricerca riguardano per lo più, anche in ragione della connessione con la programmazione e la definizione degli indirizzi politici delle am-ministrazioni, gli aspetti socio-economici del territorio; non mancano però laboratori e altre attività di promozione della cultura scientifica, oppure iniziative in tema di memoria storica (si pensi agli Istituti della Resistenza) e persino scambi internazionali47.

22. ALTRE ATTIVITÀ INTELLETTUALI. I servizi culturali più sofisticati e specialistici, come ad esempio la programmazione culturale, l’innovazione, o la definizione degli standard di quali-tà si trovano definiti e organizzati solo presso realtà di assoluta eccellenza a livello naziona-le48. 4.3. La correlazione tra servizi culturali, fruitori e loro diritti

Da questa analisi è possibile trarre qualche elemento di interesse generale, nella mi-

sura in cui essa può essere esemplificativa delle relazioni dirette che intercorrono tra i diritti culturali dei cittadini (singoli e associati) e i servizi che sono offerti loro, in particolare a li-vello locale. È notoria e generalizzata, infatti, la tendenza del legislatore a considerare tali funzioni piuttosto come finalizzate in astratto alla promozione delle diverse forme di arte e di scienza, alla conservazione della memoria e delle tradizioni locali (più raramente anche delle loro testimonianze materiali); non di rado, esse divengono anche funzionali, più o meno propriamente, anche alla promozione del territorio e quindi della stessa immagine dell’ente e dei suoi amministratori.

Tutto ciò rileva in modo particolare allorché le funzioni e le attività pubbliche in materia di cultura e conoscenza hanno riflessi e trovano riferimenti positivi sul piano nor-mativo (ad esempio nello statuto o in un regolamento, comunale o provinciale), ammini-strativo e gestionale.

Per rendere evidente il diverso approccio che ne dovrebbe conseguire, possiamo dapprima esaminare il rapporto esistente tra un servizio offerto e le tipologie di utenti che possono (o, solo in qualche specifico caso, come per la scuola dell’obbligo, che debbono) usufruirne.

Rispetto ai servizi di tutela del patrimonio storico-artistico e di valorizzazione e ge-stione di musei, mostre, teatri, auditorium, risulta facilmente ed immediatamente individua-bile la categoria degli spettatori-visitatori49; tuttavia occorre considerare che anche gli stessi artisti possono vantare diritti, nella misura in cui sono interessati a esporre o presentare li-beramente le proprie opere e performances artistiche, letterarie o di spettacolo.

Le strutture e i servizi delle scuole superiori e delle università, le biblioteche e gli ar-chivi, ma anche l’accesso a convegni, ricerche e pubblicazioni hanno normalmente come primi destinatari gli studenti, ricercatori e docenti dei diversi ordini e gradi di istruzione, ivi inclusi beninteso quelli della scuola dell’obbligo; tuttavia, tali servizi dovrebbero essere po-

46 Si segnalano in alcuni casi attività di documentazione dei beni culturali, o di specifiche

tipologie di particolare rilevanza, presenti nel territorio di riferimento. 47 In una Regione essi sono finalizzati alla promozione del dialogo. 48 Il caso emblematico è costituito dall’IBC dell’Emilia Romagna; altri casi di servizi

specializzati, sono quelli finalizzati alla ricerca di sponsorizzazioni, alla partecipazione ai progetti europei in ambito culturale, nonché a iniziative di best practices e bench marking.

49 G. BERTOCCHI, S. FOA, op.cit., pp. 68 ss.

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sti (nella misura del possibile) anche a disposizione di comuni appassionati e studiosi, come pure di tutti i cittadini e visitatori più o meno occasionali. Una categoria di particolare rilie-vo tra i possibili utenti qualificati può essere individuata negli amministratori pubblici, che de-vono poter acquisire le informazioni e conoscenze necessarie ai fini dell’adozione di valuta-zioni e decisioni di interesse generale, spesso di grande complessità tecnica.

I musei etnografici e gli ecomusei, le manifestazioni folcloristiche e le altre iniziative di promozione e valorizzazione delle tradizioni popolari e dei dialetti, hanno come destina-tari privilegiati i circoli, gruppi o associazioni particolarmente sensibili e attenti alla cultura materiale e locale, ma possono riguardare anche le comunità non autoctone o straniere, che si sono via via insediate negli anni passati e recenti, e che possono essere interessante tanto a integrarsi con le specificità locali, quanto a confrontarle con la propria diversa storia e identità culturale.

Anche quelle funzioni che sembrano lontane dall’interesse del singolo cittadino-utente, come i servizi di conservazione e manutenzione dei beni culturali demaniali o la stessa protezione civile, possono avere quali destinatari interessati – come si è dovuto consta-tare in occasione di recenti calamità – i proprietari (pubblici e privati) di edifici storici o di opere d’arte, e più in generale la comunità locale titolare di quel patrimonio storico-artistico, a fini di salvaguardia dei connessi valori di identità e memoria collettiva e indivi-duale.

In ultimo, alla luce di quanto si è detto circa la concezione internazionale dei diritti culturali, se si accetta di inserire tra i servizi culturali la comunicazione pubblica, costituita da uffici stampa, siti web o riviste, ed anche dall’URP, servizio deputato a garantire l’accesso agli atti amministrativi da parte dei singoli cittadini volta per volta interessati50, destinataria in ultima istanza dei relativi servizi di informazione risulta essere l’intera cittadinanza, cui attiene la tutela dei vari diritti collettivi e interessi diffusi in gioco: essa può essere a tal fine considerata tanto nella comune veste di opinione pubblica, quanto nella ben più qualificata e fondamentale funzione di corpo elettorale.

Se poi si constata che nell’area dei servizi pubblici è riscontrabile una «crescente uti-lizzazione degli strumenti di diritto comune ad opera delle amministrazioni pubbliche», che vengono «evidentemente ritenuti, in determinati contesti, più idonei per il buon andamento amministrativo»51, possiamo trarne ulteriore conferma del fatto che le diverse categorie e tipologie di utenti vantano comunque nei confronti dell’ente erogatore dei diritti (culturali), dal momento che la parte preponderante delle funzioni così esercitate dalle diverse ammini-strazioni pubbliche in ambito culturale, con la sola importante eccezione delle funzioni di tutela in senso stretto (di competenza quasi esclusivamente statale52), non hanno alcuna na-tura autoritativa.

Solo a fronte di queste ultime, i cittadini proprietari di beni culturali, dovendo soc-combere al prevalente interesse pubblico, vantano meri interessi legittimi. In tutti gli altri casi, ed in specifico per tutte le funzioni di gestione, promozione e valorizzazione, siamo dun-

50 Per rispondere all’esigenza, espressa dalle precedenti leggi n. 241 e n. 142 del 1990, di

garantire la trasparenza amministrativa e la qualità dei servizi, l’art.12 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (ora art. 11 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), ha istituito e regolato gli Uffici per le relazioni con il pubblico, la cui normativa è stata completata dalla legge 7 giugno 2000, n. 150, in materia di comunicazione e informazione pubblica.

51 Cfr. P. CARETTI, U. DE SIERVO, Istituzioni, cit., pp. 292-293. 52 L’eccezione è costituita, come si è visto, dalla tutela dei beni librari esercitata dalle Regioni, cui

si aggiungono anche ulteriori funzioni in materia di tutela dei beni culturali in genere, esercitate in varia forma dalle Regioni autonome; fatte salve eventuali nuove forme di autonomia in questo campo, in seguito alle intese con lo Stato adottate ai sensi del novellato art. 116 c. 3 della Costituzione

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que di fronte a servizi pubblici, che quasi mai hanno effettiva rilevanza economica, posti in essere quasi esclusivamente delle autonomie locali, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e decentramento53.

Occorre evidenziare che detti servizi possono essere erogati a fronte del pagamento di un corrispettivo, ma la remunerazione che se ne può trarre è assolutamente inadeguata a coprire i costi, che pertanto sono finanziati solo in minima parte dai biglietti d’ingresso o dalle tariffe per servizi a domanda individuale, mentre per il resto ricadono sulla fiscalità generale; ciò avviene in primo luogo per la scuola54, ma anche per quasi tutti i musei, le mo-stre o gli spettacoli, che peraltro in una parte preponderante dei casi sono messi a disposi-zione della cittadinanza gratuitamente55.

Gli utenti vantano dunque un diritto ad usufruire dei servizi pubblici in campo cultu-rale, ogniqualvolta essi sono attivati, essendo tale diritto condizionato solo – così come av-viene per altri servizi pubblici, anche essenziali – dalla effettiva disponibilità di risorse: sotto questo profilo non sono ravvisabili sostanziali differenze rispetto al diritto all’istruzione scolastica o agli altri diritti riconosciuti e tutelati come tali anche a livello internazionale56.

Ne consegue che ogniqualvolta il mancato soddisfacimento di tali diritti culturali non è giustificata dall’effettiva carenza di risorse pubbliche (il che non può sostenersi ad es. qualora l’amministrazione scelga di destinare i fondi a finalità non altrettanto garantite sul piano normativo), i cittadini possono richiederne il rispetto nelle diverse forme messe a di-sposizione dall’ordinamento; la tutela di tali diritti collettivi e diffusi, operata anche in sede giurisdizionale tramite le opportune forme associative, su cui torneremo infra, non esclude che si possano configurare e tutelare in modo diretto anche i connessi diritti individuali.

La concreta possibilità di adire le diverse forme di protezione giurisdizionale messe a disposizione dall’ordinamento, viene tuttavia condizionata in modo significativo da un fattore eminentemente sociale: occorre infatti che i titolari stessi del diritto decidano di ri-vendicarlo e farlo valere, così come è avvenuto nel recente passato con riferimento al dirit-to all’ambiente salubre, che precedentemente non era a sua volta considerato tutelabile57.

53 Andrebbe peraltro riconosciuto che, anche in passato, questi servizi non sono stati quasi mai

gestiti dallo Stato, che ha iniziato a rivendicarli (senza però assicurarne effettivamente la cura, come dimostrano in modo clamoroso recenti casi come quello degli scavi di Pompei) solamente allorché è stata posta in dubbio la sua esclusiva competenza in materia.

54 Le tasse scolastiche, storicamente di importo minimo in Italia in virtù del principio consolidato della gratuità dell’istruzione obbligatoria, non sono state certamente concepite al fine di coprire i costi del sistema pubblico di istruzione; il loro importo, definito in misura obbligatoria è devoluto interamente all’Erario anche dopo l’autonomia dei singoli istituti, che possono invece richiedere alle famiglie dei contributi per ulteriori azioni formative. Attualmente la materia è regolata dal d.i. n. 44 del 1 febbraio 2001, che detta istruzioni generali sulla gestione amministrativo-contabile delle istituzioni scolastiche, oltre che dalla legge 28 marzo 2003 n. 53, recante “Delega al governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione” e, in ultimo, dall’articolo 1, c. 622, della legge 27 dicembre 2006, n.296 (legge finanziaria 2007), che ha confermato il regime di gratuità ai sensi dell’articolo 28, c. 1 del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n.226.

55 L’esperienza ha dimostrato da tempo che gli oneri diretti e indiretti (ad es. per i diritti SIAE) di organizzazione della riscossione dei biglietti di ingresso sono quasi sempre superiore al’introito effettivo; in taluni casi si sopperisce con la richiesta di offerte spontanee, specialmente quando la gestione è assicurata da soggetti non lucrativi, tramite personale volontario.

56 Si ricorda che mentre i diritti che attengono alla promozione della cultura e alla tutela del patrimonio culturale trovano il proprio fondamento nell’art. 9 Cost., gli altri (in particolare il diritto a fruire delle arti o il diritto d’autore) sono coperti soltanto dall’art. 2, in quanto diritti inalienabili.

57 Così come per il diritto all’ambiente salubre si era dovuto fare leva sul diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., anche nel caso dei diritti culturali si dovrebbe, con ogni probabilità, basare le

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4.4. Il quadro normativo vigente

La dottrina e la giurisprudenza hanno ormai da tempo riconosciuto l’ascrivibilità al-la categoria dei servizi pubblici58 delle attività della pubblica amministrazione finalizzate a consentire la fruizione da parte dei privati dei beni e delle attività culturali; ora però occorre che questa configurazione trovi il suo fondamento, in modo esplicito, nel riconoscimento di tali funzioni come strumentali e funzionali al soddisfacimento di quello che abbiamo proposto di definire come diritto a fruire della cultura e della conoscenza59.

Come definizione generale di servizio pubblico abbiamo invece adottato quella sti-pulativa, recentemente elaborata e proposta60:

«si può considerare servizio pubblico ogni attività di interesse generale, svolta sotto la regola-mentazione e il controllo di una pubblica amministrazione, destinata a dare soddisfazione a interessi della collettività e caratterizzata da un regime speciale che richiede l’offerta indiscrimi-nata al pubblico, l’uguaglianza nell’accesso al servizio e determinati requisiti di qualità e con-tinuità del servizio».

Possono quindi essere incluse nella categoria quelle attività, rientranti nelle compe-tenze dell’ente, che sono rivolte in particolare a realizzare fini sociali e a promuovere lo svi-luppo economico e civile della comunità locale; in questo ambito, la più ristretta categoria dei servizi culturali può essere definita, utilizzando un approccio logico-descrittivo, come quella che ricomprende le «attività svolte dall’ente locale al fine di adempiere ai compiti di gestione, valorizzazione e promozione di beni e attività culturali ad esso spettanti»61. Per

nuove rivendicazioni su un’interpretazione estensiva dell’indiscusso e già giurisdizionalmente tutelato diritto all’istruzione.

58 L’intera materia della gestione dei servizi pubblici locali è stata oggetto di una recente ricerca, edita in P. GARRONE, P. NARDI, Al servizio della persona e della città, Milano, Guerini, 2011; cfr. anche CA-

SETTA, op.cit., p. 614, secondo il quale «anche nelle ipotesi in cui la posizione del privato sia inizialmente di interesse legittimo a fronte della organizzazione del servizio, una volta intervenuta la programmazione concreta del servizio stesso che implica l’esatta definizione dei soggetti destinatari (e purché sussistano i presupposti al ricorrere dei quali nasce l’obbligazione) sorge in capo ad essi il diritto ad ottenere la pre-stazione, in quanto ne abbiano i requisiti»: fattispecie che appare applicabile non solo allo studente, ma anche all’utente di un monumento, di una biblioteca, di un museo, di uno spettacolo teatrale, di un cen-tro di documentazione o di un servizio di accoglienza turistica.

59 Secondo G. PIPERATA, Natura e funzione dei servizi, cit., p. 3 ss «oggi l’istituto dei servizi aggiun-tivi condivide col sistema di valorizzazione dei beni culturali non solo le forme di gestione ed altre solu-zioni organizzative, ma anche la natura di servizio pubblico»; cfr. anche F. MERUSI, La disciplina giuridica dei musei nella Costituzione, tra Stato e regioni, in G. MORBIDELLI, C.CERRINA FERONI, I musei. Discipline, ge-stioni, prospettive, Torino, Giappichelli, 2010, p. 27 ss; G. PIPERATA, La nuova disciplina dei servizi aggiuntivi dei musei statali , in Aedon, (2) 2008. Contra si era inizialmente pronunciato (ma solo in riferimenti ai servizi aggiuntivi museali) E. BRUTI LIBERATI, Il ministero fuori dal ministero (art. 10 del d.lgs. 368/1998) in Aedon, (1) 99, per il quale i servizi in esame «non sembrano presentare i caratteri che - pur con le note incertez-ze sulla nozione di pubblico servizio - la dottrina ritiene propri di tale figura», in quanto «difficilmente configurabili come essenziali o comunque funzionali al benessere sociale o economico dei cittadini» e sprovviste «dell’attributo della doverosità», tanto da apparire come «normali attività commerciali».

60 Da L. GENINATTI, L. GUFFANTI, A. SCIUMÉ, Definizioni giuridiche di ‘servizio pubblico’, in P. GARRONE, P. NARDI, op.cit., p. 74.

61 G. PIPERATA, I modelli organizzativi dei servizi culturali: novità, false innovazioni e conferme, in Aedon (1) 2002, pp. 2-3. Viene qui però ripresa, in modo non del tutto condivisibile, la definizione (che si deve a B. MARCHETTI, Il tempo libero, in S. CASSESE, Trattato, cit., p. 676) di una distinta categoria dei «servizi

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questa stessa ragione, i servizi culturali degli enti locali, come vedremo meglio tra breve, «ri-sultano sottratti a priori al regime di concorrenza per il mercato», tipica dei servizi di rile-vanza industriale62.

In proposito, può essere utile richiamare la sentenze del Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 5509/2008, secondo cui i servizi culturali devono «rispondere alla fondamentale esi-genza di una destinazione d’uso coerente con il valore culturale protetto e strumentale al suo pieno godimento da parte della collettività»63, in difetto del quale non assolverebbero «quella funzione di servizio pubblico prescritta per i complessi monumentali di appartenenza pubblica». Si aggiunga che la Suprema Corte ha stabilito, con l’ordinanza n. 12251 del 17 maggio 2009, che l’istituzione da parte della P.A. di servizi aggiuntivi negli istituti e nei luo-ghi della cultura è da considerarsi attività di valorizzazione del patrimonio culturale, dal momento che costituiscono «una modalità, un completamento della fruizione del bene cul-turale», garantendo un migliore godimento da parte dell’utenza64.

Nonostante ciò, ancora oggi l’impianto fondamentale della legislazione nazionale in materia di beni e attività culturali è basato su una ben diversa concezione tradizionale, piut-tosto conservatrice e centralista (che risale all’epoca fascista, pur basandosi sulla legislazione pre-unitaria pontificia) che, se all’epoca era all’avanguardia e ancor oggi ha indubbi meriti e una valenza complessivamente senz’altro positiva, non può certamente dirsi pienamente conforme al dettato costituzionale, e ancor meno al novellato Titolo V della Costituzione.

La normativa statale (non solo di fonte legislativa, ma soprattutto regolamentare) continua a considerare il ruolo delle autonomie locali e della società civile come del tutto marginale e per lo più strumentale all’azione amministrativa statale di tutela65. Questa ano-malia è risultata ancor più evidente dopo la modifica dell’art. 117 Cost., che ha invece rece-pito e si basa su una concezione assai più rispettosa non solo del principio di sussidiarietà, ma anche della pari dignità e rilevanza della promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca, nonché della valorizzazione del patrimonio culturale: entrambe funzioni che devo-no intendersi finalizzate, come accertato supra, all’incremento della fruizione da parte dei cittadini, in funzione della migliore garanzia dei loro diritti culturali.

Per trovare un primo esplicito riferimento legislativo ai servizi culturali occorre risa-lire al d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616 che, all’art. 47 del Capo VII dedicato ai “Beni culturali” – dando tardiva attuazione all’originario art. 117 Cost.66 – disponeva che fossero comprese tra le funzioni amministrative relative alla materia «musei e biblioteche di enti locali», e come

del tempo libero», che dovrebbe comprendere l’organizzazione di corsi e ludoteche, le manifestazioni folkloristiche, gli spazi musicali per i giovani e le attività ricreative dedicate agli anziani; si tratta di una distinzione alquanto discutibile, dal momento che include attività che sono evidentemente di natura culturale.

62 Ibidem; ciò risulta giustificabile soltanto allorché si tratti di «casi in cui il mercato risulti insufficiente o inidoneo a conseguire obiettivi socialmente desiderabili».

63 Si segnala in proposito la sentenza della Corte di Giustizia Europea n. C-388-01 del 16 gen-naio 2003, che ha condannato l’Italia per l’illegittima discriminazione a danno dei cittadini di altri Stati membri nella definizione delle tariffe di ingresso agevolato ai musei, in violazione degli artt. 12 e 49 del Trattato UE.

64 Cit. in G. PIPERATA, Natura e funzione dei servizi, cit., p. 4. 65 Mentre secondo P. FERRARIS, Dai “beni” ai servizi culturali, ritorna la “politica culturale”, in Titolo,

VIII, 24, 1997, p. 2 è specialmente da parte degli enti locali che viene dedicata particolare attenzione alla «formazione, integrazione, controllo sociale del cittadino», grazie al fatto che i «servizi culturali pubblici sono utilizzati per organizzare una partecipazione sociale», mediante lo «spostamento delle risorse dall’amministrazione dei beni all’erogazione dei servizi culturali», che svolgono così anche la funzione di servizi sociali.

66 In attuazione e secondo le indicazioni della delega di cui all'art.1 della legge 22 luglio 1975, n. 382.

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La garanzia dei diritti culturali

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tali oggetto di trasferimento alle Regioni ordinarie (all’epoca appena costituite), tutti i servizi e le attività riguardanti a livello locale:

- l'esistenza, la conservazione, il funzionamento, il pubblico godimento e lo sviluppo dei musei, delle raccolte (di interesse artistico, storico e bibliografico) e delle biblioteche, anche popolari67;

- il loro coordinamento reciproco con le altre istituzioni culturali (oggi si parlerebbe della costituzione di reti o sistemi);

- ogni manifestazione culturale e divulgativa organizzata nel loro ambito.

Quasi vent’anni dopo, la seconda fondamentale tappa del percorso di trasformazio-ne delle attività funzionali alla fruizione culturale in servizi al cittadino era stata portata a compimento dall’art 4 della legge del 14 gennaio 1993, n. 468, recante misure urgenti per il funzionamento dei musei statali e disposizioni in materia di biblioteche statali e di archivi di stato, che sono state universalmente giudicate dalla dottrina e dagli operatori del settore come felicemente innovative e incisive69, nella tanto attesa ed auspicata prospettiva della migliore gestione del nostro patrimonio.

Dopo alcune modifiche intervenute con la l. n. 85/199570, la norma è stata ripropo-sta e ampliata dall’art. 112 del TUBC, in seguito riprodotto senza modifiche sostanziali nell’art. 117 (Servizi per il pubblico) del Codice Urbani, per il quale negli istituti e nei luoghi della cultura gestiti dallo Stato «possono»71 essere istituiti servizi che vengono definiti di «assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico», includendovi quelli che la Ronchey de-finiva in modo meno amichevole come “aggiuntivi”.

Rientrano in questa fattispecie i servizi, effettuabili presso musei, monumenti, bi-blioteche e archivi, così individuati:

- servizio editoriale e di vendita riguardante i cataloghi e i sussidi catalografici, audiovisivi e informatici, ogni altro materiale informativo, e le riproduzioni di beni culturali;

- servizi riguardanti beni librari e archivistici per la fornitura di riproduzioni e il recapito del prestito bibliotecario;

- gestione di raccolte discografiche, di diapoteche e biblioteche museali; - gestione dei punti vendita e utilizzazione commerciale delle riproduzioni dei beni; - servizi di accoglienza, ivi inclusi quelli di assistenza e di intrattenimento per l'infanzia, servizi di

informazione, di guida e assistenza didattica, centri di incontro; - servizi di caffetteria, di ristorazione, di guardaroba; - organizzazione di mostre e manifestazioni culturali, nonché di iniziative promozionali.

67 La norma faceva espresso riferimento alle biblioteche popolari, alle biblioteche del contadino

nelle zone di riforma, ai centri bibliotecari di educazione permanente, nonché i compiti esercitati dal Ser-vizio nazionale di lettura.

68 La c.d. “Legge Ronchey” aveva convertito, con modificazioni, il decreto legge 14 novembre 1992, n. 433.

69 G. PIPERATA, Natura e funzione dei servizi, cit., p. 2; secondo l’art. 4 della Ronchey costituivano «servizi aggiuntivi» le seguenti attività offerte a pagamento all’interno di musei, biblioteche e archivi di Stato: a) servizio editoriale e di vendita riguardante le riproduzioni di beni culturali e la realizzazione di cataloghi ed altro materiale informativo; a-bis) servizi riguardanti i beni librari e archivistici per la forni-tura di riproduzioni e il recapito nell’ambito del prestito bibliotecario; b) servizi di caffetteria, di ristoran-te, di guardaroba e di vendita di altri beni correlati all’informazione museale.

70 L’art. 47-quater del d.l. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito in l. 22 marzo 1995, n. 85, si è limitato ad ampliare la categoria delle attività incluse nella nozione di servizi aggiuntivi.

71 Non risulta che sia stato approfondito il senso di questa formulazione, che non dovrebbe essere intesa tanto nel senso dell’autorizzazione (di qualcosa che prima sarebbe stato in ipotesi vietato), quando piuttosto in quello della facoltà, che andrebbe pertanto rapportata all’opportunità, necessità e sostenibilità, in base alla dimensione della struttura, oltre che all’entità e tipologia dell’utenza.

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Al terzo comma trovano considerazione i ben più prosaici servizi, che possono essere gestiti in forma integrata, di:

- vigilanza e custodia durante l’apertura al pubblico; - biglietteria e prenotazione delle visite; - pulizia dei locali.

Anche se, in questo modo, nella definizione dei servizi statali connessi e funzionali alla fruizione culturale, si scende fino al livello più umilmente e concretamente operativo72, non va per questo trascurato l’aspetto opposto: vale a dire che anche le più complesse e qualificate funzioni del personale direttivo e scientifico delle istituzioni culturali (incluse le Soprintendenze statali), possono e debbono essere concepite e gestite come servizi cultura-li, risultando in molti casi funzionali non solo al diritto alla conservazione del patrimonio, ma anche alla sua fruizione da parte di un’utenza, che può rivendicare a tal fine il rispetto dei propri diritti.

In questo senso Piperata pone correttamente in evidenza che «i servizi aggiuntivi rappresentano attività finalizzate non solo al miglioramento della fruizione del bene cultura-le, ma anche a favorirne la maggiore conoscenza e, pertanto, divengono a pieno titolo strumenti importanti del sistema della valorizzazione, alla stregua di altre iniziative di servizio pubblico a tale sistema riconducibili»; ragione che spiega il loro inserimento nel corrispon-dente titolo del Codice73.

Quanto affermato può dunque valere in specifico per attività e funzioni tutt’altro che secondarie, come la stessa direzione di un museo, di una biblioteca o di un archivio, l’effettuazione di uno scavo archeologico, l’ideazione e cura di un allestimento espositivo o di una pubblicazione, la catalogazione, la consulenza preventiva circa la corretta elabora-zione di un progetto di restauro di un immobile storico, o in merito all’attivazione dei ser-vizi didattici; ma non vanno trascurate la corretta gestione dei prestiti e degli spazi di depo-sito, oppure la verifica della possibilità di acquisire lecitamente un’opera d’arte in Italia o all’estero.

Si tratta con tutta evidenza di funzioni che hanno in comune, oltre all’elevato livello di competenza tecnica che deve essere messa in campo, anche la mancanza di una potestà pubblica di carattere autoritativo, come tale suscettibile di esecuzione coattiva ove esercita-ta; il che nulla toglie, evidentemente, al valore e all’altissima finalità di cura e salvaguardia del patrimonio culturale della Nazione, difesa e rivendicata con orgoglio dal competente Ministero.

Ne consegue che solo l’esercizio delle più tipiche e conosciute funzioni di tutela in senso stretto, risponde a quest’ultima caratteristica: ad esempio nei casi di dichiarazione del vincolo storico-artistico sul bene, di autorizzazione all’effettuazione di interventi finalizzati alla conservazione di immobili, reperti archeologici e opere d’arte (le quali a loro volta im-plicano studi e ricerche), dell’occupazione o dell’esproprio di un terreno o di un immobile, o an-cora delle correlate attività ispettive e di controllo.

Anche la l. n. 77/2006, menziona all’art. 4, la necessità per i siti UNESCO (ma plausibilmente anche nelle situazioni analoghe, potenzialmente candidabili) di un corretto rapporto tra flussi turistici e servizi culturali offerti, prevedendo quindi la «predisposizione di servizi di assistenza culturale e ospitalità per il pubblico» (lettera b), che in questo caso in-cludono anche gli aspetti, sempre assai critici, del controllo e della sicurezza, ma anche il «so-stegno ai viaggi di istruzione e alle attività culturali delle scuole» (lettera d).

72 D’altronde nessuno mette in dubbio che un’efficiente organizzazione delle pulizie o della

mensa costituiscano parte integrante, ad esempio, del servizio ospedaliero o scolastico. 73 G. PIPERATA, Natura e funzione dei servizi, cit., p. 3.

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Alla luce di questa prima disamina emerge che l’attuazione piena del Titolo V non può essere solamente quella delineata un po’ frettolosamente dal Codice, che infatti pena-lizza la sussidiarietà e disattende nella sostanza le convenzioni dell’UNESCO; anzi, essa at-tende ancora di essere effettivamente conseguita, a partire dalle poche norme davvero in-novative in esso contenute, le quali riconoscono il fatto – ovvio in tutto il mondo, ma non ancora in Italia – che il patrimonio culturale è destinato alla pubblica fruizione, e dunque che la tutela ottimale di un bene culturale non è adeguatamente garantita con la sua chiusu-ra al pubblico.

La valorizzazione deve essere pertanto assicurata mediante la realizzazione di reti e sistemi integrati di servizi, che coordinino le competenze di tutti i livelli istituzionali, a parti-re dagli enti esponenziali e rappresentativi delle istanze e sensibilità del territorio, cioè da comuni, istituzioni culturali, ed anche dai cittadini singoli e associati; tutti questi soggetti possono essere coordinati, quando è necessario, dalla provincia (un domani dalla città me-tropolitana)74, fatto comunque salvo l’eventuale esercizio unitario di alcune limitate funzioni amministrative da parte della Regione e dello Stato.

Il Ministero per i Beni e le Attività culturali, andando ben al di là dell’esercizio della mera competenza legislativa di principio, ha sinora svolto – tramite le sole strutture ammi-nistrative ministeriali, centrali e periferiche – un’attività amministrativa di promozione e va-lorizzazione che non si è limitata al livello nazionale e internazionale, garantendo adeguati servizi all’interno delle istituzioni culturali tuttora “nazionali”; ma in prospettiva lascerà sempre più alla cura delle amministrazioni regionali e locali l’organizzazione e lo sviluppo delle reti di servizi territoriali, anche nel caso che includano musei, biblioteche o archivi na-zionali ancora gestiti dallo Stato75.

Questi ultimi ancora attendono peraltro di poter esercitare, in quanto definibili «isti-tuti di alta cultura», l’autonomia che è loro propria (secondo lo spirito che informa l’art. 33 c. 4 Cost.), attraverso adeguate forme giuridiche di gestione, siano esse pubbliche e priva-te76; analogamente si dovrebbero regolare, ovviamente, anche tutte le Regioni, le Province e i Comuni, con riferimento ai sistemi e alle istituzioni culturali del livello territoriale di pro-pria competenza77.

In questa prospettiva, potrebbe risultare determinante l’attuazione dei decreti legi-slativi in tema di c.d. “federalismo fiscale”, che parrebbe garantire le risorse per la sola istruzione scolastica78

come sembra di potersi dedurre dalla Legge delega n. 42/200979.

74 Secondo l’art. 22 del TUEL le Città Metropolitane, una volta costituite, avranno competenze

proprie anche in campo culturale, sul presupposto che si tratta di realtà caratterizzate da «rapporti di stretta integrazione territoriale e in ordine alle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali»; in specifico, l’art. 24 c. 1 i) prevede l’esercizio coordinato delle funzioni degli enti locali, attraverso forme associative e di cooperazione in materia di “attività culturali”.

75 Illuminante a questo proposito è l’esempio del sistema museale torinese, promosso e gestito dalla Città di Torino e rapidamente estesosi alla quasi totalità del territorio regionale, che include e coordina anche molte istituzioni gestite direttamente dalle Soprintendenze piemontesi.

76 In proposito si può citare solamente il virtuoso “caso pilota”, ancora piemontese, della Fondazione Museo Egizio di Torino (meno considerato dalla dottrina, rispetto alla controversa Soprintendenza autonoma di Pompei, assurta di recente al disonore della cronaca per l’incuria e i crolli che affliggono la più importante area archeologica del mondo), che è stata costituita tra Ministero e Istituzioni locali, applicando le disposizioni del d.lgs. n. 368/1998; si veda www.museoegizio.it.

77 Cfr. G. SCIULLO, Gestione dei servizi culturali, cit., p. 2, secondo il quale «nel caso di servizio ‘pri-vo di rilevanza economica’, il quadro di riferimento, sempre in assenza di indicazioni legislative regionali, è costituito direttamente dall’ordinamento comunitario e dagli orientamenti del giudice amministrativo, anche se al riguardo si sconta un tasso non lieve d’incertezza».

78 Per il momento rientrano tra le funzioni fondamentali degli enti locali, come individuate

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4.5. Servizi privi di rilevanza economica, in quanto “non remunerativi” L’evoluzione delle norme80 dedicate alla controversa regolazione e gestione delle reti e dei servizi aventi rilevanza economica ed imprenditoriale, ovvero industriale, con le relative problematiche, specialmente se connesse alla scelta delle forme e procedure di affidamento, è da anni oggetto di una giurisprudenza nazionale e comunitaria in continua evoluzione; è dunque inevitabile il rinvio alla migliore dottrina, che ha dedicato alla questione ben più ampio spazio e attenzione81.

In questa sede ci limiteremo a verificare se e in che misura82 i servizi culturali e del tempo libero possano essere senz’altro esclusi dalla categoria dei servizi di rilevanza indu-striale (in cui invece rientrano pacificamente il servizio idrico, la raccolta dei rifiuti solidi ur-bani, il trasporto locale, il gas naturale o l'energia elettrica) oppure in quelli di rilevanza eco-nomica, che presuppongono la separazione della proprietà dei beni interessati dalla titolarità del servizio, assoggettato al regime di concorrenza e quindi alle procedure di evidenza pub-blica83.

«provvisoriamente» dall’art. 2, commi 3 c) e 4 b) della l. n. 42/2009, solo le «funzioni di istruzione pubblica, ivi compresi i servizi per gli asili nido e quelli di assistenza scolastica e refezione, nonché l’edilizia scolastica» (per i comuni) e le «funzioni di istruzione pubblica, ivi compresa l’edilizia scolastica» per le province).

79 L. 5 maggio 2009, n. 42 recante “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in at-tuazione dell’articolo 119 della Costituzione”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 103 del 6 maggio 2009. Ciò determinerebbe il rischio concreto di relegare le funzioni di promozione della cultura e valo-rizzazione del patrimonio tra quelle finanziabili solo con le scarse risorse disponibili a livello regionale e locale, il che comporterebbe presumibilmente, ai fini della copertura almeno parziale dei costi il loro as-soggettamento a tariffe ben più gravose di quelle attuali.

80 Si ricordano solo le più recenti modifiche intervenute sull’art. 113, d.lsg. n. 267/2000 ad ope-ra dell’art. 23bis del d.l. n. 112/2008 (conv. in l. n. 133/2008), su cui è però intervenuto il referendum del giugno 2011, ed in seguito dell’art. 4, d.l. n. 138/2011, conv. in l. n. 148/2011; hanno inoltre inciso, per alcuni aspetti l’art. 13, d.l. n. 226/2003, conv. in l. n. 248/2006 (ma non in materia di servizi pubblici lo-cali) e l’art. 14, d.l. n. 78/2010, conv. in l. n. 122/2010 (commi da 25 a 31), che ha regolato l’esercizio in forma associata, attraverso convenzione o unione, di funzioni fondamentali dei comuni.

81 Si rimanda tra gli altri ad A. PERICU, Fattispecie e regime della gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale, in Aedon, (1) 2002; T. TESSARO, I servizi pubblici locali privi di rilevanza economica: servizi sociali, sportivi e culturali, Roma, ANCI-CEL, 2004; L. GENINATTI, L. GUFFANTI, A. SCIUMÉ, op.cit., pp. 65-68.

82 G. FRANCHI SCARSELLI, Sul disegno, cit., p. 2, sottolinea che «se una ormai cospicua letteratura ha già elaborato i criteri per valutare ciò che consente ad una attività, pur economica, di sfuggire all’art. 86 dei Trattati, rimane viceversa in chiaroscuro la determinazione dei caratteri che deve possedere un’attività di servizio di interesse generale per poter essere, più a monte, giuridicamente qualificata economica o meno», tanto da potersi definire «ingannevole» la stessa nozione di servizio economico senza rilevanza imprenditoriale. Invece L. GENINATTI, L. GUFFANTI, A. SCIUMÉ, op.cit., p. 68, rilevano che gli indici di “non economicità” citati a titolo indicativo dalla Commissione Europea «sono tutti di carattere negativo e tendenti ad escludere il carattere di imprenditorialità nella resa del servizio, posto che l’impresa è attività economica. Invero ciò che qualifica un’attività economica non è solo il fine produttivo cui essa è indirizzata, ma anche il metodo con cui è svolta».

83 Secondo J. LUTHER, La valorizzazione del Museo provinciale della Battaglia di Marengo. Un parere di Diritto pubblico, Working paper n.44, Alessandria, Polis, 2004, pp. 27-28, che considerava possibile l’applicazione dell’art. 35 della l. 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria 2002 e s.m.i.), oltre a ipotiz-zare un affidamento – ancora in vigenza dell’art. 113-bis del TUEL - a fondazioni che almeno teorica-mente avrebbero potuto farsi imprenditori, producendo servizi di rilevanza economica.

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In tal senso sembrerebbero andare alcune disposizioni del Codice, che accentuano le funzioni culturali in senso stretto, avvicinandole ad altri servizi pubblici come quelli sco-lastici. Per contro, almeno in via teorica, una parte dei servizi aggiuntivi di carattere più propriamente commerciale, collegati alla gestione delle strutture museali di maggiore di-mensione e importanza potrebbe assumere «rilevanza economica», come pure l’utilizzo oneroso di sale e locali da parte di privati oppure i servizi di animazione, purché in grado di «produrre degli utili superiori a quanto si spende per la gestione ordinaria del museo stes-so»84: cosa che tuttavia, come è noto a tutti coloro che operano professionalmente nel set-tore, è da considerarsi altamente improbabile85.

Ciò doverosamente premesso, occorre almeno tenere conto del fatto che la gestio-ne dei servizi aggiuntivi ai siti culturali di straordinario prestigio e notorietà86 potrebbe al-meno comportare un significativo “ritorno di immagine” per il soggetto affidatario, il che potrebbe renderla appetibile prevalentemente o esclusivamente a fini pubblicitari e di mar-keting, nonostante il rischio concreto di un risultato economico in perdita sul piano squisi-tamente finanziario.

Da qui una loro possibile rilevanza economica, seppure indiretta87, come è dimo-strato dal fatto che nella pratica tali servizi culturali sono considerati dagli imprenditori (in particolare quelli del settore editoriale) comunque remunerativi, essendo intesi come originale e innovativa forma di “pubblicità indiretta” presso un pubblico qualificato e selezionato.

Proprio in questi rari casi, e solo per questa ragione, può essere corretto affermare che vanno resi contendibili, mediante l’adozione di procedure di evidenza pubblica per il loro affidamento88, e possono essere gestiti anche mediante azienda o società di capitali89.

Se ciò può valere, evidentemente, solo per un numero estremamente limitato di grandi siti e musei di rilievo e interesse nazionale90, tra essi dobbiamo collocare certamente

84 Ibidem, p. 28; questo sul presupposto che «almeno in linea di principio non si può neppure

escludere che anche la gestione di un museo di grandi dimensioni o di una grande rete di musei anche di dimensioni minori possa essere produttiva di utili, cioè costituire oggetto di una vera e propria impresa culturale che offre un prodotto di tipo industriale» (il corsivo è mio).

85 Attualmente non avviene neppure al Metropolitan Museum di New York, ritenuta l’istituzione museale più imprenditoriale al mondo: cfr. S. BAGDADLI, Il museo come azienda, Milano, Etas, 2000, pp. 25 ss. Lo stesso Luther ammette peraltro che la giurisprudenza e la prassi comunitaria «riconoscono ai ser-vizi inerenti al settore culturale uno statuto di attività non economiche», con la logica conseguenza che «almeno prima facie, per i servizi culturali e del tempo libero l’ente locale non ha l’onere di provare il re-quisito ‘privo di rilevanza industriale»: J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 28.

86 Proprio a questa stregua è balzata recentemente all’attenzione nazionale e mondiale la gestione dei servizi aggiuntivi di siti monumentali di eccezionale notorietà e rilevanza, come gli scavi archeologici di Pompei, il Colosseo (per la cui valorizzazione e gestione è stata stipulata un’intesa con una grande azienda italiana, oggetto di contenzioso e conseguenti inchieste giudiziarie) e i Fori imperiali di Roma, oppure dei grandi musei nazionali, come gli Uffizi di Firenze o l’Accademia di Venezia, visitati ogni anno da milioni di turisti.

87 Ibidem, ove si sostiene addirittura che si tratterebbe dell’offerta di un «prodotto di tipo indu-striale».

88 Le stesse considerazioni possono essere fatte, mutatis mutandis, per altri servizi sociali delle grandi città (come le mense o le case di riposo di Roma o Milano) rispetto a quelli dei piccoli comuni, tanto più se in realtà periferiche o disagiate. In questo senso cfr. G. PIPERATA, I modelli di organizzazione, cit., p. 3, secondo cui l’intervento nel settore dei servizi culturali da parte degli enti locali «non può essere indiscriminatamente esercitato allo scopo di chiudere l’attività (sempre più spesso di rilevanza economica) alle regole di concorrenza tra più operatori».

89 G. SCIULLO, Gestione dei servizi culturali, cit., p. 4. 90 Si stima un ordine di grandezza di 150-200.000 visitatori all’anno quale soglia di convenienza

dell’istituzione di servizi aggiuntivi a carattere imprenditoriale, il che non esclude che in situazioni meno “remunerative” ma forse anche più rinomate e prestigiose si possa trovare chi ha interesse a investire in

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quelli iscritti al Patrimonio Mondiale, mentre per l’assoluta maggioranza delle altre realtà, ed in modo particolare di quelle che caratterizzano i centri minori e il territorio italiano91, varrà la regola generale della non economicità (remuneratività) enunciata poc’anzi.

4.6. Forme di gestione dei servizi culturali locali: un raffronto tra gli esiti di due studi applicativi Già a partire dagli anni ’80 si era rafforzata la tendenza della P.A. a gestire i più rilevanti istituti e servizi culturali di competenza degli enti regionali o locali, non solo in modo diretto (tramite i propri assessorati e uffici) ma anche tramite forme privatistiche92, nell’intento di perseguire meritoriamente – sull’esempio di altri ordinamenti, europei e non – il pluralismo e l’autonomia, garantendo nel contempo anche obiettivi di efficacia ed efficienza; tale orientamento ha trovato coronamento nel d.lgs. 24 marzo 2006, n. 155 che ha disciplinato l’istituto dell’impresa sociale, considerata tale in quanto «destina gli utili e gli avanzi di gestione allo svolgimento dell'attività statutaria o ad incremento del patrimonio»93, anche con specifico riferimento (art. 2 lett i) alla «ricerca ed erogazione di servizi culturali»94. Occorre però comprendere perché si siano ritenuti sempre meno adeguati alle nuove e crescenti esigenze culturali e sociali i tradizionali strumenti e procedimenti amministrativi, che sono tipici dei poteri pubblici, proprio in uno dei settori in cui la natura pubblicistica dell’interesse perseguito è più evidente95. Questa disamina deve essere compiuta alla luce della recente novella della l. n. 241/199096, che ha integrato l’art. 1 affermando il principio secondo cui l’amministrazione

questo genere di attività per ragioni di ricaduta d’immagine: cfr. S. BAGDADLI, op.cit., p. 29.

91 Tra i rarissimi casi di remuneratività di un sito minore può essere citato il piccolo Museo dedicato a Pellizza da Volpedo, che da anni è oggetto di significative sponsorizzazioni e di altre forme innovative di collaborazione con soggetti privati; si tratta di un caso del tutto peculiare, essendo gestito da un’associazione di volontariato che ha saputo da un lato instaurare una collaborazione privilegiata con il proprio territorio di riferimento, e dall’altro realizzare eventi culturali di rilevanza nazionale (oltre 100.000 visitatori nel 2001), benché realizzati in un Comune di piccolissime dimensioni e al di fuori dei principali circuiti turistici.

92 Secondo E. BRUTI LIBERATI, op.cit, p. 2, questo fenomeno costituisce «un punto di saldatura tra i principi di sussidiarietà verticale ed orizzontale, come una norma che prevede specifiche forme di raccordo e di collaborazione tra lo Stato e le autonomie territoriali e, nello stesso tempo, tra lo Stato e le autonomie sociali ed economiche. E non è certo casuale, dato il forte collegamento tra l’idea della sussidiarietà e quella della paritarietà nei rapporti Stato/autonomie, che tali forme di raccordo e di collaborazione si fondino su istituti giuridici di tipo negoziale e pattizio: l’accordo, l’associazione, la fondazione, la società».

93 L’art. 3 c. 2 specifica che a tal fine «è vietata la distribuzione, anche in forma indiretta, di utili e avanzi di gestione, comunque denominati, nonché fondi e riserve in favore di amministratori, soci, partecipanti, lavoratori o collaboratori».

94 Inoltre, sempre secondo il dettato dell’art. 2, «Si considerano beni e servizi di utilità sociale quelli prodotti o scambiati nei seguenti settori: d) educazione, istruzione e formazione (…); f) valorizza-zione del patrimonio culturale, ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio (…); g) turismo so-ciale (…), recante riforma della legislazione nazionale del turismo; h) formazione universitaria e post-universitaria; l) formazione extra-scolastica (…)». Su tutta la questione si rimanda all’ampia e assai appro-fondita disamina di C. BARBATI, L’impresa museale, in Aedon, (1) 2010.

95 G. PIPERATA, I modelli di organizzazione, cit., p. 5-6 propone in alternativa tre diversi modelli organizzativi: l’esternalizzazione (tramite operatore esterno), la collaborazione (tra ente e altri soggetti pubblici e privati) e l’intervento (gestione diretta, oppure tramite istituzione).

96 Legge 11 febbraio 2005, n. 15: «1-bis. La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di

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opera su un piano di parità con i privati, osservando le norme di diritto comune, ogniqualvolta rinuncia a rivestire il tradizionale ruolo di “autorità”, il che può avvenire per le ragioni più diverse e contingenti. Dando per scontato che non si sia inteso in tal modo aggirare i vincoli di contabilità e le norme di trasparenza ed evidenza pubblica, e ferma restando la piena discrezionalità nella scelta dei modelli e delle forme da adottare, occorre almeno verificare se, al di là del nomen iuris volta per volta attribuito ai soggetti così costituiti, si sia effettivamente fatto ricorso in modo coerente97 alle forme giuridiche e agli istituti previsti dal codice civile, assicurando che tali soggetti siano in grado di perseguire le corrispondenti finalità statutarie, superando quella che è stata definita la «conflittualità costante tra i titolari pubblici ed i gestori privati» dei servizi culturali98. Per analizzare, in modo necessariamente rapido e sommario, le varie opzioni che nel corso dell’ultimo decennio sono state via via proposte nello specifico settore culturale, ai fini dell’adozione dei diversi strumenti giuridici di diritto privato99, ci limiteremo a prendere qualche spunto dall’ampio e assai articolato dibattito che ha impegnato la migliore dottrina100, a partire dall’analisi puntuale di Franchi Scarselli, cui si rimanda per ulteriori approfondimenti, in particolare in merito all’evoluzione101 dei modelli normativi e organizzativi di gestione dei servizi di interesse generale in ambito locale, proprio nell’ottica della tendenziale privatizzazione e della tutela della concorrenza. Una sommaria disamina analitica dei riflessi applicativi, sul piano istituzionale ed amministrativo, delle norme in materia di servizi culturali (e non solo dei servizi aggiuntivi museali102) era già stata realizzata nell’ambito dell’esperienza pilota avviata in anni recenti dal Ministero per i Beni Culturali, che ha messo così a disposizione della amministrazioni pubbliche interessate un documento inteso a definire il «modello per la realizzazione dei

natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente».

97 Già G. FRANCHI SCARSELLI, Sul disegno, cit., metteva in rilievo «la sensazione di inadeguatezza dei vigenti modelli gestionali» di tali specifici servizi pubblici, che deriverebbe a suo giudizio «dallo scarto fra la strutturazione che implica la coro costituzione e la natura (politicamente) sociale e dunque finanziariamente condizionata delle prestazioni loro attribuite».

98 G. PIPERATA, Natura e funzione dei servizi, cit., p. 1; cfr. per contro l’osservazione di A. CANUTI, Le fondazioni per la gestione dei beni culturali: autonomia e controlli, in G. IUDICA (a cura di), L´autonomia delle fondazioni culturali non pubbliche, Milano, Bocconi, 2001, p. 8, la quale ritiene che «il fenomeno di ‘privatizzazione’ della cultura, intesa non solo come concessione di beni pubblici ad organizzazioni private, ma anche, in senso più ampio, come attribuzione di maggiore autonomia gestionale ad istituzioni destinate peraltro a rimanere saldamente in mano pubblica» può aiutare le istituzioni culturali «a rispondere in modo creativo ai cambiamenti reali della società»; l’Autrice ha tratto quest’ultima citazione dalle conclusioni del convegno Privatizzazione della cultura (Amsterdam, 1997), in Economia della cultura, (3) 1997, pp. 181 ss.

99 P. CARETTI, U. DE SIERVO, Istituzioni, cit., p. 294, rilevano correttamente che tuttavia non appare «irrilevante il fatto che a porre in essere atti di diritto privato sia una pubblica amministrazione, ove si considerino gli atti preliminari alla stipulazione del contratto», che restano infatti interamente soggetti alle norme pubblicistiche.

100 Si rimanda in particolare a B. SIBILIO PARRI, op.cit., e alla vasta bibliografia ivi riportata. 101 Cfr. G. FRANCHI SCARSELLI, Sul disegno, cit., p. 1; si veda anche G. PIPERATA, La nuova

disciplina dei servizi aggiuntivi, cit., p. 9. 102 Poiché quasi tutti gli Autori hanno concentrato la loro attenzione sui soli servizi aggiuntivi

dei musei, appare doveroso intendere quest’ultimo termine nell’accezione più ampia proposta dall’ICOM, che include praticamente tutti gli istituti culturali visitabili, inclusi ad es. parchi storici e a tema, castelli o monumenti religiosi, aree archeologiche attrezzate, acquari o giardini botanici): cfr. D. JALLÀ, Il museo contemporaneo, cit., pp. 26 SS.

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piani di gestione dei siti UNESCO» italiani103: in quella sede, infatti, particolare attenzione era stata dedicata all’Analisi e valutazione delle forme giuridiche individuate104 dallo Stato come “più idonee” a tal fine. I criteri adottati riguardavano, in special modo, la capacità di rappresentare tutti i soggetti coinvolti nella gestione del sito, la capacità di attuare operativamente il piano di gestione e l’attitudine a reperire risorse esterne, sul presupposto che “la collaborazione istituzionale rappresenta l’unico modo per assicurare il coordinamento delle attività di conservazione e valorizzazione, e dei collegati atti di gestione da affidare ad organismi giuridici dotati di autonoma rilevanza culturale ed economica”105. Nello stesso periodo, sempre alla scelta della forma migliore da attribuire al costi-tuendo soggetto gestore di una istituzione culturale che abbiamo poc’anzi definito non remu-nerativa (e per questa ragione priva di rilevanza economica) è stata anche consacrata anche la parte centrale della ben più approfondita analisi di Jörg Luther106, finalizzata all’individuazione dello ‘status giuridico ottimale per un museo’, il quale aveva preso in esame proprio uno dei poli del sito culturale di cui ci occupiamo nel caso di studio, con esi-ti in gran parte – ma non del tutto, come vedremo – coerenti con le indicazioni metodolo-giche elaborate dal Ministero competente. Abbiamo dunque l’opportunità rara di poter disporre di ben due studi relativamente re-centi (a loro volta basati, ovviamente, sugli esiti del dibattito dottrinale e della giurisprudenza in materia107), appositamente commissionati dagli stessi enti proprietari dei beni culturali oggetto del caso di studio108, proprio al fine di definire, rispettivamente, da un lato le modalità ottimali per la gestione di un sito come quello in esame, nella sua interezza e complessità (in quanto candidato alla Lista dell’UNESCO), e dall’altro per quella della prima istituzione culturale e turi-stica già realizzata e operante nel sito storico-monumentale stesso.

Ci limiteremo quindi a sintetizzarne gli esiti e a soffermarci sul raffronto tra le rela-tive conclusioni, ponendo una particolare attenzione alle valutazioni inerenti gli aspetti che maggiormente rilevano ai fini della garanzia dei diritti culturali, dell’utenza e non solo; non senza avere tenuto nel debito conto di qualche ulteriore contributo di analisi della dottri-na109, in particolare con riferimento a una ben nota pronuncia della Corte Costituzionale110,

103 Come si avrà modo di sottolineare ancora infra, si tratta di indicazioni che dovrebbero valere,

almeno in via analogica, per la gestione di siti del patrimonio culturale non candidati al suddetto riconoscimento internazionale.

104 Queste note si trovano al par. 6.2 dello studio realizzato per conto del Ministero da Ernst & Young Financial Business Advisor SpA, a cura di un gruppo di ricerca misto coordinato da Manuel Guido, Angela Maria Ferroni e Marco Morelli: cfr. AA. VV., Progetto di definizione, cit., pp. 196-199.

105 Le indicazioni ministeriali sono state sviluppate a partire dalle risultanze del capitolo 3.1 “La cooperazione istituzionale” , dello studio preliminare AA. VV., Il modello del piano di gestione, cit., pp. 40-48; della commissione facevano parte i giuristi proff. G.Fauceglia dell’Università di Salerno, F.Giuffré dell’Università di Catania e W.Santagata dell’Università di Torino Si veda il sito del Ministero: www.unesco.beniculturali.it.

106 In J. LUTHER, Analisi dello status giuridico ‘ottimale’ per il progetto in Marengo ‘Sito d’Europa’, cit., Vol. I, pp. 72-117, presentato a marzo 2004); lo studio è stato poi pubblicato (ottobre 2004) nel sito web del Dipartimento Polis, Università del P.O. “A.Avogadro”: J. LUTHER, La valorizzazione del Museo provinciale, cit., pp. 26-40: http://polis.unipmn.it.

107 Si rimanda alla bibliografia citata in J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 54 e all’Allegato II (Bibliografia e documenti di riferimento) in Progetto di definizione, cit., pp. 221 ss.

108 Rispettivamente lo Stato (tramite il Ministero per i Beni e le Attività culturali) per i siti candidati alla lista dell’UNESCO, tra i quali dal 2006 c’è la Cittadella di Alessandria e la Provincia di Alessandria per il sito e il Museo di Marengo.

109 Si fa riferimento in particolare all’analisi di A. PROPERSI, M. GRUMO, Nuove forme giuridico-gestionali per la realizzazione delle attività museali degli enti locali, in B. SIBILIO PARRI (a cura di), Governare il museo, cit., pp. 86-95, i

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intervenuta subito dopo l’elaborazione dei due studi, con una declaratoria di incostituziona-lità dell’art. 113 bis del TUEL111.

Occorre infine dare sinteticamente atto delle successive modifiche del quadro legi-slativo in materia, che pure non hanno variato in modo determinante il quadro relativo ai servizi culturali locali; infatti gli interventi operati dal d.lg. n. 155/2006 (in particolare dell’art. 2, lett. f) e lett. i) agli artt. 112 e 115 del Codice, si devono considerare – seguendo l’orientamento di Girolamo Sciullo – eminentemente riferiti ai «servizi culturali statali, in quanto espressione di una competenza ‘esclusiva’ dello Stato in tema di beni culturali di cui ha la disponibilità», mentre solo «per quei contenuti che valgono per i servizi culturali delle regioni e degli enti locali, il titolo di legittimazione costituito dalla competenza in tema di valorizzazione offre una copertura alla normativa statale di principio, lasciando scoperta quella di dettaglio ancorché di carattere transitorio e cedevole»112.

Ne consegue che, al di là del tenore letterale dell’art. 115 ed in conseguenza dell’incostituzionalità dell’art. 113-bis del TUEL, per i «servizi culturali e del tempo libero» gestiti dagli enti locali, viene meno il principio di tipicità113 e non è più obbligatoria l’adozione del contratto di servizio con l’ente titolare. a. Gestione diretta, concessione o esternalizzazione

La valorizzazione, gestione e promozione dei beni culturali di proprietà degli enti locali può essere in primo luogo gestita “in economia”, cioè attraverso gli stessi uffici degli enti, eventualmente avvalendosi della collaborazione di altri enti114, oppure di cooperative o

quali però dichiarano preliminarmente che non intendono «entrare direttamente nell’analisi dei pro e dei contro di ciascuna soluzione giuridica utilizzabile per la realizzazione della partnership tra pubblico e privato», salvo segnalare la prioritaria esigenza di «accrescere la partecipazione dei privati al finanziamento, ma anche alla gestione», cui si deve unire la considerazione della «convenienza fiscale». Anche G. SCIULLO, Gestione dei servizi culturali, cit., pp. 3-6, ha riassunto in estrema sintesi il quadro normativo oggi vigente, affermando che «la scelta della forma di gestione potrà cadere fra quelle che, sulla base delle norme del TUEL o del codice civile, risultano idonee ad essere utilizzate allo svolgimento di un servizio con tale carattere (si pensi in particolare all’istituzione, al consorzio, all’associazione, alla fondazione, alla fondazione di partecipazione)».

110 La Sentenza C.Cost. n. 272 del 13.12 luglio 2004, secondo la quale l’intervento legislativo non era motivato dalla riconducibilità dei servizi pubblici locali alle funzioni fondamentali (117 c. 2 p) e neppure dalla tutela della concorrenza; per un’analisi approfondita G. SCIULLO, Stato, regioni e servizi pubblici locali nella pronuncia n. 272/04 della Consulta, in Lexitalia.it, (7-8) 2004; G. SCIULLO, Gestione dei servizi culturali, cit., pp. 1-3.

111 Nel testo introdotto dal c. 15 dell’art. 35 della l. 28 dicembre 2001, n. 448 (disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2002).

112 G. SCIULLO, Gestione dei servizi culturali, cit., pp. 3-4, che individua come norme aventi valore generale (“norme-principio”) solo le seguenti: «possibilità della gestione in forma diretta o in forma indiretta (c. 1); nel caso di gestione in forma diretta, necessità che la struttura preposta sia dotata di autonomia scientifica, organizzativa ecc. (c. 2); possibilità che la gestione in forma indiretta si atteggi secondo il modello dell’esternalizzazione (ricorso ad un operatore esterno all’ente cui i beni pertengono) o della collaborazione pubblico/pubblico o pubblico/privato (c. 3); possibilità che il servizio culturale sia organizzato anche come servizio di rilevanza economica».

113 Ibidem, p. 2, viene anche rilevata la «mancanza di un quadro di riferimento generale circa le modalità di affidamento» dei servizi stessi da parte dell’ente.

114 In A. PROPERSI, M. GRUMO, op.cit., p. 90, si è inclusa tra i modelli giuridici utilizzabili per la costituzione e la gestione dei musei degli enti pubblici locali anche la convenzione (ex art. 30 del TUEL), che però non fa sorgere un soggetto giuridico autonomo ma utilizza le strutture già disponibili presso ciascun ente convenzionato, «al fine di ottenere una gestione del medesimo servizio presso più enti».

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associazioni115; tutti i relativi atti sono quindi soggetti alle regole sugli atti deliberativi, sulla contabilità e sui controlli applicabili alle attività di Comune e Provincia. Gli uffici compe-tenti, secondo Luther, sono «gerarchicamente subordinati all’amministrazione», e quindi non godono di «alcuna garanzia di autonomia nelle determinazioni degli indirizzi cultura-li»116.

Pur essendo possibile ipotizzare alcuni «vantaggi economici» derivanti da tale forma di gestione, essi non dovrebbero andare a scapito dell’effettiva fruibilità dei beni culturali; d’altronde la concessione o l’esternalizzazione dei servizi, la cui durata deve essere con-gruamente limitata, offre minori garanzie di continuità e qualità117 della gestione, ma soprat-tutto di permanenza dell’istituzione culturale, presupponendo inoltre una capacità di auto-finanziamento del sito, per nulla facile da garantire.

Quindi «la scelta dipende in ultima analisi dagli obiettivi del servizio», con la conse-guenza che non è preclusa la possibilità di «scorporare dal complesso dei servizi culturali singoli servizi accessori», per darli in concessione a terzi118. Il dossier del Ministero, invece, non prende neppure in considerazione la possibilità di gestione diretta dei servizi relativi ai siti UNESCO, il che appare discutibile, ad esempio quando si tratta di singoli edifici pubblici, di parchi119 o, a maggior ragione, di piccole città d’arte120, mentre si limita a rilevare che la concessione è consigliabile in caso di numero ridotto di enti e solo per l’esercizio di competenze di natura pubblica121. b. Società

L’idea stessa di una società (s.p.a. o s.r.l.) appositamente costituta per la gestione di beni culturali non può che sollevare dubbi e timori122, secondo il parere del nostro Autore, principalmente in merito alla «compatibilità dello scopo di lucro, cioè la produzione di utili da distribuire, con le finalità pubbliche di promozione della cultura»123, previste dall’art. 9 Cost.. I fautori delle società di impresa culturale ritengono, per contro, che «non esiste

115 G. FRANCHI SCARSELLI, Sul disegno, cit., p. 3; G. PIPERATA, La nuova disciplina dei servizi

aggiuntivi, cit., p. 9 definisce la gestione diretta e la gestione integrata delle attività presso le istituzioni statali (di cui al decreto 29 gennaio 2008) come «modelli gestionali principali» dal punto di vista organizzativo, rispetto ai quali le altre forme residuerebbero solo come «dinamiche organizzative opzionali».

116 J. LUTHER, op.cit., p. 29; cfr. anche BARBIERO, L’ente locale nel sistema culturale, cit., pp. 17-29. 117 Particolarmente condivisibile il rilievo di J. LUTHER, op.cit., p. 29, secondo cui adottando la

gestione diretta in economia «i profili di idoneità del personale direttivo potrebbero incontrare dei dub-bi», il che varrebbe d’altronde anche per il resto del personale tecnico specializzato (conservatori, custo-di, ecc.).

118 Ibidem, p. 38. 119 Si pensi ad es. al caso dei Parchi naturalistici regionali che gestiscono tutti i servizi dei Sacri

Monti del Piemonte e della Lombardia. 120 Se tale soluzione appare da escludersi in grandi realtà come Roma, Venezia o Firenze, e

potrebbe non essere conveniente in molte altre situazioni intermedie, essa appare la più probabile e praticabile nelle realtà minori presenti nella Lista dell’UNESCO, come ad es. a Crespi d’Adda, Pienza o San Gimignano.

121 Progetto di definizione, cit., p. 196. 122 Sottolinea in proposito J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 33, che «secondo i critici,

l’impresa capitalistica for profit , caratterizzata da una dialettica tra maggioranza e minoranza e dalla ricer-ca di adeguate forme di ‘remunerazione dei soci’ offrirebbe un immagine inopportuna».

123 Nel caso di un sito storico-militare, a giudizio di Luther, «la causa lucrativa sarebbe in so-stanza la storia comune nazionale ed europea», il che non potrebbe che rafforzare l’obiezione: ibidem, p. 33.

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un’incompatibilità assoluta tra questi due scopi», dal momento che il lucro si potrebbe a lo-ro avviso realizzare attraverso la vendita di pubblicazioni, immagini e gadgets, il marketing del nome del bene culturale, i diritti televisivi per le manifestazioni culturali, consentendo di «produrre utili economici e culturali, allargando le vie di accesso allo stesso bene»124, senza per questo pregiudicare le prioritarie finalità culturali ed anzi incrementandone le potenzia-lità125.

L’oggetto sociale, venuti meno i vincoli sulle modalità di composizione della com-pagine societaria126, può comunque avere per oggetto la gestione dei servizi in questione (conservazione e valorizzazione dei beni culturali e degli altri beni del sito, inclusi i servizi aggiuntivi) ed anche includere l’eventuale «realizzazione di opere di conservazione o restau-ro, benché di natura pubblicistica»127.

Il capitale necessario alla gestione del sito potrebbe derivare dal diritto di uso tem-poraneo (ex art. 1021 Cod.Civ.) dei beni culturali oggetto dei servizi, nonché dalla proprietà degli altri beni mobili e immobili non vincolati, eventualmente presenti nella struttura. Con procedure di evidenza pubblica, si potrebbe inoltre provvedere alla scelta di eventuali soci privati disposti a investire in un progetto di impresa culturale o all’eventuale collocazione dei titoli azionari sul mercato; a garanzia delle finalità di interesse pubblico, l’atto costitutivo «dovrebbe riservare all’ente pubblico la nomina di uno o più amministratori o sindaci. Una quota delle azioni potrebbe essere destinata all’azionariato diffuso e restare sul mercato»128.

Non è quindi possibile, secondo Luther, non tenere conto dei «difetti strutturali» (trasferibilità delle partecipazioni, modificabilità a maggioranza dello statuto e dello stesso oggetto sociale, assenza di vincoli di indisponibilità del patrimonio societario) sin qui evi-denziati, a dimostrazione della «scarsa compatibilità con le finalità intrinseche di conserva-zione e valorizzazione culturale della gestione di beni culturali»129.

Il che non impedisce, tuttavia, al Ministero di valutare positivamente l’adozione di tale soluzione gestionale, laddove «si intende valorizzare e sviluppare anche sotto il profilo turistico il sito» candidato o iscritto alla Lista del Patrimonio mondiale; in questo senso vie-ne considerata «buona» l’adattabilità, a condizione però che davvero «si intenda promuove-re e/o sviluppare l’attività imprenditoriale», il che comporta ovviamente (ma discutibilmen-te) di gestire il sito «in maniera imprenditoriale» 130.

124 Ibidem. 125 In proposito cfr. E. BRUTI LIBERATI, Pubblico e privato nella gestione dei beni culturali: ancora una

disciplina legislativa nel segno dell’ambiguità e del compromesso, in Aedon, (3) 2001. 126 Prima della Sentenza C. Cost. n. 272/2004, l’art. 113-bis c. 1 lett. c) novellato ad opera

dell’art. 14, c. 2, lett. b), d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con modif. dalla legge 24 novembre 2003, n. 326 consentiva solo la costituzione di «società a capitale interamente pubblico a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano» (c.d. in house).

127 J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 33, ove si sottolinea che «sono possibili eventuali ulteriori prestazioni accessorie (art. 2345 Cod.Civ.) del socio pubblico, altrimenti difficilmente realizzabili»; si potrebbe altresì includere nell’oggetto sociale «l’assunzione di partecipazioni in altre società, purché siano strumentali all’oggetto principale e non trasformino la società in una holding».

128 Ibidem; appare condivisibile la raccomandazione che lo statuto preveda un «obbligo di restituzione del possesso dei beni», nel caso malaugurato di insolvenza della società o in quello, più probabile, di uscita del socio pubblico.

129 Ibidem, pp. 33-34. 130 AA. VV., Progetto di definizione, cit., p. 197. Un approccio decisamente sorprendente, dal

momento che risulta alquanto distante dai più ricorrenti e consolidati orientamenti ministeriali, oltre che dello spirito originario che informa la Convenzione di Parigi del 1972 e l’intero sistema del World Heritage: esso risente, evidentemente, della natura e della vocazione della struttura di consulenza che ha

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c. Azienda speciale e società consortile

L’azienda speciale è un’altra forma utilizzabile131 per la gestione di servizi privi di ri-levanza industriale, tra cui si possono senz’altro includere quelli culturali, ad esempio se inerenti o collegati alla gestione di un museo o di un sito storico visitabile. A differenza del-le vecchie aziende municipalizzate, essa gode di un’autonomia maggiore, trattandosi di un «ente strumentale dell’ente locale, dotato di personalità giuridica, di autonomia imprendito-riale e di proprio statuto, approvato dal consiglio»132, ed essendo inoltre provvisto di potere regolamentare e di autonomia contabile133.

Un’eventuale azienda speciale potrebbe anche essere istituita in forma consortile134, con la partecipazione di enti locali interni e esterni al territorio interessato, il che consenti-rebbe agli enti che lo costituiscono di svolgere con maggiore facilità, per suo tramite, anche eventuali attività extraterritoriali135.

A parere di Luther (che a definisce «modello inesplorato di una nuova impresa cul-turale pubblica»), la scelta dell’azienda speciale, potrebbe presentare dei vantaggi soltanto se concepita secondo la prospettiva dell’economia dei beni culturali, cioè come «piccola im-presa culturale pubblica»; la possibilità di «aggregare più soggetti pubblici e privati» in forma consortile, per contro, non offre «sufficienti garanzie della necessaria indipendenza e neu-tralità» come pure della stessa «permanenza dell’istituto» culturale136.

Condivide tali perplessità il Ministero, che giudica «limitata» l’adattabilità complessi-va al sito UNESCO dell’azienda speciale, «in ragione della impossibilità di aggregare sogget-ti diversi», mentre la struttura della società consortile avrebbe il limite di dover «essere composto da imprenditori commerciali»137.

elaborato lo studio (Ernst & Young S.p.A.).

131 Anche in questo caso è superato il richiamo all’art. 113-bis TUEL, dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 272/2004.

132 Secondo la definizione dell’art. 114, c. 1 del TUEL. Lo studio in esame evidenzia anche che, ai sensi del primo comma dell’art. 123, dalla responsabilità patrimoniale «restano tuttavia sottratti i beni indisponibili o demaniali consegnati all’azienda».

133 Si ricorda che secondo il TUEL l’autonomia imprenditoriale è limitata in questa fattispecie dai poteri di approvazione del piano-programma, del contratto di servizio e dei bilanci (art. 114 c. 8), dall’esercizio dei poteri di vigilanza e di verifica dei risultati della gestione (art. 114 c. 6), dalla previsione che l’ente locale in ogni caso «provvede alla copertura degli eventuali costi sociali», con gli stessi proble-mi indicati per l’istituzione; un’ulteriore limitazione viene dalla qualificazione (operata dall’allegato 3 al d.lgs. 20 ottobre 1998, n. 402; art. 2 lett. b) d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 65) delle aziende speciali come or-ganismo di diritto pubblico: J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 31.

134 Ai sensi dell’artt. 2615 ter del Cod.Civ.; cfr. M.S. POLIDORO, Le società consortili, Milano, Giuffré, 1984.

135 L’Autore sottolinea che la costituzione in forma consortile non preclude la possibilità per l’azienda di trasformarsi, in un secondo tempo, in una società di capitali, sulla base di quanto previsto all’art. 115 del TUEL.

136 J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 32. 137 Progetto di definizione, cit., p. 198; appare poco chiara ed anche piuttosto contraddittoria

(soprattutto tenendo presente gli orientamenti e gli indirizzi generali dello stesso Ministero) la nota secondo cui quest’ultima forma «potrebbe trovare una modalità di utilizzo qualora si intenda svolgere attività non-profit finalizzata alla salvaguardia del sito»: forse si vuole ipotizzare la possibilità, alquanto remota, di coinvolgere in questa forma eventuali sponsor tecnici.

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d. Istituzione

Si tratta della modalità gestionale specificamente concepita dal legislatore, nel 1990, come «alternativa alle organizzazioni di tipo imprenditoriale»138, che però non sembra esse-re stata adeguatamente compresa e recepita come tale dagli enti locali: pur potendo gestire più di una struttura museale, infatti, è stata adottata finora solo in poche realtà locali, sep-pure piuttosto rilevanti139.

Si aggiunga, a margine, che è tanto evidente quanto significativa l’assonanza della denominazione in esame con quella della istituzione culturale140, che potrebbe costituire una più appropriata definizione di quella categoria che il Codice ha più genericamente classifica-to (art. 101) come “Istituti e luoghi della cultura”141, forse proprio nell’intento di depoten-ziarne il valore di autonomia scientifica, amministrativa e operativa.

Come noto, l’istituzione è concepita come «organismo strumentale dell’ente locale per l’esercizio dei servizi sociali» (art. 114 c. 2 TUEL)142, senza per questo escludere che la si possa organizzare secondo canoni di imprenditorialità; secondo l’ampia analisi elaborata nel parere in esame, pur disponendo di autonomia gestionale, l’istituzione «non è necessaria-mente dotata di personalità giuridica perché priva di proprie fonti giuridiche (statuto, rego-lamento)». L’istituzione rimane dunque soggetta ad uno statuto giuspubblicistico che inclu-de, tra l’altro, le disposizioni sul pubblico impiego143, le regole e i controlli della contabilità pubblica, le regole sugli appalti pubblici e la legge sul procedimento amministrativo.

138 J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 29, che segnala come la l. n. 142/1990 e poi il TUEL

l’avessero definita come «organismo strumentale dell’ente locale per l’esercizio dei servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale»; cfr. anche A. ANDREANI, L’istituzione per la gestione dei musei. Spunti problematici, in Aedon, (2) 1998.

139 Si segnalano ad esempio le istituzioni comunali, deputate alla gestione di musei o biblioteche civiche, di realtà civiche importanti anche dal punto di vista culturale, come ad es. Bologna, Parma, La Spezia, Padova, Macerata o Siena; anche la Città di Roma gestisce mediante un’istituzione il proprio sistema di biblioteche civiche. Condivide la considerazione sullo «scarso successo avuto dall’istituzione, come tipico modello voluto dal legislatore del 1990» per l’organizzazione dei servizi culturali, G. PIPERATA, I modelli organizzativi, cit., p. 5, che ne attribuisce la responsabilità alla «limitata autonomia gestionale ad essa spettante».

140 S. BAGDADLI, op.cit., p. 148 riferendosi in specifico ai musei, cita a sua volta la definizione di Luigi Bobbio, secondo cui si deve trattare di «soggetti capaci di sviluppare proprie politiche culturali»: dunque si tratta di una istituzione sociale, permanente e aperta, «che pone cioè sullo stesso piano le funzioni di tutela e conservazione e quelle relative alla didattica, alla fruizione e alla valorizzazione».

141 Manca nella norma una distinzione formale tra le due sottocategorie. Si può tuttavia presumere che, anche in base alla formulazione del c. 2, sono certamente istituti i musei, le biblioteche e gli archivi, mentre sarebbero definibili come “luoghi” certamente i parchi archeologici e i complessi monumentali; meno certa appare la collocazione delle aree archeologiche, condizionata a tal fine da parametri come la dimensione, la rilevanza e la dotazione di strutture di fruizione.

142 Condivisibile l’osservazione di Luther, secondo il quale ciò offre «qualche argomento ulteriore ad un’interpretazione estensiva del termine sociale tale da intendere non solo la rimozione e il superamento di ‘situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona incontra nel corso della sua vita’, ma anche servizi come quelli culturali che sono rivolti tanto al soddisfacimento di bisogni immateriali della persona quanto ai bisogni di riproduzione ideale delle comunità»; la definizione di tale termine incontra particolari difficoltà nel caso dei servizi culturali, essendo qualificabili come “sociali” quanto meno i costi imputabili alla conservazione e fruizione (inteso come accessibilità) dei beni culturali, mentre potrebbe essere controversa la qualificazione di in tal senso dei costi inerenti ai servizi accessori; cfr. J. LUTHER, La valorizzazione, cit., pp. 29-30 che però su questo punto trascura di rilevare che anche la valorizzazione è finalizzata alla fruizione.

143 Interessante e particolarmente pertinente all’ambito culturale è la possibilità per l’istituzione

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Infine, ricevendo il capitale di dotazione esclusivamente dall’ente locale che la costi-tuisce e finanzia144, l’istituzione non è gestibile in forma consortile e dunque «può essere strumento di un solo ente»: ne consegue che, sempre a giudizio di Luther, «in linea princi-pio l’istituzione non sembra uno strumento indicato» laddove la gestione del bene culturale in questione richieda la collaborazione di servizi e la disponibilità di beni e capitali, conferiti anche da altri soggetti pubblici e privati145.

Forse anche per questa ragione tale soluzione giuridica e gestionale non è stata nep-pure contemplata nell’ambito dello studio del Ministero146, dal momento che laddove si renda necessaria la costituzione del soggetto gestore ad hoc per un sito UNESCO, ciò impli-ca e coinvolge necessariamente la partecipazione di più soggetti, aventi diversa natura e fi-nalità. e. Associazione

Il terzo comma dell’art. 113-bis TUEL, nella formulazione vigente prima della de-claratoria di incostituzionalità («Gli enti locali possono procedere all’affidamento diretto dei servizi culturali e del tempo libero anche ad associazioni e fondazioni da loro costituite o partecipate»), aveva indotto Luther a ritenere che non solo permettesse, ma implicitamente promuovesse e favorisce «la gestione dei musei da parte di associazioni». Gli enti locali po-trebbero dunque partecipare ad associazioni esistenti sul territorio o costituire, tra loro o con altri soggetti, un’associazione riconosciuta nuova147.

Ricordato che la sentenza del 2004 della Consulta, dichiarando l’incostituzionalità delle modifiche alla normativa sui servizi pubblici locali senza rilevanza economica, ha fatto cadere il “principio di tipicità delle forme organizzative”148, non per questo deve venire del tutto meno il favor per la forma associativa, che resta comunque una delle possibili opzioni a disposizione degli enti titolari del servizio culturale in questione.

Piuttosto, la figura giuridica dell’associazione è stata ritenuta poco adatta, in quanto «segnata da alcuni deficit strutturali rispetto alle finalità conservative della gestione», il che si può ravvisare, ad esempio, con riferimento alle garanzie di salvaguardia del patrimonio e alla disponibilità di personale tecnico provvisto di qualificazione; la gestione dei beni cultu-rali interessati, incluse le scelte rispetto alla loro conservazione, secondo l’Autore sarebbero in questo modo «rimesse agli umori della maggioranza senza poter dare sufficienti garanzie di continuità e stabilità all’istituzione culturale». In ultimo, la costituzione ex novo di un’associazione rischierebbe di non fornire sufficienti garanzie a quei «diritti alla memoria delle generazioni passate e di quelle future» che sono la principale fonte di legittimazione istituzionale di un museo e sito storico culturale149.

di assumere un direttore dotato di requisiti di alta professionalità, eventualmente mediante assunzione dirigenziale esterna.

144 Per l’art. 114 c. 4 TUEL, l’ente ha l’obbligo di pareggio di bilancio «da perseguire attraverso l’equilibrio dei costi e dei ricavi, compresi i trasferimenti», che possono assumere rilievo determinante, essendo in ogni caso l’ente locale tenuto alla «copertura degli eventuali costi sociali» (c. 6).

145 Ibidem, p. 30. 146 Progetto di definizione, cit., pp. 196-198. 147 Va distinto a tal fine il possibile ruolo parallelo di un’associazione del tipo “amici dei musei”,

composta quindi di persone fisiche: infatti, pur essendo considerata «una risorsa inestimabile della ge-stione», a giudizio di Luther «sarebbe troppo comodo» accollarle l’intero peso di tale responsabilità: J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 35.

148 G. SCIULLO, Gestione dei servizi culturali, cit., p. 2. 149 J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 35.

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Si può solo aggiungere che questi aspetti critici non escludono l’utilità dell’istituto in esame, in particolare nella fase di start-up del progetto, prima cioè che sia data al soggetto gestore una forma definitiva, essendo l’associazione di per sé leggera, flessibile, poco one-rosa e facilmente reversibile, ma risultando comunque più solida, strutturata e duratura ri-spetto all’ancor meno istituzionalizzata soluzione del comitato promotore, precaria per sua stes-sa natura150.

Anche a giudizio del Ministero, l’associazione risulterebbe adatta soltanto ove si intenda «svolgere un’azione prevalentemente di coordinamento»; essa viene giudicata non idonea alla gestione operativa, né tantomeno all’eventuale perseguimento di fini economici151: il che appare invero opinabile, alla luce di molti esempi concreti facilmente riscontrabili, negli ambiti territo-riali (come sono quelli oggetto del caso di studio) periferici e con una limitata vocazione turisti-ca152.

f. Fondazione

Al termine della sua analisi, Luther esprime motivatamente la propria preferenza per uno tra i modelli considerati, definendola «l’alternativa forse più interessante per la ge-stione del sito»: propone infatti di considerare la possibilità di affidare la gestione di un sin-golo museo e dei servizi culturali connessi ad una fondazione, che può essere costituita o partecipata dagli enti locali, anche sulla base di un contratto di servizio o di una convenzio-ne153.

La formula organizzativa della fondazione viene giudicata «molto elastica», essendo la disciplina legislativa del codice civile divenuta «più leggera», dopo l’abrogazione degli ar-ticoli 17, 33, 34 del Codice civile; l’irrevocabilità dell’atto costitutivo, la durata tendenzial-mente illimitata dell’ente e la possibilità di irrigidire lo statuto contro future modifiche con-feriscono allo strumento in esame «un’alta sicurezza e credibilità», mentre «il vincolo di de-stinazione che grava sui beni conferiti alla fondazione, cioè sia il patrimonio di dotazione

150 Peraltro, si ricorda che proprio sulla base delle scarne disposizioni di cui agli articoli 39 ss.

del Codice Civile, lo stesso Ministero per i Beni e le Attività culturali ha adottato ai sensi della l. 1 dicembre 1997, n. 420, la forma del Comitato per la gestione dei grandi eventi celebrativi nazionali: cfr. D. PORRO (a cura di), Per la tutela della memoria. Dieci anni di celebrazioni in Italia, Roma, Ministero per i Beni e le attività culturali-Gangemi, 2010.

151 Nell’ambito del già ricordato studio preliminare AA. VV., Il modello del piano di gestione, cit., p. 44, si fa però cenno all’ipotesi di «casi complessi in cui i soggetti e gli oggetti sono numerosi e complessi», nei quali si verrebbe a configurare «una combinazione a cascata di più soggetti aventi natura solo pubblica, attraverso le associazioni o patti fra territori diversi», pur ammettendo che «non esiste una soluzione univoca al problema».

152 In provincia di Alessandria si segnala ad es. il caso dell’associazione Memoria della Benedicta, composta da una cinquantina di enti di due regioni (Piemonte e Liguria), la quale dal 2003 promuove e valorizza un sito di grande rilevanza storico-naturalistica e turistica, oggetto della l.r. Piemonte n. 1/2006: cfr. M. CARCIONE, Valorizzare la Benedicta come Parco della Pace, in G.P. ARMANO, M. CARCIONE, Benedicta 1944, l'evento la memoria, Recco, Le Mani, 2007, pp. 161-171.

153 J. LUTHER, La valorizzazione, cit., pp. 35-39, che richiamava a sostegno della sua valutazione l’allora vigente art. 113-bis c. 3 del TUEL e l’art. 115 del Codice, evidenziando che i vantaggi offerti dall’istituto giuridico in esame ai fini della gestione di beni culturali «sono da tempo riconosciuti dalla dot-trina giuridica». Sull’art. 115 è in seguito intervenuto il d.lgs. n. 156/2006: G. SCIULLO, Valorizzazione, gestio-ne e fondazioni nel settore dei beni culturali: una svolta dopo il d.lg. 156/2006?, in Aedon, (2) 2006. Cfr. anche G. FRANCHI SCARSELLI, La gestione dei servizi culturali tramite fondazione, in Aedon, (1) 2002; CANUTI, op.cit., pp. 7 ss.

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sia i beni culturali depositati a titolo di comodato, ne assicura al meglio la conservazione e la tendenziale indisponibilità”154.

Lo studio ci ricorda che la fondazione può avere «una pluralità di oggetti e soggetti, e possono combinare l’uno con l’altro», dal momento che, a parere del suo Autore, ad essa possono essere affidati più beni e servizi, ma anche molteplici gestioni155: ne consegue che potrebbe gestire tramite convenzione156 non solo «ulteriori musei e beni culturali», ma an-che «servizi inerenti alla promozione e al coordinamento delle ‘reti provinciali di servizi cul-turali’ in materia di beni culturali del territorio»157, d’intesa con altri soggetti diversi dal fon-datore (come ad es. altri enti locali o ecclesiastici, associazioni e privati), i quali potrebbero così demandarle la gestione dei servizi connessi territorialmente o tematicamente.

Il soggetto gestore così costituito può essere destinato esclusivamente ad attività di solidarietà sociale, oppure svolgere una o più attività commerciali, strumentali al persegui-mento delle proprie finalità statutarie, ferma restando la natura non-profit158; a tali fini “la fondazione potrebbe eventualmente costituire o partecipare ad una società di capitali desti-nata alla gestione di tali servizi accessori” in particolare ove interessino la gestione di altri istituti culturali presenti sul territorio159.

Per quanto riguarda invece la pluralità dei soggetti, viene posto in evidenza che «la fondazione può essere anche formata da più persone giuridiche e fisiche mediante una plu-ralità di atti unilaterali e, addirittura, da una moltitudine di persone, come nel caso in cui viene costituita per pubblica sottoscrizione, nelle forme di cui agli art. 39 ss. Cod.Civ. »160.

Per tutte queste ragioni – sempre a parere di Luther – a fronte dei «vantaggi che of-frono le fondazioni quali enti non profit per la gestione di beni culturali», che consistono in particolare nella «grande variabilità e duttilità delle sue regole», gli svantaggi, come il regime del riconoscimento e dei controlli governativi (art. 25, 26 c.c.), oppure il problema della ge-

154 J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 35, che pone in evidenza anche la possibilità di attrarre

dei «finanziamenti partecipativi che rendano un immagine di social committment». 155 Ibidem, p. 36. 156 Si veda in proposito anche l’analisi di A. HINNA, Le fondazioni museali: complessità organizzativa e

ambiti di applicazione, in B. SIBILIO PARRI, op.cit., pp. 179-202. 157 Rileva Luther a questo proposito che, dal momento che una fondazione può, a scelta dei

fondatori, avere un territorio di attività nazionale o anche solo regionale, «alle fondazioni regionali potrebbe essere circoscritta l’applicazione dell’art. 129 l.r. n. 44/2000» in virtù del quale la Regione Piemonte favorisce e sostiene istituti per la gestione, valorizzazione e fruizione dei musei e beni culturali in forma di fondazioni «prevedendo la partecipazione di Province, Comuni ed altri enti pubblici e privati»: J. LUTHER, La valorizzazione, cit., pp. 36-37.

158 Occorre tenere presente che ove la fondazione svolgesse tale attività in modo non occasionale (se non addirittura in via esclusiva o principale), dovrebbe essere iscritta nel registro delle imprese commerciali e tenere scritture contabili e potrebbe anche fallire: ibidem, p. 35.

159 A tal fine non va però sottovalutata la circostanza che «pure presentandosi formalmente come un soggetto di diritto privato», la fondazione museale costituita o partecipata da enti locali, «può essere considerato ‘organismo pubblico’ dal punto di vista dell’ordinamento comunitario, con tutte le conseguenze che ne discendono»: ibidem, p. 38.

160 Risulta distinguibile rispetto a questa opzione quella della la cd. “fondazione in partecipazio-ne” che, pur conservando della fondazione come elemento prevalente quello patrimoniale della universitas bonorum, al fine di consentire una rappresentanza nella determinazione degli indirizzi anche da parte di partecipanti diversi da chi ha costituito la fondazione, utilizza un organo assembleare, elemento tipico dell’associazione: questo per premiare e tutelare in particolare l’apporto dei volontari, i quali invece di risorse economiche conferiscono la propria opera gratuita e disinteressata: cfr. J. LUTHER, La valorizza-zione, cit., pp. 36-37; E. BELLEZZA, Le fondazioni di partecipazione quali modelli di gestione dei musei, in B. SIBI-

LIO PARRI, op.cit., pp. 135-158.

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stione in forma concorsuale di eventuali situazioni di insolvenza, appaiono meno significa-tivi161.

Anche il Ministero evidenzia come aspetto positivo il fatto che i costi di gestione e gli adempimenti contabili e fiscali sarebbero ridotti, mentre considera un punto di debolez-za (al contrario di Luther) il fatto che «il patrimonio è unicamente finalizzato al persegui-mento dello scopo», cui si aggiungerebbe l’ulteriore limite di non consentire l’aggregazione di un numero ampio di soggetti: per queste ragioni la fondazione è consigliata per la gestio-ne dei siti UNESCO solo nel caso che sia necessario gestire biblioteche o emeroteche, op-pure «nel caso di gestione indiretta di beni culturali ai sensi dell’art. 115 del Codice»162.

g. Consorzio

A questo punto dobbiamo constatare che lo studio di Luther non ha riservato alcuna attenzione al consorzio di enti pubblici163, costituito ex art. 31 TUEL «per la gestione associa-ta di uno o più servizi e l'esercizio associato di funzioni», che (alla luce del comma 8)164 viene regolato – anche nel caso di attività e servizi privi di rilevanza economica – applicando le norme previste per le aziende speciali165.

Tale lacuna avrebbe potuto apparire opinabile, se considerata alla luce delle succes-sive modifiche (operata dapprima dal d.lgs. n. 156/2006, e poi dall'articolo 2 del d.lgs. n. 62 del 2008) del secondo comma dell’art. 112 del Codice, secondo cui «possono essere anche istituite forme consortili non imprenditoriali per la gestione di uffici comuni» tra lo Stato, le re-gioni e gli altri enti pubblici territoriali, ed anche con «i privati interessati, per regolare ser-vizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali».

Occorre tuttavia dare atto anche della circostanza che l’istituto era stato solo due anni dopo166, ed è tuttora, oggetto di una drastica riconsiderazione, in ultimo con l’art. 2 c. 186 della legge finanziaria 2010167, con specifico riferimento alla soppressione dei consorzi

161 J. LUTHER, La valorizzazione del Museo, cit., pp. 37-38. 162 Progetto di definizione, cit., p. 198. 163 Considerato invece da A. PROPERSI, M. GRUMO, op.cit., pp. 89-90, seppure senza dare

specifiche valutazioni o indicazioni in merito a una sua eventualmente migliore funzionalità rispetto alle esigenze prospettate; cfr. anche A. PROPERSI, G. ROSSI, I consorzi: aspetti legali, contabili e fiscali, Milano, Il Sole 24 Ore, 2010.

164 Introdotto dall’articolo 35, c. 12, della legge n. 448/2001. 165 In Piemonte tale forma giuridica è stata da anni adottata per la gestione di alcuni Istituti per la

storia della resistenza e della società contemporanea (scelta in ultimo ribadita con la l.r. n. 20/2008), i quali operando in ambito storico attraverso studi e ricerche, mostre e manifestazioni allestite sul territorio, attività didattiche e pubblicazioni, oltre ad annoverare normalmente una biblioteca e un archivio, presentano caratteristiche del tutto omologhe rispetto alla fattispecie in esame. Cfr. G. BARBERIS, M.CARCIONE, La costituzione dell'Istituto Storico della Resistenza di Alessandria (1975-77) nei documenti dell'archivio provinciale, in QSC (44), pp. 163-175.

166 Già l’art. 2 c. 28 della l. 28 dicembre 2007, n. 244 recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato” (Legge finanziaria 2008) conteneva una prima ipotesi di riordino, prevedendo che «ai fini della semplificazione della varietà e della diversità delle forme associati-ve comunali e del processo di riorganizzazione sovracomunale dei servizi, delle funzioni e delle strutture, ad ogni amministrazione comunale è consentita l’adesione ad una unica forma associativa» di cui all’art. 31, prevedendo però una deroga «per l’adesione delle amministrazioni comunali ai consorzi istituiti o resi obbligatori da leggi nazionali e regionali».

167 L. 23 dicembre 2009, n. 191 recente “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”, come modificata dall'art. 1, c. 1-quater, lett. a), del d.l. 25 gennaio 2010, n. 2, convertito, con modificazioni, dalla l. 26 marzo 2010, n. 42.

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“di funzioni”168, il che farebbe salvi però i consorzi specificamente destinati a gestire servizi, inclusi quelli culturali e turistici.

Questa innovazione – dettata da ragioni contingenti connesse a un presunto conte-nimento dei costi degli apparati intermedi della pubblica amministrazione – appare tanto più significativa, proprio a fronte del fatto che lo studio del Ministero (che ovviamente non poteva prevedere questi sviluppi successivi), privilegiava decisamente il consorzio di enti, anche a scapito della fondazione: il che si giustificava proprio sul presupposto della sua “ampia duttilità” e della possibilità di operare “con costi di struttura piuttosto bassi, poten-do utilizzare anche personale distaccato degli enti che vi partecipano”.

In questo senso veniva addirittura giudicato «ottimo nel caso che vi sia un alto nu-mero di enti a vario titolo competenti»169, situazione che caratterizza la realtà di molti siti culturali e paesaggistici italiani, non pochi dei quali sono stati e sono candidati o iscritti alla Lista dell’UNESCO.

In altra parte del documento in esame, infine, nel trattare la gestione dei servizi turi-stici, si fa esplicito cenno al coinvolgimento di operatori privati170; se ne può dedurre, per-tanto, che in questo caso il Ministero fa riferimento all’adozione della forma consortile co-stituita ai sensi dell’art. 2602 del Codice Civile171.

Possiamo a questo punto tentare di operare una prima sintesi di questa rapida, quanto sommaria, carrellata sugli esiti di due dossier applicativi delle stesse norme rispetto a sue contesti che erano formalmente ben distinti al momento della loro redazione172, ma che sono poi risultati sostanzialmente sovrapponibili alla prova dei fatti; il che rende ancora più probante e quindi utile al dibattito (tanto teorico che politico-istituzionale) questa verifica della coerenza e compatibilità, o meno, dei due punti di vista.

Preliminarmente, però, non si può che condividere il giudizio di Piperata, secondo il

168 Si veda un breve commento in V. NICOTRA, F. PIZZETTI, Le norme ordinamentali contenute nel

disegno di legge finanziaria 2010 riguardanti i comuni e le province: un primo commento, in Astrid-online.it; si tenga conto che nell’ambito del disegno di legge (A.S. n. 2259) “Individuazione delle funzioni fondamentali di Province e Comuni, semplificazione dell’ordinamento regionale e degli enti locali, nonché delega al Go-verno in materia di trasferimento di funzioni amministrative, Carta delle autonomie locali. Riordino di enti ed organismi decentrati” (approvato dalla Camera in prima lettura il 30 giugno 2010 e attualmente in esame al Senato), l’art. 18 primo comma dispone che «sono soppressi tutti i consorzi tra gli enti locali per l’esercizio di funzioni»; tuttavia secondo il c. 4 «sono esclusi dalla soppressione di cui al c. 1 i consorzi che al 1º gennaio 2010 gestivano uno o più servizi ai sensi dell’articolo 31 del testo unico, e successive modificazioni».

169 Progetto di definizione, cit., pp. 196-197; risulta singolare, per contro, la mancata citazione del consorzio tra i diversi modelli di cooperazione istituzionale già prefigurati da AA. VV., Il modello del piano di gestione, cit., pp. 40 ss., a meno che lo si voglia intendere incluso nel vago riferimento alle “formule miste” a carattere associativo (punto 3.2.6, a p. 44).

170 Si tratta delle situazioni «ove sia necessaria una gestione anche di natura imprenditoriale del sito UNESCO» (come certamente avviene per i servizi di fruizione dei centri monumentali di Roma, Firenze, Venezia o Pompei), cui fa però riscontro la corretta constatazione che «un’attività imprenditoriale prevede per definizione l’assunzione di rischi e una gestione finalizzata alla massimizzazione dei profitti, e che tali aspetti possono essere di difficile bilanciamento con gli obiettivi di presentazione del patrimonio»: cfr. Progetto di definizione di un modello, cit., p. 199.

171 Con il contratto di consorzio «più imprenditori istituiscono un'organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese».

172 Come documentato nel corso dell’esame del caso di studio, alla conclusione dello studio di Luther (marzo 2005) e a quello del progetto di Ernst & Young, (gennaio 2005) non si poteva ancora sapere che oltre un anno dopo (giugno 2006) il sito alessandrino “Cittadella-Marengo” sarebbe stato inserito nella tentative list italiana per le candidature presso l’UNESCO.

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quale «si è realizzata con riferimento all’organizzazione dei servizi locali di tipo culturale una situazione alquanto paradossale: da un lato il legislatore, in virtù della peculiare natura dei servizi sociali di carattere non imprenditoriale, ha espressamente previsto un apposito modello organizzativo; dall’altro i comuni hanno di fatto disatteso tale previsione, preferendo i modelli gestionali pensati per i servizi di carattere imprenditoriale ovvero sperimentando nuovi modelli»173; peraltro abbiamo appena constatato che neppure lo stesso Ministero per i Beni e le Attività culturali propone il modello dell’istituzione a tal fine174. Se infatti il nostro Autore di riferimento, allorché analizzava per incarico delle istituzioni locali le possibili forme di gestione ottimale di un singolo istituto o sito, per quanto complesso, propendeva chiaramente per la soluzione della fondazione175, invece per la gestione di un sito UNESCO il Ministero aveva dimostrato di ritenere preferibile il consorzio di enti pubblici, giudicandolo «quello che consente una maggiore adattabilità alle diverse esigenze», nel rispetto di molteplici competenze «frazionate tra molti soggetti sia di natura locale, sia di natura nazionale»176; solo in seconda istanza, infatti, veniva indicato come possibile modello alternativo la società, ma soltanto nel caso di una eventuale gestione «anche di natura imprenditoriale»177.

La consapevolezza che difficilmente un solo soggetto potrebbe fare fronte in modo efficace a tutte le necessità operative178, emerge dalla condivisibile indicazione che, in subordine a tale soggetto, «dovranno essere previste delle strutture più operative», cui sarà demandata l’attuazione dei singoli progetti; a loro volta esse possono essere scelte, per le stesse motivazioni già evidenziate supra, tra il consorzio di diritto privato, la fondazione e la società di capitali179. Oggi però occorre aggiungere, beninteso, l’ulteriore condizione che in futuro, al termine degli attuali interventi di “riforma” degli strumenti di intercomunalità, l’istituto consortile di diritto pubblico risulti ancora utilizzabile, mentre il problema non si pone per l’omonimo istituto privatistico. Infine, volendo aggiungere un pur minimo contributo personale a questo dibattito, si potrebbe prospettare una terza ed ulteriore modalità operativa, particolarmente adatta ai

173 G. PIPERATA, Sul disegno di gestire, cit., p. 5: l’intento delle amministrazioni locali, che sulla base

dell’esperienza concreta appare sostanzialmente disatteso o comunque non adeguato, sarebbe stato di «garantire una più efficiente organizzazione dei servizi e un maggiore coinvolgimento dei privati».

174 Allo stesso orientamento si conforma lo studio AA. VV., Il modello del piano di gestione, cit., pp. 40 ss.

175 Si veda J. LUTHER, La valorizzazione, cit., pp. 38-39; analoga scelta fanno A. PROPERSI, M. GRUMO, op.cit., p. 100, indicandola come «idonea per raggiungere obiettivi di partnership tra enti locali di diverso livello e tra pubblico e privato nella gestione», che viene anche definita quale «forma giuridica flessibile, altamente personalizzabile e sufficientemente aggregativa».

176 Ne è ulteriore riprova il fatto che per la gestione della Reggia di Venaria e del sistema delle Residenze sabaude (che costituisce ormai a livello nazionale l’archetipo degli interventi coordinati di valorizzazione e gestione ex artt. 112 e 115 del Codice), si sia arrivati nel 2008 a costituire il “Consorzio di valorizzazione culturale La Venaria Reale”, in forma di ente consortile pubblico non operante in forma imprenditoriale: www.lavenaria.it/web/it/consorzio-la-venaria-reale

177 Progetto di definizione, cit., p. 199. 178 Già in AA. VV., Il modello del piano di gestione, cit., p. 45, peraltro, si affermava che «in ogni caso

sono necessari due livelli organizzativi», il primo dei quali dovrebbe affrontare le problematiche connesse alla proprietà, alla conservazione, alla tutela dell’immagine e alla qualità dei servizi (con una formula associativa o di patto), mentre l’altro si farebbe carico dei compiti «imprenditoriali», connessi alla valorizzazione turistica.

179 Realizzabile mediante «forme di concertazione con gli enti funzionali, con le associazioni di categoria e con i soggetti pubblici e privati», a loro volta promosse da enti locali o anche da soggetti privati: cfr. Progetto di definizione, cit., p. 220.

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contesti meno vocati dal punto di vista turistico: il convenzionamento del principale soggetto gestore (fondazione o consorzio che sia) con una o più associazioni, oppure sezioni locali di associazioni di rilevanza nazionale di volontariato culturale, opportunamente qualificate e accreditate180; d’altronde è già possibile, ai sensi del Codice, attivare convenzioni di durata pluriennale per la gestione di servizi e attività connesse, dando una soluzione efficace in termini di sussidiarietà a problematiche non altrimenti risolvibili nella gran parte delle realtà meno coinvolte dai flussi turistici quantitativamente più rilevanti.

Va evidenziato, in ultimo, che a giudizio del Ministero il soggetto gestore, in qualunque forma costituito e gestito, può assumere la funzione di coordinamento e organizzazione del sistema turistico locale previsto dall’art. 5 della l. n. 135/2001181. 4.7. Autonomia e pluralismo degli istituti della cultura.

Una volta esercitata discrezionalmente la scelta182 della forma privatistica più idonea

a conseguire gli specifici fini culturali, occorre verificare se nella realtà applicativa essa ne integri effettivamente la fattispecie, risultando anche in seguito conforme a tutti i requisiti previsti dal Codice Civile; in altre parole, è necessario che la funzionalità e l’effettiva possi-bilità di conseguire lo scopo fondativo non siano pregiudicate qualora, nel caso concreto183, ci si trovi ad esempio a considerare società manifestamente prive della possibilità anche so-lo teorica di conseguire qualsiasi lucro, oppure fondazioni che poco tempo dopo la costitu-zione non dispongono più di un capitale adeguato, o alle quali sono stati conferiti cespiti immobiliari non fruttiferi e che, al contrario, comportano solo oneri184.

Tale verifica appare particolarmente significativa ai fini del conseguimento dell’essenziale requisito dell’autonomia185, la quale è posta – come si è già avuto modo di

180 Si vedano infra, le conclusioni, punto b). 181 In tal senso si esprime AA. VV., Il modello del piano di gestione, cit., pp. 41 e 47; cfr. anche A.

PAPA, Il turismo culturale in italia, cit., p. 4. 182 A. PROPERSI, M. GRUMO, op.cit., p. 86 sottolineano che la scelta deve essere adottata in

«funzione degli obiettivi e delle caratteristiche operative che si intende attribuire alla costituenda istituzione culturale», richiamando a tale proposito la decisione n. 100/1997 del TAR dell’Umbria, in base alla quale «l’ente locale può operare scelte differenziate e sostanzialmente libere, in quanto la legge non stabilisce alcuna forma di preferenza per le modalità di gestione dei servizi pubblici, restando pertanto integro il potere autonomo di scelta degli organi consiliari».

183 Realisticamente gli estensori dello studio preliminare (AA.VV., Il modello del piano di gestione, cit., p. 44), avevano rilevato che «la gestione di una situazione complessa come quella dei beni culturali è il frutto di una serie di mediazioni fra la responsabilità collettiva della tutela e l’esigenza di mettere a frutto beni comuni. In questo ambito il pensiero dominante è flessibile, nel senso che si adotta una o l’altra formula gestionale sulla base di una serie di condizioni e vincoli, da definire solo al livello delle specificità di ogni sito».

184 G. FRANCHI SCARSELLI, Sul disegno, cit., p. 17. La differenza tra teoria e pratica può forse derivare dal fatto che studi e valutazioni operate con riferimento a casi e modelli giuridici o gestionali positivamente sperimentate in realtà che possono disporre di ingenti risorse finanziarie e culturali (normalmente le grandi aree metropolitane, come è avvenuto per il Piemonte nel caso di Venaria e del Museo Egizio), vengano poi acriticamente proposte e applicate anche a situazioni e aree territoriali marginali o comunque meno fortunate.

185 J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 45; R. CHIARELLI, op.cit., p. 417 pone in evidenza il fatto che attraverso la possibilità di scelta, il pluralismo assicura ai cittadini l’effettivo esercizio dei diritti di libertà.

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sottolineare – a garanzia del pluralismo e con esso più in generale dei diritti culturali; ciò si deve poter riscontrare in primo luogo sotto il profilo di un’adeguata indipendenza e capaci-tà organizzativa e finanziaria del soggetto costituito186, ed in secondo luogo quanto alle mo-dalità di definizione e verifica (da parte dei fondatori, ma anche dell’opinione pubblica) de-gli indirizzi di politica culturale che si intende perseguire.

a. Le garanzie statutarie e finanziarie

Ancora una volta, ci viene in aiuto l’analisi di Luther, che nel valutare la migliore forma di soggetto gestore per un nuovo istituto culturale, aveva prestato particolare atten-zione proprio al diverso grado di autonomia garantito dalle varie forme giuridiche volta per volta considerate, in primis rispetto agli Enti pubblici in un modo o nell’altro coinvolti nei processi istituzionali ed amministrativi di costituzione, finanziamento e gestione.

Tornando a riconsiderare dapprima la gestione diretta, l’art. 115 c. 2 del Codice aveva stabilito che presupponesse comunque l’esistenza di «strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico»; tuttavia, la realtà concreta dimostra che anche a fronte di possibili (sebbene improbabili) «vantaggi economici» della gestione in economia, occorre inevitabilmente scontare il «riassorbimento dell’autonomia funzionale delle istituzioni culturali in quella politica dell’ente territoriale di appartenenza»187.

Una volta che si è invece assunta la determinazione di demandare le funzioni e le at-tività in oggetto a un soggetto giuridico di natura (almeno formalmente) privatistica, le cose tendono a complicarsi ulteriormente sotto il profilo dell’autonomia: in primo luogo, le so-cietà di capitali «non offrono sufficienti garanzie» in tal senso, secondo l’Autore, essendo per i soci (cioè per le maggioranze politiche che li governano) «sempre possibile sciogliere i patti societari». Attraverso questo dispositivo «potrebbe infine essere esercitata una certa pressione sui gestori del servizio culturale, limitandone l’autonomia», fino a pregiudicare la permanenza del museo e la continuità della sua gestione, sulla base di mere ragioni di equi-librio e di redditività economico-finanziaria188.

Allo stesso modo Luther dimostra di dubitare che con riferimento all’azienda spe-ciale (consortile o meno) vi siano «sufficienti garanzie alla necessaria indipendenza e neutra-lità delle scelte culturali», sempre in ragione della composizione degli organi e della preva-lente vocazione e finalità economica189; sulla base dell’esperienza concreta, possiamo ag-giungere che appare realistico il rischio che dietro la presunta economicità della gestione si possano celare in realtà altri intenti e priorità190.

186 Con particolare riferimento al tema della separazione fra politica e gestione, cfr. C.

GIANFELICI, I servizi pubblici locali in outsourcing. Le funzioni di indirizzo e controllo dei Comuni, Bologna, F.Angeli, 2008, pp. 62-63.

187 J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 29; si aggiunga che ciò risulterebbe tanto più improprio prendendo in considerazione, oltre alla valorizzazione e gestione di beni e istituti culturali, anche le atti-vità di promozione della cultura e di comunicazione istituzionale, che in assenza di idonei strumenti di garanzia del pluralismo e dell’indipendenza di indirizzo, difficilmente potrebbero sfuggire al rischio di utilizzi strumentali, specialmente a fini di propaganda politico-elettorale, da parte dei referenti politici.

188 Ibidem, p. 34. 189 Ibidem, p. 32. 190 Come ad es., nel caso di un’istituzione teatrale, l’orientamento verso scelte culturali piuttosto

popolari e “di cassetta”, a discapito di progetti e proposte più impegnative sul piano dell’effettivo valore artistico o scientifico (e magari meno conformistiche rispetto agli indirizzi politici prevalenti).

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L’autonomia dell’istituzione è a sua volta «in vario modo limitata e sotto vari profili risulta essere anche più problematica»: è l’ente locale, infatti, a determinare le finalità e gli indirizzi, e di conseguenza «potrebbe pretendere anche di dettare delle linee di politica cul-turale»191, in misura maggiore o minore, con modalità più o meno esplicite, dal momento che approva «i bilanci e il piano-programma comprendente un contratto di servizio»192. Ne consegue che, per usare ancora le parole di Luther, l’autonomia gestionale «è in vario modo limitata e sotto vari profili anche problematica. (...) Anche l’autonomia organizzativa è limi-tata»193, tant’è che in assenza di prescrizioni vincolanti in merito alle modalità di composi-zione e nomina, la prassi applicativa ha inventato anche istituzioni con organi designati da soggetti esterni.

Sull’associazione, che si caratterizza in quanto universitas personarum, l’Autore esprime qualche riserva in merito al fatto che «statutariamente prevale l’organo assembleare e quindi il principio democratico del voto pro capite», rilevando infine che la normativa «sembra rife-rirsi alle associazioni riconosciute, piuttosto che a quelle non riconosciute»194. A ciò si po-trebbe aggiungere, anche in questo caso sul piano esperienziale, che quasi mai l’assemblea è in grado di esercitare reali poteri di indirizzo e controllo, che finiscono per essere demanda-ti all’organo esecutivo, quando non al presidente stesso195.

Per quanto riguarda la fondazione, operante invece quale universitas bonorum, lo stu-dio ne sottolinea le garanzie di «alta sicurezza e credibilità»: irrevocabilità e limitata modifi-cabilità dell’atto costitutivo, vincolo di destinazione gravante sui beni, e soprattutto auto-nomia statutaria molto ampia; sono rilevanti a tal fine anche «la sua indifferenza alle vicen-de personali dei soggetti fondatori», e quindi le «maggiori opportunità di prevenire conflitti tra soci fondatori e organi direttivi», tutte ragioni che influiscono in modo rilevante sulla preferenza manifestata da Luther nei confronti di questo strumento giuridico, rispetto agli altri proposti196.

Non è irrilevante ricordare che, proprio per quanto attiene alle modalità di gestione condivisa dei servizi culturali, lo stesso legislatore aveva posto in rilievo197 la particolare atti-tudine delle fondazioni (e con esse delle associazioni), sul presupposto che «per la loro di-sciplina statutaria, garantiscono partecipazione, imparzialità e trasparenza».

Dobbiamo però considerare con altrettanta attenzione il fatto che, nella prassi cor-rente delle fondazioni culturali costituite da enti locali, si riscontra una certa reticenza (an-che per oggettive ragioni di finanza pubblica) a immobilizzare i capitali che sarebbero ne-

191 Ibidem, p. 30. 192 Non va dimenticato che l’ente ha il potere di esercitare la vigilanza sugli atti e la verifica dei

risultati della gestione (art. 114 c. 6 TUEL). 193 Ibidem, p. 30: in base all’art. 114 TUEL, la struttura dell’istituzione esige la presenza di un

consiglio di amministrazione, di un presidente e di un direttore «al quale compete la responsabilità gestionale» (c. 3), ma non di un collegio di revisori (c. 7).

194 J. LUTHER, La valorizzazione, cit., p. 34, osservazione che a quel momento faceva ancora riferimento all’art. 113-bis del TUEL, ma che potrebbe ritenersi tuttora valida alla luce della ripristinata libertà delle forme organizzative; ciò può evidentemente rilevare sul piano dei possibili vincoli e condizionamenti da parte dell’autorità di controllo.

195 Trattandosi di un’associazione di enti pubblici, sovente il Presidente dell’associazione altri non è che un sindaco, un assessore o un altro esponente politico, che si ritrova così ad agire quasi uti dominus in un contesto sostanzialmente libero da quelle garanzie pubblicistiche che nell’ente pubblico sono normalmente rappresentate dalle norme in materia di contabilità pubblica e di esercizio dei controlli di legittimità e di merito, da parte degli organi a ciò preposti.

196 Si veda anche E. BRUTI LIBERATI, Il problema dell´autonomia delle fondazioni culturali nel quadro delle nuove forme di collaborazione tra pubblico e privato, in G. IUDICA , op.cit., pp. 52-73.

197 Nella precedente versione del c. 1 h) dell’art. 113 del TUEL: in merito si rimanda alle consi-derazioni di G. FRANCHI SCARSELLI, La gestione dei servizi culturali, cit., p. 4.

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cessari in misura tale da garantire la disponibilità certa e costante di risorse adeguate allo scopo198, preferendo piuttosto conferire immobili storici, spesso da restaurare o che co-munque necessitano di ingenti risorse e certamente non ne garantiscono199.

È bene sottolineare, infine, che l’autonomia finanziaria della fondazione dovrebbe comunque implicare la «capacità di reperire ed amministrare risorse senza dover sottoporre ad approvazione esterna i relativi strumenti»; questo naturalmente senza pregiudizio nei confronti degli enti preposti alla tutela, e degli interessi di natura pubblicistica correlati all’esercizio della loro «funzione di regolazione e di controllo»200.

Resta ancora da considerare, infine, l’unico istituto trascurato da Luther ma predi-letto dal Ministero, seppure ai soli fini della gestione dei servizi di fruizione nei siti UNE-SCO201; a tal fine si può solo rilevare che, pur essendo teoricamente soggetto alle critiche poc’anzi esposte in merito all’associazione e alla società consortile, il consorzio di enti ne viene in certa misura affrancato, per la ragione che i soggetti che lo costituiscono e ne compongono l’assemblea non sono già privati cittadini o imprenditori, ma enti pubblici che per propria natura non possono che perseguire l’interesse collettivo, anche e soprattutto con riferimento alla garanzia delle libertà e dei diritti dei cittadini.

In quest’ultima prospettiva, allora, può assumere rilevanza decisiva proprio la con-siderazione dell’adeguatezza e certezza – o almeno della ragionevole prevedibilità – delle risorse messe in campo dagli enti fondatori, non solo ai fini della costituzione del capitale, ma soprattutto per la garanzia della continuità e adeguatezza della gestione dei servizi e del-lo stesso funzionamento della struttura. Nel caso delle associazioni e più ancora dei con-sorzi, infatti, questo meccanismo, che come si è visto non è solo di natura economica ma attiene alla garanzia del rispetto dei fini fondativi, può essere assicurato anno per anno dalle quote associative o consortili202, che come tali non devono essere derubricate dagli enti a mere erogazioni discrezionali di sussidi, cosa che a sua volta non sarebbe compatibile con

198 CANUTI, op.cit., p. 16, ricorda che «la sufficiente consistenza del patrimonio», è condizione

per il riconoscimento, «non solo per garantire il raggiungimento dei fini istituzionali della fondazione», ma anche per la concessione agli amministratori del beneficio della limitazione di responsabilità.

199 G. FRANCHI SCARSELLI, Sul disegno, cit., p. 17, rileva condivisibilmente che si tratta si scelte strategiche «ai limiti della legittimità, posto che tra i punti fermi del modello fondazionale sta l’esigenza che i suoi mezzi patrimoniali risultino adeguati alla soddisfazione dello scopo», come è dimostrato dal fatto che «non mancano di vedersi situazioni in cui alla fondazione sono stati invero accollati dei debiti». Cfr. anche il rapporto G. AGNELLI, M. PACINI (a cura di), Per conoscere le fondazioni, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1997, pp. 7 ss., ove si definisce in modo eloquente (e si documenta empiricamente) la «gracilità patrimoniale» delle fondazioni italiane.

200 Secondo l’analisi di CANUTI, op.cit., pp. 10 ss., che fa riferimento in senso negativo al controllo degli enti su bilanci, conti economici ed impegni di spesa, mentre fa salvo il «potere di intervenire qualora l’operato del gestore non sia rispondente al perseguimento dell’interesse pubblico»; cfr. anche A. MERLO, Fonti di finanziamento e meccanismi di controllo da parte dei soggetti finanziatori delle fondazioni culturali, in G. IUDICA, op.cit., pp. 85-86, secondo la quale di tratta di «meccanismi di influenza prevalentemente di natura formale».

201 Appare sin d’ora significativo ed emblematico, anche ai fini delle osservazioni che si faranno in conclusione, la scarsa attenzione dimostrata dagli studi e progetti del Ministero, ed ancor più nelle prassi operative, rispetto a questioni come l’autonomia culturale e le garanzie di partecipazione della cit-tadinanza, come pure rispetto agli altri valori ideali che dovrebbero essere tenuti presenti (quanto e più della redditività economica) ai fini della gestione di un sito UNESCO. L’unico cenno a tale proposito si può rinvenire nel documento preliminare AA. VV., Il modello del piano di gestione, p. 8, al paragrafo “Il me-todo della democrazia deliberativa”. Cfr. N. PODESTÀ, A. CHIARI, Esperimenti di democrazia deliberativa. In-

formazioni, preferenze e stili di conduzione in tre giurie di cittadini, Working paper n. 136, Alessandria, Polis, 2009. 202 Purché nell’atto costitutivo le quote consortili, che vengono fissate proporzionalmente ai

sensi dell’art. 31 c. 4 del TUEL, siano quantificate in modo congruo, e poi adeguate tempestivamente anno per anno secondo le necessità e la congiuntura economica.

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la natura pluriennale e quindi tendenzialmente stabile (salvo esplicito recesso) del patto as-sociativo o consortile.

In questo senso appare più vincolante, e dunque dotato di maggiori garanzie, l’apporto sotto forma di quota consortile, proprio in quanto statutariamente correlato all’espletamento di un servizio di cui l’ente si avvale a diretto beneficio dei suoi cittadini, mentre lo è meno quello di una normale quota associativa – percepita nella prassi come di-screzionale e quindi ben più facilmente revocabile – e quasi per nulla quello di una semplice erogazione periodica di sovvenzioni o contributi a una fondazione o ad altro soggetto che in mancanza di queste “graziose concessioni” dell’ente politico vedrebbero pregiudicata la stessa possibilità di sopravvivenza. b. Competenza e indipendenza degli amministratori

Se dunque è proprio il criterio dell’autonomia lato sensu “politica” l’elemento che, in ultima analisi, appare determinante ai fini della scelta di una tra le possibili forme giuridiche del soggetto gestore203 (e non piuttosto le altre ragioni tecniche o economiche, che appaiono in ultima analisi pressoché irrilevanti), diventa significativo verificare se ed in quale misura i meccanismi procedurali di designazione o nomina riescono a predeterminare i requisiti di indipendenza e autonomia (non solo culturale) delle persone chiamate a ricoprire i diversi incarichi di responsabilità – presidente, componente del consiglio di amministrazione, direttore, revisore dei conti, e così via – del nuovo soggetto. Questo passaggio costituisce uno dei presupposti più rilevanti ai fini della successiva adozione e verifica – sulla base di predeterminati «meccanismi di raccordo tra l’amministrazione e i suoi rappresentanti» – degli atti di indirizzo e controllo, i quali devono essere tali da «consentire agli amministratori nominati (o designati) dall’ente pubblico di contribuire alle decisioni gestionali all’interno del quadro di riferimento programmatico» 204, che a sua volta deve essere coerente con gli indirizzi politici dell’ente pubblico.

Nell’analizzare i diversi fattori critici che possono influire sulla buona gestione dell’interesse pubblico da parte di un’istituzione culturale (tanto che faccia parte della pub-blica amministrazione, quanto che da essa sia istituita con la forma e natura più disparata, di diritto pubblico o privato), è quindi particolarmente significativa la qualità delle persone fi-siche che ne assumono la legale rappresentanza e dunque ne esprimono la volontà, grazie all’immedesimazione organica che li rende amministratori della persona giuridica de qua.

Proprio perché si tratta di enti investiti della cura e gestione di politiche o strutture culturali, non si può non considerare quali titoli di competenza devono caratterizzare co-storo, e più ancora se e in che misura tale loro qualificazione culturale e tecnica debba rile-vare (insieme a quelle più propriamente politiche ed etiche) nel corso del procedimento fi-nalizzato alla loro individuazione e designazione, affinché sia garantito l’effettivo rispetto del principio di autogoverno205.

203 Si tratta di un aspetto di rilevanza centrale nella misura in cui può condizionare il rispetto

degli indirizzi di politica della cultura dati dall’ente pubblico al soggetto gestore dei servizi culturali, il quale non dovrebbe potersene affrancare, per il solo fatto di essere costituito in forma privatistica; ben altra cosa è invece il rispetto della politica culturale dell’istituzione (secondo la nota distinzione di N. Bobbio), la quale deve potersi esplicare in piena autonomia e indipendenza rispetto agli amministratori (referenti politici) dell’ente stesso, in primo luogo dal punto di vista scientifico.

204 E. BRUTI LIBERATI, Il problema dell’autonomia, cit., p. 73, secondo il quale ciò riduce il rischio che l’ente pubblico «pretenda di ingerirsi pervasivamente nell’assunzione dei singoli atti gestionali».

205 G. ENDRICI, Sull’autonomia delle istituzioni di alta formazione e specializzazione artistica e musicale: la nomina del presidente dall’etero all’autodeterminazione, in Aedon, (1) 2007, sottolinea la perdurante «tendenza al

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Ancor più esplicitamente, ci si chiede se esistono procedure intese a garantire che gli amministratori siano formalmente ed effettivamente individuati sulla base della compro-vata cultura e competenza tecnico-scientifica personale, in ottemperanza a norme giuridi-che (e non solo a prassi) miranti espressamente a tale risultato206.

Il dovere di partecipazione attiva delle persone di cultura alla vita politica e istitu-zionale, secondo Carlo Ghisalberti207, rileva proprio dal fatto che «le istituzioni rappresenta-tive, cioè quelle che sul piano concreto realizzano la democrazia politica, si fondano sull’educazione civile, sull’istruzione pubblica, sul benessere individuale e collettivo, sulla tolleranza e sul rispetto delle opinioni».

La questione appena posta investe, in realtà, quasi tutte le funzioni pubbliche, dal più alto livello degli organi costituzionali o di rilevanza costituzionale fino, appunto, agli en-ti locali e alle diverse forme di istituzioni o società da essi creati per la gestione dei servizi pubblici di loro competenza208: non appare dunque fuori luogo fare un rapido excursus sulla rilevanza che l’ordinamento attribuisce alla competenza personale, ai fini della nomina o elezione ai diversi gradi di pubblica dignità e responsabilità.

Nella seconda parte della Carta, dedicata all’Ordinamento della Repubblica, si evi-denziano facilmente alcuni casi di formale considerazione non solo delle virtù e delle espe-rienze, ma anche della qualificazione culturale ai fini dell’attribuzione di cariche istituzionali di altissimo profilo e responsabilità, a partire dall’art. 59 relativo alla nomina dei senatori a vita che «hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo scientifico, artistico e lettera-rio»209. Altre ben note disposizioni costituzionali individuano puntualmente figure di alta qualificazione culturale come idonee per ricoprire delicati e prestigiosi incarichi nel Consi-glio nazionale dell'economia e del lavoro210, nel Consiglio superiore della magistratura op-pure nella Corte costituzionale 211.

Al di fuori del testo costituzionale è più frequente trovare esempi di funzioni di grande rilevanza istituzionale, non solo di natura tecnico-amministrativa, per le quali sono talora richiesti specifici requisiti culturali, oltre alla particolare autonomia ed indipendenza; ad esempio nell’ambito dei Comitati di Ministri, Comitati interministeriali o gruppi di stu-

rafforzamento del controllo politico, esercitato anche attraverso il potere di nomina e la conseguente ri-duzione del potere di autoamministrazione»; cfr. R. CHIARELLI, op.cit., p. 413.

206 Ciò può essere determinato, per esempio, dal fatto che chi prende le decisioni in virtù di un’investitura politica sia tenuto a recepire una proposta formale, oppure abbia l’opportunità (o forse meglio il dovere) di ascoltare il parere di chi conosce a fondo la questione, ed in che misura possa disat-tendere o ignorare queste proposte o valutazioni.

207 GHISALBERTI, Storia costituzionale d’Italia 1948-1994, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 431. 208 Mi sia consentito rimandare a M. CARCIONE, Amministrazione e competenza: è necessario conoscere

per deliberare?, in QSC, (49) 2011, pp. 81-95; le modalità di nomina dei rappresentanti e amministratori di un Ente risultano essenziali ai fini del concreto esercizio del potere politico, attraverso il controllo e il reale indirizzo delle istituzioni stesse da parte della pubblica amministrazione, che deve essere inteso al migliore perseguimento dell’interesse pubblico e non solo di quello di una parte, non foss’altro che per l’orientamento (più o meno legittimo e lecito) del consenso.

209 Cfr. R. BIFULCO, A. CELOTTO. M. OLIVETTI, Commentario alla Costituzione, I, pp. 1171-1172; si veda anche M. CARCIONE, Amministrazione e competenza, cit., pp. 84-85.

210 Composto, nei modi stabiliti dalla legge, anche di 12 “esperti” (art. 99 commi 1-2), che devono essere scelti tra i più qualificati esponenti della cultura economica, sociale e giuridica; l’art. 17 della L. n 383 del 2000 prevede che nell’ambito dei 122 componenti essi siano nominati dal Presidente della Repubblica (in numero di 8) e dal Governo (gli altri 4).

211 Scelti tra i professori ordinari di università in materie giuridiche (ex art. 104 c. 4, art. 135 c. 2); allo stesso modo «possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche» (art. 106 c. 3).

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dio interdicasteriali212, oppure con riferimento alla designazione dei componenti delle c.d. Autorità indipendenti213.

Per quanto concerne gli apparati ministeriali, nel mare magnum delle norme in mate-ria di istituzione e funzionamento dei vari dicasteri dell’ambito culturale (prima solo la Pubblica Istruzione, poi anche i Beni Culturali e l’Università e Ricerca scientifica), eviden-temente non è mai stata richiesta in modo formale una specifica competenza scientifica ai Ministri o ai Sottosegretari della Pubblica Istruzione o per i Beni e le Attività culturali214, che invece è imposta per la designazione del Segretario generale del Ministero (nominato ai sensi dell'art. 19, c. 3 e 6, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), il quale deve essere in possesso di «specifiche qualità professionali»215.

Infine nell’ambito regionale ed in genere delle autonomie locali, non sono mai stati richiesti (fatte salve eventuali norme statutarie) formali requisiti di competenza per gli as-sessori regionali o per gli omologhi responsabili politici delle altrettanto rilevanti politiche culturali di città e province; specifiche competenze sono invece richieste, singolarmente, da molti Statuti e Regolamenti a chi si propone di ricoprire l’incarico di Difensore civico216, peral-tro oggetto di una recente riforma in senso fortemente limitativo217.

Tornando quindi alla nomina dei rappresentanti di Comuni e Province in seno a en-ti, istituzioni e società, l’unica norma in materia è l’art. 42 coma 2 lett. m) del TUEL, che dovrebbe essere integrata e rafforzata dalle correlate disposizioni statutarie, con la richiesta della predefinizione di ben codificati “indirizzi” da parte dell’organo consiliare, cui il Sinda-

212 Secondo l’art. 5 c. 2, lettere h) e i) della l. n. 400/1988, possono eventualmente farne parte

anche degli esperti non appartenenti alla P.A 213 Ibidem, pp. 86-87. Il “Garante per la protezione dei dati personali” è regolato dall’art. 30 della

l. 31 dicembre 1996, n. 675 (che richiede “esperti di riconosciuta competenza delle materie del diritto o dell’informatica, garantendo la presenza di entrambe le qualificazioni”); il “Garante della Concorrenza e del Mercato”, è stato istituito dalla l. 10 ottobre 1990, n. 287.

214 Ibidem, pp. 87-88; nell’ambito della struttura organizzativa del Ministero per i Beni e le attività culturali opera, quale più alta istanza rappresentativa del mondo della cultura, il Consiglio Nazionale dei Beni culturali, che però esprime solo pareri (solo in due casi in modo obbligatorio) e può avanzare proposte su questioni di carattere generale di particolare rilievo; analogamente il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, è costituito per meno della metà dei suoi componenti da «esponenti significativi del mondo della cultura», che devono esprimere «il più ampio pluralismo culturale», sempre al fine di esprimere pareri obbligatori (ma non vincolanti) sulle materie che il Ministro intenda sottoporgli. Anche altri Ministeri (in particolare Sanità, Lavoro e Lavori pubblici), includono nel loro organigramma un Consiglio superiore, sempre però con poteri consultivi e propositivi, talvolta obbligatori ma quasi mai vincolanti.

215 Il comma 6 indica a tal fine «persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati o aziende pubbliche e private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro, o provenienti dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato».

216 Ad esempio la Legge regionale del Piemonte n. 50 del 9.12.1981 non prevede requisiti di competenza, mentre in Campania «deve essere scelto fra persone munite di peculiare competenza giuri-dico-amministrativa» (L.R. n. 23 dell’11.8.1978). L’art. 4 del Regolamento del Comune di Roma stabilisce che può essere nominato chi «per preparazione e per esperienze acquisite nella tutela dei diritti, offra la massima garanzia di probità, indipendenza, obiettività, competenza e capacità di esercitare efficacemente le proprie funzioni», non molto diversa è la formula adottata dagli Statuti di Palermo (art. 27: riconosciuto prestigio morale e professionale e provata esperienza giuridico-amministrativa) e di Milano; invece l’art. 76 dello Statuto della Provincia di Bologna prevede solo che il Difensore sia eletto «tra i cittadini di pro-vata esperienza professionale nel campo giuridico-amministrativo».

217 Cfr. l’art. 2 della l. 23 dicembre 2009, n. 191, che al c. 183 modifica l’art. 11 del TUEL.

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co o Presidente della Provincia dovrebbero dare attuazione sulla base di una valutazione certamente anche di carattere fiduciario, ma che non può caratterizzarsi per una discrezio-nalità assoluta.

Si può infatti esprimere qualche riserva sul fatto che sia sufficiente la presentazione di un semplice curriculum vitae, per garantire nomine trasparenti e meritocratiche; d’altronde non è semplice stabilire regole statutarie, indirizzi politici e modalità amministrative tali da affrancare con certezza le nomine dagli storici rischi di influenza partitica o di condiziona-mento da parte di organizzazioni che perseguono finalità confliggenti o addirittura contra-rie rispetto al pubblico interesse.

c. Promozione, rappresentanza e garanzia dei diritti collettivi e degli interessi diffusi in campo culturale

Conciliare sussidiarietà, partecipazione e garanzia dei diritti nel nome della solidarie-tà è possibile, nel campo culturale come in quello socio-assistenziale, di protezione civile o ambientale, grazie all’associazionismo e al volontariato: la “Legge quadro sul volontariato” (l. 11 agosto 1991, n. 266) e le correlate norme regionali di recepimento e attuazione pun-tuale, che si ispirano tutte ai principi costituzionali di cui agli artt. 2 e 4 – in materia di for-mazioni sociali, dovere di solidarietà e concorso al progresso materiale e spirituale – si deb-bono infatti applicare anche allo specifico ambito di cui ci occupiamo218.

Si può infatti considerare come acquisito il dato che la gestione ordinaria, a partire dal presidio e dalla vigilanza, di un centro culturale o di un sito monumentale ben difficil-mente può essere demandata solo a personale dipendente strutturato; per questo in molte realtà si sono però adottate forme “leggere” di coinvolgimento delle diverse realtà associa-tive più o meno strutturate, che in molti casi hanno assunto le dizioni e le modalità istitu-zionali degli Amici del Museo o delle Pro Loco219. Tuttavia questo apporto è stato per lo più inteso in senso poco qualificante, limitandosi per lo più all’affidamento (talora in modo in-formale o improprio) delle mansioni di sorveglianza o di guida turistica220.

218 Nella prassi amministrativa degli enti locali e regionali, questa impostazione appare

influenzata (in senso riduttivo) dalla considerazione delle associazioni di promozione culturale ai soli fini tradizionali dell’erogazione di sussidi, contributi o altre forme di sovvenzione, e quindi nell’ambito di procedure, uffici (e quindi di assessorati e assessori) distinti e diversi da quelli competenti in materia di sostegno alle organizzazioni “classiche” di volontariato. Cfr. G. CLEMENTE DI SAN LUCA, Volontariato e non-profit sector nel quadro del sistema giuridico-istituzionale italiano con specifico riguardo al settore culturale, in Regione e governo locale, (6) 1995, pp. 1003 ss.

219 Le associazioni pro-loco sono citate, in connessione con la valorizzazione del «ruolo delle comunità locali, nelle loro diverse ed autonome espressioni culturali ed associative» all’art. 1 c. 2 lett. g) della l. n. 135/2001; le loro attività sono regolate a livello regionale, ad esempio in Piemonte con la l.r. 7 aprile 2000, n. 36 “Riconoscimento e valorizzazione delle associazioni pro loco”, che all’art. 2 attribuisce loro i seguenti compiti: “a) svolgere una fattiva opera per organizzare turisticamente le rispettive località, proponendo alle amministrazioni competenti il miglioramento ambientale ed estetico della zona e tutte le iniziative atte a tutelare le bellezze naturali, nonché a valorizzare il patrimonio culturale, storico-monumentale ed ambientale; b) promuovere ed organizzare, anche in collaborazione con gli enti pubblici e/o privati, iniziative quali visite, escursioni, ricerche, convegni, spettacoli, festeggiamenti, manifestazioni sportive ed enogastronomiche, nonché azioni di solidarietà sociale, recupero ambientale, restauro e gestione di monumenti, che servano ad attrarre i turisti ed a rendere più gradito il soggiorno degli stessi e dei residenti; c) sviluppare l’ospitalità e l’educazione turistica d'ambiente; d) stimolare il miglioramento dei servizi di accoglienza (...).

220 Ad esempio per quanto concerne il rispetto della normativa statale in materia di esercizio delle professioni turistiche (art. 7 della l. n. 135/2001) e delle relative norme regionali di recepimento e attuazione.

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In primo luogo, l’art. 112 c. 9 del Codice, nel riaffermare quasi testualmente quanto era già stato definito nelle più recenti leggi nazionali in materia221, sul presupposto che agli «accordi finalizzati a coordinare, armonizzare ed integrare le attività di valorizzazione dei beni del patrimonio culturale» possono partecipare anche i soggetti privati, detta una norma di principio secondo la quale gli Enti pubblici possono «stipulare apposite convenzioni con le associazioni culturali o di volontariato che svolgono attività di promozione e diffusione della conoscenza dei beni culturali»222.

Si deve purtroppo rilevare che il legislatore del Codice, nel modificare una e una so-la parola rispetto al precedente TUBC223 (dando per scontato che sia stato fatto a ragion veduta), ha probabilmente inteso circoscrivere tale possibilità di formale convenzionamen-to alle sole associazioni che si occupano di promozione della cultura, non attribuendo più al-cun rilievo alla distinta funzione di salvaguardia: termine quest’ultimo che, secondo la defini-zione internazionale224, comporta la capacità di predisposizione, sin dal tempo di pace, delle «misure appropriate per garantire la salvaguardia dei beni culturali situati sul loro proprio territorio» nelle situazioni di rischio, prendendo tutte le misure che si ritengono appropria-te225.

L’Ente gestore di un bene culturale226 può dunque avvalersi della collaborazione del volontariato culturale qualificato, almeno per l'attivazione e gestione dei servizi di acco-glienza e promozione, ed anche per ulteriori azioni di valorizzazione finalizzata alla fruizio-ne; solo i volontari, infatti, possono garantire all’ente gestore del bene, a costo praticamente nullo, quell’apporto tecnico qualificato di cui ben pochi musei, anche di medie dimensioni,

221 Particolarmente attinente allo specifico settore storico-militare di cui ci stiamo occupando

(ma del tutto superflua, nel merito, rispetto al quadro normativo generale) è la norma inserita nella l. 7 marzo 2001 n. 78, relativa ai luoghi della Prima guerra mondiale, per la quale «lo Stato e le regioni pos-sono avvalersi di associazioni di volontariato, combattentistiche o d’arma».

222 Sulle convenzioni con il volontariato come strumento (di gestione di funzioni di particolare valore sociale, in questo senso di diritto pubblico) per l’applicazione da parte degli enti del principio di sussidiarietà, cfr. F. DALLA MURA, op.cit., pp. 43-44.

223 L’art. 105 “Accordi per la promozione della fruizione” del TUBC, a sua volta riprendendo ed integrando l’art. 8 della l. n. 352/1997 – entrambi concepiti avendo presente i beni culturali di diretta gestione dello Stato e non quelli dei Comuni o delle Diocesi – prevedeva già la possibilità di «stipulare apposite convenzioni con le associazioni di volontariato che svolgono attività per la salvaguardia e la dif-fusione della conoscenza dei beni culturali», specificando che il fine del legislatore è «promuovere e svi-luppare la fruizione dei beni culturali». Il testo sembrava offrire tale fondamentale possibilità a tutte le As-sociazioni attive nei settori della “salvaguardia” e della “diffusione della conoscenza” tipici delle associa-zioni di promozione culturale, mentre il riferimento alle materie della tutela e della valorizzazione era la-sciato ambiguamente alla formula preliminare.

224 Art. 3 della Convenzione dell’Aja del 1954, per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, nella prassi internazionale estesa (per analogia) alle situazioni di calamità naturale o antropica elencate all’art 11 c. 4 della Convenzione di Parigi del 1972.

225 L’art. 5 del II Protocollo del 1999 ha poi, opportunamente, specificato che «le misure preventive prese sin dal tempo di pace per la salvaguardia dei beni culturali (…) comprendono, se ritenuto opportuno, la preparazione di inventari, la pianificazione delle misure d’urgenza per assicurare la protezione dei beni culturali mobili contro il rischio d’incendio o di crollo dell’edificio, la preparazione o la messa in situ di protezione adeguata e la designazione dell’autorità competente responsabile della salvaguardia dei beni culturali».

226 Anche in questo caso il Codice è cogente solo per gli istituti e luoghi culturali gestiti dallo Stato; tuttavia, finché le regioni non provvedono a legiferare in materia (la quale attiene alla valorizzazione e promozione, ex art. 117 c. 3 Cost.), quella in esame rimane la sola disposizione (anche se di principio) oggi vigente.

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possono disporre a un livello adeguato227. Ai fini dell’organizzazione di tale apporto, in termini di risorse umane e strumentali

(che dovrebbero essere sempre qualificate professionalmente, benché gratuite), risultano altresì determinanti la formazione e l’aggiornamento dei singoli volontari: il che costituisce anche una delle rare forme di promozione sistematica e diffusa della cultura, in ambiti spe-cialistici – ad es. la sicurezza, l’educazione civica, sanitaria e ambientale, la protezione civile, ecc. – nei quali lo Stato è storicamente carente, per non dire assente.

Alla luce del quadro normativo già ampiamente esaminato supra, il coinvolgimento del volontariato può dunque essere attivato mediante lo strumento amministrativo della convenzione228, che fa legge tra le parti laddove la normativa nazionale non ha voluto (cosa che avviene di rado) entrare nel dettaglio, e quindi può meglio adattarsi al caso concreto e alla volontà degli interlocutori. Fermo restando, tuttavia, che queste soluzioni operative non possono sfuggire agli inevitabili caratteri di precarietà e durata temporale limitata, legati appunto alla natura stessa dello strumento convenzionale229 e del carattere del tutto volon-taristico della partecipazione dei singoli all’associazione230.

Secondariamente, nell’intento di assicurare l’effettività di tutte le norme positive in materia di diritti culturali231, anche in contrapposizione dialettica con quegli amministratori che trascurano o fraintendono il concetto di interesse pubblico (sul presupposto che l’elezione comporterebbe una “delega in bianco”, anche in materia di scelte culturali), occorre che ne sia garantita la legittima soddisfazione e la piena tutela sul piano amministrativo, e non solo su quello normativo; tutela che normalmente viene posta in essere in primo luogo pro-prio grazie all’azione diretta e indiretta dei poteri pubblici232.

227 F. DALLA MURA, op.cit., p. 41. Si pensi ad esempio al fund raising presso le aziende del territo-

rio o la prevenzione, vigilanza e sicurezza antifurto ed antincendio. In questo senso è stato sicuramente di grande stimolo dapprima la formulazione degli standard museali minimi, espressamente finalizzati (art. 150 del d.lgs. 112/98) a garantire non solo la «fruizione collettiva dei beni» ma anche «la loro sicurezza e la prevenzione dei rischi», indirizzo concretizzatosi nella redazione dell’Ambito 5 del decreto del Mini-stro per i Beni e le Attività culturali del 10 maggio 2001 “Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei” .

228 Oltre al già richiamato art. 112 del Codice, si tenga presente anche quanto a tal fine previsto in senso più generale dall’art. 7 della l. n. 266/1991, che richiede non a caso la sussistenza delle condizioni necessarie a svolgere le attività con la necessaria «continuità»: F. DALLA MURA, op.cit., pp. 42 ss.

229 Ibidem, pp. 53-54, si sottolinea come «se da un lato non può essere esclusa la possibilità che le convenzioni si configurino anche con riferimento ai mezzi (cioè in pratica all’opera dei volontari che l’organizzazione di volontariato metta a disposizione dell’amministrazione), pare evidente che (…) la configurazione delle stesse come obbligazioni di mezzi mal si addice allo strumento utilizzato», dovendosi configurare piuttosto come partecipazione a responsabilità circa il raggiungimento di obiettivi, e quindi del risultato posto dai fini comuni alla convenzione e allo statuto associativo.

230 Ibidem, pp. 49 e 53-54; opportunamente l’Autore ricorda che esiste sempre, per ragioni di pubblico interesse, la possibilità di recesso da parte dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 1487 Cod.Civ., la quale se da un lato «potrebbe far pensare a una situazione di preoccupante instabilità nel rapporto, va invece colta nel suo valore positivo quale opportunità di porre in essere una sorta di co-progettualità permanente», che consente (come sa bene chi ha esperienza operativa in questo ambito) di «plasmare nel tempo i contenuti convenzionali al fine di adeguarli dinamicamente all’evolversi dei bisogni ed alla luce delle esperienze maturate».

231 E. SPAGNA MUSSO, op.cit., pp. 92-93 e 98, sostiene che non ci si deve chiedere quale sia il grado di efficacia (immediatamente precettiva o meramente programmatica) che possiedono, ma solo se sono norme giuridiche.

232 HÄBERLE, Per una dottrina, cit., p. 89, evidenzia che libertà della cultura e pluralismo culturale sono assicurati sul piano dei diritti fondamentali dalla garanzia delle singole libertà culturali, mentre «sul piano della organizzazione dei poteri» sono assicurati attraverso la struttura statale e il pluralismo

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Solamente quando queste funzioni si svolgono in modo corretto ed efficace, infatti, i diritti culturali risultano effettivamente operanti sul piano istituzionale e amministrativo, e non solo enunciati in teoria; il che dovrebbe avvenire pacificamente, come si è visto sinora, grazie a istituti di garanzia come il decentramento, l’autonomia organizzativa delle istituzio-ni culturali, la gratuità di accesso, l’attribuzione di sussidi e contributi finanziari, le agevola-zioni fiscali e, non ultimo, la stessa costituzionalità delle norme233.

In caso contrario, i diritti culturali a vario titolo pregiudicati o comunque messi in discussione possono essere rivendicati234 anche in sede giurisdizionale, in modo da divenire giustiziabili presso le diverse Corti nazionali e internazionali235: il che è già avvenuto con una certa frequenza236, fino ad oggi, dapprima in materia di tutela delle lingue minoritarie, del diritto all’istruzione e all’educazione, oltre che di libertà di informazione e opinione (spe-cialmente in materia di monopolio dei media237), mentre si è verificato raramente nell’ambito stricto sensu culturale238.

È a questo punto che si pone però la questione della rappresentanza degli interessi diffusi239, in particolare nelle sedi giurisdizionali, la quale costituisce da sempre una vexata quaestio, cui occorre fare almeno un breve cenno per dare conto del tentativo della giuri-sprudenza240 di assicurare (anche in riferimento al caso di cui ci stiamo occupando) effetti-

istituzionale, ad esempio degli enti locali o del sistema radiotelevisivo.

233 E. SPAGNA MUSSO, op.cit., pp. 59, 65-66 e 106-107, il quale pone l’accento sul «complesso di istituti idonei ad attuare sul piano dell’organizzazione dei poteri» la tutela dei d.c.; si veda anche M. AINIS, L’intervento, cit., pp. 29 e 146, che sottolineando la necessità di «migliori garanzie» nella valorizzazione delle istanze culturali minoritarie e periferiche, mette in evidenza le sanzioni positive proprie del diritto premiale.

234 Laddove si dovesse verificare (come è purtroppo avvenuto più o meno tragicamente in mol-te realtà, anche europee, ed in particolare nell’Italia del “Ventennio”) una reale limitazione o addirittura una sistematica violazione dei diritti in oggetto, spetterebbe ai cittadini in primo luogo assumere co-scienza, essendo dotati di maturità e capacità critica, del fatto che i loro diritti individuali sono stati lesi; solo per effetto ed in conseguenza di questo processo logico sorgerebbe l’esigenza di rivendicarli e di-fenderli contro ogni condizionamento e oppressione.

235 Secondo F. RIMOLI, op.cit., p. 166 e M. AINIS, L’intervento, cit., pp. 36-37 nell’affrontare il tema della giustiziabilità dei diritti culturali, occorre fare attenzione al rischio sempre presente di valicare la soglia del giudizio di merito nei confronti dell’indirizzo politico e della discrezionalità amministrativa, relativamente alla scelta del modo; F. MERUSI, Articolo 9, cit., p. 440, pone a sua volta in evidenza la difficoltà di intraprendere azioni giudiziarie contro comportamenti negativi della P.A.

236 Di recente, si veda ad esempio Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 13 novembre 2007, ric. 57325/00, D.H. e altri c. Repubblica Ceca, secondo cui viola il diritto all’istruzione (oltre che il divieto di discriminazione) il collocamento di bambini Rom in scuole speciali per ragazzi con problemi di apprendimento; in Italia si vedano ad es., le sentenze C.Cost. n. 57/1976 (ar-te e scienza non devono essere condizionati autoritativamente) e n. 215/1987 (diritto all’istruzione dei disabili), come pure Cass., sez. III del 22 aprile 1963 (che definisce l’opera d’arte).

237 In proposito si citano solo, a mero titolo di esempio, le note sentenze della Consulta n. 59/1960 (sulla televisione come servizio pubblico essenziale) e n. 225/1974 (in materia di pluralismo della comunicazione).

238 Si ricorda anche a questo proposito la già richiamata Sentenza della Consulta n. 118 del 6-9 marzo 1990 in materia di «formazione culturale dei consociati» da parte dello Stato, intesa anche ad «assicurare alla collettività il godimento dei valori culturali»; il concetto è stato ripreso e ribadito anche da Cons.Stato n. 2009 del 6 maggio 2008. Cfr. M. AINIS, L’intervento, cit., p. 44.

239 R. CHIARELLI, op.cit., p. 398, li definisce come fase iniziale di un «percorso di cristallizzazione attorno a una autorità» che da luogo a un «assetto organizzativo ancora fluido», che fa riferimento (richiamando il pensiero di Crisafulli) a “interessi in comune” tra più individui che possono quindi essere astrattamente considerati in modo unitario.

240 Si rimanda all’ampia dottrina in materia, in particolare L. LANFRANCHI (a cura di), La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, Torino, Giappichelli, 2003.

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vità ad una categoria di diritti ed interessi che solo per certi aspetti e a precise condizioni possono essere definiti individuali.

Ciò avviene nella misura in cui essi rispondono a disposizioni costituzionali e di legge ordinaria in materia di servizi pubblici che “possono essere interpretate come norme che impegnano i soggetti pubblici a garantire i servizi, e, dunque, come norme preordinate ad attribuire diritti” che appartengono in primo luogo all’individuo (cittadino o meno)241; in tutti gli altri casi, tuttavia, essi assumono comunque le caratteristiche tipiche dei diritti col-lettivi o per lo meno degli interessi diffusi242.

Con riferimento agli interessi diffusi di natura specifica, la legittimazione di enti esponenziali ad agire a tutela dell’ambiente e del paesaggio243 è regolata dall’art. 13 della l. n. 349/1986 e s.m.i., mentre i diritti collettivi dei consumatori sono tutelati dagli artt. 2 e 110 bis del Codice del Consumo244; disposizioni analoghe riguardano materie altrettanto rilevan-ti, come la tutela sindacale.

Un’innovazione assai significativa, ai fini della tipologia di diritti e interessi di cui trattiamo, è costituita dall’estensione della legittimazione a ricorrere in sede giurisdizionale per la tutela di interessi collettivi, in modo generalizzato, a tutti gli enti portatori di interessi diffusi, operata dalla l. n. 241/1990245, che consente la legittimazione alla partecipazione ai procedimenti amministrativi che coinvolgano detti interessi246, senza fare alcun riferimento alla specifica materia in questione, dunque evidentemente sul solo presupposto dell’esistenza di un più generale e fondamentale diritto culturale alla conoscenza247.

In connessione e per conseguenza, l’art. 8, c. 3, del TUEL assegna agli Statuti delle Province e dei Comuni la competenza a garantire la «partecipazione popolare», prevedendo specifiche procedure per la presentazione di istanze da parte di cittadini associati, proprio «per la migliore tutela degli interessi collettivi».

Ma l’aspetto di più immediato e diretto rilievo ai fini della presente trattazione è ov-viamente l’estensione di tutto quanto sopra previsto, in particolare in materia di tutela am-bientale e paesaggistica, anche alle fattispecie inerenti la protezione e salvaguardia diretta dei beni culturali e, per quanto possibile, dei diritti culturali connessi alla conservazione e fruizione del patrimonio materiale.

241 CASETTA, op.cit., p. 614, secondo il quale in capo ai soggetti destinatari esiste «il diritto ad ot-

tenere la prestazione, in quanto ne abbiano i requisiti»: fattispecie che appare applicabile non solo allo studente, ma anche all’utente-visitatore di un monumento, di una biblioteca, di un museo, di uno spetta-colo teatrale, di un centro di documentazione o di un servizio di accoglienza turistica. Su quest’ultima specifica tipologia si veda G. BERTOCCHI, S. FOÀ, op.cit., pp. 63 ss.

242 Come noto, sono definiti collettivi quei diritti o interessi legittimi che fanno capo ad un soggetto esponenziale di un gruppo non occasionale (ad esempio un’associazione o un ordine professionale), mentre gli interessi diffusi fanno capo ad una formazione sociale non organizzata e non individuabile autonomamente.

243 G. BARATTI, Interessi individuali e diffusi nella tutela e valorizzazione del paesaggio, in Istituzioni del fe-deralismo. Quaderni, (1) 2010, pp. 101-114.

244 Dei quali i consumatori stessi risultano portatori, anche in forma «collettiva e associativa»: cfr. R. GRISAFI, Interessi collettivi e interessi diffusi. Danno collettivo e tutela del consumatore, in La Responsabilità Civile, (11) 2008.

245 Per l’art. 9, «Qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento».

246 Non è ancora del tutto certo se la partecipazione procedimentale si debba ritenere ontologicamente distinta dalla legittimazione processuale, distinguendo tra carattere “collaborativo” e “difensivo” della partecipazione; in quest’ultimo caso la possibilità del parallelismo ai più non parrebbe ammissibile.

247 Si veda supra, par. 2.3.c)

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Possono costituire esempi probanti a tal fine un’azione contro l’Agenzia del Dema-nio (eventualmente anche per danno erariale) per contestare il mancato esercizio della fun-zione di conservazione e restauro di un sito monumentale, o la reazione della cittadinanza alla chiusura al pubblico (non motivata da gravi ragioni, come quelle di sicurezza o agibilità) di un’area archeologica, una biblioteca o un museo; oppure i non rari casi di opposizione della cittadinanza nei confronti di deliberazioni delle amministrazioni che comportano la “riqualificazione” urbanistica (magari come insediamento civile o industriale) di un sito considerato dalla comunità di particolare valore e rilevanza paesaggistica, oppure la destina-zione impropria o la demolizione di un monumento o di un edificio storico.

In proposito la giurisprudenza amministrativa248 ha più volte affermato la legittima-zione di un’associazione (in particolare di Italia Nostra) ad agire per la tutela di interessi «ambientali in senso lato, comprendenti cioè la conservazione e valorizzazione dei beni cultura-li»249; questo sul presupposto ed a condizione che l’associazione possa comprovare uno specifico impegno a perseguire statutariamente tale obiettivo250.

A tal proposito, una recente pronuncia della magistratura amministrativa, relativa proprio al nostro caso di studio, ha statuito che «le finalità statutarie delle associazioni im-pegnate nella salvaguardia dei beni culturali configurano la titolarità di un interesse morale alla decisione favorevole che trascende gli stessi effetti pratici della pronuncia giurisdiziona-le»251.

Se dunque non si pone un problema di rappresentanza allorché si attivano a tutela dei diritti culturali di una specifica comunità le più accreditate organizzazioni o associazioni di rilevanza nazionale (come ad es. Italia Nostra, Legambiente o il FAI, attraverso le rispet-tive sezioni locali), oppure la Chiesa e le altre confessioni religiose252, ben diversa è la situa-zione allorché si tratti di soggetti esclusivamente locali253; in tal caso occorrerebbe forse considerare l’opportunità di imporre, oltre allo specifico vincolo statutario, anche una mag-gioranza particolarmente qualificata in sede di assemblea, unitamente a opportune garanzie circa la rappresentatività dell’associazione stessa rispetto all’opinione pubblica, almeno cit-tadina, in merito al tema dibattuto254.

248 È appena il caso di ricordare l’attribuzione della giurisdizione esclusiva a tutela dei diritti

soggettivi, in materia di servizi pubblici, al giudice amministrativo (ex artt. da 33 a 35 del d.lgs. n. 80/1998), sulla quale è intervenuta, per ridurne l’ambito, la Corte Cost. n. 204/2004: cfr. R. GARO-

FOLI, La nuova giurisdizione in tema di servizi pubblici dopo Corte costituzionale 6 luglio 2004 n. 204, in Lexita-lia.it, (7-8) 2004.

249 Si veda ad es. TAR Emilia Romagna (Parma), Sentenza n. 304 del 3 giugno 2008. 250 Contra, nel senso della non legittimazione di un’associazione per la salvaguardia del

patrimonio storico e monumentale di Parma (Monumenta), si veda la sentenza del Consiglio di Stato (Sezione IV), n. 3507/2008.

251 TAR Piemonte, Sentenza n. 3272 del 5 novembre 2009. 252 Ritiene G. VOLPE, op.cit., p. 152-159, che la Chiesa cattolica possa legittimamente

rappresentare i diritti collettivi e gli interessi diffusi a tutela dei beni culturali religiosi, in quanto è riconosciuta in quanto loro soggetto «esponenziale».

253 Ancora più complesso sarebbe, in merito a una questione oggetto di valutazioni controverse, l’eventualità di opinioni divergenti o totalmente antitetiche tra associazioni di pari rappresentatività loca-le: nel caso di studio, ad esempio, avrebbe potuto porsi l’eventualità di un intervento a favore della de-molizione del ponte storico della Cittadella di Alessandria non solo per le affermate ragioni di sicurezza idraulica della città, ma anche per promuovere l’architettura contemporanea con la realizzazione di un nuovo ponte monumentale progettato da un celeberrimo architetto.

254 Può essere utile a tal fine considerare le ulteriori indicazioni fornite da R. CHIARELLI, op.cit., p. 403, secondo il quale la funzionalità ed effettività nell’esercizio dei diritti attribuiti richiede l’individuazione di un «necessario riferimento», che implica la tutela di interessi «identicamente pertinenti a una pluralità di soggetti».

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4.8. L’integrazione dei servizi: reti, itinerari, sistemi L’analisi delle problematiche relative alla definizione dei caratteri e della nozione stessa di sistema, inteso sia dal punto di vista organizzativo (declinabile nelle ben note categorie che fanno riferimento all’ambiente, alla struttura, alla funzione e al territorio) che da quello più propriamente giuridico-istituzionale, richiederebbe spazi di approfondimento e competenze specifiche che non appartengono a questa ricerca; risulta quindi inevitabile, dovendo fare solo un breve cenno al tema, ricorrere a chi ha già operato una valida sintesi, rimandando per il resto alla vasta dottrina in materia255. In questa prospettiva, si propone quindi di accettare come valida la definizione256 data al sistema, quale ordinamento giuridico complesso, stabile e particolare (in quanto mira al soddisfacimento di specifici interessi), che persegue, mediante assunzione di regole e tramite un apparato organizzativo funzionale alla disciplina di rapporti tra i soggetti partecipanti, il conseguimento di fini comuni. Nello specifico ambito culturale e turistico di cui ci stiamo occupando257, alla no-zione di sistema si accosta quasi sempre quella di rete, non di rado utilizzata sostanzialmente come sinonimo; senza entrare nel merito del dibattito – per le stesse ragioni di sintesi – si propone in questa sede la seguente distinzione: - la rete, estendendo in modo figurato il significato letterale del termine, è una struttura

paritetica in cui tutti i “nodi” sono uguali; la sua funzione è da un lato di creare rappor-ti di collaborazione più o meno stretti tra i poli che vi aderiscono, dall’altro di “cattura-re” con maggiore facilità i destinatari (in questo caso i potenziali utenti dei servizi of-ferti);

- il sistema conserva le caratteristiche sopra esposte, cui però aggiunge la possibilità di disporre di uno o più “poli” aventi funzione di coordinamento e persino di direzio-ne258; ciò comporta dunque la facoltà (o, meglio ancora, la necessità) di mettere in co-mune una serie di attività specialistiche, che possono andare dalla mera progettualità, fino alla gestione in comune dei servizi amministrativi e tecnici più complessi, qualifi-cati e costosi, il che può avvenire ponendo in essere una vera e propria «impostazione

255 E. FERRARI (a cura di), I servizi a rete in Europa, Milano, E.Cortina, 2000; P. SEDDIO, Dalle reti

interistituzionali alla costruzione di un sistema di governance pubblica territoriale: un primo passo verso forme di distret-tualizzazione delle risorse culturali in Italia, in B. SIBILIO PARRI, op.cit., pp. 113-130; A.M. ARCARI, Il coordina-mento e il controllo nelle organizzazioni a rete, Milano, EGEA, 1996; in ambito culturale si veda anche M. QUAGLIUOLO (a cura di), La gestione del Patrimonio Culturale: Sistemi di beni culturali e ambientali, Città di Ca-stello, DRI, 1998.

256 Cfr. P. CARETTI, U. DE SIERVO, op.cit., p. 11 257 A parere di G. BERTOCCHI, S. FOÀ, op.cit., pp. 42-43, per evitare la duplicazione di servizi e le

carenze, risulta necessaria la «complementarietà tra il turismo e gli altri settori del terziario», dal momento che «il turismo è certamente un fenomeno complesso, ed è pertanto necessario un intervento pubblico per assicurare un necessario e coordinato coinvolgimento sinergico intersettoriale».

258 Non appare però indispensabile che i diversi poli del sistema facciano capo a uno stesso ente o soggetto proprietario (ad es. le istituzioni culturali civiche di una stessa città). Secondo G. GOLINELLI, op.cit., p. 2, che pure confonde a sua volta in modo improprio i termini sistema e rete, per realizzare la struttura di collaborazione «vi è l’imprescindibile necessità che esista qualcuno che abbia la visione, la capacità e l’imprenditorialità», in una parola il «progetto», il che può verificarsi anche con riferimento a soggetti di natura e titolarità giuridica diversa.

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di governo e razionali ed efficienti strutture, progettazioni e disegni organizzativi», cui occorre aggiungere un’adeguata base giuridica, istituzionale ed amministrativa259.

In campo culturale, il concetto di rete ha trovato formale ed esplicito recepimento al primo comma dell’art. 111 del Codice, il quale – come abbiamo già avuto modo di vedere su-pra, affrontando il tema della valorizzazione – ne offre una definizione del tutto condivisibile, ancorché incompleta; infatti appare evidente che le caratteristiche attribuite dalla norma all’attività di valorizzazione (fatto salvo l’opinabile assunto del legislatore statale, secondo cui essa dovrebbe sempre fare capo in ultima istanza al Ministero, in virtù e per il tramite della prioritaria funzione di tutela), sono assai più adeguate e pertinenti all’essenza stessa del siste-ma culturale, dal momento che prevedono – come già ricordato supra – la costituzione ed or-ganizzazione stabile di risorse, strutture o reti e la messa a disposizione di competenze tecni-che o risorse finanziarie o strumentali.

Non si capirebbe, infatti, come altrimenti questo insieme di attività gestionali com-plesse potrebbe venire in concreto a costituirsi e a operare; ben difficilmente lo si potrebbe costruire, infatti, sulla sola base di intese meno formalizzate e vincolanti, tra i diversi livelli istituzionali, pur accettando come pacificamente acquisita (il che non è quasi mai nella prassi) la leale collaborazione tra gli enti centrali e periferici deputati alla valorizzazione del patrimo-nio culturale e paesaggistico.

La questione si complica ulteriormente allorché si passa dalle norme generali e di principio alla loro concreta attuazione, con riferimento a singoli ambiti di attività culturale o a singole categorie di beni e istituti260; ciò è avvenuto dapprima sulla base di norme sta-tali261, come quelle contenute all’art. 1 c. 2 lette e) della l. n. 145/1992 in materia di «si-stema museale nazionale»262, oppure di intese interistituzionali come il protocollo d’intesa che ha portato alla nascita del Sistema Bibliotecario nazionale (SBN)263. In seguito la nozione de qua ha trovato applicazione nella legislazione regionale (in molti casi ben prima della

259 Questo comporta però di conoscere perfettamente la realtà in cui si opera, e quindi «gli attori

e l’assetto delle loro relazioni reciproche e con il contesto»: ibidem, p. 2. 260 Cfr. E. BONEL, A. MORETTI, Il coordinamento interorganizzativo nella valorizzazione dei beni cultura-

li: specificità settoriali e opzioni di progettazione, in B. SIBILIO PARRI, Creare e valorizzare i sistemi museali, cit., pp. 131-152.

261 Un’anticipazione si potrebbe ravvisare nell’art. 47 del d.p.r. n. 616/1977, che faceva riferimento alla funzione regionale di «coordinamento reciproco» di musei, biblioteche e istituzioni culturali di interesse locale.

262 Secondo la l. 10 febbraio 1992, n. 145, recante “Interventi organici di tutela e valorizzazione dei beni culturali”, di prevedeva tra l’altro l’adozione di un programma triennale di indirizzo, finalizzato al perseguimento dell’obiettivo di «valorizzazione del sistema museale nazionale, attraverso la realizzazione di progetti sperimentali relativi a modelli di gestione, esposizione e fruizione»: il che avrebbe richiesto, con tutta evidenza, per lo meno che tale sistema esistesse. Appare particolarmente interessante, ai fini del nostro ragionamento e di quanto si dirà in conclusione, la previsione del c. 5 secondo cui «I progetti che prevedono la collaborazione dello Stato, delle regioni e degli enti locali sono presentati dagli enti proponenti, unitamente ad uno schema di accordo di programma, al comitato regionale di cui all’art. 35 del d.p.r. 3 dicembre 1975, n. 805».

263 La rete delle biblioteche italiane è stata avviata nel 1985 dal Ministero per i beni e le attività culturali, con la cooperazione di Regioni e Università. Realizzata, sulla base di un protocollo d’intesa sottoscritto dal Ministero per i beni e le Attività culturali, dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica e dal Coordinamento delle Regioni. Il sistema si pone l’obiettivo di superare la frammentazione propria delle strutture bibliotecarie, creando una rete virtuale di biblioteche statali, di enti locali, universitarie, scolastiche, di accademie ed istituzioni pubbliche, coordinata tecnicamente dall’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche (ICCU). Cfr. il sito web del Sistema: www.iccu.sbn.it.

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riforma del Titolo V) con l’istituzione volta per volta di sistemi di biblioteche264, musei, ecomusei archivi, siti archeologici, oppure di circuiti espositivi, teatrali, musicali, e quant’altro265. Successivamente l’art. 10 del d.lgs. n. 368/1998 ha imposto266 allo Stato la collabo-razione con le altre amministrazioni pubbliche e con i soggetti privati, utilizzando moduli di azione e di organizzazione di tipo convenzionale, tanto di carattere privatistico che pubbli-cistico.

A ciò si aggiunga la copiosa legislazione in materia di sistemi turistici locali (STL), promossa e coordinata dalla l. 135/2001267, i quali sono promossi da enti locali e privati «at-traverso forme di concertazione con gli enti funzionali e le categorie produttive» con il suc-cessivo riconoscimento delle rispettive regioni268; grazie a tale strumento, o quanto meno per il tramite di altre forme meno strutturate di intesa, sono stati volta per volta regolati an-che gli innumerevoli itinerari tematici o consorzi di promozione costituiti (e finanziati) in questi anni a livello locale, provinciale o regionale.

Anche in questo caso, tuttavia, gli osservatori più accorti – anche tra i non giuristi269 – hanno posto l’accento non tanto sulle modalità operative per la gestione, l’organizzazione e la promozione (aspetti che appaiono tutto sommato ben codificati e di realizzazione rela-tivamente facile270) quanto su questioni strategiche come la «negoziazione tra attori locali e sovra-locali» e la «capacità di lavorare in rete».

In seguito il d.lgs. n. 156/2006 ha modificato l’art. 112 c. 4 al fine di completare quello che veniva definito (ex art. 7 c. 2) un «sistema integrato di valorizzazione». È quindi

264 Esemplare in questo senso la l.r. Piemonte n. 78/1978. 265 È proprio questo uno dei più evidenti parametri di valutazione della differenza (talvolta

radicale) di impostazione delle diverse legislazioni regionali in ambito culturale: per restare al caso del Piemonte, mentre sono istituite, strutturate e finanziate le reti di biblioteche ed ecomusei, non lo è quella museale, che è stata avviata in anni recenti ed opera su scala regionale grazie a un’autonoma iniziativa della Città di Torino; questo a differenza di altre regioni in cui invece esistono sistemi museali regionali, basati su leggi specifiche e solidamente strutturati. Cfr. E. ERCOLE, M. GILLI, G. BELLA, M. CARCIONE, Il progetto di sistema dei musei, cit., pp. 273-274.

266 Tuttavia a giudizio di E. BRUTI LIBERATI, op.cit., p. 2, questa «appare come una norma di indirizzo, che orienta il ministero» senza però vincolarlo.

267 Secondo i primi due commi dell’art. 5: «1. Si definiscono sistemi turistici locali i contesti turi-stici omogenei o integrati, comprendenti ambiti territoriali appartenenti anche a regioni diverse, caratte-rizzati dall’offerta integrata di beni culturali, ambientali e di attrazioni turistiche, compresi i prodotti tipici dell’agricoltura e dell’artigianato locale, o dalla presenza diffusa di imprese turistiche singole o associate. 2. Gli enti locali o soggetti privati, singoli o associati, promuovono i sistemi turistici locali attraverso forme di concertazione con gli enti funzionali, con le associazioni di categoria che concorrono alla for-mazione dell’offerta turistica, nonché con i soggetti pubblici e privati interessati» (…). A. PAPA, Il turismo culturale in Italia, cit., pp. 4 ss., che si sofferma in modo particolare sulla «struttura della multilevel governance in materia di turismo culturale» finalizzata alla «incentivazione della fruizione del patrimonio culturale» mediante il «coordinamento dei diversi soggetti pubblici e privati presenti sul territorio».

268 G. VENTURINI, La gestione del distretto culturale dal punto di vista turistico, in B. SIBILIO PARRI, op.cit., pp.71-84; secondo S.PAGE, M. HALL, Managing Urban Turism, Pearon, Harlow, 2003, il turismo culturale ha presentato una crescita consistente ed una trasformazione profonda, che ha determinato ne-gli ultimi decenni una presa di coscienza del fatto che si tratta di un «fenomeno di natura sistemica e connota-to da complessità», che non deve trascurare il problema della sua sostenibilità economica, sociale e am-bientale.

269 E. ERCOLE, op.cit., pp. 41-43. 270 Ibidem, p. 42, il quale cita però uno studio curato dalla Ambrosetti (2006), dal quale risulta

che il turismo richiede una strategia unitaria finalizzata alla realizzazione di «azioni anche ma non solo promozionali», cui devono corrispondere «più complete e migliori competenze manageriali».

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intervenuto ancora sulla questione l'art. 14 della legge 29 novembre 2007, n. 222271, che al fine di assicurare efficienza ed efficacia nella gestione ed erogazione dei servizi aggiuntivi, nonché la razionalizzazione delle risorse, promuove l'integrazione tra i servizi indicati dall'art. 117, anche tra i diversi istituti nei quali i servizi devono essere svolti; la definizione puntuale di tale disciplina è stata adottata, da ultimo, con il d.m. 29 gennaio 2008, considerato un de-creto ministeriale di natura non regolamentare272.

Pur essendo finalizzato a regolare solo i servizi aggiuntivi dei musei statali273, tale decreto dispone anche in merito ai servizi museali di istituti e luoghi di cultura di altre am-ministrazioni non statali (art. 3, c. 6), stabilendo che la disciplina si applica anche nei con-fronti delle regioni e degli enti locali, se i rispettivi musei vengono coinvolti in una gestione integrata, ammettendo la possibilità di estendere questa modalità innovativa di «gestione in-tegrata dei servizi» anche a musei non statali, cui conseguirebbe l'estensione del regime giu-ridico dei musei dello Stato; tale estensione viene demandata a un eventuale un accordo di cooperazione istituzionale (presumibilmente un accordo di programma, o almeno una con-venzione) ai sensi dell'art. 112, commi 4 e 6 del Codice.

Inutile sottolineare che l’impostazione di principio e l’impianto generale di queste norme ben poco hanno a che fare con la sussidiarietà, dal momento che partono dall’idea (affatto conforme alla realtà istituzionale e alle prassi amministrative) che competa al Mini-stero assumere questo genere di iniziative, per poi estenderle “benevolmente” anche agli enti locali. Parrebbe altresì che il solo fine perseguito debba essere il conseguimento di maggiori introiti, che sarebbero resi possibili dalla sola gestione integrata dei servizi aggiun-tivi su scala territoriale; come logica e coerente conseguenza, la disposizione non fa cenno all’eventuale integrazione delle attività scientifiche o tecnico-amministrative.

Il ritardo endemico del settore culturale in questo processo di consapevolezza e or-ganizzazione, nonostante le molte modifiche normative e organizzative274, è testimoniato dal fatto che il 18 febbraio 2009 – a ben diciassette anni dalla legge n. 145 – il Ministero per il Beni culturali ha stipulato un protocollo d’intesa con il Ministero per la Pubblica Ammi-nistrazione e l’Innovazione (peraltro presentato al pubblico con particolare enfasi)275, con il quale si prevede la realizzazione di un “Portale della cultura” informatico, che includerebbe anche (art. 4) la realizzazione di «un unico importante progetto di valore strategico» che dovrebbe riunire «attività e realizzazioni già esistenti nel campo del sistema museale (…) po-nendoli in un contesto di più ampia costituzione di un vero “Sistema museale naziona-le”»276.

271 Legge di conversione, con modificazioni, del d. l. n. 159/2007. 272 cfr. G. PIPERATA, Natura e funzione dei servizi, cit., p. 3. 273 A giudizio di G. PIPERATA, La nuova disciplina, cit., p. 6, «il Ministero si preoccupa anche di

avanzare l’auspicio che alla disciplina dei servizi museali per i musei dello Stato faccia presto seguito una nuova fase di regolazione che coinvolga anche i servizi integrati che interessano i musei e gli altri istituti non statali».

274 G. VOLPE, op.cit., p. 166 rileva che le carenze e le «storture» del codice stanno in parte fuori da esso, e attengono alla sfera dell’organizzazione e dell’azione amministrativa, facendo particolare riferimento alla perdurante «difficoltà di rendere fattiva la cooperazione tra livelli di governo».

275 La finalità dichiarata all’art. 1 del Protocollo è di «realizzare un programma di innovazione per la valorizzazione e la gestione del patrimonio culturale italiano finalizzato a incrementare l’efficienza e l’accessibilità, nonché a fornire al personale del Ministero per i beni e le attività culturali gli strumenti adeguati per l’incremento dell’efficienza, della trasparenza e della qualità dei servizi resi, realizzando, nel contempo, una progressiva riduzione dei costi».

276 Il protocollo prevede le seguenti modalità: digitalizzazione del patrimonio, sua comunicazione sul web, e-commerce, realizzazione di c.d. “Musei impossibili” (ricomposizione, all’interno dello stesso ambiente virtuale, di opere di uno stesso autore, di una corrente artistica, di una determinata

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Ciò dimostra che nell’attuale concezione e nella connessa terminologia ministeriale, il termine “sistema” – come era già avvenuto per il SBN nell’ambito delle biblioteche – sot-tintende l’aggettivo “virtuale”, tanto che l’intero apparato organizzativo fin qui prefigurato dovrebbe essere garantito (art. 7) solo da un Comitato tecnico paritetico di sei membri, con «funzioni di coordinamento, pianificazione e controllo, in raccordo con altre funzioni di monitoraggio eventualmente già esistenti per specifiche iniziative». L’esperienza acquisita nel corso di circa un trentennio di azioni e di “progetti sperimentali” (per richiamare la terminologia della l. n. 145/1992) nel campo della valorizzazione culturale e della promozione turistica, ha quindi dimostrato che praticamente tutte le presunte reti (o sistemi) culturali “nazionali”, e molte di quelle regionali o locali, si sono limitate a gestire aspetti pur importanti, come la realizzazione di siti web o banche dati digitali, la promozione, il marketing, la gestione o l’affidamento a terzi dei servizi turistici o didattici, lasciando invece la soluzione delle strategiche, onerose e quindi ben più complesse questioni strutturali (sedi, depositi, personale, collezioni, assicurazioni, sicurezza, restauri, ecc.) alle singole realtà coinvolte. D’altronde, per poter fare un così impegnativo salto di qualità, risulterebbe necessario mettere insieme – o meglio, come propriamente si dice, mettere “a sistema” – e far collaborare tra loro soggetti giuridici diversi, pubblici e privati, imprenditoriali e non profit277, con caratteristiche complementari; il che consentirebbe di affrontare e, probabilmente, di risolvere almeno in parte i problemi appena evidenziati, proprio grazie alle economie di scala, a condizione che si persegua e si riesca a ottenere piena solidarietà e coesione tra chi, svolgendo la funzione di tutela, può curare restauri e interventi conservativi, chi ha la possibilità di assumere dipendenti, chi dispone di volontari, chi possiede strutture informatiche o di comunicazione, chi può realizzare e commercializzare pubblicazioni e gadgets, chi può richiedere e gestire fondi UE, ecc.

Un contributo in tal senso è giunto, ancora una volta, in seguito al recepimento in Italia delle norme convenzionali e delle “buone pratiche” internazionali raccomandate dall’UNESCO (e rafforzate ulteriormente a livello nazionale con la l. n. 77/2006), le quali anche a giudizio del Ministero partono dal presupposto condivisibile che un sito culturale – nella fattispecie in quanto candidato alla Lista del Patrimonio mondiale, ma evidentemente non solo in questo caso – è «un sistema culturale, attuale o potenziale, oppure è all’interno di un sistema più grande, e come tale va analizzato, con particolare riguardo alle capacità produttive (sic!) di beni e servizi fondati sulla cultura. (...) Conoscere il sistema nei suoi det-tagli è una operazione necessaria per poterne mobilitare tutte le componenti, individuando anche la ‘forza del carattere’ delle comunità locali, la cui identità si rileva solo nel radica-mento nel territorio e nella storia»278.

Se dunque si vuole veramente definire cosa si possa e debba intendere con la locu-zione sistema, occorre passare dalla mera enunciazione astratta (propria dei manuali e degli opuscoli promozionali) alla puntuale definizione di una serie di modalità amministrative e

tipologia) situate realmente in diverse istituzioni e in differenti paesi) o di “Mostre impossibili” attraverso le riproduzioni digitali dei capolavori dei grandi artisti italiani, che non è possibile spostare dalle sedi originarie, per motivi di sicurezza o per altre motivazioni di carattere scientifico. Il testo è disponibile nel sito: www.innovazionepa.gov.it.

277 Sull’inquadramento giuridico delle organizzazioni non lucrative cfr. A. SCIUMÉ, Non profit e gestione dei servizi pubblici locali, in P. GARRONE, P. NARDI, op.cit., pp. 137 ss.

278 Cfr. il già più volte citato studio AA. VV., Il modello del piano di gestione, cit., pp. 8 e 41, che non a caso dedicava una particolare attenzione proprio alla «aggregazione di interessi, da coinvolgere in una entità giuridica deputata a gestire le attività del sito della logica del processo di integrazione e di sistema».

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operative, tutt’altro semplici e agevoli, di concreta realizzazione delle sinergie, e dunque ad esempio:

- chiara codificazione preventiva delle finalità e dei compiti del sistema, formalizzata in un atto vincolante (accordo di programma, regolamento, statuto, ecc.);

- individuazione e responsabilizzazione di un organo di direzione, legittimato a decide-re per tutti i componenti279, il che costituisce la più rilevante differenza fra rete “leg-gera” e sistema “forte”;

- messa in comune di risorse strumentali280 e finanziarie281; - condivisione di risorse umane282, e quindi di professionalità e competenze specifiche,

tanto scientifiche che amministrative o tecniche; - realizzazione di progetti comuni, a beneficio dell’intero sistema, da parte dei singoli po-

li della rete, maggiormente attrezzati e qualificati; - promozione della rete come tale283.

Tornando agli aspetti più propriamente giuridici, la prassi applicativa aiuta a com-prendere che per creare veri sistemi non è sufficiente la formale sottoscrizione di un sem-plice protocollo d’intesa, che pure rimane lo strumento più appropriato per avviare la fase di prima sperimentazione: è infatti necessario addivenire quanto prima alla stipula di con-venzioni, o meglio ancora di accordi di programma, intesi alla costituzione di veri e propri uffici e strutture comuni, in grado di operare quali soggetti gestori “di secondo livello”: il che equivale a dire che il sistema (o, se si preferisce, la rete purché con le caratteristiche ap-pena evidenziate), deve essere a ogni effetto un’istituzione. Secondo un recente studio di settore284, però, «è di tutta evidenza che l’apparato organizzativo istituzionale non può essere in grado (e, peraltro, neppure dovrebbe) di occuparsi in via esclusiva delle azioni di tipo relazionale, che sono necessarie per ‘far vivere’ la rete (tavoli di partecipazione, progettazione e programmazione)». In questo senso, ancora una volta, il ruolo dei soggetti non profit e del terzo settore in genere (includendo anche le cooperative) non dovrebbe più risultare strumentalizzato e marginalizzato come talora si riscontra285, ma andrebbe riconosciuto istituzionalmente e quindi posto in condizione – anche sul piano amministrativo – di esercitare una funzione

279 Nella prassi è invalsa l’istituzionalizzazione della “conferenza” (o consulta) dei direttori e dei

responsabili degli istituti coinvolti, per la cui funzionalità è comunque necessaria almeno una figura di coordinamento, se non di presidenza.

280 Si pensi a strutture che non tutti i “poli” della rete possono realizzare e gestire ma di cui uno solo di essi può disporre, utilizzandolo però in modo razionale e avvalendosi di economie di scala: bookshops, laboratori didattici e di restauro, depositi, centri di formazione, biblioteche specializzate, archivi fotografici e digitali, foresterie, ecc.

281 Ad esempio sotto forma di “fondo di solidarietà” per le spese comuni, che potrebbe essere finanziato con parte dei proventi dei poli più visitati della rete e dei relativi servizi aggiuntivi; cfr. sul tema L. GAVINELLI, L’integrazione museale, dalla sperimentazione al consolidamento, in B. SIBILIO PARRI, op.cit., pp. 87-88.

282 Ibidem, p. 88, secondo cui l’integrazione può dare «nuovo impulso alla formazione e alla creazione delle competenze degli operatori»; il problema non si pone tanto per custodi o guide turistiche, ma piuttosto per conservatori e restauratori, esperti illuminotecnici, della climatizzazione o della sicurezza, consulenti di didattica, problematiche assicurative o gestione dei depositi, ecc.

283 Il che dovrebbe però avvenire sempre solo dopo che si è realizzata e collaudata la struttura di gestione e fruizione: può apparire scontato, ma l’esperienza dimostra che non di rado avviene esattamente il contrario.

284 F. DALLA MURA, op.cit., pp. 67 ss. 285 SCIUMÉ, op.cit., pp. 153-155, pone in evidenza «le esigenze di condivisione, integrazione,

comunitarizzazione che le funzioni pubbliche ad elevata e significativa connotazione sociale hanno progressivamente e incrementalmente manifestato».

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portante, che in qualche situazione può risultare addirittura strategica.

Solo su basi giuridiche codificate diventa concretamente possibile e soprattutto sostenibile, anche fuori dai grandi circuiti turistici, fare rete tra enti e associazioni: infatti «per definizione, tali organizzazioni non perseguono finalità di lucro e tale caratteristica dovrebbe rappresentare il presupposto ideale per favorire in massimo grado la disponibilità all’integrazione nella rete prevista nel settore dei servizi e degli interventi sociali dalla Legge quadro n. 328/2000 e, in generale, dalla logica della solidarietà che per legge contraddistingue l’opera del volontariato», consentendo di disporre non solo (come talora si persegue, in senso assai riduttivo) di manodopera numerosa e motivata senza dover sostenere alcun onere, ma soprattutto di conseguire una fondamentale «integrazione di capacità e risorse»286. A ciò si contrappone, tuttavia, un persistente «atteggiamento di ‘difesa’ del pubblico da un volontariato che viene quasi tenuto ‘a debita distanza’ dalla funzione delle istituzioni, come se la partecipazione e la collaborazione dei volontari fosse subita più che promossa dalle amministrazioni»287; si constata che le istituzioni politiche (custodi e garanti, almeno in

via teorica, dell’interesse pubblico) non sempre agevolano, per non dire che fanno resistenza passiva, nei confronti dell’attuazione piena del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale, anche a discapito della ottimale tutela dei diritti culturali, oltre che della conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico e paesaggistico nazionale. 4.9. Per una definizione dei caratteri propri dei servizi culturali

Nel concludere l’articolata disamina dei servizi alla cultura e alla conoscenza e delle loro forme ottimali di gestione, possiamo giungere alla conclusione che la loro vera mission (anche se sovente si riscontrano, nella pratica istituzionale, indirizzi e prassi in senso del tutto contrario) non è certamente “fare” cultura, ma piuttosto mettere gli interessati in condizione di produrre o fruire liberamente della cultura e della conoscenza.

Già Ainis aveva sostenuto288 che è indispensabile tutelare la capacità critica dei cittadi-

ni, garantendone l’indipendenza di giudizio sull’indirizzo politico statale attraverso il plura-lismo, per assicurare la «partecipazione consapevole alle sorti della cosa pubblica»; il che implica però che la cittadinanza, ma ancor più ogni singolo individuo (soprattutto in quanto elettore), abbia acquisito un «solido patrimonio di conoscenze»289; ancora in tempi recenti, è

286 Ibidem, p. 47; anche se l’autore realisticamente ammette che il ricorso alle convenzioni

plurilaterali è tuttora «scarsissimo», motivando tali resistenze, paradossalmente, proprio in ragione della «spiccata tendenza all’individualismo delle organizzazioni di volontariato».

287 F. DALLA MURA, op.cit., p. 42. 288 M. AINIS, L’Intervento culturale, cit., pp. 144-154. 289 Nel più recente M. AINIS, La cura, Milano, Chiarelettere, 2009, pp. 154-157, l’Autore

evidenzia che la cultura dei politici non può più essere presunta, dal momento che ormai l’accesso a tutti i gradi di istruzione e il diritto allo studio per i capaci e meritevoli è garantito costituzionalmente, oltre ad essere assicurato dalle leggi nazionali e regionali e dagli statuti delle Università: dunque da anni ormai non c’è più il rischio di «impedire che i non istruiti si riflettano nelle istituzioni», eleggendovi i propri simili sulla base di un rigido criterio di rappresentanza. La “cura” da lui proposta per porre fine al malcostume degli «uomini sbagliati nel posto sbagliato» è di adottare il principio che per assumere una responsabilità di qualunque livello di governo occorre dimostrare qualche competenza rispetto al proprio mandato: se dunque per coloro che rivestono ruoli operativi «la competenza deve essere specifica», dovrebbero essere almeno diplomati o comunque vantare un adeguato curriculum lavorativo.

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stato correttamente rilevato che la democrazia ha bisogno di cittadini istruiti e informati, poiché «curare, organizzare e diffondere la formazione culturale e civile di un popolo signi-fica garantire la qualità della democrazia»290 Ferme restando dunque le caratteristiche fondamentali dei servizi pubblici in gene-re, come la doverosità, la continuità, la titolarità pubblica e la destinazione alla soddisfazio-ne delle esigenze della collettività291, possiamo sintetizzare nei seguenti termini alcune ulte-riori caratteristiche, sin qui evidenziate in quanto propriamente e specificamente idonee a garantire il pieno rispetto dei diritti culturali:

1) autonomia, scientifica e organizzativa, a tutela del pluralismo, da garantirsi normativamente (almeno in sede di statuto o di regolamento) con forza cogente, oltre che mediante da appositi strumenti procedurali;

2) indipendenza, politica e finanziaria, anche nei confronti dello stesso ente proprietario o delle istituzioni civiche, regionali ed anche statali, fatto salvo il perseguimento degli interessi generali definiti ex ante e la sua verifica ex post;

3) professionalità, che costituisce a sua volta la più seria garanzia di competenza e interdisciplinarità292;

4) stabilità, che si coniuga a sua volta con la formalizzazione giuridica e la continuità nel tempo del sistema e delle singole istituzioni che ne fanno parte;

5) solidarietà, che implica e determina coesione, coordinamento, coerenza e organicità, tutti fattori determinanti per il successo del sistema293;

6) gratuità, la quale deve essere intesa, almeno in linea di principio, sia nel senso del disinteresse dei collaboratori, sia in quello della non soggezione a tariffa degli utenti294; in entrambi i casi l’attribuzione di compensi ai curatori o il pagamento del biglietto di ingresso si devono considerare come (rare) eccezioni295.

290 Commento all’art. 33 della Costituzione in F. DEL GIUDICE, La costituzione esplicata, Napoli,

2008, p. 34. 291 G. PIPERATA, Natura e funzione dei servizi, cit., p. 5; L. GENINATTI, L. GUFFANTI, A. SCIUMÉ,

op.cit., pp. 59 ss. 292 L’ulteriore specificazione di questo principio va nel senso di escludere i “dilettanti”, ed

anche di diffidare dei “tuttologi”: anche se si tratta degli architetti progettisti delle strutture e degli allestimenti, oppure di storici dell’arte o archeologi nei ruoli dei funzionari di Soprintendenza, fino a prova contraria non rientra nelle loro competenze la redazione di un regolamento o di un contratto di assicurazione, oppure l’organizzazione e gestione dei servizi e delle strutture, così come a un giurista o a un economista non verrebbe mai in mente di curare un restauro o i contenuti di una mostra scientifica.

293 F. RIMOLI, op.cit., p. 165., rifacendosi al principio di “solidarietà sociale” evocato da G. Palma, sottolinea che per non scoraggiare la partecipazione al sistema culturale del privato, «privandolo della sua motivazione principale, che è, e rimane salvo rari casi, quella del profitto economico», è necessario «mettere a punto forme efficaci di coordinamento e di controllo dell’intervento pubblico nei suoi vari canali», in modo da «evitare una caotica o, peggio, clientelare distribuzione di denaro pubblico senza il supporto di alcun indirizzo allocativo di risorse che non abbia i caratteri della coerenza e dell’organicità».

294 Come già ricordato, il Codice (art. 103 c. 2) specifica tale principio solo con riferimento a biblioteche e archivi, ma è noto che per i musei l’ICOM raccomanda l’adozione di politiche tariffarie (riduzioni o gratuità a favore di studenti o docenti, bambini o anziani, giornate di libero accesso) finalizzate a promuovere l’accesso ai musei anche per le categorie a vario titolo disagiate.

295 Ne costituisce conferma il fatto che il rapporto tra il numero dei monumenti, musei o siti culturali che possono vantare un altissimo numero di visitatori o frequentatori paganti (e anche per questo sono rinomate a livello mondiale) e quelle che non possono disporre di questa fonte di risorse finanziarie, dirette o indirette, può essere stimato indicativamente in ragione di 1/1000; parimenti si può dire per le istituzioni culturali che possono remunerare (talvolta anche in modo significativo) i propri direttori o curatori, se messe a confronto con quelle che possono offrire a chi presta la propria opera

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È inoltre possibile, sempre alla luce di quanto sin qui esposto, provare a ipotizzare alcuni meccanismi istituzionali di promozione e garanzia di questi caratteri. Quanto all’autonomia, indipendenza e professionalità, ad esempio, mentre in passato in Italia il ruo-lo dei “dotti” è stato normativamente limitato alla mera espressione di pareri quasi mai ob-bligatori e vincolanti296, oggi – nell’esercizio della propria autonomia – gli statuti degli enti locali potrebbero prevedere norme vincolanti e tassative a garanzia della competenza degli amministratori, o almeno dei rappresentanti designati nelle istituzioni culturali che da essi promanano.

Si potrebbe ad esempio richiedere, a tal fine, il possesso di titoli di studio o di espe-rienza nello specifico campo di attività in oggetto, oppure imporre il divieto di cumulo di incarichi o il rispetto di una sorta di cursus honorum297, a parziale garanzia della loro capacità di gestione.

Inoltre, gli organismi accademici (sul piano scientifico) e associativi (sul piano del pluralismo culturale), appartenenti allo stesso ambito settoriale e territoriale, e per questo particolarmente rappresentativi e qualificati a esprimere tale valutazione in modo partecipa-to e condiviso, dovrebbero avere la possibilità di esprimere in modo formale e possibilmen-te vincolante delle proposte ex ante o un giudizio di gradimento e approvazione ex post298.

Per rendere concrete la stabilità e la solidarietà dei servizi, il principio di leale colla-borazione potrebbe essere reso più effettivo mediante la previsione espressa e cogente dell’accordo di programma (de jure condendo, con una modifica in tal senso della l. n. 241/1990), quale strumento giuridico da adottarsi in forma obbligatoria e vincolante, men-tre il protocollo d’intesa potrebbe più propriamente costituire l’atto istituzionale propedeu-tico all’avvio dell’istruttoria procedimentale nei diversi enti coinvolti.

Può essere utile a tal fine ricordare che già la l. 10 febbraio 1992, n. 145, recante “Interventi organici di tutela e valorizzazione dei beni culturali”, nel promuovere la valoriz-zazione di un (allora ipotetico) sistema museale nazionale, disponeva quanto segue: «i pro-getti che prevedono la collaborazione dello Stato, delle regioni e degli enti locali sono pre-sentati dagli enti proponenti, unitamente ad uno schema di accordo di programma». Per rendere effettivamente cogente il principio di sussidiarietà, la competenza primaria in mate-ria di convocazione della conferenza e di promozione dell’accordo andrebbe però conferita in modo esplicito al Sindaco, il quale ha la possibilità di instaurare rapporti con la propria comunità, nel modo più efficace e diretto, salvo sua formale rinuncia.

In tal caso, oppure nelle situazioni che eccedono l’ambito comunale, spetta al livello immediatamente superiore (intercomunale o provinciale) farsi carico dell’esercizio di tali prerogative, prima che alla Regione e allo Stato, sempre in virtù dello stesso principio costi-tuzionale; fermo restando che gli enti regionali e nazionali sono comunque tenuti a parteci-pare e a cooperare attivamente, nella misura in cui si tratta di attivare funzioni di valorizza-

intellettuale e materiale solo forme differenti, seppur rilevanti, di gratificazione e visibilità.

296 Tanto più che gli organi tecnico-scientifici incaricati di esprimere pareri hanno tradizionalmente avuto scarso peso e prestigio istituzionale: basti ricordare i casi emblematici del Consiglio Superiore dei Beni culturali e dello stesso CNEL: cfr. M. CARCIONE, Amministrazione e competenza, cit., pp. 94-95.

297 Esemplificando, tanto negli enti pubblici che nelle relative istituzioni (culturali e non) dovrebbe essere necessario ricoprire dapprima la carica di consigliere e poi di componente dell’organo esecutivo, per poi ambire infine al ruolo di Presidente; analogamente, si potrebbe richiedere almeno un’esperienza a livello comunale prima di accedere a cariche di livello provinciale, e così via fino al livello nazionale.

298 In alternativa si potrebbe prevedere il motivato e pubblica dissenso o la possibilità di esprimere, in occasione di formali consultazioni, una riserva sulla nomina di persone non qualificate o non adeguatamente indipendenti.

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zione e promozione (competenza regionale concorrente) o di tutela, specialmente se sono coinvolti beni del demanio culturale (competenza statale).

Infine, quanto alla gratuità, condizionata dall’esistenza di una vera “solidarietà cultu-rale” tra istituzioni pubbliche e soggetti privati (associazioni e singoli operatori culturali), occorre rendere l’apporto delle associazioni maggiormente funzionale all’organizzazione del sistema di servizi culturali; a tal fine è possibile instaurare e incentivare forme di collabora-zione organiche, cioè non limitate a casi sporadici, attraverso un intervento normativo coordinato delle Regioni, nell’esercizio della competenza concorrente in materia di valoriz-zazione.

L’attività dei volontari andrebbe destinata prioritariamente a colmare le lacune del sistema nazionale di protezione civile, per quanto concerne la salvaguardia (preventiva) 299 e la messa in sicurezza del patrimonio culturale nelle situazioni di rischio: compito che, salvo poche meritorie eccezioni, raramente è assicurato in modo adeguato nelle passate e recenti occasioni di incendi, alluvioni e altre calamità naturali. Ma dove necessario, come normal-mente avviene soprattutto nei piccoli Comuni, i volontari potrebbero essere impiegati an-che per le attività quotidiane di gestione, promozione e valorizzazione dei beni culturali lo-cali, specialmente per quanto concerne le funzioni di accoglienza dei visitatori, sorveglianza delle strutture300, conservazione e sicurezza dei beni culturali 301.

299 Anche se il Codice sembrerebbe aver escluso la possibilità di stipulare convenzioni con

associazioni (peraltro rare) che si occupino statutariamente di salvaguardia; tale orientamento normativo appare peraltro in contrasto con l’intesa stipulata nel 2007 dal Ministero a livello nazionale con Legambiente Onlus, per la formazione e l’utilizzo di squadre qualificate di protezione civile dei beni culturali.

300 Occorre però superare il discutibile presupposto che il volontariato sia utile solo come ma-novalanza, neppure quando è elevato al rango di “capitale umano” di una fondazione (come sembrereb-be prospettare E. BELLEZZA, Le fondazioni di partecipazione, cit., pp. 135-158): l’idea stessa che possa con-correre a costituire il fondo di dotazione l’opera dei volontari, cioè un “bene” non solo immateriale ma soprattutto indisponibile, rischia di snaturare completamente la natura stessa del volontariato.

301 Ad es. con riferimento a progetti e attività di schedatura, predisposizione di piani di preven-zione e sgombero, trasporto in sicurezza con adeguati imballaggi, individuazione e gestione di idonei de-positi d’emergenza, predisposizione della cartografia dei beni culturali del territorio.

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CONCLUSIONI

E SPUNTI PER ULTERIORI RICERCHE

Essendo già state esplicitate, al termine di ciascun capitolo, le relative conclusioni in merito alla definizione (rispettivamente) delle caratteristiche che contraddistinguono sul piano giuridico i siti UNESCO, di una nuova nozione sintetica di diritti culturali e di quella conseguente di fruizione, nonché dei caratteri propri dei servizi culturali, giunti al termine della trattazione resta da fare solo una breve considerazione di carattere generale, che offre lo spunto per tre possibili ulteriori temi di approfondimento.

Questa ricerca intendeva, in ultima analisi, tentare di capire per quale ragione e con che fondamenti la valorizzazione e gestione del patrimonio culturale, soprattutto pubblico (e di conseguenza la sua fruizione), così come la conoscenza e la partecipazione all’amministrazione della cosa pubblica (con il correlato principio di trasparenza) avessero dovuto sottostare per decenni a norme e misure improntate a una drastica limitazione da parte dello Stato.

Questo genere di approccio non trovava riscontro in altri ordinamenti, e neppure negli altri ambiti di esercizio e garanzia dei diritti culturali riconosciuti come tali dall’UNESCO; anche in Italia, d’altronde, si può constatare che:

- i diritti all’educazione, istruzione e formazione trovano da sempre piena tutela da parte dell’ordinamento, ma non per questo si ritiene posta in discussione o pregiudicata in alcun modo la correlata libertà di insegnamento;

- la libertà di manifestazione delle opinioni individuali gode di piena tutela, fermo restando che l’informazione esercitata nelle diverse forme e modalità (pubbliche e private), è libera e pluralista;

- anche la libertà di associazione, riunione ed espressione, incluse quelle relative a lingue e culture minoritarie, come pure la libertà di manifestazione dei culti religiosi, trovano un punto di equilibrio a livello costituzionale e legislativo nei confronti della promozione delle attività artistiche e culturali;

- persino la libertà di accesso ai risultati della ricerca scientifica e agli atti amministrativi, sono garantiti e tutelati sin dalla l. n. 241/1990 (anche con norme sanzionatorie), il che significa che non sono ritenuti in linea di principio lesivi – fatte salve le garanzie contro eventuali abusi – della riservatezza dei dati personali (privacy), dei diritti di proprietà intellettuale o della stessa sicurezza dello Stato.

Invece non è facile trovare una giustificazione, logica o giuridica, al fatto che nonostante le norme introdotte sin dagli anni ’90 nell’intento di riorganizzare le competenze e funzioni pubbliche nel settore, ancora non venga affermato dai giuristi e rispettato dagli operatori professionali del settore (ma neppure percepito nel comune sentire) l’universale e fondamentale diritto a fruire delle arti e, più in generale, dei beni culturali di ogni natura e tipologia.

Ciò accade sebbene resti pacifico (né è mai stato contestato da alcuno) che l’imposizione all’ordinamento nazionale e regionale del dovere di operare al fine di garantire l’esercizio di tale diritto, in alcun modo sminuisce, pregiudica o mette in discussione la tutela dei beni culturali stessi, che tutti riconoscono essere posta a garanzia

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dell’identico diritto alla fruizione che sta in capo alle generazioni future1. Il processo di riforma avviato all’inizio degli anni ’90 e completato con la modifica

del Titolo V della Costituzione, attende ancora di essere portato a compimento, nella sua reale portata funzionale all’attuazione del principio fondamentale proclamato dalla prima parte dell’art. 9 della Costituzione, in virtù della quale “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca”: una norma di evidente portata ideale, che fino a tempi relativamente recenti è stata sminuita e posta in secondo piano, a causa di una lettura parziale e fuorviante (per non dire distorta), essendo completamente sbilanciata sulla seconda parte dello stesso articolo.

È proprio in questa nuova e corretta prospettiva che sono stati elaborati e proposti gli esiti della ricerca sin qui esposti, cui si possono ancora aggiungere tre brevi cenni ad altrettante questioni e problematiche assai specifiche, che appaiono però di rilevanza assolutamente strategica proprio nell’odierna situazione di carenza di risorse, di necessità di migliore coordinamento e di ricerca di nuovi fattori di crescita e sviluppo compatibile.

A conferma di quanto sostenuto sin dal primo capitolo, si tratta ancora una volta di questioni condizionate e conseguenti all’effettiva recezione in Italia di principi e di norme del diritto internazionale.

a) Un’opportunità: attuare le norme per il riconoscimento e la valorizzazione del volontariato cultura-

le qualificato

Partendo dalle conclusioni del precedente capitolo, è interessante rilevare che già da qualche anno era stato prefigurato in modo lungimirante uno strumento organizzativo2 in grado di assicurare il coordinamento a livello regionale e nazionale della rete delle associa-zioni, professionali e non, di volontariato culturale votato alla salvaguardia dei beni cultura-li.

Lo “Scudo Blu Italiano”, che prende nome dal simbolo internazionale di protezione dei monumenti, una volta reso operativo potrebbe contribuire anche in Italia, così come avviene a livello internazionale con l'International Committee of the Blue Shield (ICBS)3, a confe-rire organizzazione e coesione ai diversi soggetti che già operano per la salvaguardia del pa-trimonio culturale nazionale nelle situazioni di pericolo, pur rispettando l’autonomia di tutti coloro che la compongono.

La legge di ratifica (n. 45/2009) ha reso operanti anche in Italia le disposizioni del II

1 Ciò implica che la “tutela” deve essere esercitata nei confronti del diritto alla protezione del

patrimonio (mediante la sua conservazione) di cui, come più volte ricordato, sono titolari le persone fisiche e non certo i beni materiali: peraltro il termine non dovrebbe essere frainteso nella sua più comune accezione civilistica – per usare un paradosso utile a rendere il senso profondo del problema– come se l’ordinamento statale avesse incaricato i Soprintendenti di proteggere e rappresentare gli italiani, considerati “culturalmente” incapaci di intendere e di volere.

2 A questo scopo era stata avviata, nel 2003, l’istituzione, sotto l’egida della Commissione Nazionale per l’UNESCO ed in vista dell’attuazione di alcune norme del II Protocollo dell’Aja del 1999 (ratificato però solo nel 2009), di un tavolo permanente di coordinamento tra le più importanti organizzazioni impegnate a livello nazionale nella protezione dei beni culturali nelle diverse situazioni di rischio (calamità e conflitti armati), sull’esempio di analoghe strutture operanti all’estero. Si veda la pagina web del progetto nel sito della CNI Unesco: cfr: www.unesco.it/cni/index.php/scudo-blu.

3 Fondato nel 1996 ed espressamente citato e riconosciuto da alcune norme del II Protocollo del 1999, l’ICBS aveva tenuto proprio in Italia (Torino, luglio 2004) il suo primo congresso mondiale, al cui termine era stata approvata e diffusa a livello mondiale la Torino Declaration, ora tradotta e pubblicata in L. CIANCABILLA, op.cit., p. 134; cfr. anche L. ZAGATO, La protezione dei beni culturali, cit., pp. 228-236.

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Protocollo dell’Aja del 19994, che citano l’ICBS e le relative OnG, attribuendo loro una se-rie di prerogative e competenze nei confronti dell’UNESCO ed anche degli stessi Stati; nel dicembre 2009 una Conferenza internazionale tenutasi presso l’UNESCO ha approvato le relative guidelines, che dispongono in modo specifico circa il coinvolgimento attivo a livello nazionale delle OnG professionali per l’implementazione delle norme stesse; dunque sa-rebbero necessarie le norme attuative nazionali, così come è avvenuto per quelle relative al-la Convenzioni di Ginevra5.

A riprova della rilevanza del recepimento di norme internazionali in questo settore, sovviene l’ulteriore constatazione che i principi fondamentali adottati da questa nuova or-ganizzazione internazionale6, manifestano una significativa assonanza – se non assoluta coincidenza – da un lato con i Principi fondamentali della Croce Rossa7 e dall’altro con i caratteri generali poc’anzi evidenziati con riferimento ai servizi culturali.

Altri utili riferimenti e supporti normativi circa il ruolo delle OnG e delle associa-zioni culturali si possono rinvenire agli artt. 14 e 17 della Convenzione del Patrimonio mondiale8 (che purtroppo però non è stato richiamato in modo esplicito dalla l. n. 77/2006) e agli artt. 9 e 15 della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale9, entrambe ratificate da tempo dall’Italia.

È però necessario conferire alle organizzazioni di volontariato un ruolo più istitu-zionale, strutturandone e regolandone in modo più sistematico e a livello nazionale i rap-porti con la mano pubblica: anche in questo caso si può utilizzare un procedimento, dispo-nibile a legislazione statale invariata, che darebbe infine concretezza e operatività alle modi-fiche operata al nono comma dell’art. 112 del Codice, secondo cui per stipulare accordi con gli enti pubblici, le associazioni culturali o di volontariato devono essere «dotate di adeguati requisiti»10.

4 Anche se si tratta di un Protocollo, e quindi di strumenti e procedure attuative, formalmente

finalizzate solo alla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, è sempre stata data per scontata l’estensione a tutte le situazioni di rischio; inoltre la realizzazione di una serie di misure di “salvaguardia” è esplicitamente prevista dall’art. 5 del trattato internazionale come da realizzarsi «sin dal tempo di pace»: cfr. L. ZAGATO, La protezione dei beni culturali, cit., pp. 35 ss.

5 Sarebbe infatti necessaria una dettagliata normativa di attuazione, ad esempio sull’uso del simbolo di protezione, analoga a quella che da decenni regola i rapporti tra lo Stato e la Croce Rossa Italiana (a sua volta emanazione nazionale di un ONG internazionale riconosciuta ai sensi delle Convenzioni di Ginevra del 1949), attualmente oggetto di uno schema di decreto legislativo di revisione e riforma (A.C. n. 424) in ottemperanza della delega ex art. 2 della l. n. 183/2919. Su tutta la questione mi permetto di rimandare all’ampia disamina fatta in M. CARCIONE, Nuove prospettive dopo l’attuazione del II Protocollo de L’Aja, cit., pp. 127-131

6 La Carta di Strasburgo, adottata dall’ICBS il 14 aprile 2000, ha proclamato come principi fondamentali dell’ONG: coordinamento, indipendenza, neutralità, professionalità, rispetto dell’identità culturale, volontariato; cfr. M. CARCIONE, Dieci anni di Scudo Blu (1996-2006): nascita, potenzialità, limiti e criticità della ‘Croce Rossa’ dei Beni culturali, in WJCP, (2) 2006, pp. 135-172.

7 Consultabili nel sito www.icrc.org. 8 Per la Convenzione di Parigi del 1972, art. 17 gli Stati «prevedono o promuovono l’istituzione

di (...) associazioni nazionali pubbliche e private intese a incoraggiare le liberalità in favore della protezione del patrimonio culturale e naturale (…)”.

9 L’art. 9 della Convenzione di Parigi del 2003 regola l’accreditamento internazionale di ONG ai fini dell’esercizio di funzioni consultive di “organizzazioni non governative aventi una fondata compe-tenza nel settore del patrimonio culturale immateriale»; a livello nazionale l’art. 15 richiede allo Stato di «garantire la più ampia partecipazione di comunità, gruppi e, ove appropriato, individui che creano, man-tengono e trasmettono tale patrimonio culturale, al fine di coinvolgerli attivamente nella sua gestione», il che non dovrebbe però precludere, secondo logica, il coinvolgimento delle istituzioni e delle associazioni nazionali, una volta che hanno conseguito il riconoscimento ex art. 9.

10 Il comma è stato modificato dapprima dal d.lgs. n. 156/2006, e poi dall’articolo 2 del d.lgs. n.

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Sovviene infatti, a tal fine, la già ricordata figura dell’Ispettore onorario (artt. 47-52 del-la l. n. 386/1907), riproponibile in modo attualizzato con l’attribuzione della qualifica11 a coloro che svolgono, in modo strutturato, un ruolo di pubblico interesse per la salvaguardia del patrimonio locale12. La procedura di attribuzione della qualifica, in passato demandata alla quasi totale discrezionalità del Soprintendente competente13, potrebbe essere integrata da norme regionali in materia di formazione e accreditamento.

Salvo questo specifico aspetto procedurale, potrebbe anche risultare superfluo mo-dificare le ormai secolari norme (artt. 47, 49 e 51) che già attribuiscono agli Ispettori onora-ri – che potrebbero essere anche solo i responsabili delle stesse organizzazioni di volonta-riato culturale – il compito di coadiuvare alla tutela vigilando, dando notizia alla Soprinten-denza competente e, addirittura, promuovendo «i necessari provvedimenti», oltre a svolgere le ulteriori «incombenze che siano state loro commesse» da Stato o Regione.

Si potrebbe in questo modo riprodurre14, per il settore dei beni culturali, lo schema legislativo e il sistema amministrativo di regolazione dei rapporti tra la mano pubblica e il volontariato, già adottato con successo per la creazione del sistema di soccorso sanitario d'urgenza “118”15, grazie al quale anche il personale ministeriale e regionale incaricato della

62 del 2008; il testo risultante (al momento) è il seguente: «Anche indipendentemente dagli accordi di cui al c. 4, possono essere stipulati accordi tra lo Stato, per il tramite del Ministero e delle altre amministrazioni statali eventualmente competenti, le regioni, gli altri enti pubblici territoriali e i privati interessati, per regolare servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali. Con gli accordi medesimi possono essere anche istituite forme consortili non imprenditoriali per la gestione di uffici comuni. Per le stesse finalità di cui al primo periodo, ulteriori accordi possono essere stipulati dal Ministero, dalle regioni, dagli altri enti pubblici territoriali, da ogni altro ente pubblico nonché dai soggetti costituiti ai sensi del c. 5, con le associazioni culturali o di volontariato, dotate di adeguati requisiti, che abbiano per statuto finalità di promozione e diffusione della conoscenza dei beni culturali. All’attuazione del presente comma si provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».

11 Le modalità di “accreditamento” (esame, albo, verifiche periodiche, ecc.). che dovrebbero essere regolate e organizzate a livello regionale, mentre il programma-tipo per i corsi abilitanti, già sperimentato da Legambiente Onlus, di concerto con il Ministero e il Dipartimento della Protezione Civile della Presidenza del Consiglio, diverrebbe un livello di standard nazionale.

12 In particolare sarebbero in questo modo responsabilizzati i referenti operativi delle organizzazioni di volontariato, in quanto accreditati e legittimati a svolgere funzioni di supporto alla tutela, specialmente nelle zone più periferiche rispetto alle sedi delle Soprintendenze. La cronica scarsità di personale e mezzi degli uffici di tutela rende da sempre assai ostico il controllo sistematico di musei, monumenti e siti di minore rilevanza: si pensi al controllo capillare e continuativo delle piccole zone archeologiche, delle chiese isolate o dei ruderi di antichi borghi, castelli o pievi, che sono sempre a rischio di abusi edilizi e degrado, come pure di atti vandalici o di saccheggio.

13 Secondo l’art. 48 della l. n. 386/1907, il Soprintendente esercita tale potere se e quando gli «parrà opportuno».

14 L’ipotesi è stata illustrata per la prima volta in occasione del Convegno “Il volontariato per la cultura” (Regione Emilia Romagna, Bologna, 31 maggio 2002), per iniziativa di Vera Negri Zamagni; si veda M. CARCIONE, I crediti del volontariato, in IBC, (1), gennaio-marzo 2002, pp. 48-52.

15 L’analogia si potrebbe spingere fino all’istituzione di un numero telefonico unico nazionale anche per la segnalazione all’Autorità competente di rischi e abusi a danno dei beni culturali pubblici e privati. Per il volontariato socio-assistenziale, in ossequio al d.p.r. 27 marzo 1992 il sistema è strutturato, nel rispetto dell’attività pubblica di pianificazione, coordinamento e controllo, sulla base di formali convenzioni tra le Aziende sanitarie e le organizzazioni di volontariato più qualificate (non necessariamente tutte), con la previsione di un meccanismo molto selettivo di formazione e accreditamento dei volontari (non tutti gli aderenti alla singola associazione), purché impegnati, formati e abilitati a svolgere servizi di livello professionale. Viene richiesto un accreditamento regionale per i soli volontari specializzati, qualificati e riconosciuti idonei a svolgere funzioni di supporto specialistico al personale medico e ospedaliero; cfr: http://www.salute.gov.it/ProntoSoccorso118

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tutela, come pure i direttori o responsabili delle istituzioni culturali locali16, potrebbero av-valersi del supporto di operatori qualificati, riducendo nel contempo i possibili conflitti di competenza.

Alle ONG così accreditate potrebbe anche essere riconosciuta ex lege la legittima-zione17 a rappresentare i diritti e gli interessi culturali della relativa comunità locale o nazio-nale, in considerazione del fatto che il loro operato si conforma allo spirito dei principi co-stituzionali di cui all’art. 2 (garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali, adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale) della nostra Costituzione. b) Una novità: i “Programmi unitari di valorizzazione territoriale” e le loro analogie con i piani di

gestione dei siti UNESCO

L’art. 27 c. 2 della l. n. 214/2011, di conversione del c.d. Decreto “salva Italia” approvato dal governo Monti in situazione di autentica emergenza nazionale18, ha modificato la l. n. 410/200119, introducendovi un nuovo art. 3-bis, di cui appare significativa l’assonanza e in qualche caso l’analogia con alcune specifiche disposizioni della l. n. 77/2006 e più in generale con le norme recepite dalla Convenzione del Patrimonio mondiale e dalle relative linee guida attuative.

Esso infatti si basa, in primo luogo, sul rispetto dei principi di cooperazione istituzionale, copianificazione e leale collaborazione (c. 1 e 3), prevedendo a tal fine l’istituzione di «sedi stabili di concertazione», le quali assicurano coordinamento, armonizzazione, coerenza e riduzione dei tempi delle procedure di pianificazione, che devono svolgersi in tempi certi (c. 5).

Le modalità operative, intese alla promozione di iniziative di sviluppo economico e coesione sociale, vengono individuate come segue (c. 2, 4 e 5):

- è la Regione che promuove di norma il protocollo d'intesa ex art art. 15 della l. n. 241/1990;

- se sono coinvolti gli immobili dello Stato, il potere d'impulso spetta però al Ministero Economia (Agenzia del Demanio), che ne concorda le modalità con il Ministero utilizzatore

- la formazione del programma unitario di valorizzazione territoriale ha come scopo il riutilizzo di immobili di proprietà dello Stato, della Regione, della Provincia e dei Comuni, con finalità di incremento degli spazi abitativi e delle dotazioni di servizi pubblici locali;

- viene prevista la possibilità di creare una struttura unica di attuazione del programma;

- al fine della verifica della compatibilità tra tali procedure e quelle di tutela dei beni culturali coinvolti, in particolare sotto il profilo dei vincoli posti alle possibilità di riutilizzo e trasformazione, sono previsti «accordi di cooperazione con il Ministero

16 Si potrebbe quindi trattare del personale amministrativo e tecnico di musei, biblioteche,

archivi, siti monumentali e altre istituzioni culturali locali; nelle situazioni di calamità, potrebbero infatti costituire il riferimento e il supporto operativo a livello locale (insieme all’Archivio di Stato, per quanto di propria competenza) del personale territoriale delle diverse Soprintendenze competenti. 17 Non è irrilevante, a tal fine, che del tavolo costitutivo dello Scudo Blu Italiano facessero parte sin dal 2002, insieme alle ONG internazionali, anche Italia Nostra e Legambiente.

18 Si tratta come noto del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, recante “Disposizioni urgenti per la cre-scita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”, conv. in l. 22 dicembre 2011, n. 214 (in G.U. n. 300 del 27 dicembre 2011 - Suppl. Ord. n. 276) .

19 A sua volta legge di conversione del d.l. n. 351/2001.

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Beni Culturali per supporto alla formazione del programma».

Ma l’aspetto che maggiormente colpisce, dal momento che richiama immediatamente alla memoria le misure di tutela e fruizione dei siti UNESCO in precedenza considerate, è la previsione al comma 8 di un accordo di programma, che dal tenore della norma risulta costituire un passaggio procedurale ineludibile20, tanto che per la sua sollecita conclusione viene fissato dal comma 9 un termine perentorio di 120 gg dalla sua promozione.

Di contro, nella nuova normativa non si fa cenno alla redazione di un piano di ge-stione, che è invece previsto per i siti UNESCO21; a tal fine potrebbe però sopperire la re-cente previsione – nel quadro della documentazione a corredo dello studio di fattibilità, previsto al comma 11 del nuovo art. 3 bis – di un piano di manutenzione22, che viene ri-chiesto in modo vincolante e regolato in modo assai dettagliato dagli artt. 38 e 243 del d.p.r n. 207/201023. Se ne può dedurre che, grazie all’azione coordinata di questi due strumenti normativi, e quindi al combinato disposto dei relativi documenti programmatici, entrambi parimenti intesi allo sviluppo rispettoso e compatibile del patrimonio culturale e paesaggistico, esiste già e potrebbe essere ulteriormente istituzionalizzato in tempi brevi un vero e proprio sistema culturale nazionale24, composto da oltre duecento siti (città, borghi, circuiti, paesaggi e singoli complessi monumentali)25, formalmente riferibili in ultima

20 Pur non essendo stato espressamente dichiarato obbligatorio, in questo caso come all’art. 3 c.

3 della l. n. 77/2006. 21 Ai sensi della l. n. 77/2006, art. 3 c. 1. 22 Singolarmente il termine “piano di gestione” è invece utilizzato dall’art. 19 lett. g) del d.p.r. n.

207/2010 solo per il documento di programmazione dello smaltimento dei materiali di cantiere in «cave e discariche».

23 Si tratta del Regolamento di esecuzione e attuazione del decreto legislativo n.163/2006 “Co-dice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture” (d.p.r. 5 ottobre 2010, n.207), come risul-tante dopo l’ultimo aggiornamento (d.l. 13 maggio 2011 n.70, conv. in l. n. 106/2011). Il piano di manu-tenzione è definito «il documento complementare al progetto esecutivo che prevede, pianifica e pro-gramma, tenendo conto degli elaborati progettuali esecutivi effettivamente realizzati, l’attività di manu-tenzione dell’intervento al fine di mantenerne nel tempo la funzionalità, le caratteristiche di qualità, l’efficienza ed il valore economico». L’intento perseguito è di realizzare «modalità per la migliore utilizza-zione del bene, nonché tutti gli elementi necessari per limitare quanto più possibile i danni derivanti da un’utilizzazione impropria, per consentire di eseguire tutte le operazioni atte alla sua conservazione», laddove il termine utilizzazione (o, nel caso di beni culturali, fruizione) risulta essere il contraltare della gestione. Per quanto riguarda i beni del patrimonio culturale, il piano di manutenzione dell’opera e delle sue parti è richiesto già in sede di progetto definitivo (art. 243), in coerenza con la previsione dell’art. 240, comma 4, secondo cui «gli interventi sui beni del patrimonio culturale sono inseriti nei documenti di programmazione dei lavori pubblici e sono eseguiti secondo i tempi, le priorità e le altre indicazioni derivanti dall'applicazione del metodo della conservazione programmata», metodo la cui coerente attuazione richiede (nello spirito dell’art. 29 del Codice dei Beni culturali) che l’azione del gestore sia anche coerente e coordinata; ciò che ben difficilmente può essere conseguito senza un documento a ciò dedicato, in senso non solo formale ma soprattutto sostanziale.

24 Ad esso sarebbe funzionale il già menzionato sistema informatico nazionale della cultura, che dovrebbe includere e coordinare ICCD, SBN, Carta del rischio e gli altri sistemi culturali digitali, come già previsto dal protocollo d’intesa tra MiBAC e Ministero della PA e dell’Innovazione «per la realizzazione di un programma di innovazione per il patrimonio culturale del Paese» del 18 febbraio 2009.

25 Da una sommaria analisi sui 45 siti iscritti nella Lista e sui 40 attualmente presenti in tentative list emerge che (essendo in molti casi plurimi o seriali) essi riuniscono attualmente una trentina di città e borghi, in primis Roma, Venezia, Firenze e Napoli; una quarantina di paesaggi (tra cui ben 10 isole); una dozzina di circuiti che a loro volta uniscono e coordinano non meno di cinquanta realtà minori; anche tra i circa 40 siti e monumenti “singoli” ci sono realtà assai composite e di grande rilevanza come il

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istanza al Ministero anche quando non vengono gestiti direttamente dalle sue strutture burocratiche26, nei quali normalmente hanno sede o si svolgono altrettante istituzioni ed eventi culturali (accademie, teatri, musei e biblioteche, festival, celebrazioni e rassegne nazionali), anch’essi in gran parte facenti capo allo stesso Ministero. Questo sistema gode già formalmente del più alto livello di “priorità” nella conservazione27 – ma dovrebbero averlo, a livello di legislazione regionale, anche le attività di valorizzazione28 – non tanto e non solo perché annovera già quasi tutti i beni culturali più importanti d’Italia (quindi tra i più significativi al mondo), ma proprio in quanto essi sono già stati, sulla base di norme legislative e di procedure amministrative, riconosciuti “di rilievo internazionale” o almeno nazionale; sono inoltre gestiti (o lo saranno) da enti ad hoc, mediante piani e modalità standardizzate. A ciò si aggiunga che, dal punto di vista organizzativo e promozionale, in molti casi fanno già adesso rete tra loro in base alle comuni tipologie (città d’arte, siti archeologici, fortezze, ecc.). Infine, richiamando quanto già rilevato supra in tema di “remuneratività” dei relativi servizi culturali (in tal senso aventi rilevanza economica), sarebbe opportuno considerare la possibilità di una loro gestione unitaria, integrata e fortemente sinergica29. Per un loro più effettivo ed efficace coordinamento in quanto rete di servizi di valorizzazione30, si potrebbe quindi ipotizzare l’istituzione, sull’esempio del settore sanitario in cui opera da anni l’AGENAS, di un’Agenzia nazionale per la valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico, cui sarebbe demandato il coordinamento dei rapporti tra Ministero e Regioni31, a partire dalla

Campo dei Miracoli di Pisa, la Reggia di Caserta, i siti archeologici etruschi e della Magna Grecia o le Ville di Tivoli.

26 In virtù dei già richiamati protocolli e accordi di programma tra Stato e Amministrazioni locali interessate, stipulati ai sensi della l. n. 77/2006 e delle richiamate norme del Codice al momento ed in funzione della candidatura internazionale.

27 Secondo una deleteria prassi italiana, l’art. 3 della l. n. 77/2006 pone esplicitamente il criterio di priorità per i soli finanziamenti relativi a «progetti di tutela e restauro», mentre purtroppo non fa altrettanto per le misure intese a «un corretto rapporto tra flussi turistici e servizi culturali offerti», di cui all’art. 4 comma 1; il fatto che si tratti di una priorità più retorica che effettiva, è peraltro deducibile dalla cautela che caratterizza la successiva clausola: «qualora siano oggetto di finanziamento secondo le leggi vigenti». Cfr. il recentissimo A. CASSATELLA, Tutela e conservazione dei beni culturali nei Piani di gestione UNESCO: i casi di Vicenza e Verona, in Aedon, (1) 2011, secondo il quale, peraltro, detti strumenti sarebbero «privi di autentica efficacia precettiva», essendo al più «qualificabili come strumento di programmazione delle attività di tutela», mentre nessuna attenzione viene dedicata all’analisi delle problematiche di valorizzazione.

28 Lo si potrebbe dedurre, come si è visto (anche se nessuno l’ha ancora posto in rilevo), dall’art. 111 del Codice, in quanto individua tra i principi di valorizzazione vincolanti per il legislatore regionale, anche la «costituzione ed organizzazione stabile» di reti, tra cui è certamente annoverabile il sistema nazionale e mondiale dei siti UNESCO.

29 L’esempio francese ci offre il caso assai interessante della Réunion des Musées Nationaux, che gestisce biglietterie, carte di abbonamento, mostre, edizioni d’arte, boutiques, guardaroba, servizi didattici e bookshops, ma anche acquisti di opere d’arte, archivi fotografici e molti altri servizi di accoglienza e valorizzazione di 35 istituti nazionali; si tratta di un établissement public, che opera sotto la diretta tutela del Ministero della Cultura, Servizio dei Musei di Francia: www.rmn.fr.

30 Malgrado la teoricamente straordinaria rilevanza, oggi l’intero sistema dei siti UNESCO italiani fa capo solamente a un Ufficio del MiBAC cui si affianca (come si è visto) l’Associazione nazionale delle città e dei siti iscritti; cfr.: www.sitiunesco.it.

31 In questo senso può essere intesa la sollecitazione di A. PAPA, Il turismo culturale in Italia, cit., p. 11, secondo cui il raggiungimento degli obiettivi definiti a livello nazionale dalle politiche del turismo culturale “richiede certamente l’individuazione di una sede di cooperazione tra Stato, regioni ed enti locali al fine di evitare iniziative disorganiche e talvolta duplici. Da qui l’opportunità di pensare all’istituzione di un soggetto di riferimento, nel quale tale coordinamento possa essere deciso ed attuato”; la

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definizione, aggiornamento e verifica degli standard (non più solo “museali”), senza trascurare la formazione e l’aggiornamento professionale del personale del settore culturale32, per esempio per quanto concerne la sicurezza e la gestione manageriale. Il presupposto fondante di questo sistema dovrebbe essere che ogni ente locale, consorzio, istituzione, associazione o singolo operatore, professionale o volontario, consideri del tutto fisiologico (più che obbligatorio) farne spontaneamente parte, per ovvie ragioni di convenienza ma ancor più nel rispetto e per l’attuazione – anche nell’anarchico settore culturale – dei principi di leale collaborazione, buon andamento e adeguatezza. Non si dovrebbero più riproporre, in un contesto così coordinato e solidale, le difficoltà e resistenze reciproche tra i diversi livelli istituzionali che avevano bloccato il tanto atteso trasferimento della titolarità e della gestione di musei e monumenti “nazionali” alle regioni o agli enti locali territorialmente competenti, ivi inclusi (almeno per quanto attiene gli edifici e le strutture) gli Archivi di Stato, che diverrebbero così una sorta di “sportello” decentrato dell’amministrazione culturale statale a livello provinciale.

Per completare questo percorso di consapevole coinvolgimento delle realtà monu-mentali e paesaggistiche del territorio nel programma nazionale di valorizzazione così con-cepito, ed avendo presente quale livello di impegni e vincoli di lungo periodo possa com-portare l’iscrizione di un sito nella Lista dell’UNESCO, non appare fuori luogo ipotizzare che l’ente locale primariamente competente (il Comune quando si tratta dell’iscrizione di una città d’arte o di un sito monumentale, la Provincia o la Regione per un sito seriale o un’area paesaggistica) consideri – nell’esercizio della propria autonomia normativa – l’opportunità di inserire una scelta così rappresentativa e impegnativa nel proprio Statuto33.

c) Una prospettiva: il “Diritto a internet” a garanzia dei l.e.p. dei servizi di promozione e fruizione culturale nelle aree periferiche

Tornando brevemente alla questione di carattere generale da cui abbiamo preso le mosse, vale a dire la garanzia dei diritti culturali, prendiamo infine spunto da un’illuminante riferimento fatto da Peter Häberle, nel corso della magistrale “Prima lezione di diritto costi-tuzionale”, tenuta ai dottorandi del XXIV ciclo del DRASD, a pochi giorni dalla conclusio-ne del triennio di corso34.

Non prima di aver richiamato la ben nota teorizzazione della «Costituzione come

soluzione prospettata è però quella di un “comitato nazionale” che prenda il posto del Dipartimento della Presidenza del Consiglio.

32 Per restare in Francia, si segnala il caso assai noto ed emblematico dell’universalmente apprezzata l’École du Louvre, la prestigiosa e selettiva fucina dei museologi (direttori e conservatori) transalpini, che costituisce anche un centro di formazione e aggiornamento di rilevanza mondiale del settore culturale. Fondata nel 1882, essa ha forma di établissement d'enseignement supérieur: www.ecoledulouvre.fr.

33 G.C. DE MARTIN, Autonomie e policentrismo normativo prima e dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Studi in onore di Fausto Cuocolo, cit., pp. 397-403 sottolinea che lo Statuto e i regolamenti di autonomia, dopo la recente riforma, sono divenuti la «sede precipua di determinazione dell’identità di ciascun ente autonomo nei suoi rapporti storici con il territorio»; M. CARCIONE, Gestione dei siti culturali, cit., pp. 231 ss.

34 La conferenza, preceduta dagli interventi dei professori Renato Balduzzi e Jörg Luther, ha avuto luogo il 25 ottobre 2011 nella Sala dei seminari del Dipartimento di Scienze giuridiche ed economiche “A. Galante Garrone” di Alessandria; il giorno seguente si è ripetuta a Torino, su invito del prof. Gustavo Zagrebelsky, presso l’Aula Magna dell’Università degli Studi. Ringrazio sentitamente il prof. Häberle che mi ha cortesemente autorizzato a citare il suo testo, del quale è prevista la pubblicazione nell’Annuario DRASD 2012.

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scienza della cultura»35 e come «stadio di sviluppo culturale, strumento di auto-rappresentazione culturale del popolo e specchio del suo patrimonio culturale» (punto VI), ma anche la felicissima definizione del «diritto internazionale come un diritto costituzionale dell’umanità» (punto IX)36, mi permetto di sottolineare in modo particolare il passaggio con-clusivo del punto III:

«Il catalogo dei diritti fondamentali è aperto: ovunque l’uomo viene messo in pericolo nella sua dignità, è dovere dello Stato costituzionale rispondere con nuovi diritti fondamentali! Un esem-pio attuale è proprio il diritto fondamentale all’INTERNET (discusso oggi in Perù), in fondo una specificazione della libertà di manifestazione del pensiero e della libertà di riunione. Quan-to sia diventato indispensabile è reso evidente dal fatto che nella ‘primavera araba’ del 2011 i regimi autoritari di Libia e Siria lo hanno bloccato. In questo contesto è appena il caso di ag-giungere che i titolari di diritti fondamentali possono essere non solo singoli esseri umani, ma anche gruppi come i sindacati, o le istituzioni come le università in relazione alla libertà della scienza»37.

Anche se per fortuna in Italia non siamo più soggetti alle limitazioni dei diritti fon-damentali tipiche dei regimi dittatoriali (e si spera che non torneremo ad esserlo prossima-mente), analoghe considerazioni possono valere in certa misura anche con riferimento al problema, poc’anzi evidenziato, della promozione e diffusione della cultura e della cono-scenza al di fuori delle aree metropolitane e urbane: una questione certo meno drammatica rispetto a quanto è accaduto nel corso della c.d. “Primavera araba”, ma altrettanto significa-tivo sul piano della concreta e generalizzata garanzia dei diritti culturali. Non c’è dubbio che attualmente quasi tutti i servizi culturali si concentrano quasi esclusivamente nelle grandi e medie città, nei capoluoghi di regione e di provincia, con il che non si può dire che siano effettivamente e pienamente rispettati e garantiti tutti i diritti culturali: meritano infatti considerazione e rispetto, evidentemente, anche quelli di coloro che abitano nei centri abitati più piccoli e disagiati, ad esempio nelle zone più rurali o montane, se non si vuole impoverire ulteriormente il tessuto culturale, sociale ed economico dei territori extraurbani e preiferici38. A tal fine una soluzione potrà essere costituita dalla reintroduzione in ogni comune del “posto pubblico” di accesso alle linee di comunicazione: come un tempo si garantiva a tutti il diritto di fruire del telefono (e in qualche caso anche dei primi apparecchi televisivi),

35 P. HÄBERLE, Per una dottrina della Costituzione come scienza della cultura, cit.; nel testo distribuito ai

partecipanti alla conferenza (trad. di J. Luther), Häberle indicava come diritti fondamentali, «la libertà di religione, la libertà di opinione e di stampa, ma anche diritti fondamentali sociali come il diritto all’istruzione» (punto III).

36 In tedesco konstitutionellem Menschheitsrecht; va sottolineato che Häberle ha fatto diretto riferimento ai Patti ONU per i diritti umani, affermando in proposito che «il diritto internazionale è oggi forse il settore disciplinare giuridico più interessante».

37 Nel corso del dibattito, rispondendo in modo affermativo alla mia specifica domanda circa l’estendibilità delle succitate considerazioni anche al diritto individuale alla conoscenza, sotto forma di consultazione tramite internet di musei virtuali, banche dati, archivi e librerie digitali, Häberle ha fatto riferimento proprio a un «diritto al libero accesso a tutti i beni culturali» di cui si trovano riferimenti in alcune costituzioni del Sudamerica, ed in connessione ad esso ai nuovi servizi digitali offerti da archivi, biblioteche e musei.

38 Come noto, ormai da anni si sta manifestando la tendenza, per le ragioni più diverse e talvolta opposte (ma normalmente connesse a tematiche economico-sociali e ambientali), a lasciare le metropoli per tornare a vivere nei centri minori o addirittura in campagna, ad esempio avvalendosi delle nuove modalità di prestazione del lavoro a distanza ai sensi del d.p.r. 8 marzo 1999, n. 70, recante “Disciplina del telelavoro nelle pubbliche amministrazioni, a norma dell’articolo 4, comma 3, della legge 16 giugno 1998, n. 191), oltre che dal Codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82).

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oggi chiunque deve poter disporre della linea Internet ADSL, della “banda larga” o almeno della connessione satellitare.

Il servizio dovrebbe essere fruibile presso una postazioni internet pubblica, assistita e gratuita39, collocata presso l’URP della sede comunale oppure nella biblioteca civica; se però questo non dovesse risultare possibile, non ci sarebbe nulla in contrario a collocarla presso un’associazione Pro loco, nel bar del paese o addirittura presso un privato cittadino, purché alle stesse condizioni di accessibilità. Dal punto di vista giuridico, si tratta di un livello elementare di attuazione della fun-zione fondamentale del Comune in campo culturale, che dovrebbe dunque essere formalmente ed espressamente codificata come tale, ex art. 117 c. 2 lett. p) Cost., ma è anche una sempli-ce e ormai poco onerosa modalità di attuazione (e quindi la garanzia) di un livello essenziale di prestazioni concernenti i diritti (civili e sociali) culturali, «che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»40, anche a fini di «pubblica fruizione del bene»41.

In questo senso va anche la norma recentemente introdotta (comma 2-bis)42 all’art. 29 della legge n. 241/1990 e s.m.i., secondo la quale «attengono ai livelli essenziali delle pre-stazioni (…) le disposizioni della presente legge concernenti gli obblighi per la pubblica amministrazione (…) di assicurare l'accesso alla documentazione amministrativa».

In questo modo, non dovrà più risultare problematica o addirittura impossibile, per chiunque, l’acquisizione di qualsiasi informazione, certificato, dato tecnico o amministrati-vo, ed anche di ogni altro genere di conoscenze o immagini: incluse, naturalmente, quelle relative a un reperto archeologico o un incunabolo medioevale, un capolavoro dell’arte ri-nascimentale o un raro documento scientifico, un trattato di economia o l’ultima invenzio-ne tecnologica (sempre nel rispetto delle norme poste a tutela del diritto d’autore e della proprietà intellettuale), in qualunque stato o località nel mondo43 siano conservati gli origi-nali44.

39 Anche se si tende a considerare ormai universale l’accesso al web, e quindi a tutte le relative

informazioni indispensabili per la vita quotidiana (si pensi alle banche dati legislative, ai servizi on-line delle amministrazioni pubbliche, delle Agenzie delle entrate o del territorio, dell’INPS, ecc.), non si deve sottovalutare il ritardo e le difficoltà che ancora oggi devono scontare, specialmente nei paesi più piccole, nelle zone montane o rurali, in particolare le persone disagiate o anziane, oppure gli stranieri non pienamente integrati. Si richiama in proposito la sentenza della C.Cost. n. 364/1998, in materia di ignoranza incolpevole della legge e dell’onere incombente sul cittadino di informarsi (e quindi conoscere) tutte le norme vigenti sin dal momento della loro pubblicazione. Analoga situazione si sta da tempo verificando con riferimento alla presenza nei piccoli comuni delle postazioni dei circuiti nazionali bancomat o postamat, in grado di garantire all’utenza gran parte dei servizi che un tempo richiedevano la presenza di uno sportello e del relativo personale.

40 Ai sensi dell’art. 117 c. 2 lett. m) Cost. 41 G. SCIULLO, Valorizzazione, gestione e fondazoni, cit., p. 9; altrove lo stesso Autore cita a sostegno di

tale affermazione la sentenza C.Cost n. 272/2004, poiché la determinazione di l.e.p. sarebbe l’unico “aggan-cio” invocabile a giustificazione di un intervento legislativo statale in materia di servizi (culturali) non econo-mici (G. SCIULLO, Gestione dei servizi, cit., p. 1). Infine per F. PIETRANGELI, op.cit., p. 47, la riorganizzazione de-centrata dei servizi culturali deve essere considerata alla luce dei nuovi «livelli essenziali delle prestazioni con-cernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».

42 Articolo così modificato dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15 e dalla l. 18 giugno 2009, n. 69. 43 Evidentemente lo stesso tipo di accesso potrà e dovrà essere garantito anche alle comunità

locali dei Paesi in via di sviluppo, tramite i programmi dell’ONU e delle ONG finalizzati allo sviluppo di sistemi e tecnologie telematiche a basso costo e consumo di energia.

44 C. VITALE, La fruizione dei beni culturali, cit., pp. 193-195, nel paragrafo “L’impatto della globalizzazione” si sofferma proprio sulle diverse accezioni di fruizione che si possono declinare con riferimento alle nuove tecnologie.Anche a tal fine il riferimento istituzionale e amministrativo sarà costituito dal Protocollo del 18 febbraio, citato poc’anzi, nella parte in cui prevede la realizzazione di un

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Recent working papers

The complete list of working papers is can be found at http://polis.unipmn.it/index.php?cosa=ricerca,polis

*Economics Series **Political Theory and Law ε Al.Ex Series

Q Quaderni CIVIS

2013 n.210** Massimo Carcione: La garanzia dei diritti culturali: Recepimento delle norme internazionali, sussidarietà e sistema dei servizi alla cultura

2013 n.209** Maria Bottigliero et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.3/2013

2013 n.208** Joerg Luther, Piera Maria Vipiana Perpetua et. al.: Contributi in tema di semplificazione normativa e amministrativa

2013 n.207* Roberto Ippoliti: Efficienza giudiziaria e mercato forense

2013 n.206* Mario Ferrero: Extermination as a substitutefor assimilation or deportation: an economic approach

2013 n.205* Tiziana Caliman and Alberto Cassone: The choice to enrol in a small university: A case study of Piemonte Orientale

2013 n.204* Magnus Carlsson, Luca Fumarco and Dan-Olof Rooth: Artifactual evidence of discrimination in correspondence studies? A replication of the Neumark method

2013 n.203** Daniel Bosioc et. al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.2/2013

2013 n.202* Davide Ticchi, Thierry Verdier and Andrea Vindigni: Democracy, Dictatorship and the Cultural Transmission of Political Values

2013 n.201** Giovanni Boggero et. al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.1/2013

2013 n.200* Giovanna Garrone and Guido Ortona: The determinants of perceived overall security

2012 n.199* Gilles Saint-Paul, Davide Ticchi, Andrea Vindigni: A theory of political entrenchment

2012 n.198* Ugo Panizza and Andrea F. Presbitero: Public debt and economic growth: Is there a causal effect?

2012 n.197ε Matteo Migheli, Guido Ortona and Ferruccio Ponzano: Competition among parties and power: An empirical analysis

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2012 n.196* Roberto Bombana and Carla Marchese: Designing Fees for Music Copyright Holders in Radio Services

2012 n.195* Roberto Ippoliti and Greta Falavigna: Pharmaceutical clinical research and regulation: an impact evaluation of public policy

2011 n.194* Elisa Rebessi: Diffusione dei luoghi di culto islamici e gestione delle conflittualità. La moschea di via Urbino a Torino come studio di caso

2011 n.193* Laura Priore: Il consumo di carne halal nei paesi europei: caratteristiche e trasformazioni in atto

2011 n.192** Maurilio Guasco: L'emergere di una coscienza civile e sociale negli anni dell'Unita' d'Italia

2011 n.191* Melania Verde and Magalì Fia: Le risorse finanziarie e cognitive del sistema universitario italiano. Uno sguardo d'insieme

2011 n.190ε Gianna Lotito, Matteo Migheli and Guido Ortona: Is cooperation instinctive? Evidence from the response times in a Public Goods Game

2011 n.189** Joerg Luther: Fundamental rights in Italy: Revised contributions 2009 for “Fundamental rights in Europe and Northern America” (DFG-Research A. Weber, Univers. Osnabrueck)

2011 n.188ε Gianna Lotito, Matteo Migheli and Guido Ortona: An experimental inquiry into the nature of relational goods

2011 n.187* Greta Falavigna and Roberto Ippoliti: Data Envelopment Analysis e sistemi sanitari regionali italiani

2011 n.186* Angela Fraschini: Saracco e i problemi finanziari del Regno d'Italia