lezioni di organizzazione aziendale dispensa di … di... · che un insieme di persone che...

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Università Roma Tre

Facoltà di Scienze della Formazione

Corso di Laurea Magistrale in Management del Servizio Sociale

ad indirizzo Formativo Europeo

2009/2010

LEZIONI DI ORGANIZZAZIONE AZIENDALE

Dispensa di supporto alla didattica

Prof. Fabrizio Dafano

a cura della dr.ssa Federica Petardi

Materiale didattico ad uso esclusivo interno.

E’ vietata ogni riproduzione e diffusione senza autorizzazione. PREMESSA

Il presente documento è il frutto delle lezioni da me tenute durante il corso di “Organizzazione aziendale”, tradotte in appunti dalla dr.ssa Federica Petardi, cultore della materia presso l’insegnamento in questione (cui va il ringraziamento mio e soprattutto degli studenti), e assieme riesaminate.

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Il contenuto è strettamente correlato ai libri di testo del prof. Antonio Cocozza (cui va la mia stima e la mia gratitudine, per aver reso possibile questo ed altri progetti di ricerca e d’insegnamento), ma è anche il frutto della mia – ormai trentennale - esperienza di funzionario, prima, e di consulente, poi, all’interno di organizzazioni di lavoro di diversa natura.

Fabrizio Dafano

Testi consigliati e materiali didattici:

1. Cocozza A. (2006), Direzione risorse umane – Politiche e strumenti per l’organizzazione e la gestione delle relazioni di lavoro, Franco Angeli, Milano - Capitolo 1 (pagg. 21-92);

2. Cocozza A. (a cura di) (2010), Persone Organizzazioni Lavori. Esperienze innovative di comunicazione d’impresa e valorizzazione delle risorse umane, Franco Angeli, Milano: Dafano F. Dalla comunicazione interna alla comunicazione organizzativa: il caso American Express (pagg. 91-114); Garasi C. Il miglioramento della qualità dei servizi pubblici attraverso i “circoli della qualità” nell’Agenzia del territorio (pagg. 208-238);

3. Dafano F. (2010), Considerazioni sulle Organizzazioni non profit in una prospettiva di epistemologia organizzativa (2010) – Saggio breve a supporto delle lezioni e disponibile online alla voce “Materiali didattici”.

SOMMARIO

1. Lezione introduttiva 4 2. Le teorie dell’organizzazione e sviluppo dei modelli organizzativi 5

Ø Approfondimento sul concetto di organigramma 7

3. La teoria generale dei sistemi 10 4. Nuovi paradigmi esplicativi 13

Ø Approfondimento sul concetto di potere: il modello dei circoli del potere 15

5. Il carattere polisemico del concetto di organizzazione 17

Ø Approfondimento sul concetto di delega 18

6. La classificazione delle diverse tipologie di organizzazioni 20 7. Il concetto di governance 26

Ø Approfondimento: le organizzazioni e il concetto di globalizzazione 26

8. L’organizzazione scientifica del lavoro: il Taylorismo 32

Ø Approfondimento: il concetto di Neotaylorismo e il caso McDonald’s 34

9. Il Taylorismo 36

Ø Approfondimento: la teoria organizzativa classica 37

10.La scuola delle human relations e quella comportamentista e motivazionale 42

Ø Approfondimento: Barnard e la parabola del masso 43

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Ø Approfondimento: la teoria dei bisogni di Maslow 46

11.L’approccio motivazionalista e comportamentista: Herzberg e Likert 48

Ø Approfondimento: Rensis Likert e gli stili di leadership 50

12.Simon e Mintzberg 52

Ø Approfondimento: Henry Mintzberg e la teoria della “contingenza” 53

13.Questionario 58

1. Lezione introduttiva

Analizzare un’organizzazione è compito tanto affascinante quanto impegnativo, poiché le organizzazioni di lavoro sono fenomeni complessi non riconducibili ad un unico paradigma interpretativo.

Alcuni autori propongono diversi modelli di lettura delle organizzazioni; Gareth Morgan, ad esempio, nel suo libro “Images. Le metafore dell’organizzazione” non propone una definizione ed un punto di vista, ma uno strumento linguistico: la metafora. Così facendo, si creano delle connessioni anche irrazionali che permettono di avere una visione più ampia, ovvero sistemica, della complessa realtà che stiamo esaminando.

Morgan parte da questo presupposto per sostenere che “le organizzazioni, possono essere più realtà nello stesso momento”: macchina, organismo, cervello, caratterizzano alcune, probabilmente le più rilevanti, dimensioni in cui si snoda la complessità organizzativa (dal latino complexus, participio passato di complecti, abbracciare, comprendere). Per ‘complessità’ intendiamo, dunque, un concetto ampio, non riducibile ad operazioni di schematizzazione della varietà fenomenica tramite analisi semplicistiche, ciò allo scopo di poter predisporre più facilmente risposte apparentemente valide ai problemi e agli interrogativi posti dall’organizzazione, ai suoi dilemmi e ai rapporti con l’ambiente in cui è immersa.

A ciò va aggiunta un’altra riflessione dello stesso Morgan: “Un’organizzazione non ha altra esistenza se non quella delle persone che la fanno vivere”. In effetti, l’organizzazione non è altro che un insieme di persone che interagiscono e che condividono il senso dell’azione comune. L’individuo rappresenta una variabile strategica, una risorsa attiva su cui investire e su cui poter contare più del capitale finanziario o dell’apporto delle tecnologie.

Possiamo, infine, sostenere che la realtà organizzativa aziendale non è solo una realtà complessa, ma è strutturalmente problematica (ricordiamo che un’organizzazione nasce per risolvere problemi) e una sua adeguata comprensione necessita di un approccio epistemologico, quindi di ricerca scientificamente orientata alla conoscenza, basato su di un apparato teorico di tipo interdisciplinare.

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2. Le teorie dell’organizzazione e sviluppo dei modelli organizzativi

Com’è ricordato dalla letteratura sociologica più evoluta, nel corso della storia del pensiero organizzativo il termine “organizzazione” ha assunto un contenuto sempre più polisemico; infatti, nelle scienze sociali viene utilizzato in diverse accezioni; pertanto, occorre prendere coscienza dell’impossibilità di una definizione di organizzazione “come da manuale”, o meglio che ogni manuale ha la propria definizione di “organizzazione”.

Ciò premesso, come primo passo verso la conoscenza di un mondo tanto variegato quanto complesso, possiamo definire, secondo un percorso euristico, “le diverse tipologie di organizzazioni di lavoro come costituite da un insieme di risorse umane che interagiscono tra di loro secondo obiettivi prescritti, sulla base di una divisione di ruoli e di compiti per il raggiungimento di risultati predefiniti”.

A supporto di tale definizione, è interessante analizzare il modello delle 7 S, sviluppato nel 1979 da Richard Pascale, in collaborazione con Anthony Athos dell’Harvard Business School, Robert Waterman e Tom Peters che, all’epoca, erano colleghi di Pascale in McKinsey.

Dalla metà degli anni ’80 il modello delle 7 S è diventato uno degli strumenti manageriali più significativi e adottati dalle aziende per monitorare la propria coerenza strategica e il proprio funzionamento.

Infatti, il principale contributo che questo modello ha apportato alla gestione d’impresa deriva proprio dalla sua concezione olistica e sistemica dell’organizzazione. Anziché limitarsi a definire la struttura organizzativa più coerente alla realizzazione operativa della strategia aziendale, il modello delle 7 S ci invita a pensare in modo globale alla strategia, dando evidenza alle interconnessioni esistenti tra tutte le principali variabili aziendali, che interagendo e influenzandosi reciprocamente, danno vita ad un vero e proprio sistema.

L’insieme dei fattori rappresentati nello schema delle 7 S, determina il modo in cui un’azienda deve operare. Sette sono le principali variabili che tale modello prende in considerazione, tre variabili “hard” e quattro “soft”.

Le Variabili “hard” sono:

1. La Strategia è una variabile che deve diventare hard, nel senso che deve essere definita, comunicata e realizzata attraverso modalità organizzative e gestionali coerenti e tendenti al risultato. Esistono strategie di breve, medio e lungo periodo, ma la maggior parte delle strategie poste in essere sono tendenzialmente di breve periodo in quanto le organizzazioni sono chiamate a rispondere sempre più celermente e proattivamente alle sfide e alle sollecitazioni che di volta in volta si presentano e che provengono dall’ambiente esterno, ma non solo.

2. La Struttura si riferisce al mondo in cui un’azienda è organizzata: in breve a come “le caselle” sono sistemate all’interno dell’organigramma. Negli ultimi anni il concetto di struttura ha perso di centralità, in quanto essendo le organizzazioni sempre più dinamiche, l’organigramma non può essere rigido e fisso ma flessibile, cioè in grado di adeguarsi alle esigenze organizzative e gestionali dell’azienda.

3. I Sistemi attengono alle procedure, ai processi, alla tecnologia in uso nell’organizzazione. Essi devono indicare il modus operandi per il raggiungimento di adeguate performance.

Le variabili “soft” sono:

4. Lo Style si riferisce al modo di concepire, di proporre e di gestire l’azienda. Dunque, allo stile di leadership tenuto dai manager dell’organizzazione.

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5. Lo Staff attiene al dato effettivo delle risorse umane presenti in azienda. E’ strettamente legato alla struttura: sulla base degli individui che popolano l’organizzazione, occorre distribuirli in maniera ottimale affinché possano esprimere al meglio le loro professionalità e potenzialità. Ciò è interrelato e correlato alle skills.

6. Le Skills indicano le competenze e le conoscenze delle risorse umane, che le distinguono effettivamente dalla concorrenza. Costituiscono il patrimonio intangibile dell’organizzazione nel suo complesso.

7. Il centro di interconnessione del Modello di McKinsey è rappresentato dai Valori condivisi, che indicano la “filosofia” adottata dall’organizzazione. Già per il fatto di essere gruppi di individui, anche le organizzazioni producono “cultura”. Si parla così di cultura organizzativa come l’insieme degli «artefatti» (simboli, riti, cerimoniali, immagini, ecc.), dei «valori» (principi e credenze che appartengono alla filosofia dell’organizzazione) e degli «assunti di base» (valori appresi che si sono trasformati nella nostra mente in categorie implicite sullo stato di cose) che guidano ed orientano il comportamento di tutti coloro che ne fanno parte.

Per le organizzazioni, i valori sono allo stesso tempo presupposto e punto d’arrivo: quanto più sono condivisi e diffusi, tanto più riusciranno ad influenzare ed interagire positivamente con le altre variabili del modello. Per tale ragione, vengono considerati una metavariabile che genera e racchiude tutte le altre. In definitiva, la cultura organizzativa tende a “muovere i cuori degli individui” e ad unire gli scopi degli uomini con quelli dell’organizzazione.

Il valore di uno schema come quello delle 7 S risiede, quindi, nel fatto che esso impone un’analisi delle organizzazioni di lavoro da tutti i punti di vista, sia quelli “duri” (strategia, struttura e sistemi), sia quelli “morbidi” o più precisamente intangibili (style, skills, staff e shared values).

Occorre precisare, inoltre, che la definizione che prima abbiamo dato di organizzazione non include la dimensione della cultura organizzativa, in quanto si riferisce all’organizzazione di lavoro formalmente costruita, la cui rappresentazione principale è data dalla struttura dell’organigramma (vedi approfondimento). Ma, oltre all’universo formale esiste un universo informale in cui regole e comportamenti non sono prescritti, ma sono il risultato di una serie di interazioni e scambi, che partono, o talvolta prescindono, dalla struttura formale strategicamente pre-definita.

È proprio questo il punto dal quale Chris Agyris, esponente dell’”Action Science”, parte per sostenere che nelle organizzazioni possono coesistere, non senza conflitti, due diverse tipologie di teorie alla base dei progetti di azione: la “teoria dichiarata” (“expoused theory”) che esprime valori, credenze e atteggiamenti ufficiali, espliciti, conclamati e formalizzati dall’organizzazione, e la “teoria effettiva”(“theory in use”), quella che viene seguita nella realtà di tutti i giorni e che, invece, è rappresentativa dell’universo informale.

Mentre la prima richiede un’adesione rituale e cerimoniale, nel senso che deve essere ribadita e rispettata formalmente, la seconda implica un’adesione sostanziale ancorché non esplicita, formalizzata o addirittura inconsapevole.

Sulla base di quanto appena illustrato, possiamo affermare che quanto più un’organizzazione riesce a ridurre lo scarto tra l’universo formale e quello informale, tanto più risulterà elevata la probabilità di raggiungere gli obiettivi programmati.

A tal proposito, Miles e Snow nel 1996 delineavano, in prospettiva, la fisionomia delle organizzazioni del XXI secolo: particolarmente snelle (minimali), con poche persone, che tenderanno ad interagire in una logica di self management (imprenditori di se stessi), e saranno capaci di svolgere una molteplicità di iniziative e di ruoli.

Da ciò si evince con estrema chiarezza che l’ampio bagaglio di regole, norme e contratti di lavoro

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risulta essere un elemento necessario ma mai sufficiente a costruire e mantenere nel tempo un’organizzazione coerente, responsabile, innovativa, efficiente ed efficace.

Infine, l’applicazione della logica sistemica alle dinamiche che si sviluppano nelle organizzazioni non può assolutamente prescindere da un apparato teorico multidimensionale, capace di prendere in esame le culture e le strategie organizzative (oggettive) e quelle individuali (soggettive) se s’intende comprendere adeguatamente ed approfonditamente la crescente complessità insita nell’evoluzione delle varie tipologie di organizzazioni.

Approfondimento sul concetto di organigramma

Il caso di studio riguarda una scuola di formazione di una grande impresa di servizi con un organigramma di tipo gerarchico-funzionale formato da quattro aree. Tale organizzazione avverte dei problemi orizzontali, cosiddetti di line.

Direzione

Commerciale & Sviluppo

Amministrazione

Gestione

Progettazione

Più precisamente, la scuola accusa problemi di comunicazione, in quanto ciascuna area riferisce sull’espletamento delle attività alla Direzione, conseguentemente quest’ultima si ritrova a svolgere

funzioni di smistamento di attività e processi. Ciò ha determinato la necessità di un cambiamento, non solo per la situazione disagevole che di volta in volta si presenta ma anche per l’esistenza di seri problemi organizzativi, quali le ripetizioni di attività, le sovrapposizioni o i vuoti di presidio.

Si è pensato, quindi, che il punto dal quale partire per risolvere tale problematica fosse il processo formativo. In effetti, con interventi mirati si è modificato l’agire organizzativo facendo leva su una strutturazione per processi.

Vediamo come.

La letteratura ci suggerisce che il processo formativo si articola in quattro fasi:

Valutazione

(4)

Analisi

(1)

Progettazione

(2)

Erogazione

(3)

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Direzione

1 5

Progettazione

2 3 5

Gestione

4

Amministrazione

4

Commerciale & Sviluppo

1 5

Nella prima fase, la scuola di formazione svolge l’analisi del bisogno formativo, incontrando la Direzione e l’Area Commerciale & Sviluppo per illustrare la tipologia di intervento che intende sviluppare. In seconda battuta l’area Progettazione si occuperà, attraverso l’acquisizione di dati, informazioni e indicazioni che partono dalle esigenze dell’organizzazione, della rilevazione e realizzazione del fabbisogno formativo con metodiche socio-analitiche.

Nella seconda fase di progettazione, sono i tecnici dell’area Progettazione a programmare e definire i contenuti veri e propri da trattare, i programmi didattici da seguire ed il corpo docenti.

Nella terza fase, poi, si dà vita al cuore del processo, ovvero all’attuazione dell’attività didattica nonché alla rendicontazione di tutti gli oneri e le spese da sostenere. Fondamentale, a tal proposito, risulta il coinvolgimento dell’area Gestione e l’area Amministrazione per l’espletamento di tali attività.

La quarta ed ultima fase attiene alla valutazione da parte dell’area Progettazione:

dell’efficacia dell’intervento formativo; del gradimento dell’intervento formativo; della possibilità di sviluppare ulteriori progetti formativi. In tal caso la valutazione effettuata

va ad alimentare, sulla base dei dati acquisiti e dei risultati raggiunti, la primordiale fase di analisi dei bisogni formativi. In questo modo, l’area Direzione e l’area Commerciale & Sviluppo ritornano ad interessarsi di nuovi processi e progetti di formazione.

A ben vedere, l’aver introdotto all’interno di un’organizzazione tradizionale una realtà nuova come quella della gestione per processi ha richiesto cambiamenti strutturali, ma anche culturali. L’approccio per processi non è certo cosa facile perché si utilizzano risorse condivise, il processo è trasversale all’organizzazione e, quindi, più difficile da gestire.

In estrema sintesi:

1. i compiti delle persone che collaborano all’interno di un processo sono noti a tutti i colleghi, c’è una condivisione degli impegni e delle conoscenze, e non più una rigida

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suddivisione tra aree; 2. ogni area esercita un autocontrollo sul proprio lavoro senza appoggiarsi a supervisori ad

ogni livello gerarchico; la Direzione, quindi, non è più centro di smistamento di attività e funzioni ma area che interviene nelle diverse fasi attraverso i centri di responsabilità di ogni fase del processo;

3. si lavora per perseguire obiettivi ben definiti e chiari a tutti; 4. le informazioni circolano più velocemente, il tempo d’attraversamento diminuisce. C’è un

ritorno costante di informazioni da parte di tutti i collaboratori; 5. si evitano le attività ridondanti; 6. i manager diventano dei leader. Possono essere assimilati a dei coach che cercano di

migliorare costantemente le performance del proprio team; 7. ci si focalizza sul cliente (esterno o interno), assicurando servizi ad alti standard qualitativi e

maggiore chiarezza sui referenti delle varie fasi del processo.

3. La teoria generale dei sistemi

Negli ultimi anni nelle scienze sociali si tende ad accostare il concetto di organizzazione a quello di “organismo animato”, così da avvicinare le scienze sociologiche a quelle biologiche. Nel mondo della biologia gli organismi, nel riprodurre esseri simili a se stessi (autopoiesi), hanno una tendenza innata alla sopravvivenza ma, non senza processi di trasformazione funzionali e/o strutturali negli stadi di crescita e sviluppo dell’organismo, dovuti alla loro continua interazione con l’ambiente in cui vivono.

Parallelamente, i teorici delle scienze dei sistemi concordano nel sostenere che se un organismo vivente possiede capacità di adattamento all’ambiente in cui vive in termini di sopravvivenza, crescita e sviluppo, lo stesso possa valere per i fenomeni organizzativi in senso stretto. Più precisamente, se è vero che le organizzazioni di lavoro sono assimilabili agli organismi viventi, allora anch’esse saranno in grado di trasformarsi ed evolvere nel contesto in cui operano.

Quanto appena sottolineato, viene approfondito dalla teoria generale dei sistemi. Concetti chiave di tale modello teorico sono:

“sistema aperto”: i sistemi organici si trovano in uno stato di continuo interscambio con l’ambiente. Questo interscambio è fondamentale per la conservazione della vita e della forma del sistema, dal momento che l’interazione ambientale è il fondamento della sopravvivenza. Se volessimo fare dei parallelismi, prendendo sempre in prestito le scienze biologiche, avremmo:

Molecole Individui

Cellule Gruppi

Organismi complessi Organizzazioni

Specie Popolazioni organizzative/diverse specie di organizzazioni

Ambiente Ecosistema sociale

I “sistemi aperti” sono caratterizzati da un ciclo continuo: input, trasformazione interna, output e feedback.

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La natura aperta dei sistemi biologici e sociali si contrappone alla natura chiusa di molti sistemi fisici e meccanici. E’ quanto sostiene anche Morgan nel suo libro “Images. Le metafore dell’organizzazione” utilizzando la metafora dell’orologio. L’orologio, afferma lo studioso, è un sistema chiuso che se sottoposto all’ambiente esterno, questo lo danneggia. Pertanto, un ambiente chiuso è deterministico, ovvero risponde alla legge causa/effetto. Molti settori della Pubblica Amministrazione tendono ad essere sistemi chiusi, cioè autoreferenziali.

Omeostasi: autoregolamentazione e capacità di un organismo di mantenersi in uno stato determinato.

Stabilità e identità sono realizzate da processi omeostatici che regolano e controllano il funzionamento sistemico sulla base di quello che viene chiamato “feedback negativo”. Dinanzi a disfunzioni e disservizi le organizzazioni sono chiamate ad attivarsi per risolverli e per giungere, così, ad un nuovo equilibrio.

Entropia negativa: i sistemi chiusi tendono a deteriorarsi e decadere; i sistemi aperti, invece, tendono a sostenersi importando energia ed espellendo le tendenze entropiche (entropia negativa). Si parla, dunque, di implosione interna al sistema.

Struttura, funzione, differenziazione ed integrazione: i sistemi aperti tendono a distribuire le funzioni necessarie alla sopravvivenza e allo sviluppo, attraverso centri specializzati ad alto grado di complessità interattiva.

capacità di

cooperazione

organigramma attività esercitata da una struttura capacità di attribuire funzioni diverse a strutture diverse

Varietà necessaria: i meccanismi regolatori interni di un sistema devono essere tanto variegati quanto lo è l’ambiente relativo. Qualunque sistema che si isolasse dalla diversità dell’ambiente tenderebbe ad atrofizzarsi e a perdere in maniera caratteristica la sua complessità.

Equifinalità: in un sistema aperto possono essere disponibili più vie per realizzare uno stato finale previsto e temporaneo (obiettivo). Due sono le modalità più utilizzate dalle organizzazioni. A tal proposito, si parla di: - navigazione a vista quando ci si trova davanti più strade diverse tra loro per il perseguimento di determinati scopi; - navigazione a mappa quando, al contrario, si ha un percorso strategico ben preciso da seguire.

La struttura di un sistema in ogni momento dato, non è altro che un aspetto o una manifestazione di processi funzionali più complessi; non è essa a determinare tali processi. Ciò può avvenire solo ed esclusivamente con il coinvolgimento delle risorse umane che popolano l’universo organizzativo di riferimento.

Evoluzione sistemica: la capacità di un sistema di evolversi dipende dalla capacità di passare a più complesse forme di differenziazione e di integrazione nonché ad una maggiore varietà sistemica in grado di favorire la sua capacità di affrontare le sfide e le opportunità presentategli dall’ambiente. Quindi, quanto più un sistema è in grado di fronteggiare le sfide poste dall’ambiente esterno tanto più evolve. Più segue un approccio evolutivo, più risulta ambizioso, ovvero costantemente insoddisfatto. L’insoddisfazione porta il sistema a perseguire obiettivi sempre più sfidanti. Se ciò non fosse, l’entropia lo deteriorerebbe.

Queste prime considerazioni ci permettono di prendere coscienza di due elementi di fondamentale

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importanza per le scienze dell’organizzazione:

la presenza di particolari processi di differenziazione dei modelli organizzativi; la grande capacità degli organismi naturali di attivare processi di interazione e di

adattamento ai continui mutamenti che l’ambiente nel quale vivono stimola, induce, o a volte, impone.

Sulla base di quanto illustrato, si potrebbe affermare che l’organizzazione (biologica o sociale) non tende a riproporre sempre e comunque, in contesti diversi, gli stessi comportamenti e il medesimo modello organizzativo, poiché esso non può essere predefinito, ma è determinato da una serie considerevole di variabili (ambientali, tecnologiche, relazionali, culturali, valoriali, ecc.) da prendere in considerazione di volta in volta, per raggiungere quel determinato risultato.

principio dell’adhocraticità

Nella storia del pensiero organizzativo, tale affermazione teorica, che definisce l’organizzazione come un organismo animato e non come un soggetto inanimato (macchina o orologio) incapace di interagire, e che potrebbe assumere una pluralità di forme e di modelli organizzativi, non è stata sempre unanimemente condivisa. Anzi, si rammenta che per un lungo periodo storico è prevalso, anche tra gli studiosi, il concetto di organizzazione (industriale) come “macchina”, del resto il nesso etimologico è diretto, poiché il termine organizzazione ci viene trasmesso dal greco organon (mezzo, strumento).

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4. Nuovi paradigmi esplicativi

Riassumendo quanto appreso nelle lezioni precedenti, possiamo formulare tre considerazioni utili:

1.l’organizzazione non è una macchina bensì un sistema complesso; 2.l’organizzazione non è un sistema chiuso ma un sistema aperto che interagisce, in una

forma dinamica e dialettica, con il suo ambiente di riferimento; 3. l’organizzazione è capace di autoriprodursi secondo una logica autopoietica.

Ciò premesso, si rileva che solo grazie al contributo di alcuni importanti autori classici del pensiero sociologico, si cominciano ad analizzare le organizzazioni mediante il ricorso ad una classificazione dicotomica.

Infatti, Durkheim, precursore del pensiero sociologico francese, è il primo (1893) a basare lo studio dell’evoluzione dell’organizzazione della società sul binomio solidarietà meccanica – solidarietà organica. La prima è espressione delle società rurali pre-industriali, dove non vi è una significativa divisione del lavoro e la coscienza collettiva prevale su quella individuale. La società premoderna non conosce spazi per le differenze e per le individualità, le unità sociali stanno insieme perché sono tutte simili e ugualmente sottoposte all’unità di grado superiore di cui fanno parte (l’individuo alla famiglia, la famiglia al clan, il clan alla tribù). L’essenza di tali società, quindi, risiede nella coesione collettiva. Al contrario, nelle società industriali in cui fortissima è la divisione sociale del lavoro, ogni individuo e ogni gruppo svolge compiti diversi: la solidarietà non si fonda più sull’uguaglianza ma sulla diversificazione di funzioni specializzate che implica la cooperazione cosciente e libera degli agenti sociali, quindi, lo sviluppo della propria personalità e la conseguente concezione dell’individuo come persona. Tale tipologia di solidarietà viene definita da Durkheim come “organica”. Leggendola con occhio critico, la solidarietà organica può indurre alla spersonalizzazione del lavoro e, dunque, all’alienazione dell’individuo.

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Anche Tönnies, padre della sociologia tedesca, nel 1887 distingue due diversi tipi di relazioni sociali: le relazioni sociali che danno luogo alla comunità (Gemeinschaft) e quelle che danno vita alla società (Gesellschaft). Per comunità s’intende un insieme organico, organizzato sulla base di rapporti di sangue e di luogo (relazioni sociali primarie), fondato su presupposti di convivenza durevole, intima ed esclusiva, dunque sul sentimento di solidarietà e sul senso di appartenenza. La forma comunitaria predomina in epoca pre-industriale. La società, invece, è una forma di aggregazione sociale di natura funzionale, alla quale si aderisce volontariamente, in cui i rapporti sono essenzialmente di scambio (relazioni sociali secondarie) che trovano nel contratto la loro espressione tipica. Nelle moderne organizzazioni di lavoro, la società è il modello organizzativo predominante, ciò nonostante nelle ONP (Organizzazioni Non Profit), dove meno preponderante è la caratterizzazione economica e contrattuale, il modello di riferimento è quello della comunità, dove prevale invece la componente solidaristica; ciò comporta, però, per queste ultime, la necessità di coniugare l’aspetto sociale con quello economico.

La problematica dell’evoluzione delle organizzazioni è centrale anche nel pensiero di Max Weber (1864-1920), il quale, seguendo un’impostazione dicotomica, costruisce degli idealtipi, ovvero dei modelli teorici (puri) di riferimento che nella realtà assumono forme espressive molteplici, ma che sono fondamentali per la comprensione dei sistemi di governo delle organizzazioni. Egli, nel saggio Economia e società, distingue il potere (= possibilità per un comando di trovare obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini) in tre diverse tipologie, sulla base dei differenti criteri di legittimazione:

1.Potere tradizionale: la legittimità dell’autorità proviene dalla tradizione. Weber parla di “autorità dell’eterno ieri”: si obbedisce alla persona del signore designata dalla tradizione

e vincolata alla tradizione (si pensi all’impresa di famiglia). Tale potere poggia sulla

credenza nel carattere sacro e sulla giustezza della consuetudine. 2. Potere carismatico: la legittimità dell’autorità deriva da doti eccezionali possedute da chi

detiene il potere, che si impongono nel gruppo e fanno sì che nasca una naturale propensione all’obbedienza. Tale potere viene definito da Weber come “l’autorità di un

dono straordinario e personale di grazia (carisma)”: si obbedisce al leader in quanto tale, in virtù della fiducia personale nell’eroismo e nell’esemplarità del capo carismatico. In questo caso, è il leader stesso che stabilisce le regole. Si tratta di un potere effimero, instabile che nella maggior parte dei casi non sopravvive alla morte o alla caduta del

potere del suo capo originario.

3. Potere burocratico o legale-razionale: è legittimato dalla legge. Poggia, quindi, sulla credenza nella legalità di un sistema di ordinamenti impersonali statuiti legalmente (norme, regole, procedure). Si obbedisce all’ordinamento giuridico e agli individui

preposti al potere in base a tale ordinamento, in virtù della legalità formale, delle sue prescrizioni e nell’ambito di queste. Nel caso del potere burocratico, tutti sono sottoposti

alle leggi che lo legittimano, sia il detentore sia i destinatari.

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Nel corso del XX secolo, il ricorso alle distinzioni dicotomiche si è affievolito, ma non è scomparso del tutto, come dimostra l’impiego da parte di Popper nel 1973 del binomio società chiusa – società aperta. La prima è utopica, resistente al cambiamento ed espressione della cosiddetta libertà degli antichi. Quest’ultima consisteva nell’esercitare collettivamente, ma direttamente, molte funzioni della sovranità, per cui era compatibile con l’asservimento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme. E questo accadeva perché nulla era concesso all’indipendenza individuale. L’autorità si intrometteva fin nelle relazioni più intime e le azioni private erano sottomesse ad una sorveglianza occhiuta e severa. Di tutt’altra natura è la società aperta, nella quale vige la cosiddetta libertà dei moderni. Si tratta di una società aperta a più valori, a più visioni del mondo, magari contrastanti. Si basa sul pacifico godimento dell’indipendenza privata, il quale presuppone, prima di tutto, la distinzione tra sfera pubblica e privata; in secondo luogo la nomocrazia, ossia il governo impersonale della legge; in terzo luogo il riconoscimento della libertà individuale e dell’esistenza di diritti fondamentali che lo Stato è tenuto a riconoscere e tutelare.

Approfondimento sul concetto di potere: il modello dei circoli del

potere POTERE DI RIFERIMENTO

POTERE DI POSIZIONE

POTERE DI COMPETENZA

E’ opportuno, innanzitutto, definire il concetto di potere, in termini organizzativamente rilevanti. Le preposizioni su e di, accompagnate al vocabolo potere, consentono di fornire due diverse accezioni del concetto che tendono, peraltro, ad integrarsi. Il potere su qualcuno o qualcosa è un potere di natura impositiva ed esclusiva; il potere di realizzare qualcosa con qualcuno è, invece, un potere di natura generativa e partecipativa. Ora, qui si intende sostenere come occorrano entrambe le accezioni affinché un potere organizzativo sia significativo e rilevante.

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Il potere di posizione (di natura manageriale) è un potere su (potere di intervento); ciò significa che l’organizzazione ha il dovere di legittimare formalmente un determinato soggetto a ricoprire una data posizione: quanto più tale potere di natura coercitiva è

esteso, tanto più il manager investito di quel ruolo ha il potere (o la facoltà) di realizzare in concreto gli obiettivi strategici individuati dai vertici aziendali. Si presume che tale potere sia acquisito sulla base di criteri legati alle capacità individuali, ampiamente

dimostrate. In caso contrario, saremo in presenza di un potere di posizione non legittimato “sul campo”;

il potere di competenza giustifica e “protegge” il potere di posizione, posto nel nucleo dei circoli. Più precisamente, lo ribadiamo, il presupposto ineludibile per esercitare il

potere di posizione è il potere di competenza, ossia l’insieme delle capacità, delle abilità, delle conoscenze e competenze che il manager deve possedere e che devono essere riconosciute dai vertici dell’organizzazione per ricoprire quella specifica posizione. Di

fondamentale importanza, inoltre, sono i risultati conseguiti dal manager stesso come parametro per la sua legittimazione a detentore del potere di posizione. E’ possibile che non si possa ambire al potere di posizione pur avendo quello di competenza, poiché le

posizioni possibili sono già tutte ricoperte;

il potere di riferimento a sua volta legittima e “protegge” il potere di posizione e va ben

oltre quello di competenza. Il potere di riferimento scaturisce dalla:

capacità del manager di saper comunicare all’interno e all’esterno dell’organizzazione;

capacità di saper influenzare positivamente i propri collaboratori, instaurando relazioni

collaborative e non conflittuali;

capacità di saper motivare i propri collaboratori per il raggiungimento di determinati

obiettivi;

capacità di saper pianificare il raggiungimento di determinati obiettivi;

capacità del manager di saper diffondere a tutti i livelli dell’organizzazione una “visione

strategica” del mutamento. Si tratta dunque di una legittimazione informale: è, in sostanza, il carisma che il manager possiede e che deve essere “certificato” dall’ambiente interno ed esterno di riferimento.

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In estrema sintesi, possiamo quindi sostenere che se si procede in questo senso

si parla di autorevolezza (capacità di influenza del manager riconosciuta dai suoi collaboratori, e più in generale, da tutti coloro che interagiscono con lui. In questo caso, è corretto parlare di leadership). Se non si procede nel modo appena delineato, il manager, non essendo autorevole, non potrà detenere il potere di riferimento; pertanto per conservare il potere di posizione farà leva sul potere di competenza. Ma, si può verificare (succede molto spesso per non dire sempre ed è un processo fisiologico di distacco dalla componente tecnico-specialistica per approdare alla componente manageriale) il caso in cui, col trascorrere del tempo, i suoi colleghi acquisiscano competenze e capacità di natura specialistica superiori alle sue, per cui il manager non potrà più contare sul suo potere originario di competenza. Il manager, a questo punto, si troverà inevitabilmente in difficoltà e l’unico modo per gestire ed esercitare il suo potere di posizione, ormai svuotato di autorevolezza e di competenza, è fare ricorso all’autorità, al potere su (o potere coercitivo). Ciò decreta la fine della managerialità.

5. Il carattere polisemico del concetto di organizzazione

Come ricordato dalla letteratura sociologica più evoluta, in particolar modo da Gallino, il termine organizzazione nel corso della storia del pensiero organizzativo ha acquisito un carattere sempre più polisemico, infatti nelle scienze sociali viene usato in almeno tre differenti accezioni:

1. per indicare l’attività diretta intenzionalmente a stabilire mediante norme esplicite, relazioni durevoli tra un complesso di persone e di cose in modo da renderlo idoneo a conseguire razionalmente uno scopo. Per esemplificare quanto appena affermato, il sociologo succitato fa l’esempio del servizio di rilevazione catastale e di imposizione fiscale nell’Egitto dei Faraoni, prima forma rilevante di organizzazione nella sua accezione di attività;

2. per designare il sistema sociale ovvero l’entità concreta tipica (quand’anche similari, le organizzazioni di lavoro differiscono geneticamente le une dalle altre) socialmente rilevante che deriva dalla gestione razionale dell’attività (ospedale, ministero, azienda etc.). A tal proposito Gallino fa notare come l’esercito romano che diede luogo ad una delle migliori organizzazioni militari del mondo antico (precursore della decodificazione del concetto di delega: v. approfondimento) rappresenti una valida organizzazione intesa come sistema sociale;

3. per definire la struttura (= potere) delle principali relazioni formalmente previste e codificate entro il contesto organizzativo di riferimento. Il fenomeno organizzativo nel significato di struttura che viene portato alla nostra attenzione è l’organizzazione politica della città di Atene che divenne molto efficiente grazie all’introduzione della Costituzione di Clistene nel VI secolo a.C. e alla particolare enfasi data all’interno della Carta ai principi di democraticità, rappresentatività e partecipazione del popolo alla vita governativa.

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Il carattere polisemico del concetto di organizzazione è strettamente collegato al concetto di razionalità di governo, che caratterizza e distingue una determinata organizzazione (sistema sociale) rispetto ad un’altra, sulla base di tre ambiti specifici:

le credenze, ovvero la cultura organizzativa diffusa e condivisa dai membri di un’azienda; le azioni, quanto viene effettivamente svolto all’interno di un contesto organizzativo; il sapere scientifico (Know how), che si riferisce a quell’universo così vasto che va dalle

competenze e conoscenze possedute dal personale impiegato presso una determinata organizzazione di lavoro alla massima espressione simbolica del sapere scientifico medesimo rappresentata dal brand di un’organizzazione.

In base a tale impostazione teorica, nello studio dell’evoluzione delle organizzazioni si è fatto spesso ricorso al concetto di complessità e di organizzazione complessa per delineare quella particolare trasformazione dei modelli organizzativi (dei loro sistemi sociali) interessati da un mutamento qualitativo oltre che quantitativo.

Fu lo studioso nonché dirigente di grandi organizzazioni Chester Barnard, alla fine degli anni Trenta, ad introdurre il concetto di organizzazioni complesse, riferito principalmente alle organizzazioni di grandi dimensioni che si differenziano da quelle di piccole dimensioni per il tipo, la varietà e l’intreccio delle relazioni socio-tecniche che le costituiscono.

Uno dei fattori più rilevanti che distingue e caratterizza questo tipo di organizzazioni è dato dal fatto che, per gestire la complessità organizzativa, al loro interno vi sono strutture e persone che svolgono funzioni diverse, sia per quanto attiene alle attività e ai compiti professionali, sia il per livello di responsabilità (gerarchica) che svolgono nel governo dell’organizzazione, ovvero nella definizione e gestione dei processi decisionali, organizzativi e lavorativi. Pertanto vi sono strutture che svolgono attività operative (devono fornire il prodotto e/o il servizio dell’organizzazione di lavoro), altre che svolgono attività direttive, di coordinamento e programmazione ed infine di servizio, ovvero di supporto, a favore delle une e delle altre.

Approfondimento sul concetto di delega

Utilizzando un parallelismo, possiamo affermare che come l’esercito romano, per governare gli enormi spazi territoriali comprendenti l’impero, faceva ricorso allo strumento della delega, così il manager si serve del processo di delega per competenza per perseguire gli obiettivi individuati dal suo superiore gerarchico.

A ben vedere, la delega è un vero e proprio processo che si compone di due diversi momenti:

il dare la delega; l’acquisire la delega.

Partiamo, quindi, dal concetto di culpa, intesa come responsabilità. Distinguiamo a tal proposito la culpa in eligendo e la culpa in vigilando. La prima fa riferimento alla responsabilità nella scelta della persona maggiormente idonea ad acquisire il processo di delega, la seconda, invece, attiene al controllo. Si può, pertanto, sostenere che non si configura delega se non vi è un’attività di vigilanza da parte del manager (delegante) sull’operato del collaboratore (delegato).

CULPA (= responsabilità)

Delegante

Culpa in eligendo compiti

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Culpa in vigilando Delegato

Come si evince dallo schema, sulla base del processo di delega, il delegante assegna lo svolgimento di determinati compiti al delegato, dai quali scaturiscono delle responsabilità in capo a quest’ultimo. In caso di mancato raggiungimento dei risultati attesi, il delegato dovrà rispondere di ciò al soggetto delegante. In questa fase, è anche possibile che quest’ultimo, a fronte di un’attenta analisi degli obiettivi e dei compiti assegnati, palesi perplessità o muova critiche e obiezioni rispetto alla chiarezza o alla congruità (e relativa raggiungibilità) degli stessi.

Dei riflessi negativi che inevitabilmente si ripercuoteranno sugli stakeholder interni ed esterni ne è responsabile il soggetto delegante (responsabilità verso l’esterno).

E’ a questo punto, dunque, che si configura la culpa in eligendo (responsabilità nella scelta) o la culpa in vigilando (responsabilità nel controllo). Il delegato sarà, in ogni caso, responsabile delle conseguenze negative nei confronti del delegante, nell’ambito del rapporto sottostante (responsabilità verso l’interno).

Se, invece, il delegato realizza positivamente i compiti assegnati, raggiungendo gli obiettivi correlati al contenuto della delega, dovranno essergli ascritti i conseguenti meriti, con possibilità di ottenere un’incentivazione rapportata al raggiungimento dei risultati di performance. Di conseguenza, il delegante – se buon manager – non si approprierà dei successi del delegato, ma otterrà per via naturale i benefici che gli deriveranno da una corretta gestione del processo di delega (scelta e controllo).

In conclusione, ritornando all’esempio calzante dell’esercito romano e facendo nuovamente ricorso alla figura retorica del parallelismo, possiamo affermare che così come per vincere una guerra non è sufficiente saperla combattere ma essere capaci di organizzarla, un buon manager non è colui che si limita alla sola fase di implementazione e di esecuzione delle politiche definite dai vertici bensì colui che riveste un ruolo proattivo nella definizione e nella gestione delle politiche organizzative, in una logica di diretta correlazione con il raggiungimento degli obiettivi strategici o di business dell’organizzazione di lavoro in cui si trova ad operare.

6. La classificazione delle diverse tipologie di organizzazioni

Prima di addentrarci nello studio delle diverse tipologie di organizzazioni, riprendendo in esame il saggio di Gareth Morgan (“Images”), occorre opportunamente ribadire che “se si vuole veramente capire un’organizzazione conviene partire dalla premessa che le organizzazioni sono fenomeni ambigui, complessi e paradossali”.

Quanto appena affermato si coniuga con la necessità di chiarire che la classificazione delle varie tipologie di organizzazioni è un’operazione molto complessa, diretta ad individuare una specifica e diversa caratterizzazione delle varie tipizzazioni, sulla base di una data variabile esplicativa privilegiata. Solo dopo aver individuato la variabile indipendente, quindi, è possibile avviare il processo tassonomico.

A tal proposito, Morgan non ricorre alla figura retorica della metafora solo per descrivere e spiegare le differenti realtà organizzative, ma anche per classificarle in base a come viene distribuito il potere al loro interno. Quando si parla di potere, si parla di politica e quindi, da questo

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particolare ma estremamente significativo angolo di visuale, le organizzazioni possono essere osservate come sistemi politici. Se all’autorità corrispondesse l’autorevolezza, per conoscere la distribuzione del potere in un’organizzazione sarebbe sufficiente analizzare l’organigramma che la rappresenta. Ma, come ben sappiamo, è molto frequente che nelle organizzazioni, accanto ad un organigramma formale sia possibile individuare anche un organigramma informale, per così dire parallelo.

Si fa presente, inoltre, che raramente nei contesti organizzativi aziendali, operanti in mercati ad alto tasso di concorrenzialità, sono palesi influenze politiche, essendo dominanti i valori correlati alle competenze e alla meritocrazia. Ciò non toglie che, di fatto, nelle stesse siano presenti quelle relazioni e comportamenti tipici della politica, come le alleanze, i conflitti non di tipo tecnico e la costituzione di “cordate” per l’acquisizione di posizioni di maggior potere.

Le organizzazioni, al pari degli stati, creano e mantengono l’ordine tra i loro membri seguendo stili diversi. La scienza politica, a tal fine, può offrire un contributo alla teoria dell’organizzazione attraverso l’individuazione di forme di governo tipiche e spesso miste. Queste sono:

l’autocrazia (“lo faremo così”): forma di governo di tipo assolutistico, per cui il potere può essere detenuto da un singolo individuo o da un gruppo limitato di individui (oligarchia autocratica) e si fonda sul controllo di risorse critiche (es. risorse umane), sul controllo dei diritti di proprietà, sulla tradizione, sul carisma e su altri asseriti privilegi personali. Forma di governo, questa, tipica di molte imprese familiari, all’interno delle quali il potere assume una connotazione esclusiva;

la burocrazia (“dobbiamo farlo così”): forma di governo esercitata attraverso l’uso della parola scritta (norme, prassi, procedure); essa rappresenta la base dell’autorità razionale-legale o, in altre parole, il “governo delle leggi”;

la tecnocrazia (“è meglio farlo così”): forma di governo esercitata attraverso l’uso della conoscenza, il potere degli esperti e la capacità di risolvere problemi specifici importanti. E’ una forma di governo orientata al fare bene, nonostante ciò comporti il rischio rappresentato dall’essere troppo circoscritta, efficientista e protesa esclusivamente all’ottimizzazione di un dato problema;

la coogestione (“facciamolo insieme”): forma di governo in cui parti contrapposte si accordano per una gestione congiunta in considerazione degli interessi reciproci (es: partnership tra aziende). E’ propria dei governi di coalizione o corporativi, nei quali ogni parte in gioco è caratterizzata da una specifica fonte di potere;

la democrazia rappresentativa (“come dobbiamo farlo?”): forma di governo esercitata attraverso l’elezione di rappresentanti demandati ad agire in nome dell’elettorato. Durano in carica per il periodo di tempo previsto e, comunque, fino a quando riscuotono l’approvazione dei votanti.

Allo stesso modo, appropriato e rilevante per la classificazione delle organizzazioni è il parametro della loro specifica e tipica razionalità di governo.

In linea con tale impostazione, grazie al contributo fornitoci da Bottomore, Gellner, Nisbet, Outhwaite, Touraine, Jedlowki (1997) è stato possibile creare una tassonomia di otto distinte tipologie di organizzazioni, ciascuna con una peculiare razionalità di governo. Tali organizzazioni presentano le seguenti caratteristiche distintive (per un maggior approfondimento v. pag. 28 e ss. del libro “Direzione risorse umane”, oggetto di studio):

le organizzazioni con finalità economiche (imprese private) del settore agricolo, industriale o del terziario, la cui azione è orientata essenzialmente dai principi di mercato. All’interno di questa tipologia una particolare variante organizzativa è

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rappresentata da quelle organizzazioni cooperative che hanno origine da una matrice culturale che si richiama a logiche imprenditoriali improntate ad uno spirito mutualistico, alla cooperazione (la forma di governo tipica è la coogestione) ed alla partecipazione dei dipendenti al capitale sociale (la regione italiana con una spiccata tradizione di organizzazioni cooperative è il Trentino Alto Adige, seguito dall’Emilia Romagna).

A tal riguardo, un quesito sorge spontaneo: come si può coniugare efficacemente lo spirito sociale con le esigenze di economicità? A ben vedere, occorre necessariamente trasformare il concetto di giustizia commutativa in giustizia sociale. Per la prima s’intende che nelle dinamiche di mercato si stabilisce un equilibrio tra offerta di vendita e prezzo d’acquisto. Il margine derivante da tale differenza altro non è che il profitto per gli operatori economici (bene privato). Quindi, la giustizia commutativa regola i rapporti giuridici fra le persone fisiche e giuridiche (operatori economici) e si basa su criteri di equilibrio quali/quantitativo. La giustizia sociale, invece, orienta tutta la comunità di riferimento e non solo gli operatori economici al bene comune, inteso come beneficio derivante da criteri di maggior equità distributiva della ricchezza prodotta e non come mero profitto, spingendo così ciascuno a dare volentieri il proprio contributo per uno sviluppo economico socialmente sostenibile;

le organizzazioni che forniscono servizi sociali di pubblica utilità (sanità, scuola, assistenza sociale, etc.), negli ultimi anni sono state protagoniste di un processo evolutivo particolarmente complesso tendente all’attivazione di politiche gestionali orientate ai principi di qualità, efficacia, economicità, efficienza e personalizzazione dei servizi. Infatti, in alcuni comparti come quello della scuola con la cosiddetta legge Bassanini (l. 59/97) si è dato avvio ad un processo di riforma improntato al raggiungimento dell’autonomia dell’intero sistema scolastico italiano. Essa si profila come autonomia didattica, progettuale e gestionale di ogni istituzione scolastica, limitatamente alle politiche predisposte dal Ministero dell’istruzione. La ratio legis risulta dettata da esigenze di economicità nella gestione degli istituti stessi. Ciò significa, dunque, che le scuole sarebbero dovute diventare aziende pubbliche, i presidi dei manager e i docenti dei professionals (collaboratori con competenze e conoscenze specifiche nell’esercizio del proprio ruolo). Nel processo d’implementazione della riforma, è emersa una profonda criticità: il contesto scolastico è risultato essenzialmente governato da logiche burocratiche e istituzionali difficilmente convertibili, nel breve periodo, in ambiti manageriali. Quanto appena sottolineato denota la necessità di cambiamenti che siano in linea con i dati culturali di riferimento. In effetti, l’attivazione di un processo di cambiamento all’interno di un’organizzazione può determinare conflitti e crisi d’identità qualora non si attribuisca importanza alla tradizione, alla cultura, ai linguaggi e alle pratiche già esistenti nel contesto organizzativo di riferimento che, come tali, vanno rispettati ed opportunamente trasformati .

All’interno di questa categoria, si collocano le organizzazioni not for profit, molto diffuse nel settore dell’assistenza sociale e della cooperazione internazionale;

le pubbliche amministrazioni, sono organizzazioni che assolvono ad una funzione istituzionale. Forniscono servizi direttamente alla collettività o concedono autorizzazioni burocratiche ad altre amministrazioni. La logica gestionale prevalente è di natura gerarchica e burocratica. Non mancano però esempi di pubbliche

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amministrazioni italiane innovative e virtuose soprattutto sotto il profilo dell’economicità, dell’efficienza e della qualità dei servizi erogati;

le organizzazioni di rappresentanza sindacali e professionali, la cui forma più nota è rappresentata dai sindacati dei lavoratori ma anche delle associazioni imprenditoriali, svolgono una funzione di rappresentanza e di tutela degli interessi collettivi. Le associazioni professionali, invece, sono specializzate nella rappresentanza e nel sostegno degli associati in diversi campi come la previdenza, la formazione etc.;

i partiti e le organizzazioni politiche, sono le principali organizzazioni/associazioni volontarie della società civile, che per mezzo di libere elezioni democratiche detengono una determinata quota di potere; in più sono tenute a mantenere l’impegno nei confronti della collettività nello sviluppo della società civile. Una variante organizzativa appartenente a questa tipologia sono i movimenti politici, che si propongono di rinnovare i processi di rappresentanza politica e di testimoniare tale rinnovamento presentandosi come una possibile alternativa ai partiti (es. Lega nord);

le organizzazioni per la difesa degli interessi ambientali, locali o dei consumatori sono strutturate come associazioni private collettive (Wwf, Associazione dei consumatori, etc.) che si battono per la tutela dell’equilibrio eco-ambientale, la conservazione del patrimonio artistico-culturale, la difesa dei consumatori e così via;

le organizzazioni religiose, che a loro volta si differenziano in comunità di base e movimenti religiosi (molto spesso questi si pongono in una logica di critica alle prime), hanno un duplice scopo: la rappresentanza e la testimonianza dell’istituzionalizzazione della fede e dei processi di rinnovamento delle pratiche e delle istituzioni religiose;

le organizzazioni militari e le organizzazioni totali (le carceri), di matrice autocratica, registrano una stretta subordinazione gerarchica dei subordinati rispetto ai comandanti.

Possiamo, dunque, sostenere che ciascuna delle otto tipologie di organizzazioni è caratterizzata da una sua peculiarità, che a sua volta è correlata ad una corrispondente razionalità di governo, o meglio di governance.

principi/valori

compiti/procedure

norme/autorità

Know how

organizzazioni professionali

organizzazioni ideologiche

organizzazioni burocratiche

organizzazioni tecnocratiche

Alle due classificazioni fin qui proposte, se ne aggiunge una terza (potremmo dire riassuntiva delle prime due) la cui variabile esplicativa privilegiata è rappresentata dalla particolare cultura organizzativa presente in ogni realtà organizzativa.

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Dal grafico possiamo evincere una tassonomia costituita da quattro differenti tipologie di organizzazioni:

1. le organizzazioni ideologiche; 2. le organizzazioni burocratiche; 3. le organizzazioni tecnocratiche; 4. le organizzazioni professionali. 1. Le prime fanno leva sull’aspetto valoriale che acquista una connotazione inderogabile. In

altre parole, la condizione necessaria per l’adesione alle organizzazioni ideologiche (l’accezione non è negativa) è la condivisione dei principi e dei valori alla base delle stesse, pena l’esclusione. Per evitare il rischio della disaggregazione, questo tipo di realtà organizzative presuppone, altresì, la previsione di norme a tutela di quel sistema culturale e valoriale alla base della loro ragion d’essere. Coloro che fanno parte di tali organizzazioni non vivono, peraltro, come coercitiva l’appartenenza poiché ne condividono i valori assiomatici fondativi. In caso contrario, non potranno far parte della comunità: dovranno scegliere di andarsene o ne saranno espulsi;

2. l’organizzazione burocratica, grande imputato della modernità, è da intendersi come l’insieme funzionale delle norme e delle procedure mirate a governare le azioni degli attori organizzativi. Il termine burocrazia si riferisce dunque al "potere degli uffici", ad una forma di esercizio del potere che si struttura intorno a regole impersonali ed astratte, procedimenti, ruoli definiti una volta per tutte e immodificabili dall'individuo che ricopre una data funzione. Oggi il termine è spesso usato in senso più ampio, per indicare in modo generico l'insieme della struttura amministrativa e del personale di ogni organizzazione complessa, sia pubblica sia privata. Negli ultimi decenni esso ha acquisito anche un'accezione negativa, che si ascrive alla lentezza e agli sprechi tipici della pubblica amministrazione.

Tre sono le critiche fondamentali che si muovono all’organizzazione burocratica:

è eccessivamente rigida; reprime e soffoca la componente umana e le sue potenzialità; è più attenta al compito che al risultato, tant’è che il rischio che molto spesso si profila è il

mancato funzionamento sostanziale in quanto viene privilegiato quello formale;

3. le organizzazioni tecnocratiche sono essenzialmente imperniate sul concetto di efficienza, di efficacia e di razionalizzazione, sulla valorizzazione delle conoscenze tecniche, sull’estrema ottimizzazione del processo produttivo e sui criteri di standardizzazione del lavoro. In altre parole, il lavoro nelle organizzazioni tecnocratiche poggia su di un unico fondamentale concetto: quello della meritocrazia specialistica, legittimato proprio dal ruolo degli esperti, ossia dalla competenza e dalla capacità di saper fare le cose giuste. Ciò non senza l’imprescindibile orientamento ai compiti e alle procedure (“è meglio farlo così”);

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4. le organizzazioni professionali, come si desume dalla rappresentazione grafica, puntano sulle professionalità (know how: reticolo di conoscenze, competenze e capacità possedute dal personale operante presso un determinato contesto organizzativo) congiuntamente al sistema valoriale presente nelle organizzazioni e al raggiungimento degli obiettivi (fissati dal vertice organizzativo o derivanti dalle aspettative degli interlocutori esterni). Questo, indipendentemente da quella schiera di norme, prassi e procedure che, invece, caratterizzano le realtà burocratiche. L’importante è realizzare i compiti necessari mantenendo sempre un alto livello di attenzione rispetto ai valori di riferimento, allo scopo di rafforzare l’identità organizzativa. Ciò implica, però, che vi sia una forte condivisione di ciò che s’intende per professionalità. Si richiede, cioè, un processo di introiezione del modo giusto e corretto di esercitare il mestiere (deontologia professionale), con ampi margini di discrezionalità. Esempi di tale tipologia di organizzazioni possono essere ravvisati negli studi professionali, nelle imprese di consulenza e in molte organizzazioni del settore non profit.

7. Il concetto di governance

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organizzazioni sindacali

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S

T

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Il concetto di governance è stato introdotto nello studio delle organizzazioni, a seguito della notevole importanza che ha progressivamente assunto la c.d. stakeholders theory, in cui si mette in evidenza il ruolo svolto da una pluralità di soggetti (individui e gruppi) dai quali dipende la possibilità dell’impresa (una delle tipologie di organizzazioni di lavoro analizzate) di operare efficacemente, di evolversi e di perpetuarsi nel tempo e nello spazio. Si tratta di due grandi tipologie di gruppi sociali che danno vita, rispettivamente, all’ecosistema dell’impresa che comprende gli azionisti, i lavoratori, le organizzazioni sindacali e le associazioni imprenditoriali, i fornitori, i distributori, le pubbliche amministrazioni, e alla comunità et large rappresentata dai consumatori (o meglio dai clienti), dalle associazioni dei consumatori, dalle associazioni ambientaliste e dai mass-media e opinione pubblica (v. figura).

consumatori

azionisti

Mass-media

e opinione pubblica

associazioni di consumatori

Associazioni ambientaliste e di

difesa del patrimonio

culturale pubbliche

amministrazioni

distributori

fornitori

lavoratori

impresa

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Il rapporto che si viene a creare e l’insieme delle interazioni che possono intercorrere tra l’impresa e i propri stakeholders sono ben rappresentati nella figura: l’impresa per poter vivere e svilupparsi adeguatamente ha bisogno di attivare un costante interscambio, sia con gli attori che determinano l’ecosistema di riferimento, sia con quelli che sono portatori di istanze diversificate, espressione della comunità sociale e culturale in cui è inserita.

Approfondimento: le organizzazioni e il concetto di globalizzazione

Oggi, ogni organizzazione per muoversi all'interno di un contesto dominato dalla globalizzazione (processo macroeconomico e sociale che produce inevitabilmente delle ricadute sulle realtà organizzative), deve imparare a presidiare una serie di aspetti. Prima di tutto la “varietà”, che deve essere salvaguardata attraverso una precisa attitudine a reagire ad ogni forma di omologazione, poi la “permeabilità”, che deve tradursi in un'abilità specifica di fare network, di comunicare, di scambiare esperienze e know-how. Terzo elemento è l'“instabilità”, che richiede di sapersi mantenere vicini alla soglia del caos, senza essere inghiottiti, oppressi da gerarchie e percorsi precostituiti. Queste qualità, peraltro, non si esprimono se il management non dimostra elasticità e lungimiranza, ovvero se non riesce a gestire il rischio, dell’omologazione dell’identità e della cultura organizzativa e la conseguente rigidità dei processi

Se ci riferiamo, quindi, al contesto globale all’interno del quale un’organizzazione agisce ed interagisce non possiamo prescindere da considerazioni di tipo storico-sociali riconducibili a due correnti di pensiero apparentemente, e per molti versi, effettivamente antitetiche: stiamo parlando dei principi teorizzati da Marx ne “Il Manifesto del Partito Comunista” e da Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate”.

Si passano, di seguito, brevemente in rassegna alcuni passi de “Il Manifesto” su cui s’intende focalizzare maggiormente l’attenzione per una più approfondita analisi delle organizzazioni e del pensiero filosofico e sociologico alla base delle stesse:

“la società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta”;

“il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve annidarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni”;

“col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza”;

“le armi con cui la borghesia ha abbattuto il feudalesimo si rivolgono ora contro la borghesia stessa. Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le recano la morte; essa ha anche creato gli uomini che useranno quelle armi - i moderni operai, i proletari”;

“quanto meno il lavoro manuale richiede abilità e forza, cioè quanto più si sviluppa l'industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene sostituito da quello delle donne e dei fanciulli”.

Riassumendo quanto appena elencato, possiamo affermare che per Marx l’epoca della borghesia, si caratterizza, anche rispetto all’età feudale, per una progressiva disumanizzazione dei rapporti

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(“non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti»”) e la conseguente cristallizzazione delle contrapposizioni di classe. L'intera società si divide sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi che si fronteggiano direttamente: borghesia e proletariato.

L'attività industriale fino ad allora vincolata a moduli feudali o corporativi non poteva più fronteggiare le crescenti aspettative prodotte dai nuovi mercati. Al suo posto comparve la manifattura. I maestri artigiani vennero soppiantati dal ceto medio industriale; la divisione del lavoro tra le varie corporazioni scomparve di fronte alla divisione del lavoro nella stessa singola officina.

Origini della globalizzazione

Ma i mercati continuavano a crescere e con essi le aspettative. Anche la manifattura non bastava più. Il vapore e le macchine rivoluzionavano la produzione industriale. Al posto della manifattura si affermò la grande industria moderna, al posto del ceto medio industriale apparvero gli industriali capitalisti, i comandanti di intere armate industriali, i moderni borghesi.

La grande industria ha creato il mercato mondiale, questo ha dato uno smisurato impulso allo sviluppo del commercio, della navigazione, delle comunicazioni terrestri. Tale sviluppo ha a sua volta retroagito sulla crescita dell'industria. E nella stessa misura in cui crescevano industria, commercio, navigazione, ferrovie si sviluppava anche la borghesia.

La necessità di uno sbocco sempre più vasto per i suoi prodotti lanciava la borghesia alla conquista dell'intera sfera terrestre. Bisogna annidarsi dappertutto, dovunque occorre consolidarsi e stabilire relazioni. La borghesia ha strutturato in modo cosmopolitico la produzione e il consumo di tutti i paesi grazie allo sfruttamento del mercato mondiale. Essa trascina verso la civiltà persino le nazioni più barbariche, grazie al rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, grazie al continuo progresso delle comunicazioni.

“Ma nella stessa misura, in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la moderna classe dei lavoratori, i quali vivono solo fin quando trovano lavoro e trovano lavoro solo in quanto il loro lavoro accresce il capitale. Il lavoro dei proletari ha perso ogni tratto di autonomia e quindi ogni stimolo per il lavoratore a causa dell'espansione delle macchine e della divisione del lavoro. Il lavoratore diventa un mero accessorio della macchina. Da lui si pretende solamente il più facile, il più monotono, il più elementare movimento Quanto meno il lavoro manuale richiede abilità e forza, cioè quanto più si sviluppa l'industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene sostituito da quello delle donne e dei bambini. Per la classe operaia le differenze di sesso e di età non hanno più alcuna rilevanza sociale. Non esistono ormai che strumenti di lavoro, distinti per il diverso costo relativo all'età e al sesso”.

Dal quadro delineato, si evince con estrema chiarezza come alla base della dottrina marxista vi sia una concezione capitalistica delle organizzazioni di lavoro e non solo; esse, infatti, vengono considerate, alla stregua del periodo storico cui si riferiscono (prima rivoluzione industriale), dei veri e propri sistemi chiusi, assimilabili all’elaborazione morganiana delle organizzazioni intese come macchine. Queste puntano su un accrescimento della produttività attraverso una divisione del lavoro molto accentuata e un coordinamento di tipo militare fondato sulla subordinazione, sulla disciplina e sulla centralizzazione dell’autorità. A ciò si aggiunge che è invalso tra i maggiori studiosi delle organizzazioni il pensiero che Marx ed Engels siano stati i primi veri antesignani della globalizzazione, seppur non propriamente definita, e che la sua descrizione ne “Il manifesto del partito comunista” del 1848 è, per la sua estrema sintesi e vis narrativa, insuperata.

Il secondo paradigma che ci fornisce un’ulteriore chiave di lettura delle organizzazioni e della loro interconnessione con il fenomeno della globalizzazione è “Caritas in veritate” (in italiano La carità

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nella verità), lettera enciclica della Chiesa cattolica firmata da papa Benedetto XVI il 29 giugno 2009. Il testo dell’enciclica ripercorre l'insieme dei principi e delle direttive emanate dal magistero cattolico in ordine ai problemi di natura sociale ed economica manifestatisi nella società moderna, meglio definita come dottrina sociale della Chiesa cattolica. Tale dottrina – è opportuno rilevarlo - non si configura come una generica e multiforme espressione del pensiero cattolico sviluppatosi nel corso dei secoli di fronte alle diverse congiunture storiche che si sono via via susseguite, bensì come la risposta, dotata di rilevante autorevolezza istituzionale ed espressa in termini dottrinali, attraverso la quale il papato romano ha preso posizione di fronte alla realtà sociale ed economica di una data stagione storica.

Nel capitolo II (“lo sviluppo umano nel nostro tempo”), al punto 21, l’attuale Pontefice sottolinea come “Paolo VI aveva una visione articolata dello sviluppo. Con il termine «sviluppo» voleva indicare l'obiettivo di far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e dall'analfabetismo. Dal punto di vista economico, ciò significava la loro partecipazione attiva e in condizioni di parità al processo economico internazionale; dal punto di vista sociale, la loro evoluzione verso società istruite e solidali; dal punto di vista politico, il consolidamento di regimi democratici in grado di assicurare libertà e pace”.

E prosegue con una critica: “dopo tanti anni, mentre guardiamo con preoccupazione agli sviluppi e alle prospettive delle crisi che si susseguono in questi tempi, ci domandiamo quanto le aspettative di Paolo VI siano state soddisfatte dal modello di sviluppo che è stato adottato negli ultimi decenni. Riconosciamo pertanto che erano fondate le preoccupazioni della Chiesa sulle capacità dell'uomo solo tecnologico di sapersi dare obiettivi realistici e di saper gestire sempre adeguatamente gli strumenti a disposizione. Il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo. L'esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà”. È vero, dunque, che lo sviluppo c'è stato e continua ad essere un fattore positivo che ha tolto dalla miseria miliardi di persone e, ultimamente, ha dato a molti Paesi la possibilità di diventare attori efficaci della politica internazionale ma va, tuttavia, riconosciuto che lo stesso sviluppo economico è stato e continua ad essere gravato da distorsioni e drammatici problemi, messi ancora più in risalto dall'attuale situazione di crisi”.

A proposito della globalizzazione, Papa Benedetto XVI sostiene che “talvolta nei riguardi della stessa si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana. È bene ricordare a questo proposito che la globalizzazione va senz'altro intesa come un processo socio-economico, ma questa non è l'unica sua dimensione. Sotto il processo più visibile c'è la realtà di un'umanità che diviene sempre più interconnessa; essa è costituita da persone e da popoli a cui quel processo deve essere di utilità e di sviluppo, grazie all'assunzione da parte tanto dei singoli quanto della collettività delle rispettive responsabilità. Il superamento dei confini non è solo un fatto materiale, ma anche culturale nelle sue cause e nei suoi effetti. Se si legge deterministicamente la globalizzazione, si perdono i criteri per valutarla ed orientarla. Essa è una realtà umana e può avere a monte vari orientamenti culturali sui quali occorre esercitare il discernimento. La verità della globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati dall'unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene. Occorre quindi impegnarsi incessantemente per favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria. Nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno”.

Pertanto adeguatamente concepita e gestita, la globalizzazione offre la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se

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mal gestita, può invece accentuare i livelli di povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l'intero mondo (come abbiamo, infatti, potuto verificare alla luce dell’attuale crisi finanziaria globale e delle ricadute inevitabili sull’economia reale).

Strettamente connesso a quanto esposto, è utile osservare come per il Pontefice l'imprenditorialità abbia e debba sempre più assumere un significato plurivalente: prima di avere un’accezione professionale, ne ha una umana. “Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come «actus personae», per cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli stesso «sappia di lavorare in proprio». Non a caso Paolo VI insegnava che «ogni lavoratore è un creatore». Proprio per rispondere alle esigenze e alla dignità di chi lavora, e ai bisogni della società, esistono vari tipi di imprese, ben oltre la sola distinzione tra «privato» e «pubblico». Ognuna richiede ed esprime una capacità imprenditoriale specifica. Al fine di realizzare un'economia che nel prossimo futuro sappia porsi al servizio del bene comune nazionale e mondiale, è opportuno tenere conto di questo significato esteso di imprenditorialità. Questa concezione più ampia - prosegue papa Benedetto XVI - favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit e viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo”. Tale visione, pur originata da presupposti culturali ed ideologici profondamente diversi dal pensiero marxista, è, tuttavia, espressione, mutatis mutandis, di un analogo approccio critico allo sviluppo incotrollato della società e, soprattutto, non ispirato da valori di riferimento riconducibili non solo all’economia ma, ancor prima, alla giustizia sociale e alla cooperazione.

In conclusione, ripercorrendo il sentiero fin qui esplorato, possiamo affermare che il nucleo della nostra analisi è, ancora una volta, la centralità dell’individuo, la sua cultura, i suoi bisogni, le sue aspirazioni. La storia delle organizzazioni, in definitiva, non è altro che la storia degli individui che si sono, per ragioni socialmente rilevanti, aggregati tra loro, dandosi di conseguenza delle regole finalizzate alla convivenza e al funzionamento dell’organizzazione.

Sulla base di tale considerazione, e in una prospettiva di analisi delle possibili dinamiche dei rapporti tra individuo e società e individuo e organizzazione, si può argomentare che gli obiettivi dell’organizzazione possono essere perseguiti tanto più proficuamente quanto più vengono soddisfatte le esigenze di crescita personale degli individui. A questo proposito, è interessante richiamare la teoria di Douglas McGregor (The Human Side of Enterprise 1960), con la quale l’autore descrive due differenti, o meglio antitetiche, concezioni che i manager tendono ad avere nei confronti dei loro collaboratori:

la teoria X che rappresenta gli assunti tayloristici (che approfondiremo nelle prossime lezioni) sulla natura dell’uomo:

l’individuo mediamente ha un’avversione innata per il lavoro; per questo gli individui vanno guidati e minacciati di punizioni affinché collaborino

agli scopi organizzativi; normalmente l’individuo preferisce essere guidato piuttosto che avere

responsabilità;

nel ribaltare la logica tayloristica, lo studioso di organizzazioni formula la teoria Y:

il lavoro può essere anche fonte di soddisfazione e gratificazione; l’individuo sa esercitare anche l’autoguida e l’autocontrollo; in condizioni idonee l’individuo non disdegna forme di responsabilità; l’individuo è in grado di mettere in pratica la propria immaginazione e creatività.

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La teoria proposta rappresenta un ambito di riflessione ai fini del nostro studio esplorativo all’interno delle organizzazioni anche in chiave di stile di gestione aziendale. Al riguardo, ci sembra stimolante concludere la lezione con una domanda: è la natura umana a determinare certi differenti comportamenti in ambito lavorativo e a generare, di conseguenza, inevitabili valutazioni e un certo stile di direzione (direttivo o partecipativo) da parte dei datori di lavoro oppure è lo stile di direzione a determinare certi comportamenti dei collaboratori, generalizzando il modo di interpretare il lavoro e influenzando negativamente o positivamente la stessa natura umana?

8. L’organizzazione scientifica del lavoro: il Taylorismo

Nel capitolo 2 “La meccanizzazione va in cattedra: ovvero le organizzazioni come macchine” del testo “Images”, Gareth Morgan illustra le caratteristiche di uno dei principali approcci all’analisi dei sistemi organizzativi: lo scientific management, elaborazione ascrivibile al famoso studioso ed ingegnere americano Frederick Winslow Taylor (1911). Per scientific management (organizzazione scientifica del lavoro) o taylorismo s’intende lo studio scientifico di ogni fase del processo produttivo industriale al fine della massimizzazione della produttività delle risorse impiegate, ottenuta attraverso la scomposizione e la parcellizzazione dei processi lavorativi nei singoli movimenti costitutivi, cui sono assegnati tempi standard di esecuzione. Storicamente questo modo di organizzare il lavoro ha implicato l’affermazione di nuovi sistemi di organizzazione aziendale ed un ruolo specializzato della direzione d’impresa nella razionalizzazione del processo produttivo.

Cinque, sono, i principi cardine su cui si fonda il taylorismo secondo Morgan:

1. far slittare tutta la responsabilità relativa all’organizzazione del lavoro dal lavoratore che esegue al dirigente che guida e controlla. Sulla base di questo presupposto, ovvero della divisione ed organizzazione del lavoro, il manager non solo è l’unico a doversi fare carico della pianificazione e progettazione del lavoro ma ne è anche responsabile;

2. usare metodi scientifici per individuare il modo di più efficiente di fare il lavoro: la mansione dell’operaio deve essere progettata scientificamente, specificando dettagliatamente come il lavoro debba essere svolto;

3. selezionare la persona più adatta per espletare la mansione così progettata (un’organizzazione di lavoro di stampo taylorista punta l’accento soprattutto sull’impegno e l’obbedienza delle persone impiegate nella stessa);

4. addestrare l’operaio a fare il lavoro in modo efficiente; 5. tenere sottocontrollo la produttività dell’operaio per assicurarsi che vengano rispettate le

procedure lavorative predeterminate e che vengano ottenuti risultati adeguati (a tal proposito si parla di fattori “metodi” e “tempi”).

Nell’applicazione di questi principi Taylor promosse l’impiego dello studio di “tempi” e “metodi”, inteso come mezzo per analizzare e standardizzare le attività lavorative; tale approccio, dunque, prevedeva che ogni azione, anche la più semplice e ripetitiva, dovesse essere osservata nel dettaglio e misurata con la massima precisione allo scopo di rintracciare la modalità lavorativa più efficiente.

L’impatto delle teorizzazioni di Taylor sui singoli luoghi lavorativi è stato epocale, così come gli alti costi umani per ottenere gli aumenti di produttività e le critiche espresse da numerosi studiosi. A tal proposito, il principio di separare la pianificazione e la progettazione del lavoro dalla sua esecuzione viene, infatti, considerato dai più critici come l’elemento maggiormente pervasivo e

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pericoloso del taylorismo, in quanto comporta una scissione del lavoratore nella sua mano e nel suo cervello. Inoltre, secondo coloro che non condividono tale modello l’immagine meccanicistica tenderebbe a sottovalutare gli aspetti umani dell’organizzazione e la complessità dei compiti che le organizzazioni sono chiamate a svolgere.

D’altro canto, nonostante le forti critiche provenienti da più fronti, dobbiamo farci portavoce di una considerazione molto importante, dalla quale non si può prescindere se si vuole comprendere l’organizzazione scientifica del lavoro secondo Taylor: lo scientific management nasce e si sviluppa in America come risposta alla richiesta di aumentare l’efficienza produttiva del sistema industriale americano, chiamato allo sforzo bellico del primo conflitto mondiale.

Detto questo, secondo Gareth Morgan le potenzialità e i limiti della metafora meccanicistica dell’organizzazione sono speculari ai limiti e alle potenzialità che l’organizzazione meccanicistica trova nella sua concreta realtà. In particolare, gli approcci organizzativi di tipo meccanicistico funzionano solo in presenza di alcune condizioni:

quando si è in presenza di un compito molto chiaro (l’organizzazione scientifica del lavoro è legata alla concezione della produzione “elementare”, parcellizzata e descrivibile: solo così il manager può controllare l’operato dei lavoratori in modo che questi svolgano efficientemente la propria mansione);

quando l’ambiente è sufficientemente stabile da garantire che i risultati prodotti siano appropriati;

quando si vuole produrre esattamente lo stesso prodotto più volte; quando la precisione gioca un ruolo fondamentale; quando le “componenti umane” della macchina sono docili e rispettano i compiti loro

assegnati: l’operaio è l’ingranaggio intelligente della macchina.

Dall’altro lato, Morgan elenca i limiti insiti nella concezione meccanicistica dell’organizzazione, i quali stanno proprio nella difficoltà che le organizzazioni meccanicistiche incontrano nell’affrontare ambienti mutevoli, in quanto vengono a svilupparsi forme organizzative caratterizzate da una notevole resistenza laddove risulti necessario adattarsi proprio ad un ambiente mutevole (1° limite).

Quando sussiste una forte meccanizzazione le possibili condizioni ambientali sono presunte (cioè come se fossero tutte già note) così come i comportamenti da adottare nel caso si verifichino. Di conseguenza, e questo è il secondo limite, l’individuo è sollevato dal dare un senso a quanto accade, in quanto tale senso è già scritto nei manuali e nei mansionari, salvo poi scontrarsi con la complessità imprevedibile della realtà.

In generale, la difficoltà maggiore che incontrano le organizzazioni concepite come macchine sta proprio nell’adattarsi ai mutamenti che avvengono nell’ambiente esterno, data la loro scarsa flessibilità e capacità di mettere in opera processi creativi. Semplificando quanto appena detto il terzo limite consiste nel dar luogo ad effetti non previsti e non desiderabili come nel caso in cui gli interessi di coloro che lavorano nell’organizzazione abbiano il sopravvento sugli obiettivi per cui l’organizzazione è stata creata.

D’altronde le macchine sono delle entità monofunzionali progettate per realizzare obiettivi predefiniti, con risorse determinate, per cui il loro utilizzo in attività diverse presuppone una procedura di modifica e riprogettazione per i nuovi scopi. Detto ciò, è facile capire come in un ambiente mutevole che richiede sempre azioni e reazioni di tipo diverso, le organizzazioni meccanicistiche, soprattutto di grandi dimensioni, incorrano in inevitabili difficoltà dovute anche al processo di segmentazione che tende a creare delle barriere e dei blocchi insuperabili nel grembo stesso della struttura.

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In ultima analisi, come accennato, la problematica più discussa riguardo alla visione meccanicistica dell’organizzazione è quella relativa alle conseguenze umane dell’adozione di simili modelli: l’approccio meccanicistico tende a limitare, piuttosto che a favorire, lo sviluppo delle capacità umane modellando gli esseri umani in modo da renderli adatti ai requisiti propri dell’organizzazione piuttosto che a costruire l’organizzazione attorno alle potenzialità degli individui. Tale approccio scoraggia le iniziative e incoraggia ad obbedire agli ordini e a rimanere al proprio posto piuttosto che ad identificarsi e a tentare di migliorare ciò che si sta facendo. Ribadiamo, però, che il modello teorizzato da Taylor va analizzato ed inserito nel suo contesto di riferimento, solo così si può comprendere la ratio alla base degli assunti meccanicistici imperniati sull’affermazione di nuovi sistemi di organizzazione aziendale.

Approfondimento: il concetto di Neotaylorismo e il caso McDonald’s

Oggi non si parla più di taylorismo, bensì di neotaylorismo, per il quale s’intende quel fenomeno di razionalizzazione produttiva tipico del settore dei servizi. Esempi di neotaylorismo si verificano nei settori dei/della:

I. Call center: schema rigido e impostato d’istruzioni, monitoraggio e valutazione da parte di supervisori;

II. Ristorazione veloce: moderna catena di montaggio, procedimenti standardizzati e ripetitivi per realizzare prodotti in serie (v. McDonald’s).

Il caso MCDonald’s:

Organizzazione del lavoro ispirata ai principi del management scientifico:

scomposizione di ogni attività in compiti semplici e facili da programmare e gestire; massimizzazione del controllo manageriale; Prevedibilità e uniformità del servizio; Formazione dei dipendenti; Selezione e controllo dei fornitori; Gestione integrata dei macchinari, delle specifiche di produzione e delle ispezioni

periferiche.

La one best way:

Cuocere un hamburger in 107 secondi; Le patatine fritte non devono essere servite dopo 7 minuti dalla loro cottura; Ogni ordine deve essere servito entro 60 secondi; La struttura del locale e il suo arredamento aiutano i clienti a distribuire in varie code

nell’attesa del proprio turno; I menu sono standard e non consentono grosse variazioni.

Paradigmatico del concetto di neotaylorismo applicato al caso McDonald’s è: “Come si cuoce un hamburger?” “I medaglioni di carne devono essere disposti sulle piastre in sei file da sei e vanno appoggiati partendo da sinistra e muovendo verso destra. Le prime due file sono quelle che impiegano più tempo a cuocersi, quindi si deve girare prima la terza fila, poi la quarta, la quinta e la sesta e infine le prime due”.

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Il modello MacDonald’s si caratterizza per:

l’EFFICIENZA: offre un modo ottimale per passare da una condizione di fame a una condizione di sazietà;

la QUANTIFICAZIONE: offe un servizio che può essere facilmente valutato e quantificato, fornendo l’impressione di servire una grande quantità di cibo ad un prezzo modesto;

la PREVEDIBILITA’: si può essere certi che l’hamburger mangiato in una città sia uguale a quello servito altrove e rimarrà identico la settimana successiva;

il CONTROLLO: delle persone con un ricorso massiccio a tecnologie e prescrizioni.

9. Il Taylorismo

Riprendiamo l’analisi del taylorismo partendo dall’esame di un documento che tratteggia in concreto tutta un’epoca; un’epoca, per l’appunto, contraddistinta dall’affermazione di nuovi sistemi di organizzazione aziendale a seguito della diffusione dello scientific management. Si tratta di un “ordine di servizio” del 1899 - emanato da una società di assicurazioni svizzera (Società Elvetica di assicurazioni) e rivolto a tutto il personale impiegato nell’organizzazione - che contiene un decalogo che regolamenta il comportamento dell’impiegato modello.

Si passano, di seguito, brevemente in rassegna alcuni passi dell’ “ordine di servizio” su cui s’intende focalizzare maggiormente l’attenzione per una più approfondita, nonché critica, analisi delle organizzazioni operanti negli anni dello scientific management e dei principi tayloristici alla base delle stesse:

“il timore di Dio, le buone maniere e la puntualità sono condizioni indispensabili per il personale di un’azienda ben organizzata”;

“da oggi in poi il personale deve essere presente al lavoro dalle 6 del mattino fino alle ore 6 della sera[…]”;

“siamo fiduciosi che tutti i dipendenti effettueranno le ore di straordinario che la Compagnia riterrà necessarie”;

“è proibito parlare durante le ore di ufficio[…]”; “in presenza di clienti, membri della direzione o di rappresentanti della stampa, il

comportamento del dipendente dev’essere rispettoso e modesto”; “infine, vorremmo attirare l’attenzione di tutto il personale sulla liberalità delle nuove

disposizioni. In cambio ci attendiamo un sensibile aumento della produzione”.

Dai punti più salienti dell’ “ordine di servizio” richiamati in elenco, si evince con estrema chiarezza come tale documento, sintetico ma pregnante, racchiuda fattivamente i principi cardine dell’organizzazione scientifica del lavoro così come teorizzati da Frederick Winslow Taylor, validamente applicati non solo alle realtà industriali ma anche alle organizzazioni di servizi, come nel caso della Società Elvetica di assicurazioni. Tali principi distintivi sono :

enfasi sui valori dell’obbedienza, del rispetto, della disponibilità totale e della precisione; il paradigma della one best way, secondo cui vi è una sola modalità organizzativa e

gestionale attraverso la quale è possibile, in un determinato periodo di tempo, raggiungere i risultati produttivi attesi;

per migliorare la performance lavorativa individuale di ciascun dipendente, occorre

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procedere ad una significativa razionalizzazione, parcellizzazione e misurazione dell’attività lavorativa;

riduzione del lavoro a compiti elementari e assegnazione del tempo standard, al quale nessuno si può sottrarre;

i risultati si possono raggiungere solo se si annette un’importanza fondamentale ai fattori “metodo” e “tempi”;

il lavoratore deve concentrarsi esclusivamente nell’esecuzione del proprio compito e deve essere addestrato per farlo.

La teoria dello scientific management viene favorevolmente accolta dagli imprenditori dell’epoca, in particolare da Henry Ford I: il fordismo, dunque, è l’applicazione pratica del taylorismo nella grande industria, in questo caso, dell’automobile. Nel 1913 l’imprenditore in esame introduce, infatti, la prima organizzazione del lavoro industriale basata sulla catena di montaggio o assembly line, volta a ridurre enormemente i tempi e quindi i costi di produzione; tutto era preordinato scientificamente in modo tale che i pezzi lavorati, scorrendo su binari e altri tipi di trasportatori, permettessero all’operaio tanto di stare fermo sul posto, quanto di eliminare qualsiasi movimento superfluo. "L’operaio — asserisce H. Ford — deve fare possibilmente una cosa sola con un solo movimento" .

Taylor e Ford, attraverso il loro contributo, hanno dato vita ad un modello organizzativo che ha contrassegnato tutta la storia della seconda rivoluzione industriale; dall’altro lato, però, com’è noto, sono piovute molte critiche, di cui si possono fornire tre diverse chiavi di lettura:

il taylorismo come sfruttamento; una tesi sostenuta da parte di studiosi di impostazione tendenzialmente anticapitalista (o neo-marxista), come Braverman (1974), o di tipo umanista Friedmann (1949), in una chiave di evoluzione della direzione aziendale verso forme di possibile collaborazione e di democrazia industriale;

il taylorismo come utopia tecnocratica, tesi avanzata da Crozier (1964), sulla base della sua convinzione che in qualsiasi contesto organizzativo gli individui attivano proprie strategie, tese a considerare margini di azione individuale, ma anche da Jacques relativamente al sistema industriale (1951) e al sistema burocratico (1976) (è impensabile, secondo questi autori, considerare i lavoratori come meri ingranaggi delle macchine);

il taylorismo come formula contingente: Blauner (1964) e Touraine (1955) affermano che il taylorismo è una delle tante formule organizzative che può assumere lo sviluppo industriale, in relazione anche agli effetti sul lavoro operaio. In questa critica s’inserisce un secondo filone che si richiama alla “teoria della contingenza”, che contestando l’assunto della one best way, sostiene che i ruoli e i compiti non possono essere rigidamente prescritti, ma variano in funzione del maggiore o minore livello di turbolenza dei fattori ambientali, o in base all’intensità dei processi d’innovazione tecnologica.

Approfondimento: la teoria organizzativa classica

La teoria organizzativa classica sviluppatasi verso la fine del secolo XIX si concentra su due principali approcci teorici:

lo scientific management di F. Taylor; la teoria dell’amministrazione generale d’impresa di Henry Fayol e Mooney.

Quest’ultima teoria fa, per così dire, da anello di raccordo tra la scuola classica e la scuola behaviorista (che approfondiremo nelle prossime lezioni) e si propone di dare indicazioni sui principi e sulle funzioni di governo dei dirigenti, da utilizzare come linee guida per la

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razionalizzazione delle attività organizzative, procedendo al contrario del taylorismo, dall’alto verso il basso.

Principali esponenti di questa corrente di pensiero sono studiosi con una forte componente operativa: Fayol (1949), industriale francese e capostipite, Mooney (1931) e Reiley (1931), dirigente della General Motors, e Urwick (1937).

Similarmente alla teoria di Taylor, la teoria di Fayol si basa su una visione meccanicistica della realtà aziendale. L’enfasi, tuttavia, non è posta sul miglioramento della performance del lavoratore in termini di efficienza, ma piuttosto sulle capacità gestionali dei manager e sugli aspetti più propriamente amministrativi ed organizzativi.

Gli autori della teoria dell’amministrazione generale concordano sull’importanza del contenuto di due attività della direzione d’impresa: il coordinamento e la specializzazione. Il primo si basa su alcuni principi fondamentali che sanciscono i rapporti tra i membri dell’organizzazione e i compiti previsti nell’organizzazione del lavoro. I membri sono legati da una struttura piramidale di tipo gerarchico in cui l’autorità formale, ovvero la direzione, esercita il controllo. Ai livelli più bassi di tale struttura sono affidate mansioni esecutive; a quelli intermedi lo studio dei metodi di lavoro e il controllo di produzione; mentre al livello apicale della piramide spetta la responsabilità delle strategie e delle scelte aziendali. Ogni membro della piramide deve ricevere ordini da un solo superiore, che a sua volta, deve coordinare un numero non elevato di lavoratori a lui subordinati.

La specializzazione del lavoro, invece, riguarda le modalità con le quali le attività produttive ed amministrative e i ruoli lavorativi che le svolgono, sono aggregati per massimizzare l’efficienza e l’efficacia del’organizzazione.

Ciò detto, Fayol individua cinque funzioni chiave del management industriale:

la programmazione (predeterminare gli obiettivi e pianificare le attività); l’organizzazione (organizzare la divisione del lavoro per formare strutture di tipo gerarchico

che contemplino una specializzazione in campo operativo); il comando (guidare le risorse umane); il coordinamento (armonizzare le diverse attività aziendali); il controllo (verificare l’attuazione dei programmi e l’esecuzione degli ordini).

Basandosi sulla lunga esperienza maturata in azienda, Fayol espone dettagliatamente i principi generali di amministrazione, che di seguito proponiamo rielaborando, a nostra volta, la classificazione proposta da Morgan (pag. 31 di “Images”):

1. unità di comando: ogni dipendente deve ricevere ordini da un solo superiore gerarchico (non devono esistere dualità di comando);

2. catena di comando: è la linea gerarchica che lega superiori e subordinati, in quanto canale di trasmissione delle comunicazioni e delle decisioni (logica top-down: tale catena di comando va dal vertice alla base dell’organizzazione piramidale);

3. ambito del controllo: il numero di persone che fanno capo ad un superiore non deve essere tale da causare problemi di comunicazione e coordinamento (aspetto innovativo rispetto alle teorizzazioni di Taylor: tenendo sempre ben chiara l’unità di comando, si iniziano ad intravedere forme di interazione e di relazione tra i lavoratori e tra questi e i propri superiori gerarchici);

4. disciplina: l’obbedienza, l’assiduità, l’impegno, il comportamento rispettoso, insieme a tutta una serie di atteggiamenti di sottomissione, devono corrispondere a regole e prassi diffuse (così si va pian piano sostituendo il potere legittimato al potere “brutale”);

5. divisione del lavoro: l’organizzazione deve aspirare ad un livello di specializzazione (si supera così il paradigma della one best way) tale da permetterle di proseguire

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efficacemente al raggiungimento dei propri obiettivi (produrre più e meglio con il medesimo sforzo);

6. autorità e responsabilità: i diritti di impartire disposizioni e i doveri di obbedienza devono essere pianificati correttamente; è opportuno ricercare un giusto equilibrio tra autorità e responsabilità: non ha senso dare delle responsabilità senza accompagnarle ad un appropriato livello di autorità;

7. subordinazione dell’interesse individuale all’interesse generale: i mezzi che consentono di realizzare questo obiettivo sono la fermezza, il buon esempio mostrato dai superiori, l’esercizio di una costante supervisione e la maggiore equità garantita da accordi franchi;

8. giustizia: giusta remunerazione dello sforzo e incoraggiamento del personale nell’esercizio dei propri doveri (il concetto di giustizia sociale inizia a farsi largo anche all’interno delle organizzazioni di lavoro);

9. rapporto di lavoro di lungo periodo: stabilità del personale per favorire lo sviluppo delle competenze (valori premianti alla base della teoria classica sono elementi quali: l’anzianità di servizio, la fedeltà alla causa, lo spirito di abnegazione sul lavoro);

10. spirito di corpo: lo spirito aziendale è fondamentale per favorire l’armonia che, a sua volta, rappresenta una potenzialità per l’organizzazione (aspetto innovativo rispetto al taylorismo);

11. iniziativa: l’iniziativa di tutti che va ad aggiungersi a quella del capo è una grande forza per le organizzazioni, seppur piramidali.

Dai principi esposti, caratterizzanti la funzione direttiva, si desume come Fayol critichi, per molti versi, il modello di management teorizzato da Taylor, in quanto fondato su di una molteplicità di comando e sulla accentuata separazione delle attività decisionali e gestionali da quelle prettamente operative e, se ne discosti, sostenendo la superiorità di un ordinamento gerarchico basato sull’unità e sulla catena di comando ma in una prospettiva di maggior responsabilizzazione e partecipazione di tutti i lavoratori alle attività e al risultato finale.

Fayol privilegia, dunque, una struttura organizzativa di tipo piramidale e, pur considerando necessaria la specializzazione in azienda, sostiene l’opportunità di ricorrere ad organi di staff da inserire stabilmente nella struttura d’azienda (specialisti con funzioni di coordinamento e controllo, di assistenza, consulenza, e servizi alla linea, cioè agli organi di esecuzione e direzione), e a organi di line (articolati in modo strettamente gerarchico che hanno l’autorità e la responsabilità di esigere determinati comportamenti dai subordinati, configurandosi come soggetti direttamente coinvolti al perseguimento degli obiettivi aziendali), non abbandonando mai il principio dell’unità di comando.

Se si applicano i principi generali della teoria dell’organizzazione classica, si ottiene il tipo di

L’organigramma A offre una macrorappresentazione di una organizzazione individuandone le principali strutture funzionali. Ogni reparto funzionale ha la sua organizzazione gerarchica. L’organigramma B rappresenta un reparto di produzione in dettaglio. Si noti la catena del comando che scende dal vertice verso la base dell’organizzazione. Ogni punto della base può raggiungere il vertice solo attraverso un unico percorso, in omaggio al principio dell’unità di comando (la linea in grassetto evidenzia quanto appena esposto). Il presidente dell’organigramma A ha un ambito di controllo pari a sette. Il caposquadra responsabile della fonderia del reparto di produzione ha un ambito ci controllo pari a dodici. Il responsabile della produzione ha un ambito di controllo pari a tre. Si noti che i reparti di staff (ad es. Finanza, Personale, Affari legali, R&S) non hanno nessuna autorità sui reparti di line quale il reparto di produzione.

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Fonte: Morgan, 2002

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organizzazione rappresentato nella figura 2.3: si tratta di un modello caratterizzato da mansioni definite con precisione, organizzate in senso gerarchico attraverso linee di comunicazione e di comando definite con altrettanta precisione. E se esaminiamo questi principi con attenzione – sostiene Morgan – ci possiamo rendere conto che i teorici classici progettavano le organizzazioni esattamente come se stessero progettando delle macchine. Infatti, gli esponenti della teoria organizzativa classica concepivano l’organizzazione come un insieme di parti: si tratta di reparti funzionali (produzione, marketing, finanza, personale, ricerca e sviluppo, etc.), che a loro volta sono ulteriormente sottoarticolati in una serie di mansioni definite nel dettaglio. Le responsabilità delle diverse mansioni si incastrano tra di loro in modo da completarsi reciprocamente in maniera tendenzialmente perfetta e sono tenute insieme dalla catena scalare del comando che si basa sul noto detto “un uomo un capo”.

Il nocciolo della teoria dell’organizzazione classica e delle sue versioni moderne - asserisce Morgan - si basa sull’assunto che le organizzazioni possono, o quanto meno, dovrebbero essere sistemi razionali che funzionano nella maniera più efficiente possibile. Se è vero che molti sono propensi ad accettare questo principio come un ideale cui tendere, è altrettanto vero che «è più facile dirlo che farlo», dal momento che un’organizzazione è formata da persone e no da ingranaggi e rotelle. Da questo punto di vista, continua l’autore di “Images”, è significativo il fatto che i teorici classici abbiano prestato scarsa attenzione agli aspetti umani delle organizzazioni. Anche se tali autori hanno a più riprese riconosciuto il bisogno di leadership, l’importanza della capacità d’iniziativa dei singoli dipendenti, l’importanza di atteggiamenti paternalistici, l’importanza di gestire i dipendenti con giustizia, l’importanza dello spirito di corpo e di altri fattori suscettibili di avere una qualche influenza sulla motivazione, questi stessi autori hanno sempre concepito l’organizzazione fondamentalmente come un problema tecnico. I teorici dell’approccio classico si rendevano conto che è importante raggiungere un certo equilibrio o addirittura una vera e propria armonia tra gli aspetti umani e quelli tecnici, particolarmente facendo perno su opportune metodiche di selezione e addestramento; ad ogni buon conto la tendenza di questi autori è quella di adattare - conclude Morgan - le persone ai requisiti dell’organizzazione meccanicistica.

10. La scuola delle human relations e quella comportamentista e motivazionale

Buona parte degli studi organizzativi a partire dalla fine degli anni Venti hanno tentato di superare i limiti della prospettiva taylorista attribuendo, al contrario dello scientific management, sempre più importanza alla natura sociale e relazionale dell’individuo.

Iniziamo con l’illustrare gli studi di Elton Mayo, a partire dai quali si inizia a prendere coscienza della rilevanza delle motivazioni e del bisogno di sicurezza insito in ogni individuo; tale concezione contribuirà a trasformare l’azienda da apparato esclusivamente tecnico a sotto-sistema sociale più flessibile ed equilibrato.

Nel 1924 presso le Officine Hawthorne dello stabilimento della Western Electric Company di Chicago fu avviato un programma di ricerche sperimentali sul grado di connessione esistente tra illuminazione e rendimento. Dopo una serie di indagini effettuate basandosi sul livello di produttività raggiunto in diverse condizioni d’illuminazione, i risultati si rivelarono inaspettati tanto da far pensare all’esistenza di una variabile interveniente, il cosiddetto “fattore umano”, ovvero il complesso dei fattori psicologici latenti che condiziona il comportamento manifesto dei soggetti. La

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dimostrazione dell’esistenza del “fattore umano” si ebbe nella rilevazione di un effetto particolare che fu poi denominato “effetto Hawthorne”. Questo fenomeno consisteva nel comportamento che i lavoratori, consci di essere soggetti ad osservazione, mettevano in atto. Tale comportamento induceva un miglioramento delle prestazioni lavorative e di conseguenza un aumento della produttività; quindi presumibilmente le trasformazioni positive rilevate non sarebbero derivate tanto dagli effettivi miglioramenti delle condizioni lavorative, bensì dagli esperimenti stessi. In pratica, i lavoratori erano presi in considerazione non esclusivamente in termini di controllo ma venivano coinvolti in quello che oggi, nelle moderne aziende, chiameremmo “progetto di miglioramento”.

Da queste ricerche, dunque, nacque una scuola di pensiero organizzativo molto importante, quella delle human relations, destinata ad incidere profondamente sulle diverse realtà organizzative.

Questi studi sono tuttora famosi perché hanno messo in luce l’importanza sul posto di lavoro dei bisogni sociali e come individui e gruppi di lavoro siano in grado di soddisfare tali bisogni anche diminuendo la produzione e mettendo in atto tutta una serie di attività non pianificate.

Avendo messo in evidenza – asserisce Morgan – il fatto che può esistere una «organizzazione informale» basata su gruppi di amici e su interazioni non pianificate parallelamente all’organizzazione formale rispecchiata nella documentazione aziendale e risultante dai progetti della direzione, questi studi hanno inferto un colpo fortissimo alla teoria dell’organizzazione classica secondo cui ogni fenomeno era e doveva essere prevedibile e pianificabile.

Ad ogni buon conto, gli esperimenti di Mayo hanno posto al centro dell’attenzione le problematiche relative alla motivazione al lavoro e alle relazioni tra individui e gruppi. In questo modo ha cominciato a farsi strada un nuovo approccio allo studio delle organizzazioni, basato sull’assunto che gli individui ed i gruppi, al pari degli organismi biologici, danno il meglio di loro stessi quando i loro bisogni sono soddisfatti. Per tali ragioni, si comprese che la creazione di un clima relazionale sereno e collaborativo tra i capi e i collaboratori favorisce l’incremento della produttività aziendale, mentre quello improntato ad una logica esclusivamente gerarchica, che non riconosce uno spazio di socializzazione delle persone (v. taylorismo e teoria dell’organizzazione classica), pregiudica eventuali possibilità di miglioramento della stessa.

Quindi, se volessimo schematizzare le principali caratteristiche teoriche della scuola delle relazioni umane, potremmo dire che:

l’azione del lavoratore deve essere vista nel suo complesso, ovvero dev’essere analizzata la sua cultura di provenienza;

il tempo standard previsto dal modello tayloristico non tiene conto delle diversità individuali, quindi, è difficilmente applicabile su larga scala;

vi è una relazione tra il clima relazionale e l’andamento della produttività, per cui le motivazioni e le aspettative dei lavoratori influenzano le modalità di esecuzione e i risultati del compito che gli è stato assegnato;

a seguito della scoperta della natura sociale del lavoro, ne consegue che il lavoro individuale non è più produttivo del lavoro dove sono coinvolti diversi membri del gruppo.

Questo schema teorico sarà poi sviluppato meglio dalle teorie organizzative successive e influenzerà fortemente la teoria della cooperazione organizzativa elaborata da Chester Barnard (1938).

Verso la fine degli anni Trenta, Chester Barnard (studioso e manager di un’azienda telefonica americana) modificherà sostanzialmente la tesi di Mayo restituendo all’organizzazione formale la funzione di sede privilegiata in cui gli uomini stabiliscono relazioni e rapporti di cooperazione.

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Rispetto al taylorismo, l’approccio delle relazioni umane ritenne, invece, la cooperazione strettamente connessa alle motivazioni del singolo e del gruppo.

Per spiegare la necessità di attivare comportamenti cooperativi nell’organizzazione, allo scopo di garantire integrità organizzativa e risultati produttivi accettabili Barnard ricorre alla “parabola del masso” (1938).

Approfondimento: Barnard e la parabola del masso

Per illustrare efficacemente la necessità della cooperazione in azienda, l'autore ricorre, infatti, ad una parabola assai lontana dal mondo della fabbrica ma molto efficace: come dicevamo, “la parabola del masso”.

Un viandante mentre cammina su una strada s’imbatte ad un certo punto in un grande masso che gli blocca il cammino. Da solo non riesce a spostarlo, così aspetta qualcun altro che debba passare come lui in modo che insieme possano rimuoverlo. Nonostante arrivino ad essere in 4, a dover passare, non riescono a spostare il masso. Poco dopo arriva un contadino, con il suo trattore. Egli non ha interessi comuni alle altre 4 persone, fino a quando non riceve una somma di denaro per spostare il masso, solo a questo punto l’obiettivo di tutti coincide (ci sarebbe ancora un'altra possibilità: rinunciare allo spostamento del masso e ritornare indietro. Ma, questa è un’alternativa che un'organizzazione di lavoro non può scegliere in quanto significherebbe rinunciare ai propri fini e scopi).

La parabola esemplifica esaurientemente questo concetto: nel momento in cui il viandante, non riuscendo a smuovere il masso, aspetta fino a che arrivano altre persone che vogliono passare s’instaura la più semplice forma di cooperazione (detta “informale”) in cui il fine comune sembra coincidere con quello personale. Ma Barnard ci mette in guardia da questo errore e consiglia di guardare non a quello che smuovere il masso significa per ciascun individuo personalmente, bensì a ciò che ciascuno di essi pensa significhi per l’organizzazione (un’organizzazione nasce quando vi sono persone in grado di comunicare tra di loro (aspetto informale) e collaborare (aspetto formale) per perseguire un obiettivo comune.

Il fine dell’organizzazione, in generale, non si può quindi considerare come la somma dei fini dei singoli membri; infatti, se anche tutte le persone interessate a smuovere il masso non fossero nelle condizioni di farlo aspetterebbero ancora qualcun altro che, seppur non interessato al fine proposto, si renderà disponibile a cooperare a condizione di una ottenere una ricompensa (obiettivo diverso dalla rimozione del masso) capace di motivarlo a sufficienza. Pertanto, il fatto che il fine non vada inteso come la somma dei fini dei soggetti costituenti l’organizzazione e che vada tenuto anche distinto dai moventi personali dei soggetti, qualora dovesse coincidere, ha una valenza molto importante. In altri termini, ciò che spinge i singoli individui ad aderire ad un’organizzazione non è tanto conoscere e condividere la mission dell’organizzazione stessa, quanto conoscere quali sacrifici impone l’adesione a quell’organizzazione e quali benefici assicura. Il problema, pertanto, è quello di mobilitare un insieme di individui per raggiungere un fine che non è loro, offrendo incentivi tali da soddisfare la loro motivazione personale a partecipare.

Di qui, l’introduzione dei concetti di efficacia ed efficienza, secondo un’accezione originale: l’efficacia è la misura in cui un’organizzazione realizza i propri obiettivi (non il profitto ma la produzione di beni o servizi cui è deputata); l’efficienza è la misura in cui i moventi personali sono soddisfatti. La mediazione tra efficienza ed efficacia è un problema tanto fondamentale quanto complesso per il management.

Un soggetto, quindi, sarà spinto a produrre un maggiore o minore sforzo in favore del

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raggiungimento dei fini dell’organizzazione a seconda degli incentivi che riceverà in cambio.

Barnard giunse addirittura ad un più ampio livello di generalizzazione dimostrato nella particolare importanza accordata agli “incentivi non materiali”.

Gli incentivi non materiali comprendono diversi tipi di presupposti tra i quali quelli che Barnard chiama “condizioni di comunione”, ovvero “…quel sentirsi a proprio agio nei rapporti sociali che è talvolta chiamato solidarietà, integrazione sociale, socievolezza o sicurezza sociale (nel senso originale, non nel suo presente svilito senso economico)….” . La “condizione di comunione” di cui parla Barnard si riferisce al vivere positivamente i propri rapporti con gli altri, la propria condizione lavorativa.

Quest’importanza data all’aspetto individuale, alle percezioni dei singoli che costituiscono, insieme, l’organizzazione, ci avvicina sempre di più al concetto di clima organizzativo. I rapporti sociali sono messi al centro delle percezioni individuali, sono considerati il principale elemento determinante la positività del vissuto lavorativo. Per rapporti sociali in ambito organizzativo non s’intendono, infatti, le relazioni amicali, ma s’intende soprattutto la modalità di relazione che costantemente si adotta nelle proprie ore di lavoro per rapportarsi con colleghi, superiori o dipendenti.

Il contesto in cui Barnard colloca gli incentivi non materiali è più ampio di quello delle relazioni umane in quanto non si riferisce soltanto alla gradevolezza psicologica dei rapporti informali, ma all’importanza di appagamenti fondati sulla dimensione morale dell’agire cooperativo. Il che travalica l’aspetto ontico (che si riferisce al dato fenomenologico, nella sua concretezza e singolarità) per approdare a quello ontologico (che ha per oggetto l’assimilazione degli individui in quanto tali alla dimensione organizzativa).

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La parentesi della seconda guerra mondiale interrompe gli studi e le sperimentazioni in campo organizzativo, ma in quest’ambito e sulla scia della scuola delle HR (Human Resources) si situano diverse teorie e scuole di riferimento; in particolare, si sviluppano teorie orientate ad analizzare il ruolo del comportamento e della motivazione nella progettazione e nella gestione dei nuovi modelli organizzativi.

Tra i diversi contributi è utile richiamare quello fornito dalla scuola comportamentista e motivazionale, i cui maggiori esponenti sono Maslow ed Herzberg negli anni Cinquanta e Sessanta, Argyris e Drucker negli anni Sessanta-Settanta e Mintzberg negli anni Settanta-Ottanta.

I presupposti generali della posizione volontaristica (agire cooperativo per il perseguimento di un fine comune superiore) consistono nel favorire lavori più ricchi di contenuti intelligenti (o intrinseci) e che procurino maggiori soddisfazioni coinvolgendo di più il lavoratore.

La scuola motivazionalista si concentrò sull’importanza dell’individuo, di conseguenza ritenne fondamentale subordinare le esigenze dell’organizzazione ai bisogni dell’uomo e in particolare al suo bisogno di autorealizzazione. Da ciò si desume che - secondo i teorici della predetta scuola - l’organizzazione non è più una macchina ma un insieme di individui, ciascuno mosso da motivazioni tanto singole quanto accomunabili; in effetti, le possibilità di gestione efficiente di un’organizzazione di lavoro all’interno di una simile prospettiva passano attraverso una concezione collettiva delle motivazioni individuali.

La motivazione, dunque, si riferisce all’attivazione, alla direzione e alla persistenza del comportamento, quindi, è importante per comprenderne la natura, per predire il suo manifestarsi e poterlo eventualmente influenzare.

Lo studio della motivazione sul lavoro ha le stesse ragioni: predire la prestazione rispetto ad una

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certa attività e la risposta ad un certo ambiente di lavoro, avere informazioni su come selezionare e addestrare i lavoratori e su come predisporre l’ambiente.

Le teorie motivazionali, quale quella antesignana elaborata da Abraham Maslow, rappresentano l’individuo nella sua dimensione psicologica, costantemente in lotta per soddisfare i suoi bisogni, alla ricerca di una crescita e di uno sviluppo completi.

Approfondimento: la teoria dei bisogni di Maslow

La teoria dei bisogni di Maslow tratta empaticamente gli esseri umani (si pone cioè in sintonia con l’individuo e ne accoglie le emergenze aspirazionali) ed esercita un richiamo sugli specialisti del mondo del lavoro, poiché spiega perché alcuni incentivi materiali non possono essere considerati veramente tali e quanto sia importante capire se l’ambiente lavorativo si rivela efficace nel soddisfare i bisogni individuali di realizzazione.

Pertanto, la motivazione di un comportamento nasce dalla tendenza a soddisfare un particolare bisogno e può essere definita come la spinta interiore che porta l'individuo ad applicarsi con impegno nel lavoro. Si tratta di una sorta di forza interna, un’intima energia, che stimola, regola e sostiene le principali azioni compiute dalla persona e può essere descritta in modo ciclico: dall'origine del bisogno, avvertito come una tensione interiore, l'individuo ricerca i mezzi per poterlo soddisfare; quando il soggetto riesce a soddisfare il proprio bisogno rivaluta la situazione e verifica la presenza di nuovi ed ulteriori bisogni. Essa è intrinseca all'individuo e non può essere indotta mediante interventi esterni con i quali si riesce, al più, a sollecitarla.

Maslow sostiene che il comportamento della persona, anche sul lavoro, tende alla soddisfazione di bisogni ordinati secondo una precisa gerarchia, che egli ha indicato all'interno di una struttura piramidale (Fig.1)

Secondo la teoria di Maslow, partendo dal basso si distinguono le seguenti categorie di bisogni umani:

Fig. 1

bisogni fisiologici, legati alla sopravvivenza immediata (respirare, bere, mangiare, riposare, muoversi);

bisogni di sicurezza, fisica ed emotiva, relativi alla sopravvivenza a lungo termine (libertà da pericoli, minacce e privazioni, provocati da danni fisici, difficoltà economiche, malattia);

bisogno di socialità, cioè identificazione con il gruppo o l'azienda, e di un ambiente socievole e gradevole (relazioni affettive, accettazione da parte dei pari, riconoscimento come membro del gruppo, stare insieme);

bisogno di stima e autostima (riconoscimento da parte degli altri e rispetto di sé); bisogno di autorealizzazione (conferma della propria identità attraverso risultati

appaganti: ciò ovviamente in relazione alle diverse aspettative di ciascun individuo).

Il comportamento dell'individuo è finalizzato ad appagare prima i bisogni di livello inferiore, la cui soddisfazione cessa di renderli motivanti e fa emergere i bisogni gerarchicamente superiori.

Fig. 2

A proposito della teoria dei bisogni, Gareth Morgan, nel suo testo, individua tutta una serie di strumenti (schematizzati nella Fig.2) suscettibili di essere utilizzati per motivare i

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dipendenti, a seconda del livello cui si collocano i loro bisogni sulla scala relativa.

Premiare il totale impegno nei confronti dell’azienda; Il lavoro diventa la maggiore espressione del dipendente

Autorealizzazione

Creazione di mansioni caratterizzate da autonomia, responsabilità e controllo personale;

Mansioni che sviluppino l’identità personale; Riconoscimento dei risultati ottenuti attraverso promozioni, premi, ecc.

Ego

Organizzazione del lavoro che permetta di interagire con i colleghi;

Strutture sociali e sportive; Riunioni d’ufficio o d’impianto

Sociali

Assistenza sociale e sanitaria; Sicurezza del posto; Possibilità di carriera nell’ambito dell’organizzazione

Sicurezza

Salari e stipendi; Condizioni di lavoro sicure e piacevoli

Fisiologico

In definitiva, la motivazione al lavoro e il senso di appartenenza all

o

rganizzazione non si possono sviluppare naturalmente, devono essere stimolati dal management aziendale, ma soprattutto devono essere create le condizioni professionali, organizzative e relazionali necessarie a supportare tale fenomeno, attraverso politiche mirate e coerenti.

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11. L’approccio motivazionalista e comportamentista: Herzberg e Likert

Nella precedente lezione abbiamo illustrato le principali indicazioni teoriche della scuola

delle relazioni umane e dell’approccio motivazionalista, qui di seguito sintetizzate:

la gestione organizzativa si può realizzare più efficacemente, se si tiene conto dei principi della teoria dei bisogni in chiave evolutiva elaborata da Maslow e perfezionata, per certi

versi da Herzberg;

l’organizzazione della produzione risulta essere più produttiva e la gestione delle risorse umane più efficace se si introducono i metodi del job enrichment (arricchimento delle

mansioni), job enlargement (ampliamento delle mansioni), job rotation (rotazione delle mansioni), allo scopo di migliorare il clima organizzativo e la performance aziendale

complessiva;

l’organizzazione della produzione risulta essere più efficace e produttiva se si supera la

divisione individuale del lavoro e si procede attraverso la costituzione di gruppi di lavoro;

il management, attraverso la politica di gestione delle risorse umane, assume un ruolo

fondamentale nella gestione della crescente complessità aziendale. I contributi teorici di Maslow e di Herzberg si rivelano estremamente utili per

comprendere meglio le aspettative e le aspirazioni degli individui all’interno delle organizzazioni di lavoro, in base alla posizione organizzativa e al ruolo professionale che

ricoprono. Tali bisogni diventano elementi di motivazione a svolgere meglio e più efficacemente le proprie mansioni se sono adeguatamente soddisfatti, nella progressione (scala) indicata da Maslow: i bisogni primari (quelli da soddisfare in via prioritaria, come i bisogni economici, di sicurezza e di appartenenza), i bisogni di stima, ed infine i bisogni di

ordine superiore, il cui soddisfacimento costituisce una formidabile leva motivante.

Herzberg, attraverso uno schema più analitico, si concentra soprattutto sui processi che derivano dalla soddisfazione dei bisogni organizzativi. Egli sostiene che esistono due tipi di fattori correlati alla motivazione sul lavoro: bisogni correlati strettamente all’attività

lavorativa che un individuo svolge, chiamati “fattori igienici” e bisogni che ruotano attorno alla crescita e allo sviluppo professionale e personale, detti “fattori

motivazionali”.

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Secondo Herzberg le due tipologie di fattori possono influenzare la motivazione in maniera diversa. A tal proposito, egli distingue tra soddisfazione e non soddisfazione per il lavoro che, nella sua teoria, non sono antitetici: l’opposto di soddisfatto è insoddisfatto;

allo stesso modo l’opposto di non soddisfatto è non insoddisfatto. Secondo Herzberg, i “fattori igienici” sono efficaci nell’estinguere la non soddisfazione al lavoro, ma non possono essere fonti di soddisfazione; i “fattori motivazionali”, invece, motivano la

prestazione al lavoro e possono portare soddisfazione, ma la loro assenza causa addirittura insoddisfazione.

Pertanto, esistono due tipi di popolazione: “i ricercatori di soddisfazione” e “i ricercatori di igiene”: i primi perseguono non solo il benessere economico, la sicurezza e il conforto

dell’ambiente, ma soprattutto realizzazione, riconoscimento e continua crescita psicologica; i secondi si preoccupano esclusivamente della remunerazione, delle

condizioni ambientali in cui lavorano e della sicurezza e non percepiscono come necessari altri presupposti.

Herzberg, dunque, nel prendere in considerazione le percezioni e le valutazioni individuali, palesa la necessità di andare incontro alle esigenze del lavoratore. “Fattori

igienici” e “fattori motivazionali” insieme determinano il clima di un’organizzazione, ne costituiscono rispettivamente l’aspetto oggettivo, della struttura e della gestione, e l’aspetto soggettivo dei fini individuali, delle aspettative e della relazione. Il clima è,

quindi, una variabile indipendente e influisce sulla motivazione, che, a sua volta, assume il ruolo di variabile dipendente.

Dall’analisi della tabella si desume che per Herzberg esistono cinque diverse tipologie di fattori motivanti per l’individuo, posti in un ordine crescente, che devono essere

soddisfatti in una logica scalare. Egli specifica che la risorsa umana presta attenzione ad un primo gruppo di fattori ritenuti fondamentali e basilari che sono rappresentati dalla retribuzione e dalle condizioni di lavoro, solo in un secondo momento s’interessa della politica del personale posta in essere dall’organizzazione. Dopodiché, una volta assunto

un ruolo di maggiore importanza nell’organizzazione, la risorsa umana è matura per essere motivata da politiche tendenti a favorire avanzamenti di carriera e riconoscimenti

personali, così come le relazioni con i superiori e le politiche di controllo e coordinamento (supervisione) attuate in azienda. Soddisfatti questi quattro gruppi di fattori motivanti, il

lavoratore sarà interessato ad elementi come successo, riconoscimento, contenuto del lavoro e responsabilità.

Allo scopo di chiarire meglio la valenza esplicativa delle elaborazioni dei teorici della scuola motivazionalista, poniamo a confronto gli elementi analitici indicati da Maslow

nella teoria dei bisogni e quelli previsti nella teoria dei fattori motivanti di Herzberg

(tab.1). Scala di Maslow Scala di Herzberg

Fattori motivanti Bisogni di autorealizzazione Successo

Riconoscimento

Contenuto del lavoro

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Responsabilità

Bisogni di stima Avanzamento

Riconoscimento

Fattori igienici Bisogni di appartenenza Relazioni con i superiori

Bisogni di sicurezza Tipo di supervisione

Bisogni economici Politica del personale

Condizioni di lavoro

Retribuzione

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Approfondimento: Rensis Likert e gli stili di leadership

Rensis Likert (1903-1981) è considerato uno dei più importanti studiosi del comportamento umano e delle organizzazioni. Le tesi da lui elaborate, che rientrano nel cosiddetto approccio comportamentale, risentono dell'influenza degli studi condotti da

Elton Mayo e da Frederick Herzberg e si soffermano soprattutto sull'evidenziare il rapporto tra rendimento e stile di leadership.

Riteniamo opportuno, prima di addentrarci nello studio delle diverse tipologie degli stili di leadership, definire il concetto di leader e di leadership. La parola leader deriva dal

verbo inglese to lead, che significa guidare, condurre, dirigere. Il leader è un individuo in grado di guidare un gruppo di persone (team) al perseguimento della mission; è colui che ha ben chiari quali sono gli obiettivi verso cui tendere e sa motivare il suo team affinché

vengano raggiunti. La leadership, quindi, è la capacità, che un individuo possiede, di ricoprire ruoli di comando ovvero manageriali.

In linea con quest’impostazione si può sostenere che un “buon manager” potrà essere colui che tende ad essere il leader del gruppo/ufficio/struttura di cui è responsabile, oltre

che il capo gerarchico e burocratico; colui, che, in virtù di questa funzione acquisita e riconosciuta, può assumere il ruolo di direttore d‘orchestra o di coach, che conosce

singolarmente tutte le risorse umane di cui dispone l’organizzazione, e decide di “mandare in campo” la persona giusta al momento opportuno.

Nell’immaginario collettivo il leader può essere, a volte, identificato nel capo autoritario e “dispotico” di una divisione aziendale. In realtà questo è solo uno dei tanti stili di

leadership.

E’ da osservare, al riguardo, che non esiste uno stile «universale», cioè migliore in assoluto, di leadership, poiché a seconda del contesto organizzativo è preferibile uno stile

piuttosto che un altro, e anche nel medesimo ambiente non può esistere uno stile che vada bene in ogni circostanza con ciascun collaboratore (leadership situazionale). E’ invece preferibile che il leader sia in grado di modulare il proprio stile a seconda del contesto e del clima organizzativo peculiare dell’organizzazione presso cui lavora.

Dall'osservazione degli stili di leadership presenti nelle aziende, Likert individua quattro diversi stili che un manager può adottare:

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lo stile autoritario-coercitivo. Il manager adotta tale stile quando decide, autonomamente e in maniera indipendente, sul da farsi e impone le sue scelte ai

subordinati ricorrendo alla coercizione. Pertanto, egli decide il cosa, il come e il quando eseguire un dato compito. La comunicazione, in questo caso, è unidirezionale (dall’alto

verso il basso) in quanto il manager/leader interagisce con il team solo per comunicare le

decisioni prese;

lo stile autoritario-benevolo. Meno assolutistico è il manager che adotta uno stile autoritario-benevolo: egli assume le decisioni più rilevanti e delega ai suoi subalterni la

loro concreta realizzazione, ricorrendo anche a ricompense per incoraggiare la prestazione. L’approccio è di natura paternalistica e la comunicazione con il gruppo è presente in misura maggiore rispetto allo stile precedente, ma la maggior parte delle

decisioni viene comunque presa dal top management;

lo stile consultativo. Il manager adotta le decisioni di maggior rilievo, ma incoraggia comunque i suoi subordinati a proporre idee e possibili soluzioni ai problemi. La

comunicazione con il gruppo di lavoro è bidirezionale, in questo modo è maggiore il

contributo dei collaboratori al processo decisionale; lo stile partecipativo. Agli antipodi rispetto allo stile autoritario-coercitivo, vi è lo stile di

leadership partecipativo: uno stile fortemente democratico, caratterizzato da un ampio ricorso alla delega delle decisioni. Il manager conserva, in questo caso, un ruolo di supervisione. L’enfasi qui è sulla costruzione di una rete di comunicazioni efficaci. Il management e i collaboratori cooperano per risolvere un problema che riguarda il

comune contesto operativo. Un approccio di questo tipo consente ai componenti del team di prendere parte al processo decisionale, di sentirsi coinvolti nel progetto e ciò

aiuta il leader a fare in modo che gli obiettivi di ciascun individuo coincidano con quelli dell’azienda. Generalmente, in presenza di un approccio partecipativo il rendimento e la

performance sono migliori e questo perché il leader riesce ad instaurare una migliore comunicazione con il proprio team che, prendendo parte al processo decisionale, si sente

di poter contribuire alla mission aziendale.

Di primo acchito sembra quindi che lo stile consigliabile sia l’ultimo, in realtà non sempre è così. Likert, infatti, afferma che i regimi autoritari possono risultare utili nei lavori

semplici, ripetitivi e poco creativi: in questi casi, infatti, è possibile raggiungere elevati livelli di rendimento anche in assenza di soddisfazione. Tuttavia esistono anche dei

cosiddetti lavori “variati”, cioè dei lavori creativi (specie in un’era di servizi evoluti come la nostra attuale), che richiedono un alto grado di responsabilità e di auspicabile ed

inevitabile iniziativa individuale. In questi casi il rendimento aumenta con l'impiego di forme di leadership partecipative.

Nei lavori “variati”, quindi, il rendimento è maggiore se:

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è minore la pressione dall'alto;

il controllo gerarchico è più distaccato;

in caso di errore non si hanno repliche punitive, ma si tenta una comprensione dei motivi

dell'errore. Secondo lo studioso «i dipendenti che si sentono liberi di regolare il proprio lavoro si dimostrano più produttivi rispetto a quelli che sono privi di questo senso di libertà»,

sottolineando in questo modo l'importanza dell'autonomia di ogni lavoratore.

Likert, infine, evidenzia come gli stili autoritari ottengano più rapidamente dei risultati rispetto agli stili partecipativi, ma questi risultati sono meno duraturi nel tempo: dopo un periodo di circa due anni i rendimenti tendono, infatti, a restare costanti o addirittura a

decrescere, mentre quelli degli stili democratici aumentano.

12. Simon e Mintzberg

Herbert Simon (1916-2001) apporta agli studi organizzativi un contributo di notevole importanza attraverso l’introduzione del concetto di complessità organizzativa e di razionalità limitata nelle scelte economiche e nell’elaborazione dei principali processi decisionali.

Quest’importante studioso chiarisce che l’impresa è un organismo complesso sia per la propria struttura interna, sia per il funzionamento del sistema socio-produttivo in cui opera. In tale contesto l’organizzazione di lavoro agisce attraverso comportamenti decisionali che non si ispirano a modelli di razionalità ottimale ma di razionalità limitata. Tale rilevante concetto sta a sottolineare che gli attori delle realtà organizzative nell’assumere decisioni non possono far ricorso allo schema della razionalità formale e assoluta (orientata allo scopo, sulla base della valutazione di tutte le alternative possibili), ma ricorrono invece ad una razionalità limitata, che comporta necessariamente un margine, più o meno ampio, di approssimazione, dovuto all’acquisizione e alla valutazione delle alternative, ad una congettura, oppure ad elementi di soggettività. I limiti, ai quali si riferisce Simon, sono di natura mentale e culturale poiché l’individuo non è formalmente razionale, non dispone cioè di informazioni su tutte le possibili alternative e sulle loro conseguenze, ma soprattutto non dispone di un sistema di preferenze certo e immutabile nel tempo.

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Come nota Simon: “la scelta dell’alternativa ottimale richiede processi estremamente più complessi dei processi ordinari di un’alternativa soddisfacente. Si pensi, ad esempio, alla differenza che passa tra frugare in un mucchio di fieno per trovare l’ago più aguzzo e frugare nello stesso mucchio di fieno per trovare un ago aguzzo abbastanza perché ci si possa cucire”.

In altre parole l’uomo, come essere cognitivo, esprime le proprie preferenze anche sulla base di un proprio sistema di valori, di convinzioni etiche, culturali e di tradizioni familiari, elementi che tendono a ridurre fortemente il novero delle alternative effettivamente considerate.

Simon afferma, quindi, che per studiare la razionalità nelle (delle) organizzazioni, non è necessario studiarne i ruoli, bensì i processi decisionali, che sono determinati dalle informazioni, dalle procedure in essere ma anche dalle motivazioni soggettive.

Dallo schema teorico di Simon, si possono trarre due conclusioni fondamentali (Bonazzi, 1993):

le decisioni vanno viste non come atti istantanei e unitari, ma come processi in cui fini e

mezzi vengono scelti e confrontati strada facendo;

le decisioni vengono prese solo eccezionalmente seguendo il criterio della efficienza ottimale; nella normalità dei casi gli uomini si accontentano di soluzioni soddisfacenti, dove la preferibilità di una soluzione rispetto ad un’altra è sempre soltanto relativa e

rivedibile.

Approfondimento: Henry Mintzberg e la teoria della “contingenza”

Henry Mintzberg, esponente dell’approccio secondo cui la struttura sociale di un’organizzazione varia in relazione al tipo di ambiente in cui si trova ad operare, detto “contingentista”, sostiene che le imprese che si danno un assetto più conforme alle condizioni tecnologiche ed ambientali in cui si trovano ad operare, sono anche quelle più efficienti, mentre, le imprese con strutture non corrispondenti a quelle condizioni, sono quelle di minore efficienza (1985).

Per essere ottimale, quindi, la progettazione di un’organizzazione deve essere realizzata in corrispondenza di alcune “contingenze” ritenute strategiche. A tal proposito, lo studioso individua i seguenti elementi essenziali della progettazione organizzativa:

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i meccanismi di coordinamento;

le parti componenti dell’organizzazione. Quanto ai meccanismi di coordinamento, essi sottolineano l’importanza dell’organizzazione come agente e strumento di coordinamento e di controllo, oltre che, come nelle prospettive più convenzionali, di divisione del lavoro. Comprendono:

la supervisione diretta, ovvero, il ricorso alla gerarchia; la standardizzazione dei processi di lavoro, intesa come predeterminazione dei

comportamenti di lavoro;

la standardizzazione degli output, cioè la specificazione delle procedure e dei risultati del

lavoro;

la standardizzazione degli input, vista nell’ottica di uno sviluppo del personale delle

capacità e delle conoscenze richieste; il reciproco adattamento, quindi il ricorso a processi di comunicazione interpersonale di

tipo orizzontale che coinvolgono le stesse persone che devono coordinarsi.

Le parti componenti dell’organizzazione sono:

il vertice strategico, il quale assicura che l’organizzazione assolva in modo efficace alla

sua missione e che risponda ai bisogni di coloro che la controllano; la linea intermedia, vale a dire la gerarchia di manager che collega il vertice strategico al

nucleo operativo;

il nucleo operativo, formato dai dipendenti che svolgono l’attività direttamente collegata

alla produzione dei beni e dei servizi; la tecnostruttura, che provvede a determinare interventi di standardizzazione

(Pianificazione strategica; EDP; HR;…);

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lo staff di supporto, che fornisce i servizi non direttamente collegati al flusso operativo

(R&S; PR; Legale; Protocollo;...). A questi elementi di base, che sono i meccanismi di coordinamento e le parti componenti di un’organizzazione, Mintzberg affianca l’esame dei parametri di progettazione organizzativa, cioè delle diverse variabili organizzative che, nel loro insieme, definiscono l’assetto della struttura di un’organizzazione.

I parametri, infatti, corrispondono alle leve che influenzano la divisione del lavoro e i meccanismi di coordinamento, incidendo sulle modalità di funzionamento dell’organizzazione, contribuendo così a determinare il ruolo assunto dalle diverse parti dell’organizzazione stessa.

I parametri in questione riguardano:

la progettazione delle posizioni individuali; la progettazione della macrostruttura;

i collegamenti laterali; il sistema decisionale.

Dopo aver esaminato i parametri, o variabili organizzative, Mintzberg prende in considerazione i fattori situazionali o contingenti, e cioè gli stati o condizioni dell’organizzazione che influenzano una determinata configurazione organizzativa.

I fattori situazionali considerati da Mintzberg ricomprendono:

l’età e la dimensione dell’organizzazione, e l’epoca di formazione del settore in cui essa opera;

la tecnologia, intesa come gli strumenti ed i mezzi utilizzati nel nucleo operativo per

trasformare gli input in output; l’ambiente esterno, cioè il contesto di riferimento dell’organizzazione;

il potere, esaminato considerando il grado di intensità dei sistemi di influenza e

controllo.

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A questo punto, Mintzberg afferma che la scelta delle forme organizzative deve obbedire ad una logica sistematica e rigorosa, basata sulla coerenza tra le varie parti: le variabili o gli elementi dell’organizzazione devono essere scelti in modo da raggiungere un’armonia o una coerenza interna, ed al contempo anche una coerenza di fondo con la situazione dell’azienda.

Se si rispetta questa coerenza, si perviene a delle configurazioni organizzative, ossia a dei modelli complessi e completi di funzionamento dove i parametri della progettazione organizzativa corrispondono ai fattori situazionali in cui l’organizzazione opera.

Occorre, in via preliminare, precisare che ogni configurazione è costituita da un insieme coerente e organico di caratteristiche, o parametri, che la rendono particolarmente adatta ad affrontare una data situazione e che le configurazioni sono delle forme alle quali le organizzazioni pervengono in un processo reciproco di adattamento tra la propria struttura e i fattori situazionali, o contingenti.

Lo studioso, quindi, individua cinque configurazioni organizzative:

la struttura semplice: il meccanismo di coordinamento più elementare è quello della supervisione diretta, eseguita dal vertice che accentra le varie funzioni. La configurazione organizzativa che ne deriva è quella di una struttura semplice, che per funzionare non ha

bisogno di burocrazia né di organi di staff. Da un lato, quindi, si tratta di una struttura molto accentrata; dall’altro, il vertice strategico emerge come la parte più importante,

direttamente collegata con il nucleo operativo, mentre sono assenti le altre parti, come la tecnostruttura, lo staff di supporto e la linea intermedia. La struttura semplice si collega,

tipicamente, ad un ambiente semplice e dinamico, che permette l’accentramento e richiede caratteristiche di organicità. La tecnologia non è sofisticata, ma è a basso grado

di regolazione, in modo da impedire la burocratizzazione. Questa configurazione è diffusa nelle aziende più piccole, in quelle di nuova formazione, ma anche in quelle altamente

carismatiche nonché, prevalentemente, nelle organizzazioni non profit;

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la burocrazia meccanica: quando, con la crescita dell’organizzazione, la supervisione diretta non è più sufficiente, si passa ad un altro meccanismo di coordinamento, basato sulla standardizzazione dei processi lavorativi. La parte dell’organizzazione incaricata di

questo compito è la tecnostruttura, ossia l’insieme di tecnici che si occupano di programmazione, analisi dei tempi e dei metodi, definizione delle procedure di lavoro. La configurazione organizzativa verso cui spinge l’azione della tecnostruttura è la burocrazia meccanica. In questa configurazione, la parte più consistente del nucleo operativo, cioè coloro che forniscono le prestazioni fondamentali dell’azienda, è formata da addetti a mansioni ripetitive e prive di discrezionalità, che possono assumere la forma estrema

delle catene di montaggio. La burocrazia meccanica presenta una specializzazione orizzontale e verticale delle mansioni nel nucleo operativo, una forte formalizzazione del comportamento e un elevato grado di burocratizzazione. Oltre alla tecnostruttura, molto

sviluppata è anche la linea intermedia, che gestisce le varianze, assolve i ruoli di collegamento con la tecnostruttura per assicurare la trasmissione e l’utilizzo degli

standard e favorisce i flussi verticali di comunicazione. Questa configurazione si riscontra in ambienti semplici e stabili, che rendono possibile la comprensione dell’attività da

svolgere e che ne consentono la standardizzazione dei processi di lavoro. La burocrazia meccanica ha avuto la sua massima diffusione storica nelle produzioni industriali di

grande serie, ma oggi si trova anche nella maggior parte delle organizzazioni di servizio,

dove la massa delle attività impone procedure standardizzate e ripetitive;

la burocrazia professionale: in certi casi il meccanismo di coordinamento non si esercita sulla standardizzazione del modo di lavorare, ma sulla standardizzazione delle capacità

dei dipendenti. Siamo allora in presenza di una terza configurazione organizzativa, quella della burocrazia professionale. Qui il nucleo operativo è costituito da professionisti

dipendenti, che si sono formati al di fuori dell’organizzazione, che sono stati assunti in base ad una verifica iniziale delle loro capacità e che operano con vasti margini di

discrezionalità e di iniziativa personale. I possibili esempi di burocrazia professionale, come ospedali, università, società di revisione contabile, esplicitano il fatto che i professionisti si trovano nel nucleo operativo, svolgendo mansioni anche molto

specializzate nella dimensione orizzontale, ma godendo di una forte autonomia e conservando il controllo sul proprio lavoro. Il professionista conserva la sua autonomia nei confronti della tecnostruttura e può lavorare in modo indipendente, anche rispetto

agli altri professionisti. Un tratto comune alle burocrazie professionali è quello di operare a diretto contatto con il pubblico, con la conseguenza che i singoli soggetti sono

controllati più dagli utenti che non dall’organizzazione o dai colleghi. Di norma un professionista ignora ciò che i suoi colleghi stanno facendo, né è interessato a saperlo

perché assumerebbe il significato di una interferenza indebita. Per sostenere l’attività dei professionisti, fornendo loro i servizi necessari, vi è un elevato sviluppo dello staff di

supporto, mentre limitata è l’estensione sia della tecnostruttura che della linea intermedia. Come la burocrazia meccanica non può esistere senza la tecnostruttura che stabilisce il modo in cui deve lavorare, così la burocrazia professionale non può esistere

senza uno staff di supporto che le garantisca la continua disponibilità delle risorse

necessarie allo svolgimento delle proprie funzioni;

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la soluzione divisionale: il quarto meccanismo di coordinamento previsto da Mintzberg consiste nella standardizzazione dei risultati, degli output. La parte dell’organizzazione

che corrisponde a questo meccanismo è la linea gerarchica intermedia, e la configurazione organizzativa che ne risulta è costituita dalla soluzione divisionale,

particolarmente adottata nelle aziende di grandi dimensioni, con un mercato eterogeneo. Come la burocrazia professionale, anche la soluzione divisionale gode di un’ampia

autonomia interna. L’autonomia non riguarda però tanto le singole persone, quanto le strutture alle quali la direzione centrale affida gli scopi da raggiungere. Domina una forte divisione del lavoro tra la direzione centrale e le singole divisioni. In effetti, come osserva Mintzberg, la soluzione divisionale non rappresenta un’organizzazione completa, quanto

piuttosto un’organizzazione sovrapposta ad altre organizzazioni. La divisionalizzazione peraltro spinge le divisioni verso la burocrazia meccanica, e ciò in forza dell’importanza che, nella soluzione divisionale, assume la standardizzazione degli output. Ciò richiede,

da un lato, la possibilità di quantificare gli obiettivi delle divisioni in modo da consentire il controllo della performance e, dall’altro, la possibilità di imputare alle divisioni un unico e

coerente insieme di obiettivi. Quest’ultimo aspetto può essere riassunto nella formula: forte interdipendenza, intradivisione e scarsa interdipendenza fra divisioni.

l’adhocrazia: si tratta di un meccanismo non gerarchico, estremamente immediato ed informale. La configurazione che corrisponde all’adattamento reciproco è la adhocrazia.

Essa rappresenta la risposta organizzativa all’esigenza di realizzare innovazioni complesse e non marginali, tendenzialmente il tipo di innovazione sempre più necessario nelle

moderne società avanzate. Tale esigenza può derivare da richieste del cliente (adhocrazia operativa) o rispondere a una richiesta interna all’organizzazione (adhocrazia

amministrativa). Considerando solo gli elementi comuni ai due tipi di adhocrazia, l’innovazione complessa e non marginale implica l’interazione e l’azione di esperti

appartenenti a discipline diverse in gruppi di progetto. La base di formazione da tali gruppi è costituita dal progetto di innovazione da realizzare ma, nel contempo, è

necessario che gli esperti mantengano i rapporti con il proprio campo di specializzazione: di qui l’adozione di strutture a matrice, con il contemporaneo utilizzo di basi di

raggruppamento funzionali e di mercato. Di qui anche il numero elevato di manager e la conseguente limitata dimensione delle unità organizzative. L’ambiente rappresenta il

fattore situazionale più importante per l’adhocrazia; in particolare assumono rilievo la sua dinamicità e la sua complessità. Infatti, solo questa configurazione organizzativa

presenta contemporaneamente le caratteristiche di organicità e di decentramento. Anche l’età costituisce un fattore situazionale significativo, nel senso che, data la tendenza alla

burocratizzazione che si manifesta con il trascorrere del tempo, l’adhocrazia tende a

collegarsi con i primi stadi della vita delle organizzazioni.

Appendice

Questionario

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Rispondi correttamente alle seguenti domande. Nei quesiti a risposta multipla le risposte corrette possono essere più di una.

Quali sono le variabili “hard” del Modello delle 7S (sviluppato nel 1979 da Richard Pascale) e fornisci, di seguito, una definizione di “sistema organizzativo”?

a) skills

b) sistemi

c) struttura

d) shared values

f) strategia

g) stile di leadership

h) staff

Sistema organizzativo: ________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

Cosa si intende per “expoused theory” e “theory in use” (Argyris e Schon)?

________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

Quali elementi risultano essere costitutivi per il processo di delega di compiti e funzioni dal capo (delegante) al collaboratore (delegato)?

a. culpa in vigilando b. adhocraticità c. culpa in eligendo d. governance

Nel modello dei circoli di potere, quali sono le tre forme di

potere che si irradiano dal nucleo alla periferia? Quali sono le differenze fondamentali tra le tre forme di potere in questione?

a. ________________________________________________

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_____________ b. ________________________________________________

_____________ c. ________________________________________________

_____________

In Economia e Società, Weber distingue tre tipologie di potere. Quali sono?

____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

Cosa sono i circoli della qualità? A quale filosofia si rifanno?

________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

Illustrare la teoria di Douglas McGregor.

_______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

In presenza di quali condizioni funzionano gli approcci organizzativi di tipo meccanicistico?

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Quali sono le principali critiche mosse allo scientific

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management?

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Cosa s’intende per neotaylorismo?

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Gli autori della teoria organizzativa classica concordano sull’importanza del contenuto di alcune attività della direzione d’impresa: quali sono?

specializzazione coordinamento coercizione leadership partecipativa decentramento decisionale

Cosa s’intende per “effetto Hawthorne”?

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Cosa vuole dimostrare Barnard con la “parabola del masso”?

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Secondo la teoria di Maslow, quali sono le categorie di bisogni che gli individui intendono soddisfare?

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Che differenza c’è, secondo Herzberg, tra “fattori igienici” e “fattori motivazionali”?

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Quali sono gli stili di leadership proposti da Likert che, anticipa, così, il concetto di leadership situazionale, successivamente sviluppato da Blanchard?

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Quali sono gli approcci principali derivanti dagli studi sul clima organizzativo (Moran e Volkwein, 1992)?

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Qual è la vera sfida che le varie politiche di riforma della pubblica amministrazione italiana si sono prefissate?

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Quali sono le configurazioni organizzative individuate da Mintzberg?

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L’approccio cognitivo allo studio delle organizzazioni ha proposto il concetto di sensemaking (Weick, 1995): quale è la caratteristica dell’approccio in questione e cosa s’intende con tale termine?

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