un limoncello all'inferno (terza stazione)

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Quel 27 gennaio mio papà mi ha liberata dalle zavorre della nostalgia; mi ha permesso di accettare la mia identità composta da due anime, da due culture, da due patrie: non potrei consistere senza una delle due. Storia di un reduce dai campi di sterminio nazisti, fra i molti che racchiude, è questo forse il messaggio conclusivo del libro memoria-romanzo di Centonze. Quello che condensa i caratteri del suo animo esuberante e mette in luce il legame profondo con il padre. Legame che non è banale attaccamento al genitore preferito, ma elogio della paternità – il senso acuto della responsabilità sopravvissuto in uomo pur così ferito e segnato da una esperienza atroce - e della maternità. Perché Cosetta (colei che scrive in prima persona) l’ha preso veramente per mano, come quei bambini che si sono persi in un contesto non più familiare, e che il sentimento materno spinge a raccogliere per “riportare a casa”. Rapporto unico ed esemplare sul quale fiorisce come sentimento maturo il perdono di Lui ai suoi aguzzini e la sapiente - sperimentata sulla sua carne - fraternità di Lei.

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Prisca, dopo la morte di Naida, si recava ogni giorno a casa delle sue sorelle per consolarle e aiutare Renata che con le faccende non era

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mai stata abile. Per semplificare tutto Miranda fu iscritta alla vicina scuola privata. Prisca e Miranda tornavano a casa nel pomeriggio. Io terminata la scuola, ti aspettavo da donna Rirì. Tu passavi di là a prendermi e scambiavi qualche parola con lei che ti burlava: "Ah sei proprio nato per fare il pascià: Prisca ti avrà lasciato una buon pranzetto prima di andare a fare la stessa cosa per le sue sorelle ed ora Cosetta te lo riscalderà." Tu ridevi sollevato perché donna Rirì aveva un modo tutto suo di scherzare senza ferire e dicevi educatamente: "Favorite, donna Rirì." "Grazie no." Rispondeva lei che capiva benissimo che lo dicevi per pura cortesia; e una volta te lo rinfacciò apertamente: "Favorite, ma non venite! E' vero Palmiro? E sì che posso vantarmi che tua madre mi ha trattato come una sorellina; frequentavo la sua casa quando lei era ragazza, quasi quanto ora Cosetta la mia bottega. Non sei superbo, sei solo timido e se ti viene qualcuno per casa non lo sai trattare". Anche allora ridesti arrossendo, per essere così scoperto e ti decidesti a farle delle confidenze: "La verità è che ho un impegno grosso.

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Domandatelo a Cosetta se non è vero che studio. Anzi ho bisogno di quaderni nuovi e penne come si deve. Ne avete?" "Accidenti: è il mio mestiere." Entrammo nell'emporio: tu ti aggiravi tra gli scaffali e sceglievi quaderni e penne come uno studente affetto da grafomania. Io mi compiacevo di Porfirio che gracidava dalla sua gabbia innervosito dalla tua presenza e ascoltavo quello che, infervorato, andavi spiegando alla padrona del citrato: l’eterna ricerca del sistema che ci avrebbe dato in preda ad una smodata ricchezza. Ti lagnasti dei tuoi soci di puntate che procedevano con troppa prudenza. E fremevi perché avresti voluto sciogliere la società e puntare da solo una grossa somma. "Vedrete, donna Rirì, vincerò la somma che mi cambierà la vita da così a così." La nostra amica fece segno di sì con la testa. Osservando Porfirio immaginai che noi due assieme al pappagallo formassimo un numero di artisti di strada. Anche il circo, infatti, pur nel suo nomadismo, non faceva per noi che non volevamo mescolarci a nessuno perché ci sentivamo sempre o troppo in alto o troppo in basso e così non riuscivamo né ad atterrare, né a prendere quota all’unisono con gli altri. Quindi percorrevamo il mondo con il pappagallo

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variopinto che ci indicava la strada come la colomba nelle edicole che da bambina mi facevano da posta. Di tanto in tanto ci saremmo fermati in luoghi in cui nessuno ci conosceva né ci riconosceva. Avremmo montato una tenda e subito si sarebbe diffusa la notizia del mago del totocalcio che dispensava sistemi infallibili. Accadeva quindi che tu permettevi ad altri di vincere ricevendo piccoli compensi che ci permettevano di continuare a girovagare giacché non so quale sorte ti aveva condannato a non vincere mai. Mi riscuotevo e scacciavo quella perversa fantasticheria. Non credevo ad una tua vincita epocale o semplicemente non pensavo che essa sarebbe stata sufficiente a liberarti? Intanto ti eri fornito dell'occorrente ed io decisi di portare da noi, finalmente, Porfirio. Donna Rirì ti disse: "In bocca al lupo." Io presi finalmente la gabbia con il pappagallo e tornammo a casa. La vita scorreva così: Prisca e Miranda se ne uscivano ogni mattina per andare nel rione dalle zie. Io nel pomeriggio, quando le lezioni me lo permettevano, facevo la spola tra le due case. Tornavo per darti una sbirciatina, ma potevo stare tranquilla perché tutto il tempo libero dal

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lavoro ti immergevi in quella certosina e paziente registrazione dei risultati delle partite. La domenica mi svegliavo già pensando alle schedine e al sistema. Nel pomeriggio niente ti smuoveva: trascorrevi quelle ore attaccato alla radio, controllando tutte le schedine. Siccome Porfirio gracidava e tu ti innervosivi, imitando la mia amica, gettavo sulla gabbia un panno che tacitava il pappagallo. A volte salivo sulla rampa di scale del primo terrazzino a leggere, ma sempre con l'orecchio teso ad ascoltare le parole che tu gridavi: "Rete! Goal!" In genere riportavi qualche vincita di poco conto, giusto sufficiente a riprendere le spese. Nel rione si parlava di quella novità: conoscenti, forse resi edotti da donna Rirì riguardo al tuo progetto, si mostravano incuriositi. Nessuno però riusciva a comprendere le basi matematiche del tuo sistema e quando sbirciavano in casa nostra si limitavano a domandare: "Che fa Palmiro al totocalcio?" "Pizzica." Avevo imparato a rispondere io. Le vincite significavano i materassi a molle che sostituirono quelli di crine e di lana e l'orologio Longines che avevi acquistato per te e un paio di orecchini d'oro per mamma. Erano tutte occasioni che ti mettevano di buon

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umore sia perché dicevi che "tanto va la gatta al lardo..." sia perché quei piccoli flash di benessere, proprio in quegli anni in cui si affermava il miracolo economico, di cui erano espressione le famose cooperative e le prime cinquecento, toccava anche noi. Quando andavamo a trovare le zie, loro esaminavano i nostri acquisti approvando laconicamente. Vollero ricomprarci i materassi di lana e di crine che erano dote di famiglia. Ma facevano di tutto per darti scarsa importanza dedicandosi a vezzeggiare Miranda che era la loro cocca. Mi chiedevo se, prima di darvi a spendere, aveste saldato i debiti che inevitabilmente continuavate a contrarre con loro. Una volta volesti festeggiare al “Bar Lux”. Anche in questo caso dovesti faticare a convincere Prisca che, a sei mesi dalla morte di zia Naida, non aveva ancora smesso il lutto. Mamma era reticente e ripeteva: "Che cosa diranno? Che ho già dimenticato mia sorella che pure mi aveva fatto da madre? No, non posso." "Ma in fin dei conti, non siamo morti con lei! Guardati: hai preso il colore delle pareti; e Miranda poi e Cosetta? Ed io? Cosa ti costa farci contenti?" Sospirando mamma si decise a dirti di sì e ci

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recammo nel locale. Il "Bar Lux" si era ingrandito e non era più un bar con un angolino per il forno a legna, ma una vera pizzeria. Prisca, nonostante i suoi scrupoli, mangiò di gusto: nel movimento della testa tra i riccioli neri si vedeva il lampeggiare degli orecchini d'oro: mai mia madre mi era sembrata tanto bella. Tu accarezzavi il tuo Longines. Io trattenni il respiro perché, per un istante, percepì la felicità di quella mattina d'estate, nel parco, che si riaffacciava, riprendeva forma, trasmutava ogni cosa. Poi mamma osservò: "Un uomo che indossa un orologio di quella marca non dovrebbe fare il fattorino, ma il ragioniere: ah se dessi l'esame per il diploma!" E subito l'aura della felicità si ritirò. Tuttavia Prisca si limitò a quel rimprovero e tu non la prendesti di petto e così la serata andò avanti garbatamente anche se mi sembrò che la pizza non avesse il sapore che aveva avuto quella sera in cui mi avevi portata lì, invece che al cinema, per incontrare la tua setta di amici giocatori. Fu una bella serata, ma non reggeva il confronto con quella mattina di qualche anno prima nel parco rosso di sole nascente, piena della dolcezza dei wafer e dell'assenza della paura.

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Di lì a poco sembrò che la sorte ti voltasse le spalle e cessarono anche quelle piccole vincite. Ora sbuffavi quando qualche conoscente passava da casa a chiedere: "Hai pizzicato, Palmiro?" Eri incupito e fumavi senza interruzioni: il rumore della molla del posacenere era il termometro del tuo malumore. Infine avesti un'idea: "Secondo me- dicesti parlando con mia madre che piegava il bucato con il mio aiuto- si tratta di quel maledetto nero che indossate a portarmi male." Mia madre scoppiò a piangere: "Sei un turco, un miscredente! Come puoi pretendere che io non porti il lutto per la povera Naida che mi ha fatto da madre?" Tu comprendesti di aver passato il limite e ci voltasti le spalle restando di fronte ai vetri della finestra con le mani nelle tasche. Quella notte io, invece, rivoltandomi nel sommier pensavo: "E se avesse ragione zia Estrella che ha chiamato Porfirio uccellaccio del malaugurio? Sarà è a causa sua che papà ha smesso di vincere? Se è così occorre che lo porti via. Povero Porfirio e povera donna Rirì se sapesse." Il pomeriggio successivo, mentre tu eri immerso nel sistema, alzai la testa dai libri e dissi a mia

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mamma: "Sono stanca di prendermi cura di Porfirio. Mi fa schifo pulire ogni giorno la sua gabbia." Mia madre mi guardò: "Te lo avevo detto che l'impegno toccava a te. Io ho già tanto da fare con Miranda, la casa, le mie sorelle." Mi guardò come se sospettasse che non le dicevo tutta la verità: "Come mai questo cambiamento? Sembravi così affezionata al pappagallo; e Miranda si diverte tanto." "Regaliamolo" Insistevo io. "E donna Rirì? Come faremo a portarlo via sotto i suoi occhi? "Sceglieremo un momento in cui non ci vede." E quando si accorgerà che non c'è più, cosa diremo?" "Non lo voglio più." Ripetevo con ostinazione perché quanto più mia madre cercava di farmi ragionare tanto più io mi confermavo che Porfirio, con il suo brutto verso e con quello che diceva di lui zia Estrella, fosse la causa della tua sfortuna al gioco. "Insomma Cosetta tu lo hai avuto in regalo e tu devi decidere. Bada poi di non pentirti." Tu compilavi le schedine con meticolosità volgendomi- mi sembrava- la tua nuca in attesa della mia indecisione.

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Mia madre mi guardava con compassione e Miranda mi seguiva ovunque. "Dunque cosa aspetti!?" Diceva la parte di me che si era votata a te. "Ma cosa dirò a donna Rirì? Non vorrai mica tirare il collo a Porfirio?" Rispondeva l'altra parte di me. La tua nuca non mi aiutava ed io ero vicinissima alle tue spalle e speravo che ti voltassi verso di me con la faccia di Dean Martin e la risata di Jerry Lewiss. Ma non accadeva e rimanendoti alle spalle guardai, come se le vedessi per la prima volta, i quadratini del quaderno su cui raccoglievi i risultati delle partite, ma non vidi che le linee nere che si incrociavano come delle grate. Possibile? Ancora una volta, come anni prima con la scacchiera, esprimevi il lager. Oppure era il carcere in cui continuavi a vivere per via delle tue cognate ? L’elenco di ciò che la vincita al totocalcio avrebbe dovuto pagato si allungava: c’era sempre la casa nuova, le pendenze con le cognate che pagavano ora la retta per Miranda, e il viaggio di ritorno verso i luoghi della tua prigionia con Giorgio e tutti gli altri. Questa idea, intuizione o immaginazione che fosse, mi diede la forza di decidermi. Un pomeriggio, in cui eri a lavoro, in casa c'eravamo solo mamma, Miranda ed io.

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Passai un po' di tempo a spiegare tutto a Porfirio con il solo fissarlo. Mi sembrò che egli mi parlasse con la voce di donna Rirì: "Per me fai pure. Io credo che tu ti sbagli, ma da parte mia non fa differenza perché sono stanca di stare in vostra compagnia. Stanca, sì, perché sono una femmina anche se mi chiamate Porfirio." Feci un cenno a mamma che staccò dal chiodo la gabbia. Prisca prese in braccio Miranda, io presi la gabbia con Porfirio. Passammo davanti all'emporio: fortuna che la saracinesca era abbassata! Pensai che tutto era favorevole al mio tradimento. Ed io che avevo immaginato di girare il mondo con te e con Porfirio... Giungemmo in periferia che era il crepuscolo. Non era più la bella periferia dei primi anni del dopoguerra, quella fatta di ruderi e cespugli di fiori di cappero e margheritoni gialli: quella era stata ormai cancellata dall'espandersi della città. Al suo posto era sorto un quartiere anonimo a cui soltanto la presenza dei gatti randagi dava una certo calore. Aprii la gabbia e afferrai il pappagallo, ma fu questione di un attimo: già alcuni gatti facevano

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la festa al povero Porfirio mentre io e mamma, esclamavamo inorridite e Miranda scoppiava a piangere. Abbandonammo la gabbia e ritornammo indietro tutte e tre scosse. Possibile che Prisca avesse scelto a bella posta quel luogo pieno di gatti? A sera tu non facesti caso all'assenza di Porfirio. Miranda, che doveva essere rimasta assai impressionata dallo spettacolo del povero uccello divorato dai gatti, fissava il chiodo a cui era stata appesa la gabbia, ma, per fortuna, era troppo scossa per raccontare ed il segreto della fine raccapricciante di Porfirio fu conservato. Al mattino sentii mamma parlare con donna Rirì: spiegava come, mentre ripuliva la gabbia l'avesse lasciata aperta e Porfirio fosse volato via. Donna Rirì, da quella buona persona che era, mi aspettava per dirmi qualche parola di conforto: "Vedrai che tornerà! Porfirio non ama la libertà: tornerà." Insisteva di fronte alla mia tristezza: "Cosetta, tornerà... o te ne regalerò un altro." Corsi via. Non potei fare caso se l'uscita di Porfirio dalla nostra vita avesse rimesso in moto per te la ruota della fortuna perché Miranda ebbe un malore che ci spaventò moltissimo.

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Mia sorella, che da qualche giorno sembrava un po’ abbacchiata, mostrava difficoltà a respirare. Vi vedevo vagare per casa, in attesa del medico mentre Miranda respirava affannosamente ed emetteva sibili. Nei vostri andirivieni vi affacciavate nell'ingresso in cui c'era una grande immagine del Cuore di Gesù. Capii che avevate paura di perdere Miranda ed io pensai al barone Francesco e ai morti giovani. Il medico venne e visitò la piccola. Terminata la visita, egli si lavò le mani nella bacinella smaltata e mamma gli versava l'acqua dalla brocca e gli porgeva l'asciugamano di lino. Mi sembrava un cerimoniale che rendeva ancora più serio il malessere di Miranda. Mamma aveva detto che il nostro gabinetto non era abbastanza decoroso per un medico. Aspettavamo la diagnosi ed io per tenere a bada la paura mi concentravo sul bel telo con gli intarsi di zia Naida: chissà se il dottore aveva apprezzato quella finezza! Egli però continuava a tacere: sedette e prese il ricettario, scrisse il nome delle medicine e finalmente ci comunicò la diagnosi: "Si tratta di asma. Questa casa è molto umida." Indicò le grandi macchie di muffa che sembrarono incombere minacciose sul letto di Miranda.

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“Insomma un ambiente del genere è sconsigliabile per la malattia della piccina. " Poche parole che cambiarono l'assetto familiare. Le zie, vennero a sera per prendere notizie di Miranda. Se zia Renata piagnucolava, zia Estrella ti tenne testa in nome della salute di Miranda: "Il dottore ha ragione: la casa è umida." "La imbiancherò." Rispondesti tu. "La muffa verrà fuori di nuovo." "Sono vecchie case con tanta parietaria attorno e con il fumo delle tue sigarette dentro... occorre che Miranda viva in una casa asciutta e arieggiata." Ecco che i capelli ti si increspavano per il dispetto. Estrella prese un tono più accomodante: "Almeno per un po' potrà stare da noi. Questi vai e vieni tra casa nostra e qui la affaticano ulteriormente.” La faccenda andò così: Miranda con i suoi giocattoli e con il suo corredo e mamma si trasferì definitivamente dalle zie. A sera, quando chiudevi il portone che separava il cortile dalla strada, mi domandavo se era Miranda ad averci abbandonato o noi. In principio tu, quasi a ribadire la tua paternità sulla piccola che ti sembrava ti avessero tolto, ti recavi a trovarla ogni sera. Devo riconoscere che facesti ogni sforzo per

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mascherare il disagio che ti ispiravano le tue cognate: le salutavi compitamente e ti dedicavi tutto a Miranda. Miranda ci mancava e in quelle mezze ore tentavamo di ripristinare il nostro legame, temendo di estraniarci. Mamma si rendeva conto delle amarezze e disagi che la situazione ci aveva creato. La sua natura pratica aveva pronta la soluzione ed una sera ti disse che la casa delle zie era talmente grande che potevamo benissimo trasferirci tutti da loro. Tu rispondesti che volevi rifletterci e Prisca ti lasciò del tempo. Tuttavia sera dopo sera ti guardava in modo espressivo con qualche accenno di impazienza. La decisione fu preceduta da un nuovo attacco del tuo esaurimento: l’inizio dell’attacco era sempre il medesimo: semplicemente al mattino te ne rimanevi a letto invece di andare a lavoro. Solita prassi, solita diagnosi, stesse iniezioni a cui ora provvedeva Prisca stessa che aveva imparato da donna Rirì. E dopo se ne andava a cuor leggero dalle sue sorelle. Tu, allora, ti alzavi e giravi per casa in pigiama con i capelli irti, con la barba incolta e osservavi la muffa, ed annusavi l’aria. Tornavi poi ad infilarti nel letto e fumavi dispettosamente. Benché quel tuo periodico rifiuto della vita non

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ci impressionasse più, mi domandai se non fosse il caso di pregare per la tua salute mentale. Ero un po’ incerta sulla mia innocenza, ma mi sembrò ben fatto recitare il padre nostro in greco: ora frequentavo il ginnasio e la preghiera era stato il primo brano imparato in quella lingua. Passò il solito lasso di tempo; quindi, fosse merito delle iniezioni o il potere del greco, riprendesti ad alzarti e ad uscire. Apparivi proprio in ottime condizioni: sereno ed attivo. Notammo che frequentavi meno i tuoi quaderni come se anche quella fissa del sistema avesse concluso il suo ciclo. Io, però, ero vigile e mi aspettavo un altro dei tuoi tiri: infatti facesti, a nostra insaputa, tutti i passi che occorrevano per cambiare di nuovo lavoro. Ti eri ormai pienamente ristabilito quando Prisca volle farti la sorpresa di portare Miranda a trascorrere un giorno intero con noi. Era passato un bel po’ dall’ultima volta che l’avevi vista. La piccina, però, appena entrò in casa si abbracciò strettissima a Prisca: teneva il volto affondato nell’incavo del suo collo, tanto che mamma dovette quasi strapparla da quella posizione. E anche allora Miranda se ne stette con gli

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occhi bassi. Ci guardavamo desolati. Mamma la incoraggiava ripetendo: “E’ il tuo papà, Miranda! Tua sorella Cosetta!” “Andiamo a fare un giro della casa.” Le dissi dandole la mano. “Ti ricordi che qui tenevamo l’otre con i sottaceti? Ti piacciono ancora?” Lei sorrise. “E’ brava mamma a fare buoni mangiarini, vero?” “E’ più brava mamma o zia Renata?” Andavo sul sicuro perché sapevo che zia Renata non era speciale in nulla. Infatti Miranda rispose: “Mamma!” Dopo quella risposta la piccina prese coraggio. Continuando il giro arrivammo di fronte al chiodo della gabbia di Porfirio. Mia sorella si fermò pensierosa, poi guardò me e Prisca e di nuovo il chiodo, ma non disse nulla. Possibile che il ricordo della fine cruenta del pappagallo fosse svanito? Pensai che fosse più probabile che anche Miranda, crescendo, avesse imparato a tenere i segreti. Dopo il giro per la casa, dopo che le ebbi raccontato, con le dovute omissioni, del rinfresco tenutosi per il suo battesimo non c’era più molto da dire e finimmo col giocare a fiori , frutta, città.

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Tu eri mortificato della reazione della piccola e rimproverasti Prisca: “Bella idea che hai avuto: per mia figlia sono un estraneo!” Prisca lo ricambiò con uno sguardo di rimprovero rivolto alla sigaretta che fumava: “Impara piuttosto a rinunciare a qualcosa per il bene di Miranda! Sai che il fumo per lei è veleno!” Spegnesti subito la sigaretta ed uscisti: fu un’assenza brevissima: il tempo di tornare con quattro gelati confezionati. Fu una benedizione perché, occupati a mangiare, non davamo l’impressione che non avessimo niente da dirci. Miranda finalmente si lasciò coccolare e vezzeggiare da te fino a permetterti di tenerla in braccio. Infine le facesti fare cavalluccio sulle tue ginocchia. "Arri, arri cavalluccio. Ma che cavalluccio tesoro mio, in treno ti porta il papà, in treno. Vuoi venire in treno con me, Miranda? Il treno che fa tu-tu-tu." "Tu-Tu-Tu." Ripeteva Miranda, tutta contenta. "Assieme a Cosetta e a mamma. Vero mamma che ci vieni anche tu in treno con me? Le famiglie dei ferrovieri hanno i biglietti gratis.

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Lo sapevi?" Mamma, che si era messa a stirare, sollevò gli occhi: "E cosa c'entriamo noi con i ferrovieri?" Tu ridesti la tua risata fanciullesca e accattivante: "Altro se non c'entriamo! Sono diventato ferroviere!" La signora del limoncello ti guardò con tanto di occhi mentre tu continuavi compiaciuto: "Oramai ero stufo di correre come fattorino sotto padroni giovani che non hanno rispetto! Così mi sono dato da fare; ho letto del bando del concorso in ferrovia, mi sono presentato e ho vinto. Ora sono a tutti gli effetti un dipendente delle ferrovie della sud-est." Eri proprio fiero di te. Prisca, invece, strinse le labbra, staccò la spina del ferro, prese Miranda tra le sue braccia, mi baciò e fuggì. Fuggì letteralmente, mentre tu la richiamavi indietro. Fu in questo modo che per la seconda volta ci annunciasti il tuo cambiamento di lavoro. Eri entrato nelle ferrovie locali. D'altra parte questa novità ne portò con sé un’altra: la decisione di accettare l'invito delle zie di andare a vivere da loro. Così avevamo e davamo l'impressione di riunire la famiglia.

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In realtà i turni del tuo nuovo lavoro ti consentivano di abitare con noi, ma di vivere per conto tuo. Il peso del trasloco e dei saluti dal quartiere in cui avevo abitato per quindici anni toccò tutto a mia madre e a me. Quando salutai donna Rirì, fui sul punto di rivelarle la verità sul pappagallo, ma pensai che non se lo meritava, tanto più che si prodigò a farmi coraggio con la sua bella filosofia: "E' così cara mia: la vita è cambiamento! Non si deve mica rimanere attaccati agli scogli come un'ostrica. Alla tua età, poi, sarebbe una colpa grave! Ora ti sembra di morire dalla nostalgia, ma piano, piano ti passerà e riderai di te stessa che pensavi di trascorrere tutta la tua vita seduta sui sacchi dei coloniali. E poi non vai mica su un altro pianeta." Baciò mia madre: "Verrò a trovarvi. Devo proprio ripassare con tua sorella Estrella due, tre cosette. Non me lo ricordo più. Ah la testa! Fra poco i fornitori mi potranno derubare a loro piacimento." "Non credo proprio donna Rirì: avete una testa tagliata per gli affari.- Rispose mia madre ricambiando commossa il suo bacio- Venite a trovarci quando volete. Anche voi, però, potreste rinnovare il vostro

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esercizio. Adesso attirano i locali moderni." "Ci saranno sempre poveretti che non hanno il coraggio di entrare nei locali moderni e si sentiranno sollevati nel frequentare il mio. Questo fino a quando anche i poveri non giocheranno a fare i ricchi e vi dico che andando avanti così, arriveremo a vedere persino questo. Per lo meno lo vedrà chi vivrà. Ma io, grazie a Dio, non sono eterna. Arrivederci carissime." E se ne andò a servire qualche avventore.