l'idea di ragione nel pensiero politico di spinoza

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Simona Ferlini Università di Pisa Dottorato di ricerca in filosofia della politica VIII ciclo L’IDEA DI RAGIONE NEL PENSIERO POLITICO DI SPINOZA SOMMARIO 1 STATO E RAGIONE 2 1.1. UNETICA DELLA SIMILITUDINE 2 1.2. STATO E RAGIONE 5 1.3. MACHIAVELLISMO E UTOPIA. 9 2 FILOSOFI RE E LEGISLATORI 12 2. 1 I FILOSOFI RE 12 2. 2 LE OPINIONI SONO INNOCUE? 13 2. 3 IL LEGISLATORE 17 2. 4 MOSÈ E LA DISCIPLINA DELLOBBEDIENZA 22 2. 5 IL DIRITTO NATURALE E LA DEMOCRAZIA 27 2. 6 IL LIMITE DEL TRACTATUS THEOLOGICO-POLITICUS 31 3. UN NUOVO CONCETTO DI RAGIONE POLITICA 36 3. 1 DAL TRACTATUS THEOLOGICO-POLITICUS AL TRACTATUS POLITICUS 36 3. 2 LA NOZIONE DI IMPERIUM ABSOLUTUM 38 3. 3 RAGIONE ED AFFETTI NEL TRACTATUS POLITICUS 42 3. 4 ANCORA SUL CONVENIRE 45 3.5 UN NUOVO MODELLO DI RAGIONE 49 RELATORE: CHIAR.MO PROF. GAETANO CALABRÒ

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Tesi di dottorato - ruolo del'immaginazione e degli affetti nella costruzione della ragione pubblica.

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Page 1: L'Idea Di Ragione Nel Pensiero Politico Di Spinoza

Simona FerliniUniversità di Pisa Dottorato di ricerca in filosofia della politica VIII ciclo

L’IDEA DI RAGIONE NEL PENSIERO POLITICO DI SPINOZA

SOMMARIO

1 STATO E RAGIONE 2

1.1. UN’ETICA DELLA SIMILITUDINE 2

1.2. STATO E RAGIONE 5

1.3. MACHIAVELLISMO E UTOPIA. 9

2 FILOSOFI RE E LEGISLATORI 12

2. 1 I FILOSOFI RE 12

2. 2 LE OPINIONI SONO INNOCUE? 13

2. 3 IL LEGISLATORE 17

2. 4 MOSÈ E LA DISCIPLINA DELL’OBBEDIENZA 22

2. 5 IL DIRITTO NATURALE E LA DEMOCRAZIA 27

2. 6 IL LIMITE DEL TRACTATUS THEOLOGICO-POLITICUS 31

3. UN NUOVO CONCETTO DI RAGIONE POLITICA 36

3. 1 DAL TRACTATUS THEOLOGICO-POLITICUS AL TRACTATUS POLITICUS 36

3. 2 LA NOZIONE DI IMPERIUM ABSOLUTUM 38

3. 3 RAGIONE ED AFFETTI NEL TRACTATUS POLITICUS 42

3. 4 ANCORA SUL CONVENIRE 45

3.5 UN NUOVO MODELLO DI RAGIONE 49

RELATORE: CHIAR.MO PROF. GAETANO CALABRÒ

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1 STATO E RAGIONE

1.1. UN’ETICA DELLA SIMILITUDINE

De mea felicitate etiam est operam dare, ut alii multi idem, atque ego intelligant,

ut eorum intellectus et cupiditas prorsus cum meo intellectu, et cupiditate

conveniant1

con queste parole, nelle prime pagine del Tractatus de Intellectus Emendatione, Spinoza enuncia il proprio programma etico e politico: fa parte innanzitutto della mia felicità, del bene che mi è peculiare in quanto essere umano, darmi da fare perché molti altri comprendano quello che io comprendo, affinché il loro intelletto e la loro cupiditas si accordino (conveniant) al massimo grado con il mio intelletto e con la mia cupiditas. Questo programma, del quale è stata giustamente sottolineata più volte l’importanza, va costantemente tenuto presente nell’interpretare la riflessione spinoziana sulla vita sociale e sullo stato, che a partire da esso intreccia in modo particolarissimo i temi dell’etica e della politica.

Tanto l’etica che la politica spinoziane, in effetti, partono dallo sviluppo di un medesimo assunto: gli uomini hanno una tendenza spontanea a vivere in società, determinata dalla similitudine delle loro nature. Si tratta, certo, innanzitutto di una comunanza di bisogni, e seguendo la tradizione inaugurata da Platone anche Spinoza riconosce nella collaborazione materiale e nella divisione del lavoro la prima origine della società. Ma la nozione di similitudine ha una portata ben più vasta. La società nasce certamente dal bisogno di prestarsi reciproco aiuto per procurarsi le cose necessarie e per difendersi dai pericoli esterni2, ma a fondamento di queste esigenze comuni sta il fattore più importante di tutti, la similitudine, che non soltanto rende comuni le necessità, ma soprattutto rende gli uomini capaci di unirsi per soddisfarle e per accrescere la loro potenza, così che fra le molteplici cose di cui il corpo e la mente hanno bisogno

nulla praestantiora escogitari possunt quam ea, quae cum nostra natura prorsus

conveniunt. Si enim duo ex. gr. ejusdem prorsus naturae individua invicem

junguntur, individuum componunt singulo duplo potentius. Homini igitur nihil

homine utilius3.

Gli esseri le cui nature conveniunt, infatti, entrano fra loro in una sorta di vibrazione per simpatia4, così che in ciascuno risuonano le emozioni che vede provare ad un altro, e ciascuno è rafforzato nelle proprie opinioni, nei propri sentimenti e soprattutto nel proprio stesso essere dalla consonanza

1 “fa parte della mia felicità anche sforzarmi perché molti altri pensino e comprendano come me, affinché il loro pensiero e la loro cupiditas convengano al massimo grado con il mio pensiero e con la mia cupiditas” (mia traduzione) Tractatus de Intellectus Emendatione , § 14, Spinoza, Opera im Auftrag der heidelberger Akademie der Wissenschaften, herausgegeben von Carl Gebhardt, Heidelberg, Carl Winters Universitätsbuchhandlung, 1924-26, rist. anastatica, 1972, (d’ora in poi: “SO”), 4 voll., vol. II, 8, 27-31.

2 Ethica, IV, 35, schol., (SO II, 234); TTP, V, 128 (SO III 73); TP II, 13 e VI, 1( SO III, 281 e 297).3 Ethica, IV, 18, schol., SO II, 223, 5-9. Trad. cit., p. 245. Parallelo nell’Appendice il cap. 7.4 Per l’accento posto sulla similitudine come causa della consonanza, il concetto spinoziano di convenire presenta

notevoli affinità con la simpatia stoica e neoplatonica, ripresa nel Rinascimento da Campanella (De sensu rerum, IV, 1, III, 14). Mentre però la simpatia antica si applica principalmente alla similitudine nel mondo fisico, Spinoza si disinteressa di questo aspetto, per occuparsi invece della similitudine fra uomini e farne il cardine del proprio umanesimo, al punto che quella di Spinoza è stata giustamente definita una éthique de la similitude (Alexandre Matheron, L'anthropologie spinoziste?, "Revue de Synthèse", III s., 89-91, 1978, pp. 175-186). Per lo stesso motivo il convenire spinoziano differisce dal concetto humiano di simpatia (Treatise of Human Nature, II, I, 11), dove la similitudine non è causa, ma tutt’al più conseguenza eventuale della simpatia.

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con gli altri5. Il gioco dei significati del termine convenire - essere simili, accordarsi e unirsi6 - diventa così il punto di partenza comune dell’etica e della politica spinoziana. Ancora nella sua ultima opera, il Trattato Politico, egli spiega l’origine della società umana a partire dall’unione di potenze che è determinata dalla similitudine, con parole che ricordano molto da vicino quelle che abbiamo appena letto7. Quando nell’Ethica Spinoza introduce il tema delle relazioni fra gli uomini, il modo stesso in cui egli affronta la questione del rapporto con l’ordo communis naturae, contrassegnato dal bisogno e dall’impotenza, subisce un mutamento radicale a partire dall’idea del convenire. Nella IV parte dell’Ethica l’ordine comune della natura è innanzitutto quello che ci rende bisognosi di ciò che è altro da noi, è l’insieme dei limiti esterni che impediscono alla nostra essenza di esprimersi liberamente, è ciò che ci minaccia: in breve, è ciò che ci rende impotenti. Le idee e le azioni “adeguate”, ossia attive, si distinguono dalle passioni precisamente per il fatto di essere prodotte interamente da noi, e di spiegarsi interamente a partire dalla nostra essenza, mentre siamo passivi, e subiamo le passioni, in quanto siamo parti non indipendenti della natura8: l’appartenenza all’ordine comune della natura è dunque la Servitus humana annunciata nel titolo della IV parte. Ma con la proposizione 18, che introduce il tema delle relazioni interumane, improvvisamente il discorso cambia. Le cose esterne non sono esclusivamente limiti alla nostra potenza; al contrario, questa può essere accresciuta, e lo è effettivamente, dall’unione con la potenza di una causa esterna, cosicché, in primo luogo,

vis Cupiditatis, quae ex Laetitia oritur, potentia humana, simul et potentia causae

externae […] definiri debet9.

A partire da questa considerazione, il valore attribuito al nostro rapporto con le cose esterne si ribalta completamente: anche se esso è contrassegnato dal bisogno, questo rapporto, e persino il bisogno stesso, non è povertà, ma ricchezza. Noi non possiamo mai fare in modo

ut nihil extra nos indigeamus ad nostrum esse conservandum, et ut ita vivamus,

ut nullum commercium cum rebus, quae extra nos sunt, habeamus; et si

praeterea nostram Mentem spectemus, sane noster intellectus imperfectior esset,

si Mens sola esset, nec quicquam praeter se ipsam intelligeret. Multa igitur etra

nos dantur, quae nobis utilia, quaeque propterea appetenda sunt10.

Il nostro stesso intelletto sarebbe meno perfetto, se la mente fosse sola e non intendesse nulla fuori di sé: povertà non è l’appartenenza all’ordo communis naturae che genera il bisogno; al contrario, povertà sarebbe proprio il non avere bisogni. Il bene dell’uomo sta invece precisamente

5 Cfr. Ethica, III, 27-31. 6 Il tema appare anche nel Korte Verhandeling, II, 26, § 8, punto 4 (SO I, 112), anche se il testo olandese non

mantiene il gioco dei diversi significati latini; Spinoza vi dice tuttavia che fra gli effetti che produciamo fuori di noi i più eccellenti sono quelli che “possono unirsi a noi per formare con noi una stessa natura (met ons te konnen vereenigen, om een zelve natuur met ons uyt te maaken)”, e come esempio di questi effetti pone ciò che insegnamo ad amare agli altri uomini: se i piaceri, onori e avarizia, ne risulta un conflitto di cui anche noi siamo vittime, se l’unione con Dio e la conoscenza, bene di cui tutti possiamo ugualmente essere partecipi, questo bene “produce nel prossimo lo stesso desiderio che è in me, facendo sì, in tal modo, che la sua volontà e la mia siano una sola e medesima volontà, cioè formino una sola e medesima natura, convenendo sempre in tutto (uytmakende een en de zelve natuur, altyd in alles overeen komende)” . Cito dall’ed. critica con testo a fronte curata da Filippo Mignini, L’Aquila, Japadre, 1986, pp. 344-5. Anche Mignini, nel Commento al testo citato (p. 750) collega questo passo a quello del Tractatus de Intellectus Emendatione, e riconosce questa tesi come “il fondamento etico dell’interesse politico di Spinoza”.

7 Tractatus Politicus, II, 13, (SO III, 281). “ si duo simul conveniant, et vires jungant, plus simul possunt […] “ Cfr. traduzione di Antonio Droetto, Torino, Ramella, 1958, p. 171.

8 Ethica, III, Definitiones , e IV, 2-4 (SO II, 139 e 212).9 Ethica, IV, 18 demonstratio (SO, II, 222).10 Ethica, IV, 18 schol. (SO II, 222-3).

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nell’aumentare la molteplicità delle cose di cui il suo corpo e la sua mente si nutrono e si accrescono11; proprio da questa molteplicità, infatti, deriva la potenza della mente umana:

Mens humana apta est ad plurima percipiendum, et eo aptior, quo ejus Corpus

pluribus modis disponi potest12.

Aumentarla, significa accrescere le capacità di modificarsi del corpo e della mente, e

qui Corpus ad plurima aptum habet, is Mentem habet, cujus maxima pars est

aeterna13,

mentre la limitazione è una tristezza, che come tale rende impotenti e dunque accresce il dominio su di noi delle cose esterne.

Attraverso l’idea del convenire, il tema del bisogno reciproco s’intreccia così con il tema umanistico della dignità dell’uomo. Come per Pico14, anche per Spinoza l’uomo è di se stesso “quasi libero e sovrano artefice”: proprio la sua plasticità ed il suo non essere determinato in partenza fanno dell’uomo quello che è, lo rendono capace di modificarsi e modificare il mondo esterno in molti modi. L’essere in cui ciascuno si sforza di perseverare non è un dato immobile, oppure una perfezione rispetto alla quale la realtà è sempre mancante: è un essere attivo e produttivo, che esprime la potenza di Dio in maniera certa e determinata.

Allora, fra le cose di cui abbiamo bisogno le più eccellenti sono gli altri uomini perché la loro natura conviene con la nostra nell’essere molteplice, complessa, capace di quasi infinite modificazioni. La mente dell’uomo è capace di ragione perché l’uomo è tale da potersi modificare in molte maniere diverse senza perdere la propria natura, ed è prima di tutto questa potenza della mente che fa il valore dell’uomo per l’uomo:

praeter homines nihil singulare in natura novimus, cujus Mente gaudere, et quod

nobis amicitia, aut aliquo consuetudinis genere jungere possimus15.

Non è forse un caso, allora, se nella disposizione della IV parte dell’Ethica Spinoza interrompe la deduzione della socialità umana e dei fondamenti dello stato con due proposizioni apparentemente estranee al ragionamento che trattano del rapporto tra la complessità e la ricchezza di modificazioni del corpo e la potenza della mente16:

id, quod Corpus humanum ita disponit, ut pluribus modis possit affici, vel quod

idem aptum reddit ad Corpora externa pluribus modis afficiendum, homini est utile

[…]17,

Ciò che rende il corpo umano atto a modificarsi o modificare i corpi esterni in molti modi è utile all’uomo, quindi

quae ad hominum communem Societatem conducunt, sive quae efficiunt, ut

11 Ethica, IV, 38 (SO II, 239).12 Ethica, II, 14 (SO, II, 103).13 Ethica, V, 39 (SO, II, 304).14 “[sui] ipsius quasi arbitrarius honorariusque plastes et fictor”, Pico della Mirandola, De hominis dignitate, 132.15 Ethica, IV, Appendix, cap. 26 (SO II, 273). In L'anthropologie spinoziste?, cit., Alexandre Matheron sostiene che

non si possa parlare di un’antropologia spinozista, perché qualsiasi definizione dell’uomo darebbe luogo a criteri di esclusione e di inclusione nel genere umano, pericolosi in un’etica della similitudine. Ma se questi sono i rischi dell’etica della similitudine, non è certo sorvolando su un tema imbarazzante che vi si sfugge. In realtà, sembra dubbio che si possa dare una definizione di uomo, perché per Spinoza non si danno essenze che delle cose singolari,

16 Ethica, IV, 38 e 39.17 Ethica, IV, 38 (SO II, 239).

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homines concorditer vivant, utilia sunt; et illa contra mala, quae discordiam in

Civitatem inducunt18,

sono utili le cose che conducono alla società, ossia che fanno sì che gli uomini vivano nella concordia, cattive quelle che portano alla discordia nello stato, perché la vita in comune con esseri la cui natura conviene con la nostra è appunto ciò che maggiormente accresce la capacità di agire e modificarsi, l’apertura e l’indeterminazione che più di ogni altra cosa rendono uomo l’uomo.

1.2. STATO E RAGIONE

Per quanto le sue argomentazioni possano apparire difficili, persino criptiche, tanto da spaventare qualche lettore, lo scopo del filosofo Spinoza non è dunque nascondersi per essere lasciato libero di pensare da solo quello che vuole, ma potersi unire a molti altri in questa come in ogni altra attività umana. Nessuno si fa da solo, la vita che si potrebbe condurre da soli sarebbe misera, e lo stesso pensiero è impoverito dalla solitudine. L’uomo libero spinoziano è un cittadino, non un eremita, e Spinoza è sempre fortemente polemico contro i Satirici, i Teologi e i Malinconici: 19 che disprezzano gli uomini ed esaltano la solitudine: non è proprio dell’uomo libero, ma del malinconico molesto a sé e agli altri evitare la compagnia degli uomini20, e disprezzarne le debolezze non è segno di forza, ma dell’impotenza dello sconfitto o, peggio, di un animo che non sa elevarsi se non abbassando i propri simili21; la gioia del pensarsi gli unici a sapere, del conservare gelosamente questo sapere, e del considerarlo un titolo al comando, è un riflesso di questo tipo di impotenza.

Ma se poter pensare ed agire insieme agli altri uomini fa parte della felicità del filosofo, per “altri uomini” non si devono intendere qui esclusivamente gli altri filosofi: certo, più utile in assoluto è l’uomo guidato dalla ragione22, e il massimo bene a cui possiamo aspirare è di essere uniti a quanti più uomini possibile dall’amore di Dio che sorge dalla sua conoscenza23; tuttavia, anche quando non sono né sapienti né liberi gli uomini sunt tamen homines, sono tuttavia uomini, e per quanti pericoli possa comportare accettarne i benefici essi tuttavia ci possono prestare l’aiuto proprio degli uomini, quo nullum praestabilius est 24. Perciò

homo, qui ratione ducitur, magis in Civitate, ubi ex communi decreto vivit, quam in

solitudine, ubi sibi soli obtemperat, liber est25,

chi è guidato dalla ragione è più libero quando obbedisce ad un decreto comune di quanto non lo sia vivendo in solitudine. Non è dunque esclusivamente ai filosofi, né ai “lettori migliori”, né tantomeno ai posteri che si rivolge Spinoza, ma agli uomini del suo tempo e ai suoi concittadini.

Questo significa anche che in quanto filosofo Spinoza non può sottrarsi né nascondersi: per quante precauzioni siano necessarie, il bene che egli persegue richiede una possibilità di scambiare opinioni e di agire insieme agli altri uomini che si realizza soltanto nella vita comune. Da questo punto di vista, la politica spinoziana affonda senz’altro le sue radici nell’etica: lo stato civile è

18 Ethica, IV, 40 (SO II, 241).19 Ethica IV, 35, schol. (SO II, 232).20 Ethica, IV, Appendice, cap. 13 (SO II, 269-70).21 Ethica, III, 55, schol. (SO II, 182-3): l’acquiescentia in se ipso che non nasce dall’interno, ma dalla

comparazione di sé con gli altri è identica e contraria all’umiltà, e da entrambe deriva “che gli uomini sono per natura invidiosi […], ossia che godono della debolezza dei propri uguali. […] Per la qual cosa ciascuno trarrà il massimo godimento dalla contemplazione di se stesso, quando considera in sé qualcosa che nega degli altri”, trad. Giancotti, cit., p. 212.

22 Ethica, IV, 35, cor.. (SO II, 233).23 Ethica, V, 20 (SO II, 292).24 Ethica, IV, 70 e schol., (SO II, 262-3).25 Ethica , IV, 73 , (SO II, 264).

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innanzitutto unione di forze per agire e per pensare, e darsi da fare per favorire questa unione fa parte della felicità dell’uomo libero, ossia è nel suo interesse per potenziare la propria stessa capacità di agire e di pensare.

Anche Adolfo Ravà, ne La filosofia politica di B. Spinoza (1927)26 sottolineava questa connessione: per capire la teoria politica spinoziana, egli sosteneva, è indispensabile far riferimento alle proposizioni 34-37 della IV parte dell’Ethica, quelle che trattano del tema che qui abbiamo identificato nel convenire. In quanto guidati dalla ragione gli uomini si accordano sempre necessariamente per natura, e per questo l’unione tra gli uomini, oltre al valore empirico, ha valore morale a sé stante. La vita sociale è la sola che consenta all’uomo di adempiere la sua missione nel mondo ed essere libero, per cui l’istituzione della società non deriva da una semplice considerazione dell’utile, ma assurge al rango di necessità di ragione. Per lo stesso motivo, l’autorità politica acquista secondo Ravà una trascendenza rispetto al puro consenso dei cittadini, essendo fondata non nei concreti atti di volontà dei singoli, ma “in una determinazione necessaria di ogni volontà razionale”27.

Dal fondamento etico della vita sociale, Ravà conclude dunque la trascendenza dello stato in quanto strumento della ragione, e a questa conclusione, in effetti, giungono la maggioranza degli interpreti che pongono l’accento sulla continuità fra etica e politica spinoziane. In questa continuità, che fonda la natura razionale dello stato, è stata vista per lo più la nota distintiva del pensiero politico di Spinoza, e la sua principale ragione di distanza da Hobbes. Così Gioele Solari, ne La dottrina del contratto sociale in Spinoza (1927) sosteneva che il contratto sociale non è per Spinoza “passaggio e formazione naturale, ma creazione mediante il patto di un ordine nuovo di ragione”28: la teoria spinoziana del contratto sociale è tutta dominata, secondo Solari, dall’idealità dell’ottimo stato, la democrazia, in cui l’obbedienza del cittadino è determinata dalla ragione, della quale sono custodi i governanti. A quest’ottimo stato non si giunge mai, ma vi si tende sempre, ed esso è a sua volta organizzazione necessaria, ma contingente e provvisoria, rispetto all’esigenza razionale di una vita morale e intellettuale che si svolga in una società perfetta e assolutamente giusta.Se non si intende questa idealità, a cui anche Solari attribuisce una matrice platonica, non si coglie la dottrina spinoziana del contratto sociale nel suo fondamento metafisico, ossia in è ciò che ha di più proprio.

Ma se, a partire dall’idea del convenire, sembra difficile contestare il fondamento etico della vita comune, invece l’idea dello stato come dettame e strumento della ragione, e l’idea che in quanto tale lo stato rappresenti le volontà degli individui empirici che lo compongono, presenta qualche problema in più, se non altro per chi sia abituato alla concretezza della riflessione spinoziana. Da un lato, è chiaro da quanto abbiamo già detto che lo stato civile è effettivamente per Spinoza un dettame della ragione29, e se per “strumento della ragione” si intende che il fine dello stato ideale è garantire le condizioni per il libero esercizio della ragione anche questo è pienamente confermato dai testi, sia nel Tractatus Theologico-politicus, dove appare il passo famoso sul fine dello stato repubblicano

non, inquam, finis Reipublicae est homines ex rationalibus bestias, vel automata

facere, sed contra ut eorum mens, et corpus tuto suis functionibus fungantur, et

ipsi libera ratione utantur […]. Finis ergo Reipublicae revera libertas est30;

26 In A. Ravà,Studi su Spinoza e Fichte, a cura di E. Opocher, Milano, Giuffré, 1958, pp.VII - 373, pp. 73-90.27 Ravà, op. cit., p 83.28 Ora in La filosofia politica, 2 voll., a cura di Luigi Firpo, Bari, Laterza, 1974, vol. I, pp. 195-248, p. 220.29 Oltre al già visto Ethica, IV, 73, cfr. Tractatus Theologico-politicus, XX, SO III 242, 9-13 trad. cit. p. 484, e

Tractatus Politicus, III, 6, SO III, 286, trad. cit. pp. 187-9.30 Tractatus Theologico-politicus, cap. XX (SO III 241, 33-8); trad. cit. p. 482. Non è detto che il discorso valga

per qualunque stato: qui l’autore parla di “Respublica”, e nel contesto del capitolo XX, che come recita il titolo mira a dimostrare che “in Libera Republica unicuique et sentire, quae velit, et quae sentiat, dicere licere”, il termine probabilmente indica non genericamente lo stato, ma quel particolare tipo di stato prossimo all’ideale che è la “libera repubblica” in contrapposizione al governo tirannico (o anche semplicemente monarchico: cfr.

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sia nel Tractatus Politicus, dove si ricorda che se il miglior governo è quello sotto il quale gli uomini conducono la vita nella concordia, parlando di vita si deve intendere la vita in quanto umana, ossia in quanto definita soprattutto dalla ragione31. Dall’altro lato, però, non è altrettanto evidente che lo stato sia strumento della ragione nel senso inteso, per esempio, da Claudio Signorile, il quale scriveva nel 1968 che per Spinoza “la Politica è prosecuzione e compimento dell’Etica” perché

l’uomo, entrato nel regno della ragione con l’organizzazione sociale, deve essere

educato dall’autorità politica, con la forza delle leggi, la persuasione ed i

condizionamenti, ad essere un buon cittadino, perché attraverso questo suo

comportamento comprenderà sempre meglio la natura delle cose, e si eleverà

gradualmente alla visione razionale dell’universo32;

se è vero che Spinoza parla della necessità di educare gli uomini “ut tandem ex proprio rationis imperio vivant”33, non risulta però alcun passo in cui questo compito sia affidato allo stato o alle autorità che lo governano, mentre esiste almeno un esempio contrario: quello di Mosè che introdusse i riti per far sì che i sudditi imparassero a non fare nulla se non in ottemperanza a un ordine e impedire loro di vivere sotto il comando della propria ragione34.

Ma la difficoltà principale sta nel comprendere come lo stato possa trascendere le volontà empiriche dei cittadini che lo costituiscono. Da una parte, questo trascendimento è una realtà di fatto: la forza del singolo cittadino è talmente inferiore alla forza della moltitudine che costituisce lo stato, da risultare irrilevante35, ma dall’altra il problema politico fondamentale nasce proprio dall’impossibilità materiale di trascendere le volontà dei singoli. E’ ben vero, scrive Spinoza all’inizio del XVII capitolo del Tractatus theologico-politicus, che abbiamo parlato di un assoluto trasferimento del diritto dei singoli alla società, e di un conseguente diritto assoluto del sovrano: ma per quanto questa teoria si accordi non poco con la pratica, e si possa fare in modo la realtà vi si avvicini sempre di più, ossia che il diritto del sovrano sia prossimo all’assoluto, si tratta pur sempre di una teoria. Nella realtà ciascuno conserva intatte le sue facoltà di agire e di giudicare, e proprio per questo i sudditi hanno sempre rappresentato il pericolo maggiore per lo stato:

nunquam homines suo jure ita cesserunt, suamque potentiam in alium ita

transtulerint, ut ab iis ipsis, qui eorum jus, et potentiam acceperunt, non

timerentur, et imperium, non magis propter cives, quanquam suo jure privatos,

quam propter hostes periclitaretur36.

Come ciononostante si possa formare una volontà comune, e lo stato possa essere condotto “una veluti mente” è la questione a cui rispondere37, e questa risposta non può venire né dal postulato del contratto sociale né da quello di una volontà generale dello stato che trascenda le volontà empiriche dei cittadini.

Il contratto sociale, infatti, non può più, come poteva in Hobbes, garantire l’ordine politico e la sua stabilità, perché Spinoza contesta il postulato giusnaturalista “pacta sunt servanda”. E’ nota la

Praefatio, SO III, 7).31 Tractatus Politicus,,V, 5, (SO III 296).32 Claudio Signorile, Politica e ragione, I, Spinoza e il primato della politica, Padova, Marsilio, 1970 (2).33 Ethica, IV, cap. 9, SO II, 269.34 Tractatus Theologico-politicus,, V, 132, SO III, 75.35 Tractatus Politicus,, II, 16, SO III, 281-2, trad. cit. 174-5,36 Tractatus Theologico-politicus, cap. XVII, SO III, 201, trad. cit. p. 412.37 “Non quindi gli accordi sono fonte di giustizia e ragionevolezza tra gli uomini, ma è l’essere ragionevoli e giusti

quello che rende gli uomini concordi”, scriveva Ravà (I principi filosofici del rapporto tra le nazioni, in Studi su Spinoza…. op. cit. , pp. 119 e 135).

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difficoltà del sistema hobbesiano: da qualunque parte lo si osservi, si trova almeno un punto in cui questo sistema è costretto a postulare negli uomini una condotta coerentemente razionale che aveva escluso in partenza. Così, anche se quando Hobbes parla dell’origine dello stato egli non tratta della sua origine storica ma del suo fondamento di legittimità, postulare che ciascuno patteggi con gli altri di farsi rappresentare dal sovrano, e che in base a questo patto gli obbedisca, non è meno assurdo che postulare un età dell’oro in cui tutti obbediscono ai dettami della retta ragione. Spinoza, da parte sua, ritiene che postulare un contratto sociale e un conseguente diritto assoluto del sovrano possa essere utile per comprendere la natura dello stato e i fondamenti della sua legittimità, ma che una volta stabilita questa teoria occorra porsi un altro problema: quando e perché i sudditi - che non sono guidati dalla ragione - riconoscono questa legittimità? Che cosa li spinge, concretamente, obbedire? E’ qui la vera distanza fra Hobbes e Spinoza: il diritto naturale è la stessa potenza dell’individuo38, quindi esso si conserva all’interno dello stato civile39, e non è necessariamente un diritto razionale40, dunque del diritto naturale fa parte anche il diritto ad infrangere i patti. Da soluzione che era, allora, il contratto sociale si fa in Spinoza posizione del problema.

Questo problema coincide in effetti con quello della razionalità dello stato, perché questa è considerata da Spinoza condizione fondamentale del consenso e quindi dell’obbedienza. Certo, egli afferma che in qualunque caso la scelta migliore è comunque rispettare il contratto sociale e obbedire, persino a quelle che riteniamo delle assurdità41, però egli ricorda anche più volte che chi ha il potere lo conserva solo a condizione di ottenere che tutti gli obbediscano, e non essendo i sudditi tutti filosofi non è possibile convincerli a farlo se si comandano delle assurdità e non si persegue l’utilità comune:

raro admodum contingere potest, ut summae potestates absurdissima imperent;

ipsis enim maxime incumbit, ut sibi prospiciant, et imperium retineant, communi

bono consulere, et omnia ex rationis dictamine dirigere42.

Soltanto se e quando lo stato è fino in fondo luogo e strumento della ragione, allora, vi si può realizzare l’unità postulata nell’ipotesi del contratto o della volontà generale, e solo allora il diritto e la potenza di cui lo stato dispone sono assolute:

illa Civitas maxime erit potens, et maxime sui juris, quae ratione fundatur, et

dirigitur. Nam Civitatis Jus potentia multitudinis, quae una veluti mente ducitur,

determinatur. At haec animorum unio concipi nulla ratione posset, nisi Civitas id

ipsum maxime intendat, quod sana ratio omnibus hominibus utile esse docet43.

1.3. MACHIAVELLISMO E UTOPIA.

Ma a questo punto le cose si complicano ulteriormente. La stessa razionalità dello stato, infatti, è un problema molto più di quanto non sia una soluzione: in che senso qui Spinoza parla di ragione? E se il dictamen rationis non dev’essere semplicemente una pia invocazione, com’è possibile realizzarlo in una vita comune che nonostante tutto rimane pur sempre il regno delle

38 Tractatus Theologico-politicus,, ,XVI, So III 189, trad. cit. p. 377; Tractatus Politicus, II, 3-4, SO, III, 276-7, trad. cit. 160-1

39 Epistola L.40 Tractatus Theologico-politicus,,TTP, XVI, 378, 1, SO III 189-90, trad. cit. p. 378, Tractatus Politicus, II, 5, SO,

III, 277, trad. cit. 162-3; II, 8, SO, III, 279, trad. cit.166-8.41 Tractatus Theologico-politicus,, XVI, SO III 193-4, trad. cit. 382-3.42 Tractatus Theologico-politicus, XVI SO III 194, trad. cit. p. 383.43 Tractatus Politicus, III, 7, SO III, 287, cfr. trad. cit. 189-90. Cfr. Emilia Giancotti, Sui concetti di potenza e

potere in Spinoza, "Filosofia politica", 4, 1990, pp. 103-118: il potere politico è esercizio del diritto naturale in quanto emanazione della potenza collettiva, ed è questa sua origine che ne garantisce la razionalità.

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passioni? Come possono coesistere il problema dell’ottimo stato e del suo fondamento, e l’idea che la politica debba essere considerata semplicemente come il risultato dei rapporti di forza e delle passioni, e come tale avalutativamente descritta secondo le leggi naturali che la governano? In breve: se Spinoza deride come un sogno da poeti la pretesa che la moltitudine e “coloro che sono distratti dai pubblici affari” vivano secondo la legge della ragione44, come può poi invocare la ragione a guida dello stato?

Lo stesso Ravà rilevava questi problemi, domandandosi come si potesse conciliare il progetto essenzialmente etico che egli attribuisce a Spinoza facendone un erede della tradizione platonica dell’ottimo stato, con l’eredità del realismo machiavellico45, e li risolveva facendo del realismo e dell’indagine empirica appresa alla scuola di Machiavelli un lavoro preliminare all’interno di un progetto che Spinoza annunciò, ma non potè compiere:

come dalla parte IV dell’Ethica, De servitute humana, sulla potenza degli affetti,

segue la V sulla potenza dell’intelletto, e cioè De libertate humana, così anche

nella filosofia dello Stato alla parte empirica, che considera gli uomini in quanto

mossi dalle passioni, deve far riscontro una parte che li consideri nel loro agire

conforme a ragione46.

Meno tenero di Ravà, Leo Strauss vede invece proprio in questa difficoltà la dimostrazione del fatto che il realismo politico di Spinoza è solo apparente: non si tratterebbe, secondo Strauss, del realismo di Machiavelli, nato dall’esperienza e dalla politica, ma di un realismo puramente teorico, fondato su considerazioni metafisiche, così come in realtà sarebbero soltanto i filosofi i destinatari del suo discorso. Proprio perché radicata in un’etica che pone il valore più alto nella conoscenza e nella ragione dimostrativa, la politica spinoziana non può essere una politica, ed il suo realismo non può essere che la fredda e distaccata analisi dello scienziato che osserva dall’esterno le passioni da cui è dominata la moltitudine, e si interessa esclusivamente della possibilità di rintracciare le leggi naturali che le governano.

Partendo da una concezione aristotelizzante della ragione politica, Strauss ritiene che questo precluda a Spinoza la possibilità di comprendere “la particolare forma di ‘ragione’ che predomina nella medietà della sfera sociale”47. Se Spinoza insiste tuttavia sulla necessità che lo stato, pena la sua stessa sopravvivenza, sia governato dalla ragione, tale ragione secondo Leo Strauss non è altro che la “ragion di stato”, la relazione di potere predelineata dalla natura umana. In base a questa relazione, anche se chi domina non è più saggio della moltitudine le è tuttavia superiore per il semplice fatto di avere più potere - dunque più diritto; la specifica razionalità del governante è allora l’inganno, la capacità di lavorarsi le passioni della moltitudine per indurla all’obbedienza48. Proprio l’obbedienza, d’altronde, portando ordine nel gioco delle passioni, produce l’unica forma di razionalità politica pensabile nel modello spinoziano:

la ragion di stato non si trova nel governante né nel governato, ma nella capacità

di chi detta legge di comandare, e di chi è dominato di obbedire. Non sta in alcun

44 “vidimus viam, quam ipsa ratio docet, perarduam esse; ita ut, qui sibi persuadent posse multitudinem, vel qui publicis negotiis distrahuntur, induci, ut ex solo rationis praescripto vivant, saeculum Poëtarum aureum, seu fabulam somnient”Tractatus Politicus, I, 5 (SO III 275) mia traduzione. Droetto traduce: “la via additata dalla ragione è quanto mai ardua, sicché vive nella poetica età dell’oro, ossia nel mondo delle favole, colui che crede davvero che tutta una massa o che i responsabili della cosa pubblica si inducano a vivere secondo il dettame esclusivo della ragione” (op. cit., pp. 153-4).

45 Tractatus Politicus, I,1, SO III, 273, trad. cit. pp. 145-6.46 A. Ravà, La filosofia politica di B. Spinoza , op. cit., p. 81.47 Leo Strauss, Die Religionskritik Spinozas als Grundlage seiner Bibelwissenschaft. Untersuchungen zu Spinozas

Theologisch-Politischen Traktat (1930), traduzione inglese Spinoza's Critique of Religion (1965), di E. M. Sinclair, New York, Schocken Books, 1965, p. 233 dell’edizione inglese, mia trad.

48 Leo Strauss, Spinoza’s Critique of Religion, op. cit., p. 236 ss.

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essere umano come tale, neppure nel saggio […]. Perciò il saggio, che è

profondamente interessato allo Stato, e che riconosce chiarissimamente i vantaggi

dello Stato, sta in disparte, nella sua vera capacità di uomo saggio, dalla direzione

dello Stato, dalla specifica ragione dello Stato. […] Che garanzia si dà della

razionalità dello Stato? Chi o che cosa porta la necessaria armonia nel gioco

sregolato delle passioni centripete? La logica stessa degli eventi. Perché solo lo

Stato razionale dura, o conserva la sua realtà con qualche permanenza49.

La difficoltà messa così acutamente in rilievo da Leo Strauss non va sottovalutata. In effetti, posto che l’unica possibile forma di ragione sia per Spinoza quella del filosofo, o la ragione politica coincide con essa, e dunque Spinoza ripropone la soluzione platonica dei filosofi re, oppure egli abbandona la vita politica nella Geenna del dominio della forza e dell’astuzia. Secondo Leo Strauss, la vera soluzione di Spinoza è questa seconda, per quanto egli stesso non se ne renda ben conto e non la persegua con coerenza. Il realismo politico e l’idea di ragione sono separati dallo stesso abisso che allontana il saggio dalla moltitudine, e proprio per questo Spinoza si preoccupa di difendere la libertà, che è innanzitutto libertas philosophandi, nel tentativo di preservare per sé e gli altri pensatori uno spazio neutrale non toccato da questa battaglia, dove potersi dedicare liberamente alla metafisica e alla comprensione scientifica dell’agire umano. Se la filosofia di Spinoza ha qualche interesse dal punto di vista della teoria politica, allora, lo ha soltanto per il fatto che malgrado le premesse da cui parte, l’amore per la libertà filosofica conduce Spinoza a condividere anche l’amore del popolo per la libertà, e a considerarlo, in virtù di questo fatto, non più moltitudine in preda alle passioni, ma popolo libero che cerca la libertà50.

Tuttavia, quest’interpretazione mal si concilia con il programma etico e politico fondato sull’idea del convenire. Come abbiamo visto sopra, l’uomo libero spinoziano non può sottrarsi alla vita comune, né vuole, per quanti rischi questo possa comportare, perché fa parte della sua felicità essere unito a quanti più uomini possibile non soltanto nel pensiero, ma anche nei desideri e nelle azioni che dal pensiero sono determinati. Certo, nella riflessione spinoziana potrebbero coesistere esigenze contraddittorie, oppure questo programma potrebbe non coinvolgere la vita politica in generale, ma più realisticamente e limitatamente la ristretta cerchia degli uomini con i quali si può intrattenere un’amicizia, o anche, forse, ai quali si può insegnare qualcosa. Quest’ipotesi andrà approfondita, ma senz’altro a suo sfavore sta il fatto che non c’è discontinuità, nell’Ethica, fra l’aspetto etico e quello politico del tema del convenire. Come abbiamo visto, infatti, gli stessi argomenti con cui si dimostra che è il massimo bene essere uniti agli altri uomini nell’amore intellettuale di Dio servono anche a dimostrare che l’uomo libero è più libero nello stato di quanto non lo sarebbe se dovesse obbedire solo a se stesso, e che è un bene tutto ciò che conduce alla vita sociale; ma soprattutto, è la medesima idea del convenire che Spinoza pone sia a fondamento del suo programma etico che dello stato51.

Ma se respingiamo l’ipotesi straussiana dell’abisso che divide il saggio dalla moltitudine e la ragione dimostrativa da una vita politica priva di ragione siamo tanto di più obbligati a cercare una soluzione differente alla difficoltà da lui sollevata. Strauss infatti non afferma che l’isolamento del saggio faccia parte del programma dichiarato di Spinoza, ma sostiene che questo isolamento è la conseguenza necessaria delle sue premesse metafisiche, per l’assenza di uno specifico concetto di ragione politica, e che Spinoza in tanto è incoerente nel suo pensiero politico in quanto non persegue fino in fondo questo isolamento. Tutto quello che abbiamo detto circa la continuità fra etica e politica e la partecipazione dell’uomo guidato dalla ragione alla vita comune, allora, potrebbe essere semplicemente ascritto a quest’incoerenza.

49 Leo Strauss, Spinoza’s Critique of Religion, op. cit., pp. 240-1, mia traduzione.50 Leo Strauss, Spinoza’s Critique of Religion, op. cit., pp. 243-4. 51 Ethica, IV, 18, schol., Tractatus Politicus, II, 13, (SO III, 281).

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Se vogliamo invece supporre che il pensiero politico di Spinoza sia coerente, e che l’appello alla razionalità dello stato abbia un senso, dobbiamo esplorare le possibilità alternative. Siamo effettivamente davanti a un paradosso: Spinoza invoca la ragione a guida dello stato, ma nega che all’interno dello stato possa esserci un qualche soggetto portatore di ragione, perché il cammino della ragione e della filosofia è “perarduo” e pochi hanno la forza di intraprenderlo e di perseguirlo52. Dunque, dobbiamo chiederci in primo luogo se Spinoza non riproponga effettivamente la soluzione platonica, ossia non attribuisca a quei pochi che vivono sotto la guida della ragione il compito di condurre lo stato, affinché anch’esso ne sia guidato53. Se quest’ipotesi dovesse verificarsi falsa, bisognerà vedere se e come, secondo Spinoza, possa tuttavia prodursi una razionalità politica, o che questa sia distinta dalla razionalità filosofica e vi siano soggetti diversi dai filosofi a portarla nello stato, o che addirittura essa si produca senza alcuno specifico soggetto che ne sia portatore.

La domanda più importante, sia che l’ipotesi dei reggitori platonici si verifichi vera sia che si verifichi falsa, è in effetti a quale concetto di ragione fa riferimento Spinoza quando ne parla in un contesto politico: che cosa intenda in tale contesto per ragione, se e in quale forma vi sia continuità, cesura o magari contraddizione fra questo concetto di ragione e la ragione dell’Ethica, che nasce dalle nozioni comuni e dalle idee adeguate delle proprietà delle cose54, e infine se, come ipotizzano Alexandre Matheron e André Tosel, il suo tentativo non sia precisamente quello di individuare una forma di ragione politica alternativa a quella della tradizione aristotelica e tomistica55.

52 Oltre al già visto Tractatus Politicus, I, 5 (SO III 275), cfr. anche Ethica, IV, cap. 13.53 E’ questa l’interpretazione di Paolo Cristofolini, cfr. La scienza intuitiva di Spinoza, Napoli, Morano, 1987, pp. .54 Ethica, II, 40, schol. II.55 Alexandre Matheron, Spinoza et la décomposition de la politique thomiste: Machiavélisme et Utopie, "Archivio

di filosofia" (1978), ora in Anthropologie et politique au XVII siècle, 1986, 1978, pp. 49-79, André Tosel, La théorie de la pratique et la fonction de l'opinion publique dans la philosophie politique de Spinoza, "Studia Spinozana", 1/1985, pp. 183-207.

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2 FILOSOFI RE E LEGISLATORI

2. 1 I FILOSOFI RE

La potenza di uno stato, e in una certa misura anche la sua stessa esistenza, dipendono, come abbiamo visto, dal fatto che esso sia fondato e governato secondo ragione, perché solo a questa condizione è possibile il formarsi di una volontà comune, e si può realizzare - almeno in una certa misura - l’unità postulata dal contratto sociale. Abbiamo anche visto, però, che sono questioni aperte sia a quale concetto di ragione Spinoza faccia riferimento, sia a quali soggetti (se ve ne sono) egli affidi il compito di attuare questa razionalità. Una delle ipotesi possibili, si è detto, è che questi soggetti siano proprio i filosofi, visto che nessun altro nella Civitas - né la moltitudine né coloro che “sono distratti dai pubblici affari” - sembra capace di agire sotto la guida della ragione.

Quest’ipotesi, tuttavia, sembra doversi escludere immediatamente non appena si guardi alla difesa della libertas philosophandi svolta nel Tractatus Theologico-politicus, dove uno dei punti principali dell’argomentazione appare proprio l’irrilevanza politica delle opinioni in generale, e in particolare di quelle filosofiche. La ricerca della verità, dice qui Spinoza, può bensì portare a dissentire dalle decisioni della summa potestas, ma mai, in nessun caso, a pretendere un’obbedienza. Chiunque in effetti, sia filosofo o no, ha diritto di criticare pubblicamente tali decisioni, a condizione però che lo faccia in base alla sola ragione, e mai con la pretesa di modificarle in nome della propria autorità:

salvo summarum potestatum jure nemo quidem contra earum decretum agere

potest, at omnino sentire, et judicare, et consequenter etiam dicere, modo

simpliciter tantum dicat vel doceat, et sola ratione, non autem dolo, ira, odio, nec

animo aliquid in rempublicam ex authoritate sui decreti introducendi, defendat56

proprio l’assenza di tale intenzione, ossia il fatto di non contenere, neppure implicitamente, un comando, è ciò che distingue le opinioni vere e proprie, in sé innocue, da quelle pericolose per lo stato.

Questa contrapposizione fra riflessione teorica e autorità, poi, è tanto più marcata per ciò che concerne la filosofia, perché proprio su di essa si regge la differenza fra filosofia e fede57, per la quale la prima deve essere libera, la seconda subordinata al controllo dello stato: la filosofia ha per scopo la verità, mentre la fede ha lo scopo, inevitabilmente politico, dell’obbedienza, e per questo motivo le opinioni in materia di fede vanno giudicate a partire dalle loro conseguenze58. Ancora nella prima annotazione al Trattato Spinoza ritorna su questa opposizione: coloro che ascoltano un filosofo diventano a loro volta filosofi, cioè capaci di intendere la rivelazione naturale in base alla propria testimonianza interiore, mentre il profeta è interprete dei decreti rivelatigli da Dio, e chi li accoglie si basa esclusivamente sull’autorità del profeta stesso e sulla fede che ha in lui; analogamente, nota Spinoza, le somme potestà sono interpreti del proprio diritto d’imperio perché le leggi da esse emanate sono garantite dalla loro sola autorità59. Infine l’operato di Mosè, che pure è senz’altro la figura che nel trattato più da vicino ricorda quella del filosofo re platonico, proprio in

56 Tractatus Theologico-politicus, cap. XX, SO III, 241; trad. cit. p. 483.57 Non, a rigore, dalla religio, alla quale si riferisce “tutto quel che desideriamo e facciamo, di cui siamo causa in

quanto abbiamo l’idea di Dio, ossia in quanto conosciamo Dio” (Ethica, IV, 37, scolio I, trad. cit.); tale conoscenza è la più comune delle nozioni comuni, perché è il dato comune ad ogni esperienza (Ethica, II, 37-39), così come i dati comuni ad ogni nostra esperienza dell’altro uomo sono la similitudine e il desiderio di condivisione che ne consegue (Ethica, III, 27 ss.), ossia l’amore per il prossimo. Tutte queste cose la fede e la teologia esprimono sotto forma di comandi e di racconti, la filosofia invece sotto forma di conoscenza dimostrativa: cfr. Tractatus Theologico-politicus, SO III pp. 76-7, trad. cit. p. 133.

58 Cfr. cap. XIV, SO III, p. 179, trad. cit. p. 351, e cap. XX, SO III, 243, trad. cit. p. 485.

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questo viene contrapposto a quello di un filosofo, nell’avere Mosè insegnato i suoi precetti tanquam Legis lator, così da costringere gli antichi Ebrei a vivere bene ex imperio legis, e non tanquam Philosophus, in maniera che vi fossero costretti ex libertate animi60.

Non è dunque del filosofo comandare, ed il suo intervento nella vita comune non può allora in alcun modo essere quello di chi istituisce un ordine a partire dal proprio sapere. Il filosofo può soltanto insegnare a coloro, ai pochi, che hanno voglia di ascoltarlo, e fra lui e i suoi ascoltatori si produce una comunità nella quale non c’è spazio per l’obbedienza. Al contrario, invece, è proprio della comunità politica reggersi sull’obbedienza e sul rispetto di regole delle quali non necessariamente si comprendono o si condividono le ragioni: è l’obbedienza che fa il suddito, è la capacità di ottenerne che misura la potestas dello stato61, ed è attraverso l’obbedienza che i molti che non sanno essere sapienti possono ottenere la salvezza tutta politica della concordia e del “vivere bene”62.

La difesa della libertà di pensiero si regge dunque sull’assoluta contrapposizione fra filosofia e obbedienza: all’autorità politica appartiene il decidere il da farsi, e comandarlo, al filosofo appartiene giudicare e comunicare le proprie opinioni all’interno dello spazio comune della filosofia, dal quale l’obbedienza è esclusa. Fra i due mondi dell’azione politica e della riflessione filosofica c’è una separazione assoluta, e a dimostrare l’onestà dell’intenzione del filosofo sta proprio il fatto che le sue opinioni sono del tutto innocue e prive di conseguenze per lo stato

2. 2 LE OPINIONI SONO INNOCUE?

Ma possiamo davvero credere che per Spinoza le opinioni siano del tutto innocue, a meno che non nascondano l’intenzione di comandare? Possono darsi nel suo sistema delle idee prive di conseguenze pratiche? In realtà, per chiunque conosca l’opera di questo autore e sappia quale importanza vi abbia la tesi dell’identità rigorosa fra intelletto e volontà, riesce difficile crederlo. Già uno dei maggiori commentatori italiani, Augusto Guzzo, sollevava questa difficoltà: “la volontà, per Spinoza, è l’affermazione o negazione insita in ogni pensamento”, la sapienza è “direttamente operosa”, e la verità non è un principio inerte, ma “ha in sé stessa l’energia affermativa che la fonda”63. Affermando che le opinioni devono potersi esprimere liberamente perché prive di conseguenze politiche Spinoza rinnega tutto questo e si risolve

a mendicare dallo Stato un po’ di libertà per quel pensiero, pel quale egli ha

lasciato la fede dei suoi avi, pel quale non ha più abbracciato nessuna fede, e vive

straniero e sospetto in mezzo agli uomini, fedele solo alla sua verità, che è il suo

59 Adnotationes ad Tractatus Theologico-politicus, 2, SO III, 251: “Interpres Dei is est, qui decreta ipsi revelata aliis interpretatur, quibus eadem revelata non sunt, quique in iisdem amplectendis sola prophetae autoritate et fide, quae ipsi habetur, nituntur. […] Sic summae potestates sui imperii juris interpretes sunt, quia leges ab ipsis latae sola ipsarum summarum potestatum autoritate defenduntur, et earum solo testimonio nituntur” trad. cit. p. 20, .

60 Tractatus Theologico-politicus, cap. II, SO III, p. 41; trad. cit., p. 59.61 Tractatus Theologico-politicus, cap. XVII, SO III, 201-2, trad. cit. p. 413.62 Dire che la salvezza di cui parla il Trattato teologico-politico è essenzialmente politica non significa escludere

che essa sia anche salvezza “in senso forte”, senza che per passare dalla salvezza politica a quella “in senso forte” ci sia bisogno di introdurre l’ipotesi assai discutibile della reincarnazione, come fa Alexandre Matheron (Le Christ et la salut des ignorants chez Spinoza, Paris, Aubier, 1971). E’ molto più semplice pensare che per salvezza Spinoza non intenda altro che quello che intende per religione: agire sotto la guida dell’idea Dei, ossia godere di quella felicità che, secondo l’Ethica; non è il premio della virtù, ma la virtù stessa. Nel linguaggio dell’obbedienza, tutto questo si chiama salvezza, e nel Trattato Teologico politico Spinoza adotta anche questo linguaggio, anzi, si può dire che il suo sforzo maggiore in quest’opera sia proprio dimostrare fino a che punto, ed entro quali limiti, il linguaggio dell’obbedienza e quello della filosofia abbiano contenuti comuni.

63 Augusto Guzzo, Il pensiero di Spinoza, (1924), Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. XVII-295 (ristampa anastatica della 2 edizione, Torino, 1964) , pp. 227-8.

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Dio. […] Si potrebbe immaginare una menomazione, un’umiliazione peggiore pel

pensiero? Innocuo è ciò che è inutile. La speculazione filosofica può essere innocua

solo se è sottigliezza senza contenuto, astruseria bizantina, strologare da

perdigiorni64.

Non sarebbe possibile esprimere in modo più penetrante ed efficace il disagio che prova il lettore di Spinoza di fronte a una difesa della libertà di pensiero così debole e soprattutto così poco coerente con l’insieme della sua filosofia. Tuttavia, se questa fosse senza ombra di dubbio la soluzione proposta dall’autore nel Tractatus Theologico-politicus l’incoerenza sistematica non sarebbe un argomento sufficiente per respingerla. Saremmo costretti ad ammettere, con Guzzo, che una volta affermato che lo stato ha il diritto di fare tutto ciò che è in suo potere, Spinoza non ha altra scelta che mendicare da esso la libertà che vorrebbe difendere, e che dunque, nonostante il tentativo fallito di salvare i diritti individuali, la sua riflessione politica non riesce in fin dei conti a superare la prospettiva hobbesiana: è l’autorità politica a stabilire se ed entro quali limiti una opinione sia innocua e tollerabile, e nel fare questo essa non ha per parte sua altri limiti che quelli che da sé giudica opportuno porsi, mentre tutta la libertà del suddito sta nell’avere la propria sicurezza garantita dallo stato e nel poter esprimere le proprie opinioni entro i confini stabiliti.

Ma la tesi dell’innocuità delle opinioni rivela invece già nel Tractatus Theologico-politicus difficoltà e contraddizioni che fanno emergere una tensione interna a questo testo, e ci costringono a cercare una nuova prospettiva di lettura. Questa tesi, in effetti, costituisce il secondo passaggio di un’argomentazione fra le più sofferte, incerte e contraddittorie di tutta l’opera, il cui punto di partenza è proprio il riconoscimento del fatto che anche se le opinioni sono innocue, esistono nonostante tutto anche delle opinioni sediziose, anzi, esse possono essere talmente pericolose da minacciare lo stato. Occorre perciò stabilire quali limiti porre alla loro espressione, perché tanto privare totalmente i sudditi di questa libertà quanto concederla senza riserve può comportare un grave pericolo per le autorità:

nequaquam etiam negare possumus, quin majestas tam verbis, quam re laedi

potest, atque adeo si impossibile est, hanc libertatem prorsus adimere subditis,

perniciosissimus contra erit, eandem omnino concedere65.

Ma subito dopo aver sollevato questo problema, Spinoza sembra non riuscire a proporre altro che delle soluzioni che lo negano. E’ negare il problema, infatti, rispondere che ad ogni modo fine dello stato repubblicano è la libertà: questa osservazione può servirci forse a giudicare della bontà di uno stato, ma sicuramente non ci serve, come pretende Spinoza, a fissare il limite di questa libertà; a meno che non cerchiamo di affermare che, essendone il fine, la libertà non può costituire una minaccia per lo stato, e dunque che in realtà non è necessario limite alcuno - ma se così fosse, il problema di partenza semplicemente non esisterebbe.

Parimenti, è a ben guardare una negazione del problema il secondo passaggio, che è quello già esaminato in cui Spinoza afferma l’impoliticità delle opinioni: la libertà di pensiero vale a condizione che, pur giudicando, ci si adegui alle decisioni prese, e il suo limite è dato dall’intenzione con cui se ne fa uso. Anche questa, dico, è una negazione del problema, perché porre la prima condizione è semplicemente enunciare il carattere distintivo della libertà di pensiero, ma limitare questa libertà sulla base dell’intenzione - criterio pericolosamente vago - significa assumere la possibilità di distinguere fra le espressioni “pure” del pensiero e quelle che contengono, sia pure implicita, la volontà di affermare se stessi, e sostenere che solo queste ultime hanno delle conseguenze al di fuori della pura teoria, e le hanno precisamente perché sin dall’origine non erano

64 Guzzo continua: “E lo Spinoza avrebbe concepito il piano di una riforma morale di quanti più discepoli e aderenti gli riuscisse di educare perché poi questa riforma rimanesse senza conseguenze nella vita pratica?”, ibidem, p. 230.

65 Tractatus Theologico-politicus, cap. XX, SO III 240, trad. cit. p. 482.

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realmente delle pure e semplici opinioni: dunque questa soluzione si risolve nel dire che non esistono opinioni sediziose, e le parole con le quali majestas laedi potest sono solo quelle che, in una forma o nell’altra, contengono in sé un comando e non sono semplici espressioni di un pensiero.

Ma se è solo l’intenzione che vi è nascosta a fare la pericolosità di un’idea, allora nessuna idea espressa senza intenzioni sovversive può essere sediziosa, mentre se esistono opinioni intrinsecamente sovversive, allora non è solo l’intenzione a determinare le conseguenze di un’idea. E tuttavia, immediatamente dopo aver proposto questa soluzione, Spinoza riconosce che esistono pur sempre delle opinioni intrinsecamente sediziose, ossia quelle che, poste, annullano il patto con cui ciascuno ha rinunciato ad agire a suo arbitrio, come credere che il sovrano sia subordinato ad altri o che i patti non vadano rispettati:

eae nimirum, quae simul ac ponuntur, pactum, quo unusquisque jure agendi ex

proprio suo arbitrio cessit, tollitur. Ex. gr. si quis sentiat, summam potestatem sui

juris non esse, vel neminem promissis stare debere, vel oportere unumqumque ex

suo arbitrio vivere et alia hujusmodi, quae praedicto pacto directe repugnant, is

seditiosus est,

Chi professa tali opinioni è un sedizioso

non tam quidem propter judicium, et opinionem, quam propter factum, quod talia

judicia involvunt, videlicet, quia eo ipso, quod tale quid sentit, fidem summae

potestati tacite, vel expresse datam solvit66.

non tanto per quello che pensa, ma per le implicazioni delle sue idee, che annullano di fatto, e non solo in teoria, la promessa tacita o espressa di obbedienza al sovrano.

L’assunto per il quale le opinioni veramente tali sono prive di conseguenze si rivela dunque insostenibile, perché se è vero di alcune idee che il solo pensarle comporta delle conseguenze di fatto, allora la stessa cosa è vera per tutte; altrimenti bisognerebbe fornire un valido criterio distintivo fra le idee “attive” e quelle “inerti”, cosa che Spinoza non fa, né gli sarebbe possibile farlo e restare coerente con i propri presupposti metafisici67. L’unica cosa su cui si può ancora discutere è allora se le conseguenze materiali che ogni opinione comporta inevitabilmente per il solo fatto di essere posta siano o meno dannose per lo stato.

66 Tractatus Theologico-politicus, cap. XX, SO III, 242, cfr. trad. cit. p. 484.67 Non esiste nulla, per Spinoza, che non sia anche una causa. Nessuna cosa è inerte, ed esistere è agire, ossia

produrre effetti necessari a partire dalla propria natura: “nihil existit, ex cujus natura aliquis effectus non sequatur” (Ethica, I, 36, SO II 76, trad. cit. p. 116). Ogni cosa singolare è infatti parte di un'attività infinita, e dunque anch'essa è attiva. In altri termini, qualsiasi realtà, una volta posta, per quanto sta in lei produce determinate conseguenze. Questa attività non è, da parte della cosa, un tendere al proprio scopo, cioè alla realizzazione della propria essenza, ma è l'esplicazione stessa dell'essenza. L'essenza di una cosa, infatti, è la particolare determinazione della potenza divina che la contraddistingue, ed è quindi sempre in atto sin dal momento in cui essa comincia ad esistere. Ma le sue possibili conseguenze non sono mai esaurite, né sono esauribili, ed in questo senso intensivo ogni singola essenza è un infinito. Da questo punto di vista l'essenza delle cose singolari non conosce mai una realizzazione totale, ma soltanto dei gradi di realizzazione, che variano a seconda della potenza di cui la cosa dispone per agire. Benché subisca delle variazioni, dunque, questo agire non è mai un tendere ad essere, ma un perseverare nel proprio stesso essere: “cujuscunque rei potentia, sive conatus, quo ipsa vel sola, vel cum aliis quidquam agit, vel agere conatur, hoc est […] potentia, sive conatus, quo in suo esse perseverare conatur, nihil est praeter ipsius rei datam, sive actualem essentiam” (Ethica, III,7, SO II, 146, trad. cit. p.179).

L’esistenza dunque si identifica con l’attività, e questo vale tanto per le cose estese che per le idee: ed è su questo principio che si fonda per Spinoza l’intelligibilità del mondo: “Effectus cognitio a cognitione causae dependet, et eandem involvit” (Ethica, I, ax. 4, SO II, 46). Fra parentesi, questo è uno dei punti su cui Spinoza si distacca più nettamente da Descartes, che invece concepiva le idee come rappresentazioni inerti poste in relazione dal soggetto pensante (cfr. II Meditazione).

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Così, tutto ciò che resta dell’assunto della neutralità delle opinioni è l’aspetto negativo: non soltanto esistono opinioni in sé dannose, ma anche delle opinioni apparentemente innocue possono essere pericolose, se nascondono intenzioni sovversive. Questo pericolo è addirittura sottolineato dall’autore, che proprio in questo modo conclude il proprio ragionamento: non possiamo neppure negare che esistano discorsi i quali, per quanto sembrino vertere esclusivamente circa il vero e il falso, sono tuttavia espressi con inique intenzioni

nec tamen negamus, quasdam praeterea esse sententias, quae, quamvis

simpliciter circa verum, et falsum versari videantur, iniquo tamen animo

proponuntur, et divulgantur68.

In definitiva, conclude allora Spinoza, vale in questo caso quello che abbiamo detto della religione: come è dalle opere che ne conseguono, e soltanto da quelle, che si può giudicare della fede69, così pure della fedeltà al sovrano, quali che siano le opinioni professate, si potrà giudicare solo dalle effettive conseguenze di queste.

Se, come pensava Guzzo, in queste pagine Spinoza sta mendicando un po’ di libertà per il pensiero in nome della sua totale innocuità, dobbiamo riconoscere che non è un accattone persuasivo. In poche mosse, e con la migliore volontà, egli riesce a convincerci (e, dobbiamo supporre, a convincere l’ipotetico governante): che la libertà di espressione può avere conseguenze pericolose per lo stato; che dunque l’autorità politica deve porla sotto controllo; che qualcuno può essere sedizioso per il contenuto delle sue idee, quali che siano le sue intenzioni, per le conseguenze di fatto che dalle idee derivano necessariamente; che quando il suo contenuto è esteriormente ineccepibile, un’opinione può essere pericolosa per le intenzioni nascoste di chi la esprime; infine, che Spinoza è secondo la sua definizione un sedizioso, perché nel capitolo XVI dice che nessuno è obbligato a rispettare i patti, se non per la speranza o per il timore di un bene o di un male maggiore70.

Come possiamo interpretare dei risultati così deludenti? Io non credo che essi vadano attribuiti alla prudenza di espressione del Tractatus Theologico-politicus, o che sia possibile leggerli con il criterio del doppio linguaggio di Leo Strauss, per cui le contraddizioni intenzionali sarebbero un segnale lasciato nell’opera per risvegliare l’attenzione del lettore intelligente71. Nelle pagine che abbiamo esaminato giunge a conclusione un tema che è effettivamente uno degli argomenti portanti dell’opera: il tentativo di dimostrare che le differenti opinioni in materia di fede religiosa non costituiscono un pericolo per lo stato, purché vi sia accordo sul suo contenuto fondamentale (giustizia e carità, ossia le opere che derivano dalla fede stessa) e che quindi, a maggior ragione, non costituiscono un pericolo le opinioni che vertono su argomenti puramente teorici.

68 Tractatus Theologico-politicus, cap. XX, SO III, 243, trad. cit. p. 485.69 Fede in Dio, che è “de Deo talia sentire, quibus ignoratis tollitur erga Deum oboedientia, et hac oboedientia

posita, necessario ponuntur” Tractatus Theologico-politicus, cap. XIV, SO III, 175, ma anche fede politica, ossia fedeltà al contratto sociale, perché l’imperium si estende a tutto ciò che produce l’obbedienza, e questa va considerata come “non tam externam, quam animi internam actionem” Tractatus Theologico-politicus, cap. , XVII, SO III 202, trad. cit. p. 414.

70 Tractatus Theologico-politicus cap. XVI SO III 193, cfr; trad. cit. p. 38171 Cfr. Leo Strauss, How to study Spinoza's Tractatus Theologico-politicus, cap. (1948), in Persecution and the art

of writing, New York, The Free Press, 1952, trad. it. Come studiare il «Trattato Teologico Politico» di Spinoza, in Scrittura e persecuzione, a cura di Giuliano Ferrara, traduzione di G. Ferrara e Fiammetta Profili, Venezia, Marsilio, 1990, pp. 137-197. Qui Strauss applica la propria tecnica di lettura principalmente alle tesi teologiche del Trattato , ma il metodo delle contraddizioni intenzionali è una costante nelle sue interpretazioni, non solo spinoziane (si veda per esempio l’interpretazione del Machiavelli). L’idea che le contraddizioni intenzionali servano a mettere il lettore intelligente sulle tracce della vera interpretazione è, fra l’altro, un’eredità dell’antica ermeneutica biblica che Spinoza respinge. Sull’interpretazione straussiana di Spinoza è interessante vedere Jacqueline Lagrée, Leo Strauss lecteur de Spinoza. Auteur ou lecteur, qui est le dieu caché? “Cahiers de Philosophie politique ef juridique”, 1993, pp. 115-135.

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Ma proprio perché si situano in perfetta coerenza con una ben precisa linea argomentativa del Trattato queste pagine ne mostrano con tanto maggiore evidenza la tensione interna: in quanto quest’opera fonda la difesa della libertà di pensiero sulla impoliticità e sulla mancanza di conseguenze delle opinioni, essa si rivela aporetica, perché si tratta di una tesi che Spinoza non è in grado di sostenere coerentemente a partire dai propri presupposti metafisici. Anche ammettendo che Spinoza non volesse difendere altro che la libertas philosophandi, lasciando da parte la difesa delle opinioni che filosofiche non sono (come in fondo è possibile), il suo tentativo si rivela un fallimento, perché egli non riesce a fornire un carattere distintivo della filosofia. Ne deriva che la questione del valore politico delle opinioni resta sotto questo aspetto totalmente aperta, e che per provare a rispondervi sarà necessario chiedersi se non sia possibile leggere il Tractatus Theologico-politicus in una prospettiva diversa da quella fin qui tentata.

2. 3 IL LEGISLATORE

Prima di cercare questa nuova prospettiva, però, dobbiamo esaurire la questione dalla quale eravamo partiti: a quali soggetti appartiene il compito di fondare e governare secondo ragione lo stato? Abbiamo dovuto scartare la prima ipotesi: in quanto tale il filosofo non può governare, perché c’è un’incompatibilità assoluta fra filosofia e comando, tanto che la caratteristica che permette di discriminare fra opinioni filosofiche e non filosofiche è proprio la loro portata politica, ossia le loro conseguenze e le intenzioni con cui vengono espresse. Occorre adesso esaminare una seconda ipotesi: è possibile che questo compito sia svolto non dai filosofi in quanto tali, ma comunque da uomini guidati dalla ragione, che usano degli strumenti di cui dispongono per guidare gli altri, magari con l’inganno? In fin dei conti, neanche l’ipotesi platonica pretendeva che ci si mettesse a insegnare la filosofia ai sudditi, ma soltanto che a partire da questa si governasse, se necessario raccontando ai sudditi delle fiabe fenicie. Una possibilità del genere, sarebbe confermata, ad esempio, se ritrovassimo in Spinoza l’antica figura del legislatore72.

La figura del legislatore risale all’antica Grecia, ed è dunque una delle più antiche soluzioni al problema della fondazione dell’ordine politico: come può quest’ordine sorgere dalla casualità degli eventi e dalla dispersa moltitudine degli uomini e delle volontà, se la sua bontà dipende appunto dal fatto di essere ordine, sistema coerente di istituzioni e di leggi, unità? Tutte queste caratteristiche non richiedono un progetto razionale, un’unica volontà a produrle? Una delle formulazioni più chiare del problema si trova forse in quello che scriveva Rousseau nel Contratto Sociale :

affinché un popolo che sta sorgendo possa gustare le sane massime della politica

e seguire le regole fondamentali della ragione di stato, bisognerebbe che l’effetto

potesse diventare la causa, che lo spirito sociale - che deve essere opera

dell’ordinamento - presiedesse all’ordinamento stesso, e che gli uomini fossero,

prima delle leggi, ciò che essi devono essere in base a queste73.

Rousseau scrive queste parole quasi un secolo dopo il Tractatus Theologico-politicus, ma come Spinoza si muove all’interno della problematica impostata da un lato da Machiavelli e dall’altro da Hobbes.

Hobbes aveva posto un aut aut definito: o lo stato come persona ficta rappresentata dal sovrano, o la dispersa multitudo delle volontà individuali74; questa persona morale può essere

72 Sostiene la centralità della figura del legislatore Lelia Pezzillo, Place et fonction des modèles de vertu dans Ethique IV, comunicazione presentata al colloquio La quatrième partie de l’Ethique, Paris, 1994, ora in AAVV, Spinoza: la quatrième partie de l’Ethique, “Revue de Métaphysique et de Morale”, XCIX, 1994, n. 4, pp. 437-532.

73 Jean Jacques Rousseau, Contratto sociale, II, 7, trad. it. di Roberto Guiducci, Milano, Rizzoli, 1982, p. 91.74 Thomas Hobbes, De Cive , trad. it. Torino, Utet, 1948, a cura di Norberto Bobbio, pp. 158-9 (Multitudo);

Leviathan, cap. XVII, Penguin Classics 1985, pp. 227-8 trad. it. Leviatano, Firenze, La Nuova Italia, 1976, a

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rappresentata da una sola persona fisica (un monarca), o da un’assemblea, ma l’essenziale è che il potere sia uno, e così il rappresentante, pena il rischio che l’unità si infranga e scoppi la guerra civile. Proprio per questo, se le forme di governo sono tutte indifferenti quanto all’assolutezza del potere, non lo sono quanto alla sicurezza che garantiscono, e sebbene l’unità del sovrano non dipenda da questo, è tuttavia preferibile che a reggere e rappresentare lo stato sia una sola persona fisica, perché nella sua volontà non si producono le divisioni che nascono, invece, nelle assemblee75.

Spinoza e Rousseau non possono accettare questa soluzione, e questo non tanto per le loro simpatie democratiche, quanto piuttosto per le difficoltà teoriche che essa lascia aperte. Spinoza, da un lato, ritiene che l’istituzione dello stato non sia sufficiente per passare dalla dispersa multitudo all’unità del populus, o sia sufficiente solo in teoria. Nella realtà, le passioni individuali, i contrasti, persino i conflitti rimangono anche all’interno dello stato, e a differenza di Rousseau, Spinoza ritiene che sia naturale che vi rimangano: l’unità del corpo politico non trascende la concreta realtà delle scelte e delle volontà individuali, e proprio per questo non è mai garantita una volta per tutte. Rousseau, invece, accoglie da Hobbes (e da Pufendorf76) l’idea dello stato come persona ficta, ma respinge anch’egli la soluzione hobbesiana: proprio se si accetta il presupposto che la sovranità non possa essere divisa né limitata, questa non può identificarsi con una persona fisica, che è il massimo della particolarità, né con alcuna parte dei cittadini, ma soltanto con l’intero corpo politico; la sovranità, infatti, non può essere trasmessa, perché il potere si può trasmettere, ma la volontà no77. Dunque il corpo sovrano non può essere rappresentato che da se stesso.

Entrambi, tuttavia, riconoscono la portata del problema posto da Hobbes: come si produce l’unità del corpo politico, a partire dalla dispersa moltitudine delle volontà particolari? Rousseau, accogliendo la teoria delle persone morali, può risolvere almeno in parte la questione assumendo una trascendenza della volontà generale del corpo politico rispetto alle volontà empiriche degli individui. Ma poiché accetta l’antitesi fra corpo politico e dispersa moltitudine dello stato di natura, gli rimane se non altro da ricomporre la frattura, e spiegare il passaggio da questa a quello, e il suo problema è tanto più grave perché egli non può risolverlo identificando l’unità del popolo con l’unità del sovrano, essendo il sovrano lo stesso popolo che occorre costituire. L’unità che trascende gli individui, lo “spirito sociale”, non può essere prodotta a partire dagli individui stessi. Se dispersa moltitudine degli individui e unità di un popolo si escludono l’un l’altro, non c’è modo di spiegare il passaggio dall’una all’altro, ed è per questo che Rousseau si sente stretto in un circolo vizioso: “bisognerebbe che l’effetto potesse diventare la causa”. L’unica via d’uscita, allora, è postulare un elemento che sia al di fuori del popolo come della moltitudine, e che sia in grado di fornire a quest’ultima l’unità di cui da sola non sa dotarsi. Così, dopo aver respinto in parte la soluzione hobbesiana, Rousseau è costretto ad assumerla fino in fondo almeno in un punto, nel momento essenziale della fondazione dello stato.

Spinoza, invece, come ormai abbiamo detto più volte, non accoglie l’antitesi fra stato di natura e stato civile così come non accoglie l’antitesi fra dispersa multitudo e stato come persona ficta. Quest’antitesi è solo teorica, nella realtà lo stato di natura si conserva all’interno dello stato civile così come vi si conserva il diritto naturale degli individui, e l’unità dello stato può essere solo concreta unità delle scelte e delle azioni individuali. Da questo punto di vista, egli è al di fuori del circolo vizioso che costringe Rousseau. Tuttavia, il problema si ripresenta a Spinoza sotto un altro aspetto, che deriva a entrambi dall’eredità di Machiavelli.

Come Machiavelli, infatti, Spinoza assume la realtà delle passioni umane a fondamento dello stato, e afferma che per questo motivo non è sulla lealtà di questa o quella persona che può fondarsi

cura di Gianni Micheli, p. 164-5 (Multitude). 75 Leviathan, op. cit., pp. 241 ss., trad. cit. pp. 183 ss.76 Cfr. Robert Derathé, Jean Jacques Rousseau et la science politique de son temps, Paris, Vrin, 1950, (trad. it. Il

Mulino, Bologna, 1994).77 Jean Jacques Rousseau et la science politique … , cit., p. 404 ss.

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il buon governo, ma soltanto sui “buoni ordini”78. Tutti, governanti e governati, sono uomini, cioè soggetti alle passioni; perciò chi conosce l’indole mutevole della moltitudine quasi ne dispera, e cerca di prevenire i mali che ne derivano:

omnes namque, tam qui regunt, quam qui reguntur, homines sunt ex labore

scilicet proclives ad libidimem. Imo qui tantum varium multitudinis ingenium

experti sunt, de eo fere desperant: quia non ratione, sed solis affectibus

gubernatur. […] His ergo omnibus praevenire, et imperium ita constituere, ut

nullus locus fraudi relinquatur, imo omnia ita instituere, ut omnes, cujuscunque

ingenii sint, jus publicum privatis commodis praeferant, hoc opus, hoc labor est79.

Questo è il compito, questo lo sforzo da fare: ordinare lo stato in modo che tutti i suoi membri, benché siano governati soltanto dagli affetti, antepongano il bene pubblico ai vantaggi privati. Ma quanto più si insiste sulla necessità di buoni ordini, quanto più si sottolinea che il buon governo dipende dal suo ordinamento e dalle sue strutture istituzionali, e non dalla bontà dei governanti né dei governati, tanto più diventa importante rendere conto del passaggio iniziale, e chiedersi come questi ordini possano prodursi. Tanto più, anche, rispondere a questo interrogativo diventa difficile, se non impossibile, quando si è posto l’assunto per cui assolutamente tutti gli uomini vivono sotto il dominio delle passioni, e non è ammissibile per risolvere il problema dell’ordine politico far conto sulla loro razionalità, perché se questa si desse non si darebbe il problema. Anche se non si postula un’unità del popolo che trascenda le volontà e le passioni individuali, e si afferma invece che questa unità, ferme restando le passioni, è garantita dai “buoni ordini”, allora, il problema dell’origine dell’ordine si ripresenta, e con esso il paradosso espresso da Rousseau: bisognerebbe che l’effetto fosse anche la causa, che l’ordine sorgesse da se stesso, oppure che esistesse da sempre e per sempre al di fuori della moltitudine di passioni che deve governare, e da cui non può trarre origine.

Anche qui, allora, diventa necessario postulare una figura che sia esterna al problema che genera il circolo vizioso, non soggetta alle condizioni che hanno generato il paradosso. Se tutti gli uomini sono soggetti alle passioni, e per questo non possono accordarsi né generare i “buoni ordini”, è necessaria una figura per la quale questo postulato non valga, qualcuno che faccia eccezione e non sia soggetto alle passioni, o perlomeno qualcuno la cui passione fondamentale sia proprio l’amore per il bene comune e la creazione dell’ordine, e questa eccezione deve essere rappresentata da un singolo, perché qualsiasi molteplicità porterebbe al rinnovarsi del conflitto delle passioni e degli interessi.

A questa necessità il repubblicano Machiavelli rispondeva introducendo la figura monarchica del principe:

mai o di rado occorre che alcuna republica o regno sia da principio ordinato bene,

o al tutto di nuovo fuora degli ordini vecchi riformato, se non è ordinato da uno;

anzi è necessario che uno solo sia quello che dia il modo e dalla cui mente

dependa qualunque simile ordinazione. Però uno prudente ordinatore d’una

republica […] debbe ingegnarsi di avere l’autorità solo80,

78 Dove per “ordini” si intendono non tanto le leggi, né tantomeno la costituzione nel senso moderno di “legge fondamentale”, quanto piuttosto le strutture sociali e istituzionali che contraddistinguono una realtà politica: cfr. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,, I, 18: “l’ordine dello stato era l’autorità del Popolo, del Senato, de’ Tribuni, de’ Consoli, il modo di chiedere e del creare i magistrati, ed il modo di fare le leggi. Questi ordini poco o nulla variarono negli accidenti. Variarono le leggi”. In Il Principe e altre opere politiche, Milano, Garzanti, 1981, pp. 99-459, p. 157.

79 Tractatus Theologico-politicus, XVII, SO III 203, trad. cit. p. 415; simile Tractatus politicus, I, 5, SO III 275, trad. cit. pp. 152-5.

80 Machiavelli,Discorsi I, 9: “Come egli è necessario essere solo, a volere ordinare una republica di nuovo, o al tutto fuor degli antichi suoi ordini riformarla”, op. cit. p. 132.

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per poi, una volta ottenutala e ordinata la repubblica, farsi da parte e lasciare la cosa ordinata alla cura dei molti. Gli esempi di questo comportamento sono gli antichi legislatori come Mosè, Licurgo, Solone, e altri81, e tutti fanno ricorso alla religione per far accettare i nuovi ordinamenti,

perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé

ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui82.

Se questo non accade, è possibile che la “città” si ordini da se medesima, come fu il caso di Roma, che i pericoli esterni ed i conflitti interni contribuirono a mantenere libera, ma in questo caso essa “tiene qualche grado di infelicità”, e non si ordina mai senza gravi rischi,

perché gli assai uomini non si accordano mai ad una legge nuova che riguardi un

nuovo ordine della città, se non è mostro loro da una necessità che bisogni farlo; e

non potendo venire questa necessità sanza periculo, è facil cosa che quella

republica rovini avanti che la si sia condotta ad una perfezione d’ordine83.

Anche quando lo stato non sia corrotto, ma siano semplicemente intervenuti dei mutamenti, e sia necessario “ripigliare lo stato”, e riportarlo ai suoi antichi ordini, o si presenta un pericolo esterno, oppure questo può avvenire soltanto

o per virtù d’un uomo o per virtù d’uno ordine […]. I quali ordini hanno bisogno di

essere fatti vivi dalla virtù d’uno cittadino, il quale animosamente concorra ad

esequirli contro alla potenza di quelli che gli traspassano84

Nel caso che invece lo stato sia antico e corrotto, invece è senz’altro impossibile rinnovarne gli ordini se non, forse, per la virtù di uno solo che se ne faccia principe con la violenza; questi, d’altronde, se anche vi potesse istituire una repubblica dovrebbe “ridurla più verso lo stato regio che verso lo stato popolare”, e frenare l’insolenza dei sudditi con “una podestà quasi regia”85.

Lungo tutta la sua opera, Machiavelli resta in questa tensione concettuale irrisolta: da un lato l’esaltazione dei “popoli liberi” e dell’uguaglianza, e la descrizione di come nella repubblica romana proprio i conflitti interni ed esterni riuscirono a produrre i buoni ordini, dall’altro la convinzione che la virtù non possa essere che individuale, e che la capacità umana di intervenire sulla fortuna e di modificarla non possa essere che l’appannaggio di un singolo86. Certo, egli riconosce che “i popoli sono capaci di verità”, ma si affretta a proseguire: “e facilmente cedano quando da uomo degno di fede è detto loro il vero”87, e non crede che la moltitudine sia capace di esercitare la propria potenza in un’azione comune, se non sia guidata e organizzata da un capo:

non ci è cosa dall’un canto più formidabile che una moltitudine sciolta e sanza

capo, e dall’altra parte non è cosa più debole […]. Però una moltitudine così

81 Ibidem, p. 133.82 Machiavelli, Discorsi, I, 11, op. cit. p. 139.83 Machiavelli, Discorsi, I, 2, op. cit. pp. 108-9.84 Machiavelli, Discorsi, III, 1, op. cit. pp. 342-3. 85 Machiavelli, Discorsi, I, 18, op. cit. pp. 158-9.86 Dal dilemma non si esce postulando che il principe possa essere un soggetto collettivo, come il partito “moderno

principe” di Antonio Gramsci (Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, vol. III, p. 1559), perché ciò che è in questione qui è appunto se un soggetto collettivo di qualsiasi genere sia in grado di ordinarsi autonomamente e produrre un’azione comune, oppure se la capacità di intervenire sulla storia e di opporsi alla fortuna sia esclusivo appannaggio dei singoli, nel qual caso la collettività rappresenterebbe la parte della materia informe sulla quale costoro impongono il proprio progetto. Nonostante tutto, questa seconda pare l’opzione di Machiavelli, e da qui, mi sembra, sorge la maggiore tensione interna alla sua opera.

87 Discorsi, I, 4, op. cit. p. 117.

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concitata, volendo fuggire questi pericoli, ha subito a fare infra se medesima uno

capo che la corregga, tenghila unita e pensi alla sua difesa88,

viceversa, “una moltitudine senza capo è inutile”89.Così, con tutta la sua passione repubblicana, Machiavelli rinvia continuamente alla figura di

un principe, di un legislatore, alla necessità di una “podestà quasi regia”, e nello stesso tempo, per salvare la repubblica, è costretto a supporre il principe, il legislatore, il re così virtuosi da rinunciare spontaneamente al potere una volta ordinata la repubblica90, ossia a postulare, ancora una volta, una figura eccezionale e non soggetta alla passione per il potere che segna altrimenti così profondamente la natura umana.

Spinoza e Rousseau hanno ben presente questa lezione. Rousseau, da un lato, pensa probabilmente a Machiavelli quando, introducendo il capitolo sul legislatore, scrive:

In qual modo una massa cieca che spesso non sa neppure quel che vuole, perché

raramente essa sa ciò che per lei è bene, potrebbe da sola realizzare un’impresa e

difficile com’è quella di costruire un sistema legislativo? […] Bisogna presentar[e

alla volontà generale] gli oggetti talvolta quali sono e talvolta quali debbono

sembrare; bisogna mostrarle la buona strada che essa cerca, difendendola dalla

seduzione delle volontà particolari…91

Spinoza, da parte sua, si rifà a Machiavelli quando, nel Tractatus Theologico-politicus interpreta l’operato di Mosè, che in effetti è anche in Machiavelli un esempio importantissimo di legislatore. Dopo la fuga dall’Egitto, gli Ebrei si ritrovano privi di leggi e di territorio, e liberi di stabilire a proprio piacimento questo e quelle:

Hi cum primum Aegypto exiverunt, nullo alterius nationis jure amplius

tenebantur, adeoque iis licebat novas leges ad libitum sancire, sive nova jura

constituere, et imperium, ubicunque locorum vellent, tenere et, quas terras

vellent, occupare92,

ma la lunga schiavitù li ha resi del tutto inetti ad esercitare collegialmente il potere e a darsi autonomamente delle leggi, ed è per questo che Mosè può impadronirsi del potere e istituire le leggi dettate da Dio (divina jura constituere).

2. 4 MOSÈ E LA DISCIPLINA DELL’OBBEDIENZA

Il Mosè del Tractatus Theologico-politicus è in effetti un esempio paradigmatico della figura del legislatore. Egli si trova davanti un popolo che non è ancora tale, come la dispersa moltitudine hobbesiana, privo di forma, senza istituzioni, senza territorio e apparentemente senza storia: una massa ritornata allo stato di natura93, che per unirsi trasferisce tutto il suo diritto in Dio, e poi in Mosè, suo rappresentante94. In Machiavelli questa situazione corrisponde al sorgere delle “città”

88 Discorsi, I, 57, op. cit. p. 231.89 Discorsi, I 44, op. cit. p. 205.90 Machiavelli,Discorsi, I, 9, op.cit. p. 132; I, 10, op. cit. pp 134 ss. 91 Rousseau, Contratto sociale, II, 6, trad. it. di Roberto Guiducci, Milano, Rizzoli, 1982, pp. 88-9.92 Tractatus Theologico-politicus, V, SO III 74-5, trad. cit. pp. 130-1. 93 Tractatus Theologico-politicus, XVII, SO III 205, trad. cit. p. 418: “Postquam ab intoleranda Aegyptiorum

oppressione liberati, et nulli mortalium ullo pacto addicti erant, jus suum naturale ad omnia, quae possent, iterum adepti sunt […]. Igitur in hoc statu naturali constituti…”.

94 L’edificazione dello stato ebraico è trattata sia nel capitolo V che nel XVII, ma solo in quest’ultimo Spinoza descrive in dettaglio le fasi della sua nascita e si preoccupa di distinguere due patti. L’importanza del capitolo V, tuttavia, non va sottovalutata

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edificate da uomini liberi, che sono totalmente nuove, come tabulae rasae su cui colui che le costruisce può dispiegare interamente e liberamente il proprio progetto:

in questo caso è dove si conosce la virtù dello edificatore e la fortuna dello

edificato: la quale è più o meno maravigliosa, secondo che più o meno è virtuoso

colui che ne è stato il principio95,

e Mosè viene indicato da Machiavelli come l’esempio di uno di questi edificatori di città. Così è pure nel Tractatus Theologico-politicus:: tutta la struttura dell’antico stato ebraico descritta nel capitolo XVII, lo stesso “ingenium” del futuro popolo ebraico96, e la sua capacità di permanere nei secoli attraverso le persecuzioni, dipendono per Spinoza dalle fondamenta che esso ha ricevuto da Mosè. A Mosè si devono infatti le garanzie di libertà presenti nella teocrazia ebraica, perché egli non si elesse un successore97, ma separò il diritto di interpretare le leggi dal potere di amministrarle e di imporne l’osservanza, e stabilì che l’esercito fosse formato da sole milizie cittadine: queste istituzioni, insieme alla religione98 fondata da Mosè, fecero la forza e la fortuna dello stato ebraico. La stessa causa della distruzione di questo stato, poi, si trova nelle leggi che lo costituirono, ossia nella separazione dei Leviti voluta da Mosè. Se, come afferma Spinoza, non la natura ma le leggi e le usanze creano le nazioni99, Mosè si può dunque considerare il vero e proprio creatore della nazione ebraica.

La cosa più importante, tuttavia, è il fatto che Spinoza indica nelle istituzioni create da Mosè una possibile risposta alla questione fondamentale posta all’inizio del capitolo: come imperare animis, ossia ottenere che i sudditi obbediscano per devozione e per una animi internam actionem100, e cessino così di rappresentare il pericolo maggiore per lo stato? La fortuna dello stato ebraico dimostra la validità della soluzione mosaica, e fra i fattori di questa fortuna non bisogna dimenticare la libertà di cui si godeva in quello stato, e all’utilità che i cittadini traevano dal sistema della proprietà101, ma certo il fattore di gran lunga più importante è la oboedientiae disciplina nella quale gli antichi Ebrei erano educati attraverso la religione introdotta nello stato da Mosè.

La religione mosaica, in effetti, è per Spinoza innanzitutto una religione civile, finalizzata alla prosperità di uno stato particolare ed adeguata all’indole di un popolo particolare102. Per quanto ritornati allo stato di natura, infatti, i fuoriusciti dall’Egitto non erano privi di storia, ma al contrario erano segnati da ciò che tutti quanti avevano in comune: l’eredità di una lunga e penosa schiavitù. Questo, sottolinea più volte Spinoza, faceva la loro debolezza, e li rendeva incapaci di governarsi da soli; per questo motivo la religione fondata da Mosè è segnata più di quelle di altri popoli dalla disciplina dell’obbedienza:

95 Machiavelli, Discorsi, I, 1, op. cit. p. 106.96 Cfr. Pierre François Moreau, Spinoza, l’expérience et l’éternité, Paris, PUF, 1994, pp. 427 ss.: L’ ingenium du

peuple et l’âme de l’Etat. Moreau aderisce alla proposta di Alexandre Matheron di interpretare lo stato attraverso la nozione spinoziana di Individuum, e ne conclude la possibilità di parlare di un ingenium collettivo. In effetti, questa possibilità è ben presente in Spinoza, e in particolare proprio nel Tractatus Theologico-politicus . Il lavoro di Moreau è uno degli studi più illuminanti usciti negli ultimi anni su Spinoza; tuttavia, nell’analizzare gli ingenia dei vari popoli egli appare meno incisivo del solito: è bene aver sottolineato l’importanza della nozione di ingenium, ma interpretarla, come fa Moreau, come se l’ingenium fosse una sorta di qualità nativa dei popoli significa perdere gran parte della sua forza ermeneutica, e dimenticare l’indicazione dello stesso Spinoza: “Per hoc igitur tantum nationes ab invicem distinguuntur, nempe ratione societatis, et legum” (Tractatus Theologico-politicus , cap. III, SO III 47, trad. cit. p. 83; cfr. anche XVII, SO III 217, trad. cit. 433).

97 Tractatus Theologico-politicus, XVII, SO III, 207-8, trad. cit. 421. Cfr. Machiavelli, Discorsi, I, 9.98 E’ inutile sottolineare l’origine machiavellica di questi due temi.99 Cfr. supra, nota 31.100 Tractatus Theologico-politicus, XVII, SO III, 202, trad. cit. 413. 101 Tractatus Theologico-politicus, XVII, SO III, 215, trad. cit. 430-1.102 Tractatus Theologico-politicus, V, SO III, 70, trad. cit. p. 125.

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ut populus, qui sui juris esse non poterat, ab ore imperantis penderet, nihil

hominibus scilicet servituti assuetis ad libitum agere concessit; nihil enim populus

agere poterat, quin simul teneretur legis recordari, et mandata exequi, quae a solo

imperantis arbitrio pendebant; non enim ad libitum, sed secundum certum, et

determinatum jussum legis licebat arare, seminare, metere, item nec aliquid

comedere, induere, neque caput, et barbam radere, neque laetari, nec absolute

aliquid agere licebat, nisi secundum jussa, et mandata in legibus praescripta103

Mosè istituì regole e rituali che non lasciavano libertà in alcun aspetto dell’esistenza, affinché in ogni più semplice atto della propria vita i sudditi si ricordassero innanzitutto della necessità di obbedire a una qualche legge.

Entrambi i Testamenti, in realtà, afferma Spinoza, consistono in una disciplina dell’obbedienza104, nel senso che il loro scopo non è di insegnare la verità, ma di indurre tutti, sapienti e ignoranti, ad obbedire, in un caso alla legge religiosa di uno stato, e nell’altro a dei precetti morali105. La peculiarità della disciplina dell’obbedienza mosaica sta dunque nel fatto di essere ad un tempo legge civile e religione, e grazie a questa fusione riuscire a pervadere tutta la vita dei sudditi, e nello stesso tempo a far sì che l’obbedienza, divenuta abitudine e quasi natura, sia radicata nella passione più forte da cui gli uomini possano essere spinti: la gioia che nasce quando il proprio sentimento di sé è accresciuto dall’unione con qualcosa che si crede straordinario, “hoc est, ex amore, et admiratione simul”106. Perciò l’elezione del popolo ebraico, se nella realtà non consisteva in altro che nella prosperità dello stato, ebbe effetti straordinari nell’immaginazione, suscitando nei sudditi un amore indistruttibile per la propria patria e le sue leggi, e un’unità fra i cittadini ed una separazione dagli altri popoli tale che soltanto in patria un membro di questo popolo poteva vivere bene:

quantum autem haec omnia, videlicet humani imperii libertas, erga patriam

devotio, in omnes reliquos jus absolutum, et odium non tantum licitum, sed etiam

pium, omnes infensos habere, moruum et rituum singulatiras, quantum, inquam,

haec Hebraeorum animos firmare valuerint ad omnia singulari constantia et virtute

pro Patria tolerandum, ratio quam clarissime docet, et ipsa experientia testata est.

Nunquam enim, stante urbe, sub alterius imperio durare potuerunt107.

Mosè, dunque, fu il vero e proprio creatore dello stato ebraico, sia perché dalle istituzioni che egli creò dipesero sia la fortuna che la rovina di questo stato, sia perché egli seppe agire nel modo

103 Tractatus Theologico-politicus, V, SO III, 75 , trad. cit. pp. 131-2. Il tema ritorna in XVII, SO III 216, trad. cit. p. 432.

104 “Quis enim non videt, utrumque Testamentum nihil esse praeter oboedientiae disciplinam? nec aliud utrumque intendere, quam qud homines ex vero animo obtemperent?” Tractatus Theologico-politicus, XIV, SO III, 174 , trad. cit. p. 345.

105 Questi precetti concordano con la ragione (XV, SO III 186, trad. cit. p. 366), ma ne differiscono in quanto quest’ultima comporta una verità dimostativa e per tutti condivisibile, mentre la verità contenuta in quelli è altrettanto comune, ma percepita solo attraverso l’immaginazione ed espressa sotto la forma dell’esperienza, del racconto e del comando (V, SO III 76-77, trad. cit. p. 133). In polemica con il calvinismo contemporaneo, però, Spinoza pone una netta distinzione fra il contenuto dell’una e dell’altra disciplina: la legge mosaica non può essere applicata nell’Europa del XVII secolo, perché era legge di uno stato dell’antichità, adattata alle sue particolari esigenze e alle circostanze della sua nascita; per lo stesso motivo, essa non è stata abrogata da Cristo, che non aveva alcuna intenzione di introdurre delle novità nello stato (V, SO III 70-1, trad. cit. p. 126), ma dalla caduta dello stato ebraico. Quelle che Cristo insegna, invece, e che gli apostoli hanno trasmesso sotto forma di comandi, sono le nozioni comuni e vere della giustizia e dell’amore per il prossimo, che sono però comandamenti soltanto interiori, e non possono avere valore politico (XVIII, SO III 221-2, trad. cit. pp. 448-9).

106 Cfr. Eth. III, 13 sch., SO II 151 (Amor), 52 e sch. , ibidem, 179-80 (Admiratio, Devotio).107 Tractatus Theologico-politicus, XIV, SO III, 215 , trad. cit. p. 430-1.

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più forte sull’immaginazione dei suoi concittadini, ed ottenere da essi un’obbedienza tanto assoluta da trasformarsi in natura. Egli li educò , dice Spinoza, come i genitori educano i propri figli privi dell’uso della ragione, con minacce e promesse, e se questo tipo di educazione, come abbiamo visto, non è propria del filosofo, essa è invece caratteristica del legislatore108.

Tuttavia, pur riconoscendo l’importanza e la grandezza di Mosè, Spinoza manifesta in più d’una occasione fastidio e diffidenza per la soluzione che egli rappresenta. Già Machiavelli nei Discorsi osservava che, ad esempio, l’opera di Numa Pompilio fu grandemente facilitata dall’essere “quelli tempi pieni di religione, e quegli uomini con cui aveva a travagliare grossi, […] potendo imprimere in loro facilmente qualunque nuova forma”109, ma questa rozzezza aveva per lui il valore positivo di un’ingenuità ancora incorrotta e piena della forza originaria. Per Spinoza no. Lo stato di natura è per lui uno strumento euristico, non un fatto storico, né tantomeno un principio di valore110. Gli stessi uomini fuoriusciti dall’Egitto, che ci erano sembrati all’inizio una perfetta esemplificazione dello stato di natura, avevano invece una storia, e un’indole particolare segnata da questa storia comune. Dove Machiavelli parla di “tempi pieni di religione” e di uomini a cui si può imprimere una forma nuova, Spinoza parla di uomini “superstitionibus Aegyptiorum assueti, et miserrima servitute confecti”111. Questi uomini erano rozzi perché logorati dalla schiavitù, e la religione di cui erano pieni era una superstizione da schiavi dominati dalla paura112. Solo per questo essi non furono in grado di governarsi collegialmente, e si dovette affidare il potere ad uno solo:

attamen ad nihil minus erant apti, quam ad jura sapienter constituendum, et

imperium penes sese collegialiter retinendum; rudis fere ingenii omnes erant, et

misera servitute confecti. Imperium igitur penes unum tantum manere debuit113

Mosè ebbe dunque bisogno di educarli, come si fa coi bambini, ma anche con gli schiavi, con promesse e minacce114, ed istituì la disciplina dell’obbedienza soprattutto perché questo popolo “sui juris esse non poterat”115. Ma quando non sono già fiaccati dalla servitù oppure del tutto primitivi, gli uomini non si lasciano ridurre così facilmente a servi inutili a se stessi116, come dimostrarono i Macedoni che non si lasciarono ingannare da Alessandro.

Spinoza ha dunque quantomeno una riserva morale verso la soluzione del legislatore: per quanto il legislatore possa, come Mosè, non eleggere successori, la sua figura è troppo vicina a quella di un monarca per non essere sospetta. Il governo originario è sempre una democrazia, e questo vale persino nel caso degli Ebrei. Costoro, per quanto “servituti assuetis”117, inizialmente

108 Tractatus Theologico-politicus, II, SO III, 40-41 , trad. cit. p. 59.109 Machiavelli, Discorsi, I, 11, op. cit. p. 140.110 Spinoza non parla mai di corruzione di un popolo, o di virtù primigenia, e se si dà la necessità di “ripigliare lo

stato” periodicamente Machiavelli, Discorsi, III, 1, op. cit. p. 341), come egli pure riconosce in Tractatus Politicus X, 1, questa necessità è data solo dal fatto che le istituzioni di uno stato, con lo scorrere del tempo, si deteriorano o divengono inadeguate. Anche la rovina dello stato ebraico non deriva da una corruzione del principio originario, ma al contrario dallo sviluppo delle tensioni che erano presenti sin dall’inizio nelle sue fondamenta (Tractatus Theologico-politicus, XVII, SO III, 217, trad. cit. 433). In coerenza con la sua metafisica, Spinoza non concepisce lo sviluppo storico né come progresso né come corruzione, ma soltanto come progressiva esplicazione degli effetti impliciti nelle cause poste sin dall’inizio, o di quelle che si aggiungono via via.

111 Tractatus Theologico-politicus, II, SO III 41, trad. cit. p. 59. Cfr. anche V, SO III 75, trad. cit. p. 131 (anche poco oltre: servituti assuetis).

112 Cfr. Praefatio, SO III 6, trad. cit. p. 2.113 Tractatus Theologico-politicus, V, SO III 75, trad. cit. p. 131.114 Tractatus Theologico-politicus, II, SO III 41, trad. cit. p. 59.115 Tractatus Theologico-politicus, V, SO III 75, trad. cit. p. 131.116 “nec homines nisi prorsus barbari sint, tam aperte falli et ex subditis inutiles sibi servi fieri patuntur”Tractatus

Theologico-politicus, II, SO III 205, trad. cit. p. 417.117 Tractatus Theologico-politicus, V, SO III 75, trad. cit. p. 131.

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mantennero l’uguaglianza originaria come accade in democrazia, e fu solo per debolezza che in un secondo tempo trasferirono a Mosè il diritto e il potere “Deum consulendi, legesque accipiendi, et interpretandi”118 - ossia di promulgare e di interpretare le leggi.

In effetti, subito prima di introdurre la figura di Mosè come legislatore, Spinoza stabilisce una contrapposizione netta fra due soluzioni possibili: o un governo conforme alla naturale uguaglianza umana, in cui nessuno debba servire il proprio uguale e tutti insieme tengano collegialmente il potere, oppure un governo che si fondi sull’occultamento di questa uguaglianza, e sull’illusione che la natura di coloro che gli altri uomini debbono servire e obbedire abbia qualcosa di eccezionale e sovrumano. Gli uomini, infatti, non possono tollerare di sottostare ai propri uguali, ed è per questo che, come i Macedoni di Alessandro, non si lasciano togliere la libertà una volta ottenuta.

Homines deinde nihil minus pati possunt, quam suis aequalibus servire, et ab iis

regi. Denique nihil difficilius, quam libertatem hominibus semel concessam iterum

adimere. Ex his sequitur Primo, quod vel tota societas, si fieri potest, collegialiter

imperium tenere debet, ut sic omnes sibi et nemo suo aequali servire teneatur,

vel, si pauci, aut unus solus imperium teneat, is aliquid supra communem

humanam naturam habere, vel saltem summis viribus conari debet, vulgo id

persuadere119.

Un tale governo può reggersi solo sull’admiratio, l’illusione che qualcuno possa sottrarsi alla condivisione di una comune natura umana, che sia libero dalla necessità naturale delle cose e possa anzi modificarne il corso con la sola forza della sua virtù eccezionale. E in effetti, questa illusione è costantemente indicata da Spinoza come il cuore stesso dell’immaginario monarchico. Nell’Ethica, Spinoza rifiuta di annoverare l’admiratio fra le passioni fondamentali (contrapponendosi in questo a Descartes120), e anzi nega persino che la si possa annoverare fra gli affetti: essa è pura ignoranza, pura mancanza di collegamenti e confronti che consentano di valutare la cosa osservata, la quale assume così una parvenza di eccezionalità - nel bene o nel male - che la fa sembrare libera dall’ordine comune della natura121.

Grazie a questa illusione gli uomini possono smettere di servire solo se stessi, e trovare tutta la propria potenza nel sentirsi uniti alla potenza di quest’essere sovrumano. Quanto grande sia la passione che ne deriva lo abbiamo già visto nel caso dell’elezione del popolo ebraico: l’illusione della propria eccezionalità di eletti e commensali di Dio stesso, creduto un reggitore e legislatore sovrumano, fece tutta la forza appassionata con cui gli Ebrei amarono la propria patria e le proprie leggi divine. Ma fra questa illusione da una parte e la libertà e l’uguaglianza dall’altra vi è una contrapposizione non componibile: da un lato, dice Spinoza nella prefazione al trattato, sta la superstizione monarchica, che rende possibile combattere per la propria schiavitù e considerare un onore sacrificare la propria vita per un uomo solo, dall’altro sta la libera repubblica, in cui queste cose sono totalmente assurde122.

La figura del legislatore descritta nel Tractatus Theologico-politicus risente dunque larghissimamente dell’influenza di Machiavelli e dell’impostazione che questi aveva dato al problema dei “buoni ordini”, ma fa emergere anche la diffidenza e il fastidio di Spinoza per la soluzione machiavelliana. Mentre Machiavelli, pur analizzando lo sviluppo autonomo della repubblica romana, nella teoria mette sempre in primo piano la virtù del singolo come l’unica capace di intervenire sulla storia, Spinoza non vuole introdurre la figura del legislatore Mosè senza

118 Tractatus Theologico-politicus, XVII, SO III 206, trad. cit. p.418.119 Tractatus Theologico-politicus, II, SO III 74, trad. cit. p. 130.120 Descartes, Les passions de l’âme, II, 53.121 Ethica, III, Affectuum Definitiones, 4 , Explicatio. Tractatus Theologico-politicus, VI, SO III, 81, trad. cit. p.

151.122 Tractatus Theologico-politicus, Praefatio, SO III 7, trad. cit. pp. 3-4.

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prima mettere in chiaro l’aut aut : o l’uguaglianza o la servitù, o l’esercizio collegiale del potere o l’admiratio e il feticcio dell’uomo eccezionale123, e questa opposizione non vale soltanto per l’ordinaria amministrazione di uno stato già esistente, ma anche per al momento in cui occorre istituirlo e stabilirne gli ordinamenti fondamentali. Anche gli antichi Ebrei inizialmente conservarono fra loro l’uguaglianza originaria, “come in democrazia”124, e avrebbero potuto e dovuto governarsi collegialmente; solo la loro debolezza e la paura li spinsero invece a fare appello a Mosè e trasferire a lui il proprio diritto di “interpellare Dio” e di interpretarne la volontà.

Lo stesso vale quando si tratta di rivitalizzare gli ordinamenti originari di uno stato, aggiungerà più tardi Spinoza nel Tractatus politicus, chiarendo esplicitamente che la sua obiezione è rivolta direttamente contro Machiavelli. E’ ben vero, egli dirà, quello che Machiavelli fa notare in Discorsi, III, 1, e cioè che con l’andar del tempo nello stato si introducono degli elementi nuovi, e per questo motivo è necessario di quando in quando “ritirare” le repubbliche “verso i principi loro”, ovvero che “imperium ad suum principium, quo stabiliri incepit, redigatur”, e che questo accade “vel casu […] vel consilio et prudentia legum, aut viri eximiae virtus”125. Come abbiamo visto, però, fra queste soluzioni Machiavelli sceglieva in definitiva la terza, perché quand’anche vi siano degli ordini destinati a far fronte a questo problema essi “hanno bisogno di essere fatti vivi dalla virtù d’uno cittadino”126. Ne deriva l’opposta valutazione che i due autori danno della potestà dittatoria romana: Machiavelli, da un canto, sostiene che “e’ non fu il nome né il grado del Dittatore che facesse serva Roma”127, Spinoza, dall’altro, si affretta a sottolineare i pericoli di questa soluzione:

cum igitur dictatoria potestas absoluta sit, non potest esse omnibus formidabilis.

[…] Et sane, quandoquidem haec Dictatoria potestas Regia absolute est, potest

non absque magno Reipublicae periculum imperium aliquando in Monarchicum

mutari, tametsi in tempus, quantumvis breve, id fiat128.

La dittatura è pericolosa per tutti, perché è un potere assoluto, e di natura assolutamente monarchica, e troppo grande è il rischio che essa non trasformi lo stato in una monarchia. Dell’importanza e del significato di questa soluzione in Machiavelli, Spinoza preferisce tacere, e ostentare una difficoltà di comprensione accodandosi alla più diffusa interpretazione di parte repubblicana: di sicuro, l’acutissimo Machiavelli non ha voluto far altro che insegnare ai popoli quanto sia pericoloso per loro affidare la propria sorte ad un uomo solo129.

2. 5 IL DIRITTO NATURALE E LA DEMOCRAZIA

Contro la figura del legislatore, dunque, Spinoza fa valere l’opzione della democrazia e dell’uguaglianza. Non è vero che una “dispersa moltitudine” non sia in grado di produrre autonomamente un ordine, e non è indifferente per l’ordine che deve nascere che essa lo faccia o che, come gli antichi Ebrei, trasferisca questo diritto ad un legislatore come Mosè. La libertà non può essere né instaurata, né difesa, né ristabilita da una “podestà quasi regia”, come diceva Machiavelli, perché un simile potere, comunque sia, è direttamente contraddittorio con l’uguaglianza, che è per Spinoza la condizione della libertà.

123 Tractatus Theologico-politicus, II, SO III 74, trad. cit. p. 130. Questa stessa contrapposizione ha un’origine machiavelliana: cfr. Discorsi, I, 55, op. cit; pp. 225 ss: Dove è equalità non si può fare principato, e dove la non è non si può fare republica.

124 Tractatus Theologico-politicus, SO III 206, trad. cit., p. 419.125 Tractatus politicus, X, 1, SO III 353, trad. it. a cura di A. Droetto, op. cit., p. 352.126 Cfr. supra, § 2.3, nota 29.127 Discorsi, I, 34, op. cit. p. 184.128 Tractatus politicus, X, 1, SO III 354, op. cit., p. 354.129 Tractatus politicus, V, 7, SO III 296-7, op. cit., p. 215-6.

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L’unico governo compatibile con la natura degli uomini, che non tollerano di essere sottoposti ai loro uguali, è quello in cui il potere è esercitato collegialmente. In questo governo non è necessaria la oboedientiae disciplina, perché in una società così governata semplicemente non si dà l’obbedienza:

quoniam oboedientia in eo constitit, quod aliquis mandata ex sola imperantis

authoritate exequatur, hinc sequitur eandem in societate, cujus imperium penes

omnes est, et leges ex communi consensu faciuntur, nullum locum habere130

Un governo in cui tutti esercitino collegialmente il potere, ossia un governo democratico, è allora “il più conforme alla natura umana”, “il più vicino allo stato naturale”131, “il più conforme alla libertà che la natura consente a ciascuno”, perché in esso tutti continuano ad essere uguali132.

Ma come dobbiamo interpretare questo richiamo alla “naturalità” della democrazia? Si tratta semplicemente di un giudizio di valore, o addirittura soltanto di un modo elegante per affermare una presa di posizione tanto fondamentale quanto non giustificabile se non attraverso un espediente retorico? Questa spiegazione può essere in parte vera: sarebbero bastati, per generare in Spinoza una forte diffidenza verso la soluzione machiavelliana, da un lato la tradizione repubblicana ed antimachiavellica, e dall’altro l’epoca e il luogo del trattato, scritto mentre la minaccia rappresentata da Guglielmo III d’Orange per la repubblica olandese si faceva sempre più reale. Il Tractatus Theologico-politicus è scritto per dimostrare che in una “Libera Republica”133 è necessario tutelare la libertà d’opinione, e la contrapposizione fra esigenze della monarchia ed esigenze della libertà, ossia della Repubblica, è sicuramente uno degli espedienti retorici più frequenti.

Tuttavia, nei passi che abbiamo citato Spinoza non parla genericamente di Repubblica134, ma di una ben precisa forma di governo, la democrazia; non solo, ma egli ci fornisce anche una spiegazione della “naturalità” di questo regime:

de [imperio democratico] prae omnibus agere malui, quia maxime naturale

videbatur, et maxime ad libertatem, quam natura unicuique concedit, accedere.

Nam in eo nemo jus suum naturale ita in alterum transfert, ut nulla sibi impsoteru

consultatio sit, sed in majorem totius Societatis partem, cujus ille unam facit.

Atque hac ratione omnes manent, ut antea in statu naturali, aequales135.

Il governo democratico è il più naturale perché più di ogni altro si avvicina alla libertà naturale, ossia perché nessuno rinuncia al suo diritto ad essere consultato e tutti rimangono uguali. Per questo motivo questa è la forma di governo che massimamente si avvicina allo stato di natura, mentre più ci si allontana da questo stato più il potere si fa violento. La “naturalità” della democrazia dipende dunque dal fatto che in essa, più che in qualsiasi altro regime, viene conservato il diritto naturale di ciascuno. Questa risposta, tuttavia, ci rimanda ad un ulteriore interrogativo: perché la conservazione del diritto naturale sarebbe un valore, e che cosa ha a che fare questo con la libertà?

Per rispondere a questa domanda, occorre esaminare più da vicino il significato della nozione di diritto naturale in Spinoza, e per farlo è necessario ritornare sul tema della libertà di opinione, che avevamo momentaneamente accantonato. Come si ricorderà, l’esame degli argomenti portati da

130 Tractatus Theologico-politicus, V, SO III 74, trad. cit. p. 130.131 Tractatus Theologico-politicus,, XX, SO III 245, trad. cit. p. 488.132 Tractatus Theologico-politicus, XVI,SO III 195, trad; cit. p. 384-5; 133 Tractatus Theologico-politicus, XX, SO III 239, e passim.. 134 In questo trattato Spinoza dichiara di disinteressarsi alle forme di governo, ma colloca comunque la democrazia

in una classificazione prossima a quella tradizionale, salvo per il fatto che per lui la democrazia è quando omnes, e non semplicemente “i molti” hanno il potere supremo (Tractatus Theologico-politicus, XVI, SO III 195). Il termine Republica, invece, è considerevolmente più vago, e sta ad indicare, genericamente, uno stato libero.

135 Tractatus Theologico-politicus, XVI SO III 195, trad. cit. pp. 384-5;

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Spinoza in difesa di questa libertà ci ha condotto a delle conclusioni sconfortanti. Abbiamo visto infatti che il tentativo di difenderla a partire dall’assunto per cui le opinioni sarebbero innocue va incontro a delle aporie e a delle difficoltà insormontabili, e che la ragione principale di queste difficoltà è che Spinoza non può sostenere coerentemente questo assunto. Uno dei cardini della sua filosofia è infatti l’identificazione fra esistenza e attività: esistere significa esplicare le conseguenze della propria natura, e non si dà nulla - neanche le idee - dalla cui natura non segua qualche effetto136. Questo tentativo di difesa veniva dunque vanificato dalla stessa logica del pensiero di Spinoza: nell’impossibilità di sostenere coerentemente che alcune idee possano essere prive di conseguenze, Spinoza si avvitava in un riconoscimento sempre più completo del pericolo da esse rappresentato, fino a ritrovarsi in condizione di non poter più lasciare alcuno spazio alla libertà, e ad essere costretto, secondo l’espressione di Guzzo, a mendicare dallo stato un po’ della libertà che voleva difendere.

In realtà, però, accanto a questo esiste nel Tractatus Theologico-politicus un’altro e ben più forte argomento in difesa della libertà di pensiero: quello dell’irriducibilità materiale delle opinioni. Nessuno, dice Spinoza, può trasferire il proprio diritto al punto di cessare di essere uomo, cioè di esistere, di agire e di pensare, e per questo motivo nessuno, neppure se lo volesse, può rinunciare alla propria facoltà di ragionare e di esprimere quello che pensa. Quindi, per quanto coloro che esercitano il potere supremo abbiano in teoria diritto ad ogni cosa, nella pratica

nunquam tamen facere poterunt, ne homines judicium de rebus quibuscunque ex

proprio suo ingenio ferant, et ne eatenus hoc, aut illo affectu afficiantur137

non è mai stato possibile impedire che ciascuno formulasse giudizi propri, e neppure impedire che questi giudizi fossero determinati per ciascuno dalle passioni che lo dominavano.

Il diritto naturale è innanzitutto la forza irriducibile della vita, delle passioni e delle opinioni dei singoli : esso si identifica con l’esistenza stessa di ciascuno, ossia con la potenza di esistere e di agire che è determinata dalla sua natura. Per diritto naturale, dice Spinoza, non intendo altro che le regole della natura di ciascun individuo, che lo determinano ad esistere e ad agire. Infatti la potenza della natura è la potenza stessa di Dio, e la potenza degli individui non è che una parte di questa potenza. Mentre per sostenere il primo argomento Spinoza era costretto a contraddirsi, affermando che si possono dare delle realtà prive di conseguenze, questo secondo argomento affonda direttamente le sue radici nella sua metafisica, ed è proprio l’assunzione più piena del fatto che, al contrario, non si dà nulla di inerte e privo di conseguenze, ma l’essenza stessa di ciascun individuo si identifica con la sua potenza di agire e di pensare138.

Il proprio diritto naturale di pensare e di esprimere il proprio pensiero, dunque, non può essere trasferito ad alcuno, più di quanto gli si possa trasferire la propria stessa vita: il diritto naturale di ciascuno è la stessa potenza con cui questi esiste e si sforza di esistere139, e di questa potenza Spinoza dice nell’Ethica che essa è l’essenza stessa di ogni uomo, in quanto questa essenza è

136 Ethica, I, 36, SO II, 77, trad. cit. p. 116. Cfr. supra, § 2.2, nota 12.137 Tractatus Theologico-politicus, XX, SO III 240, trad. cit. 481.138 Tractatus Theologico-politicus, XVI, SO III 189, trad. cit. 377-8. Cfr. Ethica, III, 7, demonstratio: lo sforzo

delle cose singolari per esistere ed agire è un’espressione particolare e determinata della potenza assolutamente infinita con cui Dio stesso è ed agisce (SO II, 146, trad. cit. pp. 178-9).

139 TTP, XVI, SO III 190, trad. cit. 378. I termini usati da Spinoza, cupiditas e potentia nella terza parte dell’Ethica sono sinonimi di conatus:: cfr. Ethica, III, 7, dem. e 9, scholium. Cupiditas e potentia sono la stessa essenza dell’uomo. Per questo motivo, fra l’altro, identificare il diritto naturale spinoziano con la forza non contrasta con il realismo di Spinoza, ma rischia di impoverire la ricchezza del suo pensiero, perché in questo modo della nozione di forza si comprende solo l’aspetto della violenza e della prevaricazione, mentre la teoria spinoziana del diritto naturale porta, al contrario, proprio a scoprire quanto questo concetto di forza sia limitato a confronto della ben maggiore complessità e ricchezza del concetto di potenza come vita e capacità di agire e di pensare. E’ quindi fuorviante tradurre, come fa Droetto, “il diritto naturale individuale è determinato non dalla sana ragione, ma dalla cupidigia (cupiditas) e dalla forza (potentia)”, per l’accezione negativa che questi termini hanno in italiano e sicuramente non hanno nel linguaggio di Spinoza.

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attività, sforzo di perseverare nell’esistenza, che significa sforzo di esplicare tutto ciò che discende da tale essenza. Quando Spinoza parla dell’impossibilità di trasferire questo diritto, allora, egli parla di un'impossibilità fisica, non morale.

Inoltre, questa impossibilità di rinunciare al proprio diritto non ha nulla che vedere con la razionalità, perché il diritto naturale non è il diritto dettato dalla ragione. Le leggi della natura di un individuo, infatti, non sono necessariamente le leggi della ragione; al contrario, a determinare le sue azioni e i suoi pensieri possono ben essere, e sono per lo più le passioni a cui è sottoposto; quanto al diritto naturale, Spinoza non riconosce alcuna differenza fra chi è guidato dalla ragione e un deficiente o un pazzo:

unumquodque individuum jus summum ad hoc [habet], hoc est (uti dixi) ad

existendum, et operandum prout naturaliter determinatum est. Nec hic ullam

agnoscimus differentiam inter homines et reliqua naturae individua, neque inter

homines ratione praeditos et inter alios, qui veram rationem ignorant, neque inter

fatuos, delirantes et sanos140

In quanto deriva dall’irriducibile diritto naturale di ciascuno, dunque, la libertà di opinione non dipende dalla razionalità del soggetto che la esercita, e non è perciò ristretta ai filosofi o a quanti esprimono opinioni razionali o vere, ma riguarda assolutamente tutti coloro che vivono in uno stato.

Abbiamo già visto che proprio da questo punto sorge il problema politico per Spinoza: se il diritto naturale non è il diritto razionale, ma in definitiva la vita stessa dell’individuo, la sua concreta capacità di agire, la sua volontà141, questo diritto non può più offrire alcuna garanzia allo stato. I diritti naturali degli individui sono tanto contrastanti quanto lo sono le loro volontà, e proprio a questo interrogativo deve rispondere la politica: come fare sì che nonostante questo fatto lo stato mantenga la capacità di azione comune e coerente che gli è necessaria? Il contratto sociale da soluzione che era diventa problema; e la stessa nozione di trasferimento di diritto, che sta alla base della teoria del contratto, deve essere riformulata alla radice. Se è concepibile, infatti, che qualcuno trasferisca un diritto, meno facile è comprendere come qualcuno possa trasferire l'esplicazione della propria stessa natura. Il trasferimento di diritto, allora, avrà senso soltanto se riformulato come concreto trasferimento di potere142. Si trasferisce il proprio diritto a qualcuno non investendolo di un mandato, e nemmeno dichiarando che gli si obbedirà in futuro, ma esclusivamente quando, e finché, gli si obbedisce effettivamente. Il potere di un sovrano, dunque, dura esclusivamente finché dura il consenso dei suoi sudditi, cioè fino a quando essi sono disposti ad obbedirgli, e non gode, de jure, di alcuna garanzia; al contrario, quando questo potere viene meno, è lo stesso diritto del sovrano che viene meno:

summis potestatibus hoc jus, quidquid velint, imperandi, tamdiu tantum competit,

quamdiu revera summam habent potestatem143

Per contro, il diritto di resistenza dei sudditi è sempre ed in ogni caso giustificato per diritto naturale, cioè per il semplice fatto che, se, a torto o a ragione, essi decidono di non voler più obbedire, il loro diritto naturale è allora di non obbedire più.

Non soltanto, dunque, il diritto naturale non rappresenta più una garanzia per lo stato, ma questa forza si trasforma al contrario in un limite di fatto insormontabile e in una costante minaccia per qualsiasi potere.

Quando Spinoza afferma che la democrazia è lo stato più prossimo al naturale egli si sta allora richiamando a questo tema: il diritto naturale è la forza insopprimibile con cui ciascuno, che sia o

140 Tractatus Theologico-politicus, XVI, SO III, 189, trad. cit. p. 378.141 Anzi, il diritto naturale si identifica totalmente con la volontà (cupiditas) di ciascuno.142 Cfr. Alexandre Matheron, Spinoza et le pouvoir, in Anthropologie et politique au XVII siècle, Paris, Vrin, 1986.143 Tractatus Theologico-politicus, XVI, SO III 194, trad. cit. 383.

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no guidato dalla ragione, si sforza (conatur) comunque di esistere, di pensare e di agire. Solo nel regime democratico questa forza può venire assunta positivamente, mentre per qualunque altro regime essa rappresenta comunque una minaccia, e rende i sudditi ben più pericolosi per lo stato degli stessi nemici esterni144. La democrazia invece non contrasta con il diritto naturale, ma è costituita dall’unione stessa delle forze e dei diritti naturali dei singoli: essa è la potenza comune che risulta dall’unione di tutte le potenze individuali, e il diritto comune che risulta dall’unione di tutti i diritti individuali

Hac itaque ratione sine ulla naturalis juris repugnantia, societas formari potest,

pactumque omne summa cum fide semper servari; si nimirum unusquisque

omnem, quam habet, potentiam in societatem transferat, quae adeo summum

naturae jus in omnia, hoc est, summum imperium sola retinebit, cui unusquisque

vel ex libero animo, vel metu summi supplicii parere tenebitur. Talis vero

societatis jus Democratia vocatur, quae proinde definitur coetus universus

hominum, qui collegialiter summum jus ad omnia, quae potest, habet145.

La democrazia è dunque, letteralmente, la potenza di tutta la società, ed è per questo che, oltre che forma di governo fra le altre, essa è anche origine e punto di riferimento per la valutazione degli altri regimi. Come ben spiega Alexandre Matheron, la democrazia ha nell’opera di Spinoza una precisa funzione teorica146: essa è indispensabile per fondare teoricamente tutte le altre forme di sovranità, ontologicamente anteriore alle altre forme, causa immanente di esse. La democrazia è la forma di governo originaria, perché chiunque sia ad esercitare il potere ciò che vi è di originario e fondamentale in qualsiasi stato è il trasferimento alla società delle potenze e dei diritti di ciascuno147. Il governo democratico è allora pietra di paragone per gli altri regimi: quanto più ci si allontana da questo “stato più vicino al naturale” in cui il diritto e la libertà naturali di ciascuno sono conservati quasi interamente, tanto più ci si avvicina al dispotismo e all’ “imperium violentum”148; e tanto più, nello stesso tempo, l’irriducibile diritto naturale dei sudditi si fa una minaccia sempre più temibile chi esercita il potere. Quanto più ci si allontana dal regime in cui viene conservato pienamente il diritto naturale di ciascuno, tanto più l’organizzazione del potere entra in contraddizione diretta e insopprimibile con quanto di questo diritto e di questa forza non può essere trasferito né soppresso149.

Come ben si vede, allora, l’argomento del diritto naturale ribalta completamente quello in cui Spinoza tentava di sostenere che le opinioni, in quanto tali, sono innocue. Dove il primo si scontrava con l’impossibilità di separare le opinioni puramente filosofiche e prive di conseguenze dalle altre, il secondo sostiene la perfetta uguaglianza di tutti rispetto al diritto naturale: non soltanto l’uguaglianza fra gli uomini “ratione praeditos” e gli altri, ma addirittura fra i sani di mente e i pazzi. Dove il primo era costretto a riconoscere che tutte le opinioni possono rappresentare una minaccia, il secondo afferma che la stessa libertà naturale che i sudditi comunque conservano costituisce una minaccia, ma che questa minaccia non è eludibile, che non è in alcun modo possibile rinchiudere questa libertà in uno spazio privato che la renda innocua, e che l’unica soluzione

144 Tractatus Theologico-politicus, XVII, SO III, 201 e ss, trad. cit. pp. 412 e ss.145 Tractatus Theologico-politicus, XVI, SO III 193, trad. cit. p. 382.146 Alexandre Matheron, La fonction théorique de la démocratie chez Spinoza et Hobbes, "Studia Spinozana", 1,

1985 ( in realtà 1988) pp. 259-73. Cfr. anche F. Tinland, Hobbes, Spinoza, Rousseau et la formation de l'idée de démocratie comme mesure de la légitimité du pouvoir politique, "Revue philosophique de la France et de l'étranger", 2, 1985.

147 Tractatus Theologico-politicus, XVI, SO III 195, trad. cit. 385. 148 Tractatus Theologico-politicus,, XX, SO III 245, trad. cit. p. 488.149 Grazie a questo limite intrinseco, che costringe l’autorità a perseguire razionalmente il bene comune o a

scontrarsi con il diritto di resistenza di fatto dei sudditi, l’assolutismo spinoziano ha secondo Emilia Giancotti “il volto della ragione” (La teoria dell'assolutismo in Hobbes e Spinoza, "Studia Spinozana", 1, 1985.)

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possibile per la sicurezza stessa dello stato è fare di questa libertà la forza stessa dello stato. Dove il primo si richiamava inutilmente al fatto che il fine dello stato è la libertà, il secondo fa dello stato “più prossimo al naturale”, la democrazia, la pietra di paragone non per la valutazione morale dello stato, ma per la valutazione della sua sicurezza e delle condizioni a cui questa è ottenuta.

2. 6 IL LIMITE DEL TRACTATUS THEOLOGICO-POLITICUS

Per quanto intimamente contrastanti, tuttavia, le due argomentazioni che abbiamo esaminato sono entrambe presenti a pieno titolo nel Tractatus Theologico-politicus. La tensione che esse rivelano è la tensione interna dell’opera, che non riesce a sottrarsi all’ambiguità del concetto di democrazia che vi è contenuto.

In definitiva, se il primo progetto dell’opera era di sostenere la distinzione fra fede e filosofia, dimostrando che mentre la prima, in quanto “disciplina dell’obbedienza”150 ha carattere immediatamente politico, la seconda ha di mira soltanto la verità, di tale progetto rimane alla fine solo l’idea che tutte le opinioni hanno carattere politico, perché tutte hanno delle conseguenze, e spetta all’autorità politica decidere quali fra queste conseguenze attese o prevedibili possano rappresentare un pericolo. Non è un risultato trascurabile, perché stabilisce comunque il principio di valutare le opinioni (religiose o di qualsiasi altro genere) solo a partire dalle loro conseguenze. Ma per quanto riguarda la difesa della libertà è un risultato deludente, perché lascia interamente nelle mani della summa potestas il compito di giudicare quanta di questa libertà comunque pericolosa debba essere lasciata ai sudditi151; né il ripetuto richiamo a Seneca - “violenta enim imperia nemo continuit diu”152 - appare da questo punto di vista una garanzia sufficiente.

E’ vero che, una volta valutato a partire dall’irriducibilità del diritto naturale, questo richiamo assume un significato nuovo: se la libertà che i sudditi conservano sempre è comunque una minaccia, questa minaccia si fa tanto più pericolosa quanto più l’imperium si allontana dalla democrazia e si fa violento. Se infatti questa libertà non si desse, si potrebbe impunemente governare i propri sudditi in modo violentissimo, ma tutti sanno che non è così:

et sane si homines jure suo naturali ita privari possent, ut nihil in posterum

possent, nisi volentibus iis, qui supremum Jus retinuerunt, tum profecto impune

violentissime in subditos regnare liceret: quod nemini in mentem venire posse

credo. Quare concedendum unumquemque multa sibi sui juris reservare, quae

propterea a nullius decreto, sed a suo solo pendent153

Come abbiamo visto, il richiamo alla democrazia come stato più prossimo al naturale e alla libertà come fine dello stato non è più, allora, un appello morale al sovrano perché realizzi nella misura del possibile questi valori, ma è un richiamo alle condizioni stesse della sua sicurezza, alle necessità di cui deve egli deve tenere conto se vuole conservare il proprio potere.

Tuttavia, questo richiamo appare in realtà l’unica funzione del concetto di democrazia nel Tractatus Theologico-politicus. La democrazia è qui origine, fondamento, pietra di paragone per le altre forme di governo, ma null’altro che questo. Di fatto, la libertà che i sudditi conservano finisce per manifestarsi soltanto come limite con cui il potere costituito deve confrontarsi, come forza che si oppone a questo potere e con la quale esso, non potendo debellarla, è costretto a venire in qualche misura a patti. Per quanto grande sia il valore attribuito alla forma di governo “più conforme alla libertà che la natura consente a ciascuno”, al governo collegiale in cui non si dà obbedienza perché

150 Entrambi i Testamenti non sono altro che la disciplina dell’obbedienza: Tractatus Theologio-politicus, XIV, SO III, 174 , trad. cit. 345.

151 Cfr. Tractatus Theologio-politicus, XVI, SO III 195, trad. cit. p. 385.152 Tractatus Theologio-politicus,, V, SO III 74; XVI, SO III 194, trad. cit. pp. 129 e 383.153 Tractatus Theologico-politicus, XVII, SO III 201, trad. cit. 312-3.

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tutti restano uguali, la prospettiva del Tractatus Theologico-politicus rimane tuttavia quella della summa potestas, e dunque dell’obbedienza.

Questa ambivalenza del trattato emerge sin dalla definizione della democrazia. Abbiamo visto sopra che la democrazia è definita come “il diritto della società”, ossia “l’unione di tutti gli uomini, che ha collegialmente diritto a tutto ciò che è in suo potere”154.. Da questa definizione, afferma Spinoza, segue che la summa potestas è sciolta dalle leggi ed ha un assoluto potere sui sudditi, i quali le devono obbedire in tutto e per tutto:

Ex quo sequitur summam potestatem nullam lege teneri, sed omnes ad omnia ei

parere debere: hoc enim tacite vel expresse pacisci debuerunt omnes, cum

omnem sua potentiam se defendendi, hoc est, omne suum jus in eam

transtulerunt155.

I sudditi hanno infatti ceduto ogni proprio diritto insieme al potere di difenderlo, né avrebbero potuto conservarne alcuno “absque imperii divisione, et consequenter destructione”.

Come si vede, qui Spinoza adotta totalmente la prospettiva classica della sovranità: il contratto sociale crea ipso facto un unico potere sovrano, che per essere tale deve essere indivisibile e assoluto. Ma questa prospettiva viene abbandonata immediatamente dopo, quando Spinoza dice che la summa potestas dispone di tale assoluto diritto a imporre quello che vuole solo fin tanto che detiene effettivamente il potere supremo, e riconosce dunque una limitazione di fatto della sovranità. In realtà, però, questa contraddizione fra potere assoluto eppure limitato è già contenuta nel passaggio ingiustificato dal diritto assoluto della società al diritto assoluto della summa potestas.

In effetti, in tutto il Tractatus Theologico-politicus Spinoza si disinteressa dichiaratamente delle forme di governo: alla formazione della repubblica è sufficiente che il potere di decidere sia interamente affidata a tutti, a qualcuno, oppure a uno solo156, ed è irrilevante stabilire quale sia l’origine delle forme di governo, perché chiunque abbia il potere supremo, che siano uno, pochi, oppure tutti, ad ogni modo questi ha il sommo diritto a comandare tutto ciò che vuole157.

Ma la questione delle forme di governo non è una pura questione accademica: parlare di forme di governo significa parlare di organizzazione del potere, significa precisamente domandarsi quali differenze conseguano dal fatto che ad esercitare il sommo diritto-potere della società siano collegialmente tutti i membri della società stessa, oppure una parte di essi, oppure uno solo. Nel Tractatus Theologico-politicus Spinoza non ha interesse a sviluppare questa problematica, perché lo scopo dell’opera è di persuadere delle autorità effettivamente esistenti a difendere e conservare la libertà che contraddistingueva la repubblica olandese.

Questo limite, però, fa tutta la debolezza dell’opera. Se è irrilevante chi sia effettivamente la summa potestas, ossia chi eserciti effettivamente il diritto della società “a tutto ciò che è in suo potere”, è possibile discorrere in generale di un assoluto diritto del sovrano, e di una assoluta sottomissione dei sudditi, e introdurre il passaggio dalla democrazia alla summa potestas legibus soluta che abbiamo visto qui sopra. Ma il concetto di democrazia e il concetto di sovranità che ne emergono sono indebitamente confusi e inutilizzabili. Da un lato, la sovranità che dovrebbe essere unica e assoluta si rivela immediatamente divisa nell’opposizione potenziale fra diritto-potere del sovrano e diritto-potere dei sudditi, e oberata di limiti di fatto tanto più pressanti quanto più si allontana dalla forma di governo democratica. La sua assolutezza è solo teorica, si dirà nel capitolo successivo, perché i sudditi conservano sempre del proprio diritto naturale quanto basta per minacciarla. Il concetto di sovranità viene dunque introdotto solo per poi essere immediatamente

154 Tractatus Theologico-politicus, XVI, SO III 193, trad. cit. p. 382. Cfr. supra, nota 89.155 Ibidem.156 Tractatus Theologico-politicus, XX, SO III 241, trad. cit. p. 482.157 Tractatus Theologico-politicus, XVI, SO III 195, trad. cit. 385.

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svuotato dall’interno, e tuttavia Spinoza si comporta in queste pagine come se avesse di fronte un concetto di sovranità piena e assoluta, disinteressandosi apertamente delle ricadute che i limiti di fatto da lui sottolineati hanno su questo concetto e sulla sua realtà.

Dall’altro lato, la definizione di democrazia che emerge dal Tractatus Theologico-politicus è semplicemente inconsistente, come giustamente notava Samuel Feuer158. Diviso, secondo Feuer, fra i suoi sentimenti di riformatore radicale e la diffidenza verso la “moltitudine”, Spinoza arretra come De Witt, davanti al suffragio universale, e fornisce una definizione di democrazia tale da potersi adattare all realtà di Amsterdam, che era di fatto un’oligarchia mercantile. Ma così facendo Spinoza finisce per porre l’accento più sull’aspetto morale della democrazia come comunità razionale che sul criterio della maggioranza che dovrebbe contraddistinguerla, e in questa maniera finisce per dare al termine democrazia un significato talmente generico che in questo senso

qualsiasi monarchia assoluta, qualsiasi governo che pretenda in qualche modo di

fondarsi su poteri e diritti che gli sono stati ceduti dai cittadini dovrebbe essere

classificato una “democrazia”. Una democrazia sarebbe allora un governo nel

quale i cittadini non hanno riservato per se stessi alcun diritto, o, in altri termini,

un governo che gode del potere assoluto di una dittatura159

La stessa difesa della libertà di pensiero ne viene inficiata: per quanto Spinoza sia desideroso di estendere questa libertà, la sua tendenza “realistica” a riconoscere il potere dello stato lo conduce a consentire a degli ostacoli a questa libertà che mal si accordano con la radicalità della sua difesa. L’unico argomento di Spinoza finisce per essere che il buon governo difende questa libertà, poiché essa è il fine dello stato, ma se il governo non è dei migliori, mancando il diritto alla rivoluzione, l’individuo non ha nulla a cui fare ricorso, e la critica all’ordine stabilito è allora costretta entro limiti molto precisi160.

In realtà, come abbiamo visto, il diritto-potere di questo sovrano assoluto è molto più limitato di quanto non appaia a prima vista, e i suoi limiti non sono meno cogenti per essere limiti di fatto anziché di diritto. Lo stesso richiamo all’idea di democrazia e al fine dello stato assume, alla luce di quanto si è detto sopra, un significato ben più forte che quello di una pia esortazione. Ma il problema rimane: il diritto-potere dei sudditi riesce a manifestarsi solamente come opposizione al potere costituito, come diritto di fatto alla resistenza, e del governo collegiale in cui veramente si darebbe un potere comune di tutta la società il Tractatus Theologico-politicus non parla. Per quanto Spinoza faccia valere l’opzione della democrazia originaria contro quella del legislatore, la soluzione che viene concretamente analizzata nel trattato è poi solamente quest’ultima. La prospettiva che vi viene sviluppata è quasi esclusivamente quella dell’obbedienza, e la dialettica che vi si instaura quasi esclusivamente quella fra obbedienza e disobbedienza.

La figura di gran lunga preminente del trattato è il legislatore Mosè, e per estrarre il significato delle postille e dei distinguo di cui Spinoza circonda questa figura è stato necessario fare un lungo lavoro di analisi e di collegamento. Certo, è alla democrazia e all’uguaglianza che Spinoza dà valore, come condizioni che sole permettono alla libertà e alle capacità di agire e di pensare dei singoli di accordarsi e potenziarsi fra loro, o, per tornare al concetto da cui eravamo partiti, di convenire fra loro. Ma democrazia ed uguaglianza assumono nel trattato esclusivamente il valore di pietre di paragone per valutare le realtà politiche effettivamente esistenti, e in definitiva di utopie, mentre l’unica forma di organizzazione del potere realmente analizzata è quella basata sulla disciplina dell’obbedienza mosaica. Non stupisce, allora, che l’opzione democratica del Tractatus Theologico-politicus venga trascurata, oppure venga letta nei termini autoritari di una democrazia plebiscitaria che di democratico ha solo la pretesa di un capo - un legislatore - di appoggiarsi sulla

158 Samuel Lewis Feuer, Spinoza and the rise of liberalism, Boston, Beacon Press, 1958, pp. IX, 309, p. 104.159 Ibidem, p. 105. Mia traduzione.160 Ibidem, p. 114.

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volontà del popolo, né stupisce che il significato dell’identificazione spinoziana fra diritto e potenza venga totalmente frainteso, facendo una dimostrazione di assolutismo di quello che è il più forte argomento di Spinoza in difesa della libertà161.

161 Cfr., per esempio, G. Gonella, Il diritto come potenza secondo Spinoza, in AAVV, Spinoza nel III centenario della sua nascita, 1934, pp. 149-180.; Carla G. Calvetti, Spinoza, i presupposti teorici dell’irenismo etico, Milano, Vita e Pensiero, 1968, pp. 198 ss.;

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3. UN NUOVO CONCETTO DI RAGIONE POLITICA

3. 1 DAL TRACTATUS THEOLOGICO-POLITICUS AL TRACTATUS POLITICUS

Nel Tractatus Theologico-politicus, come abbiamo visto, Spinoza definisce la democrazia come la potenza comune di tutti gli uomini che fanno parte di una società, ma lascia completamente da parte la questione della concreta organizzazione di questa potenza. La democrazia e la potenza comune assumono qui il senso di un fondamento sempre immanente del potere politico, ma questo fondamento si manifesta soltanto come limite oppure come punto di riferimento per la valutazione dei regimi politici concretamente esistenti. Il diritto naturale, la forza e la libertà conservate dai sudditi si manifestano soltanto come pericolo che tiene in scacco il potere politico, come belva indomabile e sfuggente da non provocare e da blandire con tutti i mezzi possibili; viceversa, il potere politico appare nello stesso tempo come avversario irriducibile di questo diritto naturale dei singoli e come questo stesso diritto naturale fattosi diritto e potenza comune.

In realtà, Tractatus Theologico-politicus non dà risposta alla questione politica fondamentale: come far sì che nonostante le passioni che le trascinano in direzioni differenti i singoli possano accordare le loro disperse volontà e unirsi fra loro162? Abbiamo visto che già in quest’opera Spinoza non considera la soluzione del contratto sociale sufficiente: essa è valida soltanto in teoria, ma nella pratica i sudditi conservano sempre abbastanza del proprio diritto naturale da rappresentare una minaccia. Soprattutto, essa sarebbe valida se tutti gli uomini vivessero sotto la guida della ragione, e fosse sufficiente convincerli dell’utilità di sottomettersi al Leviatano per spingerli a farlo concretamente. Ma se così fosse, vivremmo già nell’età dell’oro, e il problema politico non si porrebbe. Tutti, invece, vivono per natura e per diritto naturale sotto il dominio delle passioni, e perciò “hoc opus, hoc labor est163“: ordinare lo stato in modo che tutti i suoi membri antepongano il bene comune al privato.

Ma per quanta diffidenza e fastidio Spinoza manifesti per la figura del legislatore, è un fatto che l’unica soluzione a questo problema rintracciabile nel Tractatus Theologico-politicus è quella che “in hunc finem olim divina revelatio Mosen docuit”164, ossia la disciplina dell’obbedienza mosaica. Ne deriva che l’unica prospettiva che vi viene concretamente esaminata è quella dell’obbedienza e, correlativamente, della disobbedienza e della resistenza. In questa prospettiva appare allora giustificata l’interpretazione straussiana: la sola forma di razionalità politica è la furbizia del governante capace di lavorarsi “l’indole mutevole della moltitudine” per indurre i sudditi all’obbedienza. Parallelamente, le sole forme di libertà contemplate dal Tractatus Theologico-politicus finiscono per essere o l’irriducibile libertà di pensiero che si manifesta inevitabilmente contro lo stato e contro l’obbedienza, oppure l’identificazione generica e totalizzante fra il diritto e la potenza del singolo, della società e del sovrano.

In definitiva, la prospettiva aperta da Spinoza con l’introduzione del suo particolarissimo concetto di diritto naturale rimane monca nel Tractatus Theologico-politicus . Di questo diritto che è la potenza di agire e la vita stessa del singolo emerge soltanto l’aspetto irriducibile e limitante, mentre la possibilità che i diritti e le potenze degli individui si uniscano a formare una potenza comune - e questo nonostante il fatto che ciascuno di loro si deve presumere guidato solo dalle sue passioni particolari, e non dalla ragione - è soltanto intravista, in quest’opera, nella definizione della democrazia.

Questa possibilità forma invece l’oggetto del Tractatus Politicus165.

162 Cfr. supra, § 1. 2.163 Cfr. supra, § 2. 3, nota 24.164 Tractatus Theologico-politicus, XVII, SO III 205, trad. cit. p. 417.165 Sull’evoluzione dal Tractatus Theologico-politicus al Tractatus Politicus, (oltre, naturalmente, al classico lavoro

di Menzel che per primo sollevò la questione, Wandlungen in der Staatslehre Spinozas, 1898), si veda il recente

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Là dove il primo trattato poneva una definizione di democrazia che confondeva insieme l’idea del trasferimento dei diritti individuali al sovrano e della loro unione nella comune potenza della società, il Tractatus Politicus introduce l’idea del convenire, dell’unione fra le potenze di esseri simili fra loro, che insieme “possono di più”, e dunque hanno un diritto (un potere) maggiore sulla natura:

si duo simul conveniant, et vires jungant, plus simul possunt, et consequenter plus

juris in naturam simul habent, quam uterque solus, et quo plures necessitudines

sic junxerint suas, eo omnes simul plus juris habebunt166.

L’idea del convenire,, come abbiamo visto, è il fondamento comune dell’etica dei rapporti interumani e della politica spinoziana. Essa era già confusamente presente nell’idea di democrazia del primo trattato, quando questa veniva presentata come la condizione “quasi naturale” in cui ciascuno conserva quanto più possibile del proprio diritto naturale, perché lo trasferisce alla società di cui è parte, e soprattutto quando questa condizione veniva presentata come l’unica in cui l’irriducibile diritto naturale al pensiero e all’espressione potesse venire assunto positivamente, invece di contrastare senza rimedio con l’autorità sovrana. Ma solo ora quest’idea viene esplicitata, e chiaramente posta a fondamento della vita sociale. Inoltre, questo viene fatto senza identificare tale unione di potenze con una determinata forma di governo, ma facendone l’essenza di ogni realtà sociale. Al cuore di qualsiasi rapporto fra gli esseri umani vi è questa unione di potenze che li rende “capaci di più cose” - capaci, come abbiamo visto, di pensare ed agire in una molteplicità di modi diversi167.

Questa capacità di agire in comune è il diritto-potere comune che nel Tractatus Theologico-politicus veniva chiamato democrazia, e che in quell’opera era fondamento e limite immanente di tutti gli altri poteri, ma sembrava non poter essere altro che questo. Ora Spinoza non parla più di un trasferimento dei diritti individuali, ma solo di una loro unione, che dà luogo alla sola forma di diritto naturale concepibile per il genere umano: il diritto comune nato dal convenire in uno di molti uomini.

Jus naturae, quod humani generis proprium est, vix po[test] concipi, nisi ubi

homines jura habent communia, qui simul terras, quas habitare, et colere possunt,

sibi vindicare, seseque munire, vimque omnem repellere, et ex communi sententia

vivere possunt. Nam (per Art. 13 hujus Cap.168) quo plures in unum sic conveniunt,

eo omnes simul plus juris habent169

Inoltre, questo diritto comune nel Tractatus Politicus non è più identificato con una forma di governo determinata: ora Spinoza pensa ad esso come allo “jus, quod multitudinis potentia definitur”, ossia il diritto definito dalla potenza comune della moltitudine di coloro che hanno unito le proprie forze. Questo diritto è ciò a cui si è soliti dare il nome di imperium170, e democrazia,

dibattito fra Alexandre Matheron, Le problème de l'évolution de Spinoza du TTP au TP, in AAVV, Spinoza, Issues and Directions, ed. by E. Curley e P.F. Moreau, Leiden, New York København, Köln, 1990, pp. 258-270, Osamu Ueno, Spinoza et le paradoxe du contrat social de Hobbes. Le reste, “Cahiers Spinoza” 6, 1991, e Marin Terpstra, An analysis of power relations and class relations in Spinoza’s Tractatus Politicus, “Studia Spinozana”, 9: Spinoza and modernity: Ethics and Politics, 1993 (in realtà 1996) pp. 79-105.

166 Tractatus Politicus, II, 13, SO III, 281. 167 Cfr supra, I,1.168 E’ il già visto paragrafo sul “convenire”.169 Tractatus Politicus, II, 15, SO III, 281. 170 La nozione di imperium è uno degli oggetti della riflessione spinoziana in questo trattato, e non è quindi

possibile tradurre questo termine in modo univoco e costante. Già in questo passo imperium sta ad indicare nello stesso tempo lo Stato, il potere sovrano e le forme di governo, come diverse articolazioni possibili di questo potere: cfr. Pierre François Moreau, La notion d’imperium dans le Traité Politique, in AAVV, Spinoza nel 350°

Simo, 01/03/-1,
si può sviluppare: confusione fra trasferimento e unione di diritti; idea che solo nella democrazia ciascuno conserva il proprio diritto naturale - idea confusa, peraltro, perché questa conservazione viene espressa parlando di un trasferimento che non è un trasferimento perché è alla società… -
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aristocrazia e monarchia non sono che diverse articolazioni possibili di esso:

Hoc jus, quod multitudinis potentia definitur, Imperium appellari solet. Atque hoc is

absolute tenet, qui curam Reipublicae ex communi consensu habet […]. Quod si

haec cura ad Concilium pertineat, quod ex communi multitudine componitur, tum

Imperium Democratia appellatur, si autem ex quibusdam tantum selectis,

Aristocratia, et si denique Reipublicae cura, et consequenter imperium penes in

unum sit, tum Monarchia appellatur171.

Il diritto e la potenza comuni formati dall’unione dei diritti e delle potenze di una moltitudine di uomini costituiscono ora il punto di partenza di tutta la riflessione politica. A quali condizioni gli uomini possano unirsi, in quali modi diversi, e quali conseguenze derivino dai diversi modi possibili della loro unione: questi sono gli interrogativi che segnano il percorso del Tractatus Politicus.

3. 2 LA NOZIONE DI IMPERIUM ABSOLUTUM

Il Tractatus Politicus riprende e sviluppa la teoria del diritto naturale del Tractatus Theologico-politicus . Di questa teoria si mostrano ora esplicitamente le connessioni con la metafisica elaborata nell’Ethica, e si riprende - fino a ripeterne senza variazioni alcune espressioni - il tema fondamentale: il diritto naturale non è in alcun modo un diritto razionale; al contrario, questo diritto non è altro che lo sforzo che ciascuno compie per conservare il proprio essere, e non proibisce altro che quello che nessuno vuole né può fare:

ex quibus sequitur Jus, et institutum naturae, sub quo omnes nascuntur homines,

et maxima parte vivunt, nihil, nisi quod nemo cupit, et quod nemo potest,

prohibere172.

La constatazione che tutti i membri della società, senza eccezione, vivono sotto il dominio delle passioni, e che non si può far conto su alcun diritto naturale razionale che costituisca il ponte fra legittimità ed effettività del governo, deve diventare allora il punto di partenza di ogni riflessione politica. Il contratto sociale, dicevamo sopra, da soluzione che era diventa problema. Diventa un problema, cioè, in quale modo e a quali condizioni gli uomini possano unirsi e agire con un qualche grado di unità.

Il Tractatus Theologico-politicus, come abbiamo visto, non dava soluzioni a questo problema, se si eccettua la disciplina dell’obbedienza mosaica. La prospettiva di quell’opera era soprattutto quella della libertà come limite invalicabile del potere politico, e se anche si intravedeva una seconda prospettiva, quella della democrazia come condizione in cui la libertà non è più limite, ma fattore positivo della potenza comune, questa seconda prospettiva non veniva tuttavia sviluppata.

Nel Tractatus Politicus, al contrario, al centro della riflessione non si trova più l’idea del limite del potere, ma quella della sua costituzione. Non si tratta più di dimostrare come la libertà conservata dagli individui rappresenti un irriducibile diritto di resistenza che costringe il sovrano a rispettarla e a perseguire l’utilità comune, ma di chiedersi come questa forza entri positivamente nella costruzione della potenza comune che costituisce lo stato.

Il problema fondamentale diventa quindi quello dell’assolutezza del potere, e il concetto

anniversario della nascita, Napoli, Bibliopolis, 1985, pp. 355-65, ed Emilia Giancotti, Lexicon Spinozanum, La Haje, Nijhoff, 1970 2 voll., vol. 2, pp. 522-544. Questi diversi significati mi sembrano tuttavia potersi raccogliere nel nostro concetto di stato. In questo passo, inoltre, Spinoza sta per la prima volta affermando con chiarezza: tutto ciò a cui siamo soliti dare il nome di stato non è in realtà che il diritto e il potere comune formato dall’unione dei suoi cittadini.

171 Tractatus Politicus, II, 17, SO III 282.172 Tractatus Theologico-politicus, XVI, SO III 190-1, trad. cit. 379;Tractatus politicus, II, 8, SO III, 279.

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fondamentale della riflessione politica quello di imperium absolutum. Come tutte le volte che Spinoza reinterpreta un concetto tradizionale a partire dalle categorie del proprio pensiero, il modo in cui egli usa questo concetto si presta ad essere frainteso, e lo è stato in effetti in moltissime occasioni. Per intendere correttamente il concetto spinoziano di imperium absolutum, infatti, occorre avere ben presente che cosa egli intenda per imperium, e che cosa per diritto naturale.

In primo luogo l’imperium, come abbiamo appena visto, non è altro che l’unione dei diritti e delle potenze degli individui che lo compongono, e che Spinoza sia ben consapevole della novità di questa definizione appare chiaro dal modo in cui egli la introduce: è a questo diritto definito dalla potenza della moltitudine che solitamente diamo il nome di imperium; il termine che finora abbiamo usato inconsapevolmente, intendendo con esso talvolta il comando, talvolta il potere dello stato, talvolta lo stato stesso, non sta ad indicare altro che la realtà che sta a fondamento di tutte questi aspetti dell’imperium: la potenza e il diritto della moltitudine che lo costituisce.

Il diritto naturale, in secondo luogo, è come ormai sappiamo la stessa capacità dell’individuo di agire secondo le regole della propria natura, ed è privo di ogni connotazione razionale. Esso costituisce sì il fondamento dell’imperium, ma non in quanto stabilisce la necessità razionale della sua istituzione, bensì in quanto quest’ultimo sorge dalla concreta unione delle potenze individuali. Nello stesso tempo, esso rappresenta sì un limite al potere sovrano, ma non un limite di diritto, dato dal dovere di conformarsi ad un ordine di leggi naturali che trascendono l’uomo, bensì un limite di fatto, che vale quando sorge una contrapposizione fra la libertà degli individui e il potere dello stato.

Nella prospettiva di Spinoza, allora, non avrebbe più senso parlare di un imperium absolutum intendendo con questo un potere sciolto dalle leggi trascendenti della natura. La legge naturale173 non è l’espressione di un ordine naturale voluto da un Dio legislatore, ma semplicemente l’insieme delle regole secondo le quali tutto accade174. D’altra parte, e per questo stesso motivo, l’imperium non ha al suo interno altro limite che in quello che oggettivamente non può fare, perché il diritto naturale non proibisce se non quello che nessuno vuole né può. L’imperium fonda l’ordine giuridico, non ne è fondato, perché tale ordine non ha un’esistenza autonoma ed esterna alle esistenze dei soggetti che regola. Gli Jura, dice Spinoza, sono come l’anima dello stato175, le leggi e i costumi creano i popoli, e solo i buoni ordini consentono di governare lo stato senza bisogno di contare sulla lealtà di qualcuno. Ma con tutto ciò, essi non esistono al di fuori dello stato che regolano, e non si fondano su altro diritto che sul diritto e la potenza della moltitudine che costituiscono l’imperium.

Il concetto di imperium absolutum, allora, non rimanda alla questione se il potere sia o meno sciolto dalle leggi naturali oppure umane, ma alla questione della presenza o dell’assenza di limiti intrinseci connessi ad una particolare articolazione della potenza comune.

L’esame delle diverse forme di governo, che occupa più della metà di quanto Spinoza giunse a scrivere del Tractatus Politicus, è innanzitutto uno strumento di analisi attraverso il quale egli esamina dei modelli diversi di tale articolazione dell’imperium, e nel compiere questa analisi la prima domanda che egli si pone ogni volta è: in che misura questa particolare distribuzione del potere si avvicina all’imperium absolutum? Ossia: quali sono i suoi limiti intrinseci, gli eventuali fattori che impediscono alla potenza comune di dispiegarsi interamente?

Il primo risultato di questa impostazione è che fra tutte le forme di governo proprio la monarchia è quella che meno di tutte può avvicinarsi all’imperium absolutum : se infatti il diritto è

173 Jus naturae, ma in questo caso si tratta di diritto in senso oggettivo.174 Tractatus Politicus, II, 4, SO III 277. Su questo tema, cfr. Manfred Walther, Philosophy and politics in Spinoza,

“Studia Spinozana”, 9: Spinoza and moderity: Ethics and Politics, 1993, (in realtà 1996), pp. 49-58: M. Walther mostra come l’opposizione fra l’idea di un ordine della natura come intreccio di cause, e l’idea di un ordine gerarchico della natura trascendente della natura sia parallela e intrinsecamente connessa all’opposizione fra l’idea che il conatus e il rapporto fra le forze siano i fondamenti del potere politico, e l’idea di una trascendenza del potere politico stesso.

175 Tractatus Politicus, X, 9, SO III 357 “Verum, si quod imperium aeternum esse potest, illud necessario erit, cuius semel recte instituta jura inviolata manent. Anima enim imperii jura sint”.

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determinato dalla sola potenza, la potenza di un solo uomo è troppo sproporzionata a quella di tutta la moltitudine per poterla sostenere:

Et sane, qui credunt posse fieri, ut unus solus summum Civitatis Jus obtineat,

longe errant. Jus enim sola potentia determinatur, ut Capite II ostendimus: at unius

hominis potentia longe impar est tantae moli sustinendae176.

Nei fatti, un re ha sempre bisogno di appoggiarsi ad altri per sostenere il proprio potere, e dunque questa forma di imperium è in realtà aristocratica.

Ma soprattutto, in questa forma di governo vi è la più forte contrapposizione fra la libertà conservata dai cittadini e la forza di chi detiene il potere, e si ripresenta allora il problema che abbiamo già incontrato nel Tractatus Theologico-politicus:

Est praeterea hoc certum, quod Civitas semper magis propter cives, quam propter

hostes periclitetur: rari quippe boni. Ex quo sequitur, quod is, in quem totum

imperii Jus delatum est, magis cives, quam hostes semper timebit, et

consequenter sibi cavere, et subditis non consulere, sed insidiari conabitur, iis

praecipue, qui sapientia clari, vel divitiis potentiores sunt177.

Per conservare il proprio potere, il monarca non ha dunque interesse a perseguire l’utile dei cittadini: costoro rappresentano per lui il pericolo maggiore, e il suo interesse è dunque ridurli per quanto possibile all’impotenza e tendere loro delle insidie. Perciò, quanto più si cerca di trasferire in uno solo il Civitatis Jus, tanto più misera sarà la condizione dei sudditi178.

Come si vede anche da questo rapidissimo esame, la riflessione di Spinoza sul governo monarchico ruota tutta attorno a questo punto: il regime monarchico è quello che più si allontana dall’assoluto, ossia è il regime in cui più forti e più temibili sono i contrasti interni alla potenza della moltitudine. Esso è nei fatti il potere più limitato di tutti, ma questo limite non genera la forza e la libertà dei cittadini; al contrario, genera uno scacco ed una paura reciproche che portano la moltitudine al livello più basso della sua potenza. Tutto il problema della costituzione monarchica sarà allora come organizzare la moltitudine in modo che le decisioni del re vengano a dipendere quanto più possibile da essa, affinché, invece di contrapporvisi, la potenza del monarca sia quanto più possibile determinata da quella della moltitudine:

Concludimus itaque multitudinem satis amplam libertatem sub Rege servare

posse, modo efficiat, ut Regis potentia sola ipsius multitudinis potentia

determinetur, et ipsius multitudinis praesidio servetur179.

Anche l’esame del regime aristocratico si regge sul criterio della sua approssimazione all’imperium absolutum, e l’interesse maggiore di questo esame è dato dal fatto che poiché l’autore non riuscì a compiere che poche pagine del capitolo dedicato alla democrazia, è solo a proposito di questa forma di governo che egli poté parlare del governo collegiale, al quale tuttavia attribuiva il massimo valore. Ed è proprio in quanto governo collegiale, che l’imperium aristocratico si oppone punto per punto ai limiti che Spinoza denunciava per l’imperium monarchico: esso è in grado di avocare a sé ogni decisione politica, senza bisogno di delegare nulla ad alcuno, non dipende dalla salute o dalla malattia di un singolo, e non ritorna mai alla moltitudine, come invece accade alla

176 Tractatus Politicus, VI, 5, SO III 298.177 Tractatus Politicus, VI, 6, SO III 299.178 Tractatus Politicus, VI, 8, SO III 299.179 Tractatus Politicus, VII, 31, SO III 323. Nella trattazione dei rapporti che devono intercorrere fra il monarca e la

moltitudine Spinoza sembra riprendere la “valentior pars” di Marsilio da Padova: “Possumus praeterea haec inde deducere, quod Regis gladius, sive jus sit revera ipsius multitudinis, sive validioris ejus partis voluntas”, Tractatus Politicus, VII, 31, SO III 319.

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morte del re; infine, ogni sua volontà costituisce diritto. Per tutti questi motivi, dice Spinoza, l’imperium attribuito ad un consiglio (Concilium) sufficientemente grande è assoluto, o si avvicina il più possibile ad esserlo, perché in realtà, se esiste un imperium assoluto, questo non può essere che quello che resta nelle mani dell’intera moltitudine

Ac proinde concludimus, imperium, quod in Concilium satis magnum transfertur,

absolutum esse, vel ad absolutum maxime accedere. Nam si quod imperium

absolutum datur, illud revera est, quod integra multitudo tenet180.

Come ben si vede, nella classificazione delle forme di governo del Tractatus Politicus il tema dello statuto privilegiato del governo democratico. Solo l’imperium che è nelle mani dell’intera moltitudine è un imperium omnino absolutum, perché in esso assolutamente tutti coloro che sono indipendenti181 e sottoposti soltanto alle leggi dello stato hanno diritto di voto nel consiglio supremo, e accesso alle cariche pubbliche182. Il regime aristocratico, invece, per quanto si avvicini all’assoluto conserva pur sempre un limite intrinseco alla sua costituzione: il fatto che una parte della moltitudine è esclusa dal potere (dall’imperium). Anche in assenza di leggi che limitino l’imperium e riconoscano de jure la libertà conservata da questa parte della moltitudine, essa mantiene e rivendica de facto tale libertà, e per questo rimane temibile per coloro che tengono il comando:

Attamen quatenus hoc imperium Aristocraticum nunquam […] ad multitudinem

redit, nec ulla in eo multitudini consultatio, sed absolute omnis ejusdem Concilii

voluntas jus est, debet omnino ut absolutum considerari. […] Causa igitur, cur in

praxi imperium absolutum non sit, nulla alia esse potest, quam quia multitudo

imperantibus formidolosa est, quae propterea aliquam sibi libertatem obtinet,

quam, si non expressa lege, tacite tamen vindicat, obtinetque183.

Nel Tractatus Politicus, dunque, Spinoza riprende ed esplicita il criterio di valutazione che avevamo già visto all’opera nel Tractatus Theologico-politicus : per quanto forma di governo fra le altre, la democrazia rimane pietra di paragone per le altre in quanto omnino absolutum imperium, unica forma di governo in cui il diritto dell’imperium non è limitato al suo interno dalla contrapposizione fra chi ha il potere e chi lo subisce. Quando assolutamente tutti i cittadini partecipano all’esercizio del potere comune, e solo allora, la libertà di ciascuno, il diritto naturale che non solo si conserva nello stato184, ma ne costituisce l’essenza come diritto e potenza comune, non rappresenta più il limite del potere, ma la sua condizione185. La potenza della moltitudine, cioè

180 Tractatus Politicus, VIII, 3, SO III 324-5.181 Sui juris. I concetti di sui juris e alterius juris derivano dal diritto romano, ma Spinoza ne allarga il significato,

sottolineando che “Judicandi facultas etiam alterius juris esse potest, quatenus Mens potest ab altero decipi”. Cfr. Paolo Cristofolini, La scienza intuitiva di Spinoza, Napoli, Morano, 1988, pp. 121-141.

182 Tractatus Politicus, XI, 1 e 3, SO III 358-9.183 Tractatus Politicus, VIII, 4, SO III 326.184 Cfr. Ep. L.185 Marin Terpstra accoglie l’idea che il concetto spinoziano di potenza fondi una teoria della democrazia, ma

sostiene l’importanza della distinzione fra potentia multitudinis ed imperium, come effettivo esercizio del potere. L’incostanza della moltitudine sarebbe tale che la potentia multitudinis rimanga soltanto potenziale, finché non viene rappresentata in un governo, che può essere solo quello del re o di un’aristocrazia. Da qui la centralità del momento giuridico e il profondo legame fra potenza e potestas: la potentia multitudinis varrebbe soltanto come indice dei limiti della potestas (What does Spinoza mean by "potentia multitudinis"? in AAVV, Freiheit und Notwendigkeit. Ethische und politische Aspekte bei Spinoza und in der Geschichte des (Anti-) Spinozismus, Würzburg, Königshausen & Neumann, 1994, pp. 71-84). Con questa lettura Terpstra compie un’indebita reductio ad Hobbesium di Spinoza, mentre appare chiaro da quanto abbiamo detto fin qui che da un lato il problema di Spinoza è proprio quello di non poter più far conto sull’unità giuridica dello stato, e dall’altro l’elemento del limite del potere è sì riconosciuto e centrale in entrambe le sue opere, ma come disvalore, limite da superare per quanto possibile per poter arrivare al più grande dispiegamento possibile della potenza comune

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la potenza di tutti i singoli individui, può allora raggiungere qui il suo più alto grado, perché attraverso la loro unione porta al massimo grado le forze di cui tutti gli individui dispongono per esprimere la propria natura.

3. 3 RAGIONE ED AFFETTI NEL TRACTATUS POLITICUS

Accanto al tema dell’articolazione del potere che contraddistigue le diverse forme di governo, Spinoza introduce nel Tractatus Politicus un secondo ordine di ragionamento: il tema, su cui ci siamo già soffermati, della razionalità dello stato. Che non vi siano fratture nell’imperium fra coloro che detengono il potere e coloro che lo subiscono è uno dei fattori che alimentano il convenire delle potenze individuali, ma un fattore ancora più importante per questo accordo è la ragione: così come è massimamente potente e autonomo l’uomo guidato dalla ragione, così pure è massimamente potente la Civitas fondata e governata secondo ragione, perché il diritto della Civitas è determinato dalla moltitudine condotta “una veluti mente”, come da una sola mente, ma la condizione necessaria perché si produca questa unità di intenti è che la Civitas sia mossa innanzitutto dalla ricerca di ciò che la retta ragione insegna essere utile a tutti

Civitatis Jus potentia multitudinis, quae una veluti mente ducitur, determinatur. At

haec animorum unio concipi nulla ratione posset, nisi Civitas id ipsum maxime

intendat, quod sana ratio omnibus hominibus utile esse docet186.

Viceversa, tutte le decisioni irrazionali, provocando l’indignazione di una parte della moltitudine, diminuiscono questa stessa potenza, dato che le potenze individuali che la costituiscono si oppongono l’una all’altra con più o meno forza, invece di accordarsi e di riunirsi tra di loro:

quia Jus Civitatis communi multitudinis potentia definitur, certum est, potentiam

Civitatis, et Jus, eatenus minui, quatenus ipsa causas praebet, ut plures in unum

conspirent187.

Un’assoluta razionalità nel condurre gli affari comuni genererà dunque un’assoluta potenza della moltitudine, mentre qualunque mancanza di razionalità diminuirà questa potenza. Nella misura in cui compie degli atti irrazionali, il sovrano perde il proprio potere, poiché questi atti generano l’indignazione dei sudditi. Per contro, la ricerca razionale del bene comune è la condizione necessaria del consenso, e dunque il fondamento delle leggi naturali, “seu regulis, sine quibus Civitas non esset Civitas”188. Quando agisce in modo irrazionale, il sovrano “pecca” contro queste leggi, e la sua punizione è l’indebolirsi, e al limite la perdita del suo potere.

Da questo punto di vista, la ragione fa valere i suoi diritti attraverso la minaccia che rappresenta l’indignazione popolare: essa appare dunque come un limite del potere. Tuttavia, come abbiamo visto, l’obiettivo di Spinoza non è tanto di fissare i limiti del potere, quanto al contrario stabilire le condizioni affinché la moltitudine si avvicini sempre di più al più alto grado possibile di unione e di potenza. Non si tratta dunque, per Spinoza, di rassegnarsi all’inevitabile irrazionalità del potere, di fronte alla quale la sola cosa da fare è fissarne i limiti e sottometterlo a qualche forma di controllo. Il diritto di resistenza, la minaccia dell’indignazione popolare, non rende il monarca più razionale, ma, al contrario, lo spinge verso la tirannia. Da parte sua, se la moltitudine non è spinta da altro che l’indignazione ad abbattere un tiranno, essa non potrà in seguito che ricadere nella stessa tirannia: per restare libera ha bisogno di darsi un’organizzazione alternativa del potere189.

Come tale organizzazione possa prodursi, tuttavia, è la domanda a cui finora non abbiamo

creata dal convenire, e dunque delle potenze individuali.186 Tractatus Politicus, III, 7, SO III, 287.187 Tractatus Politicus, III,9, SO III, 288.188 Tractatus Politicus, IV,4.189 Tractatus Politicus, VIII, 14.

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trovato risposta. Abbiamo visto che Spinoza considera possibile e giusto che una moltitudine si regga sin dall’inizio su un governo collegiale, e una debolezza da parte degli antichi Ebrei aver fatto ricorso al legislatore Mosè, e nello stesso tempo sappiamo che la potenza e l’unione della moltitudine dipendono dai “buoni ordini”, dal fatto che la Civitas sia fondata e governata secondo ragione. Ma di come questi ordini e questa ragione possano nascere in seno alla moltitudine non sappiamo ancora nulla.

Una prima risposta a questo interrogativo possiamo trovarla in quanto Spinoza ci dice dell’imperium aristocratico. La superiorità di questa forma di governo, come si ricorderà, veniva innanzitutto dal suo essere un governo collegiale, che in quanto tale, se sufficientemente grande, si avvicinava al massimo all’imperium absolutum. Ma proprio in quanto governo collegiale l’imperium aristocraticum è anche quello che meglio riesce a produrre un potere guidato dalla ragione:

concilii adeo magni voluntas non tam a libidine, quam a ratione determinari

potest; quippe homines ex malo affectu diverse trahuntur, nec una veluti mente

duci possunt nisi quatenus honesta appetunt, vel saltem quae speciem honesti

habent190.

Gli uomini sono trascinati in direzioni diverse dalle passioni di odio e di tristezza191, e non possono essere guidati “una veluti mente” che in quanto ricercano cose oneste, o che almeno ne abbiano l’apparenza. Perciò la volontà di un consiglio sufficientemente grande non può essere determinata dalle passioni, ma dalla ragione. E’ dunque l’accordo fra un gran numero di uomini che conduce alla migliore scelta di ciò che è utile e razionale per loro.

Allora, se la ragione politica non ha bisogno secondo Spinoza di un legislatore o di soggetti razionali a fondarla, è perché essa è una ragione comune, che proviene dal confronto tra opinioni individuali differenti. Queste possono ben essere dettate da interessi particolari e da punti di vista soggettivi: perseguire il proprio interesse nel modo che ciascuno giudica il migliore è per Spinoza il diritto naturale di ciascuno, che non cessa affatto di essere valido nello stato civile. Ma le opinioni e gli interessi particolari non possono trovare un punto di intesa altro che nell’interesse comune e nella ragione. Se il consenso della moltitudine alle decisioni delle “summae potestates” ha per condizione che queste siano razionali, dunque, è perché, in sé, l’accordo di un gran numero di uomini coincide con ciò che è razionale.

Tra ragione e consenso si stabilisce dunque una sorta di equivalenza: l’accordo che fa si che gli individui siano guidati una veluti mente, è allo stesso tempo la condizione e la conseguenza della razionalità. In altri termini, l’unione che genera la potenza della moltitudine produce la razionalità politica, così come questa produce l’unione. Il massimo livello di unione e di potenza coincide allora con il massimo livello di razionalità, così come, lo abbiamo già visto, il massimo livello di razionalità produce il massimo livello di potenza.

Tuttavia, non ci possiamo considerare soddisfatti di questa soluzione, perché Spinoza si limita ad affermare che l’accordo coincide con la ragione, senza spiegare perché, né a che condizioni, questa coincidenza si possa verificare. Ciò che è particolarmente poco chiaro è il ruolo degli affetti nella produzione di questa razionalità. La ragione deriva da un superamento degli affetti individuali? Ma in questo caso, da come nasce la ragione che giunge a superarli? Oppure sono gli affetti stessi a generare una ragione comune? Ma come mai gli affetti di uomini che non sono guidati dalla ragione la possono produrre per il solo fatto di accordarsi? Il punto di partenza del Tractatus Politicus è la considerazione degli affetti “quibus conflictamur”, e il programma che vi si dichiara è di ricercare le “imperii causas, et fundamenta naturalia”192 in base all’assunto che

190 Tractatus Politicus, VIII,6.191 Cfr. Tractatus Politicus, II, 14: “Quatenus homines ira, invidia, aut aliquo odii affectu conflictantur, eatenus

diverse trahuntur, et invicem contrari sunt, et propterea eo plus timendi, quo magis possunt”.192 Tractatus politicus, I, 7, SO III, 276.

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assolutamente tutti, e in particolare coloro “qui publicis negotiis distrahuntur”193 agiscono solamente sotto la guida degli affetti. Ma se gli affetti sono il dato fondamentale, e quando si affronta la problematica politica non si può supporre alcun soggetto razionale, ne deriva necessariamente che quando Spinoza sostiene che un consiglio “sufficientemente grande” è perciò stesso capace di prendere decisioni razionali egli debba pensare che questa razionalità sorga dal gioco degli affetti stessi. Spinoza stesso, tuttavia, non spiega in che modo, né quale sia il ruolo dell’accordo nel passaggio dagli affetti alla ragione.

Che l’accordo fra gli uomini possa sorgere dalla sola spinta degli affetti è chiaramente affermato nel testo del Tractatus Politicus: se gli uomini hanno un bisogno naturale di unire le proprie forze ed accordarsi, non è la ragione ad insegnare loro questa necessità. La stessa unione sociale non nasce da una scelta razionale, ma dalla spinta di un affetto comune

quia homines, uti diximus, magis affectu, quam ratione ducuntur, sequitur

multitudinis non ex rationis ductu, sed ex communi aliquo affectu naturaliter

convenire, et una veluti mente duci velle194

L’unione sociale e il convenire possono dunque sorgere dagli affetti, e in realtà soltanto da essi. Ma nulla, nel testo di questo trattato, garantisce che l’accordo così raggiunto sia razionale. Al contrario, Spinoza sembra qui contraddirsi, perché fra gli esempi degli affetti comuni che spingono all’accordo egli pone non solo la speranza, ma anche la paura, e soprattutto il comune desiderio di vendicarsi di qualche male195.

Ma se gli uomini possono accordarsi sotto la pressione della paura o dell’odio, cade la premessa per cui gli uomini “ex malo affectu diverse trahuntur”, su cui si basava l’affermazione della necessaria razionalità delle decisioni comuni, e la distinzione tra le cause del conflitto e le cause dell’accordo e della razionalità diventa incomprensibile: bisogna concludere che la ragione coincide con qualunque affetto, basta che sia un affetto comune? E se non è così, qual’è la differenza tra gli accordi prodotti da affetti d’odio e gli altri? Perché, ed in quale modo, gli accordi che nascono da affetti d’odio possono essere vinti dagli altri?

Questi problemi mettono in questione degli aspetti molto importanti della teoria politica spinoziana, a partire dal ruolo stesso della ragione. L’esigenza assoluta di una conduzione razionale dello stato, come abbiamo visto, deriva dal fatto che tutte le condotte irrazionali generano l’indignazione dei sudditi, e dunque un indebolimento del potere: il sovrano deve fare scelte razionali per ottenere il consenso. Ma queste tesi possono essere sostenute solo se si crede che il consenso sia razionale di per sé stesso, e perdono valore se non si può credere che l’ “animorum unio” abbia, come condizione necessaria, la ragione. Ancora, la tesi che lega il diritto di resistenza de facto alla condotta razionale del sovrano richiede le stesse premesse, così come la tesi della persistenza del diritto naturale individuale nello stato civile perde la sua coerenza se non si può più dimostrare che i diritti e le opinioni individuali sono capaci di accordarsi nel perseguimento del bene comune.

L’identità tra accordo e ragione è dunque un postulato della politica spinoziana, sul quale si fonda il diritto di resistenza di fronte ad una politica irrazionale, l’affermazione di valore razionale del consenso e l’affermazione conseguente secondo la quale contrastare le opinioni individuali è inutile e dannoso, poiché il consenso richiede soltanto una politica razionale, e il libero gioco delle opinioni non può che aumentare questa razionalità. Bisogna capire su cosa si fondi di questo postulato. Ma gli elementi per capirlo non si trovano nel Trattato Politico. Per cercarli dobbiamo rivolgerci all’Ethica, e ritornare al tema da cui eravamo partiti all’inizio di questo discorso: quello del convenire.

193 Tractatus politicus, I, 6, SO III, 275.194 Tractatus Politicus, VI, 1.195 Ibidem.

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3. 4 ANCORA SUL CONVENIRE

Il tema del convenire, come abbiamo visto a suo tempo, segna una svolta nel cuore della IV parte dell’Ethica: mentre fino alla sua comparsa Spinoza descriveva il nostro inserimento nell’ordo communis naturae come una condizione di bisogno e di impotenza, con l’introduzione di questo concetto egli comincia a parlare della possibiltà di una unione con le cose che sono fuori di noi che segni un accrescimento della nostra potenza. Sulla possibilità del convenire con i nostri simili, in effetti, si basa tutta l’etica della similitudine spinoziana: noi abbiamo bisogno di unirci ai nostri simili non soltanto per agire insieme, ma persino per pensare. Se la mente fosse sola, e non avesse nulla e nessuno fuori di essa, il nostro intelletto sarebbe meno perfetto. L’unione con i nostri simili, infatti, significa un accrescimento della potenza comune e della capacità che ha ciascuno di agire, modificarsi, esperire in molti modi diversi: tutte le capacità che fanno l’eccellenza dell’intelletto umano.

La gioia e l’amore sono sempre gli affetti che accompagnano il convenire, poiché l’unione delle potenze segna il passaggio verso una perfezione e una potenza maggiore. Dunque, se qualcuno che ci è simile si unisce alle nostre azioni le rafforza, se condivide i nostri affetti aumenta la forza con la quale li proviamo.

Da questo punto di vista, tuttavia, il convenire non sembra essere diverso dall’imitazione affettiva che Spinoza descrive nella terza parte dell’Etica. Ma dell’imitazione affettiva Spinoza descrive anche tutta l’ambiguità. Immaginare che i nostri simili condividano con noi un amore o un odio ci rafforza nei nostri affetti196, ed è per questa ragione che ciascuno si sforza affinché gli altri amino ciò che ama e odino ciò che odia197. Ma questo sforzo non è all’origine della concordia tra gli uomini. Al contrario, le sue conseguenze sono la violenza e l’ambizione:

atque adeo videmus unumquemque ex natura appetere, ut reliqui ex ipsius

ingenio vivant, quod dum omnes pariter appetunt, pariter sibi impedimento, et

dum omnes ab omnibus laudari, seu amari volunt, odio invicem sunt198.

L’amore per i nostri simili, in questo caso, non è che una forma del potere: lo sforzo che ciascuno compie perché gli altri non siano più sui juris ma vivano ex ipsius ingenio. Perciò l’imitazione affettiva è sempre ambivalente: se da un lato essa è alla base della compassione, dall’altro essa è nello stesso tempo la fonte dell’invidia e del desiderio di potere199.

Tuttavia, il convenire è qualcosa di più dell’imitazione affettiva. Mentre questa spiega i fondamenti passionali, ambivalenti e fluttuanti della vira sociale umana, il compito della nozione di convenire è spiegarne i fondamenti razionali e positivi. Allo stesso modo, in generale il compito della IV parte dell’Ethica è di mostrare quello che le idee inadeguate dell’immaginazione hanno di positivo, e di conseguenza ciò che hanno di positivo gli affetti passivi e fluttuanti che vi corrispondono. Il convenire è ciò che l’imitazione affettiva ha di positivo: se noi proviamo degli affetti simili a quelli degli altri uomini è perché le loro nature “prorsus conveniunt” con la nostra.

La differenza fra imitazione affettiva e convenire, in effetti, è parallela a quella che Spinoza pone all’inizio della III parte dell’Ethica fra affetti passivi e affetti attivi. Non tutti gli affetti sono passioni: sono passioni solo gli affetti dei quali, dice Spinoza, non possiamo essere “causa adeguata”, cioè che non dipendono interamente da noi e rispetto ai quali siamo passivi, mentre gli affetti rispetto ai quali siamo attivi vanno considerati delle azioni. Lungi dall’essere una passione, il convenire fra le nature umane è anzi contrastato dalle passioni:

quatenus homines passionibus sunt obnoxii, non possunt eatenus dici, quod

196 Ethica, III, 31.197 Ethica, III, 31, cor.198 Ethica, III, 31, sch.199 Ethica,III,32,sch..

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natura conveniant200.

In effetti, la condizione perché le nature di esseri simili fra loro si accordino è che la loro esplicazione non sia deviata da delle cause esterne. Ma gli affetti che sono passioni non sono espressioni pure dell’essenza individuale; al contrario, essi rappresentano per l’individuo una condizione d’impotenza. In questa condizione il convenire è impossibile, perché

quae natura convenire dicuntur, potentia convenire intelliguntur […], non autem

impotentia, seu negatione, et consequenter […], neque etiam passione”201.

Quando l’espressione delle nature individuali è deviata dagli affetti, gli uomini differiscono e addirittura si oppongono fra loro202.

Al contrario, è solo quando gli uomini vivono sotto la guida della ragione che la loro natura si esplica liberamente, ossia che i loro affetti sono delle azioni:

mentis actionis ex solis ideis adaequatis oriuntur; passiones autem a solis

inadaequatis pendent203.

Soltanto in questo caso dalla natura dell’individuo seguono delle conseguenze di cui egli è causa adeguata, o intera204, e queste conseguenze, giudicate utili dalla ragione, sono buone in generale per tutti gli uomini205. Il fondamento della vita sociale umana è sì dunque la similitudine di natura degli uomini, ma questa similitudine non vale che quando gli uomini agiscono veramente secondo le sole leggi della loro natura, ossia sotto la guida della ragione:

quatenus homines ex ductu rationis vivunt, eatenus tantum natura semper

necessario conveniunt206.

La ragione, ossia la condivisione delle conoscenze vere è dunque la condizione necessaria perché le nature fra loro simili degli uomini possano convenire . Nulla è più utile all’uomo dell’uomo che vive sotto la guida della ragione 207. L'accordo più grande di tutti coincide in effetti con la condivisione del sommo bene, che è la conoscenza e l’amore di Dio. Questa conoscenza segna il massimo grado d’espressione dell’essenza umana a tal punto che

homo nec esse, nec concipi posset, si potestatem non haberet gaudendi hoc

summo bono208.

Sembra dunque che la ragione non possa essere la conseguenza dell’accordo, ma solo la sua condizione. Gli uomini non possono accordarsi che quando vivono sotto la guida della ragione e le loro potenze si esplicano liberamente. Se tuttavia questa soluzione può essere valida dal punto di vista della morale individuale, abbiamo già visto che da un punto di vista politico è inapplicabile. In effetti da questo punto di vista la ragione è sì la condizione perché gli uomini agiscano “come se fossero condotti da una sola mente”, ma sappiamo anche che essa non può in alcun modo essere trovata in alcuno dei soggetti che costituiscono lo stato. Se una ragione politica è possibile, non può trattarsi che di una ragione comune, prodotta dall’accordo fra soggetti diversi che vivono tutti

200 Ethica, IV, 32.201 Ethica, IV, 32,dem.202 Ethica, IV, 33 et 34.203 Ethica, III, 3.204 Ethica, III, def.1.205 Ethica, IV, 35, dem.206 Ethica, IV, 35.207 Ethica, IV, 35, C1.208 Ethica, IV, 36, sch..

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ugualmente sotto il dominio degli affetti. Bisogna dunque domandarsi ancora: in che modo, e a quali condizioni, l’accordo degli affetti dei singoli può produrre una ragione comune?

Il passaggio dalla ragione al convenire si fonda sull’equivalenza tra libera esplicazione della natura individuale e ragione che Spinoza ha stabilito all’inizio della III parte dell’Ethica. Se l’uomo che vive sotto la guida della ragione agisce secondo le leggi della propria natura è perché avere delle idee adeguate equivale ad essere causa adeguata delle proprie azioni. E’ dunque a questa equivalenza, o per meglio dire al sistema di equivalenze di cui fa parte, che dobbiamo fare riferimento per comprendere se il passaggio inverso sia ugualmente possibile, ossia se il convenire sia in grado di generare una razionalità comune.

La prima di queste equivalenze è quella che identifica da un lato essere causa adeguata, essere attivo, ed avere degli affetti attivi, e dall’altro lato essere causa inadeguata, essere passivo, ed avere degli affetti che sono delle passioni. Noi siamo attivi, dice Spinoza, se siamo cause adeguate, ossia quando

ex nostra natura aliquid in nobis, aut extra nos sequitur, quod per eandem solam

potest clare, et distincte intelligi.

Al contrario, quando siamo causa inadeguata delle nostre azioni, dei nostri affetti, delle nostre percezioni, ossia quando

in nos aliquid fit, vel ex nostra natura aliquid sequitur, cujus nos non, nisi partialis,

sumus causa209

noi siamo passivi. Allo stesso modo, i nostri affetti sono delle azioni se noi ne siamo causa adeguata, passioni nel caso contrario210. Da questo primo gruppo di equivalenze deriva l’identificazione fra idee adeguate e azioni della mente, e fra idee inadeguate e passioni: le idee adeguate sono quelle delle quali la nostra mente è causa adeguata, e viceversa le idee inadeguate sono quelle delle quali essa è causa inadeguata e parziale211

Ma se gli uomini si accordano ed uniscono le loro potenze di agire, ciascuno dev’essere considerato una causa parziale degli affetti che essi producono insieme. Parimenti, la gioia che corrisponde a questa unione deriva da una causa esterna: essa dovrebbe dunque, secondo le definizioni di Spinoza, essere considerata una passione. Tuttavia, due nature simili che uniscono le loro potenze producono degli effetti che si spiegano adeguatamente con le proprietà comuni all’una e all’altra. Dunque, agendo insieme, gli uomini possono produrre delle conseguenze che non deviano né indeboliscono la natura o la potenza di ciascuno. E’ per questo che la gioia che accompagna il convenire delle nature individuali, nella misura in cui queste ultime hanno delle proprietà comuni, non è un affetto passivo, ma al contrario corrisponde ad un rafforzamento della potenza con cui ciascuno segue le leggi della propria natura.

Accanto alla gioia che è una passione, dunque, esiste un altro affetto di gioia che è un affetto attivo, un’azione: quella che ci fa riconoscere in un altro ciò che egli ha in comune con noi. La gioia prodotta dal convenire va dunque nella direzione della ragione.

La stessa ragione, in effetti, ha origine per Spinoza precisamente nella scoperta delle proprietà comuni: le prime idee adeguate, su cui si fonda tutta la conoscenza razionale, sono le idee di ciò che è comune a tutto ciò che esperiamo212, oppure di ciò che è comune al nostro corpo e ad alcuni dei corpi esterni di cui facciamo esperienza213. L’equivalenza fra l’avere idee adeguate ed essere causa adeguata delle proprie azioni acquista allora una dimensione collettiva: noi siamo causa adeguata

209 Ethica, III, def. 2.210 Ethica, III, def. 3.211 Ethica, III, 1 edem.212 Ethica, II, 38: “illa, quae omnibus communia”.213 Ethica, II, 39: “id, quod Corpori humano, et quibusdam corporis externis, a quibus Corpus humanum affici

solet, commune est”.

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delle nostre idee quando esse nascono da una proprietà che è comune a noi e alla cosa esterna, siamo attivi quando agiamo insieme a qualcuno che ha in comune con noi la proprietà per la quale agiamo.

L’unione con i nostri simili, allora, ci è utile soprattutto perché essa rafforza la nostra ragione, ossia perché accresce il numero delle nostre idee adeguate:

Mens eo aptior est ad plura adaequate percipiendum, quo ejus Corpus plura habet

cum aliis corporibus communia214.

Nello stesso tempo, questa unione accresce anche la parte delle cose che facciamo di cui siamo causa adeguata - il numero delle nostre azioni propriamente dette - e accresce di conseguenza la nostra potenza. La gioia che nasce dal convenire è dunque l’affetto che accompagna le azioni comuni degli uomini quando essi agiscono secondo le leggi della propria natura e insieme l’affetto che accompagna la formazione delle idee adeguate. Perciò, se da un lato le idee adeguate prevalgono sulle inadeguate grazie alla loro forza intrinseca215, dall’altro lato esse corrispondono anche all’unione fra le potenze di diversi individui, e sono ulteriormente rafforzate dalla gioia attiva che accompagna questa unione.

Certo, non bisogna dimenticare che tutti gli uomini sono sottomessi ad affetti che sono passioni, e che per questa ragione la gioia che accompagna la loro unione è sempre ambivalente e fluttuante, e va piuttosto nella direzione dell’imitazione affettiva che in quella del convenire. Tuttavia, se da un lato gli uomini sono sempre sottomessi alle passioni, dall’altro essi non lo sono mai totalmente - non sono totalmente passivi, perché non potrebbero neppure esistere se la loro natura non fosse in grado di esprimere le proprie conseguenze. Ma quando in qualche misura gli uomini agiscono secondo le leggi della propria natura essi possono anche accordarsi, e questo accordo, a sua volta, accresce il numero delle loro idee adeguate e la forza di cui dispongono per agire secondo le leggi della propria natura. La gioia che nasce dal convenire può allora generare una spirale positiva capace di accrescere ogni volta di più la potenza e la ragione di coloro che vi prendono parte.

3.5 UN NUOVO MODELLO DI RAGIONE

Il passaggio dall’accordo alla ragione è dunque più difficile e molto meno sicuro di quello dalla ragione all’accordo, ma questo passaggio è possibile, e tanto più importante poiché è la condizione stessa per la quale gli uomini diventano ragionevoli. In effetti, la ragione non può essere una condizione di partenza né per l’individuo, né per lo stato. Lo stato, come abbiamo visto, non si può reggere sull’ipotesi che i suoi cittadini (o alcuni tra essi) siano ragionevoli. Ma anche gli individui hanno bisogno della ragione comune per sviluppare la propria razionalità.

Quando Spinoza dice che gli uomini hanno bisogno di unirsi, perché il loro potere, quando sono isolati, è insignificante, l’unione della quale egli parla non è solo un’unione di forze per agire sulla natura, ma è anche, e soprattutto, un’unione che permette agli uomini di pensare insieme. Nessuno nasce libero, e nessuno nasce ragionevole, ma il lungo cammino del divenire adeguato delle nostre idee e delle nostre azioni non potrebbe essere compiuto se l’individuo fosse isolato, “si Mens sola esset, nec quicquam praeter se ipsam intelligeret”216. Per formare delle idee adeguate abbiamo bisogno di sperimentare i nostri simili, e di comunicare con loro, e più gli individui che partecipano a questa comunicazione sono numerosi e potenti, più hanno la forza per agire e pensare secondo le sole leggi della loro natura comune: “quae efficiunt, ut homines concorditer vivant, simul efficiunt, ut ex ductu rationis vivant”217. Poter pensare con i propri simili è dunque la miglior

214 Ethica, II, 39, sch..215 Ethica, II, 43, sch..216 Ethica, IV, 18, sch.217 Ethica, IV, 40, dem.

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cosa che l’uomo possa desiderare: “homo, qui ratione ducitur, magis in civitate, ubi ex communi decreto vivit, quam in solitudine, ubi sibi soli obtemperat, liber est”218.

Nonostante ciò, il solo fatto che gli uomini condividano un opinione non garantisce che questa opinione sia razionale. Qualunque affetto, purché sia comune, è in grado di produrre qualche forma di accordo, o a causa dell’imitazione affettiva, o perché delle nature simili, spinte da cause esterne simili, hanno delle conseguenze simili. Di questo genere, ad esempio, è l’accordo della moltitudine sottomessa nella paura e nell’ammirazione del tiranno, o nel desiderio impotente di vendicarsi di esso, ma questo accordo non produce la ragione, ma la superstizione. Allo stesso modo, se la maggioranza dei membri di un’assemblea è sottoposta ad uno stesso affetto passivo, il suo accordo sarà l’espressione di questa passione. Nulla dunque garantisce che ogni opinione sulla quale molti uomini siano d’accordo sia un’idea adeguata, né che qualunque decisione di un consiglio sia una decisione razionale.

Tuttavia, affermare che le opinioni della maggioranza o le decisioni di un’assemblea sono comunque razionali non era neppure, probabilmente, nelle intenzioni dell’autore, poiché questa affermazione equivarrebbe a negare qualunque valore alla diversità delle opinioni. Se rivolgiamo il nostro sguardo indietro, sul capitolo XX del Tractatus Theologico-politicus, vediamo che Spinoza, al contrario, non ha mai avuto bisogno di sostenere questa tesi. Nello stato civile, egli afferma in questa opera, gli individui non rinunciano che ad agire esclusivamente secondo la loro propria decisione. Coloro che non condividono l’opinione dei summae potestates, o che, in un consiglio, non condividono l’opinione della maggioranza, non sono assolutamente tenuti a cambiare idea, né ad astenersi dall’esprimere la propria opinione contraria. In realtà, le decisioni comuni debbono sempre restare aperte:

quia omnes homines non possunt aeque eadem sentire, pacti sunt, ut id vim

decreti haberet, quod plurima haberet suffragia, retinendo interim authoritatem

eadem, ubi meliora viderint, abrogandi219.

Ma se l’accordo su di un opinione non è, di per sé stesso, una garanzia assoluta della sua razionalità, questa opinione resta in ogni modo la più razionale possibile nelle condizioni date. La ragione può essere più forte delle passioni soltanto nella misura in cui essa corrisponde ad un affetto più forte220. Ma la forza dell’affetto viene in questo caso dal fatto che esso è il risultato dell’unione tra il potere della cosa esterna e la nostra, e di conseguenza è un affetto di gioia. E’ per la stessa ragione che le opinioni razionali, che provengono dagli affetti attivi, prevalgono su quelle che sono generate dagli affetti passivi: così come gli uomini dominati dalla ragione sono più potenti di quelli che sono sottomessi alle passioni, allo stesso modo le opinioni che nascono dagli affetti attivi generano un accordo più potente, ed una unione più forte, degli affetti passivi, che sono espressione di impotenza.

L’opinione comune che nasce dall’accordo è dunque sempre, almeno in parte, razionale. Ma allo stesso tempo l’accordo è in rado di generare un’accrescimento progressivo di questa razionalità. Qualunque siano le loro superstizioni, gli uomini perseguono comunque la propria utilità, e quando pervengono ad un’accordo, essi perseguono in effetti, almeno in parte, l’utilità comune. L’unione delle forze permette loro di contrastare le cause della loro impotenza e della loro debolezza, perché l’effetto di questo accordo è di accrescere la forza della quale essi dispongono per agire secondo le leggi della propria natura, ovvero per vivere sotto il dominio della ragione221.

Sebbene l’accordo non sia di per sé una garanzia di razionalità, esso tuttavia, provocando l’unione e l’accrescimento delle potenze individuali, genera progressivamente la ragione. Nella misura in cui, grazie al perseguimento razionale dell’interesse comune, il potere comune di un

218 Ethica, IV, 73.219 Tractatus Theologico-politicus, XX, SO III, 245.220 Ethica, IV, 7.221 Ethica, IV, 35, cor. 2.

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insieme di uomini cresce, cresce di conseguenza il numero dei loro affetti attivi, e quindi anche il numero di cose su cui conveniunt, quindi la loro capacità di formare delle idee adeguate. L’accordo è allora all’origine della ragione, soprattutto perché le idee adeguate nascono dalla condivisione degli effetti attivi, e gli affetti attivi, a loro volta, sono determinati dalla forza della quale disponiamo per agire secondo le leggi della nostra propria natura.

In altri termini, l’accordo è all’origine della ragione, poiché la potenza stessa ne è all’origine. La ragione comune e la potenza della moltitudine appaiono allora come elementi interdipendenti: abbiamo già visto che la ragione è la condizione necessaria affinché gli individui si accordino e che le potenze individuali si uniscano222, vediamo ora che la crescita delle potenze individuali (determinata sia dall’unione con le forze degli altri, sia dall’aumento della potenza comune) è a sua volta condizione necessaria affinché, accordandosi, gli individui producano una ragione comune

Ciò che Spinoza propone è dunque un modello dinamico della ragione politica. Se non si può attribuire il compito di condurre una politica razionale a nessun soggetto all’interno dello Stato, e se la ragione politica non può essere altro che una ragione comune, questa ragione non è data una volta per tutte e per sempre, ma dipende dalle condizioni della vita comune. Una politica razionale migliora queste condizioni, e di conseguenza rende la comunità più forte. Un incremento della forza comune accresce la razionalità comune. Potenza e ragione generano insieme una spirale positiva che le rafforza reciprocamente.

Ma questa spirale non gode di alcuna garanzia: una politica irrazionale, o una cattiva organizzazione dello Stato possono indebolire progressivamente la potenza comune, e innescare una spirale negativa di impotenza e di superstizione. Allo stesso modo, qualunque causa esterna allo Stato può spezzare la potenza comune e generare degli affetti di paura e di impotenza, e dunque indebolire la ragione comune e deviarla verso la superstizione. La storia non ha una sola direzione, ma consiste piuttosto di oscillazioni continue tra una spirale che va nel senso dell’aumento reciproco della ragione e della potenza comune, e una spirale nella quale impotenza e superstizione si rafforzano a vicenda. A un estremo della spirale si trova la libera multitudo, che prima di ogni altra cosa si sforza di coltivare religiosamente la vita, dall’altro la moltitudine asservita, che si sforza semplicemente di evitare la morte223. Compito dell’azione politica è garantire, per quanto possibile, le condizioni perché si instauri la spirale positiva della ragione e della potenza comuni.

222 Cfr. §1.223 Tractatus Politicus, V, 6: “Libera enim multitudo majori spe, quam metu, subacta autem majori metu, quam spe

ducitur: quippe illa vitam colere, haec autem mortem tantummodo vitare studet”.