racconti - isaventuri.it fuori... · compagni di squadra cadere come foglie gialle sull’asfalto....

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3 RACCONTI FUORICLASSE 2014 RACCONTI FUORICLASSE 2014 L’immagine scelta per la copertina è di Marco Rubbera, 2°F, ISA “A. Venturi” - Modena

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RACCONTI FUORICLASSE 2014RACCONTI FUORICLASSE2014

L’immagine scelta per la copertina è di Marco Rubbera, 2°F, ISA “A. Venturi” - Modena

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RACCONTI FUORICLASSE 2014

RACCONTI FUORICLASSEConcorso letterario degli studenti delle scuole modenesi

4° edizione - maggio 2014

RACCONTI FUORICLASSEConcorso letterario degli studenti delle scuole modenesi4° edizione - maggio 2014

Si ringraziano

gli studenti delle scuole modenesi:Istituto tecnico Industriale “Fermo Corni” di ModenaIstituto tecnico Industriale “A. Volta” di SassuoloIstituto tecnico Industriale “Leonardo da Vinci” di CarpiLiceo Musicale “Carlo Sigonio” di ModenaLiceo delle Scienze Umane “Carlo Sigonio” di ModenaLiceo Artistico “Adolfo Venturi” di ModenaLiceo Scientifico “Wiligelmo” di Modena

i docentiTiziana AvantaggiatoCristina BenfattiDaniela BernardiArcangela CaragnanoMaura CasiniMariangela CavaniAlessandra CiannameoDaniela CorradiniTiziana Di MeoMarinella GandiniMargherita MantovaniMaria Elena MonariSimona MontorsiDaniela PentaElisabetta PiccininiCarla QuarantaAnna Maria QuartiliMichela SalsaruloPietro SimonettiAnna SoresinaClaudia VellaniRosalba Verrone

i dirigenti scolasticiAlessandra BorghiLiviana CassanelliGloria CattaniFrancesca Romana GiulianiGiovanna MoriniRoberta Pinelli

per la realizzazione di questo volumePaola Macchi

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PRESENTAZIONE

All’ottavo anno dalla nascita, la Gara di scrittura “Racconti fuoriclasse”, ideata da alcuni insegnanti del Liceo Sigonio e poi allargatasi a tante altre scuole, conosce una nuova vita.

Nelle ultime tre edizioni, l’Associazione Editori Modenesi aveva raccolto e pubblicato i racconti selezionati dalla giuria formata dalle classi IV in un bellissimo libretto, illustrato dagli studenti dell’Istituto Venturi, scegliendo e premiando inoltre i tre racconti migliori.

Quest’anno le difficoltà economiche che attanagliano il nostro paese hanno costretto l’Associazione a rinunciare alla pubblicazione e anche a costituire la Giuria per la scelta dei racconti migliori.

Abbiamo quindi selezionato una giuria diversa, formata anche da persone esterne alla scuola, poiché ci interessava avere pure il punto di vista di chi non è abitualmente a contatto con la scrittura scolastica: della giuria hanno fatto parte 2 docenti di scuola superiore, un docente di scuola primaria, una giovane laureata in lettere aspirante scrittrice, un’attrice. La Giuria per la scelta delle illustrazioni (prodotte da due classi seconde del Liceo Artistico) è stata invece composta da docenti di discipline grafiche e pittoriche dell’Istituto “Venturi”.

Abbiamo poi optato per la pubblicazione on line, per poter offrire agli studenti scrittori una “vetrina” che riconoscesse il loro lavoro, utilizzando un linguaggio, quello informatico, che tanta parte ha nella vita dei nostri allievi.

Ma, anche se è cambiata la forma della pubblicazione, quella che non è variata è la qualità dei racconti prodotti, che dimostra ancora una volta come proposte interessanti e coinvolgenti hanno tuttora il potere di trascinare i giovani, di consentire loro di esprimere i propri sentimenti, le emozioni, le paure, i desideri, in una fase della vita, l’adolescenza, che viene troppo spesso dipinta come un periodo felice e spensierato.

In realtà, l’adolescenza è un periodo che oggi i ragazzi affrontano con insicurezza, ansia, confusione, senso di isolamento e di impotenza, talvolta anche depressione, mai osservati nel passato. Per questo, offrire loro la possibilità di scrivere significa dare agli adolescenti una

voce e un uditorio, che troppo spesso in questa società così povera di valori faticano a trovare.

Di tutto questo sono specchio i racconti pubblicati: ancora una volta, gli studenti scrittori ci hanno stupito, per la varietà degli argomenti affrontati, per la ricchezza del linguaggio, per l’inventiva, l’originalità, la capacità di acchiappare l’attenzione del lettore, la profondità dello sguardo, la delicatezza di alcuni temi e la forza di altri.

Una lettura che, quest’anno come per il passato, non lascerà delusi quanti faranno il piccolo sforzo di sfogliare il nostro e-book.

Poiché le iniziative camminano sempre sulle gambe delle persone, è doveroso ringraziare in particolare le molte insegnanti che hanno attuato l’iniziativa e che hanno dimostrato, ancora una volta, che la tanto bistrattata scuola italiana conserva tuttora preziosi spazi di attenzione, di dedizione, di carica umana e professionale.

A tutte loro va l’apprezzamento e il ringraziamento dei Dirigenti delle scuole coinvolte, con l’auspicio che anche l’anno prossimo trovino il modo di far vivere questa straordinaria iniziativa.

Roberta PinelliDirigente del Liceo delle Scienze Umane

“Carlo Sigonio”

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a PICCOLA LUCE, CONTINUA A SPLENDERELuca Turco, 2°B , ITIS “F. Corni”Modena

“Quel bambino ha una forza interiore incredibile, ma il suo corpo è ogni giorno più debole...”. Questa è la frase che il medico ripete sempre ai miei genitori, che rispondono sempre annuendo con la testa, senza dire una parola. Mi chiamo Michele, quello della stanza 106 per i medici e le infermiere, ho 6 anni e soffro di una rara malattia, si chiama “luce mia” o qualcosa del genere. Ho provato molte volte a chiedere al dottore che cos’è questa malattia, ma non ci ho mai capito qualcosa, parlava di “calcio” ma non intendeva il gioco del pallone. Io e lui non ci intendiamo molto bene, anzi quasi lo odio, mi dice sempre che va tutto bene, poi esce sempre con mamma e papà e parla con loro, non so cosa gli dice, ma quando parla, mamma piange sempre. Trascorro le mie giornate osservando il mondo attraverso la finestra che dà’ sul parco, vedo la gente correre, parlare, giocare, piangere o semplicemente passeggiare. Ogni tanto veniva a trovarmi qualche mio parente, non mi piaceva molto parlare con loro, perché nei loro volti vedevo la falsità delle loro parole, sempre con quei sorrisi stampati sulla bocca. L’unica persona con cui parlavo apertamente era la nonna, lei era diversa dagli altri, ascoltava tutto ciò che dicevo: le storie pazze o cosa pensavo dei dottori, lei non faceva niente, mi ascoltava e basta. Da quando se ne è andata i giorni sono sempre più lunghi e tristi.

Poco tempo fa ho notato una bambina nel parco, si sedeva ogni giorno alla stessa ora sulla stessa panchina, sempre sola, arrivava alle dieci del mattino e se ne andava alle cinque del pomeriggio. Mi sembrava di conoscerla, ma non ricordavo dove l’avevo vista. Un giorno mi sono accorto che mi stava fissando intensamente, con quei grandi occhi azzurri che risaltavano sulla folta chioma di color giallo pastello. Un giorno se ne è andata alla stessa ora, ma mi ha fatto una specie di saluto, un saluto strano, a tre dita, sollevando solo l’indice, il medio e l’anulare della mano destra, per poi incamminarsi sul viale di ritorno con il vento che gli passava tra quegli splendidi capelli. Quella stessa sera mi sono sentito strano: perché mi ha salutato in quel

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modo? Cosa voleva da me? Il giorno seguente pioveva molto forte, una di quelle solite piogge estive. Dopo i soliti esami sono tornato nella mia stanza e incredulo l’ho vista, sulla stessa panchina sotto la pioggia battente che mi fissava. Allora ho aperto la finestra e le ho detto che se non voleva stare a casa poteva venire dentro l’ospedale, almeno per non bagnarsi. Lei ha seguito il mio consiglio ed è entrata, è venuta nella mia stanza e mi ha detto: “Quando ne avrai abbastanza di tutto questo, non dovrai fare altro che seguirmi...”, poi se ne è andata per il solito viale. Sono rimasto sveglio tutta la notte per cercare di capire cosa volesse dire quella frase: perché dovevo seguirla? I giorni seguenti non l’ho più vista su quella panchina. Pioveva sempre e il gocciolio dell’acqua era scandito solo dal bip di un macchinario che ho sempre attaccato e che serve a sentire il mio cuore. Anche se in un ospedale non c’è mai silenzio, io riuscivo solo a percepire questi due rumori, il resto era solo un insieme di suoni incompressibili. Col passare dei giorni mi sentivo sempre più debole, la mia testa pelata era sempre più pesante e le mie fragili ossa sempre più dolorose. Una notte mi sono svegliato di colpo, un rumore acuto mi ha fatto sobbalzare dal letto: era un suono fastidiosissimo, e infinito. Tutti nell’ospedale si sono allertati eho visto correre verso il mio letto il medico. E’ successo tutto in fretta. Poco dopo ho visto me stesso nel letto dove il dottore aveva appena perso le speranze.

Vedo la mia sagoma, immobile, senza vita. Di fianco a me, c’è lei, la bambina del parco che mi prende per mano e mi dice di seguirla. Lo faccio. Mi fa uscire dall’ospedale e mi porta con sè nel suo viale pieno di foglie gialle sull’asfalto.

Un giorno d’aUtUnnoFrancesco Roversi, 2°B , ITIS “F. Corni”Modena

É un bel giorno d’autunno, sto passeggiando nel parco con la mia fidanzata, guardo per terra e vedo delle foglie, foglie gialle, sull’asfalto, quelle stesse foglie che quel giorno mi hanno fatto pensare e sognare... anche allora era un bellissimo giorno d’autunno, ero seduto sulla solita panchina del parco ad aspettarla. Allora non era ancora la mia fidanzata, stavo leggendo il giornale e e mi colpì un titolo : <GUERRA IN CINA > L’articolo scritto da un giornalista inviato speciale a Pechino, parlava della guerra tra la Cina e Giappone per un’ isola disabitata ma ricca di materie prime. La notizia mi aveva fatto pensare, guardai per terra, pensai a quelle povere persone che dovevano combattere e morire solo per una stupida isola, immaginai che quelle foglie, gialle, cadute, morte fossero quelle persone, in battaglia. Immaginai di essere il giornalista costretto a vedere tutto quell’ orrore, l’orrore di una guerra. Più di tutti, però, immaginai di essere uno di quei cinesi; adesso non so perché mi immedesimai in un cinese e non in un giapponese; comunque, ero lì sul campo di battaglia in mezzo a moltissimi morti miei amici, conoscenti, sconosciuti, ma comunque morti. Immaginai di essere lì a sparare dietro un muro, dentro un buco scavato con le mani, vedevo i miei compagni di squadra cadere come foglie gialle sull’asfalto.

Mi risvegliai da quella specie di “incubo”, almeno così lo chiamai, incubo, ma era un po’ troppo reale per esserlo. Ma alla fine non ci pensai più di tanto. Ero lì seduto ad aspettarla, arrivò: quello fu il giorno in cui ci fidanzammo. L’accompagnai a casa e rincasai anch’io felicissimo perché mi ero appena fidanzato non stavo neanche più pensando all’articolo di giornale, mi misi a dormire perchè ero molto stanco, ma ad un certo punto della notte, verso le 2 del mattino mi svegliai di botto. Sentii una fitta fortissima alla testa, rientrai nell’ “incubo”: ero sdraiato su un letto o qualcosa di simile e avevo un dolore lancinante al fianco sinistro. Scoprii che mi era scoppiata una bomba di fianco e che avevo perso una gamba e avevo quasi tutte le ossa del fianco sinistro rotte, mi era andata abbastanza bene. Mi

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addormentarono per operarmi. Mi risvegliai, sentii il mio telefono che squillava: era lei, la mia fidanzata. Ero così felice di poter dire: “la mia fidanzata”; ci incamminammo, passeggiammo per un po’ in centro, poi però passammo davanti ad un parco e, vedendo una foglia cadere, entrai di nuovo in quell’ “incubo”. Quella volta però sentii solo urla e pianti: ero morto solo nell’ “incubo” ma ero morto. Riaprii gli occhi: ero di nuovo sdraiato su un letto, questa volta avevo solo mal di testa, ma era troppo forte per essere normale. Mi resi conto che ero in un ospedale con la mia fidanzata ed il dottore di fianco a me. Mi spiegarono che, mentre io e Valentina passeggiavamo, ero svenuto di colpo, allora lei aveva chiamato l’ ambulanza che mi portò all’ospedale. Dissi al dottore cosa mi fosse successo e lui mi fece una tac in cui mi diagnosticò che avevo una “cosa”, così la chiamò. Mi fece vedere e nel mio cervello c’era una “cosa”, una forma strana, non era un animale, no, non era viva, era tipo un portale tra me e i soldati cinesi a quanto pare, quindi non sarebbe mai finito quell’incubo interminabile. Mi venne quasi un infarto. Quando Valentina mi svegliò, ecco la prima cosa che pensai: “E’ stato un sogno”. Evviva! ma poi quando vidi che lei mi stava guardando dubbiosa, tornai alla realtà e iniziammo a passeggiare, quello fu il giorno in cui ci fidanzammo. E’ un bel giorno d’autunno, sto passeggiando per il parco con la mia fidanzata, lei mi dice: “Ma guarda che belle queste foglie!”. Io penso: “Già, le foglie, le “mie” foglie gialle sull’asfalto”.

trinCEa...Mattia Salvioli, 2°B , ITIS “F. Corni”Modena

É dura la vita di un soldato in trincea. Io, lo so bene, sono qui da circa 2 anni, da quando l’Italia è entrata

nella Grande Guerra. Oggi è il mio compleanno e mi trovo qui, a Caporetto, a festeggiare i miei 20 anni nel modo più orribile che potessi aspettarmi; sappiamo che arriveranno gli eserciti Tedeschi e Austriaci, quindi siamo qui con le armi cariche, pronti all’arrivo dei nemici.

Qui tutti mi chiamano “Ale”, così come facevano mia madre e mio fratello. Quanto mi manca la mia famiglia, la mia casa, quanto vorrei un piatto di pasta al pomodoro e una fetta di torta! Un abbraccio da mia madre e una pacca sulla spalla da mio padre. Ma ogni volta che ci penso, la realtà mi riporta indietro; mio fratello è in marina, molto distante da me, mio padre e mia madre sono morti. Mio fratello è un ragazzo semplice, allegro, giocoso...non riesco proprio ad immaginarlo militare, che si alza ogni giorno pensando di dover mettere fine a tante vite.

Arriva una chiamata: Marco, il mio vicino, risponde al telefono. È un ragazzo di soli 17 anni, molto simpatico che ama ridere e cantare. Quando si volta verso di me noto un tremore nella sua voce, quando dice “Arrivano!”. Non ho tempo di pensare. Noi soldati non siamo portati a pensare, eseguiamo gli ordini e basta.

Mi alzo di scatto e inizio a correre per andare ad avvertire i nostri compagni dell’arrivo dei nemici. Non mi fermo neanche a guardarli, riferisco il messaggio e corro via, verso altre persone da avvertire. So già che alcuni, proprio come me, hanno paura. Perchè? Perchè siamo già distrutti, la metà di noi sa già che perderemo prima che arrivi il nemico. Torno indietro e carico la mia arma: “Siamo già morti!” dice Marco. “Già, hai scritto alla famiglia?” - “Si” - “Anche io”. Intorno a noi c’è solo silenzio, sentiamo soltanto il rumore dei cannoni e dei soldati che si preparano allo scontro dall’altra parte. Un botto squarcia il silenzio, un razzo segnalatore squarcia il buio nella notte e per un

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secondo sembra che tutto il mondo stia per festeggiare la fine della guerra. Per un decimo di secondo immagino che la guerra finalmente sia finita: tornerò a casa, rivedrò i miei parenti, i miei amici e la mia ragazza. Poi un cannone spara, i fucili e le mitragliatrici iniziano a mietere le prime vittime, la mia pace svanisce ed inizio a premere il grilletto. Riesco a colpire dei nemici; il tempo passa e il nostro esercito è stato decimato dalle cannonate e dai proiettili. Siamo completamente soli e isolati a combattere contro un nemico troppo forte per noi. Alcune truppe tedesche escono dalla loro trincea e raggiungono le nostre linee; riesco ad abbattere qualcuno, guardo Marco, capiamo che moriremo. Prendiamo le armi e le ricarichiamo al massimo, sentiamo le urla dei nostri compagni colpiti dai nemici. Corriamo verso i Tedeschi, urlando e sparando verso tutti coloro che tentano di ucciderci.

Uno sparo, una goccia di sangue mi corre sulla fronte, andandomi a finire sugli occhi. Cado, la mia battaglia è finita, sono morto con una pallottola in testa. Nessuno si ricorderà di Ale, che si è buttato sul nemico invece di fuggire. Nessuno si ricorderà di Marco. L’ultimo mio pensiero va alla mia casa, al mio giardino, al mio albero dove passavo le mie giornate a scherzare con gli amici, giornate felici e spensierate fino al giorno che sono partito. Non ricordo che mese era, ricordo soltanto di essermi voltato e di avere visto le foglie gialle sull’asfalto.

Carlotta Lazzarini, 2°H, ISA

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iL Mio PoSto nEL MondoGiorgia Fiorani, 2°B, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Capita spesso di sentire di non riuscire più a farcela.Capita perché si arriva ad un punto in cui le cose che ti sei sempre

tenuta dentro ti implorano di uscire; sono tutte lì in gola che spingono e, nonostante lo sforzo per mandarle giù, sono talmente tante che hanno una forza sovrannaturale.

Così ti arrendi perché è l’unica cosa che ti rimane da fare.A volte capisci che devi un po’ arrenderti alla corrente che ti

circonda e che cerca in un qualche modo di risucchiarti, inglobarti. Molti penseranno che è la cosa più facile, la cosa che conviene fare

quando non si ha voglia di lottare;in realtà penso che a volte la resa indichi l’umiltà.

Sì, perché non si può lottare contro cose invincibili, solo gli egoisti lo fanno.

Non disprezzo gli egoisti, ma apprezzo gli umili.Apprezzo chi conosce i propri limiti, chi è a conoscenza del suo

posto nel mondo.Io non lo so qual è il mio posto, quindi non mi disprezzo e non mi

apprezzo, è un po’ come dire che non sono né carne né pesce e molto probabilmente non lo sarò ancora per molto.

Voglio lasciare il tempo necessario a me stessa per capire se sono una semplice pedina o la dama,se sono foglie verdi sugli alberi o foglie gialle sull’asfalto.

Voglio lasciare il tempo necessario alla vita di presentarmi esperienze e prove che mi aiuteranno a capire chi voglio essere e chi posso essere. Avere troppa fretta non serve a niente, crea soltanto incomprensioni.

Capita che per un periodo di tempo tu pensi di essere una cosa e invece col tempo capisci che puoi essere anche l’opposto.

Voglio vivere ogni ora pienamente, ciò non significa felicemente. Non credo a chi per andare avanti dice di voler essere felice sempre perché ogni secondo ti accadono cose uniche.

Sarebbe impossibile farsi andare bene tutto, non sentirsi mai giù di morale, proprio perché siamo persone umane.

Io credo a chi dice di godersi ogni attimo; non ti dice come, ma si raccomanda di farlo. Per me l’importante è sentirsi vivi sempre,far sentire agli altri la tua presenza, farsi ricordare anche in modo negativo, perché vorrà dire che qualcosa l’hai fatto.

Solo così si può dire di aver vissuto e alla fine tutti capiremo il nostro posto. Voglio viaggiare, affezionarmi a luoghi e persone nuove per poi andare altrove ed essere triste ma poi subito di nuovo felice, andare contro il mio essere per vedere e capire le diversità che ci sono al mondo, provare ogni emozione per scegliere quale mi piace di più provare.

Voglio lottare per il mio posto nel mondo, nonostante tutte le cadute e i momenti bui previsti e solo dopo potrò accettare di essere foglie gialle sull’asfalto.

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non avEva Più PaUraMaria Laura Frascadore, 2°B, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Emma e Matteo erano due ragazzi universitari che si conoscevano da quando erano bambini. Adoravano girovagare di notte per il centro, guardare le stelle sulle macchine altrui, giocare ai videogiochi e amarsi l’un l’altro. I due ragazzi erano fidanzati da tre anni, ma nell’ultimo periodo un imprevisto aveva scombussolato completamente la loro quotidianità

Un giorno, dopo l’esame di fisica, i due ragazzi si stavano dirigendo verso casa di Emma. Matteo stringeva il dito indice e medio della ragazza tra le sue dita sudate. C’era caldo e il sole picchiava sulle teste dei due innamorati. Lungo la strada fecero una piccola deviazione e si fermarono su una panchina nel parco per gustarsi al meglio la splendida giornata di settembre. Guardavano le anatre nel laghetto di fronte, si accarezzavano e giocavano come fossero due ragazzini. Nonostante la gioia che li circondava, Emma aveva uno sguardo assente, era diversa. Matteo non capiva cosa potesse essere successo. Cosi d’un tratto la bloccò strinse il suo volto tra le mani. Le pupille si incrociarono ed Emma improvvisamente lasciò cadere due lacrime dai suoi occhi lucidi e azzurri come il mare. Matteo non riusciva a capire. Emma lo strinse sulla vita e molto lentamente gli disse: Ho il cancro. Il ragazzo, sconvolto dalla notizia, sbiancò si buttò sul prato e ammutolì. Lei si avvicinò lo baciò come non lo aveva mai baciato.

Matteo aveva lo sguardo fisso nel vuoto, era imbalsamato e non fiatava. Dopo un’ora passata sdraiati sul prato, lui si alzò senza dire una parola e scappò, se ne andò. Correva lungo le piccole e strette vie del parco senza girarsi neanche una volta.

Emma impietrita si bloccò, poco dopo scoppiò in un pianto malinconico e amareggiato: non sapeva cosa fare, se raggiungerlo o andarsene, ma alla fine scelse di non muoversi. Si sdraiò. Immobilizzata osservò le stelle e poco dopo si addormentò fino al mattino seguente. Il giorno dopo venne svegliata da una carezza di una dolce vecchietta, che era solita gironzolare nel parco di primo mattino. Emma, ancora

turbata, si alzò e tornò a casa. Voleva scordarsi tutto ciò che era successo, ma ovviamente questo era impossibile.

Si buttò sul divano e guardò fuori dalla finestra. Il cielo era limpido, privo di nubi, ma la sua mente era tutt’altro che limpida: mille pensieri le passavano per la testa. Come fare per ritornare dal suo amato? Come riuscire a godersi l’ultimo pezzo della sua breve vita? Come riuscire a smettere di avere paura?

Callò la notte e Matteo non riusciva a dormire. Si sentiva male per ciò che aveva fatto. Non avrebbe mai dovuto lasciarla da sola in un momento tanto delicato. Si vestì, prese la giacca e corse fino davanti alla casa della sua amata. Non c’era nulla, solo silenzio che frenava i pensieri di Matteo. Era notte, il vuoto riempiva le strade della città di Modena, era solo ed era davanti la casa di Emma. Non aveva il coraggio di farsi avanti e bussare a quella porta che sembrava enorme e impossibile da oltrepassare.

Ci provava, si faceva coraggio, ma nulla: la vergogna di averla abbandonata prendeva il sopravvento e lui non riusciva a sconfiggerla. Dopo qualche minuto decise che era arrivato il momento: si aggiustò la giacca, si fece coraggio e bussò.

Nessuna risposta, nessun movimento, nessun rumore. Girò le spalle verso la porta e proprio quando stava scendendo il primo scalino, ecco che un cigolio lento e acuto gli rimbombò nell’orecchio sinistro. Si voltò con una voce soffocata disse: Pensavo non ci fossi più. Emma lo raggiunse con un passo lento, gli accarezzò la guancia destra e lo strinse in un forte abbraccio.

Lo fece entrare e i due si addormentarono dolcemente sul letto.La mattina seguente Matteo svegliò la ragazza, la strinse tra le

braccia e le disse: d’ora in poi ti farò vivere il periodo migliore della tua vita

In quel momento lei capì che la sua vita poteva finire solamente se non aveva più lui al suo fianco. Non aveva più paura. Si affacciarono alla finestra e i loro occhi fissavano il cielo, le nuvole, i prati e quelle piccole foglie gialle sull’asfalto.

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iL CaPPotto giaLLoIlaria Sternieri, 2°B, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Il suono delle piccole scarpette di Cassandra riecheggiava sul

fondo delle viuzze. Era appena scappata dall’orfanotrofio, quel luogo che da due anni era diventato la sua casa. Era uscita alle quattro e mezza per non farsi scoprire dalla signora Charmicool, l’istitutrice che da sempre era stata il peggiore incubo di tutti gli ospiti di quella casa infelice e in particolare per Cassandra che, a causa del suo carattere aggressivo e orgoglioso, non era mai entrata nelle sue grazie. Non ricordava bene come era arrivata lì, ricordava invece che una mattina due agenti di polizia avevano bussato alla porta di casa sua mentre era con la vicina di casa che l’accudiva e lei era corsa ad aprire. Avevano il volto tirato da profonde rughe, quelle di chi deve dirti qualcosa che sa ti farà stare male. I suoi genitori erano morti. Cassandra scacciò via una piccola gemma salata che le si era fermata nell’angolo dell’ occhio e si ricompose camminando a testa alta e senza timore. Sua madre e suo padre erano andati a una cena di amici, la mamma aveva tirato fuori il suo cappotto preferito di un bel giallo ocra che aveva sempre fatto ridere Cassandra.

A Cassandra avevano raccontato che era stato uno sbandato, un ubriacone, un drogato, li aveva aggrediti con una pistola all’uscita sul retro della casa dei loro amici e aveva sparato loro dopo che si erano rifiutati di dargli il portafoglio. Chissà perché quel vigliacco aveva dovuto ucciderli, bastava provare a chiedere senza minacciarli, senza sparare, senza toglierle proprio i suoi genitori, la sua famiglia tutto ciò che aveva.

Desiderava da sempre andare a vedere dove era successo quell’orrore, magari ingenuamente pensava che per capire ciò che era successo bastasse vedere il luogo del delitto, oppure a quel punto, se ci fosse stato un motivo più profondo e a lei nascosto, credeva l’avrebbe scoperto. Al suo incedere i sanpietrini si disgregavano sotto i suoi piedi a causa dell’ usura e della scarsa manutenzione, ne calciò uno. Si fermò. Una leggera brezza autunnale le accarezzò il volto da bambina

scompigliandole i lunghi capelli color dell’ ebano come quelli di papà. Aveva amato suo padre, ma ora nei suoi ricordi era una figura

sfumata, non definita, forse a causa della lontananza. Di lui rammentava, però, in modo perfetto e incorruttibile le splendide giornate passate al parco durante l’autunno a gettare all’aria le montagne di foglie dorate, vermiglie e marroni che con fatica i giardinieri avevano raccolto la mattina e avevano lasciate incustodite, quasi fosse un invito per i loro giochi. Suo padre era serio al lavoro, austero fuori casa, invece dentro le mura domestiche era un marito premuroso e un padre giocoso, alle volte persino più infantile di lei.

Cassandra era ormai arrivata, sentiva le mani tremare, le teneva strette sotto le maniche del cappotto, una foglia gialla le cadde davanti una scarpa e si accorse che la via era fiancheggiata da un filare di alti alberi che stavano ormai perdendo tutta la loro chioma colorata che ora andava dipingendo il manto stradale. Eccola arrivata, davanti ai suoi occhi si presentò l’uscita secondaria di una casa. Si accorse di non aver avuto le risposte che sperava, quell’essere mostruoso aveva ucciso le persone che amava, in quel luogo gliele aveva portate via per sempre. Cassandra non capiva, aveva cominciato a versare lacrime che le rigavano il volto, se le trascinò via con la manica del cappotto. Si odiava quando veniva travolta dal dolore, calciò con rabbia un mucchietto di foglie facendole volare via.

Improvvisamente ricordò il colore del cappotto della mamma e i giochi fatti al parco col padre. Cassandra pianse pensando a ciò che significavano per lei quelle foglie gialle sull’asfalto.

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ti voLEvo SCrivErE...Rossella Aulopi, 2°C, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Ciao P,ti volevo scrivere ora perché è sera, di sera è giusto crollare. Sai ho tentato di fare la “dura”, sono quasi cinque giorni che cerco

di auto-convincermi che tu non significhi nulla per me. Ti scrivo perché nonostante tutto mi manchi, tengo a te, e

non poco. Ti volevo scrivere che non mi sbagliavo, mi hai fatto innamorare. Ti volevo scrivere che, ammesso che tu lo voglia, abbiamo una possibilità. Ti volevo scrivere che qui, qualsiasi cosa accada avrai sempre due braccia che non aspettano altro che accoglierti e stringerti.

Sempre.Ti volevo scrivere che non ce la faccio a dimenticarti. Che

nonostante tu mi abbia ferita... io ti voglio. Ti volevo scrivere che ricordo tutto quello che ci siamo detti, le promesse, le confessioni, anche gli insulti. Ti volevo scrivere che vedo la nostra amicizia completamente diversa dalle altre, non so spiegarti. Non ci vediamo mai, eppure sei la persona a cui sono più legata in assoluto. Mi fido di te.

Ti volevo scrivere che i miei squallidi tentativi di innamorarmi di qualcun altro sono sprofondati insieme alla speranza. Ti volevo scrivere che non ho fatto altro che aspettare una tua chiamata, dove mi chiedessi di restare. Ti volevo scrivere che mi sembra passata un’eternità da quando ci siamo sentiti l’ultima volta. Ti volevo scrivere che la tua risposta al mio ultimo messaggio mi ha fatto crollare, per poi piangere fino a quando sono finite le lacrime. Ti volevo scrivere che io credevo di contare qualcosa nella tua vita.

Ti volevo scrivere che il ruolo della ragazza perfetta non fa per me, sono paranoica, permalosa, disordinata, a volte infantile e chi più ne ha più ne metta. Ti volevo scrivere che mi sono pentita di essermi allontanata da te, ma entrambi sappiamo che avevo le mie ragioni. Ti volevo scrivere che non ho mai provato a dirti un vero “addio”, perché

è come se mi chiedessero di non respirare mai più. Ti volevo scrivere che sapevo che molto probabilmente ti aspettavi che tornassi, quando avevo giurato al cielo che non lo avrei fatto. Ti volevo scrivere che il mondo sembra vuoto. Ti volevo scrivere che ho cercato di fare tutto il possibile per essere quello che volevi, quello che desideravi.

Ti volevo scrivere che tutto l’universo sembra voglia dirmi che ho fatto una grande cavolata a voler finire tutto questo. Ti volevo scrivere che non ho cancellato tutti i torti che mi hai fatto, ma ciò non significa che non posso accantonarli e fingere che non mi interessa. Ti volevo scrivere che non posso più dirti che ti voglio solo bene, perché mentirei. Ti volevo scrivere che so già che domani mi pentirò di essermi messa “nuda” davanti a te una volta per tutte. Ti volevo scrivere che quando ti ho detto che noi eravamo ‘Per Sempre’ io ci credevo davvero, e ci credo ancora. Ti volevo scrivere che tra un po’ finirà l’autunno, e camminare sotto gli alberi spogli senza di te non è la stessa cosa.

Tua R.

P.S Ti volevo scrivere che se non ci sei tu mi sento inutile, come quelle foglie gialle sull’asfalto..

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L’odorE dELLa LibErtàLudovica Boccedi, 2°C, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

A cinque anni certe cose non si dovrebbero sapere, si dovrebbe pensare a come diventare una principessa e a come passare il pomeriggio, si dovrebbe piangere solo perché la mamma ci ha vietato di mangiare troppo cioccolato eppure non è sempre così.

Avevo cinque anni quando per la prima volta vidi un mostro, ma sfortunatamente non era in una fiaba e nel mio caso non arrivò nessun principe azzurro a salvarmi. Aveva le mani gelide quando mi toccava quasi quanto il suo cuore, quel viso maligno esprimeva bene la sua natura quasi quanto quel sorrisetto pervertito. Ero piccola, troppo piccola eppure questo non lo fermava mai.

Io non lo fermavo, quasi volessi fare finta di non sapere, ma lo capivo da come mi guardava, quando uscivo dalla mia stanza, che per undici anni, diventò la stanza degli orrori.

Arrivai a sedici anni lasciata ad un padre che come lavoro faceva l’aguzzino e a una madre che ha fatto dell’indifferenza il suo stile di vita.

Tutti i giorni quando tornavo da scuola lui era lì, sempre più arrabbiato e sempre più ubriaco, cercavo di non parlare, di sparire, ma non importava in quale angolo della casa mi rifugiassi, lui mi trovava sempre e sfogava ogni critica, ogni sgarbo, ogni malinteso della sua vita su di me.

Poi spariva senza nemmeno rivestirmi, senza nemmeno una parola mi lasciava lì stesa a chiedermi cosa avevo fatto di male per meritarmelo.

Alla sera quando tornava dal lavoro veniva a cercarmi, a volte quando era una bella giornata mi risparmiava e quindi anche per me diventava un giorno non così terribile, altre volte invece non ero fortunata e mi toccava subire quello che non meritavo.

Speravo che un giorno sarebbero stati puniti perché nelle fiabe i cattivi perdono sempre, ma troppo presto capii che le favole non esistono e quindi iniziai a vivere non per la felicità ma per la

sopravvivenza. Da più grande pensai più volte al suicidio, a scappare da lui, ma

sapevo che se non ci fossi stata io sarebbe andato a sfogarsi con le mie sorelle perciò non mollavo.

Un giorno iniziai a credere in Dio, lui si ammalò di una malattia che lo rendeva sempre più debole e dopo pochi mesi lo costrinse a letto. Non potei mai uscire di casa a parte per la scuola, non avevo mai visto un bar all’interno e mai nemmeno lontanamente sognato di entrare in un cinema.

Gli anni della malattia furono una specie di purgatorio, il peggio era passato, le violenze terminate, ma la mia libertà era ancora lontana sebbene a letto riusciva a incutere così tanto timore in mia madre che eseguiva i suoi ordini anche se debole e ormai innocuo.

Mi chiedevo spesso come mia mamma avesse potuto innamorarsi di un uomo così, forse lo aveva capito troppo tardi ed era semplicemente troppo debole per ribellarsi.

Non riuscii mai ad odiarla, ai miei occhi era una vittima come me ma non nutrivo alcun rispetto per lei, neppure adesso.

Pregavo ogni notte che quell’orco che dormiva nella stanza di fianco alla mia morisse in fretta, ogni singolo minuto di quei mesi li passavo sperando che in quell’attimo quel bastardo stesse spirando il suo ultimo respiro. Erano cinque mesi che non lo vedevo, non entravo mai nella sua stanza, non importa quanto forte mi chiamasse io non rispondevo mai.

Un giorno entrai a casa prima del solito, mia mamma era ancora a lavorare e le mie sorelle erano a scuola.

In casa eravamo io e lui.Mi guardò a lungo senza la forza di dirmi una parola, per la prima

volta non avevo paura, soltanto molta rabbia e disprezzo, mi venne l’impulso di staccare le flebo attaccate al suo braccio e il respiratore che lo tenevano in vita e gustarmi i minuti in cui lo avrei visto morire.

Ma non lo feci, lo fissai e lui mi propose un’altra volta quella faccia da porco che faceva sempre quando aveva finito, me ne andai e quella fu l’ultima volta che lo vidi perché poche ore dopo lui se ne andò.

Uscii di casa, respirai a fondo. Era autunno e sentii che odore aveva la libertà.

Il mio incubo era finito, guardai il cielo e il colore delle foglie gialle sull’asfalto.

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L’ho LaSCiata andarEAlessia Tognetti, 2°C, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

E ripensavo a lei, nonostante non ci fossimo mai conosciuti di persona, pensavo a lei: mi era bastato vederla per innamorarmene.

Penso sempre a quel suo aspetto raggiante, a quei suoi capelli biondi che ricordano i raggi del sole quand’è al culmine e brilla con tutta la sua forza, a quel suo profumo che mi ricorda l’odore dell’erba di montagna e che è rimasto impregnato nei miei abiti, ricordandomi i tre mesi passati insieme.

Continuavo a pensare a come sarebbe stato se non se ne fosse andata, se non mi avesse lasciato. Potrei ancora sentire il suo respiro, che mi ricorda la brezza mattutina, potrei ancora guardarla negli occhi e pensare al mare. Se fosse ancora qui, potrei abbracciarla forte, perchè ne ho bisogno, e potrei ancora raccogliere dalle sue guance quelle lacrime che, o per felicità o per dolore, le scivolavano sul viso ricordandomi un acquazzone estivo.

Ricordarla mi fa male, soffro nel pensare che ci rivedremo solo fra nove mesi. Ma è giusto così. Forse ce la farò nonostante lei non sia più qui con me. È lei che rendeva le mie giornate più belle. Quando sorrideva, il sole faceva capolino. Quando andava a dormire, la luna risplendeva nel cielo e le stelle sembravano sempre più luminose.

Ma ora no. Ora tutto è diventato grigio e monotono. Gli alberi non sono più ricoperti di fiori e di frutti e le foglie non sono più di quel verde così sgargiante da tingere anche il più brutto paesaggio di città.

Ora quei paesaggi sono tornati bui, le vie e le piazze della mia città sono tornate quelle di un tempo e la solitudine è nell’aria.

Il cielo non sarà più così magico, le stelle e la luna verranno ricoperte da un sottile strato di nuvole. Gli uccellini non mi daranno più il buon giorno cinguettando. Il sole non si farà vedere più tanto spesso.

Addio ai week-end al mare, alle uscite in compagnia, ai picnic sulle colline. Addio alle scampagnate ed alle feste in piscina. Proprio

come ogni anno. Ripenso sempre al primo giorno che l’ho vista: avevo un anno, non capivo ancora niente, eppure lei è stata la prima a cui ho sorriso. La rivedevo ogni anno, dovunque fossi, sempre lo stesso mese, sempre lo stesso giorno. Sì, ogni anno la incontravo, non ci conosciamo ancora oggi, ma la incontravo. Ogni volta però se ne va e torna dopo altri nove mesi lasciandomi quel buco dentro, un buco enorme, a cui ormai mi sono abituato.

Sembra triste.Lo è.Continuo a pensare a come sarebbe stato se fosse rimasta, o se

mi avesse lasciato qualcosa per ricordarla. Ma di lei ho solo i ricordi. Ricordi vivi nella mia mente. Ma solo ricordi.

Dietro di lei, quando se ne andò, rimase una scia di vento, un vento solitamente caldo, che oggi essendo così freddo sembra entrarmi nelle ossa. Sono distrutto.

Durante questi ultimi tre mesi però è stato tutto diverso, a starle accanto il tempo è volato via. Non me ne ero accorto. Ogni volta vorrei poter rivivere queste emozioni, ma finisco per chiuderle nello scrigno della memoria e aspettare e, in un certo senso, riviverle.

Sono stato solo con lei in questo periodo, cercando di vivere ogni attimo come se fosse l’ultimo e di non lasciarmi sfuggire niente. Con lei tutto era più bello: la luce del mattino diventava di un bianco incandescente, i raggi solari si posavano sul tetto delle case e attorno a me arieggiava un calore particolare. Le serate erano umide e per prendere aria uscivo in balcone o passeggiavo lungo la riva del mare, godendomi fino in fondo tutto ciò che mi circondava in quel momento, perchè sapevo benissimo che quegli attimi non sarebbero mai tornati indietro.

Sì, l’estate se ne è andata, l’ho vista andare via e non l’ho fermata. Dietro di lei rimangono solo foglie, che mi ricordano che l’autunno è alle porte, foglie gialle sull’asfalto.

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La finEStra dEi riCordiChiara Ferri, 2°D, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Tronchi alti e spogli, strade coperte dalla nebbia e un cielo grigio, di quel grigio triste che si vede solo in autunno, è questo ciò che osservo dalla mia finestra.

In questa stagione tutto cambia, tutto si fa più vuoto; fortunatamente posso ancora scorgere qualche ragazzino che corre per le strade cercando di sfruttare al meglio questi ultimi giorni prima dei geli invernali.

È bello vedere i loro visi sorridenti e ancora ingenui, vedere come si divertono rincorrendosi.

Tutto ciò mi ricorda la mia gioventù, ricordo di quando anche io ero una ragazzina, amavo giocare spensierata per i prati con i miei amici. Amavo prendere la bicicletta tutti i giorni per andare a scuola; anche durante l’inverno amavo osservare mia madre mentre cucinava, stare con mio padre mentre fumava il sigaro e mi diceva di andare in un’altra stanza perché non voleva che aspirassi tutto quel fumo. Amavo anche i rimproveri di mia nonna quando, intenta a provarmi tutti i suoi profumi, ne rovesciavo qualche goccia sul tappeto.

Tante altre cose non le ricordo più, ormai sono anziana; di certo però non posso dimenticare quel lunedì fatidico in cui tutto finì, in cui la mia vita prese un altro verso. Ero in casa con mia nonna e stavo, come al solito, provando tutti i suoi profumi cercando di fare molta attenzione a non rovesciarli.

Ad un tratto sentii un forte rumore, come un lampadario che si rompe. La nonna corse subito verso di me, convinta che avessi fatto uno dei miei soliti pasticci. La paura crebbe quando si accorse che non ero io. Si precipitò alla finestra, proprio quella finestra dalla quale osservo i bambini giocare, sulle strade file di carri armati sfilavano davanti ai nostri occhi distruggendo le foglie gialle sull’asfalto, senza guardare chi avessero davanti; il cielo invece era coperto da nubi di aeroplani tedeschi. Non volevo vedere, mi concentravo sulle foglie,

togliendo lo sguardo dal resto. L’intera città era controllata ma, soprattutto, era invasa dal terrore. Ogni mezzo, ogni divisa dei soldati erano contraddistinte da un elemento, un simbolo terrificante, una svastica: la guerra aveva inizio per la seconda volta. Passo pomeriggi interi davanti a questa finestra, a pensare a tutti i momenti felici della mia vita, rendendomi conto che ogni giorno che passa è un ricordo in meno, ma non quello di quel giorno, o almeno non finchè continuerò a guardar tutte quelle foglie gialle sull’asfalto.

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iL voLo dELL’aQUiLonELaura Paltrinieri, 2°D, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Era un tardo pomeriggio d’autunno, pressapoco le diciassette, era tutto spento, silenzioso, c’era chi camminava a testa bassa senza rivolgere un solo sguardo ai passanti, chi faceva jogging e chi su una panchina leggeva, immerso nel suo mondo interiore, quel mondo in cui ci si rifugia per potersi distanziare dai problemi che avvolgono la quotidianità. Tutto Hyde Park era immerso nel più irritante dei silenzi. Nessuno parlava, nessuno rideva.

Avevo iniziato la mia camminata solo da mezz’ora, ma sembrava un’eternità; ad un certo punto, quasi per incanto, la mia attenzione fu colta da un bellissimo aquilone rosso e giallo che volava altissimo nel cielo autunnale, spinto dal vento. Mi misi in punta di piedi per vedere chi fosse a manovrarlo, ma la gente offuscava la mia vista.

Mi accorsi che avevo iniziato a saltare per poter vedere meglio, e finalmente vidi due bambini che si tenevano per mano e correvano per il parco dietro all’aquilone incuranti delle persone che li guardavano con ostilità, per aver rotto il silenzio in cui erano immersi.

Erano verosimilmente due fratelli, considerata la somiglianza dei tratti del volto, un maschio ed una femmina. Correvano felici e pieni d’energia, interrompendo quel silenzio senza tempo, che ormai da troppo regnava ad Hyde Park.

Appena mi passarono accanto, li fermai, e chiesi loro come si chiamassero: David e Lucy, questi erano i loro nomi.

Ora che ero più vicino potevo vederli meglio. I loro volti erano di una dolcezza indescrivibile, la carnagione bianca come il latte e ricoperta da piccole lentiggini rosse. Con gli occhi azzurri mi fissavano increduli e spaventati.

Improvvisamente una forte folata di vento fece volare l’aquilone, d’istinto, spinto da un irresistibile desiderio di raggiungere il punto più alto dell’azzurro cielo.

L’aquilone in pochi minuti salì, quasi al di sopra delle nuvole

bianche e spumeggianti perdendosi all’orizzonte. Percorreva tratti di cielo con una leggerezza infinita e quasi irreale. Non era un aquilone qualsiasi, era stato costruito artigianalmente con canne di bambù intrecciate e carta da giornale, poi dipinto con pastelli acquerellabili. Alla sola sua vista il mio cuore iniziò a sobbalzare, quasi impazzito.

Iniziai a inseguirlo, dapprima con un passo sostenuto ma poi correndo più velocemente. Il lungo filo che lo teneva legato alle mani piccole e paffute dei due bambini si era staccato e volava a penzoloni nell’immensità irraggiungibile. Attraversai tutto Hyde Park e mi ritrovai per le strade trafficate di Londra, correvo, correvo e non mi fermavo; attraversai la strada indifferente alle auto che sfrecciavano suonando rumorosamente i loro clacson. Indifferente al frastuono e con gli occhi fissi al cielo, continuai a correre verso quell’aquilone così familiare al mio cuore e alla mia anima. Percorsi Oxford street e poi ancora mi diressi a sinistra per Baker street.

Saltavo tra la folla infastidita, dovevo assolutamente raggiungerlo, ma niente, era troppo alto e troppo veloce, non conosceva ostacoli, né traiettorie.

Ormai ero molto stanca, il passo era rallentato e il cuore pieno di nostalgia; superai un bar in Baker Street, quando ad un certo punto tutto improvvisamente si fermò, anche il tempo... e davanti ad una splendida chiesetta, l’aquilone scese appoggiandosi sul piazzale. I miei occhi si riempirono di lacrime, lo riconobbi subito. L’aquilone era identico a quello che il nonno mi aveva costruito alcuni anni prima quando ancora era in vita ed io ero la sua piccola principessa. Era un segno lanciato dal cielo... quell’aquilone appoggiato di fianco a splendide foglie gialle sull’asfalto.

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L’aLbaSara Peluso, 2°D, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Questa mattina mi sveglio prima del solito, e decido di impegnare il mio tempo in qualcosa di più interessante che stare a letto tutto il giorno.

Scendo lentamente dal materasso e mi avvicino alla finestra aperta. É ancora buio, ma si riesce a vedere già il nuovo giorno, e in quel momento capisco cosa devo fare.

Faccio velocemente le scale, per quanto la mia età me lo permetta, devo ammettere di non essere molto in forma in questi giorni, e vado in sala per prendere tutto ciò che mi serve, devo fare in fretta, non ho molto tempo prima che arrivi.

“Nonna?” mi chiama una voce alle mie spalle. Mi volto verso di lei:“Vuoi una mano?”“Oh no, grazie, cara, ce la faccio da sola”. Lei mi guarda un po’ stranita ma non fa commenti tornando

nella sua stanza.Porto fuori in giardino il cavalletto con la tela e i gessetti, per

poi tornare dentro e prendere una sedia sulla quale mi accomodo e aspetto.

Da piccola mi sono fatta una promessa: qualunque cosa fosse accaduta, sarei riuscita a disegnare un’alba, così seguendo corsi su corsi, mi convinsi che nessuno riusciva a darmi quella sensazione di...felicità che mi dava l’alba quando la ammiravo con i miei occhi, allora ho rinunciato.

Ed eccola, piano piano arriva, come un bambino timido che si nasconde dietro le gambe di sua madre, inizio a disegnare imprimendo sulla tela i miei pensieri, le mie paure e tutto ciò di non detto.

Ci sono persone che amano l’alba e altre che amano il tramonto. Credo che entrambi siano meravigliosi, se guardati insieme, uno è l’anima gemella dell’altro; senza l’alba il tramonto non esisterebbe e viceversa. Eppure sono diversi.

Allora, muovo i gessetti sfumando il giallo nel rosa, l’arancione nell’azzurro, creando delle anime infinite che si confondono tra loro in una danza senza fine.

Guardo il nuovo sole rinascere e non mi interessa se mi fanno male gli occhi, non mi interessa se può accecarmi, prima o poi non ci sarò più, tramonterò così come l’alba e di me rimarrà solo il ricordo nelle persone che mi hanno amato, fino a quando anche quello verrà cancellato. É questa la differenza tra noi e il tramonto o l’alba. Noi prima o poi veniamo dimenticati, nessuno si ricorderà della nostra esistenza. L’alba e il tramonto invece non cessano di esistere, con la nostra morte nulla cambierà; il sole continuerà a sorgere e a tramontare come se non avessimo fatto nessuna differenza. E forse è così anche nella storia dell’universo, non tutti la cambiano, non tutti sono fondamentali per i cambiamenti. In questi anni ho capito che non tutti siamo essenziali in questo mondo, solo chi farà qualcosa, verrà veramente ricordato. E allora io ho deciso di farmi ricordare con un disegno, ho deciso di imprimere me stessa su una stupida tela che verrà buttata, ma ho deciso di farlo per me stessa, per morire con l’illusione di continuare a vivere nella mia alba.

Infine disegno un albero spoglio, un albero nudo senza le sue foglie, un albero morto, un albero che, però, avrà la possibilità di rinascere come le tante cose che l’universo ha creato. Ma manca un’ultima cosa, manca quel ricordo che verrà spazzato via, manca ciò che cade ma che poi ricresce. Disegno la natura che muore svolazzando continuando il ciclo infinito, abbasso lo sguardo e le disegno, milioni di foglie gialle sull’asfalto.

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MarCo E LUCiaAlessia Borghi, 2°G, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Marco e Lucia si erano incontrati in discoteca, sulla spiaggia di Milano Marittima. Lei, in vacanza con la famiglia dopo gli esami della quinta liceo, aveva accettato questa vacanza per rilassarsi un po’ in attesa di partire poi per un’isola della Grecia in compagnia delle sue amiche. Marco, invece, era lì per lavoro; si guadagnava i soldi necessari per mantenersi agli studi universitari, facendo il cameriere in uno dei tanti hotel della riviera.

Quella sera fu il classico colpo di fulmine; in mezzo a tanti giovani i loro sguardi si erano incrociati e poco dopo si erano incontrati in pista a scherzare e a ballare. Fu Marco a sciogliere il ghiaccio e a trovare il coraggio di parlare a Lucia, la quale apprezzò il modo gentile e garbato del ragazzo. Dopo la serata in discoteca, la ragazza accettò l’invito del giovane di accompagnarla verso l’hotel, dove trovandosi tanto affiatati attesero l’arrivo dell’alba che ammirarono in tutta la sua bellezza.

I dieci giorni che seguirono furono meravigliosi; i ragazzi scoprirono di avere tante cose in comune e di condividere gli stessi interessi, tutti i momenti erano buoni per divertirsi insieme. Arrivò poi il momento per Lucia di ritornare a casa, e una lacrima scese dai loro occhi anche se non era un addio, ma un arrivederci.

Lucia dopo alcuni giorni partì per la Grecia e là non passava un minuto senza pensare al suo Marco, che sentiva al telefono anche sei, sette volte al giorno. Più passavano i giorni, più si avvicinava il momento di riabbracciarlo.

Non appena rientrata, Lucia partì per Milano Marittima e lì trascorse giornate indimenticabili con il suo amato, il quale le aveva trovato un posto come cameriera nello stesso hotel in cui lavorava, pur di averla vicina. Ogni giorno che passava i due ragazzi consolidavano sempre più il loro amore, trasformando il loro rapporto in qualcosa di veramente speciale.

Poi arrivò Settembre, con il ritorno agli studi: Lucia iscritta alla

facoltà di ingegneria dell’Università di Bologna; Marco al terzo anno di Giurisprudenza presso la facoltà di Perugia. La distanza e l’impossibilità di vedersi tutti i giorni non scalfiscono il loro amore: tutti i fine settimana, a turno, i ragazzi prendono il treno per incontrarsi e passare insieme momenti indimenticabili. Spesso si trovano a parlare del loro futuro e dei loro progetti, fra cui una casa tutta per loro ed almeno due figli, che come dice Marco dovranno assomigliare tanto alla loro mamma.

Spesso però, il destino è crudele… il tanto atteso ponte del 2 di Novembre si trasforma in tragedia. Quel giorno Marco si presenta alla biglietteria della stazione dei treni e apprende che il treno è in ritardo a causa di un guasto tecnico.

In un attimo decide allora di partire con l’auto, non vede l’ora di abbracciare Lucia, con la quale ha programmato la prima sciata sull’Appennino. Dopo pochi chilometri, però, finisce la sua corsa. Un maledetto strato di ghiaccio sulla strada fa sbandare l’auto facendola finire contro una pianta. L’impatto è violento e per Marco non c’è nulla da fare; è il telefono dei carabinieri che dà il tragico e triste annuncio a Lucia. La ragazza con i genitori si reca all’obitorio dove Marco riposa per sempre. Come in uno specchio rivede i momenti felice e spensierati con lui, ma come davanti a uno specchio rotto rivede i suoi sogni e i suoi progetti andare in frantumi.

Sono passati alcuni giorni, il dolore è ancora intenso e Lucia, spinta dai ricordi si ritrova a passeggiare sui viali di Milano Marittima, dove era nato il suo amore per Marco e dove aveva trascorso i giorni più belli della sua vita.

Là ora solo bellissimi ricordi e foglie gialle sull’asfalto.

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foto di grUPPoAndrea Chierici, 2°G, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Eccoci qui, cinque ragazzi e tre ragazze, una compagnia sbandata, che ha affrontato mille situazioni, buone o cattive.

Ma passiamo alle presentazioni, ci sono io, Andrea un ragazzo di quindici anni, pigro, placido ma sempre aperto alle novità, disponibile (certe volte anche troppo), diciamo che sono un po’ il punto di riferimento della compagnia, quando qualcuno ha bisogno di un consiglio o di essere consolato, la maggior parte delle volte fa affidamento a me, e io lo apprezzo molto, perché vuol dire che tengono molto a me e mi considerano un “fratello”.

Nella compagnia c’è un altro ragazzo con il mio stesso nome ed età, tutti lo chiamano “Genio del computer” perché sa risolvere qualsiasi problema del computer, anche il più difficile, è inoltre molto abile con i telefoni, ma la sua caratteristica principale è la fame, nonostante pesi 47 kili mangia come un camionista, e ha fame a tutte le ore del giorno, e soprattutto non c’è nulla che non gli piaccia. Lui è un ragazzo timidissimo, soprattutto nei confronti delle ragazze, quindi tocca agli altri dargli una spinta per incominciare ad attaccare bottone.

Fra di noi c’è un altro “Genio”, ovvero Simone, che ha un anno di meno rispetto a noi e ha quindi quattordici anni, ma possiede la fortuna di riuscire a studiare impiegando massimo 1 ora e 30; ma la cosa sorprendente è che ha i massimi voti in tutte le materie, credo che sia il più invidiato nella compagnia da questo punto di vista. Simone è il mio migliore amico, io e lui ci capiamo al volo, la pensiamo la maggior parte delle volte alla stessa maniera, e soprattutto non ci stanchiamo mai di stare insieme.

Della mia età c’è anche Alessandro, un ragazzo molto furbo, e molto studioso anche lui, ama soprattutto la chimica e se fosse per lui si rinchiuderebbe in casa a fare esperimenti su esperimenti, fermandosi solo per bere e mangiare; Alessandro è molto chiuso e freddo e tende a risolvere i suoi problemi da solo.

Come in ogni compagnia c’è un buffone e anche noi ne abbiamo uno, si chiama Matteo ed ha la mia stessa età, ma tutti lo chiamiamo “Bonfa” e non ne sappiamo il perché, evidentemente piaceva sia a noi che a lui; Matteo sa fare talmente tanto bene il buffone che fa ridere anche una persona che piange, io a lui sono molto affezionato, perché ci conosciamo dai tempi dell’asilo nido, e quando fa una cavolata tocca a me parlare con i suoi genitori ed evitargli una randellata di botte. Lui sa far ridere anche solo con la voce, perché emette dei suoni striduli e buffi, però molte volte dietro a questa “maschera” di buffone si nasconde un ragazzo in difficoltà e fragile sentimentalmente, e con nessuna voglia di studiare. I suoi genitori, essendo molto ricchi, lo mandano ad una scuola privata dove fa il minimo indispensabile.

Con noi solitamente vengono anche tre ragazze: Irene, Laura ed Elenoire. Io e Ele siamo stati insieme quattro mesi (circa) ma da quando ci siamo lasciati non ci rivolgiamo più la parola, neanche quando siamo con gli altri, è come se ci fosse un muro, e questa cosa è quella che mi fa più soffrire.

Il ricordo più bello è stato un pomeriggio di autunno, quando nulla poteva andare bene, avevamo litigato tutti e nessuno voleva nemmeno vedere le facce degli altri, ma poi per rabbia sono uscito con il cane e per caso mi sono trovato davanti Simone, abbiamo cercato di parlare del problema e discuterne lucidamente, e dopo ore di conversazione abbiamo chiamato fuori gli altri, ne abbiamo parlato anche a loro, dopodiché abbiamo scattato quella splendida foto, dove tutti sorridevamo felici e senza più problemi, vicino a mille foglie gialle sull’asfalto.

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JEnnifErGiulia Ferrari, 2°G, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Jennifer era una ragazza dal carattere difficile, era il genere di ragazza considerata strana, diversa.

Una ragazza “sbagliata” che faceva parte della compagnia sbagliata: fumava e beveva sempre, non era mai a casa e le poche volte che vi entrava si isolava nella sua stanza, era arrogante, maleducata e incontrollabile.

I genitori esasperati dal suo comportamento la lasciavano fare, la giustificavano dicendo che era adolescente, che prima o poi sarebbe cresciuta e avrebbe capito che stava sbagliando.

Cominciavano a non chiamarla più a cena, a non assicurarsi che a mezzanotte fosse sotto le coperte; insomma la ignoravano, la lasciavano libera, la stavano crescendo da genitori imprudenti e menefreghisti; sapevano bene che era sbagliato ma era l’unico modo per cercare di non farsi odiare dalla propria figlia.

Jennifer non possedeva alcuna amica, aveva solo amici maschi e con una decina d’anni in più di lei.

In questo modo non aveva alcun tipo di problema con il trasporto.Rob e Josh, i suoi migliori amici, avevano già la patente e una

macchina ciascuno, la passavano a prendere regolarmente tutti i giorni alle otto di mattina e la riportavano a casa verso l’ora di cena.

A soli diciotto anni Jennifer se ne andò di casa affittando un appartamento, era trascurata e per lo più sempre sporca.

Era disoccupata e invece di cercare un posto di lavoro, tutte le sere si divertiva in discoteca.

I genitori, ormai cinquantenni, sapevano che in questo modo non poteva continuare, l’avevano cresciuta senza regole e la stavano uccidendo con le proprie mani, pagandole le bollette e scaricandola dai doveri di una vita indipendente.

Oramai era troppo tardi per girare pagina, per farla cambiare, da troppi anni andava avanti quella storia.

Erano diventati i suoi servitori, facendola degenerare sempre più

nella sua inaffidabilità.Penso che, in fondo, i suoi genitori credessero di meritarsi tutto

quello che stava facendo passare loro quella bambina; ma una maniera per uscirne c’era, c ‘era eccome. Jennifer poteva essere salvata, salvata dalla droga, dalla sua vita; ma loro preferivano far finta di niente o meglio continuare cosi, nascondersi dalla verità, con il rimorso di aver cresciuto nel peggior modo possibile la loro unica figlia, il loro unico amore; così da precipitare come foglie gialle sull’asfalto.

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CadErE daLL’aLbEroLuna Romagnoli, 2°M, Liceo Musicale “C. Sigonio”Modena

Camminavo tra gli alberi spogli ai margini del bosco, sola e senza una meta, come sempre da quando avevo dei ricordi. Era autunno, non ricordo chi, ma ricordo che qualcuno me l’aveva detto che quella stagione, grigia e cupa, si chiamava così. Qualcuno mi aveva anche detto che quelle piccole gocce d’acqua che stavano cadendo giù dal cielo portavano il nome di “pioggia”. Era frustrante ricordarsi le cose senza sapere né da chi né da dove le avevo sentite, o se le avevo addirittura inventate. Chissà da quanto andava avanti quel mio viaggio senza meta, non mi ricordavo neanche come si contavano i giorni. Però, io in mezzo a quella natura incontaminata mi trovavo a mio agio: il profumo degli abeti s’infondeva nell’ambiente intorno a me mentre il leggero suono delle gocce di pioggia accompagnava ogni mio passo. Ogni giorno potevo assistere al meraviglioso spettacolo del tramonto: un magnifico dipinto con canti di uccelli appeni svegli. Avevo sempre amato la natura, lo sapevo, ma il mio corpo soffriva lo stesso per il freddo e la fame, anche se sorridevo ogni volta che vedevo le stelle, le poche bacche che mangiavo non bastavano. Passava il tempo: sopportavo il freddo, la fame mentre cercavo di ricordare chi ero, com’ero finita lì o se ci vivevo da sempre e mi ero semplicemente dimenticata come ci avevo vissuto. Possibile che avessi vissuto tutto questo tempo da sola? Magari non mi ricordavo niente perché la mia vita non aveva nessun momento che aveva il diritto di essere impresso nella mente. No, sarebbe stato troppo triste, doveva esserci qualcos’altro ed io dovevo essere qualcun’altra. Mi fermai da quella lunga camminata, immobile, a guardarmi i piedi: nudi, immersi nel fango e lacerati dai rami secchi pieni di punte. Erano del color del legno, circondate dalle foglie cadute dagli alberi, gialle e sole. Loro, però, avevano una solitudine diversa: più triste, perché circondate dai propri simili, e più incosciente, perché si ignoravano a vicenda, a nessuna di loro bastava l’altra e volevano soltanto l’albero che ormai le aveva lasciate cadere. Avrei pagato per essere al loro posto. Io mi

sarei accontentata, ne ero certa. Mi sedetti lenta e mi sotterrai i piedi nel fango per ripararli dal vento. Mi osservai i capelli incrostati dal fango, dovevano essere del colore delle foglie, una volta puliti. Di fianco sentii un leggero solletico, mi girai e vidi un piccolo riccio che si accovacciò sopra un lembo stropicciato del mio vestito, così, senza un motivo e lì dormii fino al calar del sole. Era veramente puro, gli apparteneva quella tenerezza che ci fa sorridere istintivamente. Ci portavamo reciproco rispetto perché volendo avrebbe potuto pungermi, ma sembrava che facesse di tutto per non farlo, mentre io stavo immobile per non svegliarlo. Con cautela sonnecchiava e potevo sentire il suo piccolo cuore battere a ritmo con il suo respiro: era una strana musica senza melodia che mi catturava completamente e mi fece dimenticare lo scorrere del tempo. Il cielo stellato portava con sé un vento gelido che mi fece tremare, talmente tanto che lo svegliai di scatto. Senza una ragione, com’era venuto, se ne stava andando. Ed io, senza una ragione, come lo avevo accolto, mi misi ad inseguirlo. Corsi, tagliando il vento, sprofondando nella melma e lasciando il solco dei miei passi. Inciampai, lo chiamai, era l’unica cosa sicura che avevo trovato, l’unico che mi aveva fatto compagnia. All’improvviso si fermò, come aveva sempre fatto: senza un motivo, alzò gli occhi e fissò davanti a sé. Alzai gli occhi e una grande emozione mi pervase, un fuoco lento mi riscaldò a quella strana visione di cui mi ricordai il nome subito: casa.

In realtà, io, quella che “si sarebbe accontentata”, ero scappata dalla vita. In fondo, ero anch’io una foglia gialla che voleva solo ritornare sull’albero che l’aveva lasciata cadere e, nel provarci, avevo perso per strada tutto quello che ero e che ero stata. Ironia della sorte: odiavo i ricci, ma ora, li adoravo.

Così quel giorno riguardai i miei ricordi con occhi diversi, mentre piangevo cercavo di trovare il coraggio per tornare a casa. Osservavo le mie lacrime cadere sulle foglie del bosco che non erano più in mezzo al bosco, ma erano lì davanti a casa mia. Gialle come quelle che si trovavano in mezzo al fango, ma non rimpiangevano, non sembravano tristi. E’ come se mi avessero detto: “Noi siamo le foglie che ti abbiamo vista scappare e che abbiamo aspettato il tuo ritorno anche dopo la caduta dall’albero. Noi siamo le foglie gialle sull’asfalto”.

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La ManigLia roSSaLudovica Rosaz, 2°M, Liceo Musicale “C. Sigonio”Modena

Ci trovavamo nel bel mezzo di una guerra. I miei genitori mi avevano chiusa nello scantinato per far sì che

fossi al sicuro dalle bombe che i soldati stavano lanciando sulla nostra piccola città.

C’era freddo e l’unica cosa che potesse tenermi al caldo, era una piccola coperta.

Non sapevo cosa fare, nello scantinato non c’erano altro che scatoloni e ammassi di giornali accatastati uno sull’altro.

Allora, decisi di mettermi a dormire vicino ad una delle quattro pareti. Presi la coperta e chiusi gli occhi.

Mi trovavo nello stesso scantinato: stessa temperatura, stesse ragnatele e stessi oggetti. Però, c’era qualcosa di nuovo; la maniglia della finestra che apriva all’esterno della casa.

Prima, era di un colore grigiastro invece, ora, era verde.Ero stupita e quindi decisi di aprire per vedere cosa ci fosse al dì

fuori di quella piccola finestra. Vidi un prato fiorito, lo stesso prato in cui correvo da piccola insieme ai miei amici. Vidi gli stessi alberi verdi in cui mi arrampicavo e la stessa panchina marrone.

Richiusi la finestra e, appena lo feci, vidi trasformarsi il colore della maniglia, non era più verde ma diventò di colore rosso.

“Che strano.. Che sia cambiato pure il paesaggio? Proviamo a vedere”, pensai io mentre spinsi verso il basso la maniglia.

La mia intuizione era esatta. Non c’era più il mio giardino ma bensì la mia scuola. Da quanto tempo non andavo a scuola? Mi sembrava passato così tanto.

“Mamma! Mamma! Non lasciarmi stare qui, voglio tornare a casa con te.”.

Un momento, quella voce la conoscevo: era la mia. Mi affacciai e vidi me e mia madre che stavamo parlando. “Mi ricordo! Questo è stato il mio primo giorno delle elementari!

Che bei ricordi..” pensai tra me e me.

“Tesoro, ti prometto che tutto andrà per il meglio. Sappi che, il vestito rosso che stai indossando adesso è un portafortuna”,disse mia madre indicando il vestitino rosso che stava indossando la piccola “me”.

“Rosso?! Come il colore della maniglia! Non è che, ogni colore è associato a qualche mio ricordo felice? Sì, è cosi!” esclamai.

Chiusi di nuovo e la maniglia prese il colore di un giallo dorato.Fuori, vi era un paesaggio autunnale, con foglie rosse e gialle che

cadevano da dei grossi alberi. Mi ricordo che quando ero piccola, mi mettevo a giocare

sull’asfalto con le foglie e ogni giorno, le separavo a seconda del colore che avevano.

A me, piacevano quelle gialle perché mi ricordavano tanto il sole. Aprii gli occhi di colpo, cominciai a guardarmi attorno e corsi

verso la finestra.Il colore della maniglia era grigio.La aprii e di fronte a me trovai un mondo triste, dove il buio e la

paura dominavano la scena.Gli alberi erano distrutti e della scuola rimaneva solo un cumulo

di polvere grigia. La guerra si era portata via i miei ricordi. L’unica cosa che

rimaneva del mio passato erano delle foglie gialle sull’asfalto.

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iL Sogno SPEZZatoMaria Chantal Seghedoni, 2°M, Liceo Musicale “C. Sigonio”Modena

Li osservavo dai vetri socchiusi della mia finestra. Erano affaccendati a portare fuori enormi bagagli dal loro palazzo, che un tempo aveva conosciuto lo sfarzo ed il lusso propri della nobiltà, e che ora era destinato a un eterno, malinconico abbandono.

Lei, la vecchia madre, conservava nell’espressione del volto solcato dalle rughe la fierezza e l’austerità proprie della sua famiglia aristocratica, ora caduta in miseria. Lui, il figlio, mio compagno di giochi nell’infanzia e mio amore spezzato nell’adolescenza, era adesso un uomo la cui giovinezza era sfiorita nella ricerca di una propria identità, perennemente ostacolata dalle pressanti aspettative di genitori desiderosi di inquadrare la sua vita in schemi stabiliti da un casato troppo influente per essere ignorato. Ed ora erano entrambi proiettati verso un futuro incerto, fatto forse di povertà, forse di fortuna, ma comunque lontano dal luogo dove per oltre cinquant’anni avevano vissuto nella gloria e dove io, bambina, li avevo conosciuti.

Una sera d’inverno di trent’anni prima, dietro al cancello dello stesso cortile dove ora era parcheggiata la macchina piena di valigie, avevo osservato, tremante, i preparativi per uno degli abituali, sfarzosi ricevimenti della famiglia. I giardinieri potavano i sempreverdi che torreggiavano imponenti ai lati del portone, mentre alcuni invitati sedevano insieme al padrone di casa sotto il pergolato che in primavera si adornava di glicini. Osservavo la loro eleganza, il loro fare principesco. Ed era così che i miei occhi di bambina li vedevano: principi proprietari di un castello in cui ero sicura si tenessero feste e balli come quelli di cui leggevo nei miei libri di fiabe, e il mio incanto per la febbrile atmosfera che precedeva quelli che in realtà erano banchetti era tale che desideravo osservare ogni passo della loro preparazione. Erano i giorni in cui il palazzo si svegliava e mostrava una parte di sè a chi desiderava accostarsi, seppur da lontano, alla sua segreta magia.

Ad un certo punto il grande portone si spalancò, e ne uscì un

bambino vestito come un damerino. Subito si accorse di me, e spedito mi venne incontro. Non so cosa mi spinse a rimanere ancorata alle sbarre del cancello invece di correre via, data la mia timidezza. Lui mi osservava con profonda curiosità, e mi chiese cosa ci facessi lì. Gli risposi che mi piaceva guardare il loro palazzo, e gli chiesi se organizzavano anche i balli. Lui si mise a ridere, facendomi arrossire, e mi rispose di no, il ché mi stupì non poco. Ma mi disse anche: “Se proprio ti piace il palazzo, posso farti vedere anche com’è dentro. Non stasera: c’è gente importante, sai com’è… Ma domani, se vuoi, mi vieni a trovare, e ti faccio vedere anche la mia collezione di monete antiche. Ne ho di rare, sai? E a te, piacciono le monete?” Fu così che il principe aprì il cancello del castello a una timida, povera popolana, sotto lo sguardo autoritario di due genitori che acconsentivano a questa puerile ma sconveniente amicizia con falsa gentilezza, e che in cuor loro speravano si interrompesse presto. Invece l’amicizia crebbe per quasi dieci anni. Anni in cui conobbi quella realtà che prima pareva così distante, anni in cui, nonostante crescendo avvertissi sempre di più gli sguardi di sprezzante superiorità dei familiari, fui felice accanto ad Angelo, questo il suo nome. Ma quando la natura del nostro rapporto cambiò fino a diventare amore, a nulla valsero le nostre suppliche. La separazione avvenne sistematicamente. Io fui allontanata con la scusa che era arrivato il momento, per il ragazzo, di dedicarsi agli studi e che la mia presenza lo avrebbe distratto. Vennero chiamati dei tutori, e da quel momento Angelo non fu più padrone della sua vita fino alla morte del padre, in seguito alla quale la madre si rinchiuse nel proprio dolore e abbandonò il figlio a se stesso, tra complessi e problemi irrisolti. Dopo anni di silenzio, il mio rapporto con Angelo si limitò a cortesi cenni di saluto, come per un tacito accordo di lasciare alla memoria quel che di bello c’era stato; qualcosa di troppo effimero per poter avere un seguito dopo tutto quel tempo. Ed ora li vedevo andare via, probabilmente per sempre. Con loro se ne andava anche una parte di me, quella della mia gioventù, dei miei giochi, dei miei sogni. Con gran trambusto, la macchina uscì dal cortile e sfrecciò davanti ai miei occhi, lasciando dietro di sé una scia di foglie gialle sull’asfalto.

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Chiara Riva, 2°H, ISA

“A. Venturi” - M

odena

CoLori d’infanZiaSara Borghi, 2 °C, Liceo Artistico “A. Venturi”Modena

L’odore di torta di mele appena sfornata inondava la piccola, ma accogliente sala merende dell’asilo, e le caraffe di latte che al tatto sembravano fredde, ma bevute erano calde, facevano iniziare le giornate in maniera dolce. Gioiosa.

Le pareti giallo acceso, tappezzate di nostri disegni, decoravano l’ambiente con allegria: sembrava quasi una mostra di quadri. Non che i nostri fossero capolavori, ma la volontà era grande e alla fine tutti erano fieri del proprio risultato.

Mi ricordo che mentre mangiavo, guardavo i miei compagni con le facce addormentate: tra un boccone e l’altro, con gli occhi socchiusi, chiacchieravano delle vacanze al lago e agli acquapark.

Io non c’ero ancora andata e, per questo, molto spesso mettevo il broncio; ma dopo poco la mia migliore amica di quei tempi, Martina, mi risollevava il morale dicendo che non c’era andata neanche lei, e mano nella mano andavamo a giocare nel cortile.

Cortile verde, ampio, con giochi che allora mi sembravano imponenti; adoravo entrare in una specie di labirinto a parlare e giocare “a mamma e figlia” con le mie amiche.

Rimanevamo là fino a tardi, e mi piaceva guardare quelli delle elementari e delle medie che uscivano. Mi sembravano grandi, quasi adulti.

Mi viene in mente che guardavamo i personaggi dei loro zaini e facevamo una scaletta dei dieci zaini più belli, e fantasticavo su quale sarebbe stato il mio.

Le maestre mi cantavano sempre “Sara svegliati che è primavera”, in ogni periodo dell’anno, e quando adesso sento questa canzone mi ritorna in mente come un lampo l’immagine di quelle figure sorridenti, che assieme ai miei compagni la cantavano, talvolta sbagliando le parole.

L’asilo era un grande edificio, color arancione chiaro, che in lontananza ricordava per filo e per segno proprio un asilo: lo

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sottolineo perché ne ho visti di asili che non assomigliano affatto a quel che dovrebbero essere, alcuni sembrano dei palazzi scolorati e nebbiosi.

Mentre il “mio” no, era colorato, solare anche con la neve, e soprattutto ogni bambino che passava quei pochi anni lì, usciva con ricordi di un’ infanzia straordinaria.

Ci sono passate generazioni e generazioni, e scommetto che se chiedessi a qualsiasi persona che ha trascorso la sua gioventù lì, com’era, so che risponderebbe certamente con frasi dipinte di sfumature allegre.

Io posso testimoniare.Ho ricordi stupendi, ricordi che portano alla felicità, ma anche a

rimpianti, rimpianti di giornate allegre che non vivrò più con la stessa spensieratezza che si ha quando si è bambini.

Purtroppo, quell’asilo, la mia seconda casa, non c’è più.Dopo il terremoto del 2012 era diventato inagibile e l’hanno

dovuto buttare giù. Io sono stata due giorni interi ad assistere al suo crollo. In quei due giorni, il ricordo dell’inebriante odore della torta di mele è stato cancellato: ne ha preso il posto l’odore di polvere delle macerie che cadevano sull’ asfalto del piazzale.

Volevo fermarli, correre a fermare la ruspa urlando di non cancellare il mio passato.

Non potevo farlo. Pensandoci, mi son resa conto che grazie ai ricordi quell’asilo sarebbe rimasto sempre nella mia testa.

Ho dovuto riconoscere che al posto di quello vecchio ne hanno costruito uno nuovo, più colorato, più efficiente per altri bambini, che potrebbero avere la stessa infanzia gioiosa che ho avuto io.

Cosa rimane adesso, oltre ai ricordi, di quel posto?Foglie gialle sull’asfalto.

tEMPi diffiCiLiGiuseppe Diaferia, 2 °C, Liceo Artistico “A. Venturi”Modena

Avevo iniziato a drogarmi in quel periodo. Inizialmente non era nulla di così grave, ma con il passare del tempo e con l’aumentare dei problemi a casa e a scuola, avevo anche aumentato le dosi di ciò che assumevo e cambiato il tipo di droga.

La mia vita sociale era un totale fallimento, così come il mio rendimento scolastico: avevo ben 18 anni e mi trovavo ancora in seconda superiore: ciò fa intendere come ero messo.

I miei problemi erano stati scatenati dal divorzio dei miei genitori (avvenuto qualche anno prima) e dalle difficoltà economiche che ne derivarono. Vivevo con mia madre, al tempo: abitavamo in una piccola casa in periferia; ma da quando lei si lasciò con mio padre, il suo modo di vivere cambiò radicalmente (così come il mio). Non sentiva più nulla, era negativa in tutto ciò che faceva, e ciò la portò a cadere in una depressione che le fece perdere anche il lavoro.

Dunque ci ritrovammo con l’affitto da pagare, e senza neanche un soldo per andare avanti. Mi toccò trovare lavoro: vidi affissa su una bacheca, a scuola, l’offerta di un lavoro part-time. Accettai. Dopo le lezioni, quindi, mi dirigevo in un bar, dove facevo sia da barista che da uomo delle pulizie. Da quel momento, fino a poco tempo fa, ero io che portavo uno stipendio a casa, che pagavo l’affitto e soprattutto mantenevo quella povera donna ancora in crisi.

Con mio padre avevo chiuso definitivamente i rapporti. Sono un ragazzo abbastanza testardo e con idee proprie: anche se quello era l’uomo che mi aveva cresciuto, pensare che aveva tradito mia madre, e non solo una volta, mi infastidiva troppo. Insomma, avevo 18 anni, ma ci tenevo alla mia famiglia e vederla sgretolarsi in quella maniera mi creò davvero un sacco di problemi, sopratutto fuori dalle mura di casa.

La scuola, come ho detto, fu davvero complicata, sia per la mia mancanza di interesse, sia per tutto lo schifo che mi circondava: non ero più motivato a fare nulla e ciò comportò anche le mie bocciature. Era un periodo buio per me, per la mia vita e per la

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mia sopravvivenza; conobbi così per caso un gruppo di ragazzi che spacciavano (oltre a drogarsi) e unendomi a loro iniziai a provare vari tipi di fumo e droga, per poi ritrovarmi dopo qualche settimana a dare la precedenza a tutto questo, piuttosto che alla mia vita, se ancora si poteva definire tale.

Le settimane passarono in fretta, così come i mesi. La mia compagnia ormai si era del tutto sciolta. Nulla aveva più senso, era tutto così monotono, fisso e ripetitivo. Mi sarebbe anche piaciuto avere una fidanzata, una persona cara che potessi amare differentemente da mia madre. Avevo 18 anni, non avevo un padre, una famiglia e neanche una fidanzata. L’anno scolastico terminò ed io ovviamente fui bocciato per l’ennesima volta. Ormai la cosa non mi sconvolgeva più, mi bastava qualche tiro per far passare tutta la malinconia e la tristezza. Sapevo benissimo quanto fosse sbagliato, ma personalmente già tutta la mia vita lo era, e quindi quel modo di affrontarla rendeva semplicemente tutto più facile.

Finalmente mia madre sembrò sul punto di riprendersi e quindi presto avrei potuto licenziarmi da quel posto marcio e vecchio.

L’estate terminò lasciando posto all’autunno.Lentamente anch’io stavo riuscendo a riprendermi, come

mia madre; mi iscrissi di nuovo a scuola: volevo darmi un’ultima possibilità.

Una mattina, mentre mi stavo dirigendo verso l’istituto che frequentavo, circondato dal solito tempo autunnale triste e malinconico, mi resi conto di quanto la mia vita fosse stata sprecata fino a quel momento.

Quanto mi ero perso. Trovai la forza di lasciarmi tutto alle spalle proprio in quel

momento, in cui la vidi perduta, come quelle foglie gialle sull’asfalto.

aUtUnno dEntroMariana Turcan 2 °C, Liceo Artistico “A. Venturi”Modena

Ci sono due tipi di persone su questo mondo: quelle che amano l’autunno, e quelle che l’autunno ce l’hanno dentro. Io faccio parte della seconda categoria.

Sono una di quelle che mentre si guardano allo specchio vedono il giallo e il rosso dell’autunno negli occhi azzurri, che dell’autunno non hanno niente se non il profumo. Una di quelle che d’estate, al pomeriggio, avvolte nelle coperte, hanno i brividi dal freddo. Una di quelle che odiano la pioggia, quelle che la pioggia fredda la sentono scendere dagli occhi azzurri profumati d’autunno sulle proprie guance, al solo pensiero di quelle foglie verdi che arruginiscono pian piano, e che poi cadono per terra come se niente fosse. Le foglie assomigliano così tanto a noi, a me; fanno così tanta paura.

In verità è l’autunno che fa così tanta paura, perchè magari si porta dietro troppi ricordi, troppe persone, troppi cieli grigi e troppa tristezza. Quelli come me l’autunno lo sentono dentro, anche se fuori splende il sole ed è estate o magari nevica. Quelli come me l’autunno se lo portano dentro con tutti i suoi temporali, o magari se lo mettono tutte le mattine prima di uscire di casa come se fosse un cappotto. A quelli come me l’autunno fa troppa paura, perchè vuol dire cambiamento: e quelli come me, se cambiano, rimangono vuoti. E poi si portano dietro tutti quei ricordi, si portano dietro il loro autunno. Per noi, l’autunno è più uno stato d’animo, che una stagione. Autunno è quando siamo troppo stanchi per andare a scuola o quando ci svegliamo tardi al mattino, e allora gli altri ci dicono di andare a letto prima e di riposare di più. E allora non hanno capito: quelli come me sono sempre stanchi perchè sentono la pioggia scorrere nelle proprie vene e il profumo freddo delle foglie gialle nei polmoni. Quelli come me alla domanda “come stai?” vorrebbero tanto rispondere con “ho l’autunno dentro”, perche’ alla fine è vero, è così. Ma chi ci ascolta è troppo semplice per capire e noi troppo complicati per spiegare. Che poi, l’autunno, non lo si può nemmeno spiegare o

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capire, lo si può solo sentire, dentro.Cos’è l’autunno, alla fine? Non è altro che un bellissimo modo per esprimere quello che

si prova. E allora ci sono quelli che amano l’autunno, quelli che guardano con ammirazione lo splendore delle foglie ingiallite mentre cadono; quelli un po’ banali che alla domanda “come stai?” rispondono con molta facilita’: “eh, guarda, stamattina sono uscita di casa e ho dimentcato l’ombrello e la borsa. Non so proprio come possa essere successo. É tutto un casino, ho anche bagnato le scarpe”. Poi ci siamo noi altri, io e quelli come me. Noi, che non sappiamo esprimerci bene a parole e a quella stessa domanda non sappiamo rispondere.

E allora ci teniamo tutto dentro e teniamo dentro anche l’autunno: perchè siamo insicuri di noi stessi più degli alberi spogli, perchè capiamo meglio di chiunque altro la solitudine delle foglie gialle sull’asfalto

adELEGioia Ansaloni, 2 °H, Liceo Artistico “A. Venturi”Modena

Anche questa mattina sono qui, seduto sulla mia panchina, in questo parco dove vedo sempre le solite facce. Non ricordo più che giorno della settimana è, ma anche questo fa parte delle cose che non mi interessano più.

Chiudo il giornale. Oggi anche leggere è una cosa inutile. Proprio mentre appoggio il giornale sulla panchina vedo qualcosa sull’erba vicino ai miei piedi.

Un paio di occhiali da vista. Li raccolgo e penso a come li starà cercando la persona che li ha smarriti. Per allontanare la noia, decido di indossarli, chiedendomi se la persona che li ha persi vede meglio o peggio di me. Una volta messi ho come l’impressione di non essere più solo.

Mi volto e, seduta accanto a me, vedo Adele. Sono più di due anni che non la incontro. Non ho neanche il fiato necessario per far uscire le parole. Il dolore che ho provato, e che provo ancora in ogni momento della mia giornata, mi ha tolto anche la forza di cercare le parole. Eppure è come se lei fosse seduta lì da sempre, in attesa di un mio segno. Quarantanove anni insieme non si cancellano, e io non sono mai riuscito a dimenticare neppure un secondo della nostra vita insieme.

«Adele? Sei…»«Sì» risponde lei sorridendo, «sono proprio io».«Ma non è possibile. Non puoi … so che non puoi essere tu».Forse questi sono occhiali magici. No, non ha alcun senso. Non

ho mai creduto alle favole, non ci credo neanche adesso che sono vecchio e solo.

«È bello rivederti» le dico, «ma non è possibile che sia tu. Te ne sei andata, mi hai lasciato solo.»

«Io non me ne sono mai andata. Sono sempre stata qui, accanto a te».

Allungo una mano verso il suo viso, accarezzandolo anche se non

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sento realmente il contatto delle mie dita sulla sua pelle fatta d’aria.Mi alzo e mi tolgo gli occhiali, appoggiandoli sulla panchina dove

aspetteranno il loro proprietario che forse si è già accorto di averli persi e tornerà a cercarli. Anche la panchina dovrà aspettare, oggi.

Mi incammino lungo i sentieri di questo parco, spinto da una voglia nuova, una curiosità che non ho mai provato di incrociare gli sguardi e, perché no, i sorrisi di chi, in questa giornata, condivide il mio essere qui.

I miei occhi vedono, come per la prima volta, la natura che mi circonda, bella come non mi è mai sembrata.

Sorridendo, lascio il parco e mi incammino verso casa, lasciandomi accarezzare il volto dal vento autunnale che agita le foglie gialle sull’asfalto.

già LE trEAndrea Marsella, 2 °H, Liceo Artistico “A. Venturi”Modena

Già le tre, ma la lancetta delle ore sembra non muoversi.Alle quattro nessuno urla, quando ne uso troppa lo so divento

pazzo, ma nessuno può capire.Il pavimento è freddo, non posso muovermi e non ne sento il

bisogno, i muscoli rigidi mi procurano solo un intenso dolore. Ed è così che nell’immenso ma piccolo corridoio penso come uscirne, ogni volta che accade.

É facile per gli altri dire: - Basta Alfred, basta! Non hanno mai fatto niente per me, o meglio, niente di più dei

soliti discorsi inutili.Alle sei mi rialzo e, come sempre, sento il peso delle colpe, ma

come fare ormai? Non posso più uscirne. Dentro le stanze della mia casa c’è odore di cocaina e le ore successive sono molto frustranti, poiché sono ancora sotto l’effetto della droga.

Mi reco in cucina: purtroppo il frigo è come il solito spento, come tutte le luci della mia piccola casa perché altrimenti non riuscirei ad arrivare alla fine del mese.

Lavoro tutti i giorni della settimana, tranne la domenica, dalle otto del mattino alle tre del pomeriggio in una pizzeria. Nessuno sa niente delle mie condizioni; ogni tanto mi chiedono se va tutto bene, ma io sorrido sempre e faccio finta di niente.

La mattina quando esco la luce mi fa male agli occhi e non ho il tempo di riprendermi dalla solita sbornia della sera prima.

Scendo le scale, mi incammino verso la pizzeria. Adoro questa parte della giornata: l’aria pulita, diversa da quella di casa, mi stimola e mi dà un po’ di speranza, illudendomi che passerò una giornata diversa dalle altre, ma non è mai così.

A fine servizio ho sempre la stessa sensazione, il vuoto… non sento niente, l’aria che prima respiravo ora non c’è più, e questo mi rende triste e ricado facilmente come la sera precedente nella droga. Non ho speranze, la dipendenza prevale; me ne vado un po’ da John

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per far due chiacchiere, ogni tanto anche per piangere su questa vita, ma è lui che mi procura la droga da ben due anni: è un nemico e allo stesso tempo un amico molto accogliente, ma sempre per i suoi sporchi scopi.

Dopo averlo conosciuto anch’io ho iniziato a spacciare.Quel giorno lo incontrai per caso, era incappucciato e io lo

osservai. Aveva una felpa nera e sporca, dei pantaloni blu e una bandana color ghiaccio. Mi ricordo ancora che mi chiese:

- Mi stavi cercando ?Io non risposi, ma lui insistette e mi disse:- Vieni … Come un bimbo ingenuo mi avvicinai, era minaccioso e il suo

sguardo mi penetrava; avevo paura eppure non mi aveva fatto niente di male, ma era come se mi trasmettesse qualcosa di cattivo.

Allora gli dissi:- Non ho denaro – cercai di capire cosa volesse farmi, ma niente,

rimase immobile poi, mi disse:– Allora ti conviene lasciar stare – ma continuò a guardarmi

finché quello sguardo mi incuriosì. Tornai in quel posto e capii di cosa si trattava, così diventai un

suo cliente.Lui ancora mi fissa con quello sguardo che incute paura, curiosità,

ma a volte penso che sia uno sguardo che avverte e dice: “Non mi guardare, io come te ho una vita triste e malinconica che porta frutti che fanno solo del male”.

Odio quando le persone dicono:– Le cose belle durano poco! Permettetemi di dire che non è vero perché le cose belle, quando

si ripetono non sono forse belle come la prima volta, ma non creano danni alle nostre vite.

Verso le cinque sono di nuovo a casa ma l’aria che respiro mi rattrista ed invidio le persone che dopo una lunga camminata sono felici di rientrare, è da tanto che non provo quella sensazione…

Da questo momento ricomincia l’incubo ed è indifferente dove mi trovo, il mio cervello va a fuoco e, come un fulmine che subito scompare, diventa assente, non c’è più...

Quando tutto finisce ritorna la sera, poi di nuovo il lavoro in pizzeria… ma forse qualcosa cambierà, è cominciato l’autunno… foglie gialle sull’asfalto.

aSfaLtoEnrica Martinelli, 2°H, Liceo Artistico “A. Venturi”Modena

Calliope non aveva avuto un’infanzia facile, infatti ogni anno regolarmente fin dall’età di tre anni, dopo la morte della madre, cambiava casa insieme al padre che viaggiava spesso per lavoro. In tutti i luoghi in cui si trasferivano, Calli faceva molta fatica a integrarsi con gli altri ragazzi e finiva sempre per cercare un posto isolato dove poter disegnare e stare sola con se stessa. Molto spesso andava in boschetti al limite del centro abitato perché, con il cambiare delle stagioni, i colori variavano e rendevano quei luoghi sempre diversi. Ma quella volta non fu come tutte le altre… Si erano da poco trasferiti in una piccola città quando Calli decise di inoltrarsi nella foresta non distante da casa sua, con un blocco da disegno nuovo ancora odorante di cartoleria. Erano quasi le cinque quando finalmente Calliope vide un grande albero che cresceva lungo una strada sconnessa su cui la natura aveva preso il sopravvento lasciando solamente piccoli porzioni di asfalto. A Calli sembrava una cosa così stravagante e affascinante una strada in mezzo a un bosco, chissà dove portava e quante persone dovevano averla percorsa prima di lei. Quel luogo la affascinava a tal punto che Calliope da quel giorno non riuscì più a farne a meno, doveva assolutamente tornarci: tutto di quel posto l’attraeva, dalla più piccola fogliolina verde sull’asfalto corroso, agli alberi immensi che la circondavano. Le settimane si susseguivano e Calliope continuava a tornare in quel posto indipendentemente da cosa avesse da fare.

Stava cominciando l’autunno e il bosco si stava dipingendo di quei colori caldi e rassicuranti che Calli tanto amava. Ultimamente passava sempre più tempo nella foresta a cercare di disegnare quell’albero così grande e silenzioso tanto che non si accorgeva mai dell’arrivo della sera, finiva sempre per far tardi alla cena e sempre più spesso inciampava in radici e sassi nascosti dall’oscurità. Quella sera era calato il buio prima del solito, quando Calli sentì un rumore di passi poco distante da lei. La ragazza scattò in piedi e mise in tasca

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matita e gomma con un movimento repentino. Il rumore sembrava avvicinarsi, ma le sue gambe non davano

segno di volersi muovere. Sentiva la paura crescerle nel petto e stringerla in una morsa fredda. Finalmente indietreggiò di un passo e poi di un altro e un altro ancora, ma era così concentrata a cercare di capire da dove provenisse il rumore che si accorse di quel ramo dietro di lei troppo tardi. La caduta per un attimo le tolse il fiato, poi sentì l’adrenalina pulsarle nelle vene e cominciò a correre. Lo scricchiolio però sembrava avvicinarsi sempre di più invece che allontanarsi, Calli allora presa dall’agitazione tornò indietro velocemente, ma sentiva stranamente una gamba intorpidita. Quando la guardò inorridì: i pantaloni si erano strappati all’altezza del polpaccio e un taglio profondo le attraversava la gamba da cui perdeva sangue copiosamente. Calliope era ormai molto stanca quando raggiunse il suo albero e la strada, poi… lo vide. Aveva una pelle stranamente pallida quasi luminosa, con occhi di ghiaccio e quei denti… quegli strani denti. Sembrava volerle dire qualcosa ma rimase muto. Calli sentì il cuore batterle sempre più forte e il respiro diventare affannoso, doveva andarsene da lì o sarebbe morta di paura. Si girò e corse via ma cadde per la seconda volta, battendo la testa contro qualcosa di spigoloso e duro; gli occhi le si annebbiarono finché intorno a lei non ci fu altro che buio.

Era giorno quando Calliope schiuse le palpebre, un raggio di sole le solleticava il mento, comprese di essere riversa a terra sulla strada che le piaceva tanto, ma quello che la riempì di stupore fu il contrasto tra il rosso del suo sangue e le foglie gialle sull’asfalto.

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La Partita dELLa vitaDebbi Francesco, 2A, IIS “A. Volta” (indirizzo chim. mater. Biotec)Sassuolo

Era domenica mattina. Claudio, un uomo di mezza età, era seduto al tavolino di un bar vicino alla cattedrale di Rouen. Davanti a sé una scacchiera con i pezzi posizionati. Paolo, il suo amico, era inritardo per la consueta partita domenicale forse... non valeva la pena aspettarlo ulteriormente. Claudio decise di tornare a casa, attraversò la strada, quando ad un tratto si sentì il suono di un clacson e subito dopo un flash bianco lo abbagliò. Decise che forse era meglio aspettare l’amico, ritornò al tavolino e si sedette.

Gli si avvicinò un tizio che indossava un impermeabile ed un cappello nero; l’uomo aveva un volto pallido e con un filo di voce gli propose una partita scacchi.

Beh, come rifiutare? Paolo non si era ancora fatto vedere quindi perché non accettare la sfida? L’uomo vestito di nero si sedette e la partita ebbe inizio.

Claudio aprì con un’apertura semplice e lineare. Le prime mosse confermarono una situazione di pareggio. Mentre l’avversario era intento a pensare alla sua mossa, Claudio si attardò ad osservare la facciata della chiesa, il cielo azzurro le faceva da sfondo . Si ricordò del suo primo giorno di scuola, si rivide seduto al suo banco con il grembiule blu chiaro, amava sfoggiare un fiocco bianco, era l’unico bambino ad indossare quei colori, e questo lo faceva sentire unico, come la cattedrale che aveva di fronte.

Sembrava passata un’eternità, ma una mossa pericolosa lo riportò alla realtà: Cavallo in e4.

L’avversario stava penetrando nelle sue difese procurandogli una tensione insopportabile.

Si concentrò e rivolse nuovamente lo sguardo verso la cattedrale: la luce ora la faceva apparire più luminosa e d’istinto Claudio pensò al giorno del suo matrimonio.

Camilla, quel giorno, indossava un vestito giallo: era una donna strana, ma lui l’amava proprio per questo motivo. Purtroppo il loro

matrimonio non era durato a lungo: la malattia gli aveva strappato la moglie dopo soli dieci anni di vita insieme.

A quel punto il cielo aveva cambiato colore, la luce del tardo pomeriggio illuminava la cattedrale in modo diverso. La partita si stava concludendo, come quella lunga giornata del resto.

Claudio aveva giocato la sue mosse con audacia e riflessione al tempo stesso, ma ora si trovava con un pezzo in meno rispetto all’avversario.

La volta celeste era diventata scura e la chiesa ora era solo una macchia grigia, come il fumo della Lucky Strike rossa appoggiata sulla bocca dello scacchista avversario.

Il fumo si stava disperdendo nell’aria come i ricordi della sua giovinezza, alla quale era seguito un periodo di grandi e pesanti responsabilità, debiti e contratti da rispettare; tutto ciò lo aveva costretto a lavorare anche la sera.

Mentre Caludio si perdeva nei suoi pensieri l’avversario fece scacco matto: Donna in h7.

Quella mossa non poneva fine solo a quel gioco: ormai gli era chiaro, a sfidarlo era stata la Morte stessa. Lei gli aveva concesso un po’ di tempo per ripercorrere i momenti importanti della sua vita, gli aveva concesso la possibilità di dare un senso a tutte le sue decisioni e ai rapporti con le persone che aveva amato.

Il suono del clacson e quel flash bianco che lo aveva abbagliato erano la conseguenza di un forte urto con il quale un veicolo lo aveva investito quello stesso giorno. Un grave incidente stradale lo aveva strappato alla vita . Quel viso pallido, che poco prima lo aveva invitato a seguirlo, era la Morte ed ora aveva perso la sua partita .

-Dove mi vuoi portare?- chiese - Lo scoprirai...- gli rispose lo sconosciuto avversario.

Ciò che rimase sulla strada fu una folla di curiosi che osservava il corpo senz’anima di uomo morto e alcune testimoni silenziose dell’accaduto: foglie gialle sull’asfalto.

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É di nUovo aUtUnno…Daniele Gazzani, 2°A, IIS “A. Volta” (indirizzo chim. mater. Biotec)Sasssuolo

Quelle foglie erano parte di lui, erano nate sui suoi rami in primavera, erano al loro massimo splendore nei mesi estivi ed ora eccole lì, che si staccano dalla base e vanno a morire sbattute dal vento su anonimi viali della città.

Come tutte le creature, anche un albero a volte si chiede perché è nato albero e come mai è germogliato proprio in quella città.

Evidentemente anche gli alberi hanno un loro destino, una storia che è stata scritta per loro.

Non ci sono momenti di riposo per un albero di città, c’è sempre qualcosa o qualcuno da osservare.

Non è come in campagna o nel bosco, dove un albero vive nella quiete più totale.

In città le piante sono inglobate nel caos quotidiano, sono parte viva tra gli edifici in cemento e, anche se distratte da questa urbanizzazione, devono comunque tendere tutto il loro fusto per ascoltare le leggi del tempo e della natura, attente alle mutazioni del clima, per poter vivere la loro vita.

Dopo tutti questi anni, davanti allo stesso orizzonte, di fronte alle stesse case e allo stesso viale, l’albero potrebbe raccontare la storia degli abitanti del quartiere: conosce a memoria le loro abitudini e i loro orari.

Li osserva attraverso i suoi stessi rami, il tronco, la corteccia: gli alberi non hanno nè occhi nè orecchie, ma percepiscono le sensazioni attraverso un’altra forma.

Se l’uomo si avvicina ulteriormente, appoggiando la propria mano, scrivendo qualcosa sul tronco, o parlando seduto sulla panchina proprio sotto la sua chioma, l’albero riesce a raccoglierne lo stato d’animo, a riconoscerne i momenti positivi da quelli negativi, viene a conoscenza persino dei segreti più intimi di ognuno.

Che strani questi umani, non vivono più seguendo i ritmi naturali delle stagioni.

Sono troppo presi, rincorrono mille cose, si fanno trasportare da impegni, da orari, da doveri...

Trascorrono giornate intere senza accorgersi neanche se piove o se c’è il sole.

Non hanno tempo per la natura che li circonda e a suo modo li protegge.

Non vivono bene, non sanno rilassarsi e godere lo spettacolo della vita.

Gli alberi non sono invidiosi degli uomini perché questa storia dei “sentimenti” non sempre li rende felici. Sono troppo complicati.

Meglio essere alberi, senza un cuore che batte e senza un cervello che ragiona.

Solo inclinazione naturale, successioni di stagioni come cicli perenni di vita, anche in città.

Eppure un piccolo “affetto” è intrinseco anche nella natura delle piante.

Ogni autunno fa capolino la stessa storia: la tristezza di veder volare via ogni singola fogliolina, che nel corso dei mesi estivi aveva fatto nascere, poi crescere giorno per giorno dalla sua stessa linfa. Ci si “affeziona” a queste creature, la pianta le coccola, le nutre, le protegge, finchè non arriva l’autunno e le porta via, lasciandola nuda ad affrontare l’inverno.

Così la sua chioma folta e verde si disperde ogni giorno di più; le foglie, fino a pochi giorni prima vive e colorate, una ad una salutano rassegnate e si uniscono ad altre, di alberi sconosciuti.

Piccole vite finite che vengono calpestate sui viali di città con assoluta indifferenza, senza nessuno che ne riconosca più la tipologia, la forma, il colore, la dimensione.

Così, semplicemente anonime foglie gialle sull’asfalto.

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L’ULtiMo addioAlessandra Facchini, 2°A, IIS “A. Volta” (indirizzo chim. mater. Biotec)Sassuolo

Erano più di due ore che attendeva il suo arrivo. Si era rifatta viva

e voleva incontrarlo proprio lì, nel posto in cui lo aveva abbandonato sei anni prima. Si chiedeva ancora cosa l’avesse spinta a quel gesto. Era del tutto sicura dei suoi sentimenti. Probabilmente aveva paura che il semplice gioco potesse diventare la realtà di tutti i giorni e che l’abitudine avrebbe assorbito tutta la magia che li circondava. Così aveva deciso di partire, di viaggiare. Ma viaggiando si ritorna sempre al punto di partenza. Così lo aveva chiamato ma quando aveva parlato di un nuovo incontro, lui aveva rifiutato. Un ‘No’ freddo e distante era tutto ciò che aveva detto, ma lei era determinata.

Sapeva che alla fine avrebbe ceduto. E così era stato. Il drink si trovava di fronte a lui, ma chi doveva essere lì in quel

preciso istante, in quell’attimo, non c’era. Durante la giornata si era detto almeno mille volte di non andare, tanto lei non sarebbe arrivata. Fu un piccolo particolate che gli fece prendere la decisione di andare all’appuntamento: voleva vedere se il viso d’angelo che lo aveva ferito così tante volte in quegli anni così lontani, o almeno a lui pareva che lo fossero, era rimasto lo stesso. Afferrò il cappotto rosso, quello che non aveva più indossato dopo la loro separazione, mentì alla moglie, dicendole che sarebbe andato a giocare a poker, e uscì in direzione del locale dove si erano lasciati sei anni prima. Il tavolo, prenotato a nome di lei, era lo stesso di sempre ed era lì ad attenderla, ma lei no. Ebbe la tentazione di tornare a casa, ma poi pensò che fosse solo un po’ in ritardo. Lo era sempre stata. Si sedette e attese. Passarono oltre tre ore da quell’assurda decisione. Infine si alzò e si diresse verso casa. Attraversò la strada andando verso il punto in cui la luce del Caffè non lo illuminava più. Un misto di rabbia e delusione era quello che si portava dentro. Si era fatto raggirare dalla stessa donna due volte in una sola vita ed entrambe le volte l’aveva persa. Con le spalle curve e mille pensieri, dei quali avrebbe volentieri fatto a meno, tornò a quella che, da quella sera in poi, sarebbe stata la sua vita, con l’intenzione di dimenticare lei e tutto il male che gli aveva fatto.

Fu quando lui si trovò a metà tra la buia via che lo avrebbe condotto a casa e la luce del Caffè, che lei apparve da dietro a un paio

di occhiali da sole. Era stata seduta lì tutto il tempo ad osservare i suo modo di attenderla. Sapeva di averlo ferito con il suo comportamento così infantile, ma ne era valsa la pena. Ora ne aveva la certezza. Non avrebbe mai smesso di amarla. Con passi lenti e malinconici si diresse nella direzione opposta a quella di lui, in direzione del parco. Sapeva che quello era un addio, un addio definitivo. S’incamminò per le vie della città senza una meta precisa.

E intanto, le urla del silenzio rimbombavano nel rumore dei suoi passi leggeri che, con finta noncuranza, calpestavano quel nuvolo infinito di foglie autunnali. Di loro non rimaneva altro che quelle foglie morte, foglie gialle sull’asfalto.

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SoLo Un SognoGiada Bettelli, 2B, IIS “A. Volta” (indirizzo chim. mater. Biotec)Sassuolo

Sono in una foresta e il cielo è sempre più cupo. Gli alberi intorno a me sono scossi dal vento, che soffia violentemente tra le fronde, i rami sembrano enormi mani che cercano di afferrarmi. Io corro, senza una meta precisa, sento che qualcuno mi segue, i rumori mi rimbombano nella testa, mi sembra di impazzire, e di colpo cado a terra. Mi alzo velocemente e mi guardo intorno, non ho idea di dove mi trovi, sono sperduto nel nulla in una scena terrificante. Il vento mi scompiglia i capelli, è così forte che fatico a stare in piedi, ma continuo a correre per scappare da quell’ombra nascosta, devo trovare un riparo, prima che cali la notte.

Poco distante da me mi sembra che alcuni rami intrecciati formino quello che potrebbe essere un piccolo nascondiglio, così mi avvicino e mi siedo, sperando che tutto questo finisca, sperando di tornare a casa e immerso nei miei pensieri mi addormento.

Ad un tratto sento uno scricchiolio di foglie, mi sveglio di colpo e comincio a guardarmi intorno, niente, solo alberi e cespugli, probabilmente era un qualche animale selvatico.

Il sole è già alto nel cielo, così riprendo il mio viaggio in cerca di qualcuno o qualcosa che mi riporti a casa dalla mia famiglia, dai miei amici. Nel silenzio assordante della foresta si sente solo il canto degli uccelli e qualche rametto che si rompe sotto i miei piedi. Ogni tanto mi guardo dietro, continuo ad avere l’impressione che qualcuno mi segua, ma ogni volta che mi giro, immaginando di vedere qualcuno, vedo solo un’infinità di alberi.

Improvvisamente mi ritrovo su un sentiero sterrato. Passo sopra ad un vecchio ponte di pietra, sotto al quale scorre un ruscello, mi fermo un attimo a fissare la mia immagine riflessa, mi tornano alla mente le lunghe giornate estive, quando andavo al fiume con gli amici. Poi un pesciolino guizza fuori dall’acqua e alcuni schizzi mi fanno tornare alla realtà. Continuo a camminare, qua e là trovo alcune bacche e frutti di bosco, fortunatamente ho ancora un po’ d’acqua

nella borraccia. La giornata sembra non finire mai, sono esausto.In lontananza scorgo una vecchia fattoria abbandonata, così mi

avvicino. Gli edifici sono un po’ fatiscenti, ma ottimi per trascorrervi la notte. Entro: ci sono ancora dei vecchi materassi. Comincio a cercare delle provviste e qualche oggetto che mi possa servire.

Cala la sera, mi rannicchio in un angolino e accendo un fuocherello, è tutto buio e fuori tira un vento fortissimo, sento un boato vicino a me, seguito da alcuni passi, mi ripeto che è solo la mia immaginazione. La fattoria è abbandonata da tempo e non ci può essere nessuno, quindi cerco di addormentarmi. Qualche istante più tardi un altro rumore seguito da uno più forte, poi qualcosa cade: sembra un oggetto di vetro e di colpo la finestra si spalanca, il vento inferocito si diffonde per la stanza spegnendo il fuoco davanti a me. Mi alzo e comincio a guardare in giro: sembra non ci sia nessuno, poi ecco che sento una porta aprirsi, mi avvicino, entro lentamente nella stanza ed ecco che… Il sole entra dalla finestra e illumina la camera, mi sveglio di colpo, il cuore mi batte all’impazzata e sono sudato, fortunatamente era solo un brutto sogno, guardo l’orologio, le 10:15, sono in ritardo, come al solito d’altronde, Anna capirà anche questa volta. Mi affaccio alla finestra, fuori soffia un vento gelido, davanti a me un uccellino vola sperduto in cerca di cibo e si appoggia su un albero ormai spoglio. All’angolo della strada alcuni bambini giocano mentre aspettano l’autobus, la gente si muove velocemente per le vie della città cercando di ripararsi dal freddo di questa giornata autunnale, dove la rumorosa tranquillità cittadina è disturbata esclusivamente dal rumore delle foglie gialle sull’asfalto.

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iL rUMorE di Un addioElisa Zanoli, 2B, IIS “A. Volta” (indirizzo chim. mater. Biotec)Sassuolo

C’era già stato in quel luogo. Diversi anni prima, con i suoi

genitori.All’epoca odiava l’idea di fare un picnic con la sua famiglia, eppure

c’era andato, ignaro di ciò che sarebbe accaduto.Quel giorno era stato forse il più bello della sua vita. Non si

dimenticò mai quel posto, forse per la bellezza del prato che ricopriva quella splendida collinetta o magari perché fu uno dei pochi luoghi in cui si era sentito bene, senza nessuna preoccupazione. Anche i suoi genitori quel giorno sembrarono più rilassati. Mentre rientravano a casa in automobile si ripeteva che quella giornata insieme aveva dato una svolta al loro rapporto.

Non tutto però dura per sempre.Glielo avevano detto in modo schietto, durante il viaggio: papà

era gravemente malato. Non avevano usato giri di parole, ma allo stesso tempo avevano fatto ricorso a tutta la dolcezza che possono offrire una madre e un padre al loro unico figlio.

Da allora niente era stato più lo stesso.La scuola, lo sport e gli amici non contavano niente. Niente era

come prima. Aveva smesso di vivere come aveva sempre fatto quando non voleva soffrire. Trascorreva le sue giornate a dialogare con Dio, lo interrogava e gli chiedeva perché proprio suo padre: era arrivato a maledirLO. Non capiva perchè gli dovesse fare una cosa del genere, ma soprattutto non capiva cosa avesse fatto di male per meritarselo, come se la malattia fosse una colpa che lui doveva espiare.

Bastarono poche settimane perché capisse che era inutile abbandonare le persone che gli erano state vicine e che lui amava. Per lui c’erano sempre state e adesso più che mai gli serviva qualcuno con cui sfogarsi, a cui confidare tutte le sue preoccupazioni.

Passarono tre anni prima che suo padre morisse, distrutto dalla leucemia.

Tre anni fu il tempo che ebbe per riuscire ad accettare, se è

umanamente possibile, la notizia che gli avevano dato quel giorno i suoi genitori.

E ora lui è di nuovo lì, nel luogo in cui aveva vissuto i momenti più belli della sua vita insieme a suo padre.

Era tutto come lo aveva lasciato. La collinetta di fianco alla strada era bellissima, l’erba era di un verde scintillante e gli alberi erano più grandi di quanto ricordava .

Liberò le ceneri che erano rinchiuse in quell’enorme vaso. Le ceneri di suo padre. Si era detto che quello era il posto perfetto dove lasciarlo andare. I granelli si persero trasportati dal vento fresco. Tutto quello a cui pensava in quel momento erano il profumo della pioggia e le foglie gialle sull’asfalto.

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ti PErdonoLaura Pifferi, 2°B, IIS “A. Volta” (indirizzo chim. mater. Biotec)Sassuolo

Il primo giorno mi avevano detto che avrei soggiornato in quel posto solo qualche settimana, il tempo necessario per effettuare alcuni semplici controlli. Mi dissero che il luogo nel quale mi trovavo era una sorta di hotel, frequentato da gente come me.

Io lo avevo capito che l’edificio in cui mi trovavo non era “una specie di hotel”, ma un ospedale psichiatrico, per intenderci un manicomio.

Da quel giorno erano trascorsi circa sette anni ed ero ancora lì. Il 10 novembre, un giorno come gli altri, si presentò nella mia stanza un infermiere dicendomi che il direttore voleva vedermi. Mi diressi verso il suo ufficio e aprii quella pesante porta. Lo trovai lì, seduto dietro la solita scrivania di ebano bianco. Mi suggerì di sedere sulle poltroncine di fronte a lui e così feci. Mi chiese come stavo e ancora prima di sentire la mia risposta pronunciò la sua solita, odiosa e inquietante affermazione:

“Sorridi oggi giovanotto, perchè domani potrebbe essere troppo tardi”.

Non sorridevo da ormai sette anni, nessuno sorrideva in quel posto, ma visto che ci teneva tanto, feci una smorfia che non si avvicinava minimamente ad un sorriso.

Il direttore era così eccitato che gli brillavano gli occhi, mi disse che aveva buone notizie e che i medici erano concordi nel ritenermi guarito. Dichiarò con soddisfazione che per me era giunto il momento di tornare a casa.

Ma quale casa? Mio padre se n’era andato quando avevo otto anni e mia madre dopo l’accaduto aveva iniziato a bere. Ero io che mi prendevo cura di lei e in quel momento non sapevo nemmeno dove fosse. In tutti quegli anni non mi era mai venuta a trovare e ritenevo possibile che si fosse addirittura scordata di avere un figlio. Mentre questi pensieri mi frullavano per la testa cominciai a preparare le valigie, salutai le poche persone a cui mi ero legato e me ne andai.

Finalmente ero libero di andare dove volevo, non mi sembrava vero. Feci per chiamare un taxi, quando un’automobile si affiancò a me: alla guida c’era era mia madre che, con gli occhi pieni di lacrime era venuta a prendermi e abbracciandomi mi chiedeva insistentemente perdono. Disse che era migliorata, che aveva smesso di bere e che aveva trovato un lavoro. Mi portò verso quella che, un tempo, era stata la nostra abitazione. Ad attenderci c’era un uomo sulla cinquantina con i capelli grigi e il viso affaticato per le nottate insonni. Era mio padre, se potevo ancora chiamarlo così. Ero molto arrabbiato perchè lo ritenevo responsabile del mio soggiorno obbligatorio in Hotel. Tutto l’odio e il dolore che in quegli anni era cresciuto dentro di me svanì improvvisamente, mi avvicinai a lui e lo abbracciai.

Durante la cena mia madre mi disse che lei e mio padre volevano risposarsi e che da quel giorno avremmo di nuovo vissuto insieme come una vera famiglia . Al mio risveglio la mattina seguente mi resi conto di essere ancora in Hotel e ad attendermi non c’erano i miei genitori ma il direttore con il suo solito sorriso malizioso. Era stato tutto un sogno.

Almeno avevo abbracciato nuovamente mio padre, lo avevo perdonato e mi sentivo più leggero. Cercai di assaporare nuovamente il calore di quella cena insieme alla mia famiglia, ma quel che vedevo fuori dalla finestra, con le sbarre della mia camera, erano solo foglie gialle sull’asfalto.

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Una PErSona SPECiaLEChristian Cappella, 2°G, ITIS “A. Volta”,Sassuolo

Non dimenticherò mai le lunghe e ventilate giornate estive, in compagnia di mio nonno Guglielmo.

In campagna, lontano dalla frenesia quotidiana della città, io e la mia famiglia ritrovavamo la gioia di condividere delle piccole grandi cose.

Ciò che più mi rilassava, era prendermi cura dell’orto insieme a mio nonno.

Non era un orto particolarmente grande, ma era bellissimo soprattutto in estate, quando i pochi alberi di mele perdevano i fiori e producevano i frutti.

C’era un bellissimo ciliegio nell’angolo dell’orto, così grande da fare una maestosa ombra dove io e mia sorella, come sempre accompagnata da un buon libro, trovavamo un po’ di frescura nelle lunghe serate estive.

Mio nonno mi raccontava, sotto quell’albero, le guerre a cui aveva partecipato, i sacrifici, le difficoltà e le sofferenze di quel periodo e mi diceva sempre:

“Adesso voi giovani siete fortunati! Non vi manca nulla; ricordati di dare sempre valore alle cose che possiedi!”

Ogni consiglio veniva sminuito da me che gli dicevo:“Ma dai nonno, pensa a giocare a carte che vinco anche questa

volta!”Era passato circa un anno dalla morte di mia nonna; mio padre

chiedeva ripetutamente a mio nonno di venire a vivere con noi, ma l’idea di abbandonare la campagna e di andare a vivere in città non piaceva a Guglielmo che aveva passato in quella casa quasi 60 anni.

Mi rendevo conto che ogni anno il tempo lasciava il segno sul viso di mio nonno; anch’io ero preoccupato per la sua solitudine, ma comunque capivo che in quella casa c’erano tutti i suoi ricordi, tutta la sua vita.

L’estate in cui mio nonno morì non la dimenticherò mai.

Sapevamo che non stava bene e che probabilmente ci saremmo dovuti trattenere di più.

Mio nonno era da tempo malato di cuore, ma la sua testardaggine non lo aveva convinto a venire a vivere nella nostra casa, dove avrebbe trovato tutte le cure e l’aiuto di cui aveva bisogno.

Purtroppo era sempre a letto e quello che lo rendeva più triste era il non potermi accompagnare nelle nostre consuete passeggiate lungo il viale asfaltato che dalla casa ci portava verso il paesino.

Ogni volta che si sentiva un po’ meglio, mi faceva un timido sorriso e mi chiedeva:

“Oggi mi sento bene, andiamo a passeggiare?” Lo accontentavo nonostante le raccomandazioni e i divieti di mio

padre.Le giornate incominciavano a rinfrescarsi, i miei genitori avevano

preso dei giorni di ferie e ci trattenemmo da lui.Anche quel giorno facemmo la nostra consueta partita a carte,

non sotto il ciliegio, ma sul letto dove mio nonno si riposava.Il suo respiro era affannato, il suo viso sempre più scavato, perciò

chiamai mio padre e gli dissi di venire subito.Mio padre chiamò il dottore che immediatamente venne, visitò

mio nonno e disse che il cuore era troppo debole.Il giorno in cui morì nonno Guglielmo non lo dimenticherò mai:

l’estate era quasi finita e gli alberi intorno alla casa incominciavano a perdere le prime foglie.

Noi preparavamo i bagagli per tornare a casa e mia madre metteva via tutte le cose di mio nonno.

Mi affacciai alla finestra e la campagna non sembrava più la stessa. Sapevo che non ci sarei tornato più.

Sono rimasto per un po’ di tempo a fissare il viale dove io e mio nonno passeggiavamo e non smettevamo un attimo di chiacchierare.

Il viale era cambiato: era stato ricoperto da un tappeto di foglie gialle sull’asfalto.

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La rESiStEnZa dELLE fogLiE giaLLE Amedeo Coriani, 2°G, ITIS “A. Volta”Sassuolo

1942. FranciaCèsar guarda la sua casa in fiamme, non è la prima volta, sotto ai

suoi occhi la stessa scena di quel giorno in cui tutto è iniziato.1941. La Germania invade la FranciaCèsar è di fronte alla sua casa in fiamme, l’esercito ha appiccato

il fuoco senza motivo. ‘’Come monito, per ricordarvi chi ha il potere ora’’, dicono. Lui sa che in realtà è solo la malvagità che li ha spinti a fare ciò, stringe i pugni, vuole vendetta.

Qualche giorno dopo Cèsar e altri sei uomini sono seduti ad un tavolo di una locanda del paese, la stanza è vuota, nessuno ha soldi da spendere in vino in tempi come questi “Ne abbiamo abbastanza di questi soprusi!” esclama un uomo corpulento al lato del tavolo. “Esatto, dovremmo fare qualcosa! Rimandarli a casa questi porci!” replica un secondo. La discussione prosegue: “Ma che possiamo fare noi? Siamo semplici contadini, lavoratori!”

Discorsi del genere ormai sono all’ordine del giorno, nessuno si sorprende più di sentir gridare minacce di morte, imprecazioni di ogni tipo e insulti verso gli occupatori. Il discorso tutto d’un tratto prende una piega inaspettata. “Invece di discutere perché non agire!?” esclama Cèsar “E’ giunta l’ora di fare qualcosa per il paese e per noi stessi! Combattiamo!”

Ha l’aria seria, è sicuro di quello che dice. “E sentiamo come vorresti fare?! Siamo disarmati e non possiamo permetterci di allontanarci dalle nostre famiglie, chi le sfamerà se noi siamo occupati a combattere una guerra persa in partenza? Abbiamo un esercito contro!” grida un uomo fin’ora intento a pulire boccali da birra, probabilmente l’oste.

“E per questo lasceremo quelli liberi di fare tutto ciò che vogliono!” ribatte Cèsar. “E allora tu cosa proponi, genio?!” di nuovo l’oste. Un attimo di silenzio poi Cèsar alzatosi in piedi, dice ciò che nessuno aveva ancora detto con vere intenzioni: Fondiamo una resistenza,

organizziamoci, combattiamo e riprendiamoci la libertà! Chi è con me?!” Silenzio, poi un grido: “Noi siamo con te, Cèsar!”.

Nei giorni successivi il gruppo s’ingrandì, il fervore di Cèsar spingeva tutti a fare qualcosa di concreto, così la “Resistenza delle Foglie Gialle” vide i suoi primi giorni di vita. Il nome fu deciso in un secondo momento, durante una riunione in una stalla del paese. Si stava discutendo su come riconoscere i compagni da quei francesi che per vari motivi si erano macchiati del crimine di allearsi e dare appoggio agli occupanti: traditori li chiamavano, e non era raro che fossero complici di molte stragi perpetrate dai tedeschi. Mentre si esaminavano vari metodi di riconoscimento, a Cèsar venne un’idea: era autunno e non vi era angolo in cui non vi fossero alberi e foglie ai loro piedi, allora ne prese una e se la infilò nella tasca della giacca, dicendo: “Ecco il nostro simbolo riconoscitore! Una foglia gialla tipica delle nostre terre e tipica di questa stagione in cui la Resistenza ha visto la luce!”. Le foglie furono successivamente sostituite da pezzi di stoffa gialli ricavati da vecchi abiti: c’era chi li legava al braccio, chi li infilava nel cappello o ancora chi li appuntava alla giacca, ma una cosa era certa, ogni membro della resistenza uomo, donna o ragazzo che fosse non si staccava mai dal suo pezzo di stoffa per nessuna ragione, questione di vita o di morte. Il nome però rimase ed ogni membro della Resistenza da quel momento fu una foglia gialla.

1942. FranciaCèsar osserva la sua casa divorata dalle fiamme, è capitato a molti

dei membri della Resistenza, ma questa volta è seriamente scosso, bianco in faccia, piange e trema, quello che non può sopportare è la scena che si propone sotto ai suoi occhi: troppe insanguinate, immobili e morte, foglie gialle sull’asfalto.

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CoME L’EStatESimone Scognamiglio, 2°G, ITIS “A. Volta”Sassuolo

Arrivano e se ne vanno, non puoi controllarlo. Arrivano quando meno te l’aspetti, forse proprio quando non li cerchi affatto e poi spariscono inspiegabilmente. Alcuni ti cambiano la vita, altri la deviano soltanto su una strada leggermente diversa, ma comunque passano e lasciano una loro impronta. Non lo dico perché sono un rimastone che prima di andare a letto si fa i film mentali, a me è successo davvero. Cinque o sei anni fa, il più grande cretino che avessi mai incontrato, ma che forse mi ha salvato la vita… Non si sa come, perché non aveva una casa, rubava, importunava anziani e faceva uso di sostanze, in effetti era proprio un idiota. Lo chiamavo scemo ma penso che si chiamasse Hesher, Hershel o giù di lì.

Era da poco morta mia madre, vivevo con mia nonna che soffriva di attacchi d’asma e mio padre che al tempo era un vero ritardato. Mi ricordo ancora il nostro primo incontro: giravo con la mia bicicletta per un cantiere e finii dentro quella che sarebbe diventata una casa e, a quanto pare, non mi piaceva usare le porte perché entrai dalla finestra. Due bottiglie di Jack Daniels, una camicia a quadri e un dito medio tatuato sulla schiena di un barbone che a quanto pare stava dormendo. Non lo svegliai in un modo tanto ortodosso, non capita tutti i giorni di essere svegliati da una bicicletta, infatti il poveretto schizzò di brutto e partì di corsa nudo fino ad arrivare ad un furgone nero tutto scassato.

Fu una bella esperienza tutto sommato, finchè non mi ritrovai quel tizio in casa a sorseggiare una birra sul divano insieme a mio padre che non si accorse nemmeno di lui. Non piaceva nemmeno a lui entrare dalle porte come i comuni normali, come non gli piaceva nemmeno conoscere le persone con un semplice “Ehi ciao”, ma con un bellissimo “Cretino portami un’altra birra”.

Ci mise poco a sconvolgermi la vita, mi rubò addirittura il mio primo amore impossibile: una cassiera di una decina d’anni in più di me. Mia nonna, grazie a lui, si è goduta i suoi ultimi giorni di vita

più da stonata che da sana, però senza mai avere un attacco d’asma e ancora oggi non so se ringraziarlo o ordiarlo, ma il problema non c’è perché se n’è andato come tutti. Non ha avuto una lunga permanenza abusiva nella mia vita ma è stata intensa, ha dato una scossa alla mia vita che forse sarebbe stata destinata ad essere vissuta da un frescone depresso.

Si è comportato come tutti, è arrivato e se n’è andato. Come si comporta l’estate, che arriva con il caldo e se ne va con l’autunno lasciando solo foglie gialle sull’asfalto.

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Zeno Pennica, 2°F, ISA “A

. Venturi” - Modena

vita da CriMinaLEDavide Abba, 2°AI, ITIS “L. da Vinci” Carpi

Tutto iniziò nel 1995; Micheal, Bruce e suo cugino Dave si trovarono coinvolti nel colpo bancario più ricco che fosse mai stato organizzato. I tre progettarono un ingegnoso piano, ma qualcosa andò storto. Dave era un po’ sbadato e si dimenticò di occuparsi dei sistemi d’allarme. Quando fecero esplodere la cassaforte, l’allarme si azionò e nel giro di pochi minuti i poliziotti circondarono l’edificio. Bruce prese a discutere con suo cugino per la sua distrazione e gli impedì di partecipare al colpo. Dave se ne andò, e lasciò da soli i compagni. I due si trovarono in difficoltà, e dovettero ricorrere all’opzione più tragica: presi i borsoni con il denaro, spalancarono di colpo le porte dell’entrata e presero a sparare senza criterio sulla polizia mentre si riparavano dietro le colonne dell’edificio. Micheal contattò il loro complice per il mezzo di fuga. L’uomo arrivò a tutta velocità a bordo di un furgone blindato, caricò i compagni sul retro e ripartì. A rincorrerli sulla super-strada vi erano diverse pattuglie e, una volta giunti sul ponte che unisce Los Santos all’Arizona, accadde l’impensabile. Una bomba piazzata da Bruce sul ciglio della strada fece sì che tutte le auto della polizia saltassero in aria. I due riuscirono così a fuggire. Mentre percorrevano la Route 66, improvvisamente un fuoristrada nero comparve dai bordi della strada e si schiantò contro il furgone di Bruce e Micheal, che si ribaltò. Dall’auto uscirono degli uomini col volto coperto e armati che si avvicinarono al furgone in cerca dei soldi. Micheal e l’autista rimasero storditi, Bruce invece si riprese velocemente, prese uno dei borsoni e si nascose lì vicino. Gli uomini perlustrarono il furgone e si accorsero che una borsa mancava. Trascinarono fuori dal veicolo Micheal e il compagno e li misero contro la carcassa del furgone come accade in un’esecuzione. Chiesero dove fosse il resto dei soldi, ma i due non erano a conoscenza di ciò che era accaduto. Quello che vide Bruce fu terribile, si sentì scosso dalle lacrime del dolore e della disperazione. Chi è che non proverebbe tristezza nel veder morire il proprio migliore amico.

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Dopo quel fatto, Bruce si rifugiò nelle cittadine al confine con le riserve indiane.

In quei dieci anni, grazie ai soldi della rapina, riuscì a risistemarsi, ma conduceva una vita monotona da lupo solitario. Portava ancora il rimorso di ciò che era accaduto al suo amico tanti anni prima. Ogni giorno gli rimbalzavano in testa un sacco di interrogativi: “Chi erano quei tizi? Come hanno fatto ad intercettarci e a prepararci quell’imboscata?” Decise così di vendicare il suo amico. Tornò a Los Santos e si mise alla ricerca degli assassini. Passò mesi a cercare indizi per tutta la città e alla fine decise di andare a fare una visita a Dave, visto che aveva perso le sue tracce. Giunto a casa del cugino, notò che nel garage c’era un’auto simile a quella che li aveva assaliti dieci anni prima. Incuriosito andò a vedere più da vicino, aprì il baule e al suo interno trovò una borsa vuota con su scritto: Micheal. In Bruce esplose un’enorme rabbia seguita da disprezzo. Si diresse all’appartamento del cugino, sfondò la porta imprecando e prese a picchiare Dave fino a causargli prima un trauma cranico, e quindi la morte.

Bruce si sedette a pensare su quello che era successo e riuscì a rispondere alle sue domande. Capì chi era stato ad uccidere Micheal quel giorno: Dave aveva deciso di vendicarsi di loro per averlo cacciato e per non aver condiviso i soldi con lui. Bruce davanti a quell’orribile scenario fu preso dal panico e optò per la via più facile. Uscì dalla casa, e si gettò in mezzo alla strada al passaggio di un’auto, suicidandosi. La sua avventura terminò lì, fra le foglie gialle sull’asfalto.

oMiCidio aLL’i.t.i.S. “LEonardo da vinCi”Alessandro Catti, 2°AI, ITIS “L. da Vinci” Carpi

Era la notte di venerdì 20 settembre 2013 quando all’I.T.I.S. “Leonardo Da Vinci” alcuni vicini sentirono urla provenienti dalla vicepresidenza. Urla...di terrore.

Il giorno dopo ci fece supplenza la prof. di matematica. Strano. Di solito c’è sempre la Montorsi!Quando uscii da scuola vidi un coltello nella macchina del prof.

di fisica.Domenica la notizia arrivò su tutti i giornali. La prof. Montorsi

era stata ammazzata!Lunedì iniziarono le indagini e le lezioni vennero sospese.I sospetti caddero su uno studente di 3AI e sui professori di fisica

e di matematica, Bellei e Camurri.Secondo me era stato lo studente di 3AI: pochi giorni prima la

prof. ci aveva raccontato che aveva letto un testo in cui uno moriva fucilato. E proprio quello studente aveva detto: “La prof.ssa Montorsi dovrebbe essere fucilata!”.

Il prof. di fisica aveva un coltello in macchina, e anche la prof. di matematica sembrava un po’ troppo contenta che non ci fosse la Montorsi.

Martedì i due docenti e lo studente si ritrovarono dai Carabinieri.Il maresciallo chiese: “Chi è il colpevole?”I professori e lo studente, all’unisono: “Siamo innocenti, non

abbiamo fatto nulla!”Il maresciallo: “Professor Bellei, lei è accusato di aver ucciso la

Montorsi, abbiamo trovato un coltello nella sua macchina!”Bellei: “No, io non ho mai avuto nessun coltello: sono innocente!

Il coltello lo avrà messo qualcun altro!”.Il maresciallo: “Prof.ssa Camurri, anche lei si dichiara innocente?”La prof.ssa: “Io non ucciderei mai un mio collega!”Il maresciallo: “Bene. Tu, studente, perchè non dovresti aver

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ucciso la tua insegnante?”Lo studente disse: “Non avrei mai avuto il coraggio! E di notte

i miei genitori non mi fanno mai uscire, e io mai andrei a scuola di notte. Mi basta andarci di giorno!”

A quel punto intervenni io: “Secondo me è stata la prof.ssa di matematica”

Il maresciallo: “Perchè lei dice questo?”Continuai: “Può essere che la prof.ssa Camurri dovesse concludere

il programma e, quindi, per fare più matematica con noi ha voluto uccidere la prof.ssa Montorsi a coltellate e poi ha nascosto il coltello nella macchina di Bellei!”

La Camurri disse: “Non hai le prove, Alessandro! Non puoi affermarlo!”

Mi venne una idea straordinaria: “Sì che ho le prove! A scuola ci sono le telecamere!”

Il giorno dopo ci trasferimmo a scuola e guardammo il filmato della telecamera della vicepresidenza: nero, schermo nero!

La prof.ssa di matematica disse: “Solo i bidelli hanno le chiavi per controllare le telecamere!”

E io di colpo: “Guardate: la prof.ssa ha un coltello in tasca!”La prof.ssa disse: “Ah! Questo mi serve per fare una torta in

auletta...”Bellei aggiunse: “Ah! Ad un tratto mi sono ricordato qual è il

coltello che avevo in auto. È ancora in macchina, perché è quello che uso quando vado a pescare”.

Ancora nulla di fatto.Demoralizzati, uscimmo nel piazzale. Ma un tragico spettacolo ci accolse: la segretaria si era suicidata.

Era lei colpevole, e in tasca aveva un coltello ancora insanguinato. In un raptus di follia, probabilmente per l’eccessiva stanchezza, aveva ucciso la prima persona che le era capitata davanti.

Ora poteva finalmente riposarsi. Sepolta dalle foglie. Foglie gialle sull’asfalto.

Ma non QUEL giorno…Federico Gualdi, 2°AI, ITIS “L. da Vinci” Carpi

Aprii la porta. Nella villa disabitata sembrava non esserci la corrente elettrica, ma mi affascinava: dava l’impressione di essere un luogo magico, quasi stregato.

Di fianco alla villa c’era un salice piangente. I suoi rami toccavano terra, ma bastava scostarli per vedere la panchina appoggiata al tronco: lì mi stendevo, ammiravo quei rami e quelle foglie ormai gialle che cominciavano a cadere sullo spiazzo asfaltato...

Ogni volta che mi avventuravo all’interno della casa, con la fioca luce del sole che penetrava dalle imposte ormai rovinate dalle intemperie, una strana sensazione mi metteva i brividi e allora scappavo a gambe levate verso casa.

Lo facevo quasi sempre, ma non quel giorno...La porta della villa era spalancata. Strano. Fino al giorno prima

era chiusa.Entrai d’impulso: ero pervaso da un forte senso di paura, ma

deciso a capire. All’interno, una tremenda puzza unita al consueto odore di muffa

mi riempì le narici.Avanzai nella penombra, cercando di capire da dove provenisse.Mi inoltrai a tastoni verso la parte più interna della casa

percorrendo un corridoio lungo e stretto, finché, ad un certo punto, l’odore si fece insopportabile: doveva provenire proprio dalla stanza accanto a me...

Tremavo dalla paura! Afferrai la maniglia a fatica, poi, con uno scatto, aprii la porta.

Orrore! Di fronte a me un uomo, forse un ragazzo, legato ad una sedia, imbavagliato; un’enorme macchia di sangue copriva il tappeto steso a terra e impregnava i vestiti: mostrava un colpo di pistola alla tempia.

Riuscii a mantenermi freddo, a non scappare; tirai un calcio ad un’imposta che si ruppe bruscamente, e la stanza polverosa si

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illuminò della forte luce del sole.Non osavo voltarmi, continuavo a piangere sconvolto

dall’accaduto.Rimasi a scrutare la stanza per un’eternità, ma non sembravano

esserci indizi.D’un tratto vidi luccicare qualcosa per terra: una collana d’argento!

Non la toccai nemmeno, per non ostacolare eventuali indagini. Estrassi il mio cellulare, scattai alcune foto, poi corsi fuori.

Mi sedetti sulla panchina per riprendere fiato e chiamai la polizia spiegando l’accaduto: descrissi esattamente il luogo, e mi fu chiesto di attendere lì il loro arrivo. Ero ancora in stato di forte shock.

Era già l’imbrunire; saranno state le sette, ma l’autunno rendeva queste ore buie ed inquietanti.

All’improvviso sentii dei rumori, ma mi accorsi subito che non si trattava della polizia: erano due persone, un ragazzo e una ragazza, sembravano agitati. I loro passi erano frettolosi.

Probabilmente erano solo due amanti in fuga d’amore, ma la mia timidezza e la consapevolezza dei pericoli che avrei potuto correre mostrandomi a quei due sconosciuti mi opprimeva al punto da non riuscire a ragionare, così mi lanciai dentro l’unica finestra priva di imposte: la stanza del cadavere.

Purtroppo sentii che i due erano entrati nella villa e si dirigevano proprio verso di me!

Mi guardai attorno: mi sarei potuto nascondere dietro al divano! Mi avviai silenzioso verso quella direzione, ma ad un tratto inciampai e caddi.

I due, che erano appena entrati nella stanza ormai cupa, puntarono la torcia verso di me e mi intimarono di rimanere immobile, poi il ragazzo estrasse dalla tasca un’enorme pistola e mi rinchiuse in uno sgabuzzino.

All’improvviso sentii il ragazzo urlare alla compagna di scappare, poi il suono delle sirene: era arrivata la polizia!

I due, dopo la cattura, confessarono di aver ucciso il complice a causa di una lite per la divisione del bottino, ritrovato di lì a poco dalla polizia sulla scena del delitto.

Ecco su cosa ero inciampato!Ancora adesso il ricordo di quel giorno rivive nella mia mente

ogni volta che vedo foglie gialle sull’asfalto...

Aurora Pelaggi, 2°H, ISA “A. Venturi” - Modena

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1963Tommaso Ballestri, 2°A, Liceo Scientifico “Wiligelmo”Modena

1963. Quell’insulso e insignificante ‘63 aveva stravolto la mia vita come un fiume in piena. Pensandoci è assurdo attribuire ad un numero la causa delle proprie disgrazie, è assurdo pensare che un paio di cifre così irrilevanti possano a tal punto influenzare la vita di una persona. Beh, fino ad allora anch’ io la pensavo così, ma si sa... In compagnia di un barista generoso e con in testa la sola preoccupazione di dimenticare, l’irrazionale prende il sopravvento e diventa così il più logico dei ragionamenti.

Il ’63 fu l’annata peggiore che l’uomo avesse mai conosciuto per quanto riguardava la pesca di calamari. Tutti i marinai della costa erano sul lastrico e, come avrete già intuito, io ero nella medesima situazione. Mesi e mesi trascorsi per mare, in balia del freddo e della fame, non erano bastati nemmeno a racimolare il denaro necessario a mantenere quell’ammasso di ferraglia rugginosa che ancora io e l’equipaggio chiamavamo barca. Dove fossero finiti i calamari nessuno lo sapeva, nemmeno i più esperti degli scienziati avevano trovato una risposta al quesito. Come sempre accade fra la gente di mare, quando non si riesce ad attribuire una soluzione logica ai problemi, ben presto si diffusero leggende e supposizioni circa il mistero: alcuni sostenevano che i calamari fossero stati divorati da un enorme mostro marino, altri, dotati di una sconfinata fantasia, avevano il coraggio di sostenere che tutti i calamari dell’oceano fossero stati inghiottiti nelle profondità abissali dal Dio del mare, che li voleva punire per colpe arcane e sconosciute. Io non avevo mai creduto a queste sciocchezze, ma ora le stavo riesaminando una per una, cercandovi un barlume di veridicità. Le conseguenze di questa calamità non si erano lasciate attendere. Ben presto infatti fui costretto a vendere la mia abitazione accanto al porto, vecchia e mal arredata, ma dove vivevano tutti i miei più bei ricordi. Assieme alla casa vidi sparire gli unici due motivi di gioia della mia esistenza: mia moglie e mio figlio. Ancora ricordo le sfuriate del dopo cena (sempre che ci fosse abbastanza

cibo per poterla definire tale), quei: “Sei un fallito!” oppure “Non otterrai mai niente nella vita!” e ancora “L’unico motivo per il quale sono ancora tua moglie è perché amo nostro figlio!”, bruciano come tizzoni ardenti a contatto con la pelle, e ogni volta che il loro ricordo si affievolisce leggermente, ecco che riappaiono, più fervidi e reali che mai, e il dolore diventa insopportabile. Forse se avessi abbandonato la mia attività di marinaio e mi fossi dedicato ad altro, come mi aveva saggiamente intimato mia moglie, oggi non mi troverei in questa situazione insostenibile, ma come avrei potuto? Il mare riesce ad inebriarti, a catturarti a tal punto che se non hai una grande forza d’animo può diventare la più piacevole delle dipendenze. Se avessi abbandonato l’oceano sarei quindi stato ugualmente infelice.

Chissà, forse l’uomo non è degno della felicità, forse ci respingiamo l’un l’altro come avviene per i calamari. La gente va e viene dal bar affollato, chi ride, chi mangia. Io però sono passivo a tutto ciò che mi circonda: sono in balia della tempesta, non riesco a reagire e l’unica cosa che mi è di compagnia è questo slavato bicchiere di whisky. Mi sento assente e impotente come potrebbero esserlo delle foglie gialle sull’asfalto.

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vita di Una fogLiaFederico Messori, 2°A, Liceo Scientifico “Wiligelmo”Modena

Pensate che essere una foglia sia semplice? La nostra vita è una corsa per la sopravvivenza fin dalla nascita, cerchiamo in tutti i modi di avere la gemma migliore per avere più luce e diventare più grandi, più belle. Ovviamente a me è toccata una brutta posizione, all’interno, dove c’è poca luce, non diventerò mai grande come quelle in cima. Oh la cima, cosa darei per essere lassù ed essere scossa dal vento, sotto la calda luce del sole. Oramai è troppo tardi, devo darmi da fare per aiutare il mio albero e a farlo ricominciare a “respirare”. La vita di una foglia è effimera, un giorno per voi umani vale come un singolo respiro per noi ed il nostro albero, inspiriamo di giorno ed espiriamo di notte. Dal nostro punto di vista voi uomini andate al rallentatore, noi in soli nove mesi riusciamo a fare ciò che voi fate in anni, siete strani, ma non ho tempo di soffermarmi su questi particolari, devo aiutare il mio albero. Un’altra stranezza di voi umani è che ad un certo punto, non so come spiegare, vi fermate, voi lo chiamate “sonno”, io spreco di tempo! Perdete un terzo del vostro tempo con questo “sonno”, siete inefficienti, forse ora ho capito perché non riuscite a fare in anni ciò che noi facciamo in mesi. Ho scoperto questo vostro difetto di notte, quando un uomo si sdraia a terra e resta lì fino al mattino, spesso quando piove. Uno dei vostri pregi più grandi sono quegli strani tronchi che non hanno radici e vi consentono di muovervi, diciamo che sembrano abbastanza utili. È finalmente primavera e accanto a me è nato un bellissimo fiore, alcuni insetti entrano e spargono il polline in giro, finalmente qualcuno ci aiuta! Questo mondo sembra un campo minato, nel ramo più in basso alcune mie compagne sono state mangiate dai bruchi o strappate da ragazzini insolenti, il dolore di una viene sentito da tutte, dato che siamo tutte collegate. Io sono molto nascosta, ci vorrà molto tempo prima che i predatori mi raggiungano, sto perdendo tempo, devo aiutare il mio albero. Il fiore accanto a me si è richiuso su se stesso ed è diventato un

frutto, cerco di nasconderlo in modo che nessun animale lo veda, è un’importante possibilità per fare nascere un altro albero, non fate gli ipocriti, anche voi animali proteggete i vostri figli! Da un po’ di tempo mi sono sentita nascere dentro un improvviso impulso “materno”, è un messaggio dell’albero, mi dice di proteggerlo con la mia vita. Mi sento cresciuta, d’altronde siamo già in estate, sono a metà del mio ciclo vitale. Il frutto non riesce a maturare a causa della poca luce, non cresce, non si tinge di nessun colore di quei frutti che possono ricevere abbastanza luce, l’albero mi invia un altro messaggio, abbi pazienza e crescerà. Finalmente il mio frutto cresce e verso la fine della stagione calda cade per adempiere al suo compito, far nascere nuova vita. Ho notato che molte mie compagne dei rami alti si sono seccate e sono cadute a causa del troppo calore, l’unico pro di essere all’interno della pianta è evitare questa eventualità, il contro è l’essere una delle ultime ad andarsene, allungando così l’agonia. Sento che l’albero mi sta dando sempre meno nutrimento perché ne ha estremo bisogno, molte mie compagne hanno seguito le foglie dell’estate, sono rimasta l’ultima del mio ramo, non mi sento sola, finalmente riesco a sentire leggermente il calore del sole, non l’avevo mai percepito così forte, l’albero cerca di confortarmi, ma purtroppo sento che la fine è vicina. Sono rimasta l’ultima foglia dell’albero, cerco con tutte le mie forze di restare attaccata al ramo e non essere spinta via dal vento, voglio aiutare fino alla fine il mio albero, la mia vita, sto ingiallendo e mi sento debole, riesco a fare ormai solo respiri molto brevi. L’albero mi invia un ultimo messaggio, deve lasciarmi andare, lo prego di non farlo e lo supplico di mandarmi più nutrimento cosicché possa aiutarlo anche per l’inverno, sento che sta soffrendo, ma mi dice che deve riposarsi e cadere in un temporaneo sonno per vivere ancora. Sono sorpresa, anche gli alberi cadono nel “sonno”, voi umani non siete poi così strani, mi decido finalmente di staccarmi dall’albero, mi lascio trasportare dal vento, è uno dei momenti più felici della mia vita, mi sento leggera e planare fra quelle correnti d’aria mi fa sentire strana, voi uomini la chiamate libertà, è una delle sensazioni più belle di tutte. Cado, infine, fra le altre foglie gialle sull’asfalto.

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L’UoMo dEL tEMPo PErdUto Rebecca Tucci, 2°A, Liceo Scientifico “Wiligelmo”Modena

Stava rigirando ancora in mano il biglietto, con l’indirizzo che i suoi amici gli avevano lasciato, di quest’uomo che poteva assicuragli un passato lontano dai loschi affari che aveva combinato da giovane, quando si ritrovò davanti alla porta. Rimase ancora un po’ di tempo fuori a pensare, indeciso se entrare oppure no, chiedendosi come fosse possibile esistesse qualcuno che poteva ricostruire un passato diverso da quello trascorso… Bussò. Fu invitato ad entrare e si trovò di fronte al “venditore di passati”. Questi era in apparenza un uomo come gli altri, ma doveva essere un genio se riusciva a creare “veraci” situazioni inesistenti. Fece accomodare il cliente e cominciò a rivolgergli delle domande. –

- Cosa desidera che io faccia per lei? – - Ma… Ho questo biglietto, che mi hanno dato i miei amici… -

disse rigirandolo ancora tra le mani – Potrebbe spiegarmi meglio di che cosa si tratta? –

Allora l’altro cominciò a parlare e gli spiegò dettagliatamente in cosa consisteva il suo lavoro: inventava dal nulla dei passati, poi li vendeva alle persone perché potessero dimostrare di essere state integre e oneste negli anni precedenti.

Il cliente gli rispose: - Quello che lei fa è una cosa davvero interessante, però io ero venuto per chiedere se lei era in grado di restituirmi il tempo che non ho usato bene nella mia vita e quindi ormai andato perduto. –

Ricevette una risposta secca: - Non è più possibile! – poi ripeté le stesse parole con un tono più conciliante. – Vede, il tempo perduto non può essere più recuperato… Il tempo perduto viene messo dentro a delle casse e buttate giù per un dirupo, ce ne sono tantissime, ma se lei è disposto a provare… Ma mi permetta di chiederle, quali mancanze così terribili ritiene di aver commesso per volerlo recuperare? –

- Alcuni anni or sono mia moglie fu ricoverata in ospedale e gli fu diagnosticato un male incurabile. Dovette sottoporsi ad esami ed analisi a volte anche molto dolorosi che ne fiaccavano la volontà.

Fui chiamato dalla mia ditta che mi mandò all’estero per un affare importante e io non potei rifiutare, nonostante la cattiva situazione. Un giorno fui informato che mia moglie era venuta a mancare e mi dissero che le ultime parole erano state per me. La mia vita si spense allora, mi rimase sempre dentro il rimorso di non aver saputo scegliere tra l’amore verso mia moglie e l’attaccamento al lavoro. Quindi vorrei provare a recuperare questo tempo. –

Il “venditore di passati” diventò pensieroso e alla fine gli disse che se voleva provare lo avrebbe accompagnato, anche se lui la riteneva una cosa impossibile.

Percorsero la strada in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri.

Arrivati sul luogo si resero conto che c’erano più casse di quelle che immaginavano. L’uomo del tempo perduto scese nel dirupo e si mise a cercare. Cercò invano, lavorò a lungo, poi si dette per vinto. Tornato sul ciglio della strada vide che il suo compagno era sparito. Convinto che fosse passata solo una mezz’ora non si era accorto che aveva trascorso lì sotto quasi un’intera giornata. Mesto e addolorato riprese la via di casa. Solo allora si rese conto che aveva perso ancora altro tempo e a confermaglielo erano, foriere del tempo che corre, le foglie gialle sull’asfalto.

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RACCONTI FUORICLASSE 2014 RACCONTI FUORICLASSE 2014Anita Accorsi, 2°H, ISA “A. Venturi” - Modena

CLaSSifiCa dEL ConCorSo

primo premioMariana turcan, “Autunno dentro”

secondo premioSimone Scognamiglio, “Come l’estate”

terzo premioSara Peluso, “L’alba”

MEnZionE SPECiaLi

Mattia Salvioli, “Trincea”federico Messori, “Vita di una foglia”

Sara borghi, “Colori d’infanzia”

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La Mia CLaSSifiCa

Luca turco Piccola luce, continua a splendere..........................

francesco roversi Un giorno d’autunno............................................

Mattia Salvioli Trincea... ................................................... .........

giorgia fiorani Il mio posto nel mondo........................................

Maria Laura frascadore Non aveva più paura...........................................

ilaria Sternieri Il cappotto giallo.................................................

rossella aulopi Ti volevo scrivere... .............................................

Ludovica boccedi L’odore della libertà..............................................

alessia tognetti L’ho lasciata andare................................... .........

Chiara ferri La finestra dei ricordi.........................................

Laura Paltrinieri Il volo dell’aquilone.............................................

Sara Peluso L’alba...................................................................

alessia borghi Marco e Lucia.....................................................

andrea Chierici Foto di gruppo....................................................

giulia ferrari Jennifer................................................................

Luna romagnoli Cadere dall’albero...............................................

Ludovica rosaz La maniglia rossa...............................................

Maria Chantal Seghedoni Il sogno spezzato..................................................

Sara borghi Colori d’infanzia.................................................

giuseppe diaferia Tempi difficili......................................................

Mariana turcan Autunno dentro........................................... .........

gioia ansaloni Adele...................................................................

andrea Marsella Già le tre.............................................................

Enrica Martinelli Asfalto.................................................................

debbi francesco La partita della vita...........................................

gazzani daniele É di nuovo autunno… .......................................

alessandra facchini L’ultimo addio.....................................................

giada bettelli Solo un sogno......................................................

Elisa Zanoli Il rumore di un addio.........................................

Laura Pifferi Ti perdono...........................................................

Christian Cappella Una persona speciale..........................................

amedeo Coriani La resistenza delle foglie gialle...........................

Scognamiglio Simone Come l’estate.......................................................

davide abba Vita da criminale...............................................

alessandro Catti Omicidio all’ITIS “Leonardo da Vinci”............

federico gualdi Ma non quel giorno… .......................................

tommaso ballestri 1963....................................................................

federico Messori Vita di una foglia................................................

rebecca tucci L’uomo del tempo perduto...................................

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RACCONTI FUORICLASSE 2014 RACCONTI FUORICLASSE 2014

Chiara Opallo, 2°H

, ISA “A

. Venturi” - Modena

indiCE

PrESEntaZionE ....................................................................................... p.6Luca turco Piccola luce, continua a splendere.............p.7francesco roversi Un giorno d’autunno..................................p.9Mattia Salvioli Trincea... ................................................... p.11giorgia fiorani Il mio posto nel mondo.............................. p.14Maria Laura frascadore Non aveva più paura................................. p.16ilaria Sternieri Il cappotto giallo........................................ p.18rossella aulopi Ti volevo scrivere... ................................... p.20Ludovica boccedi L’odore della libertà....................................p.22alessia tognetti L’ho lasciata andare................................... p.24Chiara ferri La finestra dei ricordi................................ p.26Laura Paltrinieri Il volo dell’aquilone.................................... p.28Sara Peluso L’alba.......................................................... p.30alessia borghi Marco e Lucia............................................ p.32andrea Chierici Foto di gruppo........................................... p.34giulia ferrari Jennifer....................................................... p.36Luna romagnoli Cadere dall’albero...................................... p.38Ludovica rosaz La maniglia rossa...................................... p.40Maria Chantal Seghedoni Il sogno spezzato........................................ p.42Sara borghi Colori d’infanzia....................................... p.45giuseppe diaferia Tempi difficili............................................. p.47Mariana turcan Autunno dentro......................................... p.49gioia ansaloni Adele.......................................................... p.51andrea Marsella Già le tre.................................................... p.53Enrica Martinelli Asfalto........................................................ p.55francesco debbi La partita della vita.................................. p.58daniele gazzani É di nuovo autunno… .............................. p.60alessandra facchini L’ultimo addio............................................ p.62giada bettelli Solo un sogno............................................. p.64Elisa Zanoli Il rumore di un addio................................ p.66Laura Pifferi Ti perdono.................................................. p.68Christian Cappella Una persona speciale................................. p.70amedeo Coriani La resistenza delle foglie gialle.................. p.72Simone Scognamiglio Come l’estate.............................................. p.74davide abba Vita da criminale...................................... p.77alessandro Catti Omicidio all’ITIS “Leonardo da Vinci”... p.79federico gualdi Ma non quel giorno… .............................. p.80tommaso ballestri 1963........................................................... p.84federico Messori Vita di una foglia....................................... p.86rebecca tucci L’uomo del tempo perduto......................... p.88CLaSSifiCa................................................................................................. p.91La Mia CLaSSifiCa ................................................................................ p.92

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RACCONTI FUORICLASSE 2014

Concorso letterario degli studenti delle scuole modenesi4° edizione - maggio 2014

Scuole partecipanti:Istituto tecnico Industriale “Fermo Corni” di Modena

Istituto tecnico Industriale “A. Volta” di SassuoloIstituto tecnico Industriale “Leonardo da Vinci” di Carpi

Liceo Musicale “Carlo Sigonio” di ModenaLiceo delle Scienze Umane “Carlo Sigonio” di Modena

Liceo Artistico “Adolfo Venturi” di ModenaLiceo Scientifico “Wiligelmo” di Modena

RACCONTI FUORICLASSE 2014