un limoncello all'inferno

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Quel 27 gennaio mio papà mi ha liberata dalle zavorre della nostalgia; mi ha permesso di accettare la mia identità composta da due anime, da due culture, da due patrie: non potrei consistere senza una delle due. Storia di un reduce dai campi di sterminio nazisti, fra i molti che racchiude, è questo forse il messaggio conclusivo del libro memoria-romanzo di Centonze. Quello che condensa i caratteri del suo animo esuberante e mette in luce il legame profondo con il padre. Legame che non è banale attaccamento al genitore preferito, ma elogio della paternità – il senso acuto della responsabilità sopravvissuto in uomo pur così ferito e segnato da una esperienza atroce - e della maternità. Perché Cosetta (colei che scrive in prima persona) l’ha preso veramente per mano, come quei bambini che si sono persi in un contesto non più familiare, e che il sentimento materno spinge a raccogliere per “riportare a casa”. Rapporto unico ed esemplare sul quale fiorisce come sentimento maturo il perdono di Lui ai suoi aguzzini e la sapiente - sperimentata sulla sua carne - fraternità di Lei.

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Postfazione

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Caro papà sta notte ti ho sognato: non accade spessissimo; per lo meno non così spesso come vorrei. Nel sogno camminavamo insieme e tu eri così giovane che stentavo a starti dietro. La tua “vita” mi è apparsa così piena che quasi ero offesa che tu non mi chiedessi niente di noi: dei tuoi adorati nipoti, della mamma, di Miranda. “Senti papà…” Tu continuavi a sorridere: forse mi incoraggiavi? “Senti papà…” Ma l’espressione del tuo viso era così appagata che non ho avuto il coraggio di dirti niente. Al risveglio ho riletto una tua lettera dalla prigionia e le informazioni che ho avuto attraverso il sito degli schiavi di Hitler: “Lo stammlager VIII B di Teschen si trovava nel distretto militare di Breslau (Breslavia) in Polonia; il nome attuale dovrebbe essere Cieszyn.” Caro papà, non so dove tu ti trovi, ma sono contenta che tu non sia qui. Non potevi immaginare, quando ci hai lasciato 17 anni fa, quello che sarebbe diventata l’Italia: un luogo in cui tutti odiano tutti, dove garbo, educazione, buoni costumi non contano più nulla.

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La libertà, la giustizia, l’equità, te lo dico in un orecchio come non ho osato fare nel sogno, tutto è stato spazzato dalla prepotenza e dall’ignoranza. Viviamo in un postribolo in cui chi più calpesta gli altri, più si fa la ragione. Be’ sono proprio contenta di non averti detto niente di tutto ciò. Forse, papà, con l’indirizzo stretto nella mano verrò a cercare i segni del tuo passaggio, della tua giovinezza sacrificata per tutte quelle belle cose che oggi in Italia non possiamo nemmeno più nominare. Cosetta Centonze figlia dell’aviere Luigi Centonze matricola 4752 stalag VIII B Teschen insignito il 27 gennaio 2010 della medaglia d’onore.

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Preambolo

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Nella nebulosa in cui consisté la mia coscienza infantile si mossero suoni, espressioni, sapori, atmosfere che, soltanto dopo essere stati etichettati come ricordi, si composero in una scena coerente: avevo sei anni e a sera la nostra casa si riempiva di amici, di compari e di qualche don, tutti venuti ad ascoltare mio padre che raccontava della guerra, della prigionia, del ritorno- in gran parte a piedi- dal lager ai confini con la Cecoslovacchia- fino a Lecce. In quegli incontri mio padre Palmiro ci offriva una razione di quella disperazione assoluta che, come imparai con il tempo, non le catastrofi naturali o gli accidenti casuali, ma soltanto gli esseri umani sanno procurare ad altri esseri umani. Quando sembrava che, per quella sera, si fosse giunti al massimo dell'efferatezza, mamma si dava da fare ad improvvisare un rinfresco: tirando sospiri di sollievo, si sgranocchiavano taralli e si bevevano passiti al tuo ritorno. Non potevo fare a meno di associare quel rinfresco al rito del consolo, il banchetto funebre, che i parenti più stretti e gli amici più intimi offrono ai familiari di un defunto. La guerra di mio padre, quindi, si legò alIe reminiscenze vaghe, ma orrorose dei funerali

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delle mie nonne cosicché quell’amalgama aveva il sapore stranito di festa macabra. I più sensibili, tra i presenti, spendevano una pacca amichevole dicendo: "Coraggio, Palmiro, ora sei qui: dimentica!" Mio padre sembrava infastidito da quel richiamo alla realtà e continuava a rimuginare nomi stranieri e fatti atroci e si guardava attorno smarrito fissando i volti, persino quello di mamma, come fossero estranei e remoti. Forse capiva di non essere riuscito a farci varcare il diaframma della realtà per introdurci nel suo incubo e che per questo era condannato alla solitudine. Subito mi rimproveravo per essermi distratta e provavo l'impulso di farmi avanti e di dirgli: "Papà, sono qui io: voglio condividere la tua pena." Avevo il sentimento, ma non le parole. Intanto il suo pubblico dava segni di stanchezza: sbadigliavano, si distraevano, chiedevano l’ora. Nonostante i taralli ed il passito, le presenze si diradarono fino a scomparire. Palmiro si ritrovò a dover smettere di raccontare la sua guerra e di cercare amici e parenti per depositare nelle loro orecchie distratte e nel loro animo indifferente i mozziconi di sofferenza, nella speranza che la condivisione rendesse più lieve il suo fardello.

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Così si diede e ci diede ad una vita assai risentita, fatta di serate silenziose.

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PRIMA STAZIONE

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In una di quelle serate credo di averti fatto il primo di tutti i doni che ti ho offerto nel corso della nostra vita. Fu quasi involontario: mentre facevo i compiti, ti incapricciasti di un foglio del mio album da disegno. Era perfettamente candido e se ne stava innocente tra l’astuccio di legno, il libro di lettura e le matite colorate. Mi domandai se era possibile che, al pari di te, anche la grattugia, l’imbuto, il setaccio lo schiacciapatate e lo schiaccianoci, dall’alto dei loro appendini, su cui ordinatamente mamma li schierava, ambissero a quello stesso biancore. Era, la cucina, il regno di una libertà relativa, il luogo sulla cui soglia si fermavano gli interrogativi che mi assillavano nelle altre stanze: sporcherò?” “Danneggerò?” “Disturberò”? Era quasi un paradiso, quindi, o un mezzo purgatorio. Allora io non conoscevo i concetti né dell’uno, né dell’altro: sapevo soltanto che lì potevo rilassarmi un po’. Avevo scoperto, infatti, che, se leggevo o studiavo, mia mamma allentava il suo controllo e così per me leggere e studiare divenne tutt’uno con la libertà e, quindi, con la felicità. Io studiavo, dunque, mamma si affaccendava a

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stirare, orlare, rammendare, ricamare o preparare conserve come il limoncello che era diventato la sua specialità. A te era consentito l’accesso naturalmente durante i pasti e, al massimo, per il tempo di leggere il giornale. Così tu ed io, di solito, eravamo nella stessa posizione: a testa china sulle pagine stampate. Talvolta provavo a darti una sbirciatina per via del sospetto che entrambi ci proteggessimo in quella trincea di carta dalla sola idea di sporcare o disturbare o dall’urtare le regole ferree della signora del limoncello. Quel giorno messo via il giornale cominciasti a girare attorno al tavolo e già una certa insofferenza si insinuava nel silenzio della signora del limoncello. Io, torturata dall’una e dall’altra, inquietudine tua ed impazienza sua, speravo che tu ti preparassi per tornare a lavoro, in ufficio – come mamma preferiva si dicesse- o che lei ti guardasse con l’espressione adorante che, di tanto in tanto, prendeva il posto del suo rigore sorprendendomi come una rivelazione. La ridda di emozioni e mozziconi di razionalità mi invitavano ad incamminarmi su un terreno enigmatico in cui l’incompiutezza dell’infanzia indovina l’esistenza delle contraddizioni degli adulti. Sapevo che in presenza della signora del limoncello controllavi la tenerezza che provavi

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per me e nascondevi l’intimità nata dalle nostre affinità. Se mi ammalavo ti fermavi sulla soglia della mia camera, occhieggiando il mio letto e scuotevi la testa con una espressione ansiosa che cercavi di correggere in una smorfia di sorriso con l'intenzione di fare coraggio: non so se a me o a te stesso. Al massimo mi concedevi e ti concedevi qualche carezza nei giorni migliori, quando non gravava su di te quella egritudine spessa che intorbidiva la casa non appena facevi ritorno da lavoro. Così il tuo tessermi attorno una sorta di tela, come se mi cercassi o volessi qualcosa da me, mi scombussolava allegramente. Finalmente mi chiedesti: "Che lezioni hai, Cosetta?" "Devo disegnare l'autunno." Tacesti e osservasti il mio disegno che presentava tutte le stigmate della malinconica stagione: "Bello! Hai visto Prisca?" Ti rivolgevi a mamma, ma continuavi però ad accarezzare con tenerezza l’album bianco. E poiché in certi tuoi atteggiamenti eri scoperto come un bambino, ti trattai da coetaneo; te lo offrii: "Lo vuoi? Te lo do." Ma erano tempi in cui la parsimonia, e non lo spreco, regolava l'andamento domestico e mia

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madre intervenne: "Lasciaglielo Palmiro: ne avrà bisogno per un'altra volta!" Tu, deluso, ritirasti la mano ed io, mortificata per te, mi impicciai per dartela vinta: "La maestra ha detto che il mio album ha i fogli troppo lisci per il disegno ornato. Me lo ripete ogni volta ed io mi vergogno." Mia madre mi rimproverò: "Perché non me lo hai detto subito? Sarei andata da donna Rirì a farmelo cambiare. Adesso toccherà comprarne uno nuovo." Prosperava la bottega di donna Rirì, situata nel cuore più antico della città dove noi bambini crescevamo nel recinto di monumenti ocra, tenacemente protetti da ogni contatto con la vita e la natura. Allora, il tempo non esisteva. La sua scansione era lenta e i cicli si confondevano in un'armonia rassicurante. La bottega era un emporio pieno di ogni sorta di mercanzia: dalle ferramenta ai casalinghi, alla chincaglieria e ai sacchi di coloniali. In disparte, sugli scaffali più alti, si custodivano oggetti di cancelleria e qualche articolo da speziale come chiodi di garofano, mignatte, citrato. In certi pomeriggi ascoltavamo il battibecco tra l'emporio e la pioggia: questa cercava di persuadere quello a prendere una sfumatura grigia e smorta, ma l'emporio non se ne dava

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per inteso e con i colori delle sue mercanzie costringeva all'allegria il suono di lei: cric scip, cric scip come il frizzare dei chicchi di citrato nelle nostre bocche e il ritmo delle natiche di donna Rirì. Mia madre intratteneva con tutti gli esercenti una sorta di sfida; partiva nelle mattine, ancora libere da incrostazioni di scippi, con la borsa di rafia ed il borsellino con la chiusura a scatto per la sua quotidiana missione: ridimensionare i prezzi del mercato. Prisca era abilissima a dimezzarli e a dare loro un'ulteriore sforbiciata. Quindi se ne tornava, tutta un trionfo, con le masserizie per la nostra famigliola nella sporta e il borsellino, stretto nell'altra mano, ancora mezzo pieno. Tra tutti gli esercenti donna Rirì aveva accettato giocosamente quella sfida con mia madre ed erano diventate amiche. Per questo io, Cosetta, mentre sedevo su uno dei sacchi di coloniali assieme ai bambini del vicinato, mi sentivo a mio agio più degli altri compagniucci. Trascorrevamo gran parte di quella felice condizione a meditare sulla natura dei chiodi di garofano, delle mignatte e del citrato che debellavano tutti i malanni del rione in cui regnava una salute fiorente. Quando non c'erano clienti, donna Rirì si metteva in ascolto delle nostre fantasie

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scambiando qualche sorriso con Porfirio, il pappagallo sapiente che abitava la gabbia appesa vicino al finestrone. Un tentativo dopo l'altro, carpendo nozioni dal sussidiario e nomi da racconti di filò e dalle conversazioni degli adulti, componemmo una leggenda. Totò parlò di terre lontane, vulcaniche - precisai io - in cui sbocciavano garofani di straordinaria bellezza; ma - deliberò Maria Venusta - destinati ad un'esistenza brevissima. Le proprietà medicamentose dei loro stami potevano essere preservate dalla corruzione purché, notte tempo, uomini pietosi come eremiti- aggiunse Vincenzo - li cogliessero, ad uno ad uno, per consegnarli a chi ne avrebbe rifornito le botteghe del mondo. Quanto alle mignatte io dissi che abitavano in abissi azzurrini in cui muovevano con felice agilità la loro massa diafana. Anche esse, come i garofani, potevano essere portate in superficie solo da palombari prescelti. E seguivamo, sognando di uscire dal recinto barocco, carovane avvolte da rena, e navi che veleggiavano fino a noi con il loro carico salvifico. A quel punto la proprietaria dell'emporio decideva che la nostra innocente fantasia andava salvaguardata e gettava un panno sulla gabbia di Porfirio, fonte di tutte le verità più sguaiate o sgradevoli, che si metteva a

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gracidare: "Mannaggia bah! Mannaggia bah!" Quelle interruzioni ci impedivano di procedere nelle nostre indagini a cui ogni volta aggiungevamo un particolare. "E il citrato?" Chiese Sarina impettita nella sua curiosità. Il citrato curava le intemperanze mangerecce degli adulti, ma era anche il dono che ci consolava da un eventuale bernoccolo, dava sollievo a mal di pancia ed emicranie; curava svogliatezza e capricci. Proprio a causa dei suoi molteplici utilizzi stabilimmo che doveva trattarsi di una polvere magica, monopolio felice della bottega. Ci convincemmo che a recarlo era l' uomo con il moncherino che veniva a raccogliere periodicamente stracci e cartoni. Egli scambiava un sorriso ed una strizzatina d'occhio con donna Rirì e questo ci parve un segno chiarissimo d'intesa. Mi distolsi dal pensiero felice della bottega e della bottegaia per venirti in aiuto. "Tieni." Dissi, sospingendo il foglio. Mamma strinse le labbra in una rima sottile, e dovette trascrivere sul libro nero che certamente esisteva riguardo mio padre e me, quel soffio di alleanza. Mi guardasti e prendesti il cartoncino mostrando una contentezza ed una

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soddisfazione che mi imbaldanzì. Via, via mi sembrò di capire che ciascuno viene al mondo diversamente abile; reca con sé un qualche svantaggio con cui deve fare i conti e che deve cercare di superare. Quello di mio padre Palmiro erano i ricordi della prigionia, durata due anni, in un campo di concentramento: lì alcuni erano morti; altri se n’erano fatti in qualche modo una ragione; ma c’era anche chi ne usciva vivo solo a metà: era il tuo caso. Lo dimostravano quel ricascare, nei primi anni dal tuo ritorno, sulla tua iliade e sulla tua odissea: le bombe, il lager, le miniere, la famiglia di Pasian di Prato che ti aveva nascosto ai repubblichini, che ancora imperversavano nel nord dell’Italia, l'abbraccio con tua madre, vedova, che ti aspettava perché le rare lettere dal lager avevano sostenuto in lei la speranza del tuo ritorno. Eri ancora prigioniero nonostante lo scorrere di avvenimenti felici: il matrimonio con Prisca che ti aveva atteso anche lei, la mia nascita, la vita , insomma, che si prendeva la rivincita sulla guerra e la morte, ma che non riusciva a cancellare, o almeno a mitigare le sofferenze, gli orrori, le iniquità patiti da te. Capivo che quello era lo svantaggio con cui avresti dovuto fare i conti tu. Ed io che ruolo potevo avere? Quello di una guida ignara di un viandante

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accecato dal dolore? Mi sembrava un compito così dolce che non ne coglievo la sproporzione velleitaria e diventavo sempre più determinata nel pretendere di salvarti specialmente dopo aver attinto serenità nella bottega di donna Rirì e nella lettura. Dopo il regalo del cartoncino da disegno, Prisca iniziò a ricamare una tovaglia a punto rinascimento sciorinando i suoi volumi di lino su spalliere e braccioli di sedie quasi che volesse ristabilire la sua sovranità sul focolare e prendere le distanze dai nostri capricci infantili. Mentre intagliava il candore del lino, cercava forse un motivo per perdonare la nostra scapataggine? Era solitudine anche la sua? Da quel momento tu ed io avemmo il tavolo tutto per noi. Cominciasti a prendere misure con una precisione che rasentava la pignoleria, ed io mi domandavo cosa progettassi. Qualche sera dopo mettesti fuori due boccette di inchiostro di china, una rossa e una blu. Mamma si fece più indietro per proteggere la tovaglia da quei due colori minacciosi e ti domandò: “Da dove esce fuori quell’inchiostro? Non lo avrai portato a casa dall’ufficio? E se ti scoprissero? E se prendessero provvedimenti contro di te? E se ti licenziassero?”

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Non rispondesti. Scrollasti le spalle per scacciare quelle domande che incrinavano la tua meditazione. Alla parola licenziamento, il cuore mi diede un tuffo; rividi l’immagine del libro di lettura che rappresentava un accattone. Per educarci all’idea che il lavoro e non il gioco è degno dell’uomo, la didascalia spiegava che quella era la fine che meritava chi non si assoggetta a tale norma. Ma mi ostinai nel persistere a condividere quella novità che mi faceva toccare vertici di ebbrezza: la tua giocosa incoscienza. Così le serate presero un nuovo andamento: lettura, ricamo, inchiostro di china. Forse l’ipotesi che la donna del limoncello aveva fatto riguardo alla provenienza dell’inchiostro e le ombre spaventose che questo aveva fatto addensare sulle nostre teste, ti rendevano esitante nel dare inizio all’utilizzo del foglio. Una sera Prisca disse: "Verrà fuori una bella scacchiera." Finalmente avevo scoperto a cosa serviva il mio cartoncino e mi sorprese che mia mamma lo dichiarasse con tanta sicurezza mostrando di conoscerti bene, meglio di me. Prisca aveva deciso di interpretare il tuo capriccio come una sua vittoria: grazie a questa tua bizzarra occupazione, infatti, non avresti passato le tue serate in balia di uno dei tuoi

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“vizi”, il gioco, che ti tratteneva, di sera e la domenica mattina, al dopolavoro. Erano sere in cui Prisca rimproverava persino il mio respiro, benché cercassi di diventare invisibile e di farmi scudo con i libri de “La Scala d'oro” . In realtà, invece, ero tutta tesa a cogliere dalla strada i segni del tuo rientro. Quanto più il tempo passava, più Prisca si faceva scura in volto e più io dovevo lottare con il mio intestino. Ora, invece, questa idea della scacchiera ti aveva strappato al cral. La signora del limoncello canticchiava a mezza voce ed io mi sentivo fiera del dono che ti avevo fatto e che per la prima volta sembrava darti ad un’attività. Apparivi proprio contento: fischiettavi mentre ti dedicavi con impegno alle misurazioni con squadra e riga e precisione maniacale. Quando tornavi a casa mi prendevi in braccio per baciarmi: cosa di cui ti credevo incapace e che mi dava una felicità assoluta come quando vi sorprendevo a scambiarvi tenerezze. Furono i giorni in cui fui quasi bambina. Tuttavia ero sempre vigile e spiavo il tuo ritorno dal lavoro già esperta a decifrare il tuo umore. Ma la scacchiera fece progressi, nonostante il tuo perfezionismo. Ora il cartoncino bianco era solcato da linee nere perfettamente incrociate.

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Ti preparavi a passare le mani di inchiostro sui quadrati, ma esitavi: una sera il pennino non ti sembrava idoneo e impiegasti tempo alla ricerca del pennino perfetto disdegnando la bottega di donna Rirì. Un'altra sera provavi e riprovavi le mani di colore su un foglio a parte, ma il blu ed il rosso non ti convincevano. Prima di andare a dormire riponevi boccette e pennini in una scatola a scatto. E quello scatto convinse Prisca e me che anche le boccette d’inchiostro provenivano dall’ufficio. Era un furto? Sembrava di sì da come mia mamma nascondeva la scatola sotto vecchie coperte. Dunque qualcuno avrebbe bussato in pieno giorno, anzi nel buio della notte per accusarti di quella appropriazione indebita? Attribuivo quella preoccupazione anche ai miei genitori specialmente nelle sere in cui tornavi ad essere cupo e ti tenevi lontano dal cartoncino. Mia madre, forse consapevole delle nuove paure di cui ti aveva caricato, girava la manopola della radio e tutta la vita, che scorreva fuori dal nostro modesto consistere, si precipitava nella stanza con i suoni sguinci, i sibili, le parole straniere, la musica, le canzoni di Gino Latilla. Quando Prisca si accorgeva che né io leggevo, né tu disegnavi, smetteva di ricamare,

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spegneva la luce del lampadario e ci lasciavamo ninnare dall'occhio giallo della radio. Tuttavia il ristagnare del tuo lavoretto cominciò ad incrinarmi il piacere che mi dava la lettura de "La leggenda dei Nibelunghi". Ne ero distolta per tornare a prendermi cura di te e del tuo malumore. Cercai in qualche modo di sollecitarti. Ti chiedevo: "Mi insegnerai a giocare a dama?" Facevi segno di sì ma, con i pugni alle tempie e i gomiti sul tavolo, continuavi ad osservare il cartoncino fino a quando mia madre stabiliva che era ora di andare a dormire. Dal mio letto, che occupava una parete della sala e che, di giorno, fungeva da divano, mi mettevo in ascolto sperando- giacché i bambini sanno tutto dell'amore anche se poi lo dimenticano e qualcuno insegna loro cose sbagliate- che fosse il corpo di mia madre a darti una felicità maggiore di quella che avevo creduto avresti trovato nella scacchiera. Il cartoncino abbozzato, tuttavia, continuava a suscitare in te attenzione e studio giacché ti intrattenevi di fronte a lui, appena potevi, ma sempre perplesso. Dovevo assolutamente mettermi alla ricerca di un altro dono che ti rasserenasse! Una breve tregua la conoscemmo la volta in cui tornasti, al limite del crepuscolo, con un pacco

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di cibi vinti in una riffa tenuta da un venditore ambulante. Giocare e vincere, anche cose modeste, ti dava un'esaltazione e ti ringalluzziva contro la malasorte da cui ti sentivi perseguitato. Per questo la provocavi con ogni sorta di sfida e di gioco e ti capitava spesso di vincere, se il premio era modesto, e di perdere "per un punto", se c'era in palio qualcosa di valore. Quella sera mia madre non ti rinfacciò il gioco e subito allineò i barattoli nella dispensa per quando ci sarà “l’occasione di figurare” Ci concesse di aprire. tra tutto il bottino vinto, la boite di sottaceti e si bevve. Persino a me era stato concesso un dito di vino e quel liquido rosso e profumato mi donò un'allegrezza immotivata. Tu riprendesti la scacchiera e la osservasti come se intendessi rimetterti all'opera. Invece, ti vidi impallidire: mi accostai a te e mi misi anch’io ad osservare il cartoncino. Non so come, ti accorgesti di me e mi accarezzasti la testa. E sotto le tue carezze vidi quello che vedevi tu: le linee non erano quelle di un'embrionale scacchiera, ma le sbarre di una prigione oltre le quali c'erano i campi brulli, le sentinelle, le loro grida tedesche, il loro accento aspro, il filo spinato, i kapò, la punta aguzza delle armi, i tuoi compagni e tu stesso sospesi tra la vita e la morte a seconda dell'arbitrio dei vostri carnefici

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o l'esito di battaglie che avvenivano lontano per decisione di uomini a cui era rimasta la voglia di giocare alla guerra. Nel corso di serate simili io mi addentrai tra quelle presenze ostili che riconoscevo grazie ai tuoi racconti di un tempo, andai oltre ed intuì alla cieca il dolore, le umiliazioni, le torture, la disperazione, la nostalgia, la ribellione. Soprattutto capii come la paura possa vertiginosamente trasformarsi in terrore. E da quello passai a sfiorare un altro stato d’animo tenebroso e più orribile della paura. Della prima avevo esperienza e potevo sguazzarci: ci sguazzai assieme a te! Il secondo, invece, mi era sconosciuto e non sapevo dargli un nome, ma sentivo tutta la sua potenza malefica come un mostro pronto ad imbizzarrirsi se non tenuto d’occhio. Soltanto quando lessi la riduzione della storia dei Nibelunghi compresi che era il sentimento del nano Ninive e di Hagen ed aveva un suo proprio nome. Si chiamava odio. Al momento non lo volli frequentare, ma mi specializzai nella prima. La paura era una fosca signora, elegante con la sua veletta ed i suoi mezzi guanti: ti seguiva ovunque. Aveva fermato lo scorrere del tempo, si era impadronito della tua mente, respirava accanto a te o attraverso te fino al punto che il seguito

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della tua esistenza il presente e il futuro non te ne avevano liberato; tutti, di riflesso, eravamo sotto la sua guardia stretta proprio come il tesoro dei Nibelunghi custodito dal drago. Soltanto nei momenti in cui essa mollava la presa ci era concessa una vita equa con baluginii di semplice contentezza che pure alludevano a smerigli iridescenti della felicità che era lì a portata di mano. E anche quella sera, mentre noi festeggiavamo la tua vincita e aprivamo il barattolo dei sottaceti, facevamo onore alla cena di Prisca, la fosca signora era rimasta sempre là, in attesa, con il suo sorriso falsamente triste, giacché sapeva del proprio trionfo. A pensarci bene rassomigliava a qualche figura intravista su un vecchio album pieno di fotografie sfocate che ritraevano prozie impettite nella posa di inizio secolo. Che una di loro, la più corrucciata, fosse discesa dalla foto per curiosare nella nostra vita aggrondata quanto lei? Forse fu il vino che eccitò la mia fantasia, forse fu il ricordo di una tua lettera scritta dal lager che Prisca conservava e su cui distrattamente mi aveva fatto esercitare nella lettura, prima che tu volessi per me l'acquisto della "Scala d'oro". L'avevo imparata a memoria senza accorgermene ed ora la richiamavo divenendo consapevole di quanto tormento c'era dietro

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quelle righe: Theschen "30/1/44 Mia adorata mamma, a distanza di pochi giorni ti scrivo nuovamente per darti mie notizie riguardo alla mia condizione fisica e morale e sono sempre le medesime. Ti prego di non preoccuparti e affliggerti per la mia salute; ti giuro che godo ottima salute, e ringrazio il Signore che fino ad oggi mi ha protetto e spero che mi protegga fino al giorno del mio ritorno a casa. Spesso lo prego che mi conservi in buona salute la mia cara mamma, mio unico tormento in questi tristi giorni di prigionia che noi tutti italiani abbiamo molta speranza che presto finiranno. Non ricordo di preciso quante lettere e cartoline ti ho scritto senza averne ricevuta una che mi dia la gioia e mi tranquillizzi alquanto di sapere tue notizie e cioè che la mia cara mamma attende sempre con fede il ritorno del suo Palmiro. Saluti a tutti; accludo anche un caro saluto al nostro bel cielo vivificato dal caldo sole italiano che da queste parti è molto pigro a farsi vedere. Tanti baci dal tuo affezionatissimo Palmiro." La mia intuizione trovava conferme: il tuo spirito era rimasto imprigionato laggiù nel lager, si

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aggirava in quel labirinto e qui con noi in città, tra i compari e i don, c'era solo il tuo corpo sbilenco ed indebolito a causa di quella scissione. Era da essa che provenivano il tuo malessere e le tue angustie. Fu allora che decisi che avrei trovato la chiave, il chiavino, il chiavistello che ti avrebbero restituito intero alla vita, alla realtà, a noi, e a te stesso. Tanto più mi sentivo investita da questo compito quanto più mia madre appariva inconsapevole di tutto quel travaglio. D'altra parte c'erano pure momenti in cui sembravi trasformarti in ciò che avresti dovuto essere: un giovane uomo pieno di speranze. Se faccio il conto degli anni, mi intenerisco al pensiero che allora, quando io avevo sei anni, tu ne avevi solo trenta: quasi l'età che hanno oggi i ragazzi quando terminano gli studi universitari e cercano un'occupazione. Tu invece a trent'anni avevi già il tuo lavoro di contabile nella fabbrica di cordami, una moglie bella, e abile a tirare sui prezzi, e me. Talvolta avemmo accesso a quegli sprazzi abbaglianti di vita autentica. Ricordo una mattina: era estate e c'eravamo levati presto, spossati dal caldo patito durante tutta la notte; ce ne andammo tutti e tre al vicino giardinetto pubblico e come spuntino avevamo una confezione di biscotti.

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C'erano i viali curati del parco, c'erano le siepi, c'erano le panchine, c'eravamo noi tre, c'erano i wafer e non c'era la paura. L'aveva forse messa in fuga il sole che saliva dall'orizzonte, arroventato e trionfante su ogni sorta di bruma? Siamo stati felici: l’ armonia che aleggiava su tutti e tre era parimenti percepita. Non so dire se è stata l'unica volta o l'ultima volta che ci capitò quella perfetta condizione. Mi sembra, tuttavia, che, subito dopo il miracolo di quella mattina, mia madre moltiplicasse le visite alla sua famiglia. Di rado ai tuoi racconti erano state presenti le zie, sorelle di mia madre. Si diceva che fossero molto impressionabili e preferivano evitare quegli incontri, anzi silenziosamente rimproveravano il cognato di scuotere i loro nervi. Le sorelle di Prisca, due nubili e una vedova, erano diventate la tua famiglia, poiché non avevi fratelli; le zie, però, trovavano da ridire sul tuo modo di vivere. Prisca sarebbe stata una donna semplice e concreta con tutte le qualità migliori di una popolana, se le sue pretenziose sorelle non l'avessero condizionata. Inoltre, mamma era più giovane di parecchi anni rispetto alle altre tre che a me apparivano decrepite e tanto dissimili da lei. Zia Naida scuoteva la testa e stringeva le

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labbra avvicinandosi di più al telaio del filet. Zia Estrella, la modista, elencava: "Il gioco al cral, il fumo, il calcio. Io che, per via del negozio tratto con le migliori famiglie di Lecce, temo di fare una cattiva figura a riconoscerlo come cognato." E zia Renata: "Mio marito, buon anima, dispiaceri così non me ne ha dati mai!" Di nuovo zia Estrella: "Ma si rende conto del cattivo esempio che dà alla figlia?" Mia madre accennava di sì ed io mi intenerivo sulla tua innocenza mascherata di vizio e mi stupivo che Prisca desse loro ragione: non si ricordava più dei baci che vi davate, di quando vi lasciavate cadere sul letto corpo contro corpo? Senza malizia mi domandavo se mai le zie fossero avessero giaciuto nella tenerezza avvolgente di un altro corpo. Mia madre percorreva la strada del ritorno, gonfia di risentimento nei tuoi confronti, strattonandomi. A casa mi rifugiavo di nuovo nei libri per cercare di non sentire gli sbatacchi delle pulizie che la signora del limoncello accompagnava con un silenzio carico di rabbia. Quando aveva terminato di rassettare, accendeva la radio, ma ora dava un’occhiata all'orologio ora alla tua cena lasciata in caldo.

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Infine sospirava spegneva la radio e andavamo a dormire. O meglio mia madre si addormentava ed io aspettavo sveglia, immobile sotto le coperte, il tuo ritorno dal dopolavoro. Tiravo un sospiro di sollievo quando ti sentivo arrivare; ero quasi tentata di abbandonarmi, finalmente, al sonno e, tuttavia, i miei sensi continuavano a seguirti mentre ti aggiravi in cucina e riscaldavi la cena che stava lì ad aspettarti e a rimproverarti. Al mattino le tue accurate abluzioni ti portavano via troppo tempo per mettere le carte in tavola, quindi la discussione avveniva il giorno dopo, all'ora di pranzo. Prisca riferiva la conversazione avuta con quegli oracoli delle mie zie. "Estrella ha detto... Renata non sa cosa dire... Naida pensa..." Tu ti chiudevi in mutismo o scendevi in cortile e facevi a gara con i ragazzi del vicinato nel tirare pallonate che si sentivano in tutto il rione. Io mi facevo piccola, piccola per il disagio mentre Prisca tratteneva il pianto in una smorfia e affettava le verdure per il minestrone serale. Non c'era verso che su quell'argomento si facesse pace. Giungeste al punto di farvi dispetti. La domenica tu cominciasti a tralasciare la visita alle tue cognate che avveniva di regola dopo la messa.

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All'uscita dalla chiesa ci lasciavi sul sagrato senza complimenti. Mia madre in ghingheri, ma con il pianto che le andava su e giù nella gola ed io, nel vestitino con il corpetto a nido d'ape e la collana e il braccialetto d’oro, andavamo da sole dalle zie che non facevano commenti, ma erano tutte contente per quella nuova prova della tua scapataggine. Io mi tenevo pronta, seduta in punta di sedia, a prendere le tue difese. E quando lo feci mi alienai per sempre la loro approvazione: “Tuttasuopadre!” Dopo che per diverse domeniche avevi marinato la visita alle cognate, Prisca credette bene castigarti. Tornate a casa mamma cominciò a smettere gli abiti da passeggio per riporli con cura; e mentre io stavo per fare altrettanto mi fermò “Aspetta!” Disse con una luce perfida nello sguardo: “Non cambiarti. Devi riuscire!” Nella fretta di svolgere il suo piano Prisca aveva dimenticato di togliersi gli orecchini a forma di stella: io la guardavo e la trovavo bellissima. Sempre avevo giudicato mia madre bella, ma ora, con il suo viso intenso di vendetta, i suoi occhi neri, i suoi capelli ondulati sottolineati dai colori vivaci del vestito da casa e gli orecchini a

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forma di stella, mi appariva una visione di insopportabile bellezza a cui la concentrazione della sua espressione donava un tocco inquietante. La sua richiesta era precisa e dettagliata: “Vai a cercare tuo padre! Certamente passeggia con qualche collega e va da un bar all’altro: beve troppo caffè fino a diventare nervoso… nervoso con le zie. Se mi darai ascolto non ti perderai; basta che ti punti in mente le edicole: qui di fronte c’è quella della Madonna delle ciliegie che conosci bene; volta a destra fino a giungere all’edicola di San Vito; prendi sempre alla sua destra e prosegui fino all’edicola della Madonna di Montevergine nella corte dei Patarnello. La corte sembra senza sbocco, ma se osservi bene, vedrai che alla sua sinistra si apre un vicolo, imboccalo e percorrilo tutto: ti troverai in piazza Sant’ Oronzo. Sbircia in tutti i bar che si affacciano nella piazza.” Tacque per un po’: “Ti sembra complicato? Si tratta soltanto di tre nomi: Madonna delle ciliegie, San Vito e Madonna di Montevergine; sei brava a scuola, impari presto.” “ E se non lo trovo?” Prisca si incupì, mi volse le spalle forse per nascondere la sua amarezza, forse per non ammettere la mia inadeguatezza di fronte al

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compito di cui mi investiva e rispose seccamente: “Allora cercalo al cral: sai come arrivarci dalla piazza.” Sedette sulla sedia eccitata e contenta: “Mi raccomando, devi tornare con lui. Inventa qualcosa...digli… digli che mi sento male. Vai! Ricorda: la Madonna delle ciliegie, San Vito e la Madonna di Montevergine; ripeti i nomi mentre cammini! E, mi raccomando, non chiedere informazioni a nessuno. Con la scusa di venirti in aiuto, un giostraio potrebbe portarti via." Fu un'avventura: anche se Lecce, sul finire degli anni cinquanta, era una piccola e tranquilla città in cui i bambini crescevano di norma per le vie. Io stessa mi recavo a scuola da sola ed ero abituata ad uscire per piccole incombenze, ma questa era una novità sia per i luoghi, sia per l’oggetto della ricerca in sé: una bambina alla ricerca di un adulto da riportare a casa! Così partii e la città si dilatava e si dilatava di fronte ai miei passi: i palazzi barocchi con i loro profili andalusi si stagliavano contro il cielo perfettamente azzurro; ora scampanava una chiesa ora un'altra; la gente scemava da un luogo sacro ad una pasticceria. Avrei voluto restare per sempre tra la normalità

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di quella allegra confusione, ma mi era stato dato un compito ed io non ero tipo da mancare ad un impegno. Di te non trovai traccia nei bar del centro. Certo ciò sarebbe stato un duro colpo per mamma: la conferma delle tue debolezze, dei tuoi vizi, delle tue colpe. Provavo qualche remora a cercarti al dopolavoro che era un posto per uomini, dove- immaginavo- si alzava la voce e si sbattevano le carte sul tavolo. “Come in una bettola.” Questa definizione mi venne da un anfratto della memoria che accoglieva i commenti acidi di zia Estrella. Era mai possibile che mamma, Prisca, la signora del limoncello, tutte e tre insieme mi inviassero in un posto simile? Prisca doveva essere esasperata! E che figura ci avresti fatto, poi, tu di fronte agli amici e colleghi riportato a casa per la cavezza tenuta da una bambina? Ebbi fortuna; percepii la tua essenza: le scarpe lucidate perfettamente, il vestito che figurava sul tuo corpo snello, i capelli ricci sulla testa di giovane Ottaviano. E seguii quella scia intravedendoti proprio mentre giravi l'angolo che portava al dopolavoro. O che i tuoi sensi di colpa ti avessero reso vigile, o che anche tu mi avessi annusata, ti

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voltasti nell'accenderti una sigaretta e mi scorgesti. Avesti un momento di esitazione: ma né tu, né io avemmo il coraggio di essere noi stessi: tu recitasti la parte dello scapestrato ed io dell'aguzzino che ti controllava. Mi sono seduta su una panchina di Piazzetta Santa Chiara in attesa. Le porte a vetri del cral ci permettevano di sbirciarci. Tu giocavi a scala quaranta ed io, per passare il tempo, ripassavo a mente la lezione di storia per il giorno dopo. Esitavo tra Orazio Coclite e Muzio Scevola e la”cavallina storna”. La poesia con la sua cantilena era più adatta a rilassarmi, come la ripetizione monotona di un rosario permette di allontanarsi verso confini atemporali. Arrivai a giudicare con severità quel padre così sbadato da lasciarsi uccidere. Tuttavia ti limitasti ad una sola partita; venisti fuori e non sapevi dove dirigere il tuo sguardo. "La mamma sta poco bene." Ti dissi mentre mi passavi davanti. “Ah sì? Poteva chiamare le sue sorelle invece di mandare una bambina della tua età a cercarmi tra pericoli di ogni specie!” Camminavi rapido come se la notizia ti avesse messo in apprensione o forse fu un mero dispetto perché io non camminassi al passo

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con te. Mi rassegnai a starti dietro. In verità, di tanto in tanto, ti soffermavi ad allacciarti una scarpa o ad accenderti una sigaretta cosicché riuscivo ad accorciare le distanze, ma non potei mai camminarti alla pari. Nel tragitto mi domandai se a casa avrei assistito ad una catastrofe: che peccato che fosse domenica e la bottega di donna Rirì non potesse offrirmi un rifugio! "Che ti senti?" Chiedesti bruscamente a Prisca, ma non aspettasti nemmeno che lei rispondesse e aggiungesti: "Eccomi qua, se è questo che volevi! Non ti venga più in mente di mandare Cosetta in giro per nulla. Io non mangio; tra poco passa Nino e andiamo a vedere la partita." “Benissimo- disse Prisca- anzi di bene in meglio! Dove arriverai di questo passo? Dove ci precipiterai?” Tu non rispondevi e anzi mettevi tutta la tua cura nel prepararti ad andare allo stadio. Ci furono altre scaramucce, altre coalizioni tra le sorelle per salvarti dal cral e da tutti i tuoi altri innumerevoli vizi. A volte ti rimettevi davanti al cartoncino della scacchiera che era rimasta incompiuta e facevi orecchio da mercante alle critiche che Prisca ti riportava.

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Non so di cosa tu avessi più paura: se di quello che vedevi nella scacchiera o del clima di rimbrotti continui che si stava creando attorno a te. Di lì a poco a Prisca venne la smania per la casa nuova. Bastava che un'amica o un'ex compagna di scuola andassero ad abitare in un quartiere

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nuovo, frutto della ricostruzione che ferveva nel dopoguerra, che lei cominciava a parlartene: "Se si facessero un po' di economie, se tu smettessi di buttare il denaro per il gioco, per andare allo stadio e per le sigarette, potremmo anche noi… magari con l'aiuto delle mie sorelle che sarebbero dispostissime se solo tu fossi un po' più rispettoso... potremmo lasciare questa vecchia casa piena di topi." Prisca sbandierava la trappola che di tanto in tanto conteneva un sorcetto. “Vendendo questa casa ricaveremmo qualcosa per l’anticipo.” “A vendere questa casa non ci penso proprio: ci sono nato, qui mia madre ha atteso il mio ritorno.” “Non per questo è diventata monumento nazionale.” Non facesti caso alla rispostaccia di mamma, ti rivolgesti a me carezzevole: “Neanche a te, Cosetta, piace abitare qui?” “Per me è bellissima.” Certo la signora del limoncello pensò che volessi farle un dispetto, ma io spiegai: “Mi piace per via delle due terrazze: quella dopo la prima rampa, piena di piante di gelsomino; e poi quella più in alto dove stendi il bucato, le lenzuola che sbattono come volessero afferrare il cielo.” Per quel giorno mia madre lasciò perdere, ma a pena si presentava l’occasione tornava a

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battere quel chiodo. Anche il semplice piacere di una passeggiata ci fu guastato dalla vista di cantieri che ponevano le fondamenta. Forse fu per questo che un giorno decidesti di non alzarti per andare a lavorare? Quando mamma venne a chiamarti, ti rivoltasti nel letto e le dicesti di avvisare in ufficio. Io, che frequentavo il turno di pomeriggio, fui mandata alla fabbrica di cordami con un bigliettino per l'usciere che a sua volta avvisasse che eri in malattia. Di fronte all’ingresso degli uffici esitavo a rivolgermi all'usciere. Stavo là tra il vai e vieni degli operai e degli impiegati temendo e sperando che qualche collega di mio padre mi riconoscesse e mi venisse in aiuto. Fu l'usciere, invece, che si accorse di me; mi osservò un po', infine si decise ad affacciarsi: "Ehi tu, bambina, che c'è?" "Sono la figlia del ragioniere." Ma lo dissi a voce tanto bassa che l'usciere dovette ripetere la domanda. Ogni volta io provavo ad alzare un po' la voce, ma egli dovette venire fuori dalla guardiola, mi alzò il mento e si fece ripetere il nome. Disse- “va bene”- prese il biglietto e aggiunse, non so se per rispetto a te o per tenerezza nei miei confronti: "Fai attenzione per strada."

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Quando venne il dottore per la visita fiscale facesti molto bene la parte del malato tanto che il medico trovò un'etichetta- "Esaurimento"- e ti diede tempo due settimane per guarirne. Mia madre, in cucina, a voce bassissima mi mise a parte del vergognoso segreto: "Non ha niente; è solo un lavativo. Se la mia famiglia sapesse... mia madre, buonanima, aveva ragione: un giocatore e un fannullone è..." Io invece pensavo: "Povero papà: è colpa della guerra, del campo di concentramento; ah se mamma avesse visto quello che ho visto io nella scacchiera!" Ma non osavo contraddirla tanto più che mi degnava di quelle amare confidenze che mi spingevano a provare pietà anche per lei Anzi la consolavo, magari portandole da scuola un bel voto. Ogni giorno speravo di trovarti in piedi, ma l’esaurimento ti aveva tolto le forze. E, mentre donna Rirì saliva a farti due iniezioni al giorno, mi domandavo cosa sarebbe accaduto di noi se tu non fossi guarito e se fossi rimasto per sempre “esaurito”. Mi recavo a scuola per il turno di pomeriggio lasciandoti in quella condizione di abbattimento; mi voltavo per salutare mia madre, che mi seguiva con lo sguardo dal balcone e a quel punto la casa e tutta la strada e tutto il rione subivano una metamorfosi: ogni cosa diventava

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ostile e sconosciuta, e durante le lezioni stavo con il pranzo sullo stomaco per la paura di trovare al mio ritorno un immane sconvolgimento. A casa mi appoggiavo allo stipite della porta della vostra camera e ti osservavo come facevi tu quando ero malata io. Un giorno mi sorridesti ed io mi sentii sollevata. Quindi cominciasti ad alzarti: ti aggiravi per la casa tutto scarmigliato e con la barba lunga da far paura a me che quasi non respiravo, mentre

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mia madre, addirittura, ti parlava di calcio, ti regalava un pacchetto di sigarette. Cosicché man mano il tuo malessere si scioglieva e ricominciavi a parlare, a farti la barba, a sedere a tavola assieme a noi come se fossi in convalescenza da una malattia lunga e seria. Quella bravata di startene a letto senza un malanno che fosse misurabile con termometri e analisi aveva molto impressionato Prisca che, smarrita, dovette trovare insufficienti i consigli delle sue sorelle e cercò altre fonti di sostegno. Lo seppi la mattina in cui, scaduta la licenza per malattia, tornasti in ufficio tirato a nuovo con il tuo bel personale ed i capelli ricci domati. Sentivo che il nostro universo era tornato in ordine: tu a lavoro da buon padre di famiglia; mamma sfaccendava e lavorava di ago, lavorava di ago e sfaccendava. Io ero incastrata nell’odiato turno di pomeriggio: odiato sia perché durante la mattinata Prisca mi obbligava a ripetere ad alta voce ogni lezione fino a raggiungere una assoluta perfezione. Oppure dovevo ascoltarne incomprensibili confidenze, indispettiti sfoghi. Sia perché il turno pomeridiano, invertendo i miei ritmi rispetto a quelli degli amichetti, mi esiliava dalla bottega di donna Rirì e dalla mia banda di amici con i quali condividevo il mistero delle pignatte, dei fiori di garofano e, soprattutto, del citrato.

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Tuttavia i miei genitori erano tornati nel meraviglioso ordine che li collocava in un punto preciso e decoroso del sistema solare, dell’universo, forse dell’infinito! Da quell’ordine io rimanevo esclusa a causa della mia infanzia saputa e di tutti quegli interrogativi per i quali non potevo domandare consiglio ai miei distratti genitori. Forse avrei dovuto rivolgermi a Porfirio, il pappagallo sapiente, per sciogliere nodi ed enigmi. La signora del limoncello, dunque, si arrovellava nella ricerca di un sostegno a cui aggrapparsi. E così quella mattina: “Ascoltami Cosetta.” Eravamo sedute sul mio letto-divano quando lei mi spiegò: “Dobbiamo pregare per tuo padre!” Annaspai nel gelo che di colpo mi serrò. “Perché? E’ ancora malato?” “Mi hanno detto che facilmente potrebbe avere delle ricadute. L’esaurimento nervoso è così!” “Così come?” Mamma faceva di sì con la testa e mi sembrava che fosse in possesso sia dell’ ineluttabilità di una veggente, sia della competenza di un medico. E continuava: “E’ qualcosa che ha intaccato il suo cervello per sempre: la cicatrice c’è e può sanguinare di

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nuovo. Può darsi che il male non si ripresenti più, ma può darsi che si ripresenti ancora.” Ripeté con fermezza: L’esaurimento nervoso è così! ” La bellezza del suo volto si era arricchita dello ardire di una martire pronta ad affrontare tutte le evenienze di quel tuo stato imprevedibile e sfuggente. “Le zie… sanno?” “Certo! Povere! Mi hanno ascoltata con gli occhi sbarrati Non trovavano le parole. E’ stata zia Estrella, che, lavorando in modisteria, ne conosce di gente, a spiegarmi il meccanismo di questa malattia. Tra le sue clienti ce ne sono di quelle che di questo male si sono ammalate! Alcune ci sono ricascate: loro o qualcuno tra gli amici ed i parenti. La signora del limoncello rivolse il suo profilo bellissimo e severo altrove e sospirò: “Guarda cosa ci doveva capitare.” Pianse un po’ qualche lacrima silenziosa, poi di nuovo si rivolse a me. “Devi sapere che le preghiere degli innocenti sono sempre ascoltate da Dio.” Quella premessa mi sembrò una richiesta; una richiesta più impegnativa del cercarti al cral o recare all’usciere la richiesta di malattia. Prisca mi avrebbe imposto di recarmi

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personalmente ai piedi dell’Altissimo che per me faceva tutt’uno con l’odore dell’incenso della domenica di Pasqua? Lei proseguiva ripetendosi: “Per questo devi essere molto buona! Pregare per il papà, per la sua salute mentale: Non immagini quanti di questi malati hanno sterminato la famiglia nel sonno! Devi essere buona e… pura! E leggere con fede una preghiera per il papà.” Assentii e d’altra parte avrei fatto qualunque cosa per te e per non essere sgozzata nel sonno. Tuttavia Prisca non aveva pace: aveva gettato un sasso in uno stagno e il suo vortice si moltiplicava senza trovare un consistere. Mamma possedeva un libro di preghiere e di canti sacri ed, ora, a pena poteva lo sfogliava. Aveva preso l’abitudine di girare per edicole e chiese e in ciascuna carpiva una preghiera, una supplica che inseriva tra le pagine del libro. Schierava i santini e mi chiamava per aiutarla nella ricerca. Scoprii che esistevano innumerevoli tipi di preghiere: per i malati e per gli studenti, per i moribondi e per avere un figlio, per allontanare da una casa spiriti maligni, per vincere un terno e per trovare marito. Ci dicevamo che non poteva non esistere la preghiera specifica per conservare la salute mentale da cui, inoltre, tutto l’ordine costituito

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dipendeva!. Un pomeriggio domenicale, mentre tu eri allo stadio, andammo a far visita a donna Rirì. La saracinesca era calata a metà e quello fu certamente un segno propizio. “Se venite per una grattata, siete in anticipo! La ghiacciaia è ancora vuota! Ci vorranno altri due mesi per una granatina!” Ci disse donna Rirì dal fondo della bottega: da dove iniziava il suo appartamentino. “Ma capisco dalla tua faccia, cara Prisca, che non sei in cerca di una granita!” A me piaceva quel parlare schietto e contemporaneamente allusivo della padrona del citrato più di quello schematico della maestra e del sussidiario che oramai erano scaduti come fonti di sapere. “Vedete, donna Rirì, cerco una preghiera per il cervello di Palmiro, perché non gli venga un altro esaurimento nervoso!“ Mi aspettavo una reazione arguta, invece donna Rirì restò tranquilla come se le avessimo domandato un tot delle sue merci. “Una preghiera per l’anima o per il corpo?” Nella mia mente si presentò la pagina del sussidiario che riproduceva il cervello ed il sistema nervoso: dove poteva collocarsi quella benedetta cicatrice in agguato nella testa di mio padre? Mamma esitò, poi disse in un soffio: : “Per l’anima.”

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E sei venuta qui? Pensi che una preghiera simile esca fuori da un sacco di fagioli? Prisca sospirò e ripeté ciò che aveva detto a me: “L’esaurimento é qualcosa che ha segnato il suo cervello lasciando una cicatrice e la cicatrice può riaprirsi. ” “Allora cerchi una preghiera per il corpo!” Mamma continuava: “Può darsi che non sanguini più, ma può anche darsi il contrario: non si può sapere con certezza. L’esaurimento nervoso è così!” “Come lo sai?” “Renata che, lavorando in modisteria, ne conosce di gente, sa per certo che tra le sue clienti ce ne sono sia quelle che sono guarite definitivamente da questo male, e chi invece ci è ricascato. Loro o qualcuno dei loro amici e parenti.” “Benedetta Renata! Ti ha fatto proprio coraggio! Tua sorella si riferiva certamente alle svenevolezze di gente viziata che fa i capricci e li chiama esaurimento!” “No, no: il microbo è attecchito con la fine di questa guerra come la spagnola attecchì dopo la prima. Non dà febbre, diarrea, bronchiti – magari!- ma è come un bruco che baca una mela che , fin quando non la giri, ti sembra bella e intatta.” Prisca quasi s’impuntava per non perdere

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l’onore di un malanno tanto aristocratico. Fortuna che donna Rirì con la sua natura pratica non cascava facilmente nella rete dei si dice e fu lei a sottoporre Prisca ad un interrogatorio. “Ma tu, tu… fai felice Palmiro? Fai felice tuo marito?” E donna Rirì aveva nel viso certe movenze espressive a cui alternava occhiate verso di me come per tenermi a bada.” Vidi mia madre arrossire. “Allora? Rispondi? Non sarà che sei tu il baco, il tarlo che lo ammorba?” Prisca arrossì fino al margine della camiciola. Era bellissima ed io preferivo lasciarmi cullare dalla sua bellezza piuttosto che sfinirmi nel tentare di decifrare quel dialogo inestricabile. “Abbiamo già una figlia.” Disse Prisca abbassando gli occhi. Donna Rirì: “Eccolo lì il tarlo, ecco il microbo della seconda guerra!” Non capivo il trionfo di donna Rirì, né tanto meno se in quel trionfo ci fosse dello sberleffo o dell’amarezza! “Ragazza mia, fai bene ad arrossire! Di vergogna, però e non di pudore! Siete belli, siete giovani, godetevi l’uno l’altra! Quella delle malattie alla moda è proprio una malattia! Renata mi sentirà!”

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“Per carità- interruppe mia madre- per carità! Se mi siete amica non ditele niente, niente! Poverelle le mie sorelle mettono da parte le loro tragedie per sostenermi!” Porfirio che da un po’ starnazzava, ripeté: “Mi sentirà, mi sentirà, per carità, per carità” “Per carità- ripeteva mia madre- per carità ed era sul punto di scoppiare a piangere quindi donna Rirì le fece la carità di ricoprire la gabbia. “Vedi che Porfirio ne sa più di te e delle tue sorelle della vita! Quelle tre, con le loro tragedie portate in punta di naso e messe in mostra di qui e di là, ti stanno indicando la loro stessa strada. Sareste una bella quadriglia!” Prisca oramai piangeva apertamente. “Ma dico io, vale la pena di avvelenarsi con le fantasie di ciò che forse accadrà o che non accadrà mai! Ma vuoi crescere anche questa qui- e indicò me- nel vostro clima di gramaglie? Quale donna non è stata abbandonata o ha abbandonato? Quante sono rimaste vedove? Quante non hanno ricevuto nemmeno uno sguardo da parte di un uomo? Io stessa, guardami, sono sempre stata ignorata da qualunque maschio e sì che tante altre più brutte di me, più mal fatte di me, qualcuno che le sposasse lo hanno trovato. Io niente di niente quasi fossi uno gnomo senza

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sesso. E perché? Mistero! Fino a quando ho ereditato la bottega di mio padre ed ho dimostrato di saperci fare, quando con gli uomini ho trattato da uomo, ho cominciato ad esistere… anche se soltanto come bottegaia! Ma non c’è niente da fare: voi volete il monopolio del dolore! Per le vostre tragedie, per i vostri abbandoni, per i vostri lutti non sono state inventate le parole! Ah mamma mia! Che teste! Ed ora anche tu! Ora ci voleva la malattia speciale per Palmiro e la preghiera speciale perché non diventi matto! Io di preghiere per i matti no ne ho! Ma eccolo il mio libro con tutti i santi e le preghiere. Te lo regalo!” Non avevo mai visto donna Rirì così decisa se non quando trattava con gli altri commercianti; Né tanto meno avevo visto ridurre mia mamma allo stato di una bambina piagnucolosa che si lagnava per sciocchezze. Quel rigurgito di dati incomprensibili sulle zie, poi, mi colpiva proprio per la leggerezza con cui esse e le loro vicende misteriose venivano trattate dalla mia amica. Ma non era finita! Nello sbattere il libro di preghiere, questo si era aperto e donna Rirì, obbligata dalla scena da lei stessa creata ed interpretata, si sporse sulla

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pagina aperta. “Guarda, guarda tu stessa, ragazza! Disse con una calma che sottolineava il suo trionfo. Guarda la pagina aperta! Sai leggere no? E’ la preghiera a Sant’ Anna per impetrare un parto felice. Fai tu.” Prisca, però era di nuovo padrona dei suoi nervi e pentita di quel pomeriggio: “Siete una brava persona, donna Rirì; ma ho approfittato troppo della vostra amicizia! Scusatemi il mio sfogo che vi ha scombussolata fino a farvi dire cose che non pensate delle mie povere sorelle e di noi tutte. Il libro di preghiere, poi, mi sembra troppo: privarvi delle vostre orazioni, alla vostra età. E poi se non dovesse esserci la preghiera che cerco io… a che pro?” Sentivo il veleno della vendetta nelle parole di mia madre che trattava la signora del citrato da vecchia esaltata e impicciona. Ma la mia amica se ne rideva e continuava ad offrirle la magia del libro di preghiere. “Il libro è tuo se lo vuoi: io le preghiere le conosco a memoria e se ne ho dimenticate alcune vuol dire che non mi riguardavano. Prendilo, Prisca! Prova a recitare tutte le suppliche, i tridui e le novene: qualcosa ne verrà fuori. Per me, basterebbe un pater, ave e gloria con il cuore, se proprio ti è venuta questa fissazione:

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potrebbe darsi che curi te più che Palmiro.” Mia madre non seppe resistere alle potenzialità magiche del libro di devozioni e lo accettò. Fu così che, ogni volta che tu uscivi da casa, Prisca mi faceva recitare una preghiera che si concludeva sempre con la stessa richiesta: che tu non perdessi la ragione.. Io obbedivo e pregavo. Pregavo e pensavo alle sciagure delle zie di cui avrei voluto sapere di più. Pregavo e mi accorgevo che, come aveva suggerito donna Rirì, mia madre ti faceva contento. Aveva smesso di addurti ad ogni piè sospinto le sue sorelle ed usava ogni precauzione per non urtare la tua suscettibilità. Capivo che per mia madre lo spaventato Palmiro si stava lentamente trasformando in un orco che occorreva blandire più che amare. Un giorno sembrò che le mie preghiere avessero raggiunto lo scopo. Tornasti con la faccia di uno che è uscito da un labirinto in cui ha arrancato per molto tempo senza accorgersi che l’uscita era a portata di

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mano. Avvolgesti mamma in uno di quegli abbracci di fronte a cui io abbassavo lo sguardo forse perché non ero abituata e quella perfetta felicità, o perché d’istinto sentivo che un abbraccio così portava ad un’unità vertiginosa per la quale non ero ancora pronta. Lodasti ogni cibo: “Ah questi cardi con le patate! Era da tanto che ne avevo voglia! Come lo hai capito, Prisca? E’ l’amore -non è vero?- che fa capire due persone senza che si parlino!” “E la loro stagione, Palmiro: ora i cardi sono saporiti e a buon prezzo. Questi vengono dagli orti con la terra sabbiosa.” “Ma non è soltanto questo: anche le patate. Un sapore di patate così non lo sentivo da prima della guerra!” “Patate novelle!” “Di’ quello che vuoi, ma c’è di tuo: la quantità dell’olio, del sale, la cottura delle cipolle!” “Mi fa piacere. Speriamo che la pietanza non ti deluda.” Anche Prisca stava al gioco. “Pensi che ho perduto l’olfatto? E’ così, Cosetta, tua madre pensa che ho perduto l‘olfatto. E allora facciamo un gioco: bendatemi- lasciò le posate- bendatemi e io vi dirò esattamente che cosa bolle in pentola.

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Eh ho sentito tutto da quando ho messo piede in casa: l’odore dei cardi con le patate e l’altro. Allora mi bendate?” “Chiudi gli occhi: è uguale.” Ti dissi io. Serrasti gli occhi verdi e noi prendemmo parte al gioco.. “Aaah che aromi, che combinazione di aromi! Perché una buona cuoca- e tu, Prisca, lo sei senz’altro- non deve sommare i sapori in una mappata, un intruglio. Il piatto cotto bene deve conservare nell’amalgama i sapori distinti, peculiari! E’ per questo che la lingua ha papille gustative diversificate per il dolce, per l’agro, per l’amaro, per il saporito etc. “ Eri così vitale che io pensavo al potere della mia innocenza che aveva fatto dirompere quello delle preghiere; alla fortuna che mi era capitata di non avere il turno di pomeriggio in quel periodo; a quella tua allegria in cui mi ostinavo a percepire, forse per abitudine, uno stridere di fondo come quando in un cielo perfettamente sereno ed innocente passa il grido di un’aquila e subito l’innocenza indietreggia di fronte a quel presagio di violenza. “Allora?” Ti sollecitava Prisca. “Qui c’è, qui c’è… alloro!” “Verissimo!” “Quel giusto che aromatizza.”

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“E poi?” “C’è l’olio del compare. E sì questo è olio padronale! Non è un olio che si può comprare ovunque. E’ un privilegio di cui si gode per via dei compari generosi.” “E’ proprio così: il compare è generoso.” Quella osservazione di mamma ti infastidì e la scacciasti via come un moscone. “Sì, sì: l’olio è del compare generoso! E poi c’è pomodoro, ma non pomodoro qualsiasi, ma i fiaschettini a grappolo che si conservano nelle cantine e maturano assieme all’aglio e al vino. E poi…” “E poi?” “C’è sale e pepe…” Ti divertivi a protrarre il gioco per tenere sulla corda mamma. “Che scoperta!” “Il sale è proprio quello delle saline e non salgemma…” “Ma dai…” “Poi… poi ci sono dei bei tranci di pesce spada freschissimo!” Apristi gli occhi verdi e ridemmo tutti: tutti contenti. E mangiaste con un gusto, con una lentezza, commentando e confrontando altri pranzi, e altri pesci. “E’ questa la vita- pensavo io- semplice e naturale.

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Chissà perché la dobbiamo condire con bronci e dispetti.” Prisca aveva le mani nella saponata dei piatti, quella saponata che gliele segnava precocemente e che lei curava con creme a buon mercato. Tu in bagno ti preparavi a tornare a lavoro. Io non avevo bisogno di trincee di libri e continuavo a gustare il sapore del pece spada insieme alla gioia del pomeriggio che avrei trascorso tra i sacchi di coloniali fino al prossimo turno pomeridiano. Tutta quella serenità finì con l’eccitarmi e darmi un’agitazione febbrile in cui quasi sragionavo: “E adesso cosa accadrà?”- pensavo- “Fino a quando resisterà questa armonia? Che cosa la cancellerà?” Forse ero troppo abituata alla tetraggine, forse, come un nano vetusto, soffrivo di preveggenza: fatto sta che di fatti ci fu uno scotto. Mi baciasti e accarezzasti; abbracciasti Prisca stringendola da dietro alla vita. Era passione o richiesta di perdono? Era entrambi? Finalmente accendesti una sigaretta e mentre i capelli ti si arricciavano dicesti: "Be' ho una grossa novità: si tratta del lavoro." Attendesti compiacendoti di vedere Prisca e me pendere dalle tue labbra. "Sono andato dal caporeparto e gli ho detto che con il mio esaurimento non posso continuare a

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lavorare là, all'interno di quello stanzone, insieme a tanta gente. E poi che gente! Quando si va a prendere il caffè non fanno altro che chiedere a questo e a quello cosa hanno mangiato a pranzo o spettegolare sulle mogli di tutti... Non li sopporto! E non tollero più nemmeno lui, il caporeparto, che al di là del vetro della sua stanza osserva se qualcuno alza la testa da una pratica e lo fissa come un guardiano... ma questo non gliel'ho detto." Mamma impallidì: "Nostra Signora dei Turchi...ti sei licenziato! Ah me lo diceva il cuore! E io che pensavo di entrare in una cooperativa per la casa..." Prisca era sul punto di piangere anche se in un modo diverso da quello con cui aveva a lungo pianto nella bottega di donna Rirì; ed io non sapevo di chi avere più pietà, chi consolare, a chi dare maggiore ascolto. Tu continuasti: "Aspetta, fammi andare avanti e ti troverai contenta. Il caporeparto si è grattato la testa e mi ha mandato direttamente dal proprietario. Questi, che ha un figlio disperso in Russia, ha capito che, malato come sono, lì dentro non ci posso rimanere.” Le tue erano affermazioni che non

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ammettevano discussioni e aggiungevi altri argomenti: “E poi anche se faccio il contabile non ne ho il titolo perché, per colpa della guerra, non ho terminato gli studi di ragioneria ed ora ci sono ragazzi diplomati che hanno più diritto." "Ti manca poco.- lo interruppe mia madre- Basterebbe presentarsi come privatista: con tutta la pratica che hai fatto in questi anni... otterresti il diploma con il titolo in regola! Dammi retta! Per una volta!" Ma tu non ascoltavi e continuavi: "No! E’ deciso: io farò il fattorino: su e giù in banca, in pretura, in posta! All'aria aperta! E in più quattro pomeriggi liberi: come oggi ad esempio!" Non c'era verso che ti si potesse rovinare l'umore se era buono, come non lo si poteva migliorare se era cattivo e quindi la ragionevolezza di Prisca passò inascoltata. “Te lo sentivi, eh Prisca! Te lo sentivi che avevo una novità: ecco perché mi hai accolto con un pranzetto speciale.” Te ne andasti a fumare sul balcone lasciandoci alle nostre perplessità. Mamma era tanto confusa che mormorò: “D'altra parte almeno non è stato licenziato. Non siamo sul lastrico. Non siamo al punto di dover chiedere altro aiuto alle mie povere sorelle… “ Sedette e continuò a parlottare senza

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preoccuparsi della mia presenza. “Come glielo dirò alle mie sorelle che Palmiro non è più ragioniere?” Anche io me lo domandavo perché capivo che nel loro sistema di valori tu scadevi ulteriormente. Continuavo ad ascoltare, senza darlo a vedere, le riflessioni della signora del limoncello che , forse, nei pomeriggi solitari – quando io ero a scuola- ricamando la tovaglia a punto rinascimento si era sbizzarrita nell’immaginare la casa nuova come quella delle sue amiche, tra i quartieri che spuntavano attorno al cuore barocco. Ora invece si trovava con quella novità da comunicare alle “povere zie”. Oramai usavo abitualmente quella espressione, tanto più da quando avevo dato una sbirciatina al loro romanzo attraverso le parole della mia amica bottegaia. Il peso di quella rivelazione dovette divenire insostenibile se, terminato in fretta di rigovernare, Prisca si preparò ad uscire. Per portare quella notizia terribile alle sue sorelle indossò persino il cappello riservato alla domenica. Si accingeva a condurmi con sé, ma tu, che eri rientrato dal balcone, le dicesti: "Lasciami la piccola. E' una giornata così bella! La porterò a fare un giro." Prisca si impennò:

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“Era una giornata bella!” Si diede subito un contegno e ti liquidò quattro buoni motivi: "Deve fare le lezioni; oggi poi ha anche dottrina. Lo sai quanto ci tiene l’arciprete alle presenze. Dopo tre assenze, legge i nomi dei lavativi a messa." “Neanche fossero infedeli! Sai cosa penso? Che c’è rimasta la paura degli attacchi dei Turchi! Per lo meno è rimasta ai preti!” Ridesti, ma ti frenasti subito perché Prisca ti guardò come uno scomunicato. "Per questa volta l’arciprete se ne farà una ragione e per le lezioni è così brava che le sbrigherà al ritorno. Lasciala con me." Io era lusingata sia perché tu avevi riconosciuto il mio successo scolastico sia perché ero mi contendevate: volevate forse proteggermi l’una dall’altro? Prisca cedette subito: pensava forse che senza la mia presenza lei e le zie avrebbero potuto darti addosso più liberamente? Uscimmo tutti e tre insieme, ma poi ci dividemmo: il cappello di mamma scomparve presto all'orizzonte e noi due restammo lì come se aspettassimo qualcuno. Infatti dopo un po' giunse un macchinone con tanto di chauffeur e montammo su. Sapevo, da certi commenti di mamma, che avevi una propensione tutta tua a cercare

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compagnie nuove, fuori dal nostro ambiente. Ad esse, mi chiedevo, narravi ancora della guerra? A dire di mia madre preferivi persone modeste o per lo meno, a suo avviso, più modeste di noi. Erano persone che si ostinavano, nonostante tu ti negassi, a chiamarti ragioniere, e vi scambiavate piccoli favori. Tra gli altri avevi come amico questo chauffeur, autista di una contessa. La contessa abitava nel suo palazzo in un paese della Grecia salentina, ma veniva periodicamente a Lecce. Mi raccontasti, nell'attesa del suo arrivo, che quel giorno lo chauffeur aveva accompagnato in città la contessa, ma che la nobildonna si sarebbe fermata fino a sera ad assistere una parente malata. Quindi il tuo amico era libero per tutto il pomeriggio. Libero e a nostra disposizione. Dunque montammo sull’auto. Tu prendesti posto accanto al tuo amico e, appena ti si presentò l'occasione, attaccasti a parlargli della prigionia. Io avevo immaginato di andare a zonzo in bicicletta con te e, nonostante la novità e l'impressione che suscitava l'autovettura, ero un po' delusa. D'altra parte ammettevo con me stessa, con un po' di vergogna, che quando noi due eravamo insieme sentivo sempre il pesante obbligo di

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prendermi cura di te. Ora la presenza dell'autista mi tranquillizzava giacché, almeno, c'era un adulto. Il movimento della macchina mi cullava ed io chiusi gli occhi seguendo la tua voce e rivedendo le immagini rivelatemi dalla scacchiera magica. Ascoltavo di campi, ricoperti di neve, che si perdevano a vista d'occhio e, in tutto quel rigore, di prigionieri che venivano svegliati brutalmente per essere contati; di piedi insanguinati senza scarpe, del lavoro in miniera, del cibo che scarseggiava. "Certo che se te ne capitasse qualcuno per le mani...eh Palmiro?" Silenzio tuo e quello insisteva: "Sapresti, dico, come conciarlo." Ancora silenzio tuo. "Che cosa gli faresti?" "L'orrore mi paralizzerebbe." "Se avessi un'arma e l'impunità assicurata, di' che faresti?" "Lo terrei prigioniero.” “Tutto qui?” “Ogni giorno lo guarderei dal pertugio. Una volta tanto poi aprirei la porta della cella. Per un bel po’ rimarrei in silenzio ad osservare la speranza accesa nei suoi occhi; poi lo schernirei per il suo disgustoso degrado. Infine gli direi: domani ti libero! Lui ricadrebbe nella sua cuccia piena di pulci, si

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nasconderebbe nel suo corpo piagato, tornerebbe ad annusare l’odore dei propri escrementi, ad annaspare cercando cibo e ad aspettarmi.” Il silenzio calò nell’autovettura. Tu avevi mostrato il tuo costato ed io inorridivo di fronte alla perversione che ti aveva infettato. Ti vedevo sfigurato dallo stesso odio di Ninive e di Hagen. Come se fossi solo ribadisti in sintesi la stessa tortura: “Andrei ogni volta che lo volessi, farei un gran rumore con le chiavi e quello spererebbe. Mi sederei di fronte a lui e lo osserverei per vedere se è fatto di paura. Poi gli direi che per quel giorno no, non mi va di liberarlo e tornerei a rinchiuderlo e così per sempre." "Ti basterebbe, Palmiro?" Domandò lo chauffeur. "E ti pare poco? Tu non immagini cosa significa essere alla mercé degli altri: è peggio della morte." "Proprio per questo credevo che chissà che cosa il tuo odio ti avrebbe suggerito..." Io ora guardavo fuori dal finestrino la campagna piena di ulivi e viti e tabacco per distrarmi da quel lerciume di cui ti eri dichiarato capace. Decisi che l’autista non mi piaceva, non per gli stessi motivi che avrebbe addotto Prisca, ma perché le sue domande ed il suo modo di fare

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smascheravano il carnefice che eri pronto a diventare, la crudeltà dissennata allevata dal tuo stesso essere stato vittima. L'odore improvviso del mare mi distolse da pensieri così grevi. Anzi, appena scesa dalla millequattro, presi a correre tanta era la felicità irrazionale che provavo quando mi trovavo in compagnia degli elementi, invece che in balia degli esseri umani. "Cosetta, Cosetta!" Mi venivi dietro divertito e meravigliato per il mio comportamento da bambina spensierata. Poi ti sedesti sotto un pino mediterraneo mentre io continuavo la mia scorribanda sulle dune che declinavano dolcemente verso il mare. Lo chauffeur era rimasto vicino alla macchina e vedevo con la coda dell'occhio la sua divisa. Io saltavo e correvo, mi arrischiavo fino a giungere al bagnasciuga quasi ad essere lambita dall'acqua. Quella lasciava la sua spuma, bianca come il pizzo dello strascico di una sirena che mi invitava a seguirla. Esitavo e, intanto, raccoglievo manciate di sabbia che poi lasciavo scivolare tra le dita. La marea, di nuovo, tornava ad invitarmi ed io feci per togliermi le calze. "No, Cosetta, non bagnarti: hai mangiato da poco. Ti sentirai male." Intervenne lo chauffeur: “Cosa vuoi che le accada? Avrà mica mangiato

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un bisonte? Lascia che si abitui: ne conosco di persone che si calano interi dopo il pasto e non ne ho visto mai morire nessuno! Di, tu, bambina hai mangiato il pranzo del Vescovo il giorno del patrono?” Io non rispondevo. “Cosa hai mangiato oggi?” Stavo con la testa sul mento un po’ per timidezza un po’ perché come te detestavo quelle domande sul cibo. “Va là che non avrai nello stomaco più di qualche intingolo con l’olio del compare…” Sentivo diverse note stonate: ora anche questo riferimento all’olio del compare mi sembrava una brutta cosa: quell’uomo sapeva troppe cose sulla nostra famiglia e forse troppo maliziose. Mi rimisi calze e scarpe e mi avvicinai a te che avevi una faccia scura, mentre lo chauffeur cantava una canzone francese. Capisti che eravamo accomunati dallo stesso disagio: mi prendesti per mano e mi portasti verso il faro. Nel percorso raccolsi conchiglie e telline che, non sapendo dove riporle, rilanciavo in mare. "Saliamo?" Mi chiedesti appena giunti sotto il faro. La scala era meglio conservata della parte esterna e così giungemmo su, su, fino alla cima attorno a cui garrivano i gabbiani. Mi sembrava che non ci fosse nient'altro al

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mondo oltre quel pinnacolo ed il cielo azzurrissimo: immaginavo che i gabbiani fossero incaricati di portare tra i loro becchi quel lenzuolo turchino, incaricati dalle stesse potenze misteriose che presiedevano alle mignatte, ai fiori di garofano e al citrato di donna Rirì. In basso potevo guardare la spiaggia in tutta la sua estensione, così diversa da come appariva d'estate, quando, di domenica, ci si andava in pullman stipato di gente e di stanati pieni di parmigiana che quasi segavano le gambe a chi era rimasto in piedi. Allora la presenza umana distraeva dalla bellezza dello spettacolo naturale, ora la spiaggia deserta appariva solenne ed intatta. Da allora ho prediletto i fari e ho desiderato viverci forse quanto Prisca desiderava l’appartamento moderno. Mi tirasti su, su un cassonetto che era ancorato alla parete; mi prendesti in braccio stringendomi forte mentre io mi sporgermi dalla finestra; mi indicasti al di là del mare, che faceva beccheggiare il riflesso del sole, un'unghia di terra che a tuo dire si vedeva perché l'orizzonte era sereno: "Quella è l'Albania, c'è Durazzo; lì mi trovavo poco prima dell'otto settembre. E là sono stato fatto prigioniero." “Non potevi scappare, papà?” “I soldati erano armati, la loro lingua era

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sconosciuta, tutta la faccenda inaspettata!” Ti accendesti una sigaretta e sentii che ti assentavi perché il tuo sguardo verde era privo di espressione: ecco che eri lontanissimo da me, ancora al di là del filo spinato, sempre prigioniero. Aspettai paziente che compiuta la visita al lager, onorati i compagni, maledetti gli aguzzini, tornassi. La malia forse fu interrotto dalle canzoni che lo Chauffeur cantava giù sulla spiaggia presso un posto di ristoro. Eri ritornato, ma ancora malconcio tanto che ti sfuggì detto: “Non c’è cataclisma o malattia che possa procurare le stesse sofferenze che gli uomini procurano agli uomini.” Il faro era un avamposto da cui tentavi di dare una sbirciatina al lager che odiavi, ma da cui non riuscivi a staccarti. Il lager, benché tanto lontano, continuava a tenerti legato a sé come un idolo perverso che maledicevi, ma a cui continuavi a pensare. Mi domandai che fine avesse fatto la scacchiera magica. Immaginavo che di notte, mentre mamma ed io eravamo immerse nel più inconsapevole dei sonni, tu la tirassi fuori dal suo nascondiglio, accendessi un lume e alla sua luce ti mettessi in osservazione fino a quando le linee non si trasformavano in sbarre e tu tornavi a sbirciare

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il truce spettacolo. La fosca signora si metteva accanto a te nella stessa posizione che avevo preso io quella sera, ed era lei ad accarezzarti la testa riconducendoti in prigione. Altre volte, invece, immaginavo che tu, di nascosto per farci una sorpresa, stessi ultimando la scacchiera e che prima o poi me l'avresti presentata perfettamente utilizzabile, con i suoi scacchi rossi e blu, e mi avresti insegnato a giocare a dama. Ciascuno usò quello scampolo di pomeriggio a suo modo. Ridiscendemmo ed acquistasti il gelato nel torroncino da un posto di ristoro ambulante dove si era fermato lo chauffeur a cantare e a bere gassosa tenuta in fresco tra blocchi di ghiaccio. Mentre io ero attentissima a non sporcarmi con il gelato, sentii il tuo amico chiederti: “Hai dato un’occhiata alla tua prigione?” Dunque lo chauffeur sapeva anche questo; ne fui scombussolata: mi infastidiva l’idea che quell’uomo sapesse fatti tuoi che credevo segreti confidati soltanto a me. Rispondesti: “Oggi, grazie al maestrale, la lingua di terra dirimpetto è chiarissima.” “Sai che ti invidio? Sì ti invidio per tutte quelle vicende che hai attraversato, che ti hanno coinvolto e da cui sei

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uscito. Quando avrò dei nipoti e non ci sarà più nessuno a ricordare che, per via della mia gamba sono stato riformato, mi piacerebbe raccontarli come fatti accaduti a me! Ti seccherebbe, Palmiro?” Tu sbottasti: “E se invece, per salvarmi dalla deportazione, mi fossi unito ai repubblichini, ti piacerebbe anche quest’altro film?” “Con il tempo può darsi che sarà diventato indifferente da che parte si è combattuto e sofferto: si fa presto a dimenticare e a confondere torti e ragioni, e il perché un’idea sia giusta ed un’altra sbagliata… “ “Non ci credo- gridasti quasi- il tempo può distruggere certo, ma non può cancellare giusto e sbagliato perché giusto e sbagliato sono eterni!” Ti agitavi: “E’ impossibile! La storia non esisterebbe più! Fortuna che ci sono i libri di storia.” Ti rivolgesti a me: “E’ vero Cosetta, che tu sei appassionata di storia?” “Sì, sì! La storia è tutto!” Quasi non sapevo quello che dicevo, ma parteggiavo per te contro quell’uomo che per via della sua gamba era rimasto a casa, a terra, sullo scoglio salvifico come se Ulisse non fosse mai esistito.

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Lo Chauffeur si rese conto di averti indispettito, tu di aver alzato troppo la voce: così per fugare il disagio cominciaste a giocare: lanciavate in mare le telline più grosse. E tu lo facevi con tale forza come se le lanciassi sullo chauffeur stesso. Tornammo indietro; nell’auto silenziosa la facevano da padrone la sonnolenza del mare, l’imbarazzo che lo chauffeur mascherava canticchiando, il tuo broncio. Il mattino successivo, all’ora della preghiera per la tua salute mentale, io ero pronta, in ginocchio, secondo il rito voluto da mamma, con tutta la mia innocenza a portata di mano. Prisca scosse la testa corvina: “Lascia perdere, Cosetta. Oramai è chiaro che è esaurito per sempre: altrimenti non avrebbe fatto quella sciocchezza di farsi demansionare!” Eravamo vicine, vicine mentre mi abbottonava il grembiule nero con le tre strisce rosse della terza elementare sulla manica. “Le tue zie, le mie povere sorelle, sì che mi sono state di conforto quando ho portato questa notizia. Hanno compreso a fondo la mia mortificazione che , poi, è anche la loro. Altro che donna Rirì: lei fa tutto facile! Voglio proprio vedere come abbellirà questa bravata di tuo padre! D’altra parte é preferibile, come dicono le mie

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sorelle, non farlo sapere a nessuno. In seguito, con il tempo, se capiterà che si sappia in giro, vedremo. Tu, Cosetta, non lo dire a donna Rirì, né ai ragazzetti che frequentano la bottega, né a scuola. Promettimelo!” “Nemmeno alla maestra?” “Nemmeno alla maestra! I segreti di famiglia mi avviluppavano. Prisca continuava nelle sue rimostranze: “Quanti nelle sue stesse condizioni, con un esame pro forma si sono confermati nel ruolo di prima. Anzi guerra e dopo guerra hanno semplificato alcune pratiche, almeno per i reduci, per gli ex deportati come tuo padre. Gli spetterebbe una pensione, un risarcimento. Zia Estrella me ne ha portati di esempi di ex internati che hanno fatto valere gli anni di prigionia! Ma tuo padre ci ha messo sopra una riga e ha dimenticato.” “Dimenticato no!” Mi scappò detto. “Parla, racconta, è vero, ma quando si tratta di ricavarne qualcosa, sta zitto come una lumaca. A volte penso che le cose terribili che racconta, non sono mai accadute nella realtà. Una guerra come tante, sofferenze normali in tempo di guerra.” Non potevo sopportare che Prisca si mettesse alla stessa stregua dello chauffeur e del suo

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cinismo che ti aveva tanto addolorato. Per questo, prendendo la cartella, insistetti: “Forse abbiamo sbagliato preghiera. Hai guardato bene nel libro di donna Rirì? C’erano troppe preghiere e troppi santi: non è colpa tua se hai scambiato supplica.” Ottenni, però, soltanto di irritare la signora del limoncello. “Ma cosa ne sai tu! “ La rabbia le fece brillare una fiammella negli occhi: “Tu che avresti dovuto farlo guarire con la tua innocenza! Non ti sei concentrata nella preghiera o… peggio non sei innocente.“ E mi guardò terribile nella sua bellezza, ostile nei confronti della mia tenacia a scusarti, ed ora anche sospettosa riguardo alla mia innocenza. Tutto ciò era al di sopra delle mie forze e me ne andai a scuola che era il cantuccio in cui mi potevo abbandonare ai problemi che si risolvevano sulla lavagna con il gesso o tra le pagine del sussidiario. Ignoravo che avevo seminato nella testa di mia madre e nella sua rappresentazione del mondo e che presto avrei saputo di quale messe si trattava.

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Un notte scorsi Prisca seduta accanto al mio sommier: se ne stava immobile osservandomi alla luce fioca che penetrava dalle stecche delle veneziane. Certamente sognavo. Le visite notturne, però, proseguirono: lei nel baluginare incerto giungeva dalla vostra camera, dal vostro letto e si posizionava al mio capezzale. Forse ero malata e mamma veniva a vegliarmi? A volte mi riaddormentavo; altre fingevo e, sfidando il torpore, le tenevo testa per il tutto il

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tempo che lei mi dedicava prima di ritornare da te. Al mattino, mentre alle mie spalle abbottonava il grembiule ed io la sentivo vicina, vicina come durante la notte, né lei né io parlavamo di quelle visite. Durante la ricreazione, a scuola, tornavo a pensarci e avrei voluto raccontarlo alla maestra, ma con quali parole? E la maestra, poi, mi avrebbe creduto? E se avesse deciso di convocare i miei genitori per capirci qualcosa? No! Era preferibile tenere tutto per me. Intanto però quegli interrogativi mi rendevano svogliata e taciturna. Donna Rirì se ne accorse e mi offriva buone dosi di citrato. Io mi sforzavo di convincermi che il rimedio magico funzionasse come sempre e che quella notte Prisca non mi avrebbe fatto visita. Invece la signora del limoncello tornava puntuale notte dopo notte. Avevo imparato a percepire il momento in cui la notte nera si trasformava nel manto Della sua testa bruna che avanzava. Con il passare delle settimane smise di essere una presenza silenziosa ed immobile; mi scostava via le coperte ed osservava la mia posizione rannicchiata con le mani strette tra le ginocchia.

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Quindi mi ricopriva. Eppure i pranzi, le cene, le conversazioni erano serene; e tu, poi, a cui il nuovo lavoro dava occasione di incontrare persone e personaggi, avevi sempre novità da raccontarci. Forse avrei potuto allentare la tutela che mi ero assunta e prendermi cura di me, della mia piccola vita, abbandonarmi ai piaceri dello studio e alla ricerca delle origini del citrato. Ma non mi era possibile perché persisteva l’enigma di quelle visite notturne. Cercai risposte nei libri de “La scala d’oro”. Provai a leggere “Il giardino segreto”, ma, nonostante il titolo, nemmeno quello mi fu d’aiuto a sbrogliare il mio personale mistero. Proseguii con “Il piccolo lord”, “I ragazzi della via Pal”, “Sara Crewe”, “Otto cugini” e “Piccole donne”. Quei mondi bellissimi lenivano sì la mia solitudine, ma non avevano la chiave per spianare la realtà. Così cercavo le risposte da me. E se Prisca mi vegliasse per proteggermi? Era l’ipotesi più consolante. Dagli zingari? Dai giostrai? A chi poteva interessare superare il muro di cinta del cortile, penetrare nella nostra casa per rapire proprio me? No: Prisca intendeva proteggermi da qualcuno della stessa casa; e non c’eri che tu… La signora del limoncello non aveva forse

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affermato che gli “esauriti” possono compiere stragi nei confronti degli stessi familiari? Così ti immaginava mentre, con gli occhi iniettati di sangue e armato del coltellaccio per tranciare la carne, fare casamicciola come in un’illustrazione del libro “Cuore” in cui il crudele ragazzo, datosi al male, uccide la nonna implorante. Cercavo di calmarmi: era vero che avevo scoperto che potevi diventare un aguzzino, ma da questo a sterminare noi ne passava! Una vocina che mi sembrava quella di zia Estrella insisteva categorica: “Chi è pazzo, è capace di tutto.” E allora mi tiravo le coperte sopra la testa e mi ripromettevo di non dormire mai. Di giorno nell’armonia che regnava tra voi e nella casa, mi rimproveravo dei miei terrori: Prisca era adulta e gli adulti hanno i loro motivi incomprensibili ad una bambina. Tanto valeva che mi tranquillizzassi. Ma subito dopo rammentavo l’ immagine dell’ aguzzino che con diligenza sbircia il suo prigioniero. Ero forse prigioniera di Prisca che si faceva un dovere di venirmi a spiare di notte? Ma perché Prisca avrebbe dovuto spiarmi? Di colpo capii che io stessa involontariamente glielo avevo suggerito. A Prisca che non poteva dubitare della pietà di Dio, non restava che dubitare di me e della

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famosa innocenza. Non ero ferrata sull’innocenza e, di conseguenza, sulla mancanza di essa. Pensai, quindi, che la notte, rendendo tutto indistinto con il suo fosco pulviscolo, induceva Prisca a credere che niente di innocente potesse accadere nei letti. Ebbi la conferma la notte in cui, dopo avermi tolto le coperte, mi cavò via le mani che io, nella mia posizione preferita, stringevo tra le ginocchia. Mi sussurrò: “Stai composta! Distenditi supina e tieni le mani a loro posto, lontane dal corpo. Non devi toccarti!” Giungeva in punta di piedi, la chioma avvoltolata in boccoli neri si stagliavano anche nel nero della notte stessa, e mi soffiava addosso sospetti, malignità, malvagità. Non era mai soddisfatta anche se mi trovava con le mani penzoloni fuori dal letto. Cercava prove certe: arrivò ad annusarmele. Per un po’ si accontentò di questo esame, ma evidentemente anche lei era incalzata dal suo tarlo o il suo fiuto mi tradì. Allora arrivò a farmi alzare e a condurmi in gabinetto per lavare le mani. Al mattino non sapevo da che parte guardare per la vergogna e cominciavo a chiedermi chi di noi tre fosse il più malato.

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Il nuovo impiego ti allontanò dai vecchi colleghi e, di conseguenza, smettesti di frequentare il cral. Mi chiedevo se questa vittoria sul vizio del gioco poteva essere una compensazione sufficiente a lenire la delusione di Prisca per la tua decisione di scendere dal rango di ragioniere a quello di fattorino. E le zie? “Povere zie!” Ripetevo tra me ricordando la sventagliata di donna Rirì quella sera che eravamo andate da

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lei in cerca della preghiera perfetta. Forse, primo o poi, la mia amica del citrato sarebbe sbottata nuovamente e avrei potuto mettere insieme sprazzi del romanzo delle zie. Le zie, da quando eri tornato a frequentarle, non avevano mai fatto parola della tua malattia e di quel colpo di testa di voler diventare fattorino da ragioniere che eri. Anzi erano diventate più complimentose nei tuoi confronti: ma ti aspettavano al varco di un nuovo scandalo. Infatti ti desti al cinema. Avevi la passione per i film americani, specialmente di guerra o western, e non te ne perdevi uno. Tornavi rigenerato giacché la tua vita si era tutta trasferita nel film e ti eri preso così le tue soddisfazioni e le tue rivalse sui cattivi ed i tiranni. Eri molto bravo a raccontarli a me e a Prisca. E se mamma riusciva, per carattere, a tenere i piedi sempre saldi a terra io, invece, mi infervoravo dei tuoi racconti e ne covavo a lungo l'impressione. A volte ne mettevo assieme pezzi diversi in un unico grande film in cui riuscivo a fare qualcosa di molto speciale per te: qualcosa che ti rendesse giustizia. Ero ammirata della tua capacità di pronunciare i nomi stranieri indicandomeli sui manifesti. Tutto quel mondo che ci portavi in casa finì con

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il sollecitare la curiosità di mamma o risvegliare il desiderio di evadere dal suo orticello. Era la prima volta che condividevate un interesse che non fosse i conti del mese o uno dei soliti passatempi come la passeggiata domenicale e le visite ai parenti. Vi sentivo confabulare: "Ha solo otto anni, non possiamo lasciarla da sola." "E se la chiudessimo ben, bene a chiave?" "E se scoppiasse un incendio?" "Vai a chiedere a donna Rirì se ce la tiene lei." "Se lo sapessero le mie sorelle che ho chiesto questo favore ad un'estranea invece che a loro... e donna Rirì , poi, mi sembra così bislacca…" Sentirli parlare così fitto, fitto nel tentativo di trovare una collocazione per quell'unico impiccio che era costituito dalla mia presenza, mi rivelava un'intimità ed un accordo che da una parte mi rassicuravano, dall'altra mi bruciavano perché mi sembrava che mia madre prendesse il mio posto. Anzi mi chiedevo come mai non ti passasse per la mente la soluzione più logica: sarei venuta io al cinema assieme a te; mentre, mamma, che poteva badare a se stessa, sarebbe rimasta a casa. Si addormentavano discutendo, ma non ne venivano mai a capo sia per gli scrupoli che Prisca aveva nei miei confronti, sia per la

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soggezione che aveva nei confronti delle sue sorelle che avrebbero disapprovato quell'uso voluttuario del denaro. Era evidente che le zie, che ci avevano fatto di tanto in tanto dei prestiti, avevano acquisito il diritto di mettere becco nel nostro modo di amministrare il denaro. Prisca, imprigionata da ruoli ed economie, non si decideva. Almeno una volta alla settimana tu andavi al cinema guardando mamma con un'espressione che voleva dire “vieni via con me”. Nonostante fossi ancora risentita con la signora del limoncello per le sue lezioni di innocenza, pensai che era venuto il momento di adoperarmi per favorire le vostre uscite. Frequentavo più spesso l'emporio e raccontavo quanto donna Rirì fosse gentile e accorta con noi bambini, come mi trovassi bene con lei e via discorrendo. Tutte cose vere, ma che io sottolineavo affinché mia madre si decidesse a fuggire con te concedendovi all’amore, alla giovinezza, alla gioia. Non so se ebbi un effettivo merito nella decisione di mamma, fatto sta che il rigore di Prisca ebbe un cedimento. Prisca parlò con donna Rirì; donna Rirì trovò la cosa fattibile e simpatica: "Andate, andate colombi. Godetevi la vita! Be' io, che non ho avuto né marito, né famiglia

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sono la meno competente in queste cose, ma il buon senso mi dice che non è giusto sacrificare anche le cose più innocenti per i figli. Siete giovani, spassatevela un po'.” La bottegaia non smetteva più di parlare tanto era la felicità per quella uscita. Parlava sempre con quel suo modo accattivante perché l’eccessiva franchezza e le punte di sarcasmo erano bilanciate da quel tratto di bonomia che vi mescolava. “Cara mia, chiunque con un po' di sale in zucca ti direbbe che sei prima moglie e poi madre! E poi non lasci mica tua figlia ad un'estranea. Le tue sorelle abitano troppo lontane: sarebbe un traffico per voi e un disturbo per loro che sono buone persone, ma tanto delicate, poverelle! Mi sarei offesa se tu non avessi pensato a me: Cosetta con me starà benissimo." Così fu. Da allora ogni volta che veniva programmato "un filmone" -come dicevi tu- io ero affidata a donna Rirì. Con l'avanzare dell'inverno la gentile commerciante saliva da noi per evitare che io prendessi freddo. Forse fu invogliata anche dal fatto che mia madre, per esprimerle la propria riconoscenza, le faceva trovare qualche pietanza calda e ben presentata. Donna Rirì alla fine di una giornata di lavoro

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non aveva voglia di mettersi ai fornelli quindi gradì e corrispose a quell'attenzione con il suo buon appetito. Terminata la cena rigovernava, lasciando la cucina in ordine come piaceva a Prisca. Ero perfettamente a mi agio con la signora del citrato perché mi raccontava delle bellissime storie di filò. Parlavano di gente partita per viaggi meravigliosi in cui avevano trovato felicità e ricchezze; ad un certo punto della storia, però, il vento della fortuna mutava direzione ed il protagonista cadeva in una nera miseria tanto da non avere nemmeno il coraggio di tornare nel luogo di origine e si accontentava di aggirarsi nelle sue vicinanze vivendo come un barbone. A volte la mia dama di compagnia dimenticava a quale punto della storia fosse giunta e l’eroe riprendeva ad avventurarsi per il mondo ripetendo l’avvicendarsi di buona e cattiva sorte. Quando donna Rirì si accorse che cominciava a ripetersi si diede a girare la manopola della radio fino a quando trovava un'opera lirica. Allora sembrava proprio appagata: si sfilava le scarpe che le costringevano i piedi gonfi e accompagnava le romanze con la sua voce: “Ebben?... Ne andrò lontana. Come va l’eco della mia campana…

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Là, fra la neve bianca! Là fra le nubi d’or!” Oppure: “Sola … perduta… abbandonata! In landa desolata!... Orror!” Ancora: “Nacqui all’affanno, al pianto Soffrì tacendo il core; ma per soave incanto del’età mia nel fiore, come un baleno rapido la sorte mia cangiò.” Anche io ascoltavo e apprendevo i foschi intrighi dei melodrammi e la mia fantasia li incamerava assieme alle trame dei romanzi e dei film e dei racconti di filò. Peccato che la bottegaia fosse inflessibile riguardo l'ora in cui dovevo andare a letto. Io cercavo di prolungare l’emozionanti serate, ma tutto sommato non mi dispiaceva infilarmi sotto le coperte sotto la custodia della padrona del citrato. Mentre dalla cucina giungeva attutito il suono di quelle arie appassionate, mi davo al gioco di comporre e scomporre storie inverosimili che presto si confondevano con i fantasmi del

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sonno ora che le visite notturne dopo aver raggiunto l’acme erano cessate: le uscite serali avevano distratto Prisca da quella pratica. Fu un periodo felice anche perché era donna Rirì che prestava ai miei i soldi per il cinema e così non si rischiavano altre complicazioni con le zie. Poi mia madre ricominciò a mostrarsi riluttante ad uscire di sera; aveva sempre sonno ed una pacifica svogliatezza. Sembrava preferire le chiacchierate o i silenzi con donna Rirì che oramai saliva da noi anche quando non occorreva che mi facesse da balia. Tu eri silenzioso; certamente l'assiduità di donna Rirì ti infastidiva poiché, in sua presenza, avevi un certo pudore a mettere fuori la scacchiera: sia che tu volessi usarla come cannocchiale, sia che volessi ultimarla. Ti dedicavi a complicati solitari che giustificavano il tuo silenzio. Arrivasti persino a giocare a scala quaranta con tre "morti": eri tu l'unico vivo? Alla bottegaia, invece, piaceva giocare a tombola che sfortunatamente era l'unico gioco che detestavi. Così mia madre, la signora del citrato ed io giocavamo a tombola, puntando fagioli, sotto la cappa dei tuoi silenziosi giochi con le carte. Io pensavo che prima o poi donna Rirì si sarebbe risentita per il tuo mutismo e avrebbe desistito dal salire, ma la bottegaia, vecchia

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amica di tua madre, non dava alcun peso al tuo modo di fare e continuava a venirci a trovare. Addirittura stirava al posto di Prisca che , ultimamente, si stancava con facilità anche se sembrava ancora più giovane di prima ed aveva un aspetto fiorente. Inoltre era diventata straordinariamente mite e accondiscendente e non trovò niente da ridire quando volesti riprendere la passione per il cinema. Venne in tuo aiuto la proiezione di un cartone animato “Biancaneve” adatto, quindi, alla mia età. Prima di ogni uscita, Prisca mi abbottonava la catenina e il braccialetto d’oro come mi abbottonava il grembiule di scuola: era quel tocco di distinzione che le piaceva tanto. Riprendemmo, quindi, il filo interrottosi dopo la gita al mare. Il film con il suo tratto gotico, i colori intensi, la deformità della natura e dei nani, la metamorfosi della regina mi avviluppò. Desideravo, desideravo diventare un grande disegnatore o trovare la miniera di parole che mi avrebbero permesso di dare vita ad un universo altrettanto grottesco. Giacché la signora del limoncello e quella del citrato filavano d’amore e d’accordo e insieme avevano preso ad occuparsi della tovaglia a

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punto rinascimento che Prisca aveva accantonata mesi o anni prima, divenni la tua compagna di svaghi serali. Amavi l’America e tutto ciò che era americano perché a quel tempo la maggior parte degli adulti erano convinti che gli americani fossero buoni e facessero tutt’uno con la vittoria finale in cui il male dell’universo sarebbe rimasto schiacciato sotto gli zoccoli di un drago. Non ci avevano forse liberato? Non ci avevano riempito le case di cioccolato e formaggio giallo? Non ci avevano disinfestato dai parassiti con il ddt? Ed ora noi aprivamo le porte a John Wayne, a Jerry Lewis, a Dean Martin. Il loro mondo appariva equo e giusto, semplice e divertente; pieno di una quantità imprecisata di boccoli, di tendine vaporose e di torte di mele sfornate dalle mamy negre. Se non era il Paradiso certamente gli somigliava: ci risarciva di ogni ingiustizia passata e presente, ci rassicurava per il futuro. Anche io, per la durata della proiezione, prendevo congedo da te e gracchiavo i semi di zucca. C’erano tuttavia i tuoi capelli a darmi qualche preoccupazione. Erano rivelatori dei tuoi stati d’animo perché tendevano ad arricciarsi quando il tuo umore si incrinava.

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Sera dopo sera diventavano più crespi e, quindi, nonostante i divertimenti serali, le tue risate, la tua passione americhina, sentivo che incombeva un mutamento. Si trattava di un’altra puntata dell’infido esaurimento? Che l’ effetto ristoratore del cambiamento di lavoro fosse svanito? Ne era consapevole Prisca mentre ricamava e chiacchierava con donna Rirì? Ebbi una conferma che qualcosa in te si era nuovamente inceppato la sera in cui entrasti a caso nel primo cinematografo che ti capitò. Ti ci volle una mezz'ora e un buon numero di sigarette per renderti conto che la pellicola che si proiettava non era adatta a me. Come se ti fossi risvegliato di botto, mi conducesti via raccomandando: "Non diciamo niente a mamma. Mi dispiace di aver buttato via i soldi dei due biglietti, ma non credevo che..." Tuttavia, per non dare spiegazioni a Prisca, dovevamo aspettare che si facesse un'ora non sospetta. Inoltre, per evitare incontri imbarazzanti, occorreva mantenersi in periferia. Dunque costeggiammo le mura cinquecentesche ricoperte di fiori di cappero. Proprio lì stazionava un piccolo circo o accolita di saltimbanchi che si accingevano a bandire il loro spettacolo in città.

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Ci accodammo: forse ti sembrò opportuno confonderci tra la fauna circense, tra pennacchi e pernacchie, pagliacci con una sola lacrima, i mangia fuoco, banditori con la voce stentorea. Oppure ad attrarti fu la confusione piena di vitalità caotica che rianimava anche te che ti adeguavi ai loro versi e ai loro scherzi. Mi guardavi spensierato e sorridente e sorridevo anche io. In realtà avevo timore di ogni forma di maschera e concentrai la mia attenzione sui due giovani che si esibivano sui trampoli. Nel chiasso che montava, sentii a stento la tua riflessione: “Ma guarda che bella occasione, Cosetta! Questo spettacolo non è più interessante di una pellicola? E a gratis poi! Se ci vedessero le tue zie chissà che facce e che musi lunghi!” Cominciasti a ridere senza freni a quell’idea ed io vedevo le zie inorridire e far finta di non conoscerci. Ridevi troppo e senza allegria. Cosa avresti fatto se quella serpentina di circensi, attratta da un pifferaio magico, avesse proseguito oltre ed oltre? Li avresti lasciati fare e sia tu che io saremmo diventati parte della loro vita? Era chiaro persino a me che necessitavi di mutamenti frequenti alla ricerca di una libertà sempre maggiore e poteva darsi che ti

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incapricciasi di quella condizione di circense senza fissa dimora. Forse ti sarebbe piaciuto suonare la gran cassa. Mentre ti applicavi allo strumento io, a causa del fracasso, non riuscivo a concentrarmi nella lettura di tutti i romanzi che mi ero portata via. D’altra parte eri ancora giovane e snello e forse saresti stato in grado di diventare acrobata: e allora io avrei seguito i tuoi arditi volteggi ammirata ed atterrita. Inoltre eri istintivamente elegante e, quindi, adatto a presentare lo spettacolo: sarei stata, quindi, additata come la figlia dell’elegante presentatore con i baveri della giacca ricoperti di lustrini. Ma quale poteva essere la collocazione di Prisca? Ti avrebbe seguito in una vita nomade? Oppure si sarebbe stretta alla tovaglia a punto rinascimento la cui confezione richiedeva un tempo lunghissimo e, quindi, stabilità e immobilità? Quanto grande era il potere che il suo corpo aveva su di te? Quanto le mani che divenivano facilmente peccaminose? Forse le risposte erano nel vocabolario su cui con le compagne cercavo le parolacce. Per quella sera tornammo a casa e naturalmente non dissi niente a mia madre di

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quell’errore nella scelta del film e di quei soldi buttati via, né del nostro girovagare, né delle avvisaglie di una nuova fase del tuo esaurimento. Avevo imparato ad intuire, prima che tu me lo dicessi, quali erano le cose che non potevo dire a Prisca. Ripassavo a mente l'elenco di segreti che condividevamo e che si andava allungando: la gita al mare in macchina, niente di meno! La tua amicizia con lo chauffeur della contessa; la visione che era apparsa a noi due nella scacchiera; l'errore del film inadatto a me e il nostro andare a zonzo dietro ai saltimbanchi. In seguito aggiunsi la serata in pizzeria. Anche quella sera, appena usciti da casa, mi dicesti: "Non dire niente a mamma." Io ti assecondavo perché capivo che le tue non erano colpe e tuttavia avrebbero ferito Prisca. Tu e lei avevate due modi diversi di valutare e giudicare e l'amore non era sufficiente a farvi giungere ad una reciproca accettazione. Ve lo impedivano le vostre zavorre: Tu avevi quella della paura e dell’odio che spadroneggiavano nella tua testa; lei la soggezione e gli obblighi che nutriva nei confronti delle sue sorelle. Noi due, invece, avevamo tante affinità: io ti tenevo sotto la mia ala protettiva, anche se eri tu a condurmi per mano e a guidarmi per la

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strada. Così stetti al tuo gioco. "Sta sera- dicesti- si fa festa. Senti? Non dico senti con le orecchie, ma dico con il naso e tutti gli altri sensi. Senti? Se fai attenzione, sotto quest'aria ancora frizzante ne cogli un'altra più tiepida; e in fondo in fondo un piccolo, piccolissimo accenno di profumo di violette. Tra poco sarà primavera! E non vuoi che festeggiamo? Oggi non andiamo al cinema, andiamo a mangiare una pizza. Ti piace tanto, Cosetta: è vero?" Io mi ero messa in ascolto, avevo annusato di mano in mano che con la tua mimica e con la tua vena poetica mi avevi sollecitato a farlo. E poi ero golosa di pizza e qualche volta l'avevamo acquistata e mangiata a casa; ma così, nel locale, era tutt’altra cosa. Alla pizzeria "Lux" ti aspettavano alcuni amici: eravate in cinque, contando anche te e lo chauffeur che era venuto dal paese e non indossava la divisa. Mi sembrò che anche gli altri tuoi compagni, alla pari dello chauffeur, sarebbero stati disapprovati dalle zie e, quindi, da mia madre. Per questo vi incontravate segretamente. La pizza era buona e la mozzarella filava come solo i quegli anni accadeva e l’origano odorava

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come ora non fa più. Mentre lottavo con la mozzarella, capii che avevi sostituito le partite al dopolavoro con un altro gioco. Vidi sfumare la cooperativa e allontanarsi in un tempo e in uno spazio indeterminati l’appartamento che mamma sognava. Immaginai anche il finimondo che sarebbe scoppiato quando Prisca lo avrebbe saputo: certamente non per bocca mia. La pizza divenne per me ancora più buona, legata com'era a quei segreti colpevoli. Intanto tu e gli amici parlavate di Sisal, schedine, sistemi. I numeri ti avevano sempre attratto come paletti certi di un accampamento, per come si compongono e si scompongono sotto la legge della probabilità. Quindi eri tu la mente della comitiva alla ricerca del sistema che vi avrebbe reso ricchi. Parlavi di quote e tutti ti davano ragione. Contavate il denaro e ti proclamavano cassiere! Compilavate schedine che tu avresti trasformato in sistema in base alle osservazioni che andavi raccogliendo. Ah se finalmente tu avessi vinto una somma di denaro che ti consentisse di saldare i debiti contratti con le zie e di acquistare tutti i giocattoli di cui hanno bisogno gli adulti! Se tu avessi potuto regalare alla mamma la casa nuova!

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Forse avresti potuto acquistare anche una macchina tutta tua che ti liberasse dello chauffeur della contessa che non mi piaceva perché rinfocolava in te l'odio. Io, per me, avrei voluto rivivere un'altra mattina come quella perfetta mattina d'estate nel parco o bagnarmi i piedi nel mare mentre la spiaggia deserta si spallava nella stessa posa di Paolina Borghese. Alla fine della serata ti fermasti sulla soglia del bar Lux a parlare con l’ultimo conoscente rimasto. "A volte penso: altre responsabilità, un'altra bocca da sfamare e da crescere, altri debiti con i parenti di mia moglie. Un altro figlio, però, lo volevo proprio. Ci sono momenti in cui tutto appare così pesante per le mie forze: almeno venisse fuori una bella vincita! Almeno potessi dire a Prisca: ti ho mangiato tutti i risparmi per giocare, ma hai visto che ne valeva la pena?" L'amico fumava e sospirava all’unisono con te. Non esiste- credo- un modo sereno di mettere al corrente un figlio primogenito dell'arrivo di un fratello. Io pencolavo tra le tue contraddittorie affermazioni: "Un'altra bocca da sfamare!" e subito dopo “Ma un altro figlio, però, lo volevo proprio!” Tu avevi la testa pieni di numeri e di conti, io ti

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seguivo rintronata dalla notizia! Quello sì che sarebbe stato il momento giusto per fuggirmene con i saltimbanchi! Da lontanissimo mi sarei convinta che la vostra vita scorreva all’americana con mamma che preparava torte di mele, tu che tornavi vigoroso dal lavoro e prendevi in braccio il bambino nuovo. Di tanto in tanto vi avrei inviavo lettere che voi avreste letto compiaciuti della bella idea che avevo avuto di togliere il disturbo, lasciandovi tutti a vostro figlio. Oppure “un’altra bocca da sfamare” vi avrebbe condotto alla miseria ed io da un lontanissimo punto della ruota del mondo, vi avrei inviato banconote infilate nelle mie lettere che mamma apriva benedicendomi! Infatti tu ti eri dato al gioco con un accanimento che ti mangiava tutta la paga e ad ogni perdita rimanevi a letto rischiando il posto di lavoro. Chissà se il bambino nuovo sarebbe stato inviato anche lui a cercarti nei luoghi dei tuoi vizi, o a chiedere il congedo per malattia? Poi tornavo alla realtà e rimettevo insieme i segnali delle ultime settimane: tu, che appena cambiato lavoro, ti eri fatto tanto amorevole e tenero con Prisca; con lei avevi condiviso le serate al cinema; con lei -vi avevo sentito tra le mie letture- avevi scherzato sulle sue terribili sorelle e la signora del limoncello, addirittura, si era permessa di riderne.

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Erano stati bei tempi per voi e un sollievo per me perché la vostra intesa era coincisa con la fine delle visite notturne di Prisca! Quell’equilibrio si era incrinato quando, saputo della gravidanza di Prisca, eri caduto in preda al tuo ossessivo senso di inadeguatezza. Pensai con risentimento a mia madre felice, giovane, che cantava, ingrassava, si appisolava e che non mi aveva dato la grande notizia. Vi rimproveravo di aver atteso nove anni per darmi un fratello: se fosse accaduto molto prima avrei sofferto di meno. Dopo un po' dalla mia scoperta, Prisca si mise apertamente a lavorare al corredino del bambino nuovo e ne parlava come se fosse una cosa nota a me da sempre. Con il passare dei mesi furono le sue sorelle a venirla a trovare. Una alla volta passavano da casa e portavano Prisca a passeggiare offrendole il braccio perché, si sa, alle donne gravide fa bene camminare. Arrivava zia Naida ripulendosi ancora il paltò dai fili dei suoi ricami: essendo la più anziana sentiva di dover stare vicina a Prisca nel modo in cui l'avrebbe fatto una madre. Delle tre era quella che mio padre più tollerava, forse per via della sua riservatezza. Forse anche lei avrebbe provato affetto per te se le sue sorelle glielo avessero permesso. Un'altra volta arrivava la vedova, zia Renata.

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Piena di rimpianti per le sue mancate maternità, ora si esaltava per quella della sorella e fantasticava sul bambino che si augurava fosse un maschio. Infine era il turno di zia Estrella che era quella più esplicita nel criticarti: non varcava nemmeno la soglia, aspettava mia madre liquidando me e te con un frettoloso "Buonasera." Certamente Prisca avrebbe preferito fare quelle passeggiate assieme a te, magari lasciando me da donna Rirì prima che l'emporio chiudesse i battenti. Ma sembrava che le zie si fossero accaparrate questo piacere trasformandolo in un dovere di cui tu non eri all'altezza. Alla mia domanda inespressa -quando?- la risposta giunse con l'arrivo affannoso delle mie zie: la silenziosa, la vedova e la chiacchierona. Giunse anche donna Rirì che disse la sua: "Tu, Palmiro, vai a chiamare la levatrice. Cosetta la porto a casa da me." Mia madre volle baciarmi e non si trattenne dal farmi qualche raccomandazione: "Sii obbediente, Cosetta; non disturbare, di' sempre grazie e per favore e di' sempre che tutto è buono. Vai che sta per arrivare la cicogna e se si

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accorge che in casa c'è già un bambino, passa oltre e tu non avrai il fratellino con cui giocare." Non credevo ad una parola riguardo la cicogna, ma ero ugualmente smarrita e cercai te, ma la presenza delle cognate e gli ordini decisi di donna Rirì ti avevano già fatto uscire per correre dalla levatrice. Ero convinta che tutti, emozionati dal grande evento, si confondessero e la chiamassero levatrice invece che lavatrice. Certamente il neonato, a pena nato, avrebbe avuto bisogno di essere lavato. Quindi seguii donna Rirì. Sapevo che sarei stata molto invidiata da tutti i bambini del vicinato appena avessero saputo che ero stata ospite della padrona del citrato e, ma io ero troppo scombussolata per ricavare piacere da quell’ospitalità; anzi per distrarmi dal magone, mi domandavo se la bottegaia mi avrebbe pasciuto a citrato. Per quanto tempo poi sarei dovuta restare con lei? Avevo fatto piangere la mia compagniuccia, Maria Venusta, quando le avevo detto che i bambini nascono dalla pancia della mamma e che era una cosa semplice e naturale. Lei, per vendicarsi, mi aveva raccontato quella balla che la Befana non esiste e che sono i genitori a comperare i giocattoli. Come poteva credere ad una simile falsità, visto che sul calendario c'era un giorno

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dedicato all'epifania? Solo una sciocca come Maria Venusta poteva, da una parte negare l'esistenza della Befana e, dall'altra, credere in quella della cicogna! Donna Rirì mi intrattenne con una cenetta in cui il citrato non c'entrava, nemmeno come digestivo, e mi portò nel suo lettone. Tra l'imbarazzo di dividere il letto con lei e gli interrogativi che urgevano dormii senza accorgermene e sognai credendo di essere sveglia. Nei sogni cicogne e befane subivano continue metamorfosi trasformandosi le une nelle altre. Come Dio volle quella notte dei misteri si compì e il giorno dopo, al risveglio, sentii la voce di mio padre e l'odore del caffè che gli aveva preparato donna Rirì. Quando apparvi sulla soglia del tinello, in camicia da notte e a piedi scalzi, mi fecero grandi feste. Tu mi prendesti in braccio e dicesti: "Andiamo a casa. E' nata la sorellina." Stavo quasi per divincolarmi da te che ti aspettavi qualche manifestazione di gioia. Mi trattenni per non dispiacerti, ma dentro ero tutta gelosia e ribellione. Per tanti mesi avevo atteso un fratellino e l'idea mi aveva incuriosita e, talvolta, intenerita: mi sembrava che un fratello non mi avrebbe tolto niente. Ed ora, invece, ecco una sorella, magari oca

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quanto Maria Venusta. No non la desideravo proprio. Come l'avrebbero chiamata? Avrebbero cominciato subito a cercare le rassomiglianze? Una parte del parentado avrebbe giurato che era tutta suo padre o me, un'altra parte, invece, avrebbe insistito, fotografie alla mano, nel dire che era tutta sua madre e cose del genere? Mentre mi vestivo, ripetei afflitta: "Un'altra bocca da sfamare!" Nell’assegnazione dei nomi mi sembrò che mia sorella fosse stata più fortunata di me. La chiamarono Miranda perché così piacque ai genitori, mentre io ero stata obbligata al nome della nonna paterna. Nome che avevo sempre trovato meschino ed umiliante. Inoltre questo segnò il suo destino visto che le mie zie fin dal primo momento andarono in solluchero per lei. Zia Naida le confezionò a filet tutti gli intarsi della sua veste di battesimo.

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Zia Renata, che faceva la modista, veniva a vezzeggiarla la sera quando chiudeva il negozio in cui lavorava. Persino la vedova smise il lutto e, tanto fece e disse sulla propria sfortuna di non aver avuto figli dalla buonanima, che i miei genitori le chiesero di fare da madrina alla piccola. La nascita di Miranda sognò l'inizio di un periodo positivo, ma anche di una sorta di diaspora tra noi quattro per un susseguirsi di eventi che modificarono assetti e ruoli. In quei giorni io ero un'anima in pena e tu non te ne accorgesti stordito dall'entusiasmo per la bella creatura che era nata e dalla felice coincidenza di una discreta vincita alla sisal. Per poter parlare a mamma della vincita, le dovesti parlare anche del nuovo gioco che ti assorbiva. D’altra parte ti eri munito di quaderni a quadretti che vergavi con la tua grafia precisa; e prima o poi ti sarebbe toccato spiegare a Prisca la presenza di carta e penne. La vincita e la confusione per la nascita ed ora per il battesimo erano una buona occasione per fare accettare a mamma quelle novità senza troppi mugugni. Così la rintronasti con i principi matematici della sisal. Le parlasti della necessità di registrare i risultati delle partite per calcolare le probabilità e quindi costruire un sistema. Mettesti fuori i quaderni con la foderina nera

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che avevi nascosto tra la tua biancheria. Prisca, anche se assorbita dalla cura della sua bambina e appagata dall’ammirazione che Miranda suscitava in chiunque la vedesse, conservava sempre il suo spirito pratico. Ti chiese: "Ti porta via molti soldi?" "Ma no- replicasti tu- Quanto un pacchetto di sigarette perché siamo in diversi colleghi a partecipare. Certo anche la somma vinta va poi divisa. Ah se potessi giocare da solo! Basterebbe puntare somme più grosse perché quante più colonne si giocano più probabilità ci sono..." Sentisti che avevi osato troppo e frenasti il tuo entusiasmo. Per il momento potevi ritenerti fortunato di averle potuto parlarle del tuo nuovo "vizio" senza suscitare le sue proteste. Prisca, infatti, rassegnata, più che convinta tornò a sorridere alla sua bambina. Tu mi guardasti. Mi guardasti per assicurarti il mio silenzio? Io, infatti, ero al corrente che non giocavi con i tuoi colleghi, ma con conoscenti simili allo chauffeur, persone un po’ illuse, un po’ disperate, che mamma avrebbe giudicato di un rango inferiore al nostro. Forse cominciavi a vergognarti di avermi imposto quel silenzi complici?

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Era per questo che sembravi sfuggirmi? Mi sfuggivi proprio mentre io avevo bisogno di essere rassicurata dal tuo amore. Mamma per quel giorno non indagò sia perché la vincita era una somma di tutto rispetto; sia perché era anche lei innamorata di Miranda e quando l'allattava sembrava comunicare in profondità come se la bambina fosse solo sua, come quando era ancora nel suo grembo. A comprendere quanto mi sentissi sola e trascurata fu donna Rirì. Mi regalò qualcosa che mai avrei osato domandarle: mi regalò Porfirio! Porfirio che abitava una gabbia appesa ad una parete del negozio e che tutti noi ragazzini desideravamo. L'uccello, in realtà, restò nell'emporio, ma la mia amica disse che potevo considerarlo mio e che avrei potuto portarlo via quando ne avessi avuto voglia: per ora no perché Miranda poteva essere disturbata dal suo gracidare. Zia Estrella, quando annunciai il regalo che avevo ricevuto, commentò: "Si vede che donna Rirì, come ogni commerciante, conosce il mondo! Nelle famiglie che contano quando nasce il secondo figlio è il primogenito che riceve regali perché non si senta messo da parte. Si capisce, però, che è taccagna: che regalo è mai quell'uccellaccio del malaugurio!" Non tenni conto della seconda parte del

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commento e nell’emporio della signora del citrato potevo vantare di fronte agli altri bambini che l'uccello era mio e che prima o poi lo avrei portato a casa. Donna Rirì faceva segno di sì e consolava gli altri per quel tradimento regalando, finalmente, invece del citrato qualche caramella di menta fredda. Mi domandavo cosa ne pensasse Porfirio: del trasloco che lo aspettava e mi domandavo quale sarebbe stato il posto più adatto nella nostra casa per la sua gabbia. In occasione del battesimo, che allora si celebrava poco tempo dopo la nascita, si tenne un ricevimento in casa. Io quel giorno avevo la luna di traverso. Mi infastidiva la bellezza di mia madre che indossava una maglia incrociata che ne metteva in risalto il seno. Mi infastidiva persino l’abito nuovo che avrei dovuto indossare. Così mi volgevo a cercare te, ma tu passeggiavi per la casa con Miranda tra le braccia e ti rivolgevi a lei con dolci nomignoli. Come potevi essere la stessa persona che

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aveva pronunciato le desolate parole: "Un'altra bocca da sfamare!" E sì che credevo di conoscerti bene! Anche gli invitati, non appena varcavano la soglia di casa, partecipavano a quella gioiosa agitazione e vezzeggiavano la neonata. Eppure a quella cerimonia perfetta a cui erano state invitate, credevamo, tutte le fate madrine avevamo dimenticato quella dispettosa che venne ad offuscare la festa e a seminare zizzania. Lo dico perché accadde quel che accadde. Le stanze erano state liberate dai mobili più ingombranti per fare sedere gli invitati e permettere il passaggio dei camerieri. L'abbondanza del rinfresco era tale che donna Rirì raccontò poi, con grande scandalo, che un cameriere aveva stappato una bottiglia di liquore per disinfettare un taglio che si era procurato! “E si trattava di liquore vero, non di rosolio!” Mio padre, infatti, grazie alla vincita, aveva voluto un buffet dalla migliore pasticceria della città, con tanto di camerieri. Erano già passate due volte le guantiere di paste secche; ora era la volta degli spumoni accolti da applausi; infine ci sarebbe stata la torta ed i confetti. Molti invitati approfittando di quell'inizio mite di primavera, si erano tolti la giacca ed avevano portato le sedie nel cortile interno, e alcuni

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sedevano sulla rampa che sfogava nella terrazza del primo piano. Era presente anche lo chauffeur della contessa e questo non mi sembrò un buon auspicio. C'era anche Giorgio, un nipote acquisito della vedova: figlio di una sorella della buonanima. Credo che quella sera, con una sorella di ben nove anni più piccola, con il peso dei segreti che condividevo con mio padre e con quell'acuto senso di provvisorietà che la nascita di Miranda mi provocava, decisi di diventare di colpo grande: infatti provai uno strano rimescolio alla vista di Giorgio. Mi dispiaceva che fosse nipote di zia Renata, ma i suoi occhi di un dolce nocciola maculato d’oro e i capelli castani mossi meritavano che non ne tenessi conto. Tra me pensavo che ne avrei avuto da raccontare a Maria Venusta e a Sarina quando ci fossimo riviste a scuola! Per un po' feci il confronto tra Giorgio e mio padre. Mio padre era sempre signorile, magro e, a tratti, esaurito ed io mai avrei dimenticato la responsabilità che mi ero assunta nei suoi confronti. Ma quel pomeriggio vedevo dappertutto gli occhi di Giorgio, le sue belle maniere, il gesto frequente con cui si dava una sistemata ai capelli: era uno scotoma luminoso che si sovrapponeva a te.

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Giorgio che aveva venti anni. Vent’anni erano un tempo che non riuscivo a concepire: sapevo che era più del doppio della mia età e perciò Giorgio viveva in una dimensione a me ignota: un abisso da cui ammiccavano i suoi occhi e i suoi capelli. Provai a pensare tra me: "Quando io avrò diciott'anni, che mi pare una buona età per mettere su famiglia, lui ne avrà trenta. A cosa corrispondono trent’ani anni? Sarà forse troppo vecchio per me?" Pensai che, prendendo la cosa da lontano, avrei potuto domandare a te, grande intenditore di numeri, un parere. Mentre mi perdevo in questo arduo sentiero del tempo, Giorgio in persona mi rivolse la parola: Ci servivamo alla stessa guantiera di dolciumi: “Quindi sei tu la famosa Cosetta!” Non risposi perché ero stupita e perché avevo la bocca piena. Lui insistette: “La famosissima tuttosuopadre. Perché fai i dispetti a mia zia?” “Io non faccio dispetti e poi zia Renata è mia zia: tu sei soltanto acquisito.” Ringraziai la buona sorte che mi aveva fatto ricordare il termine acquisito. “Vedi che sei dispettosa?” Rise godendo di avermi presa in fallo ed io lo odiai per la sua partigianeria.

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Più tardi ci ritrovammo vicini mentre si passavano in rassegna i regali ricevuti da mia sorella: orecchini, catenine, braccialetti. Tutto d’oro. Mamma avrebbe agganciato la domenica quel corredo prezioso al collo e al polso di Miranda come faceva con me? Forse per allora io sarei stata in grado di farlo da sola. Giorgio di nuovo mi rivolse la parola. "Ciao piccoletta?” Io lo guardai sorpresa. "Hai capito vero, cosa intendo dire? Volevo dirti- spiegò con un po' di supponenza - ciao, Cosetta; Cosetta e piccoletta sono la stessa cosa: lo sapevi?" "Non me ne importa niente!" Giorgio mi spettinò e se ne andò a stare con i grandi. Ripresi ad esaminare i regali ed intanto pensavo che forse il calcolo degli anni non ha molta importanza se a venti anni si fanno gli stessi dispetti che si fanno a dieci. “Già- riflettei- non sono gli anni, ma il modo di comportarsi che fa la differenza. Non so perché mi abbia preso di mira.” Però mi faceva piacere che mi avesse rivolto per due volte la parola anche se per baruffare. Ma ecco che fui attratta dal parlottio delle invitate che sembravano preparare una benevola congiura.

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Insistevano perché la madrina, zia Renata agganciasse subito gli orecchini a Miranda. Zia Renata faceva un po’ di resistenza “ per la commozione”. Le altre insistevano: "E' tanto piccola che non sentirà dolore.” “Un forellino un forellino e infiliamo le buccole." “Aspettare che diventi più grandicella sì che sarebbe una vera crudeltà!” “Le orecchie si infetterebbero facilmente, mentre ora per disinfettare la piccola ferita basta passare una goccia di latte materno.” Sentivo circolare magia in quei gesti, ripetuti identici nei secoli, una magia che non accettava smentite. Così fu: mentre mio padre teneva in braccio la piccola, la levatrice- giacché era proprio questo il suo nome- bruciò l'ago e forò i lobi facendo piangere Miranda, zia Renata infilò gli orecchini. Tutte poi, come fossero state innocenti, si diedero da fare a consolare e a calmare la piccola. Era proprio una bella festa con le tradizioni che alla mia nascita non si erano potute rispettare perché ero nata tanto piccola da far temere per la mia vita e la comare non aveva avuto cuore di regalarmi gli orecchini da portarmi sottoterra. Io poi ero sopravvissuta, ma la comare era emigrata in Argentina e mia mamma mi diceva: “Vedrai se non si farà viva prima o poi, con un

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regalo che ci lascerà a bocca aperta. San Giovanni non si rifiuta!” Appena avevo cominciato a studiare geografia avevo cercato l’Argentina: mi piaceva il suo nome, ma, come accadeva per il tempo, non capiva nella mia testa la distanza. E quando ci pensavo ero scombussolata da quella attesa di un dono che mi sarebbe giunto da tanto lontano prima o poi. Gustavamo lo spumone, che doveva prima sciogliersi un po' per essere preso a cucchiaiate, quando scoppiò la rissa che ci fece impallidire e ammutolire tutti. Mia madre dovette ritirarsi in camera con Miranda perché la bambina non si spaventasse. Io, invece, assistetti al battibecco tutto intero. In principio sembrò che qualcosa fosse caduto con fragore, e tutti scoppiarono a ridere come si fa nelle feste quando ogni cosa viene buttata in scherzo. Ma, poi, il tono alterato delle voci ci fece comprendere che facevano sul serio. "Farabutto!" Diceva mio padre rivolto proprio al mio “innamorato”, Giorgio. "Via, via Palmiro." -Interveniva il compare generoso, quello dell’olio- Lascia che parli." "Parlare? Ma che parlare? Oggi tutti parlano e non hanno visto, né sofferto niente." "Ma forse si è espresso male." "Ripeti, allora! Sentiamo quello che hai detto."

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"Giorgio, Giorgino, Giorgetto!- interveniva la vedova- Lascia perdere, sei ospite!" "Ospite o no -replicava ostinato Giorgino - è così che la penso io." E di nuovo alcuni tra cui lo chauffeur dovettero intromettersi per trattenerti. Giorgio si rimetteva le ciocche a loro posto con movimenti nervosi, ma si ostinava con la protervia dei giovani. Continuava a fare cenno di no con una bocca sprezzante. "Guarda che Palmiro c'è stato, ci ha vissuto in quei lager, racconta cose terribili, odia tutti i tedeschi." Era lo chauffeur che, da grande intenditore di odio, diceva la sua. "Insomma si è iniziato a parlare di esagerazioni, di invenzioni, di travisamenti, di imboscamenti." Di nuovo mio padre fu trattenuto a stento dallo scagliarsi sul ragazzo. "Tutte fantasie di gente malata qui.- e si toccò la tempia- Vi ha dato di volta il cervello." "Ah sì ci ha dato di volta il cervello per tutti i patimenti e la fame e la paura." "La verità è che volete essere trattati da eroi." La sfacciataggine di Giorgio era senza freni fino al punto che toglieva le forze a mio padre. "Non credo a niente di quello che racconti: non è vero, non è mai accaduto." Tu ti svincolasti dall'abbraccio degli amici affannando per la rabbia contenuta:

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"Ti auguro di vivere abbastanza per ricrederti o per patire tanto da sapere che le belve umane esistono. In Germania, in Siberia, o tra noi. Vorremmo che così non fosse per paura del mostro acquattato in ciascuno di noi. Perché anche quelli, prima di diventare mostri, erano come noi.” Una calma raggelata rendeva più gravi le tue parole. Fino a quando intervenne donna Rirì con il suo buon senso e con la sua età che le consentiva di dire qualunque cosa senza che gli altri se ne risentissero: "Ma sono discorsi da prendere? Non pensate che Prisca potrebbe perdere il latte? E' giornata questa da rovinare così? Io gli darei olio di ricino a chi ha avuto la bella idea di cominciare questo discorso. Chi è stato? Chi è stato?" Intanto rimandava in cucina i camerieri che erano venuti fuori per curiosare. Io lo sapevo chi aveva causato tutto quel guasto e fissavo lo chauffeur che si metteva a posto la cravatta. Infatti si giustificò guardandomi: "Io ho fatto solo una domanda a Palmiro e il ragazzo, Giorgio, si è messo in mezzo." "Puzzi di latte." Riprendesti tu rivolto a Giorgio E quello:

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"Puzzi di vecchio bugiardo." La vedova che in principio aveva dato l'impressione di voler chiedere scusa per la villania di quel bell'ospite che ci aveva condotto in casa, si stancò di mostrarsi umile e alzò la cresta anche lei: "Ah be' sai cosa ti dico? Dico che Giorgino ha ragione. Tutto questo parlare di campi di prigionia e di persecuzioni è indecente di fronte a persone per bene. E poi si è visto- e ti fissò in modo espressivo- in seguito, di che cervelli esauriti si trattava!” Alla parola esauriti io mi sentii infuriare dentro. Tu non potevi impallidire oltre, i tuoi occhi chiari si dilatavano di indignazione, le parole erano inutili. Ah se avessimo avuto ancora la scacchiera magica! Avrei costretto uno per uno a guardarci dentro per vedere, ma soprattutto per sentire nell'animo le pene che avevi sofferto. Ma forse anche la scacchiera sarebbe stata inutile. Capivo d’istinto che non c'è niente che possa convincere chi ha deciso di non credere. Si sentivano i vagiti di Miranda dalla camera, forse a causa degli orecchini? Tu eri sempre più pallido con le vene che ti pulsavano alle tempie e i capelli arricciati dalla rabbia.

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Afferrasti una sedia e la sfasciasti contro il muro. Gli invitati ondeggiavano di qua e di là: c'era chi implorava per il latte di Prisca, chi cercava di rabbonirvi, chi si tirava indietro, chi si preparava ad andare via. Capii che ti sentivi totalmente solo. Ti rivolgesti prima a Giorgio e poi a tutti. "Ti invito a spese mie, vi invito a spese mie a fare un giro in quei posti di morte. Ci stai? Ci state?" "E con quali soldi?" Lo provocava Giorgio: "Almeno quelli che sono stati dalla parte giusta, che hanno fatto borsa nera, i furbi, i soldi li hanno fatti." "Anche io li farò. La verità è che qui, nel sud, non si è visto niente della guerra, avete vissuto vicino al cuore della mucca." Giorgio scrollava le spalle, si rassettava e ripeteva ironico: "E con quali soldi? Con quali soldi ci farai fare questo viaggio?" Prendesti la porta di casa perché volevi essere tu a lasciarla per primo. Avrei voluto afferrarmi alle tue gambe per impedirti di andartene. Ognuno raccoglieva cocci di festa e c'era silenzio. Io odiavo lo chauffeur che era la causa di tutto e lo guardavo con antipatia.

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Ti fermasti di nuovo prima di infilare la porta e ripetesti: "Ricordatevi che vi ho invitati tutti e vi porterò tutti." Volevo farti giustizia in qualche modo e seguii Giorgio che si aggirò con le mani in tasca per un po' e poi, quando fu sicuro che tu fossi lontano, prese anche lui l'uscita senza nemmeno aspettare la vedova che lo lisciava e lo accarezzava. Gli corsi dietro: "Tu non sai niente - gli dissi- io ho visto." "Che hai visto tu? Tutti esaltati in questa famiglia!" "Ho letto -mi corressi- le lettere di mio padre e c'è l'intestazione e il numero dello stalag e tutte le parole in tedesco." "Be' fammele vedere queste famose lettere." "In questo momento non so dove le abbia messe mia madre, ma un’altra volta te le farò vedere." "Sei proprio una cosetta." Mi replicò il mio amore di un pomeriggio, e se ne andò. Lo sentii fischiettare per strada. Eravamo rimasti soltanto noi: le donne della famiglia e donna Rirì. Mia madre che stringeva Miranda; zia Estrella, zia Naida, zia Renata, un po' imbarazzate, riordinavano senza avere il coraggio di guardarsi in faccia, i doni ricevuti dalla neonata.

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Donna Rirì licenziava i camerieri e pagava il conto. Io ero terrorizzata al pensiero che tu non tornassi. Mamma cominciò a piangere sommessamente e, forse per la prima volta, guardava con fastidio le sue sorelle. La vedova: "Insomma, tuo marito è un uomo con cui non si può parlare. Vuole sempre avere ragione lui." Zia Estrella: "Almeno per l'ospitalità poteva tacere, dico io. E poi un ragazzo, mettersi con un ragazzo..." Zia Naida: "E la tua salute, il latte che rischi di perdere, la salute di Miranda. " Zia Estrella: "Ci mancherebbe che dovessi tirare su anche quest'altra con il latte artificiale." La vedova: "E che boria, che spaccone!- e imitando mio padre- Vi invito tutti a visitare quei posti! Se crede che glieli daremo noi, i soldi, si sbaglia." Zia Estrella: "Se speri che ti potrà mai comprare la casa, stai fresca: ah ma sa dove battere cassa saprò come rispondere!" La vedova: "Ti ha imbambolata facendo lo splendido con questa festa e tu credi a tutto: ad una vincita che vi cambierà la vita e persino alla prigionia

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credi." Donna Rirì emise un sospiro come se le costasse rinunciare alla propria discrezione: "Be' vogliamo pensare seriamente al pericolo che tutta questa agitazione le faccia perdere il latte? Finitela anche voi. Ciascuno in cuor suo pensi ciò che vuole e faccia ammenda, ma in silenzio: ogni bel tacer non fu mai scritto... Come si fa a dare del bugiardo con tanta leggerezza..." "No, no: papà non ha mentito!" Mi lasciai sfuggire io e donna Rirì riprese: "Non credo che si sia inventato tutto; sua madre Cosetta, me ne ha fatte leggere di lettere dalla prigionia! E comunque sia andata, lasciate almeno che sua moglie e sua figlia continuino a rispettarlo. Tra moglie e marito...come si dice? Renata, tu che sei vedova forse te lo sei dimenticato ed io, che sono zitella, invece lo so e mi sono sempre attenuta a questo adagio." Le zie un po' piccate, un po' intimorite dal rischio che mia madre perdesse il latte, indossarono con cura soprabiti, cappelli e guanti e andarono via. Mamma continuava a piangere e l'ero grata perché non aveva fatto eco alle sue sorelle e quei pianti sembravano una muta difesa del marito.

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Donna Rirì, che aveva il cuore grande, riordinò la casa più che poté, poi ci baciò tutte e tre e andò via nel suo emporio. A letto, Prisca ed io fingevamo di essere abbandonate in un sonno profondo. Ciascuna recitava quella parte per la serenità dell’altra e della piccola Miranda; in realtà eravamo in ascolto, come abili selvaggi, a discernere tutti i suoni della strada. E allora smettevamo di fingere: Passi si avvicinavano e mia madre mi sussurrava: "Cosetta, li senti anche tu?" "Sì, mamma." Aspettavamo con il fiato sospeso, ma i passi andavano oltre. Qualcuno fischiettava e mia madre diceva: "Questo non può essere lui." I cani abbaiavano, ma nessuno li zittiva. "Se ne è andato per sempre?" Mi chiese finalmente Prisca. Io non risposi per non scoppiare a piangere e lei mentre- lo intuivo- accarezzava Miranda trafitta dalle buccole, disse carezzevole: "Povera piccola, stai sognando il tuo papà?" Prisca si appisolava ed io le custodivo entrambe. Prisca si svegliava di soprassalto ed io la rassicuravo: "Cosetta, Cosetta! Hai sentito anche tu?" "Niente mamma, niente: hai sognato."

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Venne l’ora della poppata per Miranda. Prisca mi parlava ed io, che pure avrei evitato di farlo, dovetti rivolgermi verso di loro e arrendermi alla vista della perfetta unione di mamma e Miranda. La scena di mia madre con al seno la piccola risultava per me nel contempo fascinosa e ripugnante; inoltre su tutta la parete si accampava la sua ombra provocata dalla luce rossastra dell’ abatjour schermato da uno scialle fiorato. Chiusi gli occhi per un secondo e un momento dopo tutto quel nero e quel rosso già scolorivano e rimpicciolivano grazie alla lama chiara dell’alba. Prisca mi parlava come ad un’adulta: "Dove sarà andato? Tu lo sai, Cosetta? Voi due siete sempre stati tanto amici, tanto vicini. Se lo sai, ti prego, dimmelo." "Forse è andato al mare." "Al mare? E come?" "Conosce uno, lo chauffeur di una contessa, che quando può lo porta al mare. A noi due il mare piace tanto specialmente quando non c’è nessuno. E al mare, poi , c’è il faro! Saliamo sul faro e guarda lontano sull’altra sponda e mi indica l'Albania dove l'hanno fatto prigioniero. "

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"E poi? Cosa fa?" "Niente: guarda il mare, il cielo, i gabbiani. " Mia madre si distrasse per ninnare la bambina, poi ricominciò: "Credi che non mi voglia più bene?" Dovetti ammettere: "So che te ne vuole moltissimo." La confortavo eppure desideravo che tu ti fossi messo per sempre al sicuro dalle zie, da Prisca, da “altre bocche da sfamare”. Che ti fossi affiliato ai saltimbanchi almeno per qualche tempo. Il tempo che anche loro ti venissero a noia: avresti finito con il litigare con il direttore, Mangiafuoco, perché si era rifiutato di accompagnarti, lui e tutti i circensi, nei luoghi della tua prigionia. Nuovamente solo, avresti inviato una lettera clandestina a donna Rirì: senza farti prediche la bottegaia ti avrebbe promosso a suo agente con il compito precipuo di rifornire il suo emporio di tutte le medicine magiche: mignatte, chiodi di garofano e, soprattutto, citrato. In questo modo, da lontanissimo, dal tuo esilio volontario avresti avuto nostre notizie e, per il tramite di donna Rirì, avresti provveduto a noi. Mi ero ingolfata nell’immaginare per te una vita resa sopportabile proprio dal’esilio, un esilio più sostenibile di quello che vivevi tra noi. Prisca piangeva sommessamente dopo che io le avevo attestato il tuo amore; ed io, atterrita

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dal mio stesso immaginare, le dicevo come un pappagallo: "Non piangere: non vorrai perdere il latte di Miranda?" "Zitta! Che ne sai tu di queste cose?" Le scappò da ridere, forse per l'ansia e risi anch'io. Finalmente mi lasciai prendere dal sonno. Ma un pensiero, soffiato da chissà quale bocca, mi interpellò: "Se dovessi scegliere tra tua madre e tuo padre chi sceglieresti? “Scegliere per cosa?” E un’altra voce: “Se ti dicessero: -fai un fioretto e tuo padre tornerà- che cosa offriresti? Te la sentiresti di non pensare più a Giorgio purché tuo padre tornasse?" Non avevo il coraggio di dare voce alla mia scelta; sapevo che ti avrei sempre scelto: tra te e Prisca, tra te e Giorgio. Non conoscevo chi preferirti perché, a mio avviso, non c'era al mondo chi più di te avesse bisogno di me.

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Nemmeno al mattino dopo, era un lunedì, ti facesti vivo. Prisca, d’abitudine, si era messa ai fornelli e, nonostante Miranda, accese la radio. Quando non cucinava o non si occupava della piccola, girava la manopola e ascoltava il giornale radio. Forse avrebbe voluto che la nazione intera si mettesse alla tua ricerca. Con il passare delle ore, mamma mi guardava in modo sempre più espressivo. Dovevo venire a cercarti come altre volte? Cosa ci sarebbe voluto: io sarei arrivata in

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fabbrica e avrei detto all'usciere che dovevo parlarti d'urgenza. Cosa mi avrebbe risposto l'usciere? "Mi dispiace, piccola: tuo padre non si è visto stamattina!" e mi avrebbe guardata con compassione. O mi avrebbe detto sorridente: "E' appena uscito per andare a sbrigare delle pratiche in banca; lascia detto a me." "Grazie, signor usciere!- Avrei risposto sollevata nel saper che tu eri tornato ed impegnato nel lavoro- A pensarci bene non è poi tanto importante quello che dovevo dirgli. Aspetterò che torni a casa per il pranzo. " E me ne sarei venuta via saltellando dalla felicità; forse mi sarei addirittura concessa di fermarmi a giocare a campana con monelli sconosciuti o mi sarei precipitata a portare la buona notizia a mamma. In realtà Prisca non mi chiese di fare niente del genere, ed io restai con il dubbio se avrei avuto il coraggio di affrontare le due eventualità. Mamma preparò la tavola e fu di buon auspico perché tu arrivasti con indosso ancora il vestito della festa e ti mettesti a tavola in mutismo. Io già pranzavo per via dell’odioso turno pomeridiano che in quell’occasione mi sembrò una benedizione:corsi via da Maria Venusta e Sarina.

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SECONDA STAZIONE

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urante i giorni successivi la signora del limoncello, pensando di essersi spinta

troppo con i discorsi di quella notte, ripristinò le distanze nei miei confronti; come d’altra parte non mi capitò mai di sentire commenti sullo svolgimento della festa. Vivevamo come in una palla di neve: al centro della boccia di vetro non vi erano i monumenti delle grandi città, ma la nostra casa e la bottega di donna Rirì. Poteva darsi che, a nostra insaputa, ci trovassimo su una bancarella di souvenir e forse un turista l’avrebbe acquistata e ci avrebbe portato con sé : forse in Argentina? Qualunque fosse il luogo prima o poi la boccia si sarebbe infranta e noi saremmo finiti piedi per aria liberi. Avremmo deciso di restare insieme o ciascuno sarebbe fuggito per la propria strada? “Perché sorridi e parli da sola? Chiese Prisca. “Niente, niente. Ripensavo a certi versi di Porfirio. ” “Ah il regalo di donna Rirì! Che matta! Però è una buona persona.” Mi ricomponevo e pensavo che non eravamo finiti in una bolla di vetro e che quella era proprio la vita e che la festa di battesimo, con la sua sgradevole conclusione, insisteva su di noi. A sera, con la luna che si sedeva sul mio

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sommier, giocavo con le ombre delle mie mani contro la parete e mi sembrava di aver dato forma al profilo di Giorgio. Mi stringevo al cuscino sognando che egli mi dormisse accanto. Ma risentivo le sue parole cattive: "Con quali soldi mi farai fare questo viaggio?" E tu che insistevi ad invitare lui e tutti i presenti a seguirti in Germania. Si era trattato proprio di una sparata che non avresti mai potuto mettere in atto. Almeno ti fossi limitato ad invitare solo Giorgio e me, che avevo già visto molto nella scacchiera. Vedevo le zie dirti di no mentre tu le imploravi di prestarti i soldi. Colpa del sonno: tu non saresti mai arrivato a quella mortificazione! Scotevo la testa e Giorgio abbandonava il mio letto. Attribuivo lo stesso imbarazzo a tutti gli invitati della festa di battesimo. Infatti quando capitava di rivederli mi sembrava che i saluti fossero frettolosi o, addirittura, che mamma ci facesse scantonare. So che tu non hai mai immaginato quello che mi passava nell'animo: eri completamente preso dal tuo personale puntiglio e dal risentimento per la grave offesa subita e ti stordivi con la ricerca della formulazione del sistema perfetto.

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Prisca ti trattava con grande riguardo cucinando i tuoi piatti preferiti e mettendo una cura speciale nel farti la piega a pantaloni e camicie che sembravi un figurino. Se aveva della rabbia per la situazione in cui ci avevi cacciato lo manifestava soltanto nello sbattere il ferro sui panni e rivoltando sopra sotto la nostra casetta con grandi pulizie. Pensavo che al suo silenzio e a tutte queste attenzioni tu avresti preferito una spiegazione aperta. Avresti preferito- immaginavo- che lei ti dicesse: "Hai sbagliato ad urlare così, ma ti capisco. Potevi lasciar correre, vista la circostanza, ma quel Giorgio è proprio un ignorante presuntuoso." Oppure le due parole corrispondenti ad una dichiarazione d'amore: "Ti credo." Ignoro se mamma ti abbia mai detto parole simili quando io non c'ero, ma il tuo fare un po' sostenuto nei suoi confronti mi faceva intendere che no. Finì la primavera e venne l'estate. Ritornammo al mare, questa volta assieme a Miranda che, trattenuta da mamma, sgambettava nell'acqua. C'era sempre qualche conoscente che ci ospitava sotto il proprio ombrellone. Tu dicevi che preferivi prendere il sole e chiacchieravi con il bagnino.

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A volte giocavi a pallone con ragazzi molto più giovani o ti offrivi come arbitro in qualche loro partita. Soltanto quando venivi a prendere le borse non potevi fare a meno di salutare i nostri ospiti. Ti limitavi a parlare di calcio, mentre raccoglievi le sporte o prendevi in braccio Miranda mezza addormentata. Anche se preferivo la spiaggia d’inverno, come la avevo conosciuto quel giorno della gita con lo chauffeur, il mare mi piaceva sempre molto. Ma il tuo fare scontroso e amareggiato, che sembrava rinnegare tutti e cercare volti estranei, mi avvelenava sempre un po' la gita. Una domenica, nell'attraversare la rotonda, incrociammo Giorgio. Ebbe la faccia tosta di farci festa: ti diede la mano, baciò mia madre, vezzeggiò Miranda; a me rivolse un “ciao” misero, ma soltanto mio. Io indossavo il costume di lastex che mi faceva sentire donna, ma Giorgio teneva per mano una bella brunetta. Quell'incontro ti rabbuiò e per tutta la sera giocasti a pallone, da solo, nel cortile. L’incontro con Giorgio aveva rimestato tutto il risentimento e la rabbia nei confronti di chi non credeva a quanto avevate patito e a quanti non erano tornati. Sognai di trovarmi di nuovo sola con te al mare sotto il faro. Ma il faro era crollato, sgretolandosi tutto, e tu

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mi chiedevi: "Credi che non ci sia più niente al di là del mare?" Io mi svegliavo sudata e con il batticuore. Ci pensò la vita, con i suoi imperativi, a

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strapparci da quella pace raggelata. Nell'arco di alcuni anni si consumò la diaspora di noi quattro. Anche se non si trattò propriamente di una separazione, ma di un allontanarsi come di aquiloni che, pur rimanendo ancorati a terra, nell'aria guizzavano in direzioni diverse. Mamma e Miranda da un lato e tu da un altro: il mio aquilone dondolava indeciso. Le zie si rigeneravano al riflesso della giovinezza mia e di Miranda: Miranda, da pupattola coccolata, si era trasformava in una bambina di speciale avvenenza; io in una ragazza con le sue cose. Condividevano e si addolcivano e non pensavano all’inganno che si celava giacché, mentre la vita, per tramite nostro, tornava a sedurle, il nostro tempo incalzava il loro. La prima fu zia Naida che ebbe un malessere mentre era al suo telaio da filet. Si mise a letto con una diagnosi un po' incerta, poi complicanze di reni e di fegato se la portarono via. Mia mamma disse che era rimasta orfana per la seconda volta perché zia Naida, che aveva vent’anni più di lei, le aveva fatto da madre. Il lutto fu rispettato secondo le regole anche se tu osasti dire che le gramaglie erano fuori uso e che il lutto si porta nel cuore e che quanto più si onorano da morti, tanto più è chiaro che non li si è amati da vivi.

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Loro tre, però, furono compatte come cornacchie e, di sera sul balcone della casa delle zie sotto le stelle, ripetevano: “De profundis clamavit…” Tu, nella nostra casetta, da quello scapato che eri, circuivi la Fortuna applicandoti al sistema perfetto. Io frequentavo la scuola media e studiavo il latino e dalla sala in cui assieme a Miranda giocavo senza parere e senza fare rumore per rispetto alla zia, mi lasciavo cullare dai suoni arcani di quella lingua. Fino a quando, ahimè, mi accorsi che capivo il significato delle parole che persero il fascinoso mistero dell’incomprensibile e misero a nudo la concretezza dell’assenza, del vuoto, della perdita: mi volsi verso il telaio di zia Naida che già era stato smontato e gli assi erano in un canto. Più volte la zia mi aveva proposto di insegnarmi a lavorare a filet perché, diceva, le mani delle ricamatrici, come quelle dei musicisti, vanno esercitate il prima possibile. Io avevo rifiutato ed ora non ricordavo il motivo di quel diniego. Era stato per lealtà verso di te? Eppure nei silenzi e nelle labbra serrate di zia Naida non c’era l’asprezza delle altre due, né disapprovazione verso di te. Era stato perché non mi giudicavo all’altezza? In effetti il telaio stesso, sapiente di antiche

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abilità, mi metteva soggezione. I pizzi che le mani della zia facevano fiorire sulla rete avevano una levità che induceva a dimenticare come essi fossero frutto di disciplina e precisione. Mi sarebbe piaciuto esercitare la stessa tenacia paziente fino a provare la vertigine della creazione di altrettanta bellezza, ma sapevo che per questo avrei dovuto distogliermi da te e dalla mia testardaggine nel volerti felice. Ed, ora, la morte irrisarcibile di zia Naida mi obbligava ad accettare che quell’arte se n'era andata assieme a lei e che nessuno della famiglia poteva ereditarla. Per la prima volta colsi il senso dell'unicità delle persone e delle cose che passano e non ritornano per una seconda volta. Le zie incamerarono tutti i lavori di lei per il corredo mio e di mia sorella e fui contenta che almeno il suo spirito riposasse in quelle belle tele che Naida aveva creato in attesa che le bambine della famiglia si facessero donne e prendessero il loro posto di spose. Questo pensiero mi confortò ancora di più dopo aver ascoltato il romanzo delle zie. Durante la veglia funebre, infatti, ero stata ospite di donna Rirì, mentre Miranda veniva allogata presso parenti più giovani. Con il trascorrere degli anni avevo smesso di frequentare con regolarità la bottega. Il gruppetto di compagniucci era traslocato

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verso i nuovi condomini. Gli studi richiedevano più tempo, e mia mamma aveva bisogno di me per accudire Miranda. E poi donna Rirì veniva spesso da noi come se avesse perso interesse per il commercio. Dunque tornai ad essere sua ospite per via di quella occasione triste. Sedevo nel tinello dove già era imbandita la tavola: avevo lo stomaco serrato perché il ricordo del corpo immobile di zia Naida quando l’avevo salutata mi bacava la testa. “Perché zia Naida è così pallida?” Donna Rirì mi guardò con un’espressione di pietà e disse: “Ho preparato un bel piatto di fave.” “I legumi non mi piacciono: a voi posso dirlo come invece non posso fare con mia madre!” “Eppure dovrai mangiarle per amore di Naida.” “Sempre ricatti!” Dissi io che con l’età avevo preso il coraggio di farmi valere: almeno fuori dalla famiglia. “Ha no! Voi che frequentate le scuole, pensate di sapere tutto: pensate che il mondo sia fresco di giornata; che ciò che è scritto sia più vero di ciò che non lo è e che pure circola nella testa delle persone! “ Si calmò per scodellare. “Per esempio, a scuola, ti hanno mai insegnato che le fave sono il piatto dei morti?”

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Smisi di rimescolare la minestra: non facevo commenti, ma l’espressione del mio viso parlava per me. “E’ così, ti dico! Tanto è vero che se una casa è visitata da un’anima in pena, è necessario e sufficiente camminare verso l’uscita, in piena notte, senza mai voltarsi e gettarsi alle spalle tre fave: una per volta. L’anima in pena si ferma a raccoglierle e così si ritrova fuori dall’uscio per sempre.” “Mi prendete in giro, donna Rirì? Sì mi prendete in giro. Siete troppo intelligente per credere alle superstizioni.” “Ecco che vorresti farmi un complimento! Ma io non ci casco: mangia le fave e vedrai come si aprirà il tuo cervello non soltanto per capire latino e matematica, ma per capire gli esseri umani.” Mi rivoltavo in bocca la prima cucchiaiata di fave che, a mio dispetto, era densa e saporita. La mia amica parlottava: “E mi chiede per giunta perché Naida sia così pallida! Come posso prendere sul serio una ragazzetta che ignora persino che i morti sono cadaveri!” Io scoppiai a piangere: di paura per il pallore dei morti, di dispiacere per non aver imparato il filet, di sconforto per la lontananza dai miei genitori proprio mentre mi misuravo con quella prima perdita.

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E di dispetto perché ora capivo che la mia amica mi aveva strapazzata con il proposito di farmi piangere giacché sapeva quanto sarebbe stato salutare. Infatti mi lasciò piangere senza freno mentre soffiava sulla minestra; quando le sembrò opportuno, si alzò dalla sua sedia e venne ad abbracciarmi sussurrando: “Stai meglio, ora?” Io facevo di sì contro il suo seno ed ero pronta ad un’altra cascata di lacrime per la felicità di avere un’amica così. Fortuna che lei disse: “Ha smesso di soffrire.” Fui così delusa da quelle parole ovvie che il pianto si bloccò e irritata ribattei: “E’ quello che si dice sempre di tutti! La zia non soffriva di nessun acciacco fino a quando le ha preso male ed è morta senza soffrire e aveva poco più di sessanta anni.” “Ma che ne sai tu delle sofferenze e delle sofferenze di una donna in particolare. Ti dico io che Naida ha sofferto tanto per tutta la vita!” Mangiammo la minestra di fave fino all’ultimo brodo. Allora donna Rirì cominciò a narrarmi il romanzo delle zie. “Zia Naida era bellissima! Lei e tua madre erano le più belle delle quattro. Io, che ho un paio di anni meno di lei, ricordo che quando compì diciotto anni, il rione le fece

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festa: era un vanto per tutti. Chi, dall’altro capo della città, veniva nella bottega dei miei genitori, finiva sempre con il domandare sue notizie e si spingeva fin sotto casa con la speranza di vederla. I giovanotti più esaltati immaginavano di dedicarle poemi; altri, più pratici, pagarono per lei serenate. Certamente se i vecchi fossero rimasti per sempre vecchi e i giovani per sempre giovani saremmo andati avanti così fino alla conversione degli ebrei. Ma i tuoi nonni, che erano stati sempre persone piacevoli e ben allogate in questo quartiere, vollero la torre di Babele. Quindi si ricordarono l’uno di essere caporeparto presso il dazio, l’altra proprietaria di alcuni terreni fuori città. Cominciarono a contare le pulci dei pretendenti e, per cominciare, scartarono i figli degli artigiani a quel tempo tanto numerosi nel rione. Naida non esprimeva le sue preferenze nemmeno a me che ero sua intima. Soltanto quando si intestardì a mettersi al telaio con le labbra strette capii che aveva represso qualche inclinazione. Per chi non lo seppi mai con certezza. Le mire dei suoi genitori si andavano chiarendo; la loro loggia dava sulla stesa corte su cui si affacciava un palazzotto gentilizio: baroni di cui non vale la pena che ti faccia il nome.

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Si trattava di un blasone decaduto: le rendite se le erano mangiate gli avvocati per una causa, una di quelle dispute su un oggetto da ereditare: un puntiglio, insomma! Il barone e sua moglie erano quasi all’indigenza, ma avevano il titolo ed un figlio. Certamente corsero discorsi tra le due famiglie e Naida si trovò fidanzata con il figlio del barone: Francesco. Erano una bella coppia ed il rione – se pur con qualche mugugno- si sentì meno offeso dall’essere stato respinto. Tutti capivamo che alla bellezza di Naida spettava un blasone. Anche tua zia dovette pensarla così perché trascurava il telaio.” Donna Rirì tacque e capivo che godeva a frequentare quei fantasmi quindi ascoltavo i suoi silenzi come fossero parole. “Sono quelle situazioni in cui ogni cosa sembra andare al suo posto infischiandosene di dove il caso ha sbatacchiato l’uno o l’altra: il titolo di lui era un riconoscimento al rango che la bellezza dava a lei. Negli incontri a cui presenziava, assieme alle altre due sorelle- tua madre non era ancora nata- qualche amica intima come me, vedevamo che gli sguardi di entrambi si appannavano, i volti si accaldavano, le mani divenivano irrequiete. Capivamo, senza bisogno di studi, che si

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struggevano di passione. Anche noi spettatrici rischiavamo di esserne travolte. Fortuna che d’estate tua nonna faceva passare acqua e anice o acqua e limone, e così i sensi di tutti si acquietavano…” Donna Rirì iniziò a sparecchiare ed io le diedi una mano. Lei rigovernava ed io portavo i resti del cibo ai gatti che miagolavano per strada. La bottegaia ricoprì il tavolo del tinello con la tovaglia di damasco. Io rimisi nel centro il vaso di Boemia. “C’era troppa armonia!” tentennava il capo e parlava come se fosse da sola. Poi si ricordò della mia presenza: “C’era troppa armonia- ripetè- perché qualcuno non ci soffiasse sopra invidia. Francesco si ammalò. Ricordo il primo colpo di tosse… il primo che gli sfuggì durante una visita alla fidanzata. Credemmo che la limonata gli fosse andata di traverso. Invece mancò la visita successiva e la baronessa, da una loggia all’altra, parlò di un forte raffreddore. Per fortuna era una polmonite! Dico per fortuna perché in quegli anni si era scoperta la penicillina che ne salvò di malati!” “Allora guarì? Francesco, il figlio del barone, guarì?”

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“Ma che! Non te l’ho detto prima? La scienza vale fin quando il destino glielo permette. Ma quando il destino non vuole non c’è scienza che tenga. In quel caso: o che il male fosse troppo radicato, o che i medici non sapessero ancora dosare la penicillina non ci fu la guarigione. Francesco morì. Nel rione passò di tutto: dalla disperazione a qualche soddisfazione subito frenata -perché siamo tutti sotto il cielo e Dio non voglia… siamo madri anche noi!- L’armonia si era infranta come uno specchio forbito e lucido fino ad un secondo prima.” “Povera zia!” Forse era da quel gran dolore e non dalla morte che veniva il pallore del suo cadavere. “Povera, sì. E poveri baroni che avevano perduto il loto erede. Quando andavano in cimitero sembravano pupazzi a cui qualcuno aveva dato un po’ di corda. Povero Francesco.” “Povero!” Feci eco io rabbrividendo al pensiero che la morte non rispetti giovinezza e passioni. “E non avendo più a chi lasciare il palazzo se non i parenti con cui erano in lite, decisero di affittarne una parte. Non si può negare che la disgrazia migliorò le loro condizioni economiche. La baronessa si comportò da vera signora: fece

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visita ai tuoi nonni e chiese di incontrare Naida da sola. No so cosa si dissero: fatto sta che la baronessa donò a Naida lo zaffiro di famiglia che Francesco avrebbe dovuto regalarle il giorno del fidanzamento ufficiale. Noi amiche, che eravamo accorse per confortarla, trovammo Naida che ricamava con foga ed i movimenti facevano baluginare la gemma sulla sua mano. Le quattro parole di conforto ci morirono in bocca di fronte a lei, alla sua bellezza privata del titolo, alla sua condizione indefinibile: né fidanzata, né vedova. L’ho sentita con queste orecchie tenere testa a tua nonna: Naida voleva prendere il lutto, ma i suoi genitori non lo permisero. “L’anello sì perché provava che i due giovani si erano parlati per un lungo periodo ed intesi. Il lutto no! Altrimenti si sarebbe potuto supporre che tra loro ci fosse stato qualcosa di carnale. Naida si rimise al ricamo e al filet ed accettò l’ordinazione di un intero corredo! Credo che si sentisse tutt’uno con la sposa di cui filava le trine. La sua abilità divenne proverbiale e ci furono ordinazioni di altri corredi. I tuoi nonni non sapevano come prenderla: se l’arte diventa merce persino l’artista diventa volgare, ma d’altra parte se questo serviva a togliere dalla mente di Naida quella fissazione

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del lutto occorreva dargliela vinta. Estrella, che era nata con il bernoccolo degli affari, pensava lei a piazzare i corredi. Renata orlava. Tutti, nel rione, sentivamo quell’aria pesante: Naida che tesseva e ricamava come una forsennata corredi di altre spose come se fossero il suo che doveva ultimare con urgenza. Il rione si sarebbe abituato ai due genitori in lutto con i loro andirivieni dal camposanto: sono disgrazie che capitano. Ma Naida ferma come un’apparizione al telaio nello scintillio dello zaffiro incrinava quel dolore legittimo con uno sberluccichio di follia! Anche i tuoi nonni sentirono che era inopportuno restare qui con il palazzo di Francesco di fronte ad impedire a tua zia di dimenticare. Vendettero i terreni di tua nonna al paese e comprarono la grande casa dove da allora hanno vissuto le tue zie. Fu così che nacque tua mamma: ricordalo, Cosetta, quando una donna giovane cambia casa è facile che rimanga incinta. E pensare che poi tua mamma in questo rione c’è ritornata sposando Palmiro.” “Sarà per questo che mio padre non va a genio alle zie?” Donna Rirì non rispose e si mise a ridere: “Vedi che cominci a ragionare con la tua testa? Man mano vai comprendendo quello che non è

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scritto su nessun libro.” “Per questo zia Naida è rimasta da sposare?” “Giudicherai tu alla fine: bella come era ebbe subito altre proposte e si fidanzò.” “E Francesco?” “Cosa vuoi che gliene importasse a Francesco: i morti stanno con i morti. Per cacciarli via ricordati delle fave!” “E l’anello, e i suoceri baroni?” “Insomma fammi dire, prima che la memoria si confonda. “Un giovane d’avvocato la chiese in moglie. Giovane perché sbrigava pratiche per il titolare dello studio, e perché non aveva conseguito la laurea, ma già avanti con gli anni. Tanto fece e disse che Naida nascose lo zaffiro e accettò una fedina di rubini. I tuoi nonni erano sorpresi da quella fortuna di avere un genero che potevano chiamare “l’avvocato”. E, soprattutto, la ragazza di nuovo innamorata non parlava più di gramaglie. Per lo meno, da come le brillavano gli occhi, ho creduto che fosse innamorata. Le brillavano persino quando il moroso le proibì di ricamare per conto di altri. Doveva essere soltanto un passatempo signorile, niente di mercenario. Lei rideva in silenzio di quegli ordini che erano prova dell’amore ardente e disinteressato del moroso e si sottometteva all’autorità di lui.

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Erano una bella coppia.” Concesse donna Rirì, ma c’era perplessità mentre lo ripeteva. “Ba’! Chi può conoscere quello che passa nella mente degli altri?” “E poi?” La bottegaia si riprese: “E poi? Scoppiò la guerra: non quella di tuo padre; una guerra in Spagna e l’avvocato che aveva le sue convinzione partì volontario.” Tacemmo fino a quando decisi di rubare a donna Rirì il ruolo di cantastorie: “Quindi arrivò una comunicazione, una busta gialla come le lettere di mio padre che diceva chiaro e tondo che l’avvocato era morto.” “Una comunicazione dalla croce rossa.” “E siccome ne arrivavano ogni giorno di notizie così, la faccenda non fece l’effetto che aveva sortito la morte di Francesco.” “Sì e no. Non in se stessa, ma perché era il secondo moroso che Naida perdeva tragicamente.“ “Che fine fece la fedina di rubini?” “Andò a fare compagnia allo zaffiro, credo. Per i tuoi nonni fu un colpo peggiore del primo anche perché si andava creando intorno a Naida una diceria malevola. Era sempre bella, anche se di una bellezza matura, ma so di giovani che non hanno osato farsi avanti per timore di incappare in un maleficio.”

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Tuo nonno era a pena andato in pensione dal dazio quando morì a causa di quella brutta fama che come una zecca si era attaccata alla figlia. Così restarono le cinque donne a barcamenarsi con la pensione di reversibilità. Ma ti ho detto che Estrella aveva il bernoccolo degli affari e già lavorava come modista; si sa che un negozio è come un porto di mare e lei raccontava di sua sorella maggiore e della sua sfortuna. Ma aggiungeva che quella sfortuna era legata ad un errore di tempi: Naida aveva cominciato a lavorare al suo corredo prima ancora che le venissero le sue cose: troppo presto, dunque! La malasorte aveva avuto il tempo di farci il nido. Ma ora che quella era insediata lì, gli altri corredi ricamati da Naida ne sarebbero stati preservati. La leggenda spacciata da Estrella piacque, la gente cominciò a dimenticare e così tua zia si ingolfò nei ricami e nel filet. E che guadagni! Sarebbero bastati quelli per permettere alla famiglia una vita agiata. Renata l’aiutava, ma non aveva la passione di apprendere, né il gusto e si limitava ad orlare lenzuola. Prima che tua nonna morisse cominciò a frequentare la casa un parente, Alfonso, cugino in primo grado.

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Aveva lasciato il paese ed era venuto a vivere in città. Un uomo per casa, si sa, dava sicurezza alle cinque donne e Alfonso diventò assiduo nelle visite e nel portare le primizie della sua proprietà. Scherzava con Renata, ma osservava l’altra al telaio. E più osservava Naida, meno scherzava con Renata. Tua nonna capì che era ancora Naida ad attirare in casa un moscone. E intanto anche Prisca si era fatta signorinella e i mosconi le giravano intorno. La povera donna fu travolta da quel turbinio e, insomma, decise di morire. Estrella venne da me: forse persino lei non se la sentiva di affrontare altre speranze e delusioni; forse tornare nel rione in cui tutto era iniziato le dava coraggio; forse mi voleva partecipe o complice. Insomma mi mise a parte del suo piano: -Dirò al cugino Alfonso che senza la presenza di nostra madre, le sue visite ci compromettono. O smette di venire o sposa una delle due. Io per me sono contenta senza l’uomo. Il negozio di soddisfazioni e di buon tempo me ne offre anche troppi! Sto bene schietta! Tu, Rirì mi puoi capire: siamo della stessa pasta. Non ti sembra ben fatto?

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Tocca a me che sono un po’ l’uomo di casa: Renata è troppo buona e Naida tropo… troppo…- Si morse le labbra e se ne andò senza che io avessi detto né sì, né no. Tornò dopo una settimana con il viso scuro: -L’avresti immaginato? Alfonso dice che ama Naida non soltanto per la bellezza, ma anche per la sua arte ed i suoi silenzi. Alfonso vuole Naida. Pensa tu: da dove le avrà prese un paesano come lui certe espressioni? Che faccio? Che dici Rirì?- “Le risposi che quindi non c’erano problemi!” -Ma ti pare giusto? Ancora Naida, sempre Naida e sì che i suoi anni comincia ad averli! Dovrò ammettere l’esistenza di poteri occulti? Io che me ne ridevo! Io che so fare girare il soldo! Questo Alfonso mi ha spiattellato che insieme hanno eluso la sorveglianza di mamma per andarsene in giro, da soli, a prendere il gelato e ai giardini pubblici e, quindi sa di essere ricambiato. Ti pare decente?- “Io le risposi che erano troppo avanti con gli anni perché qualcuno si scandalizzasse nel vederli insieme: l’avranno certamente scambiati per due sposi non più giovanissimi. Estrella, però, non mi ascoltava:

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-In fondo viene dal paese e non sa tutto quello che è accaduto per causa di Naida. E’ un dovere metterlo al corrente. Non pensi?- “Parlando, parlando le si era disegnato in testa un piano. Raccontò ad Alfonso per filo e per segno e con qualche aggiunta fantasiosa le vicende tragiche dei precedenti fidanzamenti. Mise in piazza la finezza di Renata, le sue qualità domestiche; insomma seppe fare il gioco delle tre carte e Alfonso si trovò fidanzato a Renata. Credo che a Naida il cuore le fu trapassato dalle sette spade dell’Addolorata. Non soltanto perdeva l’innamorato, ma doveva vederselo sotto gli occhi ogni giorno a braccetto con sua sorella.” “Povera zia Naida! Avrei voluto sapere tutta questa faccenda prima: sarei stata più gentile con lei e avrei accettato di imparare a ricamare.” “Credo che furono tutte quelle sofferenze e misteri che saturarono il mondo al punto che dovette scoppiare la seconda guerra mondiale. Intanto, forse per via della stretta parentela, non vennero figli e Renata incolpava il malocchio di Naida. Fino a quando Alfonso si stufò e se ne andò anche lui all’altro mondo.” “Fu allora che zia Naida chiuse le labbra così forte e divenne taciturna?”

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Donna Rirì non rispondeva a tono e continuava: “Certo è che quando tua madre si fidanzò con tuo padre, e poi lui dovette andare in guerra, avrà temuto che tutto si ripetesse tale e quale. Ma niente si ripete tale e quale perché ciascuno ha la sua stella.”

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TERZA STAZIONE

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Prisca, dopo la morte di Naida, si recava ogni giorno a casa delle sue sorelle per consolarle e aiutare Renata che con le faccende non era

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mai stata abile. Per semplificare tutto Miranda fu iscritta alla vicina scuola privata. Prisca e Miranda tornavano a casa nel pomeriggio. Io terminata la scuola, ti aspettavo da donna Rirì. Tu passavi di là a prendermi e scambiavi qualche parola con lei che ti burlava: "Ah sei proprio nato per fare il pascià: Prisca ti avrà lasciato una buon pranzetto prima di andare a fare la stessa cosa per le sue sorelle ed ora Cosetta te lo riscalderà." Tu ridevi sollevato perché donna Rirì aveva un modo tutto suo di scherzare senza ferire e dicevi educatamente: "Favorite, donna Rirì." "Grazie no." Rispondeva lei che capiva benissimo che lo dicevi per pura cortesia; e una volta te lo rinfacciò apertamente: "Favorite, ma non venite! E' vero Palmiro? E sì che posso vantarmi che tua madre mi ha trattato come una sorellina; frequentavo la sua casa quando lei era ragazza, quasi quanto ora Cosetta la mia bottega. Non sei superbo, sei solo timido e se ti viene qualcuno per casa non lo sai trattare". Anche allora ridesti arrossendo, per essere così scoperto e ti decidesti a farle delle confidenze: "La verità è che ho un impegno grosso.

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Domandatelo a Cosetta se non è vero che studio. Anzi ho bisogno di quaderni nuovi e penne come si deve. Ne avete?" "Accidenti: è il mio mestiere." Entrammo nell'emporio: tu ti aggiravi tra gli scaffali e sceglievi quaderni e penne come uno studente affetto da grafomania. Io mi compiacevo di Porfirio che gracidava dalla sua gabbia innervosito dalla tua presenza e ascoltavo quello che, infervorato, andavi spiegando alla padrona del citrato: l’eterna ricerca del sistema che ci avrebbe dato in preda ad una smodata ricchezza. Ti lagnasti dei tuoi soci di puntate che procedevano con troppa prudenza. E fremevi perché avresti voluto sciogliere la società e puntare da solo una grossa somma. "Vedrete, donna Rirì, vincerò la somma che mi cambierà la vita da così a così." La nostra amica fece segno di sì con la testa. Osservando Porfirio immaginai che noi due assieme al pappagallo formassimo un numero di artisti di strada. Anche il circo, infatti, pur nel suo nomadismo, non faceva per noi che non volevamo mescolarci a nessuno perché ci sentivamo sempre o troppo in alto o troppo in basso e così non riuscivamo né ad atterrare, né a prendere quota all’unisono con gli altri. Quindi percorrevamo il mondo con il pappagallo

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variopinto che ci indicava la strada come la colomba nelle edicole che da bambina mi facevano da posta. Di tanto in tanto ci saremmo fermati in luoghi in cui nessuno ci conosceva né ci riconosceva. Avremmo montato una tenda e subito si sarebbe diffusa la notizia del mago del totocalcio che dispensava sistemi infallibili. Accadeva quindi che tu permettevi ad altri di vincere ricevendo piccoli compensi che ci permettevano di continuare a girovagare giacché non so quale sorte ti aveva condannato a non vincere mai. Mi riscuotevo e scacciavo quella perversa fantasticheria. Non credevo ad una tua vincita epocale o semplicemente non pensavo che essa sarebbe stata sufficiente a liberarti? Intanto ti eri fornito dell'occorrente ed io decisi di portare da noi, finalmente, Porfirio. Donna Rirì ti disse: "In bocca al lupo." Io presi finalmente la gabbia con il pappagallo e tornammo a casa. La vita scorreva così: Prisca e Miranda se ne uscivano ogni mattina per andare nel rione dalle zie. Io nel pomeriggio, quando le lezioni me lo permettevano, facevo la spola tra le due case. Tornavo per darti una sbirciatina, ma potevo stare tranquilla perché tutto il tempo libero dal

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lavoro ti immergevi in quella certosina e paziente registrazione dei risultati delle partite. La domenica mi svegliavo già pensando alle schedine e al sistema. Nel pomeriggio niente ti smuoveva: trascorrevi quelle ore attaccato alla radio, controllando tutte le schedine. Siccome Porfirio gracidava e tu ti innervosivi, imitando la mia amica, gettavo sulla gabbia un panno che tacitava il pappagallo. A volte salivo sulla rampa di scale del primo terrazzino a leggere, ma sempre con l'orecchio teso ad ascoltare le parole che tu gridavi: "Rete! Goal!" In genere riportavi qualche vincita di poco conto, giusto sufficiente a riprendere le spese. Nel rione si parlava di quella novità: conoscenti, forse resi edotti da donna Rirì riguardo al tuo progetto, si mostravano incuriositi. Nessuno però riusciva a comprendere le basi matematiche del tuo sistema e quando sbirciavano in casa nostra si limitavano a domandare: "Che fa Palmiro al totocalcio?" "Pizzica." Avevo imparato a rispondere io. Le vincite significavano i materassi a molle che sostituirono quelli di crine e di lana e l'orologio Longines che avevi acquistato per te e un paio di orecchini d'oro per mamma. Erano tutte occasioni che ti mettevano di buon

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umore sia perché dicevi che "tanto va la gatta al lardo..." sia perché quei piccoli flash di benessere, proprio in quegli anni in cui si affermava il miracolo economico, di cui erano espressione le famose cooperative e le prime cinquecento, toccava anche noi. Quando andavamo a trovare le zie, loro esaminavano i nostri acquisti approvando laconicamente. Vollero ricomprarci i materassi di lana e di crine che erano dote di famiglia. Ma facevano di tutto per darti scarsa importanza dedicandosi a vezzeggiare Miranda che era la loro cocca. Mi chiedevo se, prima di darvi a spendere, aveste saldato i debiti che inevitabilmente continuavate a contrarre con loro. Una volta volesti festeggiare al “Bar Lux”. Anche in questo caso dovesti faticare a convincere Prisca che, a sei mesi dalla morte di zia Naida, non aveva ancora smesso il lutto. Mamma era reticente e ripeteva: "Che cosa diranno? Che ho già dimenticato mia sorella che pure mi aveva fatto da madre? No, non posso." "Ma in fin dei conti, non siamo morti con lei! Guardati: hai preso il colore delle pareti; e Miranda poi e Cosetta? Ed io? Cosa ti costa farci contenti?" Sospirando mamma si decise a dirti di sì e ci

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recammo nel locale. Il "Bar Lux" si era ingrandito e non era più un bar con un angolino per il forno a legna, ma una vera pizzeria. Prisca, nonostante i suoi scrupoli, mangiò di gusto: nel movimento della testa tra i riccioli neri si vedeva il lampeggiare degli orecchini d'oro: mai mia madre mi era sembrata tanto bella. Tu accarezzavi il tuo Longines. Io trattenni il respiro perché, per un istante, percepì la felicità di quella mattina d'estate, nel parco, che si riaffacciava, riprendeva forma, trasmutava ogni cosa. Poi mamma osservò: "Un uomo che indossa un orologio di quella marca non dovrebbe fare il fattorino, ma il ragioniere: ah se dessi l'esame per il diploma!" E subito l'aura della felicità si ritirò. Tuttavia Prisca si limitò a quel rimprovero e tu non la prendesti di petto e così la serata andò avanti garbatamente anche se mi sembrò che la pizza non avesse il sapore che aveva avuto quella sera in cui mi avevi portata lì, invece che al cinema, per incontrare la tua setta di amici giocatori. Fu una bella serata, ma non reggeva il confronto con quella mattina di qualche anno prima nel parco rosso di sole nascente, piena della dolcezza dei wafer e dell'assenza della paura.

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Di lì a poco sembrò che la sorte ti voltasse le spalle e cessarono anche quelle piccole vincite. Ora sbuffavi quando qualche conoscente passava da casa a chiedere: "Hai pizzicato, Palmiro?" Eri incupito e fumavi senza interruzioni: il rumore della molla del posacenere era il termometro del tuo malumore. Infine avesti un'idea: "Secondo me- dicesti parlando con mia madre che piegava il bucato con il mio aiuto- si tratta di quel maledetto nero che indossate a portarmi male." Mia madre scoppiò a piangere: "Sei un turco, un miscredente! Come puoi pretendere che io non porti il lutto per la povera Naida che mi ha fatto da madre?" Tu comprendesti di aver passato il limite e ci voltasti le spalle restando di fronte ai vetri della finestra con le mani nelle tasche. Quella notte io, invece, rivoltandomi nel sommier pensavo: "E se avesse ragione zia Estrella che ha chiamato Porfirio uccellaccio del malaugurio? Sarà è a causa sua che papà ha smesso di vincere? Se è così occorre che lo porti via. Povero Porfirio e povera donna Rirì se sapesse." Il pomeriggio successivo, mentre tu eri immerso nel sistema, alzai la testa dai libri e dissi a mia

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mamma: "Sono stanca di prendermi cura di Porfirio. Mi fa schifo pulire ogni giorno la sua gabbia." Mia madre mi guardò: "Te lo avevo detto che l'impegno toccava a te. Io ho già tanto da fare con Miranda, la casa, le mie sorelle." Mi guardò come se sospettasse che non le dicevo tutta la verità: "Come mai questo cambiamento? Sembravi così affezionata al pappagallo; e Miranda si diverte tanto." "Regaliamolo" Insistevo io. "E donna Rirì? Come faremo a portarlo via sotto i suoi occhi? "Sceglieremo un momento in cui non ci vede." E quando si accorgerà che non c'è più, cosa diremo?" "Non lo voglio più." Ripetevo con ostinazione perché quanto più mia madre cercava di farmi ragionare tanto più io mi confermavo che Porfirio, con il suo brutto verso e con quello che diceva di lui zia Estrella, fosse la causa della tua sfortuna al gioco. "Insomma Cosetta tu lo hai avuto in regalo e tu devi decidere. Bada poi di non pentirti." Tu compilavi le schedine con meticolosità volgendomi- mi sembrava- la tua nuca in attesa della mia indecisione.

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Mia madre mi guardava con compassione e Miranda mi seguiva ovunque. "Dunque cosa aspetti!?" Diceva la parte di me che si era votata a te. "Ma cosa dirò a donna Rirì? Non vorrai mica tirare il collo a Porfirio?" Rispondeva l'altra parte di me. La tua nuca non mi aiutava ed io ero vicinissima alle tue spalle e speravo che ti voltassi verso di me con la faccia di Dean Martin e la risata di Jerry Lewiss. Ma non accadeva e rimanendoti alle spalle guardai, come se le vedessi per la prima volta, i quadratini del quaderno su cui raccoglievi i risultati delle partite, ma non vidi che le linee nere che si incrociavano come delle grate. Possibile? Ancora una volta, come anni prima con la scacchiera, esprimevi il lager. Oppure era il carcere in cui continuavi a vivere per via delle tue cognate ? L’elenco di ciò che la vincita al totocalcio avrebbe dovuto pagato si allungava: c’era sempre la casa nuova, le pendenze con le cognate che pagavano ora la retta per Miranda, e il viaggio di ritorno verso i luoghi della tua prigionia con Giorgio e tutti gli altri. Questa idea, intuizione o immaginazione che fosse, mi diede la forza di decidermi. Un pomeriggio, in cui eri a lavoro, in casa c'eravamo solo mamma, Miranda ed io.

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Passai un po' di tempo a spiegare tutto a Porfirio con il solo fissarlo. Mi sembrò che egli mi parlasse con la voce di donna Rirì: "Per me fai pure. Io credo che tu ti sbagli, ma da parte mia non fa differenza perché sono stanca di stare in vostra compagnia. Stanca, sì, perché sono una femmina anche se mi chiamate Porfirio." Feci un cenno a mamma che staccò dal chiodo la gabbia. Prisca prese in braccio Miranda, io presi la gabbia con Porfirio. Passammo davanti all'emporio: fortuna che la saracinesca era abbassata! Pensai che tutto era favorevole al mio tradimento. Ed io che avevo immaginato di girare il mondo con te e con Porfirio... Giungemmo in periferia che era il crepuscolo. Non era più la bella periferia dei primi anni del dopoguerra, quella fatta di ruderi e cespugli di fiori di cappero e margheritoni gialli: quella era stata ormai cancellata dall'espandersi della città. Al suo posto era sorto un quartiere anonimo a cui soltanto la presenza dei gatti randagi dava una certo calore. Aprii la gabbia e afferrai il pappagallo, ma fu questione di un attimo: già alcuni gatti facevano

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la festa al povero Porfirio mentre io e mamma, esclamavamo inorridite e Miranda scoppiava a piangere. Abbandonammo la gabbia e ritornammo indietro tutte e tre scosse. Possibile che Prisca avesse scelto a bella posta quel luogo pieno di gatti? A sera tu non facesti caso all'assenza di Porfirio. Miranda, che doveva essere rimasta assai impressionata dallo spettacolo del povero uccello divorato dai gatti, fissava il chiodo a cui era stata appesa la gabbia, ma, per fortuna, era troppo scossa per raccontare ed il segreto della fine raccapricciante di Porfirio fu conservato. Al mattino sentii mamma parlare con donna Rirì: spiegava come, mentre ripuliva la gabbia l'avesse lasciata aperta e Porfirio fosse volato via. Donna Rirì, da quella buona persona che era, mi aspettava per dirmi qualche parola di conforto: "Vedrai che tornerà! Porfirio non ama la libertà: tornerà." Insisteva di fronte alla mia tristezza: "Cosetta, tornerà... o te ne regalerò un altro." Corsi via. Non potei fare caso se l'uscita di Porfirio dalla nostra vita avesse rimesso in moto per te la ruota della fortuna perché Miranda ebbe un malore che ci spaventò moltissimo.

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Mia sorella, che da qualche giorno sembrava un po’ abbacchiata, mostrava difficoltà a respirare. Vi vedevo vagare per casa, in attesa del medico mentre Miranda respirava affannosamente ed emetteva sibili. Nei vostri andirivieni vi affacciavate nell'ingresso in cui c'era una grande immagine del Cuore di Gesù. Capii che avevate paura di perdere Miranda ed io pensai al barone Francesco e ai morti giovani. Il medico venne e visitò la piccola. Terminata la visita, egli si lavò le mani nella bacinella smaltata e mamma gli versava l'acqua dalla brocca e gli porgeva l'asciugamano di lino. Mi sembrava un cerimoniale che rendeva ancora più serio il malessere di Miranda. Mamma aveva detto che il nostro gabinetto non era abbastanza decoroso per un medico. Aspettavamo la diagnosi ed io per tenere a bada la paura mi concentravo sul bel telo con gli intarsi di zia Naida: chissà se il dottore aveva apprezzato quella finezza! Egli però continuava a tacere: sedette e prese il ricettario, scrisse il nome delle medicine e finalmente ci comunicò la diagnosi: "Si tratta di asma. Questa casa è molto umida." Indicò le grandi macchie di muffa che sembrarono incombere minacciose sul letto di Miranda.

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“Insomma un ambiente del genere è sconsigliabile per la malattia della piccina. " Poche parole che cambiarono l'assetto familiare. Le zie, vennero a sera per prendere notizie di Miranda. Se zia Renata piagnucolava, zia Estrella ti tenne testa in nome della salute di Miranda: "Il dottore ha ragione: la casa è umida." "La imbiancherò." Rispondesti tu. "La muffa verrà fuori di nuovo." "Sono vecchie case con tanta parietaria attorno e con il fumo delle tue sigarette dentro... occorre che Miranda viva in una casa asciutta e arieggiata." Ecco che i capelli ti si increspavano per il dispetto. Estrella prese un tono più accomodante: "Almeno per un po' potrà stare da noi. Questi vai e vieni tra casa nostra e qui la affaticano ulteriormente.” La faccenda andò così: Miranda con i suoi giocattoli e con il suo corredo e mamma si trasferì definitivamente dalle zie. A sera, quando chiudevi il portone che separava il cortile dalla strada, mi domandavo se era Miranda ad averci abbandonato o noi. In principio tu, quasi a ribadire la tua paternità sulla piccola che ti sembrava ti avessero tolto, ti recavi a trovarla ogni sera. Devo riconoscere che facesti ogni sforzo per

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mascherare il disagio che ti ispiravano le tue cognate: le salutavi compitamente e ti dedicavi tutto a Miranda. Miranda ci mancava e in quelle mezze ore tentavamo di ripristinare il nostro legame, temendo di estraniarci. Mamma si rendeva conto delle amarezze e disagi che la situazione ci aveva creato. La sua natura pratica aveva pronta la soluzione ed una sera ti disse che la casa delle zie era talmente grande che potevamo benissimo trasferirci tutti da loro. Tu rispondesti che volevi rifletterci e Prisca ti lasciò del tempo. Tuttavia sera dopo sera ti guardava in modo espressivo con qualche accenno di impazienza. La decisione fu preceduta da un nuovo attacco del tuo esaurimento: l’inizio dell’attacco era sempre il medesimo: semplicemente al mattino te ne rimanevi a letto invece di andare a lavoro. Solita prassi, solita diagnosi, stesse iniezioni a cui ora provvedeva Prisca stessa che aveva imparato da donna Rirì. E dopo se ne andava a cuor leggero dalle sue sorelle. Tu, allora, ti alzavi e giravi per casa in pigiama con i capelli irti, con la barba incolta e osservavi la muffa, ed annusavi l’aria. Tornavi poi ad infilarti nel letto e fumavi dispettosamente. Benché quel tuo periodico rifiuto della vita non

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ci impressionasse più, mi domandai se non fosse il caso di pregare per la tua salute mentale. Ero un po’ incerta sulla mia innocenza, ma mi sembrò ben fatto recitare il padre nostro in greco: ora frequentavo il ginnasio e la preghiera era stato il primo brano imparato in quella lingua. Passò il solito lasso di tempo; quindi, fosse merito delle iniezioni o il potere del greco, riprendesti ad alzarti e ad uscire. Apparivi proprio in ottime condizioni: sereno ed attivo. Notammo che frequentavi meno i tuoi quaderni come se anche quella fissa del sistema avesse concluso il suo ciclo. Io, però, ero vigile e mi aspettavo un altro dei tuoi tiri: infatti facesti, a nostra insaputa, tutti i passi che occorrevano per cambiare di nuovo lavoro. Ti eri ormai pienamente ristabilito quando Prisca volle farti la sorpresa di portare Miranda a trascorrere un giorno intero con noi. Era passato un bel po’ dall’ultima volta che l’avevi vista. La piccina, però, appena entrò in casa si abbracciò strettissima a Prisca: teneva il volto affondato nell’incavo del suo collo, tanto che mamma dovette quasi strapparla da quella posizione. E anche allora Miranda se ne stette con gli

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occhi bassi. Ci guardavamo desolati. Mamma la incoraggiava ripetendo: “E’ il tuo papà, Miranda! Tua sorella Cosetta!” “Andiamo a fare un giro della casa.” Le dissi dandole la mano. “Ti ricordi che qui tenevamo l’otre con i sottaceti? Ti piacciono ancora?” Lei sorrise. “E’ brava mamma a fare buoni mangiarini, vero?” “E’ più brava mamma o zia Renata?” Andavo sul sicuro perché sapevo che zia Renata non era speciale in nulla. Infatti Miranda rispose: “Mamma!” Dopo quella risposta la piccina prese coraggio. Continuando il giro arrivammo di fronte al chiodo della gabbia di Porfirio. Mia sorella si fermò pensierosa, poi guardò me e Prisca e di nuovo il chiodo, ma non disse nulla. Possibile che il ricordo della fine cruenta del pappagallo fosse svanito? Pensai che fosse più probabile che anche Miranda, crescendo, avesse imparato a tenere i segreti. Dopo il giro per la casa, dopo che le ebbi raccontato, con le dovute omissioni, del rinfresco tenutosi per il suo battesimo non c’era più molto da dire e finimmo col giocare a fiori , frutta, città.

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Tu eri mortificato della reazione della piccola e rimproverasti Prisca: “Bella idea che hai avuto: per mia figlia sono un estraneo!” Prisca lo ricambiò con uno sguardo di rimprovero rivolto alla sigaretta che fumava: “Impara piuttosto a rinunciare a qualcosa per il bene di Miranda! Sai che il fumo per lei è veleno!” Spegnesti subito la sigaretta ed uscisti: fu un’assenza brevissima: il tempo di tornare con quattro gelati confezionati. Fu una benedizione perché, occupati a mangiare, non davamo l’impressione che non avessimo niente da dirci. Miranda finalmente si lasciò coccolare e vezzeggiare da te fino a permetterti di tenerla in braccio. Infine le facesti fare cavalluccio sulle tue ginocchia. "Arri, arri cavalluccio. Ma che cavalluccio tesoro mio, in treno ti porta il papà, in treno. Vuoi venire in treno con me, Miranda? Il treno che fa tu-tu-tu." "Tu-Tu-Tu." Ripeteva Miranda, tutta contenta. "Assieme a Cosetta e a mamma. Vero mamma che ci vieni anche tu in treno con me? Le famiglie dei ferrovieri hanno i biglietti gratis.

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Lo sapevi?" Mamma, che si era messa a stirare, sollevò gli occhi: "E cosa c'entriamo noi con i ferrovieri?" Tu ridesti la tua risata fanciullesca e accattivante: "Altro se non c'entriamo! Sono diventato ferroviere!" La signora del limoncello ti guardò con tanto di occhi mentre tu continuavi compiaciuto: "Oramai ero stufo di correre come fattorino sotto padroni giovani che non hanno rispetto! Così mi sono dato da fare; ho letto del bando del concorso in ferrovia, mi sono presentato e ho vinto. Ora sono a tutti gli effetti un dipendente delle ferrovie della sud-est." Eri proprio fiero di te. Prisca, invece, strinse le labbra, staccò la spina del ferro, prese Miranda tra le sue braccia, mi baciò e fuggì. Fuggì letteralmente, mentre tu la richiamavi indietro. Fu in questo modo che per la seconda volta ci annunciasti il tuo cambiamento di lavoro. Eri entrato nelle ferrovie locali. D'altra parte questa novità ne portò con sé un’altra: la decisione di accettare l'invito delle zie di andare a vivere da loro. Così avevamo e davamo l'impressione di riunire la famiglia.

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In realtà i turni del tuo nuovo lavoro ti consentivano di abitare con noi, ma di vivere per conto tuo. Il peso del trasloco e dei saluti dal quartiere in cui avevo abitato per quindici anni toccò tutto a mia madre e a me. Quando salutai donna Rirì, fui sul punto di rivelarle la verità sul pappagallo, ma pensai che non se lo meritava, tanto più che si prodigò a farmi coraggio con la sua bella filosofia: "E' così cara mia: la vita è cambiamento! Non si deve mica rimanere attaccati agli scogli come un'ostrica. Alla tua età, poi, sarebbe una colpa grave! Ora ti sembra di morire dalla nostalgia, ma piano, piano ti passerà e riderai di te stessa che pensavi di trascorrere tutta la tua vita seduta sui sacchi dei coloniali. E poi non vai mica su un altro pianeta." Baciò mia madre: "Verrò a trovarvi. Devo proprio ripassare con tua sorella Estrella due, tre cosette. Non me lo ricordo più. Ah la testa! Fra poco i fornitori mi potranno derubare a loro piacimento." "Non credo proprio donna Rirì: avete una testa tagliata per gli affari.- Rispose mia madre ricambiando commossa il suo bacio- Venite a trovarci quando volete. Anche voi, però, potreste rinnovare il vostro

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esercizio. Adesso attirano i locali moderni." "Ci saranno sempre poveretti che non hanno il coraggio di entrare nei locali moderni e si sentiranno sollevati nel frequentare il mio. Questo fino a quando anche i poveri non giocheranno a fare i ricchi e vi dico che andando avanti così, arriveremo a vedere persino questo. Per lo meno lo vedrà chi vivrà. Ma io, grazie a Dio, non sono eterna. Arrivederci carissime." E se ne andò a servire qualche avventore.

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QUARTA STAZIONE

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Tu in quel continuo movimento da una stazioncina all'altra del Salento sembravi riprendere gusto alla vita.

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La novità ti animò come era accaduto quando avevi cambiato lavoro la prima volta: anche il gioco, a cui dedicavi ore di silenziosa applicazione, che ricordava quella di zia Naida al telaio, ti dava di nuovo soddisfazione Nella grande casa della famiglia di mia madre avevamo per noi due camere da letto ed un altro piccolo locale: là studiavamo Miranda ed io e tu cincischiavi con i tuoi quaderni per poi chiuderli sotto chiave. Quando Prisca raccontò senza malizia alle sue sorelle la tua precauzione, quelle sghignazzarono in modo che persino mamma ne fu mortificata: “Per carità, non lasciatevi sfuggire che ve ne ho parlato!” Zia Estrella non si frenava ed, essendo l’uomo della famiglia, era la più feroce: “Ma cosa crede di tenere chiuso a chiave? L’ingresso del pozzo di San Patrizio?” Zia Renata: “Sorella mia, che matrimonio ti è toccato! Che testa bislacca! Sembra che si diverta a cambiare in peggio! Si può proprio dire che non hai avuto fortuna nel matrimonio!” Io sbottai: “Care zie, voi, che avete esperienza di matrimoni combinati, voi sì che potete giudicare!” Ero consapevole del peso delle mie parole che

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attingevano forza dal romanzo delle zie. Le zie, infatti, si volsero verso di me: Renata con la faccia risentita, Estrella come una vespa: “Cosa significa questa uscita? Ragazzina, dico a te, cosa vai pensando! Per difendere tuo padre sei pronta ad inventare di tutto! Ah c’è da stare sicura con una così in casa: finirà per mandarci in carcere!” “Per carità!”- ripeteva mia madre e non sapeva più a cosa riferirsi- Per carità! Fate conto che non vi abbia detto niente!” “Sì, sì: prega di qua, prega di là, ma intanto insegna l’educazione a questa qui che è tutta suo padre.” “Me lo avete detto tanto tempo fa che sono tuttasuapadre! Ed eccovi che vi ho accontentato!” “Cosetta, ti prego!” disse Prisca “Taci! Fallo per me!” Io ero come presa dal piacere di irridere tutto ciò che le zie giudicavano sacro ed inviolabile e così risposi: “Sì, sì lo faccio per te, per Miranda, e per zia Naida!” Strizzai persino l’occhio ad Estrella così che capisse che sapevo tutto; forse ne sapevo più di mia mamma che mi guardava meravigliata. Ciascuno si ritirò: le zie in cucina da dove si sentivano giungere come in un diapason toni da sommessi ad acuti.

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Nello studiolo Prisca fingeva di aiutare Miranda nei compiti, ma mi sbirciava. In realtà non ero contenta di me stessa: donna Rirì non mi aveva raccomandato il segreto, ma soltanto perché quelle robe intricate di famiglie composte soltanto di donne lo richiedono per intrinseca natura. E comunque era stato meschino rivangare vecchi torti a cui non c’era più modo di rimediare. Mi dissi che lo avevo fatto per zia Naida per testimoniare che sapevo quanto avesse patito e che non era giusto che con la sua morte tanto dolore fosse dimenticato. Forse perché avevo quindici anni ebbi la malizia di pensare che la mia amica potesse aver esagerato qualche tratto del romanzo di Naida. Magari per distrarmi da quella notte di veglia funebre e dal pallore dei cadaveri. Visto la baraonda accaduta, pensai che era preferibile lasciare lo studiolo tutto a te. Miranda ed io ci trasferimmo nella grande cucina il cui tavolo saldo e rettangolare offriva spazio per i miei vocabolari. In conseguenza ad attriti vecchi e recenti, tu ed io abitavamo con le zie come fossimo a pensione. Tu pranzavi a casa di rado; dicevi che la mensa ferrovieri aveva orari più comodi per i tuoi turni.

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Prisca, però, non ti credé e strinse le labbra quasi come quelle di zia Naida: tanto che per la prima volta scorsi la somiglianza tra voi due. Ed intanto pensavo: “Non so perché mamma se la prenda tanto per il nuovo impiego di papà.” Immaginavo la figura che dovevi fare nella divisa di ferroviere con il cappello! E poi sentivo che quel lavoro si adattava alla tua inquietudine. Non avevamo seguito i circensi, non eravamo diventati la fortunata attrazione assieme a Porfirio, ma avevi ritenuto che scegliere di essere controllore nella sud-est fosse ciò che più somigliava a quelle condizioni. Io attendevo una tua mossa: come mi avevi condotta al mare con lo chauffeur, al bar Lux per gli appuntamenti della sisal, come avevamo nascostamente girovagato per Lecce la sera che avevi sbagliato film, certamente avresti voluto condividere con me la nuova condizione. Mentre aspettavo che tu decidessi, studiavo latino e greco. Infatti un giorno mi portasti a fare un giro sul treno locale. Avevi progettato un piccolo itinerario turistico che aveva come meta Otranto. L'orario del treno e del tuo servizio di controllore si incastrava in modo che noi potessimo permetterci una sosta di un paio di ore. Ero eccitata all'idea di visitare un'altra città ed in

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particolare quella che, dalla storia e dalla religione, mi veniva incontro colma di bellezza e di violenza. Ero impaziente di arrivarci, ma anche il viaggio in sé mi prese. Il treno era una littorina con le panche di legno e vi sedevano persone che noi cittadini individuavamo subito, per i modi e gli abiti di chi è vestito a festa a sproposito, e che schernivamo con il nome di cafoni. Io però pensai alle figurine di un presepio: qui la vecchietta che portava uova, origano e basilico al mercato in città. E là lo storpio che faceva il pendolare per e dal capoluogo per l'accattonaggio; e ancora l'uomo che teneva galline starnazzanti a testa in giù e ora parlava loro con tenerezza, ora le sbatacchiava perché non era riuscito a venderle. Altri si lamentavano per le lunghe attese negli uffici della città per sbrigare pratiche. Altri, ancora, erano un po' taciturni e compitavano le ricette dei medici che avevano consultato. Tu eri sempre gentile con i viaggiatori e davi tutte le informazioni che ti chiedevano anche quelle che non avevano a che fare con il treno, ma a cui eri in grado di rispondere grazie all'esperienze acquisite nei tuoi precedenti lavori. Quando i passeggeri capirono che ero tua figlia,

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dalle frequenti sbirciatine che mi venivi a dare, mi coccolarono in tutti i modi. Si informavano sui miei studi e mi dissero che sarei diventata senz’altro un’avvocatessa. Poi mi chiesero del resto della famiglia ed augurarono ogni bene a mamma e a mia sorella. Io vantai il limoncello di Prisca e subito ne nacque una gara mangereccia: chi offriva un mandarino, chi biscotti fatti in casa o una pagnotta con il salame. Io non sapevo se accettare; intanto presi nota delle dosi e dei segreti che una campagnola mi confidò per ottenere un limoncello superlativo. Un ragazzo, che aveva brontolato per tutto il viaggio contro la lentezza del treno, vantando la velocità delle auto, mi offrì una gomma da masticare. Io ero cresciuta nel timore, istillatomi da donna Rirì, che le gomme da masticare si incollassero all'intestino e che richiedessero una dolorosa asportazione. Per questo al ragazzo dissi: "No, grazie." Quello si offese, lasciò il suo posto e si addossò al corridoio del treno mettendosi in mostra ogni volta che dalla gomma faceva venir fuori un palloncino. Scendemmo ad Otranto ed iniziammo il nostro giro con un po’ di affanno per via dell'orario del treno di ritorno, su cui tu dovevi riprendere

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servizio. Fuori dalla stazione ci accolse una fitta vegetazione di oleandri con il loro bouquet in cui si mescolava una nota dolciastra con quella della salsedine. La cittadina era gentile e tranquilla con la sua fisionomia levantina appena, appena intaccata dai primi negozi a catena che con il tempo si sarebbero visti ovunque. Ci fermammo presso un bar-tabaccheria: ci sedemmo all'esterno perché la giornata di fine aprile era già calda e mi offristi la prima granita di limone della stagione. "Ti assicuro che le grattate di donna Rirì sono migliori. Chissà se ancora ne prepara." Ma nell'insieme parlammo poco: gustavamo la granita e guardavamo il sole abbagliante e i pescatori che lavoravano le reti contro lo sfondo del mare smeraldino. I loro movimenti impercettibili erano in sintonia con il loro silenzio. Ci guardarono di sfuggita come si fa quando giungono forestieri fuori stagione, ma subito tornarono al loro immobile travaglio. Quando ti sembrò che ci fossimo goduti abbastanza la granita e la vista pittoresca, chiedesti al ragazzo del bar di indicarti la strada per la famosa cattedrale. Ci incamminammo. C'era un chiarore insolito per me: il chiarore tipico delle contrade d'oriente che avrebbe

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dovuto rendere acuta la vista, ma, al contrario, ci costringeva a procedere con gli occhi socchiusi per l’insopportabile barbaglio cosicché la cittadina, apparentemente aperta, finiva con il negarsi: la luce, invece che denudarne ogni angolo, sembrava nasconderla in un bozzolo soffuso. Il vento di scirocco faceva la sua parte e noi danzavamo a casaccio in quel pulviscolo dorato e quasi ci convincevamo di essere divenuti invisibili. Forse non c’erano ancora i cartelli gialli per i turisti o in quell’abbaglio non li vedemmo. Io percepivo ostilità in quegli eccessi di luce, scirocco e silenzi. Per strada non incontrammo nessuno come se gli abitanti fossero tutti in quel manipolo di pescatori e nel bar. Immaginai che come un popolo di albini gli idruntini si fossero rintananti nelle case al riparo della luce. Infastiditi da quei due turisti fuori tempo avevano tirato a sorte per stabilire chi dovesse mostrarsi per recitare la parte degli abitanti soltanto per noi. “Ci smarriremo?" Ti domandai eccitata da quella evenienza. "Be' se sono tornato a piedi dalla Germania a Lecce..." Ci avviammo per una stradina stretta e in salita che costeggiava il fabbricato di una chiesa.

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Voltato l’angolo,infatti, la cattedrale in persona con il rosone e il portale butterati dal vento e dal tempo si presentò. All'interno c'era una tale penombra che, seduti su uno scanno, dovemmo attendere un po' per abituare la vista provata dal dominio indiscusso di sole. Il pavimento pieno di bozze faceva da cimasa a quello della navata centrale interamente ricoperto da un unico mosaico. Lo costeggiammo ed io che avevo la vista migliore ti indicavo: “Ci sono due date,1163-1165, e dei nomi ben evidenziati dalle tessere in nero: Guglielmo il Malo, Arcivescovo Gionata, prete Pantaleo.” Man mano che la vista si assuefaceva e le candele di tutti gli altari, che prima non avevamo notato, dardeggiavano, distinguevamo meglio ogni cosa. Ciascuno di noi due comunicava all'altro, a bassissima voce, quello che scorgeva del mosaico. Tu: "Quello è l'albero del bene e del male." "Sì. Ci sono Adamo ed Eva scacciati dal Paradiso terrestre." "Mostri con due teste… pesci che ingoiano uomini… addirittura un asino arpista!" Tutta la storia dell'umanità era raccontata attraverso figure umane bibliche e storiche, o vegetali e animali fantastici.

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"Ecco l'arca di Noè, e la torre di Babele!” "Quelli sono certamente dei re per via delle corone… " "Là c'è un poveretto quasi nudo che ha come bastone un tau e aspetta di fronte alla porta del Paradiso.“ “Chi sarà?" Qualcuno tossì discretamente e scorgemmo alle nostre spalle il prete della cattedrale: "Scusate, avete bisogno di qualche chiarimento? Ho giusto terminato di leggere il breviario e ho un po' di tempo per farvi da guida, se volete. In questa stagione non siamo abituati ai turisti. D'estate, invece, ne vengono a frotte e allora, all'ingresso della cattedrale, collochiamo dei foglietti con le informazioni sull’architettura e le spiegazioni del mosaico.” Fece una piccola pausa, si guardò attorno e poi ci confidò: “Le spiegazioni che possiamo dare… s’intende… Perché , come sapete, e se non lo sapete ve lo dico io, i sensi delle scritture sono quattro. E queste immagini altro non sono che una scrittura.” "Grazie- dicesti tu- non abbiamo molto tempo, ma mi farebbe piacere che mia figlia ricordasse questa giornata non solo per la gita, ma anche per la sua cultura: frequenta il quinto ginnasio, sapete…"

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Il prete continuava come se non fosse stato interrotto. "Insomma qui avete di fronte un’enciclopedia! Questi simboli vengono da civiltà diverse. Bizantina: vedete là Alessandro Magno; francese-normanna, ecco re Artù. Araba, notate le scritte in arabo che ornano quei grandi corni che si chiamano olifanti; ed occidentale con la sua rappresentazione dell'inferno e del paradiso." Mentre il sacerdote parlava, noi lo seguivamo ed egli ci portò verso l'abside divisa in tre navate. Quella di sinistra rappresentava i tormenti dell'Inferno e la beatitudine del Paradiso. “Vedete che effetti terrificanti che esprimono questi peccatori e che sguardi estatici mostrano i beati! L’artista doveva essere un mezzo pagano! Non poteva immaginare che un Dio intollerante che si bea a distribuisce pene e premi. Avrete certamente notato le date in cui è stato steso il mosaico: sappiate che è stato completato esattamente un secolo prima della nascita di Dante, il sommo poeta! E’ noto che egli sentì parlare di questo mosaico lontano ed ogni volta che si metteva all’opera per la sua Commedia, non riusciva a procedere per la smania di conoscerlo. Un angelo, quindi, prese Dante tra le ali e lo condusse fin qui dove l'attendeva prete

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Pantaleo che lo aveva ideato e che ne conosceva tutti i sensi. Prete Pantaleo indicò ogni cosa al poeta che in tal modo ebbe l’autorità ed il sostegno del mosaico per affrontare la mole della Divina Commedia. Senza il mosaico di Otranto, la Commedia non esisterebbe. “ Fece un’altra pausa godendo dell’effetto che le sue parole sortivano in noi. Quindi riprese: Per me quello che conta è il senso anagogico e, poiché il mosaico si legge partendo dall’altare maggiore fin giù all’uscita, ebbene il senso anagogico dice che la salvezza è fuori dalla chiesa!” Il prete si fregò le mani e aveva una bella faccia furba e serena. Io non ero abbastanza addentro per capire la portata inquietante della conclusione della sua omelia e tu non abbastanza interessato. Infatti domandasti: "Cosa rappresenta quell'uomo mezzo nudo con il bastone a forma di tau che bussa e bussa alla porta del Paradiso?" "Ah ecco! Non per nulla si dice che la funzione di questo mosaico sia quella di uno specchio: l’attenzione di ciascuno si ferma sull’ immagine con cui più ci si identifica! E allora vi dirò che si tratta di Dismas, il buon ladrone.

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Pentitosi, è accolto in cielo, secondo la promessa di Cristo. Siete dunque un buon ladrone!” Il prete continuava a godere delle proprie parole e del nostro stupore e gli ci volle un po’ di tempo perché capisse la tua perplessità: “Non preoccupatevi: non vi sto dando del ladro perché debiti e crediti non sono quelli che intendono i commercianti.” Neanche questo sembrava averti tranquillizzato tanto che il prete si sentì in obbligo di aggiungere: “E soprattutto debiti e crediti non sono nei confronti di Dio, ma degli altri uomini! Dio, per sua intrinseca natura non è interessato a castigare. Forse, signore, non vi sembra giusta questa faciloneria di Dio al perdono?" Il prete rise sommessamente non so se su di noi o sulla faciloneria di Dio. Tu assentisti. "Riflettete bene: di fronte all’Infinito cosa volete che siano le nostre buone azioni? Scarabocchi che Lo inteneriscono come una mamma di fronte a quelli del suo bimbo. Ed il male che noi facciamo lo ha già messo in conto quando ci ha creato liberi. Vi assicuro che Lui è pazienza infinita perché aspetterà fino alla fine che, di generazione in generazione, l’uomo scopra la stupidità del male che ci procuriamo gli uni gli altri.

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Questa è la fede, fede nella pazienza di Lui! E per questa fede sono vissuti o sono morti tanti martiri sconosciuti o conosciuti come questi... seguitemi." Noi esitavamo per via dell’ora che incombeva. "Venite- insisté il parroco - vi mostrerò." Ci condusse ad un altare laterale: le teche erano tutte aperte ed egli si fece da parte aspettando, rispettosamente, la nostra reazione di fronte allo spettacolo del biancheggiare di decine di teschi e di ossa ammassate. "Sono i resti di circa ottocento persone di ogni età; i martiri che, presa Otranto dai turchi, non vollero abiurare la fede cristiana: la fede nella pazienza di Dio.” Rise nuovamente: "Guardate la pietra sotto l'altare. Vedete che ha una macchia scura al centro? E' la pietra su cui furono decapitati i martiri. Quella macchia è la traccia del loro sangue. Ora vi dirò la cosa più sorprendente. Lo stesso boia barbaresco, alla vista di tanta fede nella pazienza di Dio, abbandonò la sua fede in un dio intollerante, si fece cristiano all'istante ed affrontò il martirio. E volete che Dio non lo abbia accolto? Eppure le sue mani grondavano ancora del sangue delle sue vittime! Ma erano gli stessi martiri che Lo forzavano, se ce ne fosse stato bisogno, a mostrare fin dove giunge la Sua pazienza e, quindi, fin dove deve

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giungere la nostra che poi è l’altro nome del perdono. Nostro Signore lo ha simboleggiato con la sua morte e risurrezione. Pietrificati dal peccato possiamo riconquistare un cuore umano attraverso il perdono. E che ne sappiamo noi di quello che può passare nel cuore degli uomini più efferati? La condanna di molti di questi uomini terribili consisterà forse nel non poter chiedere il perdono alle loro vittime, nel tormento di non poter disfare il male compiuto. E gli altri, le vittime, perseverando nel loro rancore, nel compiacersi delle proprie ferite non si trasformano a loro volta in carnefici?" Il prete parlava con passione e con gioia e tu osservasti: "Ce n'è stata di sofferenza a questo mondo, in tutti i tempi!" Il prete si fece più vicino e ti toccò su una spalla: "Forse ora vorreste confessarvi?" Mio padre fece cenno di sì con la testa e accennò ad incamminarsi verso il confessionale, ma il prete si sedette su una panca e ci invitò a fare lo stesso. Dunque mi sarebbe toccato anche fare da testimone alla tua confessione? Mi sembrava che fosse lo stesso che volerti annusare le mani, di notte. Ma si trattò di una confessione in cui tu non

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parlasti. "Ascoltatemi, buon ladrone, la vostra colpa sta nel vantare crediti, mentre siete debitore! Che cosa aspettate ad azzerare i debiti e a condonare i crediti? Dopo vivrete in pace." Guardò l'inclinazione del sole: "Ora devo andare. Parlate di questa cattedrale, del mosaico, dei martiri, della fede nella pazienza di Dio." "Grazie, padre! Padre? Il vostro nome?" "Mi chiamo Pantaleo.- Sorrise vedendoci trasalire-Ah ma non sono quello. E' un nome molto diffuso in questa zona." Dopo che se ne fu andato compimmo un altro giro nel perimetro della cattedrale ed uscimmo nel sole così abbagliante da farci dimenticare che esso è soltanto una stella. Prendemmo una stradina al cui fondo brillava il mare. Ci sporgemmo dal parapetto lasciandoci bagnare dall’acqua delle onde che sbattevano contro i frangiflutti. In quel luogo, la bellezza e la signoria degli elementi era tale che male e odio apparivano remoti ed incomprensibili pesi. Quando salimmo sul treno mi lasciasti in uno scompartimento e fingesti che il lavoro di controllore ti assorbisse troppo per fare qualunque commento su quanto avevamo condiviso.

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Compimmo altri viaggi in giro per il Salento: il Salento accidioso come un gatto che si lecca al sole le sue belle forme. A volte qualche collega, che risiedeva in uno di quei paesetti, ci invitava a pranzo ed io conobbi famiglie normali senza cortei di zie che inquinavano la loro vita. Spesso ricevevamo regali in natura che variavano a seconda delle stagioni. Così tornammo a casa con rami di pesco e orecchiette fatte in casa, con pomodori e zucchine, con melanzane ed angurie, con fichi ed uva. Mamma sorrideva vedendoci arrivare con quelle innocenti regalie, ma le zie continuavano a mostrare noncuranza. Conoscemmo tanti preti di campagna con una passione erudita che ci fecero da guida tra le chiese rupestri. Ma uno come padre Pantaleo non lo ritrovammo più. Io cercai, come avevo fatto anni prima per il cinema, di darti una mano a convincere mamma a compiere qualche gita, assieme a te, in treno. Ma questa volta non la spuntammo. Prisca, nonostante le mie vivaci ed entusiastiche relazioni su Otranto e la sua cattedrale a cui aggiungevo, man mano che mi venivano in mente, particolari coloriti riguardanti le figure del mosaico, non si lasciò

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mai convincere. "Per ora non posso -replicava- c'è Miranda, la casa, il pranzo da preparare." Quello che mi colpiva era l'accorgermi che le sue non sembravano scuse, dovute a scrupoli, che accampava prima di concedersi quel piacere, ma appariva distratta, estraniata oramai dalla tua vita e dai tuoi interessi. Era forse un estremo lampo di protesta nei confronti del cambiamento di lavoro? Io, però, capivo anche lei: la morte prematura dei suoi genitori e le ristrettezze, dovute alla tua cattiva amministrazione, avevano creato in Prisca un grande bisogno di stabilità che quanto più tu eludevi, tanto più lei cercava, ritornandosene in seno alla famiglia d'origine. Da parte tua sfuggivi il clima sempre tanto pedante e pieno di rimbrotti, creato dalle zie, il loro trattarti con sufficienza, specialmente da quando eri diventato ferroviere, ferroviere della Sud-est! Per questo assieme al resto della famiglia ti trattenevi non più di una volta alla settimana, adducendo sempre i tuoi turni, i tuoi orari, la mensa. Un pomeriggio d’agosto, dopo la controra, Prisca, Miranda ed io sedevamo nel terrazzino ventilato annesso alla grande cucina. Estrella e Renata preparavano in cucina la limonata cosicché io mi misi a pensare al baronetto Francesco.

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Ma le zie ci chiamavano dentro: sul tavolo c’erano alcune scatoline. Scatole ricoperte di marocchino rosso con la chiusura a scatto: mi sarebbe piaciuto fare collezione di scatole simili. Erano scatoline da gioielleria dei primi del ‘900 teneramente usurate che conservavano della loro funzione un che di mollemente disfatto come di cuscini destinati a sostenere languidamente ogni voluttà. Parlò zia Estrella che oltre che l’uomo di casa era donna di mondo: “Ecco ragazze, -si rivolgeva a noi nipoti- abbiamo pensato che ora, che Cosetta sta per compiere diciotto anni e Miranda va per i dieci, sia venuto il momento per dividere tra voi due i gioielli della povera Naida. Siccome era la maggiore ebbe due catene d’oro della bisnonna materna, due bracciali da quella paterna; e due anelli: uno zaffiro e una fede di rubini!” Ci passava le scatole con i preziosi; il rosso delle catene rivelava la loro caratura; i bracciali semirigidi erano di fattura più moderna e poi gli anelli. Ecco che avevo di fronte il famoso zaffiro che il barone Francesco non aveva fatto in tempo a vedere sulla mano della morosa; e la fedina di rubini dell’”avvocato” morto combattendo con i franchisti. Di fronte a quei gioielli tacevamo affascinate un

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po’ per via della gazza che ogni donna ha in sé, in parte per l’alone magico che circonda un oggetto prezioso che attraversa il tempo. Io avevo più ragioni delle altre per tacere: ero intenzionata a non provocare più zia Estrella. Forse le parole di prete Pantaleo avevano ancora un effetto lenitivo. Forse ero troppo turbata nel vedere e toccare gli anelli di fidanzamento di zia Naida; anelli che per me facevano parte di una leggenda sontuosa a cui inaspettatamente, nella notte di veglia funebre, ero stata messa a parte. Quanto più Estrella aveva sorvolato sulla loro provenienza, tanto più dovevo dare credito al racconto della padrona del citrato che pure avevo sospettato di esagerazione. Zia Renata, intanto, giocherellava con il suo, un brillante, dono del cugino Alfonso, ed io pensai che anche quello avrebbe dovuto essere di zia Naida. Quasi che mi avesse letto nella mente, zia Renata disse: “Cara Cosetta, non te ne avrai a male se il mio brillante lo donerò a Miranda quando compirà diciotto anni: sono la sua madrina!” “Purché non ci dorma la sorte!” Mi sfuggì involontariamente come suggeritomi da qualcuno, ma subito mi corressi: “Certo, zia Renata! E’ giusto così perché Miranda è la tua figlioccia. Non preoccuparti per me.”

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Estrella non me la fece passare liscia: “Ma come parli? Che sciocchezza hai detto sulla sorte che dorme? Si sente che hai bazzicato per troppo tempo la bottega di donna Rirì: sono frasi da vecchia ignorante e superstiziosa. E sì che frequentando il liceo dovresti esserti liberata dalle sue scempiaggini così come hai fatto con Porfirio!” Mi tenni quella stoccata: capii che Prisca aveva raccontato alle zie la vera storia della fine di Porfirio. Le buon intenzioni iniziali erano svanite e anche i postumi della controra pacificatrice. Ora le zie erano sulle spine per via della mia uscita infelice che aveva smosso ricordi e dispetti. “Dunque.” Ricominciò Estrella. “Facciamo questa spartizione e non se ne parli più.” Mia mamma: “Tocca a Cosetta scegliere perché è la maggiore.” Estrella e Renata si scambiarono uno sguardo come se tra loro ci fosse un’intesa. I modi naturali di Prisca, invece, mi davano la certezza che lei era all’oscuro di gran parte del romanzo delle zie o, per lo meno, ignorasse come il terzo pretendente fosse stato sottratto a Naida per le macchinazioni di Estrella. “E sia!” concesse Estrella mentre teneva sott’occhio lo zaffiro dei baroni.

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“Se volete il mio consiglio di esperta di eleganza non ci vuole molto a capire che il rosso dona alle more; l’azzurro sta alle bionde. Io la vedo così: i rubini che sembrano chicchi di melagrana per grossezza e lucentezza,- guardate che intensità- staranno a pennello sulla carnagione ambrata di Cosetta! Non puoi negare, Prisca, che Cosetta ha i tuoi colori! E Miranda con la pelle chiara e gli occhi verdi di Palmiro si “accontenterà” dello zaffiro. Io la penso così. Però fate voi!” Zia Renata faceva di sì con la testa come un’alunna diligente. Prisca cominciava a capire che c’era sotto una qualche manovra per assegnare a Miranda l’anello con lo zaffiro e si rivolse a noi: “Voi cosa ne pensate, ragazze? Intanto ringraziate la generosità delle zie e dite una preghiera per l’anima di zia Naida.” “Non lo so.” Disse Miranda che per via dell’età era poco interessata. “Non lo so.” Dissi io che volevo lo zaffiro. Estrella si inalberò: “Allora via tutto! Rimettiamo tutto nei cassetti e ne riparleremo quando capirete il valore di questi gioielli che vi avevamo offerto. Tanto per i diciotto anni di Cosetta ci vogliono ancora mesi!” Così tumultuosamente si concluse quel pomeriggio di lasciti.

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Naturalmente fu una faccenda tra noi donne di cui tu non sapesti niente. O mi sbagliavo? Forse Prisca a letto ti avrebbe raccontato tutto, forse ti avrebbe confidato certi sospetti. Oppure eravate oramai troppo estraniati? Quando eri a casa raccontavi le notizie che raccattavi dalla provincia e che riguardavano la viabilità in enorme sviluppo in quegli anni; parlavi di strade regionali, di superstrade, di ponti, di sottopassi, del progetto di doppio binario tra Bari e Lecce. Parlavi anche dell'orario ferroviario: grazie alla tua versatilità matematica avevi elaborato un tuo piano che avrebbe permesso di migliorare il servizio della sud-est. Aspettavi l'occasione per farlo avere al dirigente. I tuoi discorsi suscitavano un tale interesse che zia Renata sospirava annoiata, alzando gli occhi al cielo, mentre zia Estrella faceva osservazioni a mezza voce con sarcasmo, senza mai guardarti apertamente e intramezzandole con altre sul cattivo funzionamento dello sciacquone del bagno o sulla serranda del salotto che si era bloccata, quasi a sminuirti ulteriormente. "Sì?" Davvero! Figuriamoci se il dirigente leggerà quelle scartoffie o le prenderà in considerazione. Ci vogliono fior di ingegneri per cose così."

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Quindi tu tacevi mortificato e non ti rimaneva che ingolfarti nel mangiare: visto che, almeno formalmente, ti trattavano da capofamiglia e ti servivano per primo i bocconi migliori, ti toglievano i piatti rapidamente da sotto il naso e mamma ti sbucciava la frutta. Tu, alla fine di quei rari pasti in famiglia, baciavi Miranda e ti rivolgevi a me dicendo in modo complice: "Mi raccomando, eh!" Salutavi le sorelle, compresa Prisca, che oramai era sorella più che moglie e scappavi a lavoro o a rinchiuderti nel tuo sgabuzzino. Quello era il tuo regno: mettevi fuori i quaderni e le schedine e ti immergevi nel sistema. Le domeniche libere le trascorrevi ad ascoltare la radiocronaca delle partite dalla nostra vecchia radio il cui occhio giallo mi ricordava le serate dell'infanzia e la scacchiera... Che fine aveva fatto? E subito mi ricordai anche della tovaglia a punto rinascimento tanto curata da mamma. L’aveva poi terminata e conservata? E se fosse accaduto come per il corredo di zia Naida? Ah ma quelle erano stupidaggini di una notte di veglia funebre. Forse Prisca l’aveva venduta a qualche cliente che era venuto chiedere i ricami di zia Naida.

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QUINTA STAZIONE

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n occasioni delle festività erano invitati Giorgio e sua madre, cognata di zia Renata.

Alcune volte Giorgio si presentava con la sua innamorata che, però, non era più Lidia, la brunetta con cui l'avevo visto sulla rotonda. La prima volta quell'invito mi scombussolò non

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tanto per la vista di Giorgio, ma perché temevo che succedesse un altro quarantotto come il giorno del battesimo. Io impallidivo e arrossivo per l'ansia e quei segni furono notati cosicché le zie si convinsero che ero sempre innamorata di Giorgio. Benché ciò mi seccasse, preferivo attirare la loro attenzione su di me, purché non ti schernissero per via del viaggio in Germania. Ma erano passati dieci anni e nessuno mostrò di ricordare più le minacce e le promesse apocalittiche di quel pomeriggio. Anzi fu proprio Giorgio ad interessarsi alle novità della viabilità, del doppio binario, dell'orario e tu potesti avere una volta tanto un interlocutore giacché le zie non intervenivano in quei discorsi da uomini. Tra le altre cose Giorgio disse: "Per me, con tutte le macchine che ci saranno in giro, le ferrovie scompariranno. Sai, zia Renata, ho in progetto proprio l'acquisto di un'automobile." L'annuncio suscitò scalpore e ammirazione tra le zie che si sbracciarono ad esaltare quella testa quadrata di Giorgino. Giorgio acquistò la macchina e venne a farsela benedire da don Antonio sotto casa. Volle chiamare l'auto Fernanda come la sua nuova ragazza. Zia Renata osservò: "Si vede che è una cosa seria: io dico che

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questa se la sposa." E mi guardò con un sorrisetto. Io arrossii per il dispetto che mi procurava l'idea che i miei familiari fossero convinti di sapere tutto della mia vita sentimentale; il mio rossore, però, non fece che confermarli in quella idea. L 'acquisto dell'automobile da parte di Giorgio suscitò anche nelle zie il bisogno di averne una: Zia Renata: "Oggi come oggi una famiglia non può farne a meno." Zia Estrella: "Smetteremmo di tornare dalla spesa cariche come muli." E ti guardavano: "Tu, Palmiro, non prenderesti la patente? Ad acquistare l'automobile provvediamo noi..." "Io? Con i miei orari non posso promettere niente... e poi grazie al mio lavoro giro tanto in lungo e in largo tutta la provincia che dopo ho bisogno di starmene tranquillo." La faccenda restò sospesa tra i sospiri delle zie. Io ti guardavo andare via inforcando con grande energia la tua vecchia bicicletta e pedalavi, pedalavi come volando libero. Di lì a poco riportasti un tuo trionfo, grazie ad una vincita che ti permise di acquistare un televisore. Tutti i locali di elettrodomestici ne esponevano ed io facevo in modo di uscire con Miranda per

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fermarmi a guardare la tv dei ragazzi attraverso la vetrina. Nei locali, come bar e sale cinematografiche, si raccoglieva la gente di fronte all'apparecchio televisivo. Con quell’acquisto noi anticipammo e sorprendemmo gli amici. Ora nella casa delle zie arrivavano parenti e conoscenti per assistere agli spettacoli televisivi. A te interessava poter seguire solo gli avvenimenti sportivi e ti mostravi generoso lasciando l'apparecchio per il resto del tempo agli altri. Zia Renata dovette ammettere che, almeno, la televisione non presentava i rischi dell'automobile e fece mille raccomandazioni a Giorgino. Comunque toccò proprio a lei la malasorte: ebbe un "colpo" che le lasciò la parte sinistra un po' offesa. Gli impegni di mia madre divennero ancora più gravosi perché dovette assisterla. Zia Estrella era andata in pensione dal suo lavoro di modista, ma non si sentiva portata ai sacrifici familiari e decise che a lei sarebbe toccato il compito di portare Miranda in giro nelle varie stazioni termali per curare la sua asma. Ogni estate zia Estrella partiva con Miranda e ci mandavano delle bellissime cartoline.

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Il mese di ferie per te divenne una vera tortura anche perché coincideva con la sospensione del campionato di calcio. Avrei voluto che la nostra scacchiera rispuntasse: io avrei finto di non saper giocare a dama e tu mi avresti insegnato. Io continuavo a rinserrarmi tra le mie letture mentre tu eri alle prese con le parole crociate. Per via di quel nuovo passatempo la casa riecheggiava delle domande che mi rivolgevi: "Uno orizzontale, Cosetta: l'eroe della saga dei Nibelunghi." "Sigfrido." "Otto verticale, Cosetta ascolta: il volatile oggetto di ricerca di un famoso romanzo." "L'uccello azzurro." "Il paladino celebrato per la sua pazzia." "Orlando." "Ehi sei proprio brava! Le hai imparate a scuola tutte queste cose?" "Ho letto tanti libri da quando ho iniziato a leggere, non solo quelli di scuola. Non ti ricordi che in prima elementare mi regalasti tutte le serie della Scala d'oro?" "Senti questa: cittadina italiana la cui cattedrale è celebre per il mosaico. A questa sappiamo rispondere tutti e due." - Otranto- dicemmo all’unisono. E subito il pensiero corse a padre Pantaleo, alla sua conversazione dotta e pia; al consiglio che ti aveva dato.

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Io mi ero avvicinata alle tue spalle per sbirciare l'enigmistica e vidi ancora una volta linee nere che si incrociavano come tanti anni prima sulla scacchiera e dopo sui tuoi quaderni del lotto. "Senti quest'altra e, se rispondi esattamente, ci andiamo a comprare un gelato: famoso scultore del neoclassicismo nato a Possagno. Be'? " "Canova." Ti accorgesti che ti ero alle spalle: "Allora andiamo a comprare il gelato. Tu leggi di meno, però, e divertiti di più. Uscimmo alla ricerca di un bar aperto o del carrettino dei gelati. Erano le primissime ore del pomeriggio d'agosto e tutta la calura spadroneggiava nella città deserta incalzando ogni sbavatura d'ombra: non c'erano locali aperti né il gelataio ambulante. La pietra ocra, in cui erano stati costruiti chiese e palazzi barocchi, esalava un fiato arroventato come fosse stato il respiro stesso di quegli esseri grifagni che reggevano le colonne tortili. Cosicché mi sembrò che la città, nell'abbandono estivo, fosse più minacciosa che in piena notte. Ma tu allontanasti le mie fantasie dicendomi con un’espressione furba : "Non immagini dove andiamo." L'emporio di donna Rirì aveva la saracinesca abbassata a metà e sapevamo che la nostra amica d’estate si limitava a ritirarsi nel

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retrobottega dove aveva una brandina. Tu insistesti a bussare finché la signora del citrato non venne ad aprirci. "Tarde non furono mai grazie divine!" Ci accolse così con una di quelle citazioni dotte che chissà da dove attingeva. "E' questo il momento di venire a fare visita, finalmente, ad una vecchia vicina? Ne avete avuto di faccia tosta!" Tu non parlavi ed eri un po' imbarazzato, così ti venni in soccorso: "Anche voi, donna Rirì, non vi siete fatta viva e avevate promesso..." "Ma figlia mia, non vedi come mi sono fatta vecchia e succhiata come un confetto? Magra fino alla vita e gonfia dalla vita in giù. Cosa sarà poi? Non mi pare un buon segno. Ma ditemi, ditemi di voi e delle altre. " "Donna Rirì, se aspettiamo ancora un po' Cosetta dimenticherà il sapore delle vostre grattate. Ce ne volete preparare due, per favore?" "Ah le mie grattate sono fuori moda oramai, ma ho del ghiaccio e il vecchio arnese: farò in un momento." Tirò fuori dalla ghiacciaia un grosso blocco di ghiaccio e lo grattò con un utensile finché non si formarono dei bioccoli bianchi. Ne mise in tre bicchieri e versò lo sciroppo di amarene. Tutti e tre ci accomodammo dove potemmo e

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gustammo in silenzio per un tempo lunghissimo quel refrigerio. La padrona del citrato, però, non poteva tacere a lungo: "Che peccato! -disse rivolta a te- Che peccato! Mi stringe il cuore vedere la vostra casa sprangata; mi sembra che l'anima di tua mamma Cosetta ci sospiri anche lei." Mio padre si strinse nelle spalle. "Lo so -continuò la commerciante- che ci vorrebbe una bella somma per rimetterla a nuovo: innanzi tutto occorrerebbe una disinfestazione per via dei topi; e poi l'allacciamento alla fognatura per non utilizzare più il pozzo nero; e poi le tubature e il pavimento completamente rifatto. Tanti soldi sì, ma ne verrebbe fuori un quartierino come si deve. Ci pensate: il cortiletto esterno con tutta una cimasa di ibisco e buganvillea. Quello interno dissodato e tenuto ad aranci e limoni." Noi due, alle parole della nostra amica, vedevamo i fiori e sentivamo il profumo degli agrumi. Tu ti difendesti dicendo: "Ma c'è la parietaria che procura allergia alla piccola. "Eh cosa sarà mai? Non se ne sono mai strappate erbacce a questo mondo! Ci sono preparati chimici che farebbero

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scomparire la parietaria." "E l'umido?" Insistesti facendo la parte dell'avvocato del diavolo. "Per l’umido si mettono i termosifoni e si fanno asciugare gli ambienti come un bucato al sole." Donna Rirì non si arrese al punto che nell'andare via ci sentimmo colpevoli di fronte alla porta sprangata della nostra vecchia abitazione, tanto più che la donna aggiunse alle nostre spalle: "Le case, se non sono abitate, marciscono!" Prendemmo la strada del ritorno e per un po' ce ne rimanemmo in silenzio; poi dicesti: "Donna Rirì ha ragione: non si lasciano marcire così le case dei genitori. Ti fermasti come colpito da un'idea: "Cosetta, ti ricordi cosa mi ha detto padre Pantaleo?" "Ti ha parlato di debiti...mi pare..." "Ma io non ho capito cosa fossero questi debiti. E' vero che in passato ho avuto delle sommette da restituire alle mie cognate, ma da quando abitiamo insieme e i conti vengono divisi meticolosamente da tua madre, debiti non ne ho contratto. E così mi lambiccavo il cervello per capire a che cosa don Pantaleo si riferisse. Adesso è chiaro che il debito di cui parlava il prete di Otranto era proprio quello che ho nei confronti dei miei genitori che mi lasciarono la casa e io ho permesso che andasse in rovina."

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Apparivi sollevato come quando risolvevi i giochi di enigmistica. "E' un debito che ho con loro e con voi! Vedrai come ci farà bene tornare a vivere noi quattro soli in una casa nostra, rimessa a nuovo! Non potranno trovare niente da ridire, né appellarsi alla salute di Miranda. Mi dispiaceva proprio che tua sorella crescesse senza conoscere donna Rirì e la sua bottega! Basta con le vincite meschine: occorre un colpo grosso!" "Papà ti prego, impegnati di più con il sistema: vedrai che ce la farai." Dovesti rimuginare su questo nuovo progetto per tutta la strada perché come altre volte mi camminavi davanti come se io non ci fossi, fumando una sigaretta dopo l'altra. Io, intanto, sognavo la nostra casa restaurata proprio secondo i suggerimenti di donna Rirì. Ma riflettevo anche sull'aspetto della mia amica che non era affatto sano. Pensai malinconicamente al citrato con cui aveva curato per anni noi bambini, ma, oramai, ero troppo grande per credere che il citrato fosse sufficiente a guarire anche il suo malanno. Tu ti rimettesti con più foga a giocare per il nuovo scopo. Con il passare dei mesi ci giungevano spesso notizie preoccupanti riguardo alla salute di donna Rirì.

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Tu avesti una nuova tornata di fortuna che ti confermava che avevi visto chiaro individuando il debito che avevi da saldare; mettevi via le somme delle vincite che sarebbero servite per il restauro della casa. Avesti proprio un buon tempo: da una parte un lavoro che ti piaceva perché ti consentiva di stare tanto fuori dalla casa in cui ti sentivi ospite; dall'altra la gratificazione delle vincite; anche se quella straordinaria che cambiava la vita, da così a così, si faceva aspettare. Ma tu eri soddisfatto perché si era fatto chiaro in te e mi dicevi che eri stato uno sciocco a non capirlo prima e che padre Pantaleo era un grand’ uomo e che un giorno o l'altro saremmo tornati ad Otranto per fargli visita e per ringraziarlo. Non ci fu tempo né modo di tornarvi. Nel giro di un anno la malattia di donna Rirì si manifestò in tutta la sua gravità. Infine la nostra amica fu ricoverata in ospedale: mamma andò a trovarla più volte e al suo ritorno scoteva la testa senza dire niente. Mi baciava quasi per consolarmi già della perdita imminente. Io ripensavo con rimorso a quanto era accaduto al povero Porfirio. Ti guardavo per parlartene, ma poi ricordavo che quello era l'unico segreto che non condividevo con te, ma con mamma. Mi ritornava in mente la passeggiata di quel

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pomeriggio, il motivo per cui scacciavo di casa il pappagallo e la sua fine violenta. Quando donna Rirì morì tu volesti mandare dei fiori e partecipare al suo funerale e, benché fossero atti di normale gentilezza, essi provocarono un putiferio in famiglia. Il caso volle, infatti, che il giorno del funerale della signora del citrato coincidesse con quello del matrimonio di Giorgino. Il funerale avrebbe preceduto solo di un'oretta, se pure in un'altra chiesa, il matrimonio. Eh sì: il mio innamorato di un pomeriggio metteva su famiglia. Era stato anche molto compito mandando due partecipazioni: una per le zie ed una indirizzata a te. La sera precedente si discusse a lungo, giacché zia Estrella e Zia Renata, che al matrimonio non voleva rinunciare benché trascinasse oramai tutta una metà del corpo e usasse come bastone mia madre, erano quasi isteriche per via della nostra decisione. Tu, invece, una volta tanto non ti facesti guidare dalla rabbia: la bontà della causa che difendevi ti rendeva fermo e pacato. Poche parole che disorientavano le zie. Io tentai una mediazione: "Verremo appena finito." Ma l'idea sembrò pessima. Zia Renata: "No, non sta bene. Mi sembra di cattivo augurio

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per Giorgino." Zia Estrella: "Con il tanfo della morte ancora addosso!" Tu ribattesti: "Guarda che ci cambieremo d'abito." Zia Estrella si sentì presa in giro e alzò la voce: "Chi volete che se ne accorga se non andate al funerale: per quei quattro parenti che aveva la vecchia." Tu solennemente: "Lo saprà donna Rirì, in ogni caso." Zia Estrella esasperata: "Ma che donna Rirì e donna Rirì: Amalia Turrini si chiamava e non era un gran personaggio. Vi ha forse fatto del bene? Vi ha prestato denaro o altro?" Di nuovo presi la parola io: "Per noi era una grande amica, più grande di certe persone che prestano denaro." "Ha parlato tuttasuopadre!" "Donna Rirì- disse timidamente Prisca- capirà certamente che abbiamo dei buoni motivi per non andare al suo funerale." "Sono sicuro che lo capirà - intervenisti tu tranquillo come non mai- perché era una donna intelligente e piena di umanità. E per questo dobbiamo renderle omaggio. Tanti anni fa, fu grazie a lei che potesti goderti la vita per un po'. " Mamma arrossì al tuo rimprovero che aveva tante valenze.

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Le sue sorelle non capirono e andarono avanti a discutere. Tu fosti irremovibile e diventasti addirittura sfacciato abbozzando una ribellione ironica: "Ascoltate, per farvi contente non vi raggiungeremo nemmeno quando il funerale sarà finito. Va bene? Così non potrete dire che abbiamo arrecato qualche ombra di tristezza sulla gioia di Giorgio. Avete ragione voi: sarebbe fuori luogo far seguire ad un funerale un matrimonio." Zia Estrella vedendoti irremovibile si prese la rivincita con una malignità: "Sai, Palmiro, Giorgio e la sposa andranno in viaggio di nozze a Capri." Tu la guardasti per quella strana uscita e lei continuò: "Veramente la sposa insisteva a voler visitare i castelli sul Reno, ma Giorgio le ha detto che in Germania, prima o poi, ce li porterai tu." Facesti una smorfia e per un attimo ti piegasti su te stesso come se avessi ricevuto un pugno. Tuttavia ti riprendesti presto; andasti in camera e ne uscisti vestito come il giorno del funerale di zia Estrella. Così ancora una volta la famiglia era divisa: da una parte noi con il cuore acciaccato per via della perdita della nostra amica; dall'altra mamma che, dopo essersi presa cura di zia Renata, indossava il suo bell'abito blu a pois bianchi.

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Zia Estrella, a muso duro, faceva vestire Miranda elegantemente e poi sceglieva uno dei suoi famosi cappelli. Noi due ce ne andammo verso la chiesa del nostro rione per il funerale di Amalia Turrini. Alla cerimonia parteciparono molte più persone di quello che pensassimo. Feci un esame di coscienza e ammisi che vi erano altri motivi che ci spingeva lì, oltre il rendere omaggio alla defunta padrona del citrato; per te non condividere una giornata di gala con le tue cognate e per me, forse, un attimo di rimpianto dovendo liquidare il mio amore di un pomeriggio, un pomeriggio di dieci anni prima oramai. Dopo il funerale e i saluti ai parenti della morta in quello scartare, chi a destra chi a sinistra, e un rimandarsi ad occasioni più liete, ci ritrovammo soli. Mi ripetevo che mi ero recata al funerale di Amalia Turrini e che donna Rirì era ancora nel suo emporio a fare grattate. La giornata non era né carne né pesce: ora sembrava che le folate di vento fossero in grado di spazzare via il grigiore e, ora certe nuvole sottili si allungavano da scirocco fino a velare il cielo. Noi due provavamo un certo imbarazzo a ritornarcene a casa, la casa delle zie a cui avevamo osato disobbedire, e decidemmo, tacitamente, che oramai che c'eravamo

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potevamo andare fino in fondo. Mi portasti un po' fuori città dove aveva sede la società di bocciofili che frequentavi. Anche questo era una cosa che non avevi mai detto in famiglia. Al campo da bocce erano annessi dei locali e una piccola trattoria per gli iscritti. I ristoratori curavano un numero limitato di piatti e rigorosamente tradizionali. Così mangiammo un baccalà gustoso con un contorno di cavoli fritti in pastella. Ogni giocatore che arrivava, man mano che il pomeriggio avanzava, ti faceva festa: tutti ti mostravano una cordialità che ti dava una piacevole disinvoltura come mai ti accadeva in famiglia. Dopo il pranzo e le chiacchiere ti mettesti a giocare. Io un po' seguivo, ammirando la tua bravura, un po' pensavo ai fatti miei: per esempio all'esame di maturità, che mi attendeva a breve, e al mio futuro. Molti dei miei compagni di classe parlavano già, con qualche supponenza, delle università lontane che avrebbero frequentato e delle città in cui si sarebbero trasferiti: Roma, Torino, Padova, Pisa, Bologna. Alcuni si sarebbero iscritti a Bari. Io sarei stata l'unica a rimanere in sede. E anche così cominciavo a pensare che i costi sarebbero stati alti per te e avremmo dovuto

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dare l'addio alla ristrutturazione della nostra casa. Fu quel giorno che decisi che all'università non ci sarei andata. Pensavo tra me: "Il prossimo anno mi diplomerò maestra presentandomi da privatista. Appena sarà bandito il concorso magistrale parteciperò. Lo vincerò e comincerò a lavorare. In poco tempo avremo i soldi per risistemare la vecchia casa e tornarcene lì." Ero molto contenta del mio progetto come la donnetta che va al mercato a vendere la sua ricottina. Passai bene gli esami di maturità classica e lasciai che trascorressimo un'estate tranquilla prima di rivelare le mie intenzioni. Quando lo dissi, una domenica a pranzo -ed era sempre a tavola che avvenivano le grande spiegazioni e le grande litigate- ci fu silenzio. Solo Miranda chiese: "Che cos'è l'università?" Mia madre spiegò con un sospiro: "E' una scuola per ragazzi grandi." Estrella: "E' una scuola molto difficile dove va solo chi è veramente intelligente." Miranda: "E Cosetta non è veramente intelligente?" Mamma:

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"Chiedilo a lei, cocca mia." Estrella: "E' una scuola per gente che vuole studiare sodo. E le signorine, si sa, sono distratte da qualche innamorato segreto." Miranda: "E Cosetta ha un innamorato segreto?" "No." Mi precipitai a rispondere in modo che tutte mi guardarono con mezzi sorrisetti pensando a Giorgio. Solo mamma mi guardò e pensò a qualcun altro. Finalmente parlasti tu: "Insomma si sa che dal liceo classico è obbligatorio andare all'Università. Che novità ti salta in mente? Quando facciamo insieme le parole crociate sei sempre pronta a rispondere! Non ho mai visto una ragazza della tua età che ama leggere e studiare più che andare a spasso." Io, benché mi sentissi mortificata, ostentavo sicurezza e non rispondevo a tutte quelle obiezioni. Insistesti: "E si può sapere il motivo?" Io parlai un po' a casaccio adducendo che non c'era nessuna facoltà, tra quelle che potevo frequentare a Lecce, che mi interessasse veramente; che ero stanca di stare sempre con

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la testa sui libri, che volevo godermela un po', che avrei continuato ad approfondire per conto mio. In effetti l'anno dopo conseguii il diploma magistrale. A casa non ci furono congratulazioni per questo successo, anzi mamma, un momento che zia Renata era assopita e che zia Estrella era in bagno, cogliendo quell'attimo di intimità di cui da anni eravamo state private, espresse chiaramente la proprio opinione: "Mi sembra che vuoi camminare come i gamberi, d’altra parte lo hai appreso da tuo padre.” E quasi stava per piangere. Che cattiva ispirazione ti ha preso?" Io non le risposi anche perché era sopragiunta zia Estrella. Mi misi ad attendere che venisse bandito il concorso magistrale da un momento all'altro. Intanto certi pomeriggi ci mettevamo insieme a disegnare la nostra casa: ricavavamo corridoi, modificavamo la cucina; decidevamo di aggiungere un altro servizio. Anzi su questo andammo avanti per un po' a discutere incerti se preferire il doppio servizio o una veranda coperta che potevamo usare come piccola serra. Rimandammo la decisione: tanto, per il momento, si trattava solo di fantasie. Ma erano fantasie che ci entusiasmavano e

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riempivano la nostra vita. Un giorno incontrai casualmente Erminia, una nipote di donna Rirì, che mi propose di andare a darle una mano nell'emporio che conoscevo bene. L'esercizio non aveva perduto in clientela, aveva solo aggiornato un po' i vari prodotti che vendeva: per dirne una, invece del citrato, le gomme da masticare e poi patatine e sfiziosità varie di cui i ragazzini del rione si riempivano la pancia cosicché all'ora dei pasti non avevano più appetito. E poi si vendevano detersivi, biancheria intima e aguglieria. La signora Erminia mi propose di prendere la patente per poter sbrigarle più rapidamente i suoi affari, utilizzando la sua vecchia giardinetta. Io accettai e divenni patentata suscitando molta ammirazione in Miranda, raccomandazioni di prudenza da parte tua e di mamma e qualche complimento condiscendente dalle zie. Tu continuavi a pizzicare, ma mai abbastanza per iniziare i lavori di restauro. Venivi a trovarmi in negozio e chiacchieravi con me e con la nipote di dona Rirì che cominciò a chiamarti don Palmiro. Tu ti schernisti, semplice com'eri, ma io compresi che era il don di rispetto che si dà a chi comincia ad essere avanti con gli anni. Ci restai male e mi accorsi di colpo che, a furia

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di fare il capofamiglia solo a tavola, eri ingrassato, che i capelli si andavano diradando ed ingrigendo, che la tua vista non era più buona. A quella scoperta, dovetti andare nel retrobottega per calmarmi. La notte feci un sogno in cui litigavo con te; ti rimproveravo, risentita: "Caro papà, come ti permetti di invecchiare! Come puoi farmi questo?" Tu mi guardavi con un viso ironico e ribattevi: "Ma che vecchio e vecchio... sto per partire per la Germania." E ti davi da fare attorno alla tua bicicletta come se la stessi preparando per il viaggio. Ti incamminavi, ma, invece di montarvi, te la caricavi sulle spalle. Lavoravo nell'emporio da un paio di anni quando anche zia Renata morì. Mia mamma, disfatta dopo tutta l’assistenza che aveva prodigato con lei, era diventata un po' bolsa e aveva ceduto le armi su tutto a zia Estrella. I bastoni della zia Renata li conservammo accanto al telaio di zia Naida. Ma non sentivo lo spirito di zia Renata aleggiare nella casa come invece avevo percepito quello di zia Naida attorno al telaio. Ci fu una nuova ondata di visite di condoglianze e Giorgio con sua moglie e la figlioletta venne a portarsi via qualche cosarella che zia Renata gli

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aveva lasciato: un lume, una consolle dell'ottocento, un anello da uomo appartenuto al marito. Un giorno donna Rirì ti venne in sogno e ti diede tre numeri dicendo: "Questi sono per le grattate." Tu ci raccontasti il sogno e giocasti i numeri, ma il terno non venne fuori. "Si sa.- disse mamma -Sono cose che non si devono raccontare. Si vede che di lotto non

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t'intendi, Palmiro." E zia Estrella: "Donna Rirì avrà voluto prenderti in giro." Ma alla prima vincita che tu facesti al totocalcio ti ricordasti delle parole del sogno e acquistasti un frigorifero nuovo perché quello precedente cadeva a pezzi. E l'estate era torrida. Zia Estrella, che nonostante il lutto recente si preparava ad andare in villeggiatura per il bene di Miranda, disse che c'erano cose più serie come la malattia di Miranda che si mangiava tanti soldi per via delle visite agli specialisti e le medicine e la villeggiatura, ogni anno in luoghi salubri. Tu impallidisti come sempre, quando una rabbia impotente ti toglieva le parole e lei incalzava: "Non lo dico per la piccina -Miranda aveva compiuto quindici anni- ma per il principio. Se tu smetti di giocare e di buttare via i soldi in cose inutili, quello che faccio per Miranda è un regalo, ma se continui a sperperare il tuo denaro tanto vale che lo usi per lei..." La sua logica non faceva una grinza e vi fronteggiaste dimostrando tutta la reciproca antipatia. Mia mamma apparecchiava con l'aiuto mio e di mia sorella e tutte e tre tacevamo. Finalmente trovasti il fiato: "Va bene- dicesti calmissimo- dimmi subito a quanto ammonta quello che hai speso per la

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salute e le villeggiature di mia figlia." Zia Estrella sparò una cifra esorbitante e tu senza batter ciglio rispondesti: "Ti restituirò tutto." Pranzammo in silenzio e io ti facevo l'eco dentro di me: "Sì, le restituiremo tutto papà." E di nuovo mi persi nel sogno della donnetta della ricottina. Al compenso che percepivo per il mio lavoro mattutino potevo aggiungere qualche lezione privata: nel rione ce n'erano di bambini le cui mamme, le donne ora lavoravano anche loro, mi avevano chiesto di dare una mano a svolgere le lezioni! Una stanza dell'appartamento annesso al negozio sarebbe stata adatta. Come sempre mi associavo ad ogni tua impresa e specialmente ammiravo quel tuo modo caparbio di ribadire la tua paternità su Miranda e la dignità orgogliosa nel non dover niente a zia Estrella. Mi accompagnasti mentre mi recavo a lavoro: "Mi ero sbagliato.- dicesti senza guardarmi in faccia- I debiti di cui parlava padre Pantaleo non sono soltanto quelli che ho creduto, ma anche quelli che io non pensavo di avere con tua zia Estrella. D'altra parte non mi hanno mai messo al corrente, nemmeno tua madre, di tutte queste visite di specialisti, né di medicine.

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Quanto poi alla villeggiatura mi sembrava che Estrella portasse con sé Miranda per avere una compagnia. Ho sbagliato e chiedo scusa, ma non sono certo uno scroccone, un approfittatore, un mangiapane a tradimento. Ma a te cosa pare della salute di Miranda? Mi sembra che sia tanto bella e sana." "Certo papà, da quando è sviluppata, come aveva detto il medico, l'asma è scomparsa e ai cambiamenti di stagione ha solo un piccolo raffreddore allergico. Sarà senz'altro merito delle cure che le sono state fatte. Per quel che riguarda i debiti ho una buona notizia: la signora Erminia mi cederà una stanza dell'appartamento per dare lezioni ai ragazzini del rione: in due faremmo prima a pagare." "E tu riuscirai a conciliare il lavoro con lo studio per la preparazione al concorso magistrale?" La tua voce era speranzosa: "Certo che sì: anche le lezioni che do ai ragazzini servono a mantenermi in allenamento." Sospirasti sollevato e mi stringesti la mano: "Meno male che posso contare su di te." Inforcasti la bicicletta sveltamente e te ne andasti via a lavoro. Certo che così la ristrutturazione della nostra vecchia casa avrebbe dovuto aspettare e avremmo dovuto rimandare ancora il nostro

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ritorno lì. L'anno dopo comperai la vecchia cinquecento da Giorgino che cambiava macchina. Persino zia Estrella fu contenta e quando ero libera si faceva accompagnare da me in cimitero, o a fare spese e visite. Insisteva a pagare la benzina. "Perchè- disse- debiti, io, non ne ho mai avuti; anzi ho crediti!” Avrei voluto rifarle il discorso di padre Pantaleo su debiti e crediti, ma non ero sicura di averlo capito fino in fondo. Accompagnavo e andavo a prendere Miranda dalle lezioni di pianoforte, di danza, e su e giù dalle festicciole che frequentava. Avevo ventiquattro anni e la mia vita era divisa tra il lavoro nell'emporio al mattino, i pomeriggi a fare lezione a qualche ragazzino e il mio ruolo di autista di famiglia. C'erano i momenti di libertà in cui tornavamo a progettare la nostra casa. Tuttavia ce ne dovemmo distogliere: forse fu un colpo d'aria preso mentre giocavi a bocce a procurarti la paresi facciale. Così, grazie alla macchina, potei accompagnarti in ospedale per fare le applicazioni che occorrevano e, man mano, il tuo aspetto tornò quasi normale a parte per l'occhio destro leggermente più chiuso. Ridendo, dicevi, che era segno che eri cresciuto e che avevi imparato a chiudere,

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almeno un po’, un occhio sulle cose che non digerivi. Anche io risi, ma intanto ricordavo il sogno che avevo fatto e mi veniva di dirti chiaro e tondo: "Caro papà, come ti permetti di invecchiare? Che non ti venga in mente anche la bella idea di morire." D'altra parte era vero che stavi imparando a prendertela di meno e forse in ciò eri aiutato dal gioco delle bocce. Oltre il lavoro nella sud-est c’erano anche i tornei a cui partecipavi -giacché come in tutti i giochi eri diventato bravo- che appagavano il tuo bisogno di andare per il mondo. Io, intanto, guardavo con curiosità i giovani degli anni settanta diventare sempre più scapestrati e irridenti. Mi scandalizzavo come un'adulta, giacché mi pareva che la giovinezza fosse qualcosa che riguardava gli altri. Nei primi anni dalla fine del liceo qualcuno dei compagni mi aveva cercato e ogni anno in luglio avevamo preso l'abitudine di incontrarci per festeggiare l'anniversario del diploma. I miei amici avevano tanto da raccontare sulle città in cui vivevano, sugli esami universitari, su quello che avrebbero fatto dopo la laurea. Ascoltavo e domandavo, ma finivo con il trovare noiosa la loro vita tutta ancora impregnata di aspettativa. Io, con le responsabilità che mi ero accollate,

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mi sentivo tanto più adulta e trovavo i loro argomenti di conversazione stucchevoli. Così finii per rifiutare l'invito annuale e man mano amicizie e relazioni si allentarono riducendosi a poche telefonate e qualche bigliettino di auguri a Natale. Ero così presa dalle mie attività, mi sentivo così indipendente per il fatto che guadagnavo e guidavo la macchina che non presentai nemmeno la domanda per il concorso magistrale. Ancora una volta fu a tavola che mamma se ne uscì come folgorata: "Cosetta, oggi abbiamo incontrato una cugina di Giorgio e ci ha raccontato di quanto studia per prepararsi al concorso magistrale. Va addirittura a lezione da un professore: gli scritti saranno tra un mese. E' mai possibile? E tu quando studi?" Io arrossii e gli occhi di tutti furono su di me: quelli addolorati di mamma, quelli sorpresi di Miranda, quelli pungenti di zia Estrella. Ma soprattutto i tuoi. "La domanda è scaduta da un pezzo. Non mi interessava...ho deciso che mi va benissimo il mio lavoro. Il concorso, poi, si tiene ogni due anni. Studierò per il prossimo." "Evviva la sincerità, Cosetta, -dicesti- fai e disfi di testa tua!

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Non chiedi mai il nostro consiglio. Eri così brava negli studi. I tuoi professori ti vedevano già con la toga..." Estrella: "Altro che toga: era il camice da bottegaia!" "Non è una tragedia: lavoro." Mamma aveva gli occhi rossi e zia Estrella intervenne: "Se dovevi fare la bottegaia era inutile frequentare il liceo classico. Miranda non farà certo la tua fine." Anche mia sorella disse la sua: "Ma Etti, è un lavoro senza futuro: in un negozietto preistorico che prima o poi chiuderà e tu ti ritroverai senza niente in mano." Di nuovo zia Estrella. "Me l'ero immaginato: quella Erminia è taccagna come sua zia Amalia. I proprietari della modisteria in cui lavoravo io, invece, erano persone oneste! Terminato di essere piccinina, l'apprendistato insomma, mi hanno messo subito in regola e con il tempo ho potuto rilevare il negozio. Ed oggi ho una buona pensione. Tu, invece, lavori in nero." Io non risposi perché in effetti avevo cominciato senza impegno reciproco e la signora Erminia non aveva mai proposto di mettermi in regola: avevamo pensato tutte e due che era una soluzione provvisoria. Intanto erano passati alcuni anni.

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Lo scoramento dei miei familiari era palpabile: "Ti sei messa in una trappola.”- dicesti tu- “Prima quella sciocchezza di non iscriverti all'università ed ora quest'altra ragazzata. Asina testarda!" Ti mettesti a fumare a tavola cosa che non ti eri mai permesso di fare. Estrella sospirò compunta e prese la parola: "Forse posso fare qualcosa io: quando ero modista ne ho conosciute di vere signore perché, allora, una vera signora fuori di casa indossava sempre il cappello. Io, poi, sapevo stare al mio posto e tutte chiedevano che fossi io a portare il cappello, una volta confezionato, a domicilio. Quante case signorili ho visto, quante persone influenti ho conosciuto... Mi viene in mente che ora il figlio di una delle mie clienti, che si è fatto lui pure la sua età, è il direttore di una scuola privata parificata. Io parlerò con la signora che era sempre gentile e disponibile, lei parlerà con il figlio direttore e per il prossimo anno scolastico potrebbe assumerti. Andiamo da loro e vedrai che qualcosa salterà fuori." Accondiscesi: un po' perché non sostenevo il dispiacere dei miei genitori, un po' perché tutto sommato non mi ci vedevo per sempre nell'emporio.

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Qualche pomeriggio dopo Il direttore mi ricevette. Spinsi il grande portale socchiuso che immetteva nella corte interna e salì la scalinata che in cima si divideva in due rampe: da un lato quella che portava agli appartamenti; dall’altro quella su cui si apriva la scuola privata

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parificata. C’ ero già stata assieme ad Estrella per parlare con la madre del direttore, la signora che aveva frequentato la modisteria. La signora ci aveva messo subito a nostro agio ricevendoci in cucina che ferveva di lavori domestici. Ci aveva ascoltato mentre continuava ad impartire ordini alle due donne impegnate a preparare il pranzo e mettendosi lei stessa a spennare una gallina e a sgranare piselli. Di tanto in tanto mi guardava e infine sospirò: "Che dispiacere all'idea di queste giovani forze condannate alla disoccupazione! Ce ne sono di giovani a spasso! Il direttore- parlò sempre del figlio con quel titolo- il direttore è molto sensibile e fa quello che può. Abbiamo sacrificato l'altro nostro appartamento, qui di fronte per adibirlo a scuola. Si tengono soprattutto corsi di recupero per lavoratori. Il direttore vuole personale serio e preparato e per questo la nostra scuola ha un buon nome. Le domande di insegnamento sono tante, ma parlerò io al direttore e vedrete che vi arriverà una risposta quanto prima.” Io le lasciai il curriculum che altro non era che il mio diploma di maturità classica Quindi si salutarono con grande effusione e la signora aggiunse:

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“Che figuroni che ho fatto con i tuoi cappelli, cara Estrella! Certo allora eravamo giovani! Anche se te li facevi pagare…” “Vi ho sempre trattato d’amica, con un occhio di riguardo.” Ora, quindi, sapevo che dovevo salire l’altra rampa di scale. Il direttore mi ricevette in uno studio pieno di busti. Indossava un doppio petto di un verdone scuro che sottolineava la sua carnagione olivastra. Mi salutò cortesemente e mi chiese il permesso di continuare a mangiare: "Sa, con i miei impegni, non ho orari e oggi mi capita di dover mangiare alle undici." Il direttore si prese il mio permesso sottinteso e si ingolfò in un piatto di polpo che odorava di aglio e che gli imbandiva sulla monumentale scrivania una delle donne che avevo visto nella cucina della madre. Intanto io prestavo orecchio ai rumori della scuola che era dislocata nell'appartamento dagli altissimi soffitti. Qualche studente venne anche a bussare per andare nel bagno a cui si accedeva passando attraverso lo studio del direttore. Questi mi spiegò che in tal modo poteva tenere meglio tutta la situazione sotto controllo e continuò a mangiare di gusto. Quando ebbe terminato scorse il mio curriculum:

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"Vedo che ha conseguito la maturità classica. Addirittura sei anni fa! Ed in questi anni non avete mai fatto esperienza di insegnamento?” “Privatamente sì.” “Immagino che si riferisca a qualche doposcuola: in verità a me occorrerebbe un insegnante elementare che tenga un corso serale per adulti che non hanno la licenza, titolo che ora è indispensabile per tutti i lavori. L'insegnante che c'era prima è passata in una scuola statale e sono sfornito. Sapete, gli emolumenti qui non sono che un "pour boir", ma il punteggio è assicurato. Se la sente di tenere una specie di pluriclasse nelle ore serali? Le do un segno di fiducia scegliendo lei, che non ha esperienza; le do la preferenza di fronte a tanti altri che mi implorano, padri di famiglia! Ma mammà ci tiene tanto! E facciamo contenta mammà. La risposta la voglio subito." Io accettai anche perché considerai che l'impegno, essendo serale, mi avrebbe consentito di continuare il mio lavoro nell'emporio. Al ritorno a casa tu mi chiedesti con ansia: "Sei contenta? Ti è piaciuto il posto, i colleghi, il direttore?" Io risposi di sì a tutto con grande soddisfazione di zia Estrella. Poiché mi era stata assegnata la pluriclasse del

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corso serale non vedevo colleghi, ma soltanto i miei "allievi", tutti più adulti di me. Alcuni erano pieni di buona volontà, altri venivano soltanto per fare presenza ed avere l'attestato di frequenza. Appresi molto sui loro lavori. Dopo una settimana il direttore mi mandò a chiamare e mi parlò alzandosi spesso dalla poltrona e guardando fuori dalla finestra. "Giacché lei è l'ultima a lasciare la scuola ho pensato di poterle chiedere di dare una riassettata alle aule e al bagno al termine delle lezioni. Sa, in genere se ne occupa una delle nostre serve, ma attualmente è ammalata e non è il caso di assumere un bidello. Si tratterà di poco tempo. Siamo intesi? Metterai a posto le aule e il bagno e... anche questa stanza. Si tratterà, ti ripeto, di pochissimo tempo." Di questo, e dell’improvviso passaggi al tu, non riferii niente a casa; dissi solo che mi era stato allungato l'orario di servizio e zia Estrella fu ancora più soddisfatta dei suoi meriti. Fortunatamente al mattino continuavo ad andare in bottega che mi sembrava un vero lavoro, decoroso e remunerato, ma neanche con Erminia mi lasciai scappare una parola sulle mie incombenze di donna di pulizie che continuarono per tutto il resto dell'anno. Gli "emolumenti" erano veramente miserabili e

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quindi continuavo a dare lezione nel primo pomeriggio. Avevo stabilito che nessun ostacolo si frapponesse al nostro progetto di far restaurare la casa. Per questo tolleravo il direttore, il mio lavoro ufficiale e quello di nettacessi. Pensavo che era proprio il castigo che meritavo per non aver presentato la domanda di concorso. Sospiravo e contavo i mesi che mi separavano dalla fine dell'anno scolastico; di certo non avrei ceduto allo sconforto purché tu fossi rimasto all'oscuro di tutto. Invece non fu così: riuscisti a trovare una sera in cui non eri di turno per venire a guardarmi nella mia veste di insegnante. Nella tua intenzione c'era solo un moto d'orgoglio di godersi la figlia docente. D’altra parte il portale del palazzo gentilizio era lasciato sempre accostato fino a quando io non andavo via tirando il battente con energia sia perché essa era pesante, sia perché il fragore che produceva mi dava una qualche soddisfazione come se avessi preso a calci la scuola ed il direttore. E qualcuno degli allievi aveva dimenticato aperto anche l’uscio dell’appartamento adibito a scuola. Io ero troppo presa dalle pulizie, dal rumore dello straccio che grondava acqua, dallo

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strepito dello sciacquone: fosti un’apparizione che mi fece trasalire. Eri seduto nello studio del direttore e da lì potevi vedere benissimo i bagni e chi li puliva… Te ne stavi con il corpo abbandonato sulla poltrona del direttore, le mani incrociate tra le ginocchia, una faccia impietrita di rabbia e di dolore. Ti vidi con la coda dell'occhio; ma feci finta di niente; anzi mi accanii nelle pulizie pur di tenere la testa piegata e non incontrare di nuovo quel tuo terribile sguardo. Rispetto a tanti anni prima, quando ero venuta a strapparti dal cral, le parti si erano invertite. Io continuai nel mio lavoro ignorandoti, tu continuasti a stare seduto. Infine rimisi stracci, arnesi e detersivi al loro posto passandoti davanti come se tu non ci fossi. Infilai il cappotto, feci un giro per le aule a controllare che non rimanessero luci accese: il direttore era pronto ad andare su tutte le furie davanti agli sprechi! Soltanto al momento di spegnere il lampadario dello studio in cui tu ancora te ne stavi seduto, ti rivolsi un cenno della testa: "Andiamo." Mi chiusi alle spalle la porta dell'appartamento e tirai il portale con lo stemma gentilizio. Fuori ci mettemmo a camminare l'una accanto all'altro senza parlare.

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Era una giornata di marzo umida e ventosa ed io ti dissi: "Non ti fa bene prendere tutto questo vento, giacché sei appena guarito dalla paresi. Entriamo in un bar e tu mi aspetterai mentre andrò a prendere la macchina. Sono venuta via da casa a piedi perché non sembrava che si preparasse un tempo così." Mi avviai verso la pasticceria, ma quando entrai vidi che tu rimanevi fuori e così tornai fuori anch'io e non insistetti più. Facemmo la strada più lunga per ritornare a casa. Camminammo in silenzio fino a quando mi feci coraggio e ti rivolsi la parola: "Andiamo al cinema? -Tentai di scherzare prendendoti sotto braccio- Come quando ero bambina, vuoi papà?" Mi guardasti e sotto le luci del Politeama vidi che il tuo viso era segnato da un’espressione di ostilità e di amarezza. Nonostante ciò camminavamo sempre sotto braccio. "Perché non mi hai detto niente?" "Di cosa?" Fingevo di non capire. "Che hai accettato… non so nemmeno come dirlo… di fare la schiava. Devi smettere subito! "Non posso, ho firmato un contratto." "Vuoi dire che hai firmato sapendo di che razza di lavoro si trattava?"

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"E' così che vanno le cose in certe scuole private." "Chi l'avrebbe mai detto, chi l'avrebbe mai detto che ti rassegnassi così! " Scuotevi la testa incredulo, poi divenisti sarcastico: "E che bella esperienza didattica ti stai procurando! Il punteggio che avrai alla fine dell’anno non riguarderà la tua capacità di insegnare, ma attesterà che sei brava a pulire il cesso!" Avevi alzato il tono della voce e ti fermasti con un po’ di affanno. "E' tutta una conseguenza di quel colpo di testa di non proseguire con gli studi universitari." Prevenisti le mie obiezioni e tirasti avanti: "Tanto i debiti non finiscono mai: qualche milione in più o in meno che differenza vuoi che faccia? Io...tu devi liberarti!" “Per insegnare, insegno: questo… è una cortesia in più…” Cercai di sorriderti, di sorridere, ma la faccia mi si increspava a sproposito. Quella notte né tu, né io dormimmo. Mentre ascoltavo il respiro tranquillo di mia sorella dal lettino gemello accanto al mio, percepii suoni. Nonostante le porte chiuse, sentii che scendevi dal letto, che andavi in bagno, che ti avviavi verso il tuo studiolo, ma poi cambiavi idea e

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venivi verso la camera mia e di Miranda. Hai socchiusa e, sicuro che io fossi sveglia, mi hai chiamata in un bisbiglio: "Cosetta!" "Che c'è papà?" "Adesso so chi è quel qualcuno con cui ho contratto un debito." Io non risposi. "Mi hai sentito? Le parole di padre Pantaleo volevano dire cose più complicate di quelle che avevo inteso in un primo momento." "Vai a dormire, papà." "Vorrei cantare perché adesso ho tutto chiaro." "Vai o sveglierai Miranda." "Meglio, così parlerò anche per lei." "Sveglierai mamma." "Benissimo: è tempo!" Non vidi altro mezzo affinché tornassi in camera che lo spauracchio di zia Estrella. "Sveglierai zia Estrella." "Vado, vado: ma sarebbe bello andarcene via tutti e quattro subito, anche in pigiama. Amalia Turrini ci approverebbe." Il mattino dopo facesti in modo di uscire da casa assieme a me. Mentre inforcavi la bicicletta mi dicesti deciso: "Questa sera, all'uscita da quel posto, ti aspetto al bar." Per nulla al mondo avresti chiamato scuola il luogo in cui lavoravo.

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A sera, quando c’incontrammo nella pasticceria dove c’eravamo dati appuntamento, senza preamboli apristi la discussione. Eri esaltato e rosso in volto tanta era l’agitazione interna e l'indignazione che ti eccitava: “Al termine dell'anno scolastico dirai chiaramente al signor direttore- e calcasti sui titoli- che può tenerselo il suo bel posto di lavoro: negriero!" Io sorridevo, ma non promettevo, cercavo di prendere tempo; ti trattai come se facessi i capricci. "Esageri: tutte le gavette sono dure." "Non discuto questo: ma è lo sfruttamento, la mancanza di dignità, la prevaricazione che non devi accettare. Se incontrassi uno dei tuoi compagni, dimmi la verità, o un tuo professore glielo diresti cosa ti tocca fare, oltre che insegnare, in quel tipo di scuola?" Io arrossii e sbuffai. "Rispondimi ti dico." "Ai miei compagni non glielo direi soltanto perché sono tutti ragazzetti che non conoscono la realtà, che si adagiano sugli allori: figli di papà, insomma." "E tu di chi sei figlia?" Mi ero messa in trappola con le mie stesse parole: "Io sono una persona realistica."

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"Un conto è il realismo, un altro il cinismo. Insomma, Cosetta, perché devi tradire te stessa? Non ti accorgi che l’umiliazione che ricevi mi fa sentire l’inutilità di quegli anni e di quei patimenti? Gli orrori della guerra, del lager erano sopportabili soltanto per la speranza che nutrivamo di costruire un’Italia giusta: forse non tutti ne eravamo consapevoli, ma in tutti c’era, se pure alla cieca, la fermezza istintiva di rifiutare ogni oppressione. Se non vuoi pensare a me, pensa agli altri, tutti giovani e giovanissimi, che non sono tornati più!" Non erano parole, ma pietre monumentali che sollecitarono la mia memoria tanto che io risposi: “Dei morti alle Termopili bella è la sorte, glorioso il destino.” Tacemmo e quel silenzio voleva essere un omaggio alle vittime del più stupido degli sport umani: la guerra! Ritornati alla realtà, addussi altre ragioni ragionevoli: "Zia Estrella si offenderà; povera! Si è data tanto da fare per il mio bene ed è così orgogliosa di se stessa per il lavoro che mi ha procurato!" "Lascia che si offenda, ma sono sicuro che persino lei, se ti avesse visto pulire i cessi, non

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troverebbe da ridire se tu tornassi a lavorare all'emporio: meglio "bottegaia", come dice lei." Sospirai un po' scoraggiata: ed io che credevo di aver dato prova di saggezza e di maturità! E pensai ad alta voce: "La verità è che, a volte, quando si cerca di accontentare gli altri si scontenta tutti." "Brava che l'hai capito: allora tu, d’ora in poi, accontenta te stessa." Il mio tè poteva essere alla rosa canina o al bergamotto: non ne sentivo il gusto sotto il tuo sguardo severo ed esaltato. Era come se ti fossi risvegliato percepissi le omissioni che avevi compiuto e volessi assumerti le responsabilità di padre. "Ti ricordi quello che ti ho detto la notte scorsa?" "Hai parlato tanto che stavi per svegliare tutti..." "Le parole di padre Pantaleo erano misteriose come il suo mosaico ed io ogni volta trovo un significato diverso e sempre più profondo. Lui parlò dei miei debiti e dei miei crediti. Mi sono un po' perso sulla faccenda dei debiti. Prima le parole di donna Rirì mi hanno convinto che si trattasse della casa dei miei genitori. Forse era quello che volevo capire io... credevo che tornare a vivere noi quattro da soli era molto importante, più importante del viaggio in Germania. E da quel momento ho messo via le mie vincite per rimettere in sesto la casa.

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Poi è saltato fuori i debiti che ho con Estrella. Quando tua zia mi ha rinfacciato le spese sostenute da lei per Miranda; allora ho creduto che onorare quel debito, che non sapevo di avere, era altrettanto fondamentale per la mia dignità e per l'unità della famiglia. E così ho deciso tra me e me di dividere le mie economie su quelle due voci. Ed ecco che scopro che il debito vero l’ ho nei tuoi confronti: la tua devozione mi ha accecato al punto da non distinguere più la mia vita dalla tua!” Mi osservavi, ma io sentivo chiaramente che il tuo sguardo mi oltrepassava. Cercai di scuoterti: “Scommetto che padre Pantaleo diceva le stesse cose a tutti quelli che entravano nella cattedrale: parole che vanno bene per ogni circostanza.” Mi guardasti con ironia: “Non mi fai nemmeno il solletico con le tue parole da studiata! Nello specchio del mosaico- ricordo bene le parole del prete- ognuno vede se stesso. Per me ha funzionato così e lascio a te, che sei studiata, le ragioni della tua ragionevolezza.” Tacemmo di nuovo: ti vedevo per la prima volta sicuro, tanto sicuro da non sprecare tempo a convincermi. Quel tuo darmi della “studiata”, come già aveva fatto la padrona del citrato, mi rivelavano che

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avevi fatto passi da gigante, a mia insaputa; anche quella che tu avevi chiamato la “tua ragionevolezza” in bocca si era trasformata da qualità a calcolo meschino. Procedevi, oramai, con le tue gambe, dopo che per tutta la mia vita ti avevo prestato le mie. “Quando penso a quanto sono stato cieco ed egoista!" Vederti così mortificato mi era insostenibile e, accarezzandoti la mano, ti dissi: "Non è vero, papà: ci siamo cresciuti a vicenda. Si sa che tocca ai primogeniti far esercitare i genitori nel mestiere." Tu, però, rifiutavi ogni attenuante tanto salde ti apparivano le certezze che avevi raggiunto: "I debiti sono questi tre.” Prendesti il posacenere, la tua tazzina, il pacchetto di sigarette e desti un nome a ciascuno: “Questa è la casa dei miei genitori e capisco quanto sarebbe indispensabile tornare lì per ricomporci come famiglia; questi sono i soldi che devo ad Estrella per Miranda; e questo è il debito che ho con te. Si tratta solo di stabilire in quale ordine pagarli." Ti eri immerso nelle tue riflessioni, mentre io pensavo, forse per via della ragionevolezza, che, nonostante ti amassi, nel mio intimo dubitavo che saresti mai riuscito ad onorare le tue pendenze. "Non pensarci più, papà."

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Tu continuavi a cambiare di posto i tre oggetti. Ti salutai ed uscii dal locale. Ti sbirciai dalle vetrate del bar: mi sembravi velleitario come un fanciullo generoso su cui gli anni erano passati inutilmente, tranne che per la pinguedine, i capelli radi, la dentiera... Mentre andavo verso l'emporio continuai a voltarmi per guardarti come se volessi imprimermi bene la tua immagine cara, come se sfogliassi un album di fotografie animate, come se la parte di me che, come in tutti, conosce il futuro, si preparasse al nostro lungo addio. L'addio iniziò la mattina d'aprile in cui mi dicesti: "Oggi non sono di turno, liberati anche tu, una volta tanto, e andiamocene a fare una gita verso il mare. In questa stagione, in giorno settimanale specialmente, non ci sarà quasi nessuno." Avvisai Erminia che non sarei andata

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all'emporio e ti feci da chauffeur come quell' altro di tanti anni prima. La mattina era tiepida e calma, senza il vento turbolento che soffia così spesso dall'Adriatico. Lasciammo l'auto e camminammo sul lungo mare. "E' un mese con la -r- e i ricci saranno pieni di uova." Le tue parole mi rassicuravano: in quell'improvvisa gita non c'erano secondi fini, ma soltanto la voglia di bighellonare e assaggiare i primi ricci. Non dovevo aspettarmi di sentirti nuovamente accusare te stesso e voltare e rivoltare il discorso dei debiti. Quindi ci avvicinammo ad un pescatore che stava sistemando i frutti di mare sulla panca di marmo del mercatino e intanto decantava la sua pesca. I ricci erano neri e luccicanti: ancora vivi si muovevano tra le alghe. "Guardate -ci invitò il venditore- guardate come sono pieni." E per dimostrazione ne aprì uno con una forbicetta, lo sciacquò in un secchio pieno di acqua di mare, ce lo offrì. Tu mangiasti le uova del riccio con la punta del coltellino con gli occhi socchiusi per il piacere. Il pescatore continuava: "Non ho ragione a dire che sono speciali? Ci vuole il pane, però, ci vuole il pane! La

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signorina lo può comprare a quel chiosco. E' pane di casa che se è vecchio di un giorno, è più buono." Io andai verso il chiosco e tornai con una pagnotta. Il marinaio ci preparava i ricci che noi svuotavamo con tocchi di pane e non smetteva di commentare: "Sentite? Altro che aragoste, altro che triglie! Che sapore eh? Il mare in bocca avete! Il sapore del mare dopo che dentro si sono tuffati tutti i soli e tutte le lune di un intero mese. E le uova si sono nutrite, gonfiate, maturate al fuoco di quei due astri." Noi facevamo di sì, seduti sul parapetto del lungomare con il pescatore-poeta che descriveva i sapori come se li gustasse assieme a noi. Quando ci sembrò che quel sapore meritava il rispetto di una breve degustazione, pagammo le poche lire che il poeta ci chiese ed egli restò ad esaltare da innamorato, solo per se stesso, il mare e i suoi frutti. Riprendemmo a passeggiare sottobraccio, un po' insonnoliti dal tepore, dal sole, dal frangersi mite delle onde. In lontananza vedevo il faro da cui avevamo guardato la striscia lontana-vicina dell'Albania. Tu tossivi la tua tosse di fumatore, poi mi

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conducesti verso la rotonda. Al posto di ristoro evitammo il caffè per conservare più a lungo il sapore di mare e ordinammo semplicemente acqua. Mentre tutto era così armonioso, tirasti fuori tre pezzi di carta stretti e lunghi. Abituata dal mio lavoro di commerciante, li riconobbi subito: tre assegni. Li lisciasti sorridendo prima tra te e te e poi alzando il viso a guardarmi. "Sono tre assegni da cinque milioni l'uno." Gustasti le tue parole e la mia aria sorpresa. "Hai vinto al totocalcio, Papà?!" Scuotesti la testa, ma continuavi ancora a sorridere: "No." "E allora, da dove vengono? Il prestito di una banca? E poi perché tre assegni?" Sorridevi sempre con un’espressione furba come quella di padre Pantaleo. Parlavi senza alcuna esaltazione: "Ho concluso un affare, una vendita." Procedevi con il contagocce e ti interrompesti di nuovo per osservare i tre pezzi di carta. Poi ne spingesti uno verso di me: "Questo è il tuo!" "Come mio? Insomma da dove vengono questi soldi?" Cominciavo a spazientirmi e a sentirmi in ansia perché tu avevi la stessa aria sorniona e beata delle volte in cui eri tornato a casa

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annunciandoci di aver cambiato lavoro. La tua contentezza era, quindi, sospetta. "Ehi ragazzina, non starai pensando che tuo padre è capace di fare qualcosa di disonesto?" "Ma dimmi..." "E’ semplice: io possedevo una casa vecchia e così mal messa che per rimetterla a posto avrei dovuto spendere la mia vita e la tua. Qualcuno mi ha cercato per acquistarla giacché sventrandola, se ne ricaverà l’area da adibire a garage a pagamento. Nel rione, infatti, ora che tutti hanno la macchina e le vecchie abitazioni sono prive di garage, è un bel problema lasciare le auto, di notte, per strada. Mi hanno fatto la proposta e ho capito subito che era l’occasione che avevo cercato con il gioco. Quindici milioni! Che ho voluti così, divisi in tre assegni: il tuo; l’altro è di Miranda, e questo è un anticipo del debito che ho con Estrella; il resto dei miei debiti con lei lo estinguerò quando andrò in pensione, con la buona uscita." Ti appoggiasti soddisfatto alla spalliera della sedia. "Ma papà, e la nostra casa? Dovevamo tornarci tutti e quattro." Neanche questo ti scosse: "E a fare che? Tornare a fare che? Tornare chi? Miranda ci è vissuta troppo poco per amarla,

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tua madre, oramai, non lascerebbe più sua sorella che va invecchiando; io e te allora? Mammalucca! Sei matta se credi di poter fermare il tempo." Ti esprimevi in modo sentenzioso, convertito al tuo nuovo ruolo di uomo saggio. Mi porgesti l’ assegno e mettesti via accuratamente gli altri due. Ma non era finita. Sfilasti dalla tasca un giornale e lo apristi, lisciandolo, sul tavolino sotto i miei occhi: "Vedi, ragazza, l'affare lo avevo concluso già da quindici giorni e aspettavo il momento opportuno per dare l’annuncio. Proprio ieri ho visto qualcosa in edicola: un giornale dei concorsi con il bando di quello magistrale. Datti da fare! Questi soldi ti serviranno ad andartene via per sostenere l'esame in una provincia in cui ci sono più posti di lavoro. Lo sapevi che il numero dei posti messo a concorso varia da una provincia all'altra? Be' c'è tutto scritto sul giornale. Guarda tu stessa." Ascoltavo incredula, mentre tu mi leggevi i nomi delle province e ora me ne proponevi una, ora, un'altra. Io insistevo nel far finta che fosse tutto uno scherzo o una forma di esaltazione da parte tua che pian piano sarebbe sfumata, riportando te e me all'equilibrio precedente. Ma tu continuavi:

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"Che te ne pare di Bologna? Ho amici nelle ferrovie di Stato e tutti hanno parenti sparsi per l'Italia: ti daranno le indicazioni per una pensione o un affittacamere. E studia. Mi raccomando!" "Ma papà: Bologna! Così lontano? Mi scacci?" "Se proprio vuoi saperlo sono stanco di dovermi preoccupare ancora per te! Fatti il tuo avvenire così come è giusto. A te devi pensarci tu!” Tornammo indietro: tu canticchiavi per i fatti tuoi, evitavi persino di sfiorarmi. "Pensa al tuo avvenire." Diventò una sorta di ritornello: quando cercavo di tornare sull'argomento, sollevavi lo sguardo, ma subito scrollavi la testa come se la mia fosse testardaggine puerile e ripetevi la tua sentenza prima di tornare ad ingolfarti nei dati del sistema. Il gioco non era più un assillo, ma rimaneva un esercizio matematico che ti appassionava. Sempre piena di perplessità, assistei, qualche giorno dopo, alla cerimonia un po' solenne con cui consegnasti gli altri due assegni: "Questo è per te, Miranda, ma vale anche per quando compirai diciott'anni e per quando conseguirai il diploma . Cosetta ha già avuto il suo. E questo è per te, Estrella, con tanti ringraziamenti e scuse per il ritardo. Certo è solo un acconto, il resto lo avrai quando

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andrò in pensione." Miranda fece il giro del tavolo per abbracciarti e baciarti. Zia Estrella arrossì, non so bene perché, mentre prendeva l'assegno. Eri contento e anche mamma pareva fiera di te. Non chiese niente e quindi capii che la faccenda della vendita della casa doveva esserle già nota come pure ad Estrella giacché non fece domande; tuttavia non si trattenne dal dire: "In tutti i modi, Palmiro non ti intendi di affari: quindici milioni per tutta quell'area... ti sei fatto fare fesso..." Temetti una tua reazione: al contrario fosti molto conciliante: "Non importa, non importa: io avevo urgenza di avere questi soldi e l'acquirente me li ha dati subito; va bene così." Ero indispettita da quel terremoto che mi scombussolava la vita, anche se tra me ammettevo che non potevo tollerare un altro anno in quella specie di scuola. Ma d’altro canto cercavo scappatoie all’emigrazione: immaginavo per me un'altra scelta e sfogliavo i modelli femminili che avevo frequentato: sarei diventata moglie come Prisca? Ma come avrei potuto essere moglie giacché non ero signora di una qualche prelibatezza come il limoncello?

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Escludevo zia Renata e zia Estrella. Mi sarebbe piaciuto essere un’altra Amalia Turrini, ma anche per quello era oramai tardi perchè il citrato, le mignatte, i chiodi di garofano avevano da tempo rivelato la loro natura effimera. Per essere una vera bottegaia avrei dovuto avere il monopolio di qualche misteriosa sostanza, altrimenti sarei stata soltanto una commerciante tra tante. Ecco che zia Naida faceva capolino: mi sarebbe piaciuto essere un’altra zia Naida: famosa come lei per la bellezza tanto che tutti sarebbero venuti per vedermi; avrei avuto proposte di matrimonio che i miei genitori avrebbero vagliato con attenzione; ci sarebbe stato un altro barone Francesco che mi avrebbe inanellato per poi morire? E poi un altro giovane d’avvocato che sarebbe caduto in guerra per una causa in cui credeva? Infine avrei conteso a Miranda il suo spasimante? No! Questo non era il mio romanzo: io non possedevo una bellezza speciale in un mondo in cui ormai tutte le ragazze erano belle ed imbronciate. A me era toccato essere la studiata della famiglia e a Miranda, la bella. Mi passò per la testa l’idea che potevo accordarmi con mia sorella: avrei accudito i

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bambini di lei che avrebbe sposato certamente un partito che l’avrebbe obbligata ad una vita di rappresentanza e a trascurare i figli. Sapevo che nessuno di questi era il mio ruolo, ma fantasticarci su mi permetteva di abbozzare una qualche forma di opposizione alla strada che tu volevi impormi e che io vivevo come un esilio. Mentre io mi consolavo con le fantasie, tu procedevi nel disegnarmi il futuro. Una sera, mentre mamma e zia Estrella erano appisolate di fronte al televisore, mi dicesti: “Indovina!” “Cosa?” “Non indovineresti mai!” “Allora spiegami!”

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“Ho scoperto che Piazza Sant’Oronzo si chiamava un tempo Piazza dei mercanti! Mercanti veneziani! Addirittura esisteva nel millecinquecento una fiorente colonia veneziana! Quello che chiamiamo il Sedile era il loro palazzo del governo e la borsa delle merci! . Fu fatto costruire dal sindaco veneziano Pietro Mocenigo nel 1592. Che te ne pare?” “Ma dove le hai pescate tutte queste leggende?” “Sono stato in biblioteca perché tutti quei nomi veneziani che ci sono da noi, Palazzo Foscarini, Palazzo Morosini, Corte dei Mocenigo, mi frullavano nella mente. Sono andato in biblioteca per cercare un libro di storia, non sapevo bene se di Venezia o di Lecce. L’addetto, che era più colto di Salomone, mi ha raccontato a voce tutto per filo e per segno ed io poi mi sono segnato date e nomi. Fatti storici, non leggende!” Sbandierasti un foglietto! “Pensa Piazza Sant’Oronzo altro non è che una piazza di Venezia.” “Abbassa la voce: sveglierai mamma e zia Estrella.” “Dimmi tu se questo non è un segno! Annessa al sedile c’è una chiesetta, ora in disuso, intitolata a San Marco voluta appunto dai

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mercanti veneziani. Dimmi tu- ti ripeto- se questo non è un altro segno.” “Dove vuoi arrivare?” “Che per il concorso non devi scegliere Bologna, ma la provincia di Venezia! E’ chiarissimo! Vai in piazza e vedrai con i tuoi occhi!” Ero irritata con te: “E’ possibile che ultimamente non fai altro che andare in cerca di segni fatidici? Per scegliere al posto mio, per giunta! E’ il colmo!” Tu sorridevi: “Credo che, segni o meno, sia un’ottima scelta: mare Adriatico di là come qua! E se io mi impiccio è perché tu non ti decidi a fare qualcosa di concreto per la tua futura professione.” Lasciai perdere e per farti un dispetto la mattina dopo non andai in piazza Sant’Oronzo, ma ci andai dopo qualche giorno… Sedetti al bar più centrale ed ordinai: -Mi porti qualcosa- al cameriere che restò perplesso. D’altra parte ero lì soltanto per osservare piazza Sant’Oronzo per verificare se era possibile che un tempo avesse preso il nome dai mercanti veneziani; che il Sedile fosse stato la loro sede di governo fatto costruire da un Pietro Mocenigo, e che non era un caso se la chiesetta vicina aveva stesso nome della

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celebre basilica: San Marco. Non so quale prova cercassi al di là di ciò che dicevano gli storici locali. Il leone di San Marco era lì, sul portale della chiesa; scolpito nel tufo leccese vibrava le ali. Ma sì: Bologna o Venezia che importanza aveva? Entrambe lontane ed estranee. “Che sia Venezia!” Mi lasciai, quindi, sospingere dalla tua determinazione. Quasi per farti dispetto presentai, oltre la domanda per il concorso, anche quella di supplenza, per l'anno successivo, nella provincia di Venezia. Con quelle carte firmate da me mettevo un picchetto irrevocabile sulla mia vita. Ora non fantasticavo più seguendo le orme delle donne della famiglia, ma mi esercitavo ad immaginare me stessa destreggiarmi a Venezia. Fino ad allora il suo nome era collegato a conoscenze scolastiche o immagini di documentari: le sue origini, i ponti, lo sposalizio con il mare, le gondole, i dogi, la regina del commercio delle spezie. Formule, stereotipi, concetti scontati che non dicevano nulla, anzi erano poco più di un paravento su una vertigine ignota. Avrei voluto anch’io specchiarmi nel mosaico di Otranto per riconoscermi e conoscere se la mia essenza fosse conciliabile con l’anima e

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l’animus di Venezia che nessun libro o documentario potevano far percepire. Durante uno di quegli esercizi si mescolò l’immagine di Otranto. Sentivo che le due città avevano qualcosa in comune: il mare, l’Adriatico, certo; le lotte contro i Turchi, verissimo, ma non soltanto. Mi convincevo che ciò che le accumunava intimamente fosse la doppia vita a cui entrambe erano condannate. Quella che si offriva rassegnata e prezzolata ai turisti durante la stagione e l’altra con le sue peculiarità che soltanto nel silenzio e alla presenza di rari intenditori si lasciano cogliere. Avevo forse bisogno di quel gemellaggio per ritrovare qualcosa di noto e non sentirmi smarrita? Con il nuovo autunno ero tornata ad abbinare al lavoro nell'emporio, e alle lezioni private. Il direttore della scuola cadde dalle nuvole quando io mi licenziai e sua madre inviò una lettera, un vero e proprio trattato sulla mia ingratitudine; a zia Estrella che mi tenne il broncio per un po’. La mia firma sui documenti che credevo smarriti tra tanti nelle graduatorie del provveditorato di Venezia, si animò come un amo che mi attrasse verso di sé: a metà ottobre giunse una comunicazione che mi assegnava una supplenza annuale. Non ebbi o non volli avere il tempo di pensare:

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spedii il telegramma di accettazione, preparai una valigia piena, soprattutto, di libri e mamma mise altri miei effetti in un pacco che mi avrebbero fatto pervenire non appena avessi trovato una sistemazione. La sera stessa partii. "Pensa al tuo avvenire." Me lo ripetesti mentre salivo sul diretto Lecce-Trieste e mentre me ne stavo schiacciata contro il vetro con un atteggiamento da orfana. Era proprio a me che tutto ciò stava accadendo? Fortuna che il viaggio durava dodici ore: avrei cercato di dormire per tutto il tempo oppure sarei scesa alla prima stazione? Mi ripetevo il nome del paese, in provincia di Venezia, dove avrei dovuto insegnare: Treporti; e il nome della persona che sarebbe venuta alla stazione di Mestre a prelevarmi. Era un conoscente anche lui trasferito nel nord; lo ricordavo vagamente, lo stretto necessario, almeno speravo, per riconoscerlo. E quando il treno si mosse, dovetti controllare l'impulso di tirare il freno. Volevo scendere e dirti: "Abbiamo scherzato, papà: facciamo che tutto torni come prima." Invece tutto cambiò vorticosamente: innanzi tutto, all'arrivo a Mestre, venne a prelevarmi il conoscente che se n'era incaricato. Si grattò la testa quando gli dissi la mia

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destinazione. "Se ti facessi vedere la località sulla cartina, ti sembrerebbe vicinissima in linea d'aria, ma con la laguna di mezzo tutto è un po' complicato. Ma vieni, vieni, non spaventarti. Non facciamo nemmeno in tempo per una brioche...." Riprendemmo il treno e dopo una ventina di minuti eravamo a Venezia. La laguna di novembre con una infreddolita e affamata popolazione di colombi ci aspettava, mi sembrò, all'uscita dalla stazione. I procacciatori dei vari hotels, con il loro sguardo esperto, non ci presero in considerazione. Intanto il mio ospite mi sospingeva verso l'imbarcadero. Nella nebbiolina leggera che rimaneva a mezz'aria vidi caracollare un vaporetto, seguii le manovre dei marinai, la gente ravvolta che scendeva e l'altra che si imbarcava e tra questi io e la mia guida che portava una delle mie valigie. Il vaporetto solcò tutto il Canal Grande: io guardavo l'acqua sotto, la nebbia sopra, lo zoccolo nero dei palazzi, le rare gondole con qualche turista giapponese, i ponti. Percepivo lo schiudersi dell’anima di Venezia e, subito dopo, la sua guardinga ritrosia. Ci misuravamo a vicenda. La città voleva decidere se poteva fidarsi di me, ennesima forestiera; io quanto lei fosse vicina e

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quanto lontana dalle mie fantasticherie. Attraccammo in piazza San Marco, ma ebbi soltanto il tempo per una sbirciatina perché già dovevamo salire sulla motonave per Treporti. L’incontro a tu per tu con la città che aveva avuto una piazza a Lecce era rimandato per via di tutto quel susseguirsi di sali e scendi da mezzi di trasporto. I campanili delle isole della laguna sembravano beccheggiare sulle onde, mentre in verità ero io che beccheggiavo assecondando il movimento della motonave: come quando da bambina dondolavo su me stessa per consolarmi. A Treporti, la mia guida mi sistemò in una trattoria con alloggi, ma mi consigliò di cercare una soluzione più economica; per esempio una stanza in famiglia con l'uso di cucina. Scappò via ed io lo immaginai mentre ripercorreva all'incontrario quella serpentina che fugacemente avevo intravisto. Presi servizio a scuola e, quasi subito, la bidella mi trovò una sistemazione in famiglia: si trattava di una gentile famigliola formata da padre, madre e tre ragazzetti di età assortita. I ragazzi mi accolsero come una bella novità interrogandomi su Lecce, sulle spiagge ed il mare del Salento, sul cibo fino a quando la signora Antonella, la loro madre, non li scacciò rimproverandoli per la loro indiscrezione. "Vieni con me- disse- Non te la prendi a male se ti do il tu, vero?

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Sembri più giovane della tua età e spersa. La camera è in mansarda, ma è bella grande e ariosa ed ha il servizio. Ci metteremo d'accordo per gli orari in cui ti occorrerà la cucina: sappi che a me non costerebbe niente preparare per una persona in più, se vuoi..." Io non sapevo cosa dire: avevo voglia di piangere e non vedevo l'ora di restare da sola; quindi risposi un po' vagamente: "Grazie, ma preferisco fare da me." Quasi ogni sera andavo al posto pubblico per telefonare a casa anche se, più che parlare, piangevo come una bambina, ma tu, inesorabile, mi ripetevi la stessa frase: "Pensa al tuo futuro." Mi sentivo così incompresa e ti giudicavo così insensibile che a volte saltavo le telefonate e per mettere un freno alle nostalgie mi tuffai anima e corpo nella preparazione per il concorso. Per l'uso della cucina feci in modo di disturbare il meno possibile: a pranzo me la cavavo con una bistecca, a cena con un panino. La signora Antonella veniva spesso ad invitarmi, ma io ringraziavo e declinavo l'invito adducendo lo studio. Dovetti sembrare a quelle brave persone un essere scostante e misantropo. Quando ero proprio stanca di studiare alzavo lo sguardo fuori dalla finestra.

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Dopo il tramonto mi sembrava che le anatre mute, le folaghe, le poiane, gli aironi si affannassero a trapuntare con i loro becchi la coltre impalpabile di goccioline: più in fretta possibile prima che la foschia precipitassero in nebbia; questa si addensava al punto che, a volte, la motonave da e per Venezia non partiva. Io pensavo con un brivido alla distanza incommensurabile che mi divideva da Lecce, da te, dal telaio di zia Naida, dalla gabbia di Porfirio, dal citrato di Amalia Turrini. Pensavo a Venezia che, nonostante fosse vicinissima, era intangibile per quella cortina di bruma che si infittiva. Forse che Venezia aveva messo le gramaglie per rispetto al mio stato d’animo? Quando proprio non ne potevo più, ti scrivevo lettere compromettenti: "Treporti, 26 novembre 1970 Carissimo, papà Sono qui solo da due settimane e ancora mi è difficile rendermi conto di dove mi trovo e di cosa faccio. Qualche volta dubito anche di chi io sia. Conto i giorni che mi separano dal ponte dell'Immacolata. Partirò giovedì sera e arriverò giusto per l'otto dicembre. Avremo tutto il venerdì, il sabato e la domenica fino alla partenza del Lecce-Trieste. Quasi tre giorni interi!

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Venerdì lo trascorrerò con tutti voi e mi dispiace un po' che ci sia anche il nuovo ragazzo di Miranda perché non saremo proprio in famiglia, ma non posso negare a mia sorella il piacere di presentarmi il suo nuovo amore. Sabato andrò a trovare la signora Erminia e a rivedere l'emporio. Voglio proprio guardare se c'è ancora il segno della gabbia del pappagallo: questa volta racconterò a te e a lei tutta la verità sulla fine del povero Porfirio. Potremmo anche fare una delle nostre gite al mare fuori stagione; sempre che non ci sia troppo freddo per te. Che ne dici di salire di nuovo sul faro: hai ancora la vista buona per indicarmi l'Albania ed io, ora che sono adulta, ascolterò tutta la storia della tua prigionia con un'attenzione maggiore di quando ero bambina. E potremo progettare per la prossima estate quel viaggio in Germania. Non preoccuparti per i soldi: te lo offrirò io se tu, nel frattempo, non avrai vinto al totocalcio la somma adeguata. Mi dite che il tempo da voi è splendido e assolato: qui c'è quasi sempre una nebbia fitta e desolante. Chi ci è abituato non ci fa caso, ma io metto il naso fuori soltanto per andare a scuola. E dopo l'otto di dicembre alle vacanze di Natale mancheranno soltanto quindici giorni.

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Questo mi dà coraggio, ma non voglio pensare a dopo: l'undici febbraio, per i Patti Lateranensi, forse potrò di nuovo venire. Mi sento sola, anzi isolata, fuori dal mio mondo, non faccio che piangere e rimproverarti di avermi mandata tanto lontana per via di quel maledetto debito che ti sei messo in testa di avere nei miei confronti. Andremo insieme a veder dare la prima picconata alla nostra vecchia casa e spero che tu ti renderai conto che hai interpretato male le parole di padre Pantaleo: era la casa e non io il tuo vero debito. Ti abbraccio forte mentre piango fino ad essere sfinita. Quando vai a giocare a bocce evita gli angoli troppo ventilati. E, a proposito di giochi, che fine ha fatto la scacchiera? Ti abbraccio di nuovo Cosetta." Che fortuna, papà, che lettere come questa, che avrebbero sconvolto te e tutta la famiglia, non le abbia mai spedite! Mi addormentavo leggendole e rileggendole fino a quando non le avevo imparate a memoria e immaginavo la tua faccia e i commenti di zia Estrella, i pianti di mamma, il turbamento di Miranda di fronte a lettere del genere.

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Veder mescolarsi sullo stesso foglio una sequela di precisissime date ad un guazzabuglio di ricordi e confessioni incoerenti vi avrebbe fatto temere per me. In realtà quelle lettere non erano scritte da un'adulta, ma da quella parte infantile di me che, non essendosi fatta viva al momento giusto, faceva capolino fuori tempo e fuori luogo. Al mattino successivo era abbastanza rinsavita da strapparle. Vi scrivevo lettere più normali e meno lagnose che bilanciavano, almeno in parte, le lacrime che per telefono non sempre riuscivo a trattenere. Durante quell'anno di supplenza mi preparai al concorso magistrale, lo sostenni e lo vinsi. Ogni passo che mi faceva progredire, mi allontanava da te e dalla mia vita di prima, anche se tornavo "a casa" ad ogni occasione: Natale, Pasqua, le vacanze estive. Ma, pur non volendo, mi estraniavo: riprendere il filo interrotto quando non si condivide la quotidianità è un'impresa impervia. Ero insofferente verso tutti e non mi raccapezzavo: amavo Lecce e voi; spasimavo per tornare e, tuttavia, al mio arrivo mi sentivo fuori posto. Cercavo di essere di buon umore e, per riallacciare le fila dei nostri discorsi, raccontavo le mie esperienze, le mie sensazioni, il

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paesaggio lagunare, i vaporetti e Venezia. Una volta venne anche Giorgio con la moglie e le due figlie a guardarmi come un fenomeno da baraccone per quell'ardimento insospettato che avevo dimostrato andandomene e commentò: "Certo che sei fortunata: tanta gente va lontano in Svizzera, in Germania, in Belgio. Tu, almeno, sei qui in Italia. E gli altri, poi, vanno a fare gli operai, i minatori, i camerieri: tu hai un lavoro che ti dà prestigio." "Ma lontano chilometri- diceva Fernanda lisciando le sue piccole- Io morirei." "Se avesse voluto- si intromise zia Estrella- avrebbe potuto rimanere qua. E' stata una ragazzata; vuol farci morire dal dispiacere. Le avevo trovato un posto in una scuola...ma lei niente...è scappata. E chissà che vita, che pericoli..." E tu placido: "Cara Estrella quella scuola tienila presente per le ragazze di Giorgino, se mai ne avranno bisogno.” Fortuna che Giorgio e la sua famiglia non potevano cogliere il senso di quella osservazione. Inoltre Miranda aveva un moroso ricco e questo rallegrava la zia e mamma e tutti dirigemmo su di lei l'attenzione. Zia Estrella affermò con sicurezza, rivolgendosi

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a mia sorella: "Tu no, non farai l'emigrante." "Ci mancherebbe anche questo." Le diede man forte l'innamorato di mia sorella. Alla fine dell'estate ero impaziente di tornare a Treporti. Così smisi di remare contro corrente. Con il nuovo anno scolastico, che mi vedeva di ruolo in quella sede in cui ero stata supplente, decisi di non rincantucciarmi più in me stessa. Cominciai a stringere amicizia con i colleghi che, nella maggior parte dei casi, abitavano a Venezia. In principio accettai gli inviti dei più anziani come se continuassi a cercare un nido. Per questo fui spesso ospite della mia collega Wally e di suo marito Alvise, una coppia sui cinquant'anni che non aveva figli. Erano due squisiti veneziani: romantici, ma non sentimentali e con un sale di ironia che mi insegnava l'equilibrio che era mancato alla mia educazione permeata da quella venatura di tragedia greca, sempre incombente. Credo che mi abbiano capita: non mi hanno giudicata una primitiva un po' zotica, ma solo una provinciale appena, appena inselvatichita. Mi fecero conoscere Venezia grandiosa e minimalista con i suoi locali pieni di "cicchetti" e di "ombre". E mi convinsero ad abbonarmi assieme a loro agli spettacoli pomeridiani della Fenice, alla

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stagione teatrale del Goldoni. E così divenni espertissima di orari di motonavi e mentre facevo su e giù da Venezia mi sorprendevo e mi chiedevo chi fossi ed imparavo a riconoscere, anche se lentamente, quello che volevo io per me stessa. Fu proprio sulla motonave per Venezia che un giorno conobbi Aldo. Aldo era da Pesaro, aveva vinto un concorso alle poste e lavorava sulla terra ferma, come dicono i Veneziani. Era entrato in una comitiva di giovani tra i quali c'era un compaesano che abitava a Treporti e per questo Aldo frequentava, in certi orari, la motonave. A furia di incontrarci cominciammo a sorriderci e a salutarci con quella disinvoltura propria dei giovani che in me non era istintiva, ma un atteggiamento a cui mi andavo conformando. Un giorno Aldo prese la motonave senza ragione o meglio non per le solite ragioni, ma per stare con me. Me lo disse semplicemente con le sue maniere pacate e dolci, facendomi arrossire. Trascorremmo tutta la serata nella pizzeria vicina all'imbarcadero e mi parlò di se stesso e della sua città senza quella nostalgia ossessiva che a me stringeva il cuore. Andava verso la vita e le esperienze nuove come una scoperta allegra, senza prevenzioni, timori, rimpianti puerili.

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Si meravigliò quando sentì che i miei migliori amici, quelli con cui condividevo i passatempi, era una coppia di cinquant'anni. "Potresti unirti a noi -mi propose- siamo una comitiva di ragazzi e ragazze in parte forestieri, in parte veneziani." Io sorrisi: "Non vorrei disturbare." "Disturbare? Ma come parli? Tra giovani quanti più si è meglio è. Anche noi andiamo ad assistere a concerti e spettacoli intelligenti; certo non sempre facciamo cose impegnate, se no che giovani saremmo. Domani, ad esempio, andiamo alle zattere a prendere il primo sole e a mangiare un gelato buonissimo. Vieni con noi, naturalmente." Io pensavo che Aldo era il secondo uomo nella mia vita ad offrirmi la pizza, mi perdevo nel ricordo del Bar Lux e non rispondevo. Aldo capì che ero un po' particolare, che i miei tempi non erano quelli degli altri giovani, che ero insicura nei rapporti con i coetanei. Quella sera dissi di no che non sarei andata alle zattere. "Ma perché?" "Così." "Ma ci sarà un motivo?" "Non decido mai su due piedi." "Ma dammi una buona ragione?"

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Insomma facemmo tiro e molla per un po' e ci lasciammo con un no. La notte mi girai nel letto pentita per quel rifiuto e fui molto felice quando il giorno dopo, all'ora di pranzo, Aldo mi chiamò al telefono: "Non rispondermi nemmeno: arrivo con la motonave delle sedici e trenta e andiamo alle zattere." Così cominciai a tralasciare un po' la compagnia di Wally -che mi prese affettuosamente in giro- ed entrai, finalmente, in un gruppo di coetanei. Ero sempre un po' stonata e fuori posto perché, caro papà, non avendo mai fatto capricci in vita mia e non essendomi mai permessa di pensare a cose futili, non avevo l'allenamento, l'esercizio, l'abitudine- non so come chiamarli- a farlo. Ero diventata saggia senza mai essere stata giovane. E tuttavia questa condizione interiore, che costituiva la mia essenza e trasudava dai miei gesti, attirò Aldo. Si innamorò di me ed io di lui che mi sapeva ascoltare e capire così bene. Capiva tutto Aldo e con lui fin dal primo momento potei parlare di te e della scacchiera, della tua vita, della tua guerra, della tua fragilità e della tua grandezza con i giochi e del sistema del totocalcio. Stavo quasi per parlargli anche del viaggio in

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Germania, ma non lo feci. Restai così colpita dalla sua capacità di comprendere cose che erano lontane e fuori dalla sua esperienza che pensai che sarebbe stato un ottimo compagno. Forse pensai anche che sarebbe stato un ottimo genero per te. Sì Aldo aveva tutto quello che occorreva al mio equilibrio e al tuo quando, dopo che avessimo cumulato un certo punteggio, fossi tornata a Lecce. Da quel momento la vita si avventò su di me. Aldo mi chiese quale pietra preferissi per anello di fidanzamento. “Né zaffiri, né rubini, né brillanti!” Risposi come se fossi ancora in quel pomeriggio della spartizione degli anelli di zia Naida. Ero stata così decisa che Aldo restò un po’ interdetto, poi rise pensando che mi riferissi alle nostre convinzioni alternative. “Né zaffiri, né rubini, né brillanti! – ripeté lui “Che sollievo! Perché dovete sapere, cara principessa, che il vostro innamorato dovrebbe vendere gli occhi per ricoprirvi delle gemme che meritate!” E la sua dolce, dolce bocca si congiunse con la mia. Proseguimmo abbracciati e complici: “Veramente mia madre, a cui sei piaciuta subito, sarebbe pronta a sobbarcarsi perché-

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dice- sei una ragazza che merita.” “Bontà sua, ma non occorre. Comunque sono contenta di piacerle.” “E’ perché non ti conosce quanto me… non sa quanto puoi essere sorprendente e arcaica nello stesso tempo!” “Grazie! Facciamo così: andiamo in giro in certi fondaci di Venezia e vedrai che riconoscerò il mio anello.” Fu così che scelsi una fede sarda di seconda mano. Il matrimonio, poi, che si tenne a Lecce, con i miei suoceri e i miei cognati giunti da Pesaro, fu una grande baraonda. Io e te, papà, continuammo a dirci addio quando mi portasti all'altare. Anche quel breve cammino che percorremmo insieme sulla guida rossa dalla soglia della chiesa, dedicata alla Madonna del Rosario, all'altare maggiore ci allontanava. Anche se tu avevi un aspetto fierissimo ed io pensavo ad Aldo così bello nel suo vestito da sposo che mi sbirciava dall'altare. Si sa che il senso di certi momenti nodali siamo destinati a capirlo solo con il tempo. E tutto andò di conseguenza: Aldo, come avevo intuito, era il genero che ti ci voleva: aveva un'istintiva delicatezza verso tutti, il rispetto degli anziani, l'umanità. Queste doti conquistarono anche te e non avesti alcuna vergogna a metterlo a parte del

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tuo sistema, della vincita grandiosa che prima o poi sarebbe venuta. Mio marito ti guardava in modo penetrante. Aldo ascoltava le basi matematiche del tuo sistema e ti dava ragione, non come si dà ragione ad un vecchio stolido, ma perché provava dell'affetto per te e lo stesso affetto gli permetteva di comprendere anche quella specie di pellegrinaggio che volevi compiere. Ci dividevamo tra Spoleto, dai miei suoceri, e Lecce perché le nostre venute ti rendevano felice. Anche mamma lo era e Miranda, che aveva un nuovo innamorato e frequentava la facoltà di giurisprudenza a Bari. Persino zia Estrella era quasi amabile con Aldo e con me eccetto che quando, con un sospiro, dopo un paio di anni dal matrimonio, cominciò a dire: "E bambini, niente?" Anche nel tuo sguardo vidi brillare quella domanda. D'altra parte io stessa cominciavo a preoccuparmi per il bambino che non veniva e divenni suscettibile sull'argomento al punto da evitare per qualche tempo di tornare a Lecce. Poi ci furono le mie gravidanze andate a monte. Dopo ciascuna mi dovevo rimettere fisicamente e più ancora moralmente. Così per un po' di anni il nostro rapporto si ridusse alle telefonate e alle lettere.

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Miranda si laureò, proprio mentre io ero costretta a starmene a letto per non perdere il bambino e mi dovetti limitare agli auguri per telefono e all'invio di un mazzo di rose. Avevo trentacinque anni quando nacque Giuseppe. Tu e mamma veniste per il battesimo. Arrivaste con tutte le leccornie che potevate portare tanto che io, sapendo che solo tu avresti capito, scherzando dissi: "E i ricci, papà? Li hai dimenticati?" Mia madre che era all'oscuro, cadde dalle nuvole: "I ricci! Quali ricci?" E tu rimettesti le cose a posto con il tuo intervento: "Altro che ricci! Ho portato schei -come dicono qua- Ho fatto un dodici..." "Eh il tredici- intervenne mamma- non lo ha pizzicato nemmeno questa volta." "Ma è ugualmente una bella sommetta e un bel regalo per mio nipote." "Aprigli un libretto di risparmio." Suggerì mamma. A distanza di anni mi sembrasti invecchiato, mentre mamma era solo diventata un po' muscolosa. Il tuo spirito sembrava vivificarsi alla vista del nipote, del figlio maschio che non avevi avuto. Ancora una volta sentii che ero stata all'altezza del compito che tanto tempo prima mi ero

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assunto: farti felice. Gli anni successivi alla nascita di Giuseppe sono stati tutto un dialogo tra te e mio figlio. La sua vista ti riempiva di fierezza e di tenerezza: il bambino che era in te lo coccolavi e lo viziavi attraverso lui. Dialogavate per telefono come vecchi amici. Ogni sua parolina o monelleria ti inteneriva. Non c'era mese che non chiedessi sue fotografie per seguirne la crescita. Oramai eri andato in pensione e fui più volte tentata di chiederti se avevi liquidato i tuoi debiti con zia Estrella. Ma non lo feci e mi meravigliai nel rendermi conto che non c'era tra noi la confidenza di un tempo. Miranda era sempre fidanzata, anche se i suoi legami affettivi andavano inevitabilmente a monte. Questo mi faceva comprendere più chiaramente quanto fosse importante per te il mio ritorno a Lecce. Cominciasti ad accennare timidamente alla nostra domanda di trasferimento. Io ne parlavo con Aldo che non lo escludeva, anzi, come per mettermi alla prova, mi diceva sorridendo con tenerezza: "Decidi tu, io sto bene ovunque: qui, a Pesaro, a Lecce. Tutti i luoghi vanno ugualmente bene per me. Devi scegliere tu il posto in cui ti trovi meglio."

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Giudicai Aldo un marito comprensivo, ma poi cominciai a sentire il peso di quella decisione che dovevo affrontare da sola. Quando tu riprendevi il discorso per telefono o quando ci si vedeva di persona ti rispondevo come un ritornello che richiamava nella mia memoria quello tuo degli anni addietro: "Pensa a farti un avvenire" . Ti rispondevo: "Appena avremo accumulato un buon punteggio" In principio ci credevo e facevo conteggi dei punti per ogni anno di insegnamento, quelli per il marito e per Giuseppe e concludevo che dovevamo aspettare ancora un po'. La tua domanda non cambiò con il passare degli anni, soltanto era la mia risposta che si adattava alle circostanze. Sapevo che erano scuse evasive che mutavano quel tanto che corrispondeva alla crescita di mio figlio. Ti dicevo: "Quando Giuseppe terminerà la scuola materna." E dopo: "Aspettiamo che Giuseppe termini il ciclo della scuola elementare: non possiamo sradicarlo." Poi hai smesso di chiederlo e di crederci. Imparasti ad accontentarti delle nostre venute anche se anche quelle si andavano diradando. Ora che eravamo in tre, tornare per le vacanze

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estive era motivo di disagio perché la casa era comunque la casa di zia Estrella che era diventata tanto anziana, non amava la vivacità di Giuseppe, ed era addolorata per i fidanzamenti che Miranda mandava a monte. Così affrontavamo quel viaggio lunghissimo per trattenerci solo pochi giorni in punta di piedi, quasi, e rimanevamo entrambi con l'amaro in bocca come di fronte a qualcosa di incompiuto e, durante il viaggio di ritorno, a momenti provavo la voglia di tornare indietro per portarti via con noi; a momenti giuravo a me stessa che non sarei tornata mai più. Fu Aldo che con il suo buon senso e il suo amore trovò la soluzione: per trascorrere il mese d'agosto a Lecce, affittammo un appartamento che d'inverno era occupato da universitari. Così nessuno era disturbato dalla nostra presenza e ci potevamo godere quel lungo periodo. Quell’ agosto, al mostro arrivo a Lecce, era appena stata emessa la sentenza su Priebke. Ero ansiosa di vedere se tutta quella faccenda aveva riaperto le tue vecchie ferite, se i ricordi visti nella scacchiera erano tornati a tormentarti. Ma tu, invece, eri tutto preso da Giuseppe sui pattini. Le spericolatezze del ragazzino ti divertivano e ti inorgoglivano. Non ti nascondevi dietro solitari o parole

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crociate, eri diventato capace di farti piccino come mai eri riuscito a fare con me o con Miranda. Non ti saresti distolto da lui se non fossimo stati noi ad interpellarti sul processo Priebke. Seguisti un po' le immagini per televisione e dicesti: "Che la giustizia umana debba fare il suo corso è vero. Ma mi sembra un povero vecchio come me... potrei persino fare una partita a carte con lui con quel po' di tedesco che ricordo ancora, o giocare a bocce. E se fossi ancora in servizio lo porterei in giro a fargli vedere mare e cielo: forse non li ha mai guardati." Ridesti: "Ti ricordi, Cosetta, di quando ero giovane che mi ero messo in testa di tornare a visitare il lager?" "Sì papà: ne parlavi spesso.” "Avrai pensato, che ero proprio un vecchio pazzo." Non attendesti la mia risposta, ti facesti un po' pensieroso e riprendesti abbassando la voce: "Sai, Cosetta, ora ho capito tutto di quello che mi disse padre Pantaleo. Parlò dei debiti, ma anche dei crediti che- disse proprio così- “credevo di avere”. Mentre mi davo da fare per pagare i debiti mi sono dimenticato dei cosiddetti crediti e quindi

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dei miei aguzzini, del mio rancore verso di loro e del famoso viaggio. Solo così ho cominciato a vivere veramente. Che perdita di tempo c'è nel rancore!." E ti rimettesti a giocare con Giuseppe. Eri pacificato. E lo fosti per tutto il mese e così ancora mi apparisti il giorno della nostra partenza alla fine d'agosto. Il tuo sorriso era furbo e dolce nel saluto che ti ricambiammo dal finestrino dell'automobile, mentre Giuseppe si sbracciava. Anch'io ero appagata nel vederti sereno e sollevata perché mi eri apparso finalmente libero. Durante il viaggio, quando Giuseppe si assopì e imboccammo l'autostrada, potei abbandonarmi alle mie fantasticherie. Tornavano tanti fantasmi ed echi del passato, tanti volti come quello di zia Naida e di donna Rirì. E di nuovo mi chiesi quale fine avesse fatto la scacchiera. Forse era rimasta tra le fondamenta della nuova costruzione dopo che la nostra vecchia abitazione era stata sventrata. Cominciai a sognare ad occhi aperti e nel sogno ti vedevo salire le scale diroccate del faro, tirare fuori da sotto la camicia il cartoncino e farlo in mille pezzi che sarebbero volati via, volteggiando assieme ai gabbiani. Prima o poi avrei avuto la faccia tosta di

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chiedertelo, magari per telefono o per lettera o, meglio ancora, di persona: la prossima volta. Non c'è stata più la prossima volta. Il 12 settembre ero nuovamente a Lecce davanti alla tua bara. Avevi avuto un infarto e dopo poche ore di coma eri spirato. E ripensando all'ultimo mese, alle tue parole su Priebke, alla tua pace capivo che doveva essere così, che Dio ti aveva preso quando avevi percorso tutto il cammino fino al perdono non solo nel tuo intimo, ma anche testimoniandolo con le parole a me, ad Aldo, a mio figlio. Ed ero contenta di averti tenuto per mano lungo il tuo lento maturare. C'è un luogo -lo credo- pervaso di Luce- narrano - e la Luce- immagino- prima di condurci Oltre ci lascerà giocare una partita sulla nostra scacchiera. Arrivederci, papà.

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FINE

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