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1 XXVII Convegno SISP, Università di Firenze, 12-14 settembre 2013 Sezione 1: “Democrazie e democratizzazioni” Panel 1.4: “Italian unions’ relational politics yesterday, today and tomorrow: the union-party link” Party Government e strategie sindacali. Un approccio storico del caso italiano VALERIO LASTRICO [email protected] 1. Introduzione ed obiettivi Il paper utilizza un approccio storico per ricostruire i vari passaggi nel rapporto fra sindacati confederali e partiti di riferimento, nel caso italiano. L’ipotesi è che lo stretto “collateralismo” fra partiti e sindacati, che la letteratura considera caratteristica peculiare del periodo che va dall’immediato dopoguerra sino alla crisi della Prima Repubblica, non sia di fatto mai stato rimesso in discussione nemmeno nei periodi successivi, pur passando attraverso mutazioni che non paiono comunque inficiare tale relazione di fondo. Vale a dire che, sia a sinistra con l’asse fra CGIL e i vari partiti che si sono avvicendati nella trasformazione dal PCI al PD, sia, per quanto in misura diversa, al centro, specie con i legami fra CISL e i vari partiti figli della DC, PD compreso, fino ad arrivare all’appoggio a Monti (senza dimenticare i rapporti, specie più recenti, fra centro-destra ed UGL, e quelli fra sinistra radicale e sindacati di base), ci si troverebbe di fronte ad una sostanziale e perdurante egemonia nella direzione che va dai partiti ai sindacati. Le influenze inverse, questa un’altra ipotesi del lavoro, cioè quelle che vanno dai sindacati ai partiti, sarebbero invece addirittura diminuite rispetto al periodo in cui le lotte operaie e il ruolo di rappresentanza del sindacato avevano un effetto non trascurabile sulle scelte politiche dei partiti, non solo del PCI. Tutti i recenti e svariati movimenti interni al sindacato, sia nell’ottica di trasformazione dall’interno dei partiti di riferimento, sia in quella di creazione di nuove formazioni elettorali, sia ancora in quella di disaffiliazione e avvicinamento di protesta a partiti-movimento quali la Lega Nord prima, e il Movimento 5 Stelle poi, sembrano infatti, periodicamente, dopo un breve tratto e dopo aver prodotto effetti spesso trascurabili, rientrare nei ranghi delle più o meno consolidate affiliazioni partitiche, con solo qualche aggiustamento e rimescolamento dovuto alle mutazioni del sistema partitico italiano. Sotto quest’ultimo aspetto, si tenta di rispondere alla questione se emergano differenze nel rapporto fra partiti e sindacati nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, e in quello dalla Seconda Repubblica alla recente situazione, da alcuni (troppo?) presto ribattezzata Terza Repubblica, nella quale il quadro politico appare nuovamente cambiato. L’ipotesi è che i sindacati, pur mantenendo sostanzialmente inalterata l’affiliazione e la contiguità rispetto a determinati partiti di riferimento, e anzi proprio per tale motivo, risentano tuttavia, nelle loro strategie di azione collettiva, del posizionamento reciproco e delle alleanze anche contingenti fra questi partiti. In particolare si guarda all’influenza del posizionamento dei partiti di riferimento all’interno o all’esterno della maggioranza parlamentare, per verificare il relativo posizionamento dei sindacati rispetto alle strutture della concertazione. Si ripercorrono così: le difficoltà per l’unità sindacale nel periodo della conventio ad excludendum del PCI, in cui i partiti di riferimento delle sigle confederali si trovavano su versanti apposti di maggioranza e opposizione (fatto salvo il periodo particolare del “compromesso storico”, non a caso contrassegnato dalla prima vera stagione di patti triangolari); passando poi alla situazione della Seconda Repubblica, caratterizzata da un’alternanza tra le fasi che sono state definite “periodo d’oro della concertazione all’italiana”, quando al governo stava il nuovo centro- sinistra in cui trovavano casa i partiti cui si rifacevano tutti e tre i sindacati confederali, e le fasi di politica economica per decreto e conflitto di lavoro, quando al governo stava il centro-destra e i partiti di riferimento dei sindacati confederali si trovavano tutti all’opposizione; arrivando infine alla situazione attuale di maggioranze allargate, con la sorta di nuovo compromesso storico che la caratterizza e l’assenza di significativo conflitto di lavoro (se non da parte delle sigle di base e di coordinamenti che si auto-definiscono autonomi sia rispetto ai partiti sia rispetto ai sindacati) pur in presenza di nuove scelte politiche anti-labour attuate per decreto.

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Page 1: Party Government e strategie sindacali. Un approccio ... · patti triangolari); passando poi alla situazione della Seconda Repubblica, caratterizzata da un’alternanza tra le fasi

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XXVII Convegno SISP, Università di Firenze, 12-14 settembre 2013 Sezione 1: “Democrazie e democratizzazioni”

Panel 1.4: “Italian unions’ relational politics yesterday, today and tomorrow: the union-party link”

Party Government e strategie sindacali. Un approccio storico del caso italiano

VALERIO LASTRICO [email protected]

1. Introduzione ed obiettivi Il paper utilizza un approccio storico per ricostruire i vari passaggi nel rapporto fra sindacati confederali e

partiti di riferimento, nel caso italiano. L’ipotesi è che lo stretto “collateralismo” fra partiti e sindacati, che la letteratura considera caratteristica peculiare del periodo che va dall’immediato dopoguerra sino alla crisi della Prima Repubblica, non sia di fatto mai stato rimesso in discussione nemmeno nei periodi successivi, pur passando attraverso mutazioni che non paiono comunque inficiare tale relazione di fondo.

Vale a dire che, sia a sinistra con l’asse fra CGIL e i vari partiti che si sono avvicendati nella trasformazione dal PCI al PD, sia, per quanto in misura diversa, al centro, specie con i legami fra CISL e i vari partiti figli della DC, PD compreso, fino ad arrivare all’appoggio a Monti (senza dimenticare i rapporti, specie più recenti, fra centro-destra ed UGL, e quelli fra sinistra radicale e sindacati di base), ci si troverebbe di fronte ad una sostanziale e perdurante egemonia nella direzione che va dai partiti ai sindacati. Le influenze inverse, questa un’altra ipotesi del lavoro, cioè quelle che vanno dai sindacati ai partiti, sarebbero invece addirittura diminuite rispetto al periodo in cui le lotte operaie e il ruolo di rappresentanza del sindacato avevano un effetto non trascurabile sulle scelte politiche dei partiti, non solo del PCI. Tutti i recenti e svariati movimenti interni al sindacato, sia nell’ottica di trasformazione dall’interno dei partiti di riferimento, sia in quella di creazione di nuove formazioni elettorali, sia ancora in quella di disaffiliazione e avvicinamento di protesta a partiti-movimento quali la Lega Nord prima, e il Movimento 5 Stelle poi, sembrano infatti, periodicamente, dopo un breve tratto e dopo aver prodotto effetti spesso trascurabili, rientrare nei ranghi delle più o meno consolidate affiliazioni partitiche, con solo qualche aggiustamento e rimescolamento dovuto alle mutazioni del sistema partitico italiano.

Sotto quest’ultimo aspetto, si tenta di rispondere alla questione se emergano differenze nel rapporto fra partiti e sindacati nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, e in quello dalla Seconda Repubblica alla recente situazione, da alcuni (troppo?) presto ribattezzata Terza Repubblica, nella quale il quadro politico appare nuovamente cambiato. L’ipotesi è che i sindacati, pur mantenendo sostanzialmente inalterata l’affiliazione e la contiguità rispetto a determinati partiti di riferimento, e anzi proprio per tale motivo, risentano tuttavia, nelle loro strategie di azione collettiva, del posizionamento reciproco e delle alleanze anche contingenti fra questi partiti. In particolare si guarda all’influenza del posizionamento dei partiti di riferimento all’interno o all’esterno della maggioranza parlamentare, per verificare il relativo posizionamento dei sindacati rispetto alle strutture della concertazione.

Si ripercorrono così: le difficoltà per l’unità sindacale nel periodo della conventio ad excludendum del PCI, in cui i partiti di riferimento delle sigle confederali si trovavano su versanti apposti di maggioranza e opposizione (fatto salvo il periodo particolare del “compromesso storico”, non a caso contrassegnato dalla prima vera stagione di patti triangolari); passando poi alla situazione della Seconda Repubblica, caratterizzata da un’alternanza tra le fasi che sono state definite “periodo d’oro della concertazione all’italiana”, quando al governo stava il nuovo centro-sinistra in cui trovavano casa i partiti cui si rifacevano tutti e tre i sindacati confederali, e le fasi di politica economica per decreto e conflitto di lavoro, quando al governo stava il centro-destra e i partiti di riferimento dei sindacati confederali si trovavano tutti all’opposizione; arrivando infine alla situazione attuale di maggioranze allargate, con la sorta di nuovo compromesso storico che la caratterizza e l’assenza di significativo conflitto di lavoro (se non da parte delle sigle di base e di coordinamenti che si auto-definiscono autonomi sia rispetto ai partiti sia rispetto ai sindacati) pur in presenza di nuove scelte politiche anti-labour attuate per decreto.

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2. Una “narrazione densa” L’Italia è stata a lungo portata ad esempio come eccezione di rilievo a quello che era il trend concertativo

degli anni ‘70 [Regini 1984], per quanto anch’essa non fu affatto esente da tentativi, rivelatisi in gran parte infruttuosi, di regolazione tripartita. Sempre l’Italia, poi, rovesciando quella che sembrava dover essere la propria tradizione consolidata, si è posta come caso paradigmatico della ripresa neocorporativa degli anni ‘90. Il modello, neocorporativo [Schmitter 1974; Lehmbruch 1977], lungi dall’avere radici deterministicamente stabilite dalle tradizioni politiche peculiari di ogni paese, dovrebbe la sua più o meno parziale o completa applicazione concreta ad una serie di concause [Panitch 1979].

Una delle questioni più rilevanti, a proposito dei rapporti intercorrenti fra sistema politico e concertazione, consiste indubbiamente nel grado di ‘collateralismo’ esistente fra partiti politici e sindacati. I primi sarebbero l’espressione più compiuta della rappresentanza politica, e i protagonisti principali di un modello democratico-parlamentare pluralista, i secondi un riferimento cardine della rappresentanza funzionale, e attori essenziali di un assetto neocorporativo. Eppure, tra i due sistemi di aggregazione esisterebbero molteplici e vicendevoli rapporti di influenza, a significare anche il carattere parziale delle strutture corporative [ibidem]. Queste andrebbero infatti a sovrapporsi alle strutture partitiche esistenti, senza per questo sostituirle, come già aveva notato Lehmbruch [1977]. L’influenza sarebbe reciproca, ma, in particolar modo in Italia, prevalentemente diretta dai partiti nei confronti delle loro confederazioni di riferimento. Di qui l’interesse che il tema dell’autonomia sindacale ha attirato su di sé da parte degli studiosi; autonomia che sarebbe da considerare, secondo Pizzorno [1980], nei confronti dei vari apparati nei quali lo Stato, latamente inteso, si articola. Nonostante ciò, nota Leonardi [2003], nella storia italiana l’autonomia sindacale sarebbe stata sempre declinata solo nei confronti dei partiti politici. Questo sarebbe conseguenza della forte dipendenza del lavoro organizzato nei confronti di questi ultimi, sin dalla ricostruzione della CGIL nel Patto di Roma del 1944.

L’obiettivo qui è dunque di approfondire quella che è ritenuta una delle più importanti fra le potenziali variabili intervenenti nella spiegazione dell’offerta di concertazione, ovvero i condizionamenti del sistema politico sulle strutture della concertazione. Per fare ciò si è deciso di prendere in considerazione proprio il particolare caso dell’Italia, ed analizzare in prospettiva diacronica l’evoluzione delle pratiche neocorporative in esso riscontrabili, e insieme l’evoluzione di quelli che sono i singoli attori coinvolti nel processo, oltre ai rapporti di forza e ai condizionamenti vicendevoli intercorrenti tra loro. Si è così riscontrata una possibile periodizzazione che ricalchi proprio le presunte fra Prima e Seconda Repubblica e la situazione delineatasi a partire dal 2011, trovando poi che all’interno di tali intervalli esisterebbero ulteriori sotto-cesure, riconducibili in larga parte proprio ai condizionamenti provenienti dal sistema politico, e in particolare alla politicizzazione delle parti sociali. A partire da tale andamento storico, si cercherà quindi di trarre quelli che sembreranno i punti salienti di contatto ed influenza con il sistema politico, nei tre periodi e in generale, che avrebbero determinato in larga parte l’evoluzione peculiare della “concertazione all’italiana” [Salvati 2000].

3. La Prima Repubblica 1945 – 48: Governo di unità nazionale e debolezza degli attori Nel 1944, ancor prima che i sindacati fascisti fossero ufficialmente soppressi, i maggiori partiti del CLN

(PCI, PSIUP e DC) firmarono il c.d. Patto di Roma, attraverso il quale fu fondata la CGIL. La nuova organizzazione «nasceva dunque dall’alto e dal centro tramite negoziati tra partiti politici» [Maraffi 1994]. L’impronta partitica risultava fortissima: la CGIL si configurava come l’associazione di massa che, in campo sindacale, doveva portare avanti la politica dei partiti di massa, vale a dire la ricostruzione economica. La confederazione divenne per tale via assai dipendente dai partiti e, per altro verso, fortemente centralizzata, in un periodo in cui tutte le forze politiche si trovavano sullo stesso versante antifascista.

In questo contesto poteva, forse, sembrare semplice la dichiarazione d’intenti di Giuseppe Di Vittorio nel 1947, che descriveva la confederazione come «una unità di carattere sociale che sovrasta le stesse differenze di opinione», «una base essenziale di principio che sostiene l’unità dei lavoratori di ogni categoria», i quali «possono essere divisi da ideologie, da questioni di opinione politica, e di appartenenza a differenti partiti politici», ma al di là di ciò si trovano uniti nell’identità della condizione sociale [cit. in Terzi 2003a].

Non appena il sistema partitico sarà sconvolto dalla contrapposizione DC/sinistre, tuttavia, ciò andrà a minare anche l’unità sindacale. Tale dichiarazione di unità di interessi dei lavoratori si dimostrerà nel corso dello stesso 1947, con il ritorno di De Gasperi dagli USA e la cacciata delle sinistre dal governo di unità nazionale, semplicemente un libro dei sogni, e vedrà il sindacato dividersi proprio come riflesso della fine dell’unità di interessi dei partiti [Golden 1988].

Qualcosa di simile, peraltro, accadde anche sul versante datoriale con la fine del monopolio della rappresentanza goduto da Confindustria durante il regime autoritario [Maraffi 1994]. Alla caduta di quest’ultimo

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infatti, la reintroduzione della libertà d’associazione portò alla frammentazione delle rappresentanze imprenditoriali, e tutti gli interessi non prettamente industriali lasciarono Confindustria, cui erano stati obbligati ad aderire, per creare proprie federazioni. Queste, per di più, non monopolizzavano i loro specifici interessi, ma vennero invece a crearsi formazioni duali nell’ambito dello stesso settore, seguendo i cleavages partitici.

1948 - 60: Centrismo e debolezza delle organizzazioni degli interessi La situazione si rivoluzionò con l’estromissione delle sinistre dal governo nel 1947, da parte di De Gasperi.

Nello stesso anno, si confermò la perdita di consensi del PSI a seguito della scissione operata da Saragat, che andò a formare il Partito Socialdemocratico e strinse alleanza con la DC. L’inversione di tendenza fu confermata dalle elezioni politiche del 1948, nelle quali si fece sentire il nuovo clima della Guerra Fredda. In quell’anno iniziò dunque l’incontrastato dominio del centrismo e la conventio ad excludendum del PCI, con tutte le ripercussioni che ciò comporterà anche dal punto di vista delle relazioni industriali [Lange 1979].

Nell’immediato, l’esito fu una forte contrapposizione sociale, con il paese praticamente spaccato a metà dalle fratture ideologiche. Questo, di per sé, fa venir meno uno dei requisiti essenziali delle pratiche concertative, ossia la volontà a collaborare [Panitch 1979]. Tali fratture si fecero sentire già dallo stesso 1948, anno in cui, a seguito di un attentato rivolto a Togliatti, milioni di lavoratori scesero in sciopero in tutta Italia. Conseguenza immediata di questa vicenda fu la scissione della CGIL, da cui si staccò la componente cattolica. Questa, che contestava la legittimità dello sciopero politico indetto dalla corrente “rossa”, andò a formare quella che di lì a poco diventerà la CISL, fortemente dipendente dalla DC. Negli stessi anni si staccò anche la UIL, espressione delle correnti socialdemocratica e repubblicana. Il fronte sindacale quindi, già di per sé debole ed impotente, si frazionò in tre distinte confederazioni fortemente dipendenti dai partiti, e di conseguenza, per loro stessa natura, profondamente divise sul piano operativo [Forbice 1990].

L’organizzazione egemonica rimaneva la CGIL, la quale però derivava la propria forza non dalla presenza organizzativa in fabbrica, quanto piuttosto dalla sua posizione simbolica fortemente politicizzata e dal sostegno del PCI. Tale sostegno, se da un lato sopperiva alla inconsistenza logistica del sindacato, dall’altro lo trascinava con sé nell’emarginazione. Come nota Lange [1981], la CGIL era debole e incapace di ottenere benefici dallo Stato (il quale veniva ad essere sempre più compenetrato dalle strutture della DC) in parte perché PCI e PSI erano anch’essi esclusi. Si venne a creare quindi una situazione in cui la CGIL era emarginata perché subordinata ad un partito emarginato (il PCI), e la CISL scarsamente autonoma perché subordinata al partito-Stato (la DC) [LaPalombara 1957; per una visione alternativa, cfr. Manoukian 1968]. Contrariamente al mondo del lavoro, invece, le organizzazioni degli imprenditori avevano accesso privilegiato e continuo a tale party-government, e grande facoltà di influenzarne le scelte [LaPalombara 1964].

Alla metà degli anni ‘50, tuttavia, venne meno la convergenza tra la Confindustria e la DC, inaugurata all’indomani delle elezioni del ‘48. Nel partito dominante infatti, si affermò un nuovo ceto politico, vicino al neo-segretario Fanfani, orientato a rendersi indipendente dagli industriali e a rafforzare il ruolo dello Stato in economia. Il fine ultimo era quello di sostenersi autonomamente dal punto di vista organizzativo e trovare fonti di finanziamento meno vincolanti, riducendo così la pressione dei tradizionali gruppi di potere sulle linee del partito [Lanzalaco 1998]. La strategia mirava sostanzialmente a spezzare la coesione degli imprenditori come attore collettivo organizzato e, di conseguenza, a ridurre il loro potenziale di influenza sul partito. Ciò avvenne innanzitutto con il distacco, fortemente promosso da DC e CISL, delle imprese a partecipazione statale dalla Confindustria e la successiva creazione dell’Intersind. Il fatto fu un duro colpo per l’organizzazione, in quanto comportò una riduzione della capacità di parlare a nome di tutta l’industria italiana [Maraffi 1994].

Esiste tuttavia un secondo fattore che minò la forza collettiva della maggiore confederazione industriale, e questo è la cattura delle microimprese operata dai due maggiori partiti, nel quadro della loro strategia di conquista politica del ceto medio indipendente. Tale strategia ebbe il suo apice nell’approvazione della legge sull’artigianato (1956), che istituzionalizzava la differenziazione delle imprese in base alla dimensione piuttosto che al settore: le aziende fino a 10 dipendenti potevano richiedere lo status di imprese artigiane, il che comportava tutta una serie di vantaggi. Si può capire come tale provvedimento costituì uno stimolo attraente a rientrare in questa categoria, il che implicò la nascita di associazioni di rappresentanza artigiana e agricola collegate ai due maggiori partiti, a scapito della Confindustria1 [ibidem]. La quale dal quel momento si trovò, è vero, ad avere anch’essa un rapporto che Mattina [1991] definisce simbiotico con un partito politico, il PLI, il quale però ha sempre avuto nella storia repubblicana un peso abbastanza trascurabile, o comunque non comparabile con l’influenza diretta sulla DC su cui Confindustria poteva contare alle prime battute della vita democratica italiana.

1 Situazione ricomposta in gran parte solo nel 2010, con la nascita della Rete Imprese Italia che riunisce le piccole e medie imprese al di fuori di Confindustria, sancendo la fine del collateralismo ai partiti almeno per il versante datoriale del lavoro [Lanzalaco 2010].

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1960 – 67: Dominio del governo e assenza di concertazione Negli anni ‘60 questa situazione si andò modificando, con l’entrata del PSI nei governi DC e la nascita, nel

1962, del “centrosinistra”. Si rafforzò così nelle forze riformiste governative la convinzione che fosse tempo di abbandonare la strategia di esclusione per una di maggiore inclusione dei sindacati nel processo politico [Regalia e Regini 1998; Bordogna e Cella 2000]. Anche i sindacati, da parte loro, adottarono un atteggiamento più possibilista rispetto al dialogo con il governo. La stessa CGIL si pronunciò in maniera molto più articolata rispetto al PCI, lasciando intravedere maggiori disponibilità [Bordogna e Provasi 1998].

E questo nonostante tali timidi tentativi, pur compiuti da entrambe le parti, fallirono miseramente: il centrosinistra diede vita, è vero, ad una pratica di consultazione sindacale, ma questa fu sporadica e priva di effetti sul policy making, soprattutto perché la spinta riformista del centrosinistra si infranse contro l’opposizione del PLI e dei settori più conservatori della DC. Per la prima di una lunga serie di occasioni, quindi, la maggiore disponibilità sindacale sarebbe da ascrivere ad una maggiore vicinanza politica con i partiti che formano la maggioranza di governo, in questo caso con l’entrata del PSI e la formazione del centrosinistra, che non a considerazioni strettamente legate all’azione sindacale.

Pure il versante datoriale non era esente da carenza di legittimazione e inclusione. La nazionalizzazione del settore elettrico, voluta dai socialisti come dimostrazione di apertura nei loro confronti, era solo l’ultimo dei colpi che la Confindustria aveva subito negli anni recenti, a partire dalla strategia di autonomia della DC negli anni ‘50. Questa comportò l’allontanamento dalla confederazione di quella che era la coalizione degli imprenditori elettrici, che l’aveva controllata sin dalla sua rifondazione. La Confindustria vide dunque riconfermato il suo declino organizzativo, rispondente in larga parte a processi politici interni ai partiti, e tentò di reagire al declino della sua influenza sui centri pubblici di decisione addirittura attraverso l’azione politica diretta. Promosse infatti, insieme ad associazioni minori, la nascita della Confintesa, allo scopo di indirizzare il voto verso il Partito Liberale. Questo nelle intenzioni avrebbe dovuto rendere visibile alla DC che gli industriali avevano ritirato l’ampia delega che le avevano concesso sin dal ‘48. L’azione fallì perché priva di quella base di massa che avrebbe potuto essere garantita dalle microimprese, la cui rappresentanza era però stata sottratta dalle organizzazioni facenti capo alla DC e al PCI [Maraffi 1994].

1968 – 74: Supremazia dei sindacati sui partiti e prevalenza del conflitto La duplice condizione di sottopotere, nei confronti sia della base che del sistema politico, indusse la

leadership sindacale ad una strategia di movimento [Alberoni 1979; Gentile 2011] che scaturì, nel 1969, dalla decisione di appoggiare le spinte rivendicative maturate nel ‘68. È vero che tutti i paesi occidentali conobbero in quel periodo una ripresa della conflittualità, ma la forza e l’intensità del conflitto industriale nel nostro paese ha reso quello italiano un caso del tutto specifico [Bordogna e Provasi 1998]. Le lotte operaie, mentre si fermavano in molti paesi ad un risvolto minoritario di quella che era la conflittualità sociale del ‘68, di stampo soprattutto studentesco, affermarono in Italia tutta la propria imponenza [Crouch e Pizzorno 1977; Tarrow 1989]. È quello che accadde a partire dall’Autunno Caldo, autunno che, in verità, si dispiegò per alcuni anni con forme di lotta radicali e proliferazione della conflittualità aziendale, spesso sottratta al controllo del sindacalismo confederale [Regalia, Regini e Reyneri 1977]. Si venne così a creare un modello organizzativo e contrattuale fortemente decentrato, di conflittualità spinta verso l’arena del mercato e il sistema delle imprese da una parte, e verso quella di relazioni con i pubblici poteri impostate in termini nettamente contestativo-vertenziali dall’altra [Pizzorno, Reyneri e Regini 1978], con effetti che si esercitarono ben al di là delle relazioni industriali in senso stretto [Bordogna 1985].

Sebbene secondo Cella [1985, 82] sia piuttosto parziale imputare tale peculiarità semplicemente alle particolarità ideologiche del sindacalismo italiano, è anche vero che quello delle relazioni industriali in Italia a quel tempo continuava a configurarsi come un sistema «nato e concepito in un periodo di debolezza sindacale e di controllo politico esterno più o meno esplicitamente repressivo». Non vanno dimenticate le caratteristiche di un sistema politico che, privo di alternanza, non ha offerto periodi di tregua tra sindacati e governo, o spostamenti di obiettivi tipici delle relazioni industriali all’interno della sfera politica. In questi anni è avvenuto piuttosto il contrario: «una parte considerevole della azione di sciopero è stata dedicata a sostenere obiettivi tipici del mercato politico trasferiti entro la sfera delle relazioni industriali, con la speranza di un loro più accelerato, adeguato, democratico soddisfacimento» [Bordogna 1985].

Anche il sindacato, infatti, si situa in quella tendenza all’organizzazione di movimento propria della fase storica [Alberoni 1979]. Molte forze sociali si mostrarono sempre più riluttanti a delegare ai partiti la rappresentanza dei propri interessi, a causa del cattivo funzionamento del sistema partitico e parlamentare, e delle mancate riforme promesse dal centrosinistra. Fu così che gruppi della società civile tentarono sempre più di svolgere ruoli esplicitamente politici, di fare pressione e trattare direttamente col governo, tagliando fuori partiti e

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parlamento. Da tale trend non poteva esimersi lo stesso sindacato, soprattutto nei confronti del protettore di sempre, il PCI. Questo, sebbene fosse all’opposizione, non fu immune a tale critica, e si ritrovò in difficoltà quindi non solo dal lato della legittimazione, ma anche quale rappresentante di interessi. Ciò, come fa notare Lange [1979], era particolarmente vero per i sindacati, che in forza del loro accresciuto potere contrattuale poterono permettersi di allentare per la prima volta i legami tradizionali coi partiti.

Questa politicizzazione del lavoro organizzato dovuta alla accresciuta forza, però, invece di condurre a forme di concertazione come pian piano avvenne in vari paesi dove il sindacato già in precedenza aveva un certo potere, portò in Italia piuttosto ad una sorta di pansindacalismo conflittuale, che le organizzazioni cavalcarono per crearsi un maggior potere contrattuale ed uscire finalmente dalla loro condizione di debolezza rispetto ai partiti. Da parte governativa nacque per la prima volta una seria domanda di concertazione, in quanto l’esecutivo dovette riconoscere che il sindacato che aveva ora di fronte era assai più forte di quanto fosse mai stato, e che una strategia di pura repressione non era più attuabile. Mancò totalmente, tuttavia, l’offerta di concertazione della parte sindacale, frustrata dalla mancata inclusione perpetuata anche sotto il centrosinistra. Come ha notato Salvati [2000, 452], «innescata dal movimento degli studenti, in modi largamente imprevisti dagli stessi leader sindacali si stava sviluppando una fase di rivendicazioni e di lotte di intensità straordinaria: era il momento tanto atteso per la costruzione di una organizzazione sindacale degna di questo nome, radicata nelle fabbriche e capace di contrattare». Sfruttare questa inattesa opportunità, però, significava rinfocolare la lotta, mettendosi alla testa del movimento piuttosto che frenarlo con obiettivi di moderazione salariale. Impossibile impegnarsi in una politica dei redditi, come contemporaneamente faceva un sindacato forte e pienamente riconosciuto come quello dei paesi scandinavi, rappresentativo e ben organizzato. Tale rappresentatività ed organizzazione il sindacato italiano doveva però crearsela, invece, sfruttando proprio questa occasione. Assecondando, cioè, la radicalità della potenziale base: accettare il dialogo, in quel momento, sarebbe verosimilmente equivalso ad alienarsela definitivamente.

In tale clima quindi, il binomio forza/antagonismo del lavoro organizzato diede vita a numerosi ed importanti provvedimenti in materia lavoristica, ma questi furono concessi “gratis” dai governi. Non si verificò in sostanza alcun do ut des tipico dello scambio neocorporativo, dato il rovesciamento dei rapporti di forza del periodo precedente. Era adesso un sindacato forte a dettare legge a governi deboli, in quello che, per usare le parole di Salvati [ivi, 454], può essere definito come «policy-making imposto». Ciò che si venne a creare in quegli anni in Italia è, secondo Lange [1981], l’emblema di come il ricorso allo Stato da parte del sindacato possa anche assumere forme pansindacaliste piuttosto che neocorporative. Esso ottenne infatti le riforme mediante la mobilitazione di massa (o la minaccia della stessa) per ottenere la posta più alta possibile nella contrattazione diretta con il governo, e rifiutando esplicitamente di partecipare a qualsiasi accordo che avesse coinvolto anche la controparte industriale. Un tale atteggiamento, peraltro, era fortemente osteggiato dal PCI, il quale vedeva, nel fronteggiarsi diretto sindacato/governo, una procedura che avrebbe scavalcato i poteri deliberativi di quel Parlamento che offriva al partito, escluso dal governo, l’unica possibilità di interferenza nel policy-making. Questo avrebbe privato il PCI di quello che era in pratica l’unico riconoscimento concessogli: il ruolo di controllo nei confronti di un sindacato che aveva rappresentato, fino a quel momento, la sua “cinghia di trasmissione”.

Il sindacato, che tra l’altro conobbe un riavvicinamento fra le confederazioni, divenne l’attore politico più importante, con le cui decisioni gli esecutivi dovettero scendere a patti. Si può ricordare ad esempio la caduta, nel 1970, del terzo governo Rumor in seguito ad uno sciopero generale, l’impossibilità di varare il c.d. “decretone” ad opera del governo Andreotti, l’ascesa al governo di una nuova coalizione di centrosinistra il cui programma politico fu in ampia parte determinato dalle scelte sindacali. Una vera forza politica che venne a supplire a quella partitica, oggetto in quegli stessi frangenti di una critica dissacrante dal movimentismo. Il sindacato invece, in quanto movimento, venne ad assumere una imponente forza anche dal punto di vista simbolico agli occhi di tutta la sinistra, compresa quella extraparlamentare che tante critiche rivolgeva invece al PCI [Alberoni 1979]. Tanto che i partiti del nuovo centrosinistra finirono per ricevere la loro investitura sostanziale più dai sindacati che dal Parlamento.

Su tali basi, Alberoni [ibidem] definì la rinascita del centrosinistra come «periodo laburista». Secondo lui, infatti, avvenne qualcosa di analogo al caso inglese [Quinn 2002], dove il sindacato «in quanto tale ha espresso il proprio partito, il partito laburista; e una volta espresso il proprio partito, poi ha chiesto all’elettorato un mandato parlamentare e governativo». In Italia non sarebbe stato possibile spingersi a tanto, in quanto già esistevano dei partiti che si ponevano come rappresentanza politica dei lavoratori, e anche dei sindacati. Si pervenne comunque a qualcosa simile nel momento in cui il PSI finì per accettare di porsi quale rappresentante del movimento sindacale [Forbice e Favero 1968]. Così facendo però, esso incorporò in sé non soltanto la forza del movimento, ma anche la sua intrinseca instabilità, tanto che il Partito Socialista «si è trovato nelle condizione di dover dichiarare di non poter prendere alcuna decisione in contrasto con le decisioni dei sindacati. Ne derivava un’inevitabile conseguenza: che era impossibile una sua ulteriore permanenza al governo», da cui infatti uscì nel

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1972. «Infatti, il fatto di trasmettere al governo senza mediazione le istanze che provenivano dal movimento sindacale significava ogni volta mandare il governo in convulsioni» [Alberoni 1979, 262].

Ben diversa era la posizione del PCI, ponendosi esso quale rappresentanza diretta dei lavoratori e non del sindacato considerato qualcosa di inferiore al partito, sua cinghia di trasmissione. Ancora differente la situazione della DC, che in virtù della sua base interclassista si ritrovò lacerata. Da una parte la sua sinistra, che agiva in modo analogo al PSI, e la CISL, che mirava a dividere il partito riuscendo ad influire sulle sue scelte. Dall’altra la sua maggioranza, che si contrapponeva frontalmente al sindacato tentando di dividerlo. In base all’analisi di Alberoni, lo scontro partiti/sindacati può considerarsi concluso con il 1974, anno in cui il PCI riprese il controllo della CGIL e la DC quello della CISL.

1975 – 83: Compromesso storico e affermazione della concertazione Verso la metà del decennio, nell’ottica di contenimento e razionalizzazione dell’attività conflittuale, l’azione

istituzionale venne perpetuata dai governi ancora attraverso interventi specifici di carattere legislativo, miranti a limitare direttamente l’esercizio del diritto di sciopero [Bordogna e Cella 2000]. Il vero punto di svolta risiede però nel fatto che una simile strategia, tipica dell’intervento statale nelle relazioni industriali in Italia, era destinata a lasciare il campo. Le politiche di repressione della conflittualità operarono infatti prevalentemente in via indiretta e politica, favorendo «una riduzione di autonomia delle relazioni industriali, una loro tendenziale subordinazione al sistema politico e per questa via una politicizzazione della conflittualità» [Bordogna 1985, 179]. Il risultato di questo passaggio fu un declino evidente della conflittualità, con scioperi di scopo prevalentemente politico-dimostrativo e tra i meno aspri di tutto il dopoguerra [Bordogna e Provasi 1998].

Lo spartiacque si ebbe probabilmente con l’intesa sul punto unico di contingenza, generalmente noto come “scala mobile”, del 1975 [Lanzalaco 1998]. Le premesse per un efficace esercizio concertativo sarebbero dipese, ancora una volta, anzitutto dal punto di vista partitico e di influenza sulle scelte della maggioranza da parte dei partiti di riferimento dei sindacati. Su questo versante, infatti, sembrava essere giunto agli sgoccioli quel sistema si conventio ad excludendum del PCI dall’esercizio del potere, che tante ripercussioni aveva avuto sulle relazioni industriali. In un clima dominato dalla “strategia della tensione” e dagli strascichi terroristici dell’Autunno Caldo, il colpo di stato in Cile del 1973 aveva offerto al segretario del PCI, Berlinguer, l’ultimo spunto per l’elaborazione del “compromesso storico”, strategia che puntava ad un accordo di governo tra le forze democratiche del paese. Tale apertura mirava a creare un terreno d’intesa per garantire, in quel delicato momento, stabilità di governo e coesione nazionale. Sul piano concreto, l’intesa si tradusse in un accordo parlamentare tra maggioranza e opposizione per la formazione di due governi a guida democristiana, definiti di solidarietà nazionale, che si ressero il primo, nel 1976, sull’astensione dei comunisti e dei socialisti, il secondo, nel 1978, sull’appoggio esterno del PCI. La consapevolezza della crisi era ormai maturata, infatti, anche in settori della DC che facevano capo al presidente Moro, spingendoli ad un accordo con il maggior partito d’opposizione. Entrato nell’area di governo, il PCI abbandonò la sua tradizionale posizione anti-concertativa, premendo anzi per la realizzazione di accordi triangolari [Hellman 1988; Blackmer e Tarrow 1975].

La domanda di concertazione assunse allora forma stabile ed intensa: l’inflazione era un problema reale, e tutte le forze politiche che sostenevano il governo (e non solo i comunisti) escludevano che si potesse porvi rimedio in via unilaterale. L’unica strada politicamente disponibile era dunque quella dell’accordo con le parti sociali. Ma soprattutto, come fa notare Salvati [2000], cominciò a delinearsi il requisito che sempre era mancato nella storia italiana: l’offerta di concertazione da parte del sindacato. Le condizioni di collateralismo sembravano particolarmente favorevoli. Durante i governi di solidarietà nazionale, infatti, il PCI spinse fortemente per una strategia consensuale, allo scopo di trovare un terreno di intesa su cui scambiare il depotenziamento della scala mobile con vantaggi politici ed istituzionali [Regalia e Regini 1998]. Tale strategia mise letteralmente in allarme PSI e CISL, ma i comunisti erano le componente di gran lunga più rappresentativa della CGIL, e il loro atteggiamento risultò determinante.

L’apice di tale mutamento di prospettiva si ebbe però, nel 1978, con la “Svolta dell’Eur”, espressione più esplicita di un processo di riflessione interna al sindacato che si mosse in sintonia con quella che era l’evoluzione generale. Questa prevedeva, in sostanza, l’abbandono della simultaneità dell’azione sindacale nei due obiettivi chiave: salario sul mercato economico e riforme su quello politico. Cioè a dire: subordinazione dell’iniziativa contrattuale a quella politica, con conseguente spostamento di potere verso il livello confederale, cui venne riconosciuto un ruolo di coordinamento e controllo. Si può notare come tutto ciò fosse in linea con gli intenti del PCI in ordine alla riduzione della conflittualità, ma si può anche constatare come questo avvenisse proprio nel momento in cui l’esperimento di solidarietà nazionale si avviava nella sua fase di declino, dopo l’assassinio Moro. Tale sfasatura di tempi tra vicende delle relazioni industriali ed eventi del sistema politico rappresenterebbe, secondo Bordogna [1985], una delle anomalie ricorrenti dell’esperienza concertativa italiana, ma starebbe comunque ancora una volta a dimostrare non solo la correlazione fra le due, ma anche la direzione causale di tale

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correlazione: cronologicamente prima avvengono i mutamenti nel campo partitico, e solo successivamente le strutture della concertazione prendono atto e reagiscono di conseguenza.

Ancora una volta, inoltre, la disponibilità sindacale pare essere legata più alla collateralità ai partiti di riferimento, e alla loro collocazione a sostegno della maggioranza o all’opposizione, che non nei risultati realmente ottenuti da tale maggioranza. Cioè nel suo volere, o potere, attuare realmente policies in linea con gli obiettivi del sindacato. Tutto questo fiorire di accordi triangolari, infatti, avrebbe in realtà condotto a ben miseri risultati, principalmente a causa dell’intrinseca debolezza degli esecutivi, nel loro essere formati da maggioranze instabili ed eterogenee [Salvati 2000]. Molti altri accordi, dopo essere stati siglati dall’esecutivo con le parti sociali, incontrarono perciò in sede parlamentare ostacoli tali da non riuscire ad essere tradotti in legge, perdendo così di ogni efficacia [Regalia e Regini 1998]. Nonostante la domanda di concertazione di governi deboli si infrangesse spesso contro la loro impossibilità di controllare la propria maggioranza parlamentare frammentata, tuttavia, per tutto il periodo in cui il PCI rimase vicino all’area di governo i sindacati, CGIL in primis, non rimisero mai in discussione la propria offerta di concertazione.

Questo non significa che, anche in questo periodo e a causa dei mutati rapporti di forza del periodo precedente, una parte del fallimento non fosse addebitabile anche ad influenze di tipo inverso, dai sindacati ai partiti. I governi non erano abbastanza autorevoli da imporre al sindacato soluzioni che questo trovasse inaccettabili; essi erano, nelle parole di Salvati [2000, 456], «deboli nell’assetto istituzionale previsto dalla costituzione, composti da maggioranze instabili e impopolari nel paese, formati da partiti prevalentemente orientati a sinistra –e una sinistra in cui il processo di revisione ideologica che si mise in moto negli anni successivi era ancora ai suoi inizi-, con legami fortissimi con il sindacato». Non stupisce quindi che essi tendessero ad assecondare quel tanto di offerta di concertazione cui il sindacato era disponibile.

Concludendo, si ebbero nel periodo considerato i primi tentativi di dare vita ad un assetto di concertazione simile a quelli nord-europei. Secondo Salvati, la seconda metà degli anni ‘70 rappresenterebbe una tappa importante sulla strada che condusse alla c.d. “concertazione all’italiana”. Le conquiste acquisite in questa fase non sarebbero state più troncate, infatti, in parte forse a causa del sistema politico peculiare. La continua debolezza dei governi e la permeabilità istituzionale dello stato italiano, la mancanza di una netta distinzione tra compiti delle istituzioni e compiti del sindacato e, più in generale, tra pubblico e privato, la presenza in parlamento di forze politiche che assecondano il processo di compenetrazione tra sindacato e istituzioni, metteranno a frutto la grande “rendita” guadagnata col rafforzamento organizzativo degli anni ‘70 in modi impensabili in altri assetti istituzionali caratterizzati da una più nitida distinzione di ruoli. Nella buona sostanza, il sindacato diventa un elemento portante della “costituzione materiale” dell’amministrazione pubblica del nostro paese e la concertazione uno dei pezzi dell’”ideologia italiana” [ivi, 457].

Affinché questi diventassero stabili però, sarebbero occorsi i presupposti messi in luce da Regalia e Regini [1998, 477]: «che tutti gli attori fossero capaci di mantenere nel tempo una logica di scambio generalizzato; che si creasse una base di consenso durevole e diffuso delle parti sociali all’azione del governo; e che questo fosse capace di attuare una selezione degli interessi, di razionalizzare e rendere coerenti i suoi interventi, e di garantire l’attuazione delle proprie decisioni. Queste condizioni non si verificarono […], e si entrò così in una fase di scambio “bloccato”».

Non appena il PCI di Berlinguer dichiarò nel 1980 esaurita la fase della solidarietà nazionale, l’unità sindacale toccò il punto più basso dalla sua nascita. Se pure il sindacato rimase fedele ancora per qualche tempo agli impegni presi negli anni precedenti (almeno sino al Lodo Scotti del 1983), e le condizioni favorevoli alla concertazione tutto sommato non vennero meno, ciò sarebbe tuttavia addebitabile alla tipica sfasatura nei tempi fra mutamenti politici e reazioni sindacali posta all’attenzione da Bordogna [1985], essendo la svolta dell’Eur sopravvissuta a quello che ne era uno degli obiettivi fondamentali: la piena assunzione di responsabilità di governo da parte del PCI. Ma, ancora una volta, è impossibile non registrare come, una volta venuta meno la solidarietà nazionale, i sindacati ritirarono presto gran parte della propria offerta di concertazione. Pur non volendo sminuire, per questo, altre possibili spiegazioni al crollo della concertazione in quel periodo, prima fra tutte lo spostamento dei rapporti di forza fra gli attori intervenuto a partire dalla contemporanea (alla fine del compromesso storico) marcia dei quarantamila, svoltasi nell’ottobre del 1980 a Torino da parte dei quadri Fiat contro le posizioni sindacali.

1984 – 87: Ripresa della conventio ad excludendum e ripresa del conflitto In realtà, secondo Carrieri [1997], sarebbero già stati presenti nel 1983 i germi di quello che

rappresenterebbe il sostanziale fallimento della concertazione, incapace di riprodursi al di là dei buoni risultati di fine anni ‘70 durante il periodo del compromesso storico, ossia al di là delle favorevoli condizioni partitiche. A suo giudizio le parti arrivarono all’accordo del 1983 “riottose”, anche all’interno dello stampo campo dei sindacati tornati a spaccarsi lungo fratture partitiche. Date queste basi, Regalia e Regini [1998] definiscono quella del 1983 come intesa ad hoc, che non vincolava i comportamenti futuri delle parti e non ricercava una particolare

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coerenza. Con tali presupposti non si poterono sviluppare efficaci e coordinate strutture triangolari, e la concertazione tentata dal 1984 produsse la drammatica rottura dell’unità sindacale, oltre a «non accordi» [Carrieri 1997, 9] continuamente tentati. Sarebbe dunque questo un altro caso in cui, seguendo Schmitter e Grote [1997, 186], proprietà associative e caratteristiche del decision-making non co-variano. I tentativi di concertazione infatti continuarono, nonostante la CGIL avesse vistosamente modificato la propria disponibilità a parteciparvi, e nonostante questo fosse avvenuto, ancora una volta, a seguito di mutamenti nei rapporti fra i partiti intervenuti poco prima [Bordogna 1985].

Le elezioni politiche del 1983 segnarono una netta sconfitta per l’egemonia della DC, che perse la guida del governo che deteneva senza soluzione di continuità dal 1945, mentre il PCI aveva visto logorarsi la propria immagine e funzione di cambiamento negli anni della solidarietà nazionale. Il PSI, viceversa, sotto la guida del nuovo segretario Craxi, aveva dato vita ad un profondo processo di revisione ideologica che lo aveva portato a schierarsi su posizioni più moderate e liberiste, e aveva visto incrementati i propri voti alle politiche del 1983. In questa occasione nacque il primo governo a guida socialista, e si entrò in una fase di esecutivi più forti, basati sulla formula politica del pentapartito (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI). Come fa notare Salvati [2000], dunque, era presente sia la domanda di concertazione, che proveniva da esecutivi più forti e attivi, sia l’offerta, questa volta trainata soprattutto da CISL e UIL (oltre che dalla componente socialista della CGIL), cioè da quei settori del sindacato, guarda caso, più vicini ai partiti di governo.

Nel 1984 il governo Craxi propose un nuovo patto triangolare contro l’inflazione. Questa volta, tuttavia, le tre confederazioni si divisero. Dato che la CGIL si rifiutava di firmare, il governo (che poteva contare sul consenso delle altre due sigle e di Confindustria) decise di rendere obbligatorio per tutti il taglio di tre punti della scala mobile per decreto (detto di S. Valentino). Il fallimento del metodo concertativo sarebbe da ricondurre, a detta di Salvati [2000, 458], ancora una volta nel collateralismo partitico. Fallita la solidarietà nazionale infatti, il PCI si lanciò in una strategia di dura opposizione al nascente pentapartito, il che, traslato sul piano delle relazioni industriali, comportò una svolta nel suo atteggiamento nei confronti della concertazione. Questa inversione, dalla ricerca di compromesso a totale irrigidimento, creò seri problemi alla CGIL, «stretta nella tenaglia tra l’atteggiamento del partito (che assecondava pulsioni radicali assai estese all’interno stesso del sindacato) e l’esigenza di perseguire l’unità d’azione colle altre confederazioni» [ibidem, p. 459]. Il dilemma non venne risolto in tempo utile, e nel febbraio 1984 saltarono sia l’unità sindacale, sia il potere di veto sino ad allora goduto dal PCI in materia lavoristica.

Le confederazioni erano a loro volta sotto il tiro di alcuni gruppi interni, che dettero vita al c.d. “movimento degli auto-convocati”. Questi domandavano maggiore democrazia interna, sostenendo che «la politica di contenimento salariale adottata dai sindacati confederali non rappresentava veramente le preferenze dei lavoratori e rifletteva semplicemente i fini privati dei burocrati confederali interessati ad aumentare la propria influenza e visibilità a livello nazionale» [Baccaro 2000, 486]. Il PCI, specie fino alla morte di Berlinguer (il leader già fautore del “compromesso storico”, ed ora, invece, della linea dura), perseverò nella sua opposizione radicale al decreto di S. Valentino, appoggiando gli autoconvocati e promovendo manifestazioni di piazza, un’aspra battaglia parlamentare e, nel 1985, un referendum abrogativo. La CGIL, come di consueto, inasprì a sua volta la propria conflittualità adeguandosi alla linea del PCI, trovandosi però ad inseguire la conflittualità degli auto-convocati sostenuti dal PCI e perdendo in questo modo potere negoziale [Bordogna e Provasi 1998]. Le organizzazioni dei lavoratori si trovarono in difficoltà, quindi, a causa della rinascita dell’interferenza partitica e di una forte crisi di rappresentanza, legata però anch’essa all’insoddisfazione della base per la precedente stagione della moderazione sostenuta dai partiti.

1988 – 92: Crisi della “Prima Repubblica” e ripresa obbligata della concertazione La situazione mutò ancora sul finire della Prima Repubblica. Non c’era solo la pressione dei mercati

finanziari e dei parametri europei allora in fase di definizione, a spingere verso la ripresa della concertazione, ma anche i cambiamenti a quel tempo in corso all’interno del sistema partitico. La condizione più problematica si riscontrava nel PCI, nel quale già da tempo era in discussione, dopo la morte di Berlinguer, la strategia di opposizione intransigente che egli aveva praticato a seguito del fallimento della solidarietà nazionale. In questo scontro interno, già difficile di per sé, si profilò la caduta del muro di Berlino, costringendo il PCI ad un ripensamento profondo e ad una ristrutturazione organizzativa ed ideologica che lo condusse nel corso del suo ultimo congresso, nel 1991, alla nascita del Partito democratico della sinistra (PDS). La nuova formazione nacque con il progetto di proporsi come una forza politica riformista di governo, a prezzo della scissione dell’ala intransigente che diede vita ad un nuovo partito, chiamato Rifondazione Comunista. Quest’ultimo si sarebbe proposto, come il vecchio PCI, quale rappresentanza diretta dei lavoratori in sede parlamentare, al di sopra del sindacato. In tale convulsa successione di laceranti eventi interni, la CGIL venne in pratica lasciata sola al suo destino, e l’influenza del partito sul sindacato allentata.

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I governi tecnici, a partire da quello Amato I del 1992, portarono avanti una forte domanda di concertazione tentando di sopperire con le parti sociali alla debolezza dei partiti. Con DC e PSI travolti da Tangentopoli, e il PCI in piena trasformazione, i governi tecnici privi di legittimazione elettorale tentarono la via della legittimazione sociale attraverso la domanda di concertazione. La crisi dei partiti di riferimento comportò tuttavia anche un allentamento del controllo dei partiti sui sindacati, il che in questo caso comportò la nascita di una seria offerta di concertazione da parte di questi ultimi.

Tale offerta proveniva principalmente da CISL e UIL, le quali erano da tempo disponibili ad una ridefinizione radicale degli accordi del ‘75, ma erano state impossibilitate ad agire dall’opposizione della confederazione maggiormente rappresentativa, la CGIL, adesso invece isolata dai rivolgimenti interni al suo partito di riferimento. Questa, lasciata libera di agire dal “disinteresse” del PCI/PDS, si riavvicinò agli altri sindacati in ottica concertativa, ma per essa non fu comunque un passaggio agevole quello che portò alla disdetta della scala mobile nel 1992: «anche se il partito non soffia[va] più sul fuoco, le componenti radicali interne [erano] assai ostili a quella che [veniva] vista come una resa senza condizioni, ad un vero e proprio diktat di Giuliano Amato che, come capo del governo, conduce[va] le trattative» [Salvati 2000, 462]. L’accordo però passò, e, all’interno della CGIL, i residui dell’antagonismo sociale degli anni ‘70, galvanizzati poi dalla politica berlingueriana degli anni ‘80, vennero sostanzialmente isolati in una pur robusta sinistra interna [ibidem].

Con l’accordo del 1992, si sarebbe comunque ad un punto di svolta nella storia della concertazione in Italia. Questo, infatti, giunse alla fine di un decennio di pressoché totale mancanza di intese triangolari, seguito all’«accordo monco» del 1984 [Regalia e Regini 1998], e segnò quindi una sorta di introduzione [Regini e Regalia 1996] a quella “concertazione all’italiana” [Salvati 2000; Baccaro 1999], caso più tipico del «Sisifo corporatista» descritto da Schmitter e Grote [1997], del “revival del neocorporativismo” [Crouch 1998, cfr. Leonardi 2013].

4. I condizionamenti del sistema politico sulla concertazione nella Prima Repubblica Accornero [1975] proponeva già negli anni ‘70 di individuare quattro fasi nei rapporti fra sindacati e partiti.

Nel primo periodo (1944-53) il rapporto di dipendenza avrebbe accomunato tutte e tre le confederazioni, dopo le scissioni dalla CGIL del 1948-49 avvenute anch’esse su linee politico-ideologiche. Nel clima della Guerra Fredda, quando alle scelte politiche veniva attribuito un valore di “scelte di civiltà”, sembrava quasi naturale che i partiti si vedessero riconosciuto un primato sull’azione sindacale. Oltre che differenziarsi per gli obiettivi e le linee d’azione, CGIL e CISL erano differenti in quanto si richiamavano a diverse tradizioni ideologiche, di cui erano depositari i partiti: è infatti in seno al sindacato marxista che avrebbe conquistato piena legittimità teorica la nota tesi leninista sul sindacato quale ‘cinghia di trasmissione’ della linea politica di classe definita dal partito, mentre la tradizione cui si rifaceva la CISL non contemplava invece una tale subordinazione. La sua natura di sindacato anticomunista, però, la vincolava strettamente al ruolo svolto dalla DC nel sistema politico italiano [Regalia e Regini 1998]. Il tema dell’autonomia sindacale, allora, sarebbe stato a lungo invocato dai sindacati c.d. ‘democratici’ (CISL e UIL), col solo scopo di screditare strumentalmente, dietro l’ambiguo velo della propria presunta apoliticità, l’azione organizzata della CGIL. Questo mentre ormai, esplicitamente, si parlava di ‘collateralismo’ per descrivere i rapporti che anche tali confederazioni intrattenevano con, rispettivamente, DC e PSDI/PRI [Leonardi 2003].

Una simile dipendenza, comunque, non sarebbe stata semplicemente sintomo della collocazione ideologica delle associazioni, bensì pure della loro debolezza organizzativa. A tale debolezza, per quanto riguarda la CGIL, si sommava l’isolamento politico; appariva perciò conveniente, per mantenere lo scarso potere di cui godeva, privilegiare l’unica risorsa che aveva a disposizione, cioè il sostegno del PCI. Questo si pose dunque il compito di concorrere alla costruzione dell’organizzazione sindacale, giungendo a surrogare transitoriamente una presenza in fabbrica che il sindacato non era ancora in condizione di esercitare. Per tali motivazioni, la CGIL accettò di far prevalere obiettivi politici su obiettivi strettamente sindacali, anche se questa scelta non faceva che riprodurre, secondo Regalia e Regini [1998], le condizioni che la rendevano debole, perché aumentava le divisioni tra le confederazioni. Ma se il collateralismo partitico della CGIL poteva garantire ai suoi iscritti solo ‘incentivi di identità’ basati sull’appartenenza ideologica, la CISL traeva dal suo rapporto con il partito di governo una serie di ‘incentivi selettivi’ all’iscrizione (…), quali possibilità di impiego o di carriera nelle aziende pubbliche o nell’amministrazione statale. Il legame con la DC, inoltre, consentiva alla CISL di esercitare una certa influenza sulle scelte governative e parlamentari sui problemi del lavoro o della politica economica, e ancora maggiore influenza sulle strutture burocratiche di diversi ministeri (ibidem).

Nel periodo successivo (1954-61), che Accornero [1975] definisce “anni dell’immedesimazione”, i caratteri di manifesta dipendenza avrebbero poi teso ad attestarsi su un livello di, appunto, immedesimazione, non scevro di qualche primo segnale di parziale emancipazione dalle forze politiche di riferimento. Si tentò un avvicinamento fra CISL e UIL, e, per quanto riguarda i rapporti fra queste due centrali e la CGIL, la CISL avrebbe suggerito allora la formula: “marciare separati, colpire uniti”.

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Gli anni compresi fra la nascita dei primi governi di centro-sinistra e l’esplosione dell’Autunno Caldo (1962-68), invece, segnerebbero una fase di «incubazione» per quella successiva, la più alta del sindacalismo italiano. La fine del periodo più duro della Guerra Fredda, l’apertura a sinistra e la maggiore forza operaia, infatti, consentivano una certa unità d’azione fra le confederazioni, e conseguentemente un’attenuazione dei legami politici. Nella CISL, il collateralismo sarebbe stato contraddetto dalla sua iniziativa sindacale di tipo trade-unionista, che confliggeva con la prassi interclassista dei governi della DC. La CISL scelse dunque la via del political unionism, lottando dall’interno della DC per creare una corrente pro-labour che potesse trasformare il partito [Gentile 2011]. In questo senso la CISL nel periodo d’oro dei sindacati riuscì non solo nel percorso dell’autonomia dalla DC, ma addirittura in un’influenza inversa, dal sindacato al partito [Manoukian 1968; Baglioni 1975]. Deve ricordarsi però del particolare momento storico, quando la prevalenza del sociale sul politico permetteva persino a movimenti del tutto lontani dal sentire della DC, quale quello femminista, di riuscire ad influenzarne le posizioni [Piccio 2013]. A maggior ragione la CISL, di fatto organo del partito, aveva tali possibilità in una congiuntura storico-culturale tanto peculiare.

Quanto alla CGIL, il primo segnale di relativa autonomia venne con la presa di posizione nei confronti dei tentativi di programmazione promossi dal centrosinistra: mentre il PCI votò contro, i suoi parlamentari della CGIL si astennero [Regalia e Regini 1998]. Una parziale indipendenza, dunque, che tuttavia sembrava ad Accornero [1975] dover regredire verso forme più arretrate di riconfigurazione del pluralismo sindacale. Come in occasione dell’unificazione fra PSI e PSDI (1966-68), cui si sarebbe voluto dar seguito con la nascita di un “sindacato socialista”, frutto dell’unificazione fra UIL e componente socialista della CGIL. Si sarebbe trattato insomma della riedizione di un tentativo risalente all’”accordo laico” del 1962 fra PSI, PSDI e PRI, volto ad accelerare lo sganciamento politico dei sindacalisti socialisti della CGIL dalla corrente comunista. Un’ipotesi che, oltre ad essere bocciata dai segretari socialisti della CGIL, sarebbe stata un tentativo di ripristinare dinamiche di controllo partitico in una fase in cui andava invece maturando un orientamento in direzione opposta [Leonardi 2003].

Gli anni 1969-79 rappresenterebbero poi gli “anni della dialettica” tra partiti e sindacati [ibidem], in cui le confederazioni si presero, durante l’Autunno Caldo, la loro più ampia autonomia, per poi ricadere, pur in forma più attenuata, sotto il controllo politico. In tale periodo il sindacato, in quanto movimento, assunse un ruolo direttamente politico, che andava a scavalcare gli stessi partiti [Lange 1979; Alberoni 1979]. Conseguenza di ciò sarebbe stata, nel 1969, la decisione di incompatibilità tra cariche sindacali e cariche politiche, e la prima reale discussione a proposito dell’unità sindacale: su questi nuovi presupposti strategici prese il via, fra il 1970 e il 1972, il processo che avrebbe portato ad un passo dall’obiettivo unitario. Fu tuttavia nella UIL, attraverso l’alleanza di repubblicani e socialdemocratici, che l’ostruzionismo contro tale ipotesi si sarebbe rivelato esplicito e decisivo. Nel 1972 i tre consigli generali unitari ratificarono quindi la nascita non del sindacato unitario, bensì di ciò che era stato concepito come la second best solution: la Federazione CGIL-CISL-UIL; ma in ogni caso si sarebbe trattato, come nota Baglioni [1998], di una «unità sindacale di fatto».

Inizialmente i partiti avrebbero sostenuto la lotta “pan sindacalista”; anzitutto il PSI, che vi avrebbe trovato una continuità con la politica di riforme da esso inutilmente perseguita negli anni ‘60 [Alberoni 1979]. A partire dal 1973, tuttavia, si sarebbe assistito ad una ripresa di controllo da parte dei partiti. Nel momento in cui gli effetti politici dell’azione sindacale divennero rilevanti, e il mantenimento di un forte potere contrattuale incompatibile con gli equilibri macroeconomici, avrebbero acquisito progressivamente peso, a giudizio di Cella [1979], i richiami ai ranghi da parte dei partiti di riferimento. Il PCI prese ad avanzare critiche ad una “lotta per le riforme” che non diventasse una “politica delle riforme” condotta dai partiti, ed anche la DC, timorosa di perdite elettorali verso sinistra e di conseguenti sconvolgimenti interni, si mosse in questa direzione. Inoltre, una volta che gli accordi stipulati con l’esecutivo venivano trasformati in disegni di legge, il potere dei partiti tornava a farsi sentire: in questa fase gli interessi colpiti dalle intese sarebbero riusciti ad esercitare la loro attività di lobbying sui partiti stessi, affinché questi ponessero emendamenti e veti in sede di dibattito parlamentare. Da ultimo, la mobilitazione sindacale non si sarebbe tradotta direttamente in mutamenti sul piano elettorale, come mostrerebbero le elezioni del 1972. Ciò avrebbe tolto alle organizzazioni del lavoro una potente arma di pressione nei confronti dei partiti, che avrebbero riacquisito in questo modo il loro primato di agenti di mobilitazione [Regalia e Regini 1998].

Tuttavia fu soprattutto l’avvicinamento del PCI all’area di governo, specialmente nel periodo della “solidarietà nazionale” (1976-78), a togliere spazio all’autonomia sindacale. Questo avrebbe infatti costretto i sindacati a ridurre il “globalismo rivendicativo”, ad evitare scioperi politici puramente dimostrativi, ad astenersi dal mettere in discussione la politica economica di governi di cui “fanno parte” i partiti pro-labour. Il mercato politico tornò a prevalere su quello contrattuale: per la CISL l’obiettivo sarebbe stato quello di non far precipitare irrimediabilmente il potere democristiano, per la CGIL quello di favorire la partecipazione di un partito pro-labour come il PCI ai governi delle larghe intese e del compromesso storico [Cella 1979]. Su tale sentiero si porrebbe la

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Svolta dell’Eur del 1978, nella quale l’intera Federazione CGIL-CISL-UIL si propose di ripensare il tema dell’autonomia ‘da’ (i partiti) in termini di autonomia ‘per’ (fare qualche cosa: per riformare il paese). Quel nuovo orientamento strategico avrebbe suscitato l’opposizione dei settori più radicali del movimento sindacale, che denunciavano la nuova tendenza alla moderazione rivendicativa ed il rischio di quella che consideravano, negativamente, una deriva neocorporativa. Quella improvvisa disponibilità sui salari sembrava, a tali settori, un mero riflesso del compromesso storico, e dunque un clamoroso abbandono dell’autonomia sindacale dai partiti [Leonardi 2003].

Il ritorno del PCI all’opposizione non avrebbe fatto che accentuare il predominio dei partiti: la rinnovata conflittualità e la divaricazione dei ruoli fra i maggiori partiti della sinistra (che si auto-propongono rispettivamente come unici rappresentanti dell’opposizione e come garanti della governabilità) favorisce le spinte latenti alla divisione fra confederazioni sindacali lungo linee più apertamente politiche ed ideologiche. (…) L’accordo triangolare del gennaio 1983, che viene concluso nonostante le ovvie perplessità di un partito comunista all’opposizione, sembrerebbe segnalare una nuova autonomizzazione della logica di sviluppo delle relazioni industriali dalla logica dei partiti. Tuttavia, è proprio a partire da questo accordo che il predominio dei partiti sui sindacati si accentua ulteriormente [Regalia e Regini 1998, 472].

Questo perché l’accordo restringeva l’area di rappresentanza organizzata ai soli occupati, comportando, come conseguenza, una rivalutazione dei canali partitico-parlamentari quali destinatari della pressure politics delle altre categorie (pensionati, precari…). Sarebbero le differenti posizioni confederali emerse rispetto all’intesa di S. Valentino del 1984, però, a poter essere spiegate come riflesso diretto della divisione tra i partiti. La rilevanza simbolica che questi annettevano all’accordo, ancor più che i suoi contenuti, sarebbe d’altronde dimostrata dalla decisione del PCI di promuovere un referendum abrogativo contro il decreto che lo recepiva. Sul contenuto economico di questi patti avrebbe dunque prevalso quello simbolico di scambio di legittimazione fra una parte degli interessi organizzati ed il governo, ed obiettivi squisitamente politici sarebbero tornati a prevalere all’interno di culture sindacali che non si confrontavano più, o non principalmente, sui contenuti della contrattazione [Regini 1991]. Le vicende legate al decreto di S. Valentino segnarono, quindi, la fine della Federazione unitaria CGIL-CISL-UIL, a soli dodici anni dalla sua nascita.

5. L’esclusione del PCI e il sistema della concertazione All’interno del sistema politico italiano della Prima Repubblica, e dei suoi condizionamenti sulle pratiche

concertative, ha assunto un peso del tutto peculiare l’esistenza di un partito comunista in grado di esercitare un’influenza, dentro la classe operaia e in seno al movimento sindacale, sconosciuti in tutti quei paesi in cui tale ruolo era stato assunto da partiti di ispirazione socialista e socialdemocratica [Panitch 1979]. Non si tratterebbe solo di diversità ideologiche (interdipendenza degli interessi contro conflitto degli interessi), ma anche del diverso grado di legittimazione che un partito socialdemocratico può possedere all’interno di una moderna democrazia liberale occidentale, contrariamente ad un partito comunista considerato, più a torto che a ragione, anti-sistema. In Italia la questione comunista comportava l’esclusione di una quota piuttosto consistente dell’elettorato, e sarebbe stata quindi il caso paradigmatico di quella tendenza che vedrebbe, nei paesi in cui i partiti maggiormente rappresentativi della classe operaia non sono stati positivamente integrati nel sistema politico, uno sviluppo molto meno accentuato delle pratiche neocorporative [Lange 1979].

Le motivazioni dell’andamento peculiare della concertazione italiana andrebbero quindi rinvenute nelle fratture partitiche e ideologiche che, agli inizi della Guerra Fredda, avrebbero prodotto la scomposizione politica del movimento sindacale, definendone gli assetti pluralistici che tuttora permangono [Leonardi 2003]. La dipendenza sindacale dagli eventi che si verificano in campo politico, soprattutto quando ad essere coinvolto era un partito pro-labour come il PCI, sarebbe dunque un carattere distintivo delle relazioni industriali del nostro paese. Notissimi casi nazionali come quelli scandinavi testimoniano della possibilità di esperienze sindacali forti ed altamente significative associate a livelli di conflittualità assai modesti, se non del tutto trascurabili. Ma in un contesto come quello italiano, affrontare il discorso del conflitto industriale e dei suoi tentativi di regolazione significa mettere sul tappeto il problema più ampio del ruolo e del potere del sindacato nel sistema politico e sociale [Bordogna 1985, 175].

Risulta dunque interessante chiedersi in che misura l’azione conflittuale dei sindacati sia spinta da motivazioni prettamente utilitaristiche-economiche, e in quale piuttosto sia un riflesso di appartenenze politiche. Hibbs [1976; 1977] ritiene che governi vicini al movimento operaio riescano a scoraggiare con successo il conflitto industriale in quanto rispondono alle domande economiche della loro base. A causa di ciò che fanno, quindi, e non di ciò che sono, otterrebbero dai lavoratori pace sociale. Questo comporterebbe che anche partiti non legati al lavoro organizzato potrebbero ottenere analoghi risultati, qualora adottassero simili politiche rispondenti agli interessi economici di quest’ultimo. La classe operaia dunque, nell’analisi di Hibbs, aspirerebbe non alla partecipazione politica in quanto tale, bensì semplicemente alle conquiste economiche che essa procura, con una prevalenza della rappresentanza virtuale su quella diretta.

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Golden [1985], però, nota piuttosto come la classe operaia italiana sia sempre stata caratterizzata da forte identità di classe, e come questo fatto sia intimamente legato al richiamo della rappresentanza diretta. Nonostante le spese di welfare siano state in qualche misura maggiori sotto i governi di centrosinistra che sotto quelli centristi, infatti, in Italia l’espansione dello stato sociale non è stata un fenomeno di sinistra, bensì promossa dalla DC con l’esplicito scopo di ricerca del consenso e contenimento del conflitto [Lastrico 2013a]. Nondimeno, tale redistribuzione non avrebbe affatto contenuto il conflitto industriale, neppure con l’entrata nel governo del PSI. La conflittualità avrebbe cominciato a scendere solo nel 1976, data alla quale i socialisti erano invece fuori dal governo, ed era in corso l’esperimento di solidarietà nazionale con il PCI.

L’emergere di un moderno welfare state non sarebbe dunque stato sufficiente al raggiungimento della pace sociale, in quanto la mancata legittimazione del PCI a livello di sistema avrebbe esercitato un effetto di politicizzazione ed intensificazione del conflitto. I mutamenti economici potrebbero dunque essere inadeguati a ridurre l’attività di sciopero, se non sono accompagnati da cambiamenti sostanziali nella composizione politica dello Stato. L’elevata intensità conflittuale italiana porta dunque Golden [1985] a ritenere che gran parte della militanza avesse carattere politico, di attaccamento affettivo al partito di classe escluso dal potere, di modo che un partito pro-labour quale il PCI potrebbe essere stato valutato non solo per quello che faceva, ma soprattutto per ciò che rappresentava. I partiti di centro potrebbero anche rispondere a tutte le domande del movimento operaio, quindi, ma sarebbero impossibilitati a rispondere alla sua richiesta più radicata: la partecipazione diretta al sistema politico; e, proprio a causa di ciò, non sarebbero in grado di convincere il lavoro organizzato a moderare le sue lotte.

Una conferma a tale teoria deriverebbe dall’effettivo sviluppo di pratiche concertative proprio nel periodo in cui, seppur in maniera particolare, il PCI venne ammesso all’area di governo. Fino a quel momento, il centrismo aveva dominato il sistema politico del nostro paese, e la fase della solidarietà nazionale avrebbe allora rappresentato un’indubbia novità per un sistema polarizzato, senza per questo far venire meno la distanza tra PCI e altri partiti. La società italiana non sarebbe quindi passata ad una fase di spoliticizzazione, se con questo termine si intende stemperamento dei conflitti deideologizzazione. Graziano [1979] scorgerebbe dunque, nel compromesso storico, qualcosa di simile ad una soluzione di stampo consociativo, con accordo al vertice e non spoliticizzazione della base. Avrebbe infatti qualcosa in comune con il modello di Lijphart [1968], il quale si riferisce a larghe maggioranze di governo che violano il principio dell’alternanza, ritenuto dirompente in società ad alta conflittualità, ideologicamente divise ma stabili grazie all’accordo di élites pragmatiche. Graziano si spinge poi a cercare un parallelo fra la stessa democrazia consociativa e l’altro fenomeno sviluppatosi, proprio a causa dell’inclusione del PCI, nel periodo di solidarietà nazionale: il neocorporativismo. I due modelli avrebbero in comune la convinzione che vi sia una forte interdipendenza fra gli interessi dei gruppi in conflitto; nelle parole di Lehmbruch [cit. in Graziano 1979, 731]: In entrambi (consociazione e neocorporativismo) bargaining e log-rolling servono a conciliare gli interessi contrastanti di gruppi altamente compatti, interessi che non possono aggiustarsi attraverso la competizione elettorale e procedure maggioritarie. Il potere di contrattazione è concentrato nelle mani dei leader al più alto livello. Mentre il consenso pragmatico è altamente sviluppato nelle élites, c’è poca comunicazione ai livelli più bassi.

Vi sarebbero però anche importanti differenze: la consociazione sarebbe nata per mediare al vertice le profonde divisioni della società, ma tali cleavages non investirebbero il conflitto di classe, a cui il modello non sarebbe in grado di far fronte. La consociazione sarebbe infatti stata pensata in rapporto ai conflitti culturali, che avrebbero una dinamica differente da quella dei conflitti di classe. Inoltre, secondo Graziano, il modello confonderebbe le divisioni di una società con il loro potenziale di conflitto: «è tutto costruito sulle ‘tendenze disgregatrici’ di società che di fatto oggi sono poco conflittuali». I paesi analizzati da Lijphart sarebbero dunque caratterizzati da cleavages storici di natura subculturale, e insieme da una forte attenuazione della lotta di classe. Starebbe qui la differenza principale fra il compromesso storico e le democrazie consociative: in queste ultime vi sarebbe un accordo di fondo fra le varie componenti subculturali su quello che deve essere l’assetto sociale, politico ed economico, in altre parole una spoliticizzazione delle divisioni. Nel caso italiano di fine anni ‘70, invece, non si trattava di integrare diversi gruppi, frazionati su base etnica o religiosa ma concordi sull’assetto statale, bensì un partito comunista considerato antisistema ed il “suo” sindacato di classe politicizzato, che perseguivano un mutamento radicale della società. Il sostegno parlamentare del PCI, ed i patti triangolari che ne sarebbero una delle conseguenze, avrebbero quindi creato, per un breve periodo, procedure di policy making consensuale. Questo sarebbe stato però tutt’altro che pacifico e spoliticizzato, come esigerebbe invece, secondo Graziano, il modello di Lijphart. Sarebbe per questa ragione che gli anni compresi fra il 1976 ed il 1979 avrebbero inaugurato una prassi di consociativismo politico e di concertazione legislativa, che tuttavia non si sarebbe sedimentata in assetti durevoli e formali di confronto fra l’attore pubblico e le parti sociali [Leonardi 2003], ma sarebbe anzi prontamente terminata non appena il quadro delle “alleanze” partitiche è mutato.

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6. La Seconda Repubblica Cause e caratteristiche della “nuova concertazione” Dall’epilogo del 1992 in avanti, le intese tra governo e parti sociali si sarebbero chiamate patti sociali, e

avrebbero avuto ad oggetto precipuo un altro genere di problemi, piuttosto che l’inflazione, come «concertazione del riaggiustamento industriale» [Regini 1991]. L’Italia sarebbe addirittura una sorta di caso tipico del nuovo corso degli anni ‘90, tanto da far parlare, appunto, di “concertazione all’italiana”, diversa dalla classica “concertazione alla scandinava”. Dall’altra parte, però, la situazione del nostro paese presenterebbe anche peculiarità piuttosto spiccate [Cella e Treu 1998b]. Ciò dipenderebbe dalla particolare situazione politica che venne a delinearsi nella prima metà degli anni ‘90. Il quadro partitico ereditato dal dopoguerra repubblicano, che nel ‘44 aveva posto le condizioni per la rinascita del sindacato in Italia, fu letteralmente squassato dalle vicende interne (Tangentopoli) ed internazionali (caduta del muro di Berlino) di quegli anni. Sarebbe possibile distinguere in realtà due diversi livelli della negoziazione, centrale e territoriale, figli di rispettivi periodi. Il primo, in piena fase di transizione fra “Prima” e “Seconda Repubblica”, vide una ripresa della contrattazione centralizzata, ma insieme l’istituzionalizzarsi di varie forme di decentralizzazione. Il primo fattore, nato sulla scia dell’accordo del ‘92, sarebbe dovuto proprio alla debolezza sia dei governi tecnici di transizione, in cerca di legittimità, sia degli altri attori, che dovettero quindi appoggiarsi l’uno all’altro [Salvati 2000, 464] governando l’economia tramite accordi reciproci [Bobbio 2000; Carrieri 2003a]

Questa intrinseca debolezza del sistema politico nazionale, però, fu causa anche del diffondersi di patti a livello territoriale e settoriale, che venivano a supplire all’instabilità proveniente dal centro. Nel nostro paese dunque, la tendenza al decentramento propria del decennio precedente, anziché venire a mancare con la nascita della nuova concertazione, ricevette nuova linfa dalla particolare situazione. In questa fase, quindi, i due livelli centrale e periferico convissero. In quello che potrebbe essere il secondo periodo poi, vale a dire quello della stabilizzazione del “nuovo regime”, i patti sociali conobbero il loro momento più alto e divennero la prassi, ma non per questo quelli territoriali calarono di frequenza, grazie anche al loro successo nei distretti industriali della c.d. “Terza Italia” [Trigilia 1986].

Così, se a livello nazionale i sindacati acquisirono una certa indipendenza dovuta alla crisi dei loro partiti di riferimento (PCI per la sua trasformazione, DC e PSI perché travolti da Tangentopoli), e anzi vennero a supplire alla debolezza e mancanza di legittimazione sia istituzionale sia a maggior ragione partitica [Regini 1999, 21], non così accadde localmente, dove invece i patti territoriali spostarono al livello territoriale il collateralismo con i partiti soprattutto nelle zone a subcultura politica omogenea dove più forte rimaneva la pervasività dei partiti [Trigilia 1986]. Collateralismo che, tuttavia, assume in questo frangente una connotazione molto più bilanciata fra i poteri dei partiti e quelli dei vari gruppi di interesse, sindacati compresi. Con l’avvento dei patti territoriali infatti, secondo Pichierri [2001, 249], il lavoro organizzato assume, anche a livello locale, un vero e proprio status parapubblico, per quanto paiano essere sempre logiche politiche a determinare il consolidamento o meno di tali esperienze [Sparano e Vesan 2009]. Uno degli effetti di tangentopoli è stato quello di modificare l’architettura istituzionale a livello locale rompendo o indebolendo le relazioni di natura verticale tra istituzioni centrali e istituzioni periferiche. Le periferie sono rimaste, a seguito della scomparsa o del ridimensionamento dei grandi partiti nazionali, con un interlocutore a livello centrale drasticamente ridimensionato nei suoi poteri e nella sua legittimità; è venuto meno, per le classi dirigenti locali, il punto di riferimento politico e l’intermediario dei flussi finanziari. Il vuoto istituzionale creato da tangentopoli si è così rivelato […] condizione favorevole all’instaurazione di relazioni orizzontali fra attori politici e sociali [Cersosimo e Wolleb 2001, 372].

Tornando al livello nazionale, dal “terremoto” che investì l’intero sistema partitico con Tangentopoli, i sindacati, secondo Leonardi [2003], uscirono non solo indenni, ma persino accresciuti nella loro autorevolezza e legittimazione politica, riprendendo quel “ruolo politico del sindacato” [Carrieri e Donolo 1986; Cella 1999] che avevano avuto solo nell’altro grande periodo di crisi dei partiti, vale a dire negli anni successivi al ‘68. Al vuoto politico di quella fase lo strumento concertativo, retto essenzialmente da un inedito ruolo delle parti sociali e da un loro «pieno di potere politico» [Accornero 2003, 234], consentì di «supplire parzialmente affiancando, se non addirittura surrogando, i luoghi e le procedure canoniche della decisione politica. Un protagonismo che si manifesterà in tutto il suo vigore in occasione dello sciopero generale e delle manifestazioni contro il Governo Berlusconi nell’autunno del 1994, che ne prepareranno la caduta» [Leonardi 2003, 68-69]. Su tale giudizio sui rapporti di forza finalmente a favore dei sindacati nei confronti dei partiti, tuttavia, non concordano né Salvati [2000, 467] né Carrieri [1995; 1997, 94-95], i quali notano viceversa come, guardando agli indici di densità organizzativa e partecipazione sindacale, i sindacati degli anni ‘90 fossero deboli e dunque bisognosi di aggrapparsi ad altri soggetti. Sia come sia, la breve stagione della concertazione all’italiana avuta nella Seconda Repubblica quando al governo si trovava il centrosinistra, sarebbe comunque caratterizzata, soprattutto rispetto a quanto avvenuto prima (con la dipendenza diretta partiti-sindacati nella Prima Repubblica) e a quanto avvenuto

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dopo (con la quiescenza dei sindacati legata alla corrispondente ritiro dei partiti di fronte alle necessità “tecniche” di risanamento nella fase dal 2011 in avanti), da una strategia sindacale improntata all’autonomia relativa dall’azione politica dei partiti e del Parlamento, e anzi ad una rappresentanza degli interessi che sfuma sempre più nella sfera della tradizionale rappresentanza politica generale (si pensi a tematiche come quelle fiscali o del welfare), in sostituzione di partiti deboli [Leonardi 2013].

1992 – 96: La concertazione come scelta obbligata dalla debolezza degli attori Del dibattito fra gli studiosi circa la debolezza ed il bisogno di concertazione dei sindacati si è già discusso

nel precedente paragrafo. Ciò che importa sottolineare ora è l’offerta sindacale che veniva dalla rimozione del collateralismo con i partiti, a sua volta causa della divisione delle confederazioni. L’ex PCI stava attraversando un periodo critico, DC e PSI erano scomparsi e, per la prima volta dai tempi del CLN, «i partiti cui le confederazioni facevano riferimento stavano tutti dalla stessa parte, al governo, salvo il breve periodo del governo Berlusconi, in cui stavano tutti all’opposizione: un periodo ideale dunque per una politica neocorporativa. E non sorprende che proprio allora tornasse sull’agenda un vecchio sogno del movimento sindacale italiano, quello della (ri)unificazione del sindacato» [Salvati 2000, 467].

Il Protocollo d’intesa sul lavoro del 1993 sembrò rappresentare un momento di svolta nel modo di fare concertazione in Italia [CNEL 2004], prevedendo una struttura stabile per il sistema della contrattazione e della rappresentanza, dominati fino ad allora dall’incertezza e instabilità delle situazioni politiche congiunturali [Carrieri 1997]. Sembrò soltanto, tuttavia, perché invece, come si vedrà, rimarrà sostanzialmente lettera morta e il ricorso alla concertazione (dal lato della domanda ma anche dell’offerta) continuerà a rimanere incerto e instabile a seconda del ciclo politico [Regini 1984].

Ad ogni modo, è innegabile come, sul momento, tale accordo sia stato reso possibile, dal lato dell’offerta, da uno storico allentarsi dei rapporti fra partiti in crisi e sindacato, e da quello della domanda da un governo tecnico, più “neutrale” rispetto ai partiti ma insieme più bisognoso del consenso delle parti sociali. Sul primo versante Carrieri [1997, 10-11] vede la nascita di una linea sindacale cooperativa e riformista, che avrebbe soppiantato le due in precedenza preponderanti: quella dell’accordo ad ogni costo e quella che rifiuta l’accordo in ogni caso. La prima sarebbe radicata nei gruppi dirigenti degli ex sindacati “governativi” (CISL e UIL) e alimentata dal rapporto privilegiato con i vecchi partiti di governo, e sarebbe stata quindi ridimensionata dalla crisi di questi ultimi. La seconda invece, diffusa nella base operaia settentrionale, sarebbe stata catalizzata, più che da settori della CGIL vicina ad un ex-PCI in piena trasformazione moderata, dal partito della Rifondazione Comunista. Nelle confederazioni vi sarebbe stato quindi più spazio per una cultura «meno dipendente dai partiti, e in grado di far emergere la faccia innovativa, e non semplicemente adattiva, dei sindacati».

Ovviamente non bastava però che il Protocollo avesse istituzionalizzato la concertazione, ma era necessario che fossero gli attori stessi a considerare tale concertazione un metodo da non rimettere in discussione ad ogni mutamento della congiuntura politica o dei rapporti di forza. E in questo senso lasciava ben presagire la «richiesta formalmente avanzata dalla Confindustria al Capo dello Stato prima delle elezioni del 1994, che la coalizione vincente si impegnasse a mantenere in vita l’accordo triangolare dell’anno precedente» [Regalia e Regini 1998, 482-483].

Già l’anno successivo, tuttavia, il peso delle posizioni partitiche sulle strutture della concertazione sarebbe tornato a frustrare simili rosee aspettative, a causa dell’avvento di un nuovo partito, Forza Italia, e soprattutto del suo leader Berlusconi, che non solo avrebbe riempito il vuoto politico lasciato dalla crisi della Prima Repubblica, ma anche comportato una nuova forte politicizzazione polarizzata (lungo l’asse pro Berlusconi / vs Berlusconi) e altrettanto pervasiva di quella della Prima Repubblica, che avrebbe influenzato il funzionamento del paese in tutti i suoi aspetti, a partire da un campo, come quello sindacale, già di per sé propenso alla politicizzazione. La coalizione vincente nel 1994 fu proprio quella guidata da Berlusconi, che, sul tema pensionistico, avrebbe rispettato la forma ma non la sostanza del Protocollo [Carrieri 1997, 22], scatenando una forte ondata di conflitto sindacale. A parte il metodo indiscutibilmente autoritario del nuovo governo, è difficile non vedere come, anche nella Seconda Repubblica, tornino ad affacciarsi strategie sindacali dettate dall’appartenenza politica. In particolare, la nuova vicinanza politica delle tre confederazioni con i partiti dell’opposizione di centrosinistra «dà particolare impeto e decisione alla mobilitazione sindacale, nonostante che le proposte di riforma elaborate dai sindacati non siano profondamente lontane da quelle del governo» [Regalia e Regini 1998, 481].

Nel 1995 al governo di destra subentrò un nuovo governo tecnico guidato da Dini, che, fra i quattro punti del programma da completare prima delle elezioni anticipate, aveva proprio la riforma delle pensioni fallita da Berlusconi. Fu intavolata una vera e propria trattativa governo-sindacati, che prese quale punto di partenza il progetto elaborato dalle confederazioni e si concluse con un accordo bilaterale. Più difficile in questo caso dire quanto abbia giocato il collateralismo partitico. Diversi, rispetto al governo precedente, erano infatti sia il metodo (concertato e non imposto) sia il contenuto della riforma (più graduale), e non solo la maggioranza che lo

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sosteneva (centrodestra nel primo caso, appoggio esterno del PDS nel secondo). Magari non in maniera determinante, quindi, ma tuttavia ancora una volta si muovono nella stessa direzione la composizione della maggioranza parlamentare e la disponibilità dei sindacati. È vero, come nota Somaini [1998, 397-398], che da quel momento in avanti tutte le principali misure di finanza pubblica sarebbero state accompagnate da sistematici confronti a livello centrale con le confederazioni sindacali, «in un quadro di concertazione neocorporativa che ha caratterizzato l’azione di tutti i governi, sia di quelli “politici” (Prodi), sia di quelli “tecnici” (Ciampi e Dini), sia di quelli “misti” (Amato); la sola eccezione è rappresentata dal governo Berlusconi, la cui caduta alla fine del 1994 fu dovuta anche all’avere cercato (o non saputo evitare) lo scontro con i sindacati sulla riforma pensionistica». È anche vero, però, che tutti i governi citati come virtuosi nella ricerca del consenso, siano essi “politici”, “tecnici” o “misti”, erano sostenuti dal principale partito del centrosinistra, a differenza dell’unica eccezione.

1996 – 98: Per la prima volta la sinistra al governo, per la prima volta oncertazione all’italiana La situazione volse ancor di più dal lato della concertazione dopo le elezioni politiche anticipate del 1996.

Con la nuova regola maggioritaria, sembrava alle porte anche in Italia la normale alternanza propria dei regimi democratici, e, dopo il primo governo di destra del dopoguerra (e un’ulteriore periodo di governo tecnico), si costituì un esecutivo di centrosinistra. Il Governo dell’Ulivo in Italia visse i suoi primi anni di tumultuosa maturazione, anche grazie ai rapporti privilegiati con il sindacato. Le tre confederazioni si ritrovarono più unite che mai, legate tutte a partiti che militavano nella stessa coalizione governativa: un terreno ideale per la concertazione.

Il primo atto di questa nuova fase ebbe luogo con il Patto per il lavoro, firmato nel settembre 1996 e incorporato poi nella “legge Treu” del 1997. Questo avrebbe segnalato la volontà, anche sindacale, di innovare la gestione del mercato del lavoro in direzione della flessibilità. Nel patto prese corpo la riforma del collocamento: il superamento del monopolio pubblico, il decentramento istituzionale, la parziale apertura ai privati, il lavoro interinale. Tutte questioni che incidono profondamente sulla natura e la cultura stessa del sindacato, e che difficilmente sarebbero state accettate se le avesse proposte un governo sostenuto da una maggioranza differente, come la riforma Biagi di qualche anno dopo sta a dimostrare.

Nel novembre del 1997 venne poi raggiunta quella che l’allora presidente del Consiglio definì “una storica intesa” sulle pensioni tra governo e sindacati, ossia Il c.d. “accordo di Ognissanti”, che accelerava il percorso di riforma del ‘95. Tale fiorire di accordi avrebbe reso l’Italia, contrariamente al suo passato, caso paradigmatico della ripresa della concertazione negli anni ‘90. Ciò ha scatenato in molti analisti un entusiasmo troppo precoce sul fatto che il nostro paese fosse passato ad essere, improvvisamente, un New Competitive Corporate Regime [Rhodes 2001; 2003; Regalia e Regini 2004; Regini e Regalia 1997], mentre nel volgere di pochi anni fu evidente che la nuova struttura della concertazione era tutto fuorché stabile e istituzionalizzata, ma unicamente frutto di un ricorso episodico a seconda delle congiunture partitiche. Il sistema di intermediazione degli interessi frammentato in un miscuglio patologico di pluralismo e consociativismo, come lo definisce Pizzorno [1993], non sarebbe affatto venuto meno con l’avvento della Seconda Repubblica e la nascita della (momentanea) concertazione all’italiana si sarebbe tutt’altro che stabilizzata, come dimostra la subitanea crisi di quest’ultima non appena il centrodestra si avvicendò al centrosinistra alla guida del paese [Molina e Rhodes 2007; Regini e Colombo 2011]. Nella Seconda Repubblica si trovano quindi molte più fasi e oscillazioni fra “febbrile attività concertativa” e aperto conflitto [Cerruto e Facello 2013, 79], ma proprio perché vi sono molte più fasi politiche: si scopre l’alternanza di governo, e con essa l’alternanza tra fasi di concertazione e di chiusura.

Ma intanto, nel breve periodo del suo funzionamento, cosa comportò il fiorire della concertazione quanto al rapporto fra partiti e sindacati? Secondo Salvati [2000, 468-469], nell’incertezza di attribuzioni che prevaleva in questa fase, la colonizzazione degli apparati pubblici sarebbe stata, per il sindacato, «estremamente agevole», soprattutto per la CISL che iniziò a rivendicare il diritto del sindacato a istituzionalizzare la propria partecipazione alle scelte del governo del centrosinistra. La CGIL sarebbe stata invece per una più netta distinzione di ruoli, tanto da indurre in quel periodo il suo leader, Cofferati, a scrivere un libro in cui si esortano partiti e sindacati a fare ciascuno il proprio mestiere [Cofferati 1997]. Curioso, vista l’avventura politica vissuta dallo stesso segretario negli anni successivi2. Terzi [2003b, 92] liquida come retorica tale resa di posizione dell’allora leader CGIL: «L’autonomia non è la delimitazione di diverse “aree di competenza” (a ciascuno il suo mestiere), ma è la dialettica che si svolge tra soggetti diversi, con funzioni diverse, sul medesimo terreno, sul terreno della società e della sua organizzazione». E ciò che sarebbe mancato, nel sindacato, sarebbe stato proprio una dialettica paritaria con i partiti.

2 Analizzando la fase del governo Berlusconi II, Terzi [2003b, 91] disse: «se guardiamo poi alla situazione attuale, è chiaro che il potere di condizionamento dei partiti politici è quasi nullo, e anzi sembra esserci un processo opposto, una capacità di pressione politica da parte dei dirigenti sindacali, come dimostra in tutta evidenza la vicenda sindacal-politica di Sergio Cofferati».

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1998 – 2001: Dissidi fra i partiti di maggioranza e crisi della nuova concertazione Già durante gli ultimi anni dei governi di centrosinistra, comunque, il momento d’oro della ristesura del

patto sociale negoziato sembrava avviato al termine. Nei sindacati iniziò ad incrinarsi quell’unità d’azione tanto inusuale e feconda sperimentata a partire dall’inizio del decennio. Ciò sarebbe dovuto in primo luogo ai dissidi nati all’interno della maggioranza di centrosinistra, per cui non era più così scontato che i partiti cui le confederazioni facevano riferimento avrebbero dovuto sempre essere parte dello stesso schieramento politico. Ad essere maggiormente insofferente era la CISL, in particolar modo attraverso il suo segretario D’Antoni. Insofferente non solo nei confronti dell’unità d’azione con la CGIL, ma dello stesso schieramento di centrosinistra. Non a caso quando lo stesso D’Antoni, dismesso l’abito di sindacalista, scese in politica in vista delle elezioni politiche del 2001, non lo fece nelle file di un partito dell’Ulivo, bensì con un proprio progetto politico indipendente che, riscossi esigui risultati, confluì in seguito nel vincente schieramento di centrodestra (salvo poi, negli anni successivi, aderire al PD).

Già nel corso del biennio 1997-98, comunque, gravi fattori di perturbazione provennero anche dalla sinistra della coalizione, che derivavano dalla presenza di un partito come Rifondazione Comunista nell’ambito della maggioranza di governo [Leonardi 2003]. Riconoscendo quella che era la debolezza dell’autonomia del sociale, Rifondazione mirò ad assumere in presa diretta la rappresentazione di classe degli interessi del lavoro dipendente, e lo scambio neocorporativo divenne il principale ostacolo a questa strategia. Poiché al tavolo concertativo il mondo del lavoro non avrebbe avuto da guadagnare che beni meramente simbolici, soprattutto in termini di riconoscimento e di legittimazione delle leadership sindacali, il partito traspose nell’arena politica il conflitto sociale, provando ad usare tutto il potere di interdizione di cui in questa fase era dotato. Il fatto che vi fosse una sorta di quarta confederazione che, in virtù del suo potere politico-parlamentare, firmava “accordi separati” col Governo, fungendo da seconda istanza di giustizia in cui validare o revocare gli esiti del processo concertativo, fu vissuto dai sindacati come inaccettabile. Questi temevano di vedere appannato il proprio ruolo da una dinamica in cui l’azione di Rifondazione avrebbe potuto delegittimare gli elementi di maggiore moderazione contenuti negli accordi. L’apice di tutto ciò si ebbe con l’introduzione per legge della settimana lavorativa di 35 ore, nel 1998. Decisione, questa, estranea sia all’agenda della concertazione, sia al programma del governo, che si vide costretto ad assecondare tale richiesta di Rifondazione Comunista per evitare una crisi che avrebbe compromesso la partecipazione dell’Italia alla prima fase dell’Euro [Regini 1999]. Le confederazioni, da parte loro, impegnate dopo il 1993 nella strenua difesa della concertazione come metodo, sembravano aver compreso di dover avere dalla loro gli industriali, accreditandosi come interlocutori leali e corretti. In quest’ottica si potrebbe leggere la loro aspra contestazione a un disegno di legge, come quello sulle 35 ore, a prima vista del tutto organico alle storiche richieste sindacali su questo tema, ma estraneo alla linea politica dei partiti di riferimento. Sulla legge i sindacati avanzarono critiche molto severe. La CISL fu durissima anzitutto sul metodo, vale a dire sulla scelta del governo di legiferare su una materia in cui giudicava vigesse una sorta di “riserva di concertazione”. Leonardi [2003] ritiene che il sindacato volesse «mostrare alla controparte di non praticare alcun doppio gioco: al tavolo interconfederale prima, e poi chiedendo l’intervento del Governo amico. Confindustria, dal canto suo, si guarderà bene dal ricambiare la cortesia e non appena potrà contare su un governo apertamente schierato sulle sue richieste liquiderà l’esperienza della concertazione tripartita coi sindacati».

Quest’ultima vicenda comportò, nell’ottobre del 1998, la caduta del governo Prodi e la formazione di una nuova maggioranza, guidata da Massimo D’Alema, con l’uscita di Rifondazione Comunista. Fu questo nuovo esecutivo a firmare l’ultimo grande episodio di concertazione, il Patto per lo sviluppo e l’occupazione del dicembre 1998, noto come Patto di Natale. L’intesa non rappresentò però solo l’istituzionalizzazione dei patti a livello decentrato. Secondo Salvati [2000, 470] «si è trattato di una solenne riaffermazione rituale-simbolica del metodo della concertazione, ora estesa a ben 32 associazioni di interesse, più che di un concreto passo in avanti nell’adattamento del patto sociale alle nuove condizioni». Il Patto risultò così, per molti versi, un mero mantenimento dell’esistente [ibidem].

Senza dimenticare le ragioni esogene trovate da Regini [1999, 27-28; cfr. Ferrera e Gualmini 1999; Carrieri 2003b] (andamenti demografici e convergenza dei paesi europei verso un modello intermedio fra concertazione e deregolazione in vista dell’unificazione monetaria), sarebbero ancora una volta questioni politiche a determinare la fase calante della concertazione già durante gli ultimi anni dei governi di centrosinistra: la difesa da parte dei sindacati sia della propria funzione sociale, sia delle scelte politiche portate avanti dai propri partiti di riferimento entro i governi di centrosinistra, entrambe messe i pericolo dall’azione di Rifondazione Comunista. Dal lato dell’offerta di concertazione, quindi, si sarebbe assistito a dissensi sempre più profondi tra le confederazioni proprio sulla base della distanza politica rispetto a quest’ultimo partito, con la CGIL a tentare di sfruttare comunque le mobilitazioni del PRC, e CISL e UIL sempre più propense alla concertazione ad ogni costo. Schema che sarà ripetuto anche più tardi, paradigmaticamente con la vicenda della revisione dell’art. 18.

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2001-2006: Centrodestra e conflitto Lo stato di salute dei patti triangolari, già debilitato dai dissidi interni alla sinistra, era destinato a crollare con

l’avvento del secondo governo Berlusconi. Nel 2001 le elezioni politiche furono vinte da un ampio schieramento di centrodestra, che mostrò da subito insofferenza per lo strumento della concertazione. Ciò a dimostrazione del fatto che il metodo di consultazione triangolare, anche dopo il 1993, era ben lontano dall’essere accettato da tutti gli attori una volta per tutte. Al di là della sua utilità di principio, dunque, l’uso della negoziazione sarebbe da considerarsi quasi unicamente «frutto di contingenze politiche», come nota Accornero [2003].

Infatti il Libro Bianco del governo Berlusconi del 2001, rivendicando la superiorità del politico sul sindacale [Martone 2010, 79], si schiererebbe esplicitamente contro la concertazione [Mariucci 2002], e a favore invece di un metodo di mera consultazione tra governo e parti sociali definito, in parallelo con il linguaggio dell’UE, “dialogo sociale” [Fiorillo 2010]3. «Desta quindi qualche perplessità», nota Carrieri [2003b], «il fatto che una parte del movimento sindacale abbia voluto comunque provare a concertare con un esecutivo che esplicitamente escludeva questa opzione», soprattutto perché questo era proprio il risultato auspicato dall’esecutivo di centrodestra, che operava del tutto esplicitamente, come osserva Cella [2008, 215], «con l’intenzione di sfruttare a proprio favore le divisioni o la competizione fra le culture sindacali» figlie delle fratture partitiche dei decenni precedenti. Alla lunga ciò avrebbe comunque comportato una fortissima ripresa del conflitto sindacale, di stampo prevalentemente politico, a partire dalla mobilitazione contro la riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Il 23 marzo 2002 si svolse a Roma una manifestazione in difesa dei diritti che raccolse circa tre milioni di lavoratori, come non si vedeva dai tempi dell’Autunno Caldo, mentre il 16 aprile fu indetto uno sciopero generale di otto ore che riscosse un notevole successo. Il governo offrì allora la sua disponibilità a trattare, ma i sindacati, agendo nuovamente in senso unitario, rifiutarono di scendere a patti su un simile argomento. L’esecutivo si vide dunque costretto a rivedere le sue strategie, e stilò un nuovo disegno di legge sul quale si sarebbe aperto il confronto con le parti sociali. Per questa via si arrivò, in luglio, alla firma del c.d. “Patto per l’Italia”, tra governo, patronato e CISL e UIL. Il ministro Maroni dichiarò che la CGIL, non avendo firmato il patto, sarebbe stata esclusa da tutti gli altri tavoli di confronto [Gottardi 2004].

La CGIL, quindi, si pose su una linea di opposizione intransigente nei riguardi delle politiche del centrodestra. Leonardi [2003] propone di spiegare tale strategia con i conflitti che la CGIL, più ancora che le altre sigle, aveva dovuto internalizzare in quegli anni, in seno al proprio corpo associativo, per rispettare i doveri assunti nella concertazione con il governo di centrosinistra. Nella leadership CGIL si sarebbe allora fatta strada l’idea secondo cui occorreva fare un ritorno (presumibilmente temporaneo) a ciò che Crouch [1993] chiamerebbe una cure d’opposition, una tregua al compromesso concertativo. Rinsaldare al massimo grado i rapporti col mondo del lavoro sarebbe quindi divenuto il bene pubblico primario dell’organizzazione, a cui dedicare quel genere di tensione che le mediazioni politiche e intersindacali degli anni del risanamento neocorporativo avevano affievolito. La presenza di un governo come quello Berlusconi, programmaticamente alieno nei riguardi di culture e prassi concertative, avrebbe poi facilitato il compito, accreditando oltretutto la CGIL come autentico bastione di massa a difesa delle conquiste dei lavoratori. Le articolazioni interne della Cgil sono sempre state, essenzialmente, articolazioni di partito, e continuano a esserlo tuttora, nonostante lo scioglimento ufficiale delle correnti. La Cgil è quindi fortemente condizionata dal dibattito che è aperto nella sinistra, dallo scontro interno al partito dei Ds, e subisce, da varie parti, una forte pressione verso una sua connotazione come forza di opposizione e di mobilitazione politica, che supplisce alla debolezza dei partiti [Terzi 2003b, 96].

I questi termini, durante il periodo del governo Berlusconi II, le sigle confederali, e prima fra tutte la CGIL, tentano di uscire dal rapporto di subordinazione con i partiti, e anzi spingono per una riforma dall’interno di questi ultimi. Tale tentativo di protagonismo sindacale, operato sulla scia dell’opposizione all’esecutivo anti-labour e della rivitalizzazione degli indeboliti partiti pro-labour, pare comunque destinato a fallire quasi subito, e l’azione sindacale a riconfluire nella sfera di attrazione dei partiti. Su questa tesi sembra concordare anche l’analisi di Carrieri [2010], di cui si riporta il seguente passo per la sua convincente argomentazione. Cisl e Uil cercano di praticare una strada di negoziazione senza preclusioni e aperta verso qualunque governo, ma ottengono risultati alterni, che non compensano la centralità perduta occupata nel decennio precedente. La Cgil invece vive la tentazione dell’autosufficienza, quella cioè di sostituirsi nella sfera politica ai partiti di sinistra usciti sconfitti ed incerti dalle elezioni del 2001. In questa scelta non mancano le competizioni personali per la leadership, incarnate dalle ambizioni politiche del segretario della Cgil Cofferati. Ma accanto a questi aspetti vanno messi in luce problemi e processi di più lunga durata. Ormai già da tempo i rapporti tra Cgil e il partito principale della sinistra (in quella fase i Democratici di sinistra) stentano ad essere di vicinanza e di cooperazione, lungo il solco della interdipendenza tra soggetti ormai paritari, e sono diventati piuttosto di costante differenziazione su scelte strategiche (quali la riforma delle pensioni e del welfare). Il partito dei DS negli anni di governo del centro-sinistra propende per delineare riforme, che possono penalizzare anche una parte dei lavoratori rappresentati dai sindacati. Quindi le

3 Avendo imparato, dall’esperienza del 1994 e dalla caduta del primo governo Berlusconi, di non essere in grado di imporre la via del decisionismo in quanto tale [Ferrera 2006].

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differenze riguardano la visione della società e la qualità delle riforme sostenibili, e spingono la Cgil a battere strade che non passino attraverso il rapporto e la mediazione dei partiti. Questa tentazione di autosufficienza viene originata dall’ormai ampio divario organizzativo tra i partiti e i sindacati. I primi non sono più organizzazioni massa, come erano stati quelli del passato, ma hanno relativamente pochi iscritti e una modesta inclinazione alla partecipazione sociale. I secondi restano saldamente di ‘massa’, mantengono o accrescono i loro iscritti (che superano gli undici milioni, includendo il grosso serbatoio dei pensionati), con un buon tasso di sindacalizzazione (che si situa oltre il 30%). Inoltre essi continuano ad avere una vita democratica ricca e varia , anche nella continuità di rapporto con i lavoratori e del loro coinvolgimento più attivo. È facile quindi immaginare come in ragione di questo mutato rapporto di forza , a favore dei sindacati, essi abbiano potuto essere colti dalla tentazione di fare a meno dei partiti o di sostituirsi al loro ruolo. Non è solo l’area che fa capo alla Cgil a vivere questa ipotesi, perché anche altri mondi sindacali cercano di intercettare l’apertura di spazi ed opportunità politiche nuove. Infatti anche l’ex segretario della Cisl, D’Antoni, prova a costituire una nuova formazione politica di centro con l’ambizione di giocare un ruolo condizionante verso gli schieramenti prevalenti. In realtà i risultati sono poco incoraggianti. Non solo per i centristi che ottengono consensi modesti (poco oltre il 3% dei voti), e questo accadrà successivamente anche al successore di D’Antoni (Pezzotta nelle elezioni del 2008), dal momento che invece decolla e si consolida in modo marcato il bipolarismo all’italiana. Ma anche lo stesso tentativo della Cgil di trasferire nel partito e in politica la sua forza organizzativa si rivela velleitario nel medio periodo. La corrente costruita intorno a Cofferati fallisce il suo assalto al partito, a differenza di quanto era accaduto nei primi anni ottanta alle Trade Unions nei confronti del Labour, e alla fine si sfalda progressivamente. Dunque i sindacati fanno politica, ma non riescono - non possono - ad occupare tutto lo spazio politico. E torna piuttosto ad essere di attualità l’esigenza di costruire relazioni più simmetriche ed interdipendenti con i partiti affini4.

La differenza di metodo fu certo evidente, infatti, ma forse non basta questo passaggio (dalla concertazione del centrosinistra al dialogo sociale del centrodestra) a spiegare il diverso atteggiamento riservato dai sindacati, e soprattutto della CGIL, al nuovo governo Berlusconi. Infatti, al di là del metodo, il contenuto delle riforme del lavoro era tutt’altro che distante da quelle della precedente maggioranza di centrosinistra, specie se si confrontano il “pacchetto Treu” e la “legge Biagi” [Biagi 2002], ottenendo tuttavia una reazione del tutto opposta da parte dei sindacati: estrema remissività all’introduzione della flessibilità prima, un conflitto sconosciuto dai tempi dell’Autunno Caldo poi, per politiche sostanzialmente in linea con la riforma precedente [Martone 2010]. Come osservano Cella e Treu [2009], il fatto che al governo stesse il centrosinistra fece digerire quasi tutto del pacchetto Treu al sindacato, compreso il tabù della flessibilità e dell’intermediazione nel lavoro, che rompevano in maniera radicale rispetto alle tutele conquistate nei decenni precedenti, mentre l’avvicendamento con il centrodestra comportò un’improvvisa radicalità del sindacato sulla riforma Biagi che, di fatto, non faceva che continuare sulla strada aperta dal centrosinistra.

Del fatto che l’opposizione al disegno del governo Berlusconi fosse in gran parte di tipo politico-partitica, d’altronde, si ha conferma dall’atteggiamento tenuto dalla CGIL sul tema della riforma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: − vero e proprio tabù [Accornero 1999], vissuto come una battaglia di civiltà contro l’arroganza

dell’esecutivo allorché al governo stava il centrodestra; − argomento divenuto tuttavia improvvisamente marginale quando Rifondazione Comunista promosse

un’ulteriore allargamento di quella che qualche mese prima era appunto una “battaglia di civiltà”, incontrando però la grande resistenza dei DS, partito di principale riferimento della CGIL;

− dichiarazioni retoriche di estrema contrarietà, peraltro probabilmente smisurate rispetto all’impatto della misura, ma accompagnate da una conflittualità reale di fatto trascurabile, quando la medesima riforma dell’art. 18 tanto odiata nel 2002 è stata riproposta non da Berlusconi, ma dal governo Monti instancabilmente sostenuto dal PD, ancora partito di riferimento della CGIL nonostante il netto spostamento ideologico operato dal partito [Howell 2001].

Tornando per il momento al 2002, l’opinione che l’atteggiamento di rifiuto senza se e senza ma riservato dal sindacato fosse di natura politica, ha fatto sostenere a Carinci [2005, 389] che, «nonostante un adattamento dell’art. 18 fosse condiviso apertis verbis da ogni riformista, ne seguì una battaglia senza esclusione di colpi destinata ad affossare qualsiasi tentativo al riguardo». L’atteggiamento, tuttavia, fu radicalmente diverso solo pochi mesi dopo. Pur in cerca di legittimazione dalla base attraverso una strategia conflittuale, infatti, la CGIL continuava a non essere disposta a cedere terreno nei confronti del partito della Rifondazione Comunista, sul campo della rappresentanza degli interessi dei lavoratori. Nel 2003 il partito di Bertinotti promosse un referendum per l’abrogazione delle norme che stabiliscono limiti numerici all’applicazione dell’art. 18. I sindacati confederali, in difesa del proprio ruolo di rappresentanza diretta dei lavoratori contro quelli che ritenevano attacchi di Rifondazione, si schierarono contro tale quesito referendario. Contro, cioè, quello che poteva invece essere un esito normale della stagione di lotte dell’anno precedente: dopo aver ottenuto l’inviolabilità della tutela reale, estenderla anche alle imprese con meno di 15 dipendenti. CISL e UIL però, dopo la firma del Patto per

4 Uguale fallimento si può constatare anche per il tentativo della Confindustria sotto la guida di Montezemolo per la creazione di una “terza forza” alternativa agli schieramenti politici del bipolarismo.

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l’Italia, avevano ormai accettato da tempo una logica di compromesso con il governo, mentre la CGIL, nel suo intento di ricucire con la base, non poteva tollerare interferenze su di essa da parte di un partito politico. O quantomeno che non fosse il “suo” partito politico, dal momento che i DS, nella loro progressiva e inesorabile marcia verso posizioni liberiste [Piazza 2001], si prodigarono per il fallimento del referendum. L’opposizione dei DS, e con loro della CGIL [Baccaro e Howell 2011], sembrava non tanto essere diretta alle politiche neoliberiste del centrodestra, quanto al fatto che esse fossero promulgate, appunto, dal centrodestra. In questo caso però, venendo la proposta non da destra ma da sinistra dei DS, questi ultimi poterono finalmente prendere una posizione che non fosse dettata unicamente dalla contrapposizione a Berlusconi, ma legata al loro reale sentire, affermando la contrarietà all’allargamento delle tutele sancite dall’art. 18.

La CGIL, ancora una volta, parve accodarsi piuttosto pedissequamente. Nel fare questo però, tentò di non ottenere l’effetto contrario (alienandosi la fiducia dei lavoratori), affermando la propria contrarietà non tanto al testo del quesito, quanto piuttosto al metodo referendario, ringraziando nel contempo i votanti. Intervistato a proposito del mancato raggiungimento del quorum, il nuovo segretario generale Epifani affermò: Si tratta di un referendum che la CGIL non aveva promosso. Avevamo criticato il referendum come strumento non idoneo per affrontare l’estensione dei diritti e delle tutele e per questo abbiamo sempre riconfermato che la via maestra per estendere il diritti resta, per la CGIL, quella delle riforme sulla base delle proposte su cui abbiamo raccolto oltre 5 milioni di firme e che sono state depositate in Parlamento. L’esito del referendum conferma e rafforza questa impostazione e dà ragione a questa scelta. L’art. 18 resta per la CGIL un diritto fondamentale per i lavoratori, insieme con gli obiettivi di riforma e di estensione contenuti nelle nostre proposte di legge. La CGIL ringrazia i circa 11 milioni di cittadini che si sono espressi per il sì nel referendum e che rappresentano una forza importante nella domanda di riforme in materia di tutele e diritti. Coerentemente alle proprie scelte la CGIL continua il suo impegno e il suo lavoro sui diversi terreni e ai diversi tavoli di confronto per l’affermazione delle proprie politiche e si impegnerà con più forza a ricostruire quel fronte sociale più ampio e quel fonte politico più esteso, che oggi si è diviso nel voto, per favorire l’avanzamento di un processo riformatore [Fonte: www.CGIL.it].

Vera e propria dichiarazione cerchiobottista, rilasciata una volta scampato il pericolo, con il mancato raggiungimento del quorum, di contrastare la linea politica del partito.

2006-2008 : Il ritorno del centrosinistra, il ritorno della moderazione sindacale Ovviamente ha il suo peso il diverso atteggiamento di metodo dell’esecutivo, con la rinnovata domanda di

concertazione proveniente da una maggioranza debole e divisa come quella di centrosinistra uscita dalle elezioni del 2006, ma forse non è un caso che, appena insediato il nuovo governo, subito riprende anche l’offerta di concertazione da parte dei sindacati confederali. Il governo di centrosinistra dura poco più di un anno, si presenta come poco credibile e raccoglie ben pochi frutti, ma ciononostante le sigle confederali paiono immediatamente pronte ad offrire il proprio sostegno concertativo [Pessi 2008]. È così che con il secondo governo Prodi si torna a firmare un nuovo patto sociale, nuovamente unitario e tripartito, il Protocollo sul Welfare del 23 luglio 2007, sottoscritto da tutte le principali organizzazioni sindacali e criticato dalla sola sinistra CGIL e in particolare dalla FIOM, sempre più vicina a Rifondazione Comunista.

Anche il 2008 si apre all’insegna della concertazione. Non solo tutte e tre le sigle confederali, ma persino la Confindustria di Montezemolo paiono per la prima volta schierate dalla stessa parte politica, quella del governo Prodi II, e su queste basi parte la discussione su un tema precedentemente oggetto di veti incrociati quale quello della riforma della contrattazione collettiva [Cella 2009]. A questo punto nascono però i dissidi fra partiti interni alla maggioranza di governo, e con essi, ancora una volta, fra sigle sindacali. I partiti principali dello schieramento, su di una posizione riformista, spingono per l’accordo così come Confindustria, CISL e UIL, oltre alla maggioranza “ex-diessina” della CGIL. Non così i partiti della c.d. sinistra radicale, PRC in testa, e con essi non solo i sindacati di base, ma anche la sinistra interna della CGIL, a partire dalla FIOM. La breve vita del governo di centrosinistra a seguito dei sui dissidi interni giunge poi prima che i dissidi fra le parti sociali che ad essi si riferiscono possano essere sanati.

2008-2011: Il ritorno del centrodestra, il ritorno del dialogo sociale rifiutato La fine del governo di centrosinistra determina uno sconvolgimento nel quadro politico italiano.

L’elettorato di sinistra appare frustrato dall’ennesimo fallimento della propria parte politica, e lo scontento si riversa nelle urne e nel sindacato. Le elezioni vengono vinte a larghissima maggioranza dal centrodestra, i partiti della sinistra radicale rimangono fuori dal Parlamento, e molti ex elettori di centrosinistra, specie in quella che un tempo si sarebbe chiamata classe operaia, scelgono il voto di protesta nei confronti della Lega Nord, compresi molti tesserati CGIL5. Ciò sembra lasciar presupporre un appannamento definitivo nel rapporto fra partiti e sindacato e il tentativo di seguire vie alternative. In realtà, ancora una volta, la situazione non starebbe in questi termini, come si è potuto constatare in occasione dell’Accordo-Quadro sugli assetti contrattuali, sfociato il 22 5 Qualcosa di molto simile, nella situazione attuale, è avvenuto con il Movimento 5 Stelle.

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gennaio 2009 in una intesa separata, sottoscritta da Confindustria, CISL e UIL, ma avversata dalla CGIL. Secondo Carrieri [2010], infatti, «la spaccatura che si è verificata tra gli attori sociali trova la sua principale ragion d’essere nell’atteggiamento da tenere nei confronti del governo in carica».

Tale schema, che rispolvera il metodo del “dialogo sociale” già utilizzato nella precedente esperienza di centrodestra, vede la spaccatura delle confederazioni anche sugli altri numerosi tavoli di confronto (privatizzazione di Alitalia, riforma del pubblico impiego, riforma della scuola, politiche di programmazione per rispondere alla crisi economica scoppiata nel frattempo). L’unica eccezione si ha con l’accordo unitario del 28 giugno 2011, il quale, visto che il PD si trovava all’epoca all’opposizione, pare rappresentare forse l’unico vero esempio di “concertazione d’emergenza”, estremo tentativo nell’era del Fiscal Compact di evitare conseguenze ancor più gravi all’interno della crisi, molto più che quei patti a cui tale definizione viene solitamente associata, quella dei governi tecnici di inizio Seconda Repubblica [Gualmini 2012; Regini 1997], ai quali, però, il principale partito di riferimento del sindacato garantiva il proprio appoggio.

7. Dalla Prima alla Seconda Repubblica: il collateralismo ai partiti fra pluralismo e corporativismo Schmitter [1974] riteneva che l’assetto della concertazione nella Prima Repubblica italiana fosse diretta

emanazione della nascita di quest’ultima come reazione al crollo del corporativismo di Stato di stampo fascista. Tale atto fondativo avrebbe impedito all’Italia di evolvere verso un corporativismo societario, tramutandosi piuttosto in un sistema a multipartitismo estremo e polarizzato, in cui l’interventismo prevaricante dei partiti avrebbe portato ad una frammentazione su base partitica dei gruppi di interesse, e ad una loro dipendenza asimmetrica dalle istituzioni pur deboli ma profondamente compenetrate (così come la società civile, compresi i due versanti del lavoro organizzato) dai partiti stessi. In queste condizioni è difficile immaginare una trasformazione politicamente continua verso il corporativismo societario; si ha piuttosto il sospetto che il sistema di corporativismo di stato debba innanzitutto degenerare in una politica degli interessi apertamente conflittuale, sfaccettata, incontrollata – in altre parole nel pluralismo [ivi, 84].

È ciò che sarebbe accaduto nell’Italia della Prima Repubblica, caratterizzata, secondo Martinelli e Lanzalaco [1994], da pressione pluralistica, governo spartitorio e partitocrazia consociativa. Nell’analisi di questi autori, quindi, la debolezza dell’esecutivo e del sistema politico nel nostro paese avrebbe spinto per decenni più verso il lobbying e la lottizzazione, piuttosto che verso una radicata concertazione. Questo sarebbe avvenuto perché ad una pluralità di organizzazioni di rappresentanza funzionale, politicizzate ma soprattutto settoriali, si sarebbe contrapposto un impianto istituzionale molto permeabile alle molteplici pressioni che riceveva. I diversi gruppi di pressione quindi, e non solo i due versanti del lavoro organizzato, avrebbero instaurato, pur essendo in competizione reciproca, rapporti di collusione distributiva con il potere politico, in cui ogni gruppo sarebbe riuscito a soddisfare in parte le proprie domande, collaborando a tal fine con gli altri a detrimento della coerenza e sistematicità del disegno politico complessivo.

La situazione sarebbe stata generata, a detta di Farneti [1979], anche dalla compenetrazione fra partito di governo e Stato, per la quale la DC sarebbe diventata centro di creazione e nello stesso tempo di mediazione di gruppi di interesse, sovente in contrasto fra loro. Si sarebbe così creato un ‘sottogoverno’ spartitorio, funzionale ad una gestione a breve del consenso attraverso la sommatoria di clientele particolari, che non avrebbe consentito però un requisito indispensabile per la nascita di una prassi concertativa: vale a dire il governo strategico dei processi di riforma e la formazione di un consenso stabile, fondato su tale capacità di governo. Martinelli e Lanzalaco [1994] notano come ciò possa apparire contraddittorio in un paese tradizionalmente caratterizzato dal grande potere detenuto dai partiti, che dovrebbero quindi, in linea di principio, avere la forza di imporre soluzioni strategiche e generali. Essi ritengono però che in una situazione di democrazia bloccata, priva di alternanza, i maggiori partiti abbiano preferito piuttosto fondare la propria linea d’azione su una sorta di consociazione, figlia di una logica spartitoria di ingerenza in una molteplicità di interessi frammentati, e in una pluralità di sedi decisionali facilmente permeabili sia all’interferenza partitica sia al lobbying. Sarebbe su questi presupposti che si spiegherebbe il condizionamento dei partiti sia sulle centrali confederali, sia pure quella sulle organizzazioni della rappresentanza imprenditoriale. L’azione di DC e PCI avrebbe infatti consentito anche il proliferare di associazioni artigiane, agricole e di piccola e media impresa, divise per cleavages partitici; le fasce tradizionalmente più deboli dell’imprenditorialità, che senza il sostegno degli attori politici sarebbero risultate molto meno influenti [Maraffi 1994].

La politica industriale costituirebbe un chiaro esempio del modo in cui le peculiarità del sistema politico della Prima Repubblica avrebbero influenzato il policy making, e la partecipazione ad esso delle parti sociali. Secondo gli autori, tutto ciò avrebbe portato l’Italia a differenziarsi sia dai paesi neocorporativi, sia da quelli caratterizzati da deregulation o da regolazione per decreto. Una prima distinzione andrebbe fatta fra i sistemi del primo tipo, in cui le decisioni di politica industriale vengono prese mediante concertazione con gli interessi organizzati, e paesi quali Francia, Gran Bretagna e Italia (almeno fino al 1992), in cui lo Stato assume un diverso

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ruolo. Nel primo caso le parti sociali assumono un ruolo esplicito di codecisori, mentre nel secondo i gruppi funzionali agirebbero prevalentemente come gruppi di pressione, influenzando dall’esterno il circuito politico.

All’interno del secondo gruppo comunque, sorgerebbero nuove differenze se si scegliesse di distinguere non solo tra assetti neocorporativi e regolazione politica statale della politica industriale, ma anche tra situazioni in cui si verificano condizioni di governo forte del pro-cesso decisionale e dei suoi esiti e situazioni in cui, per contro, le caratteristiche del sistema politico-istituzionale favoriscono la frammentazione del sistema as-sociativo in una pluralità di gruppi di interessi particolari, rendendo quindi le po-litiche industriali scarsamente efficaci e poco coerenti. In base a questa seconda distinzione, il caso italiano non si differenzia solo dai paesi con assetti neocorpo-rativi, come l’Austria, ma anche dai paesi caratterizzati da un forte governo stata-le della politica industriale, come la Francia [Martinelli e Lanzalaco 1994, 336].

Su ciò avrebbe influito anche il sistema elettorale proporzionale, che da una parte avrebbe reso l’esecutivo meno stabile, e dall’altra i parlamentari più sensibili all’appoggio di gruppi di pressione frammentati e particolaristici.

Anche nei casi in cui fu effettivamente tentata la via della concertazione, quindi, le piccole associazioni riuscirono a far sentire la propria voce grazie alle loro affiliazioni partitiche. Escluse dagli accordi stipulati con i grandi gruppi del lavoro e del capitale, esse avrebbero praticato comunque la via della pressione pluralistica sui propri interlocutori politici privilegiati, di modo che lo Stato si sarebbe spesso occupato di riammetterle nel circuito delle decisioni che contano, o quanto meno di compensarle in caso di disaccordo con l’intesa raggiunta. Si pensi al caso del 1981, nel quale, mentre la Confindustria aveva rinunciato alla disdetta della scala mobile (per favorire l’approvazione di un documento comune fra governo, imprenditori e sindacati che doveva preludere a una stagione di politiche dei redditi antinflazionistiche), le organizzazioni di rappresentanza di agricoltori e PMI avevano denunciato l’accordo, creando così profonde divisioni all’interno del fronte datoriale. Divisioni che sarebbero state sanate solo attraverso l’intervento dello Stato, che compensò con agevolazioni fiscali quelle categorie che non erano disposte all’accordo. In questo senso si può supporre che esistesse un rapporto tra le sindrome spartitoria e l’elevato grado di frammentazione del sistema di rappresentanza degli interessi, soprattutto imprenditoriali: «lo Stato avrebbe svolto una funzione di supplenza alle associazioni imprenditoriali creando, attraverso opportune politiche distributive e di sostegno alla piccola impresa, all’agricoltura e al terziario arretrato, quell’unità all’interno del sistema imprenditoriale che non erano in grado di offrire e creare le associazioni» [ivi, 354].

Le cose sarebbero però mutate con l’avvento della Seconda Repubblica. In quel periodo comparirebbero anzitutto i cedimenti di due delle condizioni del consenso, e del conseguente sottogoverno, della DC: il crollo dell’Unione Sovietica, che aveva fatto venir meno il suo ruolo di bastione dell’anticomunismo, e i vincoli imposti dal processo di unificazione europea, che resero più difficile la continuazione di politiche imperniate sulla spesa pubblica assistenziale e clientelare. Le indagini della magistratura contro il vecchio establishment, e la nascita di nuove formazioni politiche non consociative quali la Lega, avrebbero fatto il resto, mentre il passaggio ad un sistema elettorale maggioritario avrebbe dovuto mettere al bando la logica spartitoria sino ad allora prevalente. Ciò avrebbe creato una ritirata progressiva dei partiti dalle istituzioni, essendosi essi dimostrati canali inaffidabili di aggregazione ed articolazione degli interessi, e si sarebbero così aperte opportunità per nuove forme di rappresentanza, meno dipendenti dai condizionamenti politici [ibidem].

I sindacati persero i loro partiti di riferimento, o quantomeno videro largamente ridimensionato il loro collateralismo. In tali condizioni, essi si videro costretti a prendere parte attiva ed in prima persona nel policy making, non potendosi più appoggiare ai tradizionali canali politici ed istituzionali. Stessa cosa sarebbe avvenuta per le associazioni di rappresentanza dei settori imprenditoriali abitualmente politicizzati, quali quelli artigiani ed agricoli. Per quanto riguarda Confindustria, poi, si faceva pressante l’opportunità di abbandonare la sistematica azione di lobbying dei propri aderenti, che molte volte avrebbe preso, come Tangentopoli stava mostrando, anche vie al di fuori della legalità [Salvati 2000]. Gli stessi datori avrebbero allora mutato la loro linea d’azione di pressione sui soggetti politici, per intraprenderne una di “pansindacalismo imprenditoriale”, secondo cui le associazioni non dovrebbero limitarsi ad articolare gli interessi nel campo delle relazioni industriali, ma dovrebbero assumersi anche un ruolo di rappresentanza politica generale [Martinelli e Lanzalaco 1994].

Tutto ciò avrebbe dato una forte spinta al realizzarsi di pratiche triangolari, come avrebbe dimostrato il periodo più alto della “concertazione all’italiana” nel periodo del governo Prodi [Salvati 2000], e ridotto lo spazio per la pressure politics caratteristica della Prima Repubblica. Questo non sta a significare che nella prima parte della storia repubblicana l’assetto pluralista fosse l’unico presente, né che invece nella Seconda Repubblica si siano aperti spazi per una gestione neocorporativa dell’economia. Tutt’altro, come si è visto, e non solo per l’esperienza del secondo governo Berlusconi [Carrieri 2003]. Ciò che affermano Martinelli e Lanzalaco [1994] è, piuttosto, che la riduzione nella presenza dei partiti nella società civile sembra aprire nuovi spazi autonomi per quelle che sono le organizzazioni della rappresentanza funzionale. Il dissolversi delle identità collettive

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tradizionali, infatti, avrebbe fatto venire meno quel “collante ideologico” che garantiva unità, coesione e legittimazione alle associazioni tradizionali, e che giustificava l’elevata frammentazione del sistema di rappresentanza. Si creerebbero così opportunità di integrazione organizzativa che erano impensabili quando le divisioni partitiche erano solide e radicate, mentre d’altra parte il venire meno dei rapporti con i partiti, che forniva una forma di legittimazione esterna, implicherebbe che le associazioni debbano ottenere il consenso della base attraverso forme di legittimazione interna. Questo le renderebbe più solide, e capaci di imporre la propria linea agli aderenti su criteri non più meramente ideologici, ma di contenuto. O almeno in teoria, perché, invece, alla politicizzazione partitocratica si sarebbe sostituita la polarizzazione scaturita dal berlusconismo.

Cosicché, nonostante i cambiamenti intervenuti nel sistema politico, a seguito della crisi degli anni ‘90 nel sistema dei partiti, avessero predisposto un clima potenzialmente più favorevole ad una soluzione di stampo neocorporativo rispetto a quanto accadeva nella pluralistica Prima Repubblica, nell’Italia della Seconda Repubblica si sarebbe ancora ben lungi dall’affermarsi di stabili strutture concertative universalmente accettate e riconosciute, anche dopo la fortunata stagione di accordi degli anni ‘90. Persino in seguito ai tentativi di dare regole certe, nelle intese del 1993 e 1998, a quelle che fino a quel momento erano solo prassi continuamente rimesse in discussione a seconda delle contingenze politiche, la concertazione in Italia continuerebbe a presentare i caratteri di una soluzione frutto delle stesse medesime contingenze politiche.

8. I condizionamenti del sistema politico sulla concertazione nella Seconda Repubblica Dopo il 1992 il contesto politico che tanto aveva condizionato le strutture della concertazione nella Prima

Repubblica mutò nettamente, a causa del crollo del vecchio sistema politico. In una tale situazione, i sindacati avrebbero acquisito un ruolo politico di primo piano, sganciandosi da (e in pratica sostituendo come attori politici principali) quei partiti cui si erano tradizionalmente riferiti, e che ora stavano rapidamente trasformandosi, o addirittura scomparendo. Questo confermerebbe la tesi di Carrieri [1997], secondo cui i momenti più alti dell’azione sindacale italiana sarebbero stati favoriti da una rendita di posizione, quando il sistema politico era bloccato. Si sarebbe verificato un progressivo declino dei partiti, che avrebbero perso il connotato di partiti di massa, fortemente radicati nella società, per diventare progressivamente “partiti cartello”, specializzati nella funzione di selezione del ceto politico e del personale amministrativo. Con lo scoppio di Tangentopoli, poi, vi fu una forte delegittimazione sociale dei partiti tradizionali, che ne avrebbe accentuato i problemi ed il bisogno di sostegno da parte delle rappresentanze sociali. I sindacati, invece, sarebbero usciti indenni da questa fase critica, mantenendo, e per certi versi consolidando, il loro carattere di massa. Il primato dei partiti, già scosso da parecchio tempo dall’emancipazione politica dei sindacati, veniva così completamente messo in discussione e superato, e i sindacati divennero sempre più un’ossatura sociale indispensabile per i governi che provavano a muoversi sulla strada del risanamento economico [Carrieri 2003b]. Il loro sostegno era necessario ai governi per affrontare il rigore economico senza scollature sociali. In particolare i governi tecnici, privi di una base politica, dipendevano fortemente dal consenso e dai comportamenti delle parti sociali, mentre anche il primo governo Berlusconi avrebbe finito, per motivi opposti, con l’assegnare un ruolo politico rilevante alle confederazioni: quello di guidare l’opposizione sociale, in un periodo in cui l’opposizione politica appariva debole e frammentata [Regalia e Regini 1998].

Alla vigilia delle elezioni del 1996 accadde che, per la prima volta, CGIL, CISL e UIL si schierarono compattamente per una parte politica, invitando i lavoratori a votare in difesa dello stato sociale e contro i suoi avversari. L’idea era che se nella Prima Repubblica il sistema elettorale proporzionale aveva favorito i diversi legami partitici delle confederazioni, adesso che per la prima volta il centro e la sinistra erano alleati sotto uno stesso simbolo, per il sindacato sarebbe stato quasi naturale trovarsi dalla parte dell’Ulivo. Il muro di Berlino era caduto, e gli accordi del 1992-93 e le comuni lotte del ‘94 avrebbero attestato l’avvenuto superamento delle divisioni politiche ereditate da un lontano passato [Leonardi 2003].

È nel quadro di questo processo che prese nuovamente vigore l’ipotesi di realizzare l’unità sindacale in un quadro di autonomia dal sistema politico. Ci si interrogava quindi del nuovo rapporto che si voleva instaurare fra sindacato e democrazia dell’alternanza, cioè del rapporto fra autonomia sindacale e sistema politico bipolare, di come rimanere autonomi senza essere politicamente neutri. Alla vittoria dell’Ulivo, che portò per la prima volta in Italia alla costruzione di un governo pro-labour, il commento fu tuttavia che si sarebbe valutata l’azione del nuovo governo dai fatti che avrebbe posto in essere, che non sarebbero stati fatti sconti, che “il sindacato non ha governi amici o nemici” (D’Antoni) [ivi]. Ed è ciò che realmente avvenne, con le organizzazioni a svolgere un ruolo di marcata autonomia, e talvolta di contrapposizione, anche rispetto ai loro partiti di riferimento. Lo schema di “sindacato a sinistra del partito”, largamente dominante in Europa negli anni ‘80, sembrava dunque affermato ormai anche in Italia [Regalia e Regini 1998]. Cofferati prese a parlare allora di un sindacato che facesse innanzitutto il suo mestiere, perseguendo i propri obiettivi in totale autonomia dal governo e dai partiti. La sua idea era che nella situazione politica di quel periodo non vi fosse una distinzione netta di funzioni, come quella

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analizzata da Lehmbruch [1977], e che dopo gli anni della supplenza e dei governi tecnici (che definiva “i governi del sindacato”), fosse necessario evitare di pensare che quel ruolo dovesse essere destinato a protrarsi anche fuori da quell’emergenza.

In casa CGIL teneva però banco anche la preoccupazione per quelle che avrebbero potuto essere le scelte della sinistra interna, vicina a Rifondazione Comunista. Il timore era che l’unificazione con CISL e UIL potesse preludere ad una scissione e alla conseguente nascita di un “sindacato rosso”, ipotesi già balenata dopo le drammatiche rotture interne seguite agli accordi del 1992-93 [Leonardi 2003]. Sin dalla vicenda sulle 35 ore, tuttavia, i rapporti della CISL con l’Ulivo si erano molto deteriorati, sino a culminare, nel ‘99, in una mobilitazione nazionale separata contro la finanziaria e la politica dell’esecutivo allora guidato da D’Alema. L’anno prima, D’Antoni aveva addirittura esplicitato le coordinate di una svolta, tesa a conferire alla nuova CISL un ruolo politico che ponesse rimedio al vuoto creato al centro del sistema. Il progetto della Grande CISL sembrava voler colmare questo vuoto politico: se dopo Tangentopoli e gli anni della supplenza sindacale la politica era tornata nuovamente a contare, D’Antoni si sarebbe preoccupato di edificare i suoi bastioni in difesa di un modello associativo e politico della rappresentanza che si ingrandisse nel sociale, al di là dei tradizionali spazi lavoristici del sindacato, per poi disporsi ad un nuovo scambio politico di stampo neocorporativo [ibidem]. In tali condizioni iniziarono a fiorire gli accordi separati. Per la CGIL ciò avrebbe rappresentato la rottura di una prassi statutariamente sancita: che in caso di dissenso fra le organizzazioni non era lecito firmare separatamente, ma era necessario venirne a capo dando la parola ai lavoratori. A pochi mesi da quando l’unità sembrava ormai cosa fatta, dunque, ci si accorse che CGIL e CISL non concordavano quasi su nulla. L’ostruzionismo della CISL, attraverso i suoi referenti più vicini in seno all’Ulivo, avrebbe contribuito a far fallire alcuni cruciali disegni di legge che la maggioranza aveva in cantiere per la sua politica di riforme sociali. La CISL denunciava l’accondiscendenza con cui la CGIL si rapportava al nuovo governo di centrosinistra, guidato dal diessino D’Alema; una moderazione ritenuta sintomo di un’autonomia assai più scarsa di quella con cui la CISL aveva trattato con governi DC. Dello stesso tenore le critiche che in quella fase giunsero alla CGIL dalla sua sinistra interna e da Rifondazione Comunista [ibidem].

Con l’ascesa del secondo governo Berlusconi, poi, le confederazioni si ritrovarono, pur nella loro cresciuta autonomia, tutte all’opposizione, con un esecutivo esplicitamente contrario alle pratiche concertative. Secondo Carrieri [2003b], i grandi conflitti di lavoro del 2002 non andrebbero letti come un ritorno al conflitto come fine in se stesso (anche se non mancava nel sindacato chi la pensava così). Sarebbero invece da considerare, per il lavoro, come un mezzo necessario per continuare ad occupare la scena politica anche in presenza di una coalizione anti-labour, con la speranza di influenzarla. Non sembra, a Carrieri, che questo proposito potesse essere affrontato con il rilancio del collateralismo tra partiti e sindacati. In questa fase, infatti, il potere di condizionamento dei partiti politici sarebbe stato quasi nullo, e anzi sembrava esserci un processo opposto, una capacità di pressione politica da parte dei dirigenti confederali, come dimostrerebbe la vicenda sindacal-politica di Cofferati. L’iniziativa sindacale, ed in modo particolare quella della CGIL, avrebbe dunque configurato qualcosa in più della supplenza politica, che si era vista all’inizio degli anni ‘90 in una fase di grande crisi dell’intero sistema partitico. La CGIL avrebbe colmato un vuoto dovuto a più fattori: la debolezza organizzativa e finanziaria dei partiti di sinistra, lontani dai partiti di massa della Prima Repubblica; le divisioni del centro-sinistra, che hanno impedito in diversi casi una opposizione coesa. Questo non significherebbe comunque, a detta di Carrieri, il passaggio a un tipo di relazioni di stampo laburista, a dominanza sindacale. Le associazioni dunque si caratterizzerebbero per essere più forti sul piano organizzativo e finanziario rispetto ai partiti, in particolare ai partiti ridimensionati che si muovono attualmente nell’area del centro-sinistra, e che sono più piccoli, tanto per iscritti che per voti, rispetto ai vecchi PCI e PSI. Ed inoltre i sindacati sarebbero, anche a prescindere dalla mediazione dei partiti, fortemente insediati nell’arena politica. In questa fase, anzi, sarebbero i soggetti classici della politica ad avere più bisogno dell’appoggio del sindacato di quanto non sia vero il contrario [ibidem].

Ciò detto, alcune di queste visioni che leggono nella Seconda Repubblica una concretizzazione della tanto agognata autonomia sindacale dai partiti, paiono peccare di troppo ottimismo. Il rafforzamento relativo dei sindacati rispetto ai partiti parrebbe spesso più una conseguenza dell’estrema debolezza di questi ultimi, che non di una forza dei primi. Con queste condizioni la situazione di maggiore parità fra i due tipi di organizzazioni pare più apparente che reale. È vero che i partiti, vista la loro debolezza, hanno maggiormente bisogno dei sindacati, ed è vero che questi fungono da appoggio ai partiti. Per realizzare le scelte decise dai partiti, tuttavia, e non per influenzare in maniera sostanziale la loro linea politica. In tal senso la dipendenza dei sindacati dai partiti nella Seconda Repubblica pare in realtà ancor più profonda, perché i sindacati, invece di sfruttare a proprio vantaggio la loro posizione di forza relativa rispetto ai deboli partiti del centrosinistra, l’avrebbero viceversa utilizzata per fungere da stampella per la debolezza di questi ultimi, allo scopo di evitare un loro ulteriore indebolimento e assecondando alquanto passivamente (al di là della svariate esternazioni retoriche che spingerebbero a credere in una maggiore autonomia) le loro scelte quando essi si trovavano al governo, attivandosi in maniera conflittuale

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quando essi si trovavano all’opposizione. Il tutto, spesso, in maniera scarsamente legata al merito (e in qualche caso anche al metodo) delle reali proposte governative, ma facilmente collegabile alla polarizzazione, tutta politica, che ruota attorno alla figura di Silvio Berlusconi.

9. Una Terza Repubblica? Con l’aggravarsi della crisi e la nascita del governo tecnico guidato da Monti, si ha una novità sostanziale in

questo schema d’azione. Si trovano in definitiva nuove maggioranze parlamentari, ma con i partiti preesistenti e i vecchi sindacati. La situazione è assai diversa anche da quella dei precedenti governi tecnici d’emergenza che hanno segnato l’inizio della Seconda Repubblica (Amato 1992, Ciampi 1993, Dini 1995), durante i quali la concertazione all’italiana iniziò a svilupparsi [Diamanti 2012].

Diverso, ma non troppo, è sicuramente il metodo di rapportarsi alle parti sociali adottato dal governo tecnico. Continuamente appellandosi alla necessità quale fonte normativa [Fusaro 2012], e chiamando in causa l’indiscutibilità delle scelte tecniche di fronte all’irrazionalità partigiana6, il governo dei professori si spostò vistosamente verso un atteggiamento dirigista di governo dell’economia per decreto [Salvati 1982]. Non più la concertazione del centrosinistra, quindi, ma neanche il dialogo sociale del centrodestra, bensì un vero e proprio decisionismo [Cerruto e Facello 2013] di stampo manageriale [Panebianco 1988].

Ma soprattutto diversa è la maggioranza parlamentare, con il centrosinistra e il centrodestra per la prima volta a sostenere lo stesso governo. Tutta l’estrema politicizzazione degli attori della società civile, sindacati compresi, che per quasi vent’anni si era polarizzata lungo l’asse pro Berlusconi / vs Berlusconi, deve, di necessità improvvisamente venire meno, se è vero come è vero che comunque i sindacati restano strettamente legati alla loro appartenenza partitica, e non volendo quindi mettere a disagio i partiti di riferimento per via dei loro nuovi alleati di centrodestra.

Certo, una componente dell’atteggiamento tenuto dalle sigle confederali può essere sicuramente stata quella di una “presa di responsabilità” vista la difficile congiuntura economica, e l’accordo unitario del 28 giugno 2011, con ancora Berlusconi al governo, potrebbe rappresentare un’evidenza in questo senso7, ma è davvero difficile pensare che sull’azione del sindacato non abbia pesato l’appoggio incondizionato dato dal PD all’esecutivo di Monti. Il contenuto delle politiche adottate da quest’ultimo erano infatti sostanzialmente in linea con quelle adottate già nell’ultimo periodo dal governo di centrodestra, e anche il metodo, al di là della differente impostazione retorica prudente o arrogante, non vede differenze così radicali fra il falso dialogo sociale del centrodestra e il decisionismo dei tecnici. Ciononostante, «il clima del confronto politico», e con esso delle relazioni industriali, «ha consentito di passare in poche ore dalla radicalizzazione alla consociazione e finanche, in alcune fasi, alla subordinazione al governo» [Cerruto e Facello 2013, 88], e, nel campo del lavoro, dal conflitto alla mera esternazione retorica del ruolo del sindacato. Fermi restando il contenuto delle politiche e la congiuntura di crisi, e peggiorando addirittura il metodo decisionale, l’unica variabile che pare modificarsi per tentare di spiegare tale spostamento così radicale nell’atteggiamento delle sigle sindacali resta quella della maggioranza parlamentare, con l’entrata del PD. Non si vede altrimenti come spiegare la passività sindacale di fronte alle numerose offensive portate avanti da Monti e Fornero su vari fronti. In nessuno di questi casi il governo sceglie di avvalersi del metodo concertativo, generando nel fronte sindacale uno spiazzamento che ha finora fatto fatica a tradursi in azioni di contrasto all’altezza della gravità dell’assedio. Le reazioni sindacali a questa offensiva – di merito e di metodo – sono state decisamente inferiori a ciò che ci si sarebbe potuti attendere. Ciò è probabilmente dipeso dai forti timori che, anche in casa sindacale, aleggiano sugli sviluppi della crisi, ma anche – per ciò che riguarda in special modo la Cgil – dalla preoccupazione di non rompere frontalmente col maggiore partito di riferimento, il PD, impegnato nella grande coalizione che sorregge il governo Monti [Leonardi 2013, 10].

Rispetto ad una domanda di concertazione radicalmente opposta rispetto ai governi tecnici della Seconda Repubblica (allora forte richiesta di concertazione d’emergenza “per surrogare il parlamento in situazione di stallo” [Gualmini 2012], nel 2011 assoluto decisionismo permesso da un’acritica grande coalizione), la reazione dei sindacati pare tutto fuorché opposta. In entrambi i casi si riscontra la moderazione e la disponibilità delle confederazioni del lavoro (offerta di concertazione), pur in presenza di comportamenti radicalmente opposti da parte dei governi (domanda di concertazione). Come non mettere in relazione tale anomalia con l’evidenza che, in entrambi i casi, i governi (Amato I, Ciampi e Dini da una parte, Monti e poi Letta dall’altra), quali che fossero e quale che fosse la loro linea politica e la loro propensione a concertare, erano sostenuti dal principale partito del centrosinistra? Significativo a questo riguardo è il tema della riforma delle pensioni: nel 1994, con il governo di centrodestra ed un metodo decisionista, è stato accolto da un’ondata di conflitto che non si registrava da 6 Per un’analisi di tale atteggiamento da parte del governo tecnico nei confronti di tutti i settori di policy, cfr. Lastrico [2012a]. 7 Come non si può dimenticare che una parte di questa reazione sia ascrivibile alla progressiva individualizzazione del conflitto sociale [Regini 2010; 2003] e alla conseguente delegittimazione del sindacato che si accompagna, cronologicamente, alla delegittimazione dei partiti [Masucci 2008], specie a partire dalla crisi [Regini 2012; Cerruto e Facello 2013, 80; Lastrico 2013b].

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vent’anni; solo un anno dopo, nel 1995, e con una riforma più graduale ma sostanzialmente simile, ma attuata da un governo tecnico concertativo sostenuto dal centrosinistra, è stato accolto con una grande disponibilità sindacale; nel 2012, con una riforma radicale attuata da un governo tecnico fortemente decisionista, ma sostenuto (anche) dal centrosinistra, è stato accolto da una pressoché totale assenza di conflitto [Cerruto e Facello 2013, 80]. L’unico aspetto dirimente, davvero, pare a questo punto la posizione del principale partito del centrosinistra nei confronti dell’esecutivo in carica.

10. Dalla Prima alla Terza Repubblica: tutto cambia perché nulla cambi? Nella Prima Repubblica, è ormai senso comune, la rappresentanza degli interessi è stata permeata da un

eccesso di regolazione politica, per cui «i gruppi non possono perseguire i propri interessi se non passando attraverso i partiti e le élite partitiche» [Morlino 1992, 19]. Almeno fino agli inizi degli anni ‘70 , questa ripartizione di competenze tra indirizzo politico e azione sindacale resiste saldamente. La Repubblica democratica è pluralista e, vista la deriva “partitocratica” e “consociativa” [Farneti 1976], i sindacati ne partecipano quasi unicamente in forme indirette perché mediate dai partiti. [Accornero 1992, 198-199]. Anche le influenze sul sindacato che possono apparire esterne/esogene, come quelle internazionali legate alla Guerra Fredda, passano in realtà attraverso la mediazione dei partiti di riferimento [Gentile 2011; Gentile e Tarrow 2009]. Rappresentanza sindacale e rappresentanza politica, che solitamente si trovano in un rapporto complesso [Regalia 2008; 1988], paiono quindi, nella Prima Repubblica italiana, ampiamente sovrapporti, con la seconda a dominare sulla prima.

Nonostante i facili entusiasmi di tanta letteratura sulla “concertazione all’italiana”, tuttavia, tale situazione pare non solo perdurare, ma addirittura peggiorare con l’avvento della Seconda Repubblica, e poi ancora con la situazione attuale, pur in presenza di mutamenti alquanto radicali nel contesto e nelle premesse. Il punto è che il sindacato, per poter raggiungere l’autonomia dai partiti (nel suo senso etimologico, ossia di potersi dare da sé le proprie norme), dovrebbe prima di tutto raggiungere l’indipendenza da questi. Come ricorda Terzi [2003b, 85] facendo un parallelo con il colonialismo, infatti, l’indipendenza non è che il primo passo che conduce all’autonomia, ma senza il quale è impossibile intraprendere il percorso. Sotto questo versante, il progressivo indebolimento degli eredi dei tradizionali partiti di riferimento delle sigle confederali avuto sin dalla fine della Prima repubblica non avrebbe affatto significato una corrispettiva indipendenza del mondo del lavoro, ma anzi un accompagnamento dei partiti medesimi nel tentativo di evitarne l’ulteriore declino. Su questa scelta avrebbe influito non solo la path dependency che continua a proporre per i partiti una colonizzazione del sociale, un peso nella società superiore a quello reale, ma anche la presenza ingombrante di Silvio Berlusconi che avrebbe accolto attirato a sé pressoché ogni dibattito ed ogni azione sociale e politica del paese, incoronando i partiti del centrosinistra, e da ultimo il PD, di un potere, quello di contrastare Berlusconi, che altrimenti probabilmente non avrebbero. E rendendo in qualche modo ancor più succubi le parti sociali a partiti assai più deboli di quanto non fossero i partiti di massa della Prima Repubblica, i quali, pure erano molto più malleabili e sensibili ad una possibile influenza in senso inverso. La possibile critica (se non dall’interno, da vicino) ai nuovi partiti di riferimento pare invece nella Seconda Repubblica essere del tutto anestetizzata8, per evitare di contraddire l’indiscutibile azione del partito di riferimento impegnato nella lotta di civiltà con il centrodestra. Le autonomie sociali restano tuttora confinate in ambiti residuali, corporativi, periferici, mentre il sistema politico tende a occupare tutti gli spazi disponibili, secondo una logica invasiva, e tende a imporre all’intero corpo sociale una sorta di bipolarizzazione forzata: il rapporto della società con la politica diviene un rapporto di vassallaggio. Sotto questo profilo, il passaggio alla cosiddetta «seconda repubblica» ha rappresentato un deciso arretramento, un restringimento ulteriore degli spazi di autonomia. Secondo l’ideologia del maggioritario, nella sua versione fondamentalista che quasi nessuno ha saputo o voluto contrastare, tutta la vita democratica si riassume, senza residui, nel meccanismo della competizione bipolare, perché la democrazia altro non è che la legittimazione popolare dell’autorità di governo […] Ci si era illusi, con l’introduzione del sistema maggioritario, di alleggerire l’invadenza dei partiti e di valorizzare l’autonomia della società civile, e su questo motivo era fiorita tutta una vasta letteratura retorica. È accaduto il contrario: la società civile è interamente colonizzata […] È fortissima la pressione partitica per costringere il sindacato a schierarsi nella competizione bipolare: il sindacato diviene uno dei tanti campi di battaglia dove si giocano i rapporti di forza politici. E le divisioni attuali sono l’effetto di questa pressione, sono il segno di una difficoltà oggettiva a tenere saldo il campo dell’autonomia sociale […] C’è un’azione sindacale che assume sempre più le forme dell’opposizione politica, della mobilitazione per un’alternativa di governo [Terzi 2003b, 85-86].

Nella Seconda Repubblica il progressivo indebolimento dei partiti si accompagnerebbe quindi ad una forte politicizzazione di ogni ambito della società civile, dove ogni manifestazione del sociale, sindacato compreso per quanto in forme differenti [della Porta 2006], è sottoposta alle leggi della politica intesa unicamente come scontro pro Berlusconi / vs Berlusconi [Zamponi 2012]. Nella Seconda Repubblica, la funzione di veto player giocata dal

8 Salvo, come detto, nel periodo d’oro della concertazione, che poi non sarebbe che una manciata d’anni, degli anni ‘90, quando il centrosinistra al potere ha permesso di allentare un po’ la pressione esterna e con essa il controllo partitico. Situazione comunque ben diversa dai toni trionfalistici di tanta letteratura sul raggiungimento della tanto agognata autonomia sindacale.

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sindacato nel sistema maggioritario [Martone 2006, 237; cfr. Tsebelis 1995] sarebbe quindi stata la manifestazione non di un’opposizione sociale, quanto di un supporto più o meno dichiarato alla fiacca opposizione dei partiti del centro sinistra in funzione anti-berluconiana.

E la cosa più paradossale è che il sindacato, seguendo il centrosinistra politico, avrebbe in realtà agevolato, con questo comportamento, lo slittamento strutturale portato avanti dal berlusconismo. Come nota Terzi [2003b, 93], «Non basta attaccare Berlusconi per essere alternativi». «La sinistra non ha lavorato sull’autonomia sociale, ma ha seguito l’onda, pensando che innovazione significa democrazia personalizzata, mediatica, passaggio dalla struttura collettiva del partito alla funzione carismatica del leader» [ivi, 88-89]. Dello stesso avviso pare essere Carrieri [2010]: Non sono più i partiti ad occupare il centro della scena, ma i governi e le personalità che li plasmano. Per le organizzazioni funzionali si pone il nodo di come rapportarsi all’arena politica e soprattutto dell’atteggiamento da tenere verso chi governa: cooperazione, affiancamento, neutralità, contrapposizione. Quella che sembra preclusa è la doppia pista spesso delineatasi nel passato, che consentiva di tenere insieme una contrapposizione ideologica forte con una disponibilità al compromesso nelle decisioni essenziali. Agli attori sociali viene quindi richiesto di scegliere quale atteggiamento tenere nei confronti del governo in office.

Nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, o per usare i termini di Carrieri dalla “Repubblica dei partiti” al sistema politico personalizzato, condizione poi ulteriormente sviluppatasi nella situazione attuale [Calise 2006] fra agiografia del governo tecnico e larghe intese, sarebbe dunque cambiato il peso dei partiti, ma non la loro influenza sulle strategie sindacali, che anzi ne uscirebbe rafforzata. La debolezza dei partiti, e delle maggioranze da essi sostenute, legherebbe infatti in modo ancor più stretto l’azione sindacale alla linea politica della coalizione di riferimento, onde evitarne la caduta o per agevolarne l’opposizione. In particolare, la disponibilità sindacale a moderare la conflittualità diventa, come osserva Giugni [2003], il modo per assicurare continuità alla maggioranza politica.

Tale situazione pare poi essere paradossalmente peggiorata ancora con quella che qualcuno ha già ribattezzato Terza Repubblica. La fine della contrapposizione frontale e polarizzata, con la maggioranza ampia a sostegno del governo tecnico di Monti e con le vere e proprie larghe intese del governo Letta, invece di porre a sua volta fine alla nuova politicizzazione sindacale della Seconda Repubblica, avrebbe legato ancor più strettamente le confederazioni alle scelte politiche dei partiti (il riferimento primario resta sempre alla CGIL e al PD). Criticare le politiche degli ultimi governi d’emergenza significherebbe, ora più che mai, contraddire la linea politica del partito che più di ogni altro si è impegnato nella costruzione del nuovo corso, esporlo agli attacchi dei nuovi soggetti politici come il Movimento 5 Stelle, mettere in dubbio di fronte alla constituency elettorale la bontà dell’alleanza con la parte politica demonizzata fino al giorno prima, e la legittimità di riforme antipopolari e assai lontane dalla cultura politica della base. Può essere che tutto ciò sia indicativo di un grande senso di responsabilità tanto dei partiti quanto dei sindacati di fronte alla grave congiuntura di crisi economia, ma può anche darsi che tutto ciò non sia che la prosecuzione, con altri mezzi e in altre condizioni e pur con rapporti di forza piuttosto diversi, del classico collateralismo politico. Non è neanche più il tempo, per le organizzazioni del lavoro, dei velleitari tentativi del passato (anche recente) di creazione di nuove forze politiche alternative o di rinnovamento dall’interno dei partiti. Emblematicamente, l’ex segretario CGIL Epifani, che all’inizio del suo mandato aveva parlato di una forte necessità di “risindacalizzazione” del sindacato [Terzi 2003b, 95], diventa segretario del PD quando questo è alleato del PDL di Berlusconi in una maggioranza che persegue politiche neoliberiste e di austerity, con uno scarso coinvolgimento dei sindacati ma con la loro pressoché totale acquiescenza.

Qui si capisce la sostanziale differenza che allontana il governo Monti, e la sua prosecuzione politica attuale, dagli altri governi tecnici che hanno traghettato l’Italia nella Seconda Repubblica. In entrambi i casi si trovano partiti deboli e delegittimati, ma mentre nel primo si stava ancora uscendo dalla Repubblica dei partiti [Carrieri 2010] con istituzioni che, orfane della forza dei partiti che le aveva sostenute per tutta la Prima Repubblica, avevano bisogno di appoggiarsi alle parti sociali e ricevere da queste legittimazione, con l’avvento del governo Monti a partiti deboli fa da contraltare un governo non solo personalizzato, ma forte e in grado di godere di una larghissima legittimazione interna ed internazionale. Se nel primo caso partiti deboli in situazioni di crisi si riflettevano in un Parlamento frammentato [Gualmini 2012], nel secondo l’esito della situazione di crisi è stato che partiti altrettanto deboli e forse ancor più divisi (specie dopo le elezioni 2013, con l’entrata in scena del Movimento 5 Stelle) si sono alleati formando maggioranze eterogenee ma larghe in una nuova grande coalizione, questa volta politica, attorno al governo Letta. Alleanza di natura ancor più dirompente, vista la forte polarizzazione di poco tempo prima, del compromesso storico di fine anni ‘80, per quanto unisca indirizzi di policy liberisti affatto distanti nella pratica, e rimasti spesso divisi solo nella retorica della polarizzazione. I partiti deboli, e con loro a ruota i sindacati sempre più deboli [Crouch 2012], si sono alleati e stretti così attorno al governo trovando da esso legittimazione, mettendo da parte ogni conflittualità. In sostanza, la principale

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differenza per il sindacato (per spiegare la moderazione rintracciabile allora come oggi) fra i governi tecnici della Seconda Repubblica e la situazione attuale, tecnica o politica sedata che sia, starebbe proprio nella maggioranza che sostiene gli esecutivi, che contiene però in entrambi i casi il partito di riferimento, e non nella radicalmente opposta domanda di concertazione proveniente da questi esecutivi.

Sembra pertanto di rintracciare una continuità nel cambiamento fra Prima e “Terza” Repubblica passando attraverso i mutamenti intervenuti nella Seconda. Nella Prima Repubblica i partiti sono stati i monopolizzatori della funzione di gatekeeping, funzione che sarebbe perdurata, a causa del contemporaneo indebolimento del sindacato sempre più bisognoso comunque di appoggio politico, anche a seguito dell’indebolimento dei partiti. Strutturata, tuttavia, non più nella direzione della concertazione, ma verso un progressivo appoggio incondizionato, e dunque ad un potenziamento, dei governi tanto politici quanto tecnici che operano per decreto, senza che il sindacato appoggiato ai partiti recalcitri in alcun modo significativo a tale svuotamento del suo stesso ruolo [Regini 2007].

I sindacati, così come gli altri gruppi di interesse, avrebbero avuto in Italia facoltà di influenzare attivamente l’azione dei partiti solo nei momenti in cui questi, e le istituzioni (da essi così pesantemente compenetrate) con loro, sono stati deboli [Fabbrini 2012], ma nel procedere della Seconda Repubblica i sindacati sono diventati (per vari motivi, a partire dalla destrutturazione e precarizzazione del lavoro) a loro volta sempre più deboli e bisognosi di appoggio (controllo?) da parte dei partiti. D’altronde, come dimostrano ricerche comparate [Allern et al. 2007], quanto più i legami passati fra partiti e sindacati sono stretti, come in Italia, tanto più è difficile scindere tali legami anche al mutamento delle condizioni in cui gli attori si muovono e dei loro rapporti di forza reciproci. In tal senso, l’Italia della Seconda e “Terza” Repubblica sarebbe uno di quei casi concreti in grado di smentire, o meglio qualificare, l’opinione prevalente secondo cui, in termini generali, il rapporto fra partiti e organizzazioni degli interessi si starebbe via via indebolendo [Allern e Bale 2012a; 2012b]. Il rapporto rimarrebbe infatti forte, e ancora una volta, come nella Prima Repubblica, non egualitario o simbiotico [Witko 2009], ma in gran parte unidirezionale: dai partiti, per quanto deboli, ai sindacati.

Tale ulteriore restringimento degli spazi di autonomia, se coniugato con partiti di riferimento sempre più deboli e sempre meno legittimati [Eurispes 2013], apre peraltro scenari ancora più foschi [Pizzorno 2001]. Nella Prima Repubblica i sindacati erano infatti caratterizzati da uno spiccato carattere universalista [Bordogna 1985], che, al di là delle divisioni partitiche e della retorica trade-unionista della CISL [Gentile 2011], li caratterizzava diversamente che in molti altri casi [Mattina 2010] come gruppi di interesse pubblico. Nonostante il collateralismo a partiti comunque di massa e legittimati, i sindacati mantenevano, specie in particolari periodi, spazi di autonomia e di influenza inversa in grado di veicolare nei confronti dei partiti non solo loyalty, ma anche voice [de Leonardis e Negrelli 2012].

A partire dall’avvio della Seconda Repubblica, tuttavia, il da sempre presente collateralismo rispetto ai partiti può portare a far dubitare dell’azione universalista [Vallebona 2008] (non solo per i problemi di rappresentanza del sindacato nel nuovo mondo del lavoro), fungendo essi, viceversa, spesso quali amplificatori delle posizioni politiche di una parte contro l’altra, ancora più che come difesa di interessi di parte (i lavoratori, la classe) che paiono invece recentemente intaccati tanto dalle politiche del centrodestra quanto da quelle del centrosinistra, oltre che dai governi più o meno tecnici o di larghe intese. I dubbi in questo senso sull’attitudine della concertazione ad intercettare l’interesse generale anche in un contesto accentuatamente bipolare come quello della Seconda Repubblica, che sono stati avanzati anche da Negrelli [2007] e Cella [2007], rischiano per questa via di mettere a serio rischio una qualità essenziale della democrazia solitamente difesa dalle organizzazioni, quale l’uguaglianza [Regalia e Sacchi 2013].

Rischi ancora peggiori si addenserebbero attorno alla situazione della “Terza Repubblica”. Con il passaggio dalla polarizzazione spinta al consensualismo indiscutibilmente dettato dalla necessità che, attraverso i partiti, pare aver contagiato anche i sindacati confederali, questi ultimi rischiano di abdicare in maniera irreversibile in favore di nuove forme di organizzazione sociale [Lastrico 2012b; 2012c; forthcoming], perdendo in tal modo ulteriore peso nella società, quello che sarebbe un ruolo e un dovere loro proprio, quello della critica costruttiva e dell’importanza del conflitto nel mutamento sociale e nell’institution building, tanto più preziosi in un periodo di ricette egemoniche omologate e preconfezionate per uscire dalla crisi, tanto economica quanto politica.

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