dispense sapienziali e salmi (2017-2018) · introduzione alla tradizione sapienzale biblica* 1....

STUDIO TEOLOGICO S. ANTONIO Affiliato alla Facoltà Teologica dell’Emilia‐Romagna

Introduzione ai Libri Sapienziali e al Libro dei Salmi

a cura di

Giuseppe De Carlo

ad uso degli studenti

Bologna Via Guinizelli, 3

Il materiale contenuto in questo volume è ad uso esclusivo degli studenti che frequentano il Corso di Antico Testamento su Libri sapienziali e Salmi presso lo Studio Teologico Sant’An‐tonio di Bologna, affiliato alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna. Non è materiale origina‐le, ma quasi tutto è preso integralmente da autori che hanno studiato a fondo la materia: a suo luogo vengono puntualmente indicate le parti prese da ciascuno. Il lavoro redazionale mira a dare a tutto il materiale unità sistematica per una presentazione introduttiva tenden‐zialmente completa alla letteratura sapienziale e al Salterio.

Prima Parte

LIBRI SAPIENZIALI

INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE SAPIENZIALE BIBLICA

INTRODUZIONE AI SINGOLI LIBRI SAPIENZIALI:

– Proverbi – Giobbe – Qohelet – Cantico dei Cantici – Siracide – Sapienza

INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE SAPIENZALE BIBLICA*

1. PREMESSA

Nella passata ricerca biblica i libri sapienziali non hanno goduto di molta simpatia da parte degli studiosi, che erano più interessati al Pentateuco e ai Profeti, libri che rispondevano me‐glio alla loro impostazione esegetica di natura prevalentemente storica. A partire dagli anni Settanta assistiamo invece a una vera e propria rinascita dell’interesse per il cosiddetto “Pen‐tateuco sapienziale”. Proprio nel 1970 Gerhard von Rad pubblica La Sapienza in Israele, un volume ormai diventato un classico nel campo biblico.1 Va notato però che alcuni autori pri‐ma di lui avevano già avvertito il “risveglio sapienziale”, abbastanza promettente nel campo degli studi biblici. Una situazione di stanchezza e di pessimismo, proveniente dall’ambito del‐lo studio del Pentateuco, favorì un’apertura metodologica e tematica quanto alla ricerca bi‐blica. I libri sapienziali, proprio grazie alla loro visione molto umana e universale della vita, cominciarono ad attirare l’attenzione degli studiosi. Tale popolarità non è un fatto del tutto nuovo: vi si era assistito anche in epoche precedenti. Già nell’età patristica e nel medioevo i libri sapienziali furono molto apprezzati e commentati.2

2. IL CORPUS SAPIENZIALE

All’interno della Bibbia ebraica, nella sezione dedicata agli Agiografi o Scritti (ketubîm), si trovano tre libri sapienziali: Proverbi, Giobbe e Qoèlet. Quest’ultimo appartiene alla sottose‐zione che, a partire dai Masoreti, viene chiamata “i cinque rotoli” (megillôt): Cantico dei Can‐tici, Rut, Lamentazioni, Qoèlet ed Ester, testi messi insieme per ragioni per lo più di carattere liturgico. La versione greca della Settanta aggiunge ancora altre due opere sapienziali: il libro di Ben Sira o Siracide (di cui a partire dal 1896 è stato ritrovato gran parte del testo ebraico in diversi manoscritti) e il libro della Sapienza o Sapienza di Salomone. Riguardo alla canonicità di questi due libri, i cristiani sono tutt’oggi ancora divisi. Mentre i cristiani cattolici e ortodossi li considerano ispirati ‒ li ritengono semplicemente deuterocanonici ‒ per i cristiani prote‐stanti e anglicani sono scritti apocrifi, cioè non appartenenti al canone biblico. Nessuno di questi due libri fu accolto nel canone ebraico; per motivi evidenti nel caso della Sapienza di Salomone, essendo un’opera scritta originalmente in lingua greca, e per motivi più oscuri nel caso del Siracide. Sebbene rigettato dal famoso Rabbi Aqiba († 135 d.C.), il libro di Ben Sira fu apprezzato nel rabbinismo posteriore (cfr. per esempio le numerose citazioni nel Talmud).

Questi cinque libri sono stati scritti in un arco di tempo molto vasto, che va dall’VIII secolo a.C., dove in genere si situano le collezioni più antiche dei Proverbi (il resto del materiale è postesilico) fino al I secolo a.C., epoca in cui fu scritta la Sapienza di Salomone nella diaspora alessandrina. La parte essenziale del libro di Giobbe risale probabilmente al V secolo a.C., in epoca persiana; l’opera del Qoèlet, alla metà del III secolo a.C., sotto il dominio dei Tolomei

* N. CALDUCH‐BENAGES, Libri sapienziali, in R. PENNA ‐ G. PEREGO ‐ G. RAVASI (a cura di), Temi teologici della Bib‐

bia (Dizionari San Paolo), San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 1250‐1267. 1 G. VON RAD, La Sapienza in Israele, Marietti, Genova 1975.

2 Per l’età patristica e quella medievale sono fondamentali gli studi di Jean Leclercq e Beryl Smalley (ad es. J.

LECLERCQ, Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medioevo, Sansoni, Firen‐ze 1983; IDEM, Ossa humiliata. Frammenti di spiritualità monastica, Abbazia San Benedetto, Seregno 1993; B. SMALLEY, Lo studio della Bibbia nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1972). Per una rassegna sugli studi sulla lettera‐tura sapienziale, cfr. J. VÍLCHEZ LÍNDEZ, Storia della ricerca sulla letteratura sapienziale, in L. ALONSO SCHÖKEL ‐ J. VÍL‐CHEZ LÍNDEZ, I Proverbi (Commenti Biblici), Roma 1988, 43‐93.

Introduzione alla tradizione sapienziale biblica 5

(Lagidi) di Egitto, e quella di Ben Sira al II secolo a.C., proprio quando la Palestina passava dal‐le mani dei Làgidi a quelle dei Selèucidi di Siria.

La raccolta dei libri sapienziali è molto diversa dalle altre che compongono il corpus bibli‐co. Non a caso nel Prologo del libro di Ben Sira essi vengono chiamati con espressioni piutto‐sto generiche, e quindi poco precise, come «gli altri scritti», «gli altri libri dei padri» e «i ri‐manenti libri». Essi infatti formano un «regno a sé, pure aperto al flusso e riflusso dell’impor‐tazione‐esportazione» (L. Alonso Schökel). Non assomigliano al Pentateuco né a nessuno dei libri storici, perché non sono opere narrative, anche se a volte fanno riferimento, sia in ma‐niera esplicita sia mediante allusioni, ad alcune tematiche di Esodo (cfr. Sir 3,16; 44,23; Sap 11‒19) o Deuteronomio (cfr. Sir 2,15‐17; 17,13‐19; 30,1‐13), oppure rileggono la storia di Israele (cfr. Sir 44‒50). Sono ben diversi dai codici legislativi presenti in Esodo, Levitico e Deu‐teronomio, perché non sono specialmente interessati alla legge come autorità divina o politi‐ca. Essi fanno tuttavia accenno ‒ o addirittura commentano ‒ alcune leggi in concreto (cfr. Pr 19,26 con Es 21,17; Sir 28,7 con Lv 19,17‐18). Infine, si scostano anche dai testi profetici, per‐ché al posto della denuncia e dell’accusa, utilizzano un linguaggio esortativo che invita alla ricerca della sapienza e avverte dei pericoli. Ciò non di meno, il tono profetico sembra affio‐rare in alcuni testi (cfr. il discorso di Donna Sapienza in Pr 1,20‐33; la preghiera per Israele in Sir 36,1‐17; o il discorso di Salomone in Sap 6). Pur essendo permeati da spirito sapienziale, i libri di Tobia e di Ester sono dei racconti edificanti che appartengono al mondo della finzione letteraria e non fanno parte della letteratura sapienziale. Lo stesso può esser detto di alcuni salmi, i cosiddetti salmi sapienziali (cfr., tra gli altri, Sal 1; 19; 37; 49; 90; 119), che comunque vengono considerati delle preghiere e non delle opere di sapienza. Anche il Cantico dei Can‐tici, nonostante il suo carattere sapienziale e le sue affinità con alcuni passi di Proverbi e Sira‐cide, si discosta molto dalla letteratura sapienziale, trattandosi propriamente di un poema d’amore. Oltre alle opere appena citate, motivi sapienziali si trovano anche nei racconti di Gen 2‒3,3 nella storia di Giuseppe (cfr. Gen 37‒50), nelle tradizioni legali di Esodo e Numeri, nel Deuteronomio, nel racconto della successione al trono di Davide (cfr. 2Sam 9‒20; 1Re 1‒2) o nelle tradizioni profetiche di Amos, Isaia e Geremia, nonché nel libro di Daniele.4

I libri del pentateuco sapienziale non sono soltanto molto diversi dagli altri del corpus bi‐blico, ma sono anche molto eterogenei tra loro. Proverbi e Siracide si distinguono per la loro sapienza ottimista, per la dimensione marcatamente didattico‐pedagogica del loro insegna‐mento e per le comuni forme letterarie che trasmettono la saggezza degli antichi. Giobbe e Qoèlet condividono il loro carattere speculativo e polemico: sia l’uno che l’altro, anche se in due forme letterarie diverse, contestano alcune concezioni tradizionali del patrimonio reli‐gioso di Israele ‒ come, per esempio, la teoria della retribuzione (Dio ricompensa le azioni buone dell’uomo e punisce quelle cattive) ‒ e si pongono in maniera radicale e drammatica il problema di Dio. Infine, il libro della Sapienza si confronta con una concezione ellenista della sapienza che si fa strada tra i giudei alessandrini.

Malgrado le numerose differenze riguardo alla forma e ai contenuti, possiamo parlare di un vero e proprio corpus sapienziale per diversi motivi. Tutti e cinque i libri si occupano della sapienza e si sforzano di mostrare a coloro che la desiderano la via per acquistarla. A un altro

3 Cfr. L. ALONSO SCHÖKEL, Motivos sapienciales y de alianza en Gn 2–3, in Bib 43(1962), 295‐315; A. VANEL, Sa‐

gesse (courant de), in DBS XII, Paris 1989, 23‐27 e L. MAZZINGHI, Quale fondamento biblico per il “peccato originale”? Un bilancio ermeneutico: l’Antico Testamento, in I. SANNA (ed.), Questioni sul peccato originale, Pado‐va 1995, 61‐140.

4 Una riflessione sulle tracce di rilettura sapienziale presente in tutte le tradizioni veterotestamentarie, con

saggi da ciascuna tradizione, si può trovare in G. DE CARLO, Il bagliore delle luci antiche. Una lettura sapienziale della Bibbia ebraica (Biblica), EDB, Bologna 2015.

6 Introduzione alla tradizione sapienziale biblica

livello essi riflettono anche sulla misteriosa e sempre affascinante figura di Donna Sapienza, che compare nella prima collezione del libro dei Proverbi (cfr. cc. 1‒9), nel discusso poema di Gb 28, nella prima parte di Siracide (cfr. Sir 1–24), in Sap 7‒9 e anche in Bar 3,9‒4,4. A diffe‐renza degli autori del Pentateuco, dei libri storici e dei testi profetici, «i sapienti di Israele vanno oltre la prospettiva storica, per mettersi in un orizzonte universale maggiormente sen‐sibile alla realtà quotidiana dell’esistenza umana in quanto tale» (Gilbert). Questi autori non sono interessati a raccontare storie del passato, a promulgare leggi per il popolo, a profetiz‐zare in nome del Signore e neanche a esprimere la lode in celebrazioni di carattere liturgico; il loro atteggiamento di fronte alla realtà si basa sulla ricerca della vera sapienza, quella che conduce alla pienezza della vita e che trova la sua risposta ultima in Dio. I saggi di Israele tra‐smettono alle generazioni future la loro esperienza, il loro sapere e la loro religiosità in un linguaggio sempre rispettoso della libertà umana, cioè per mezzo di osservazioni, riflessioni, consigli e suggerimenti. Insomma, un insegnamento di taglio umanista, che oltre al saper fa‐re e al saper vivere tiene conto della morale e della religione.

«Si può concludere che tra i libri biblici i sapienziali sono i più “laici”, i più “umanistici” e i più “individualistici”. Sono laici non perché neghino Dio e la sua azione, ma perché derivano il loro insegnamento da ciò che l’uomo fa e scopre nella routine o nella battaglia quotidiana, non da visioni o da dialoghi con Dio, come per esempio la Genesi dice di Abramo, né da ora‐coli e messaggi che un profeta pronuncia a nome di Dio e al posto di Dio. Nei libri sapienziali non è tanto Dio che parla agli uomini o degli uomini, ma sono gli uomini che parlano di se stessi integrando la loro esistenza nel quadro della fede in Dio, ed è in questo senso che essi parlano anche di Dio. Ma il materiale che trattano riguarda l’uomo: ecco perché sono i libri biblici più umanistici. Dell’uomo poi non raccontano l’avvicendamento da una generazione all’altra, né raccontano le vicende familiari o tribali o politiche né le guerre o gli altri eventi di cui in genere è intessuta la storia di un popolo. Non è la sapienza del popolo di cui trattano, ma la sapienza del singolo: del capofamiglia, o del padre, o del maestro. Ecco perché sono li‐bri “individualistici”».5

3. LA LETTERATURA SAPIENZIALE DEL VICINO ORIENTE ANTICO

Grazie alle scoperte iniziate nel XIX secolo, oggi sappiamo che la sapienza di Israele non è la più antica dell’umanità. Essa è nata e si è sviluppata nel contesto culturale del Vicino Oriente antico, culla delle grandi civiltà. Nel terzo millennio a.C. i saggi di Egitto e di Mesopo‐tamia misero per iscritto i loro insegnamenti in liste di nomi, istruzioni, poemi, racconti, dia‐loghi e in molte altre opere, che hanno avuto un notevole influsso nella sapienza biblica.

Un genere sapienziale molto diffuso in Egitto sono le Istruzioni o Insegnamenti di un re al principe, di un visir a suo figlio o di uno scriba al suo successore. Il principale scopo di queste opere era duplice: inculcare valori e insegnare a leggere e a scrivere ai futuri membri dell’amministrazione pubblica e del corpo diplomatico. A prescindere dalla sua posizione so‐ciale, il destinatario delle istruzioni è sempre chiamato «figlio». All’Antico Regno (2700‐2200 ca. a.C.) risalgono l’Istruzione per Kaghemni, scritta da un visir anonimo a suo figlio, l’inizio dell’Istruzione di Hergedef e l’Istruzione di Ptahhotep, l’unico testo di questo periodo che si è conservato intatto. Prima di morire, il visir Ptahhotep istruisce il figlio «nelle parole degli an‐tichi», raccolte in 37 massime, ognuna su un argomento diverso. L’Istruzione per Merikare e l’Istruzione di Amenemhet appartengono al primo Periodo Intermedio (2200‐2060 ca. a.C.), mentre l’Istruzione di Ani risale alla XVIII dinastia (1580‐1320 ca. a.C.). Una menzione speciale merita l’Istruzione di Amenemope, rivolta a un giovane scriba che si prepara per servire a cor‐

5 G. DE CARLO, «Ti indico la via». La ricerca della Sapienza come itinerario formativo, EDB, Bologna 2003, 37‐38.


te (databile tra il 1000 e il 600 a.C.). Scoperta dall’egittologo E.W. Budge nel 1923, è sempre stata la più studiata dagli autori per la sua affinità e il suo rapporto con Pr 22,17‒24,22. Oltre alle istruzioni, vanno segnalate altre opere, scritte all’inizio del secondo millennio, che si di‐stinguono per un atteggiamento pessimistico e cinico di fronte alla vita, la società e la politi‐ca. Il Suicida o Dialogo di un disperato con la sua anima presenta la convenienza del suicidio quando le circostanze sono totalmente disperate. La Storia dell’Oasita o del Contadino elo‐quente, che chiede giustizia a un grande personaggio della corte, affronta il tema dell’ingiu‐stizia sociale. Il Canto dell’Arpista è un poemetto permeato di amarezza di fronte alla realtà della morte. Oltre a questa letteratura di disputa, va segnalata la Satira dei mestieri (cono‐sciuta anche come Istruzione di Khety o Massime di Duaf), una delle composizioni più famo‐se, dove la professione dello scriba è presentata come preferibile a tutti gli altri mestieri ma‐nuali. La stessa idea sarà sviluppata molto più tardi da Ben Sira in Sir 38,24‒39,11. Tra i testi demotici spicca l’Istruzione di Onkhsheshonqy (V sec. a.C.), un’opera epigrammatica molto vi‐cina a Proverbi.6

In Mesopotamia la produzione sapienziale è meno ricca. Tra i testi sumerici possiamo con‐tare le Istruzioni di Shuruple, una collezione di proverbi che risale al 2500 a.C., nonché una versione del motivo di Giobbe, conosciuta come il Giobbe sumerico (Lamentazioni di un uo‐mo al suo Dio o L’individuo e il suo dio personale), datato nel 2000 a.C. Il poema presenta un individuo innocente che si lamenta continuamente della sua miseria causata dalla inspiegabi‐le irritazione del suo dio protettore, finché questi non risponde e trasforma il suo dolore in gioia. Tra i testi accadici troviamo i Consigli di Sapienza (1500‐1200 a.C.), molto simili ai pro‐verbi biblici. Della stessa epoca è il Poema del giusto sofferente, conosciuto anche con il suo incipit: Ludlul bêl nêmeqi, «Voglio lodare il dio della sapienza». Si tratta di un lungo monolo‐go nel quale un sofferente si rivolge al dio babilonese Marduk ‒ «Il Signore della sapienza» ‒ perché lo liberi dalle sue sofferenze. Pur essendo molto simile a Giobbe, questo poema non mette mai in questione il rapporto tradizionale tra sofferenza e peccato (cioè la retribuzione), né mette in dubbio che l’unica soluzione al problema della sofferenza possa venire dall’operato degli dèi, che gli uomini non possono in alcun modo criticare, ma solo accettare confidando nella loro benevolenza. La Teodicea babilonese ‒ da datare tra il 1400 e l’800 a.C. e conosciuta anche come Poema acrostico o Dialogo di un sofferente con il suo amico ‒ è proprio un dialogo tra un sofferente e un suo amico, con il quale egli si lamenta della sua si‐tuazione negativa. Con una impostazione di taglio intellettuale, quest’opera presenta lo stes‐so problema di Giobbe: di fronte alla sofferenza ingiusta, l’agire di Dio sembra realmente in‐comprensibile. Orbene, oltre a discutere il problema della «giustizia degli dèi», il poema ba‐bilonese specificamente mira a difendere le divinità dalle accuse di ingiustizia o non curanza, quando si avvera il caso di un giusto perseguitato. Risalente agli inizi del primo millennio a.C. è il Dialogo pessimistico di un padrone con il suo servo, il quale ubbidisce e dà ragione al pa‐drone, qualunque sia l’ordine datogli.7

6 Fonte principale per i testi sapienziali del Vicino Oriente Antico resta J.B. PRITCHARD, Ancient Near Eastern

Texts Relating to the Old Testament, Princeton 19683, con supplemento; in italiano si veda M. CIMOSA, L’am‐biente storico‐culturale delle Scritture Ebraiche, EDB, Bologna 2000; A. ERCOLANI ‐ P. XELLA (edd.), La Sapienza nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo antichi. Antologia di testi, Carocci, Roma 2013. Per i testi sapienziali nell’antico Egitto, cfr. E. BRESCIANI, Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Einaudi, Torino 1999; J. LÉVÊQUE, Testi sapienziali dell’Antico Egitto, in AUTORI VARI, L’Antico Testamento e le culture del tempo, Borla, Roma 1990, 393‐497; A. ROCCATI (ed.), Sapienza Egizia. La letteratura educativa in Egitto durante il II millennio a.C., Paideia, Bre‐scia 1994; G.E. BRYCE, A Legacy of Wisdom. The Egyptian Contribution to the Wisdom of Israel, Lewinsburg‐London 1979.

7 Per i testi sapienziali mesopotamici, cfr. AUTORI VARI, L’Antico Testamento e le culture del tempo, Borla, Roma

1990; G.R. CASTELLINO, Testi sumerici e accadici, UTET, Torino 1977, 471‐515.


Di origine aramaica, il Romanzo di Achikar (VI‐V sec. a.C.), di cui sono stati scoperti nume‐rosi frammenti presso Elefantina in Egitto, ebbe una tale diffusione nell’ambito della mezza‐luna fertile, che come «gran coppiere, guardasigilli, capo dell’amministrazione e della conta‐bilità» viene citato perfino nel libro di Tobia (Tb 1,21‐22; cfr. anche 2,10; 11,19; 14,10). Se‐condo la tradizione Achikar fu consigliere del re Sennàcherib (704‐681 a.C.) e di suo figlio As‐sarhàddon (681‐668 a.C.), il quale tentò di ucciderlo a causa di una falsa accusa presentata da Nadab, il nipote che Achikar aveva preparato per essere il suo successore. Achikar riesce a salvarsi e, poco tempo dopo, il re, pentito della sua decisione, restituisce Achikar al suo posto e condanna Nadab.

4. TERMINOLOGIA

I termini saggezza o sapienza, saggio o sapienziale, derivano, in un modo o in un altro, dai vocaboli latini sapientia, sapiens che a loro volta si rifanno al verbo sapere: gustare, percepi‐re, comprendere, assaporare.

Nella Vulgata sapientia e sapiens rendono o traducono di solito i termini greci della ver‐sione dei Settanta e del NT sophía e sophós, la cui radice è di etimologia sconosciuta.

Nei Settanta questi termini greci rendono generalmente le parole ebraiche derivanti dalla radice ḥkm, presente nella maggior parte delle lingue semitiche: ḥokmāh, sapienza, e ḥākām, saggio.

Nella Bibbia ebraica, la radice ḥkm viene usata 318 volte, alle quali bisogna aggiungere un’altra cinquantina di casi nei frammenti ebraici del Sir. Di fatto i vocaboli ḥākām e ḥokmāh sono utilizzati soprattutto nei libri sapienziali: Gb, Pr, Qo, Sir. Nei Settanta, comprendendo il libro della Sapienza, avviene lo stesso per i vocaboli greci sophós e sophía.

Nel NT sophía viene usato 50 volte e 20 sophós, con una concentrazione particolare in 1Cor 1–3.

Accanto a questi termini fondamentali, l’ebraico e il greco utilizzano anche altri vocaboli, che si avvicinano come significato. Così troviamo ad es. i seguenti binomi: sapienza e sapere (da‘at, gnôsis: Pr 2,6; 30,3; Qo 1,16‐17; 2,21‐26; 9,10; Col 2,3), sapienza e intelligenza (bînāh o tebûnāh, sýnesis: Dt 4,6; Pr 24,3; Sir 14,20; Is 29,14; Ger 51,15; Col 1,9), sapienza e educa‐zione (mûsar, paideía: Pr 1,2.7; 15,33). Il fatto che la traduzione non renda sempre allo stesso modo i termini ebraici denota una certa fluidità nel vocabolario. Questa osservazione è cor‐roborata da alcuni testi che accumulano termini di cui non è facile stabilire con precisione il senso specifico. Ad es.:

«Per conoscere sapienza e disciplina (mûsar)... per apprendere destrezza e acutezza (mûsar haśekel)... per dare ai giovanetti la prudenza (‘ormāh), al giovane scienza (da‘at) e assennatezza (mezimmāh)... » (Pr 1,2‐4);

«Io, sapienza, abito insieme alla prudenza (‘ormāh), ho trovato la scienza dei consigli (da‘at mezimmôt), ...a me il consiglio (‘ēṣāh) e l’abilità (tûšijāh), io sono l’intelligenza (bînāh), a me la forza (gebûrāh)» (Pr 8,12.14);

«In lui [Dio] risiede la sapienza e la forza (gebûrāh), sue sono la perspicacia (‘ēṣāh) e la prudenza (tebûnāh)» (Gb 12,13);

«Spirito di sapienza e di discernimento (bînāh), spirito di consiglio (‘ēṣāh) e di fortezza (gebûrāh), spirito di conoscenza (da‘at) e di timore del Signore» (Is 11,2).

In maniera molto generale si può dire, alla luce di questa terminologia, che la sapienza si acquisisce attraverso un’educazione progressiva, mira ad una comprensione profonda e pe‐netrante del reale, porta ad un ‘saper fare’, ad un ‘saper vivere’ da cui i valori morali, come ad es. il coraggio, e religiosi, come il timore di Dio, non sono esclusi. In questo la sapienza biblica non si distingue affatto dalla sapienza di ogni popolo e di ogni tempo.


La sapienza si rivolge agli ingenui, a gente infantile (peta’îm: Pr 1,4.22.32). Si tratta di perso‐ne semplici, che manifestano leggerezza e che sono dunque suscettibili di essere influenzate dal bene o dal male (Pr 9,4.16). Colui che ha poca sapienza è uno stolto, un ottuso (kesîl: Pr 26,1‐12); parla a vanvera; di lui non ci si può fidare e non conclude nulla. È un essere pieno di meschinità, vile, ignobile (nābāl: Pr 17,7.21; Sir 4,2); agisce senza pensare, sconsideratamente; i suoi modi sono sconvenienti (Pr 30,32); è un insensato, un pazzo (’ĕwîl: Pr 10,8.14.21) e dal suo parlare lo si capisce. Sir 21,11–22,18 traccia un quadro gustoso dello stolto.

5. LE FORME LETTERARIE SAPIENZIALI

I saggi di Israele hanno espresso la loro esperienza della realtà e la loro concezione del mondo in maniera altamente artistica. Nonostante la diversità di contesti, di forme di espres‐sione e di contenuti, i libri sapienziali si distinguono per la loro dimensione poetica. Questa si traduce in un ricco ventaglio di forme letterarie, che tentano di plasmare, ognuna a modo suo, l’esperienza, la scienza e la sapienza degli autori. La forma letteraria sapienziale per ec‐cellenza è il proverbio, māšāl. Di etimologia incerta e molto discussa, il termine ebraico māšāl è stato anche tradotto come «similitudine», facendo riferimento alla sua capacità di riprodurre la realtà; «parola potente», cioè capace di comandare, e addirittura «parola ala‐ta», a causa del suo carattere atemporale. Una cosa è certa: nonostante «proverbio» sia la traduzione più comune di māšāl, la ricchezza semantica di questo termine non si esaurisce in questo vocabolo. Māšāl non è dunque soltanto il detto popolare, ma anche l’istruzione, l’esortazione, il proverbio numerico e la comparazione. Il «proverbio popolare», forma che predomina in Pr (cfr. specialmente Pr 10‒29), è formato da un solo verso, i cui stichi sono di‐sposti in forma parallela. Breve, succinto e ingegnoso, il proverbio sintetizza l’esperienza so‐ciale collettiva a scopo didattico. La funzione pedagogica del proverbio diventa esplicita nella forma conosciuta come «istruzione», molto frequente in Pr 1‒9 e nel Siracide (cfr., per es., Sir 2,1‐6; 3,17‐24; 13,2‐7; 29,1‐13).

Caratterizzata dal vocativo «Figlio», l’istruzione è composta da una serie di imperativi se‐guiti dalle rispettive motivazioni e poi dalle eventuali conseguenze negative per chi decide di ignorare gli ammonimenti del saggio. La dimensione didattica del proverbio è presente anche nelle «esortazioni», positive o negative che siano (cfr. Sir 6,18‐37; 7,1‐17), e in special modo nei «proverbi numerici», la cui struttura favorisce la memorizzazione del testo da parte dell’allievo (cfr., per es., Pr 30,21‐23; Sir 25,7‐ 11; Gb 5,19‐22). Circa la metà di Pr 25‒26 è composta di «comparazioni» che, attraverso l’uso di immagini, giudicano i diversi tipi di con‐dotta. Valgano come esempio:

«Pomi d’oro con intarsi d’argento è una parola detta al tempo giusto» (Pr 25,11);

«Come uno che mette una pietra nella fionda, così è chi dà gloria allo stolto» (Pr 26,8).

Molto legato al proverbio, e specialmente al proverbio numerico, è l’«enigma»: un gioco di parole ambigue e polivalenti che nasconde la verità per poi, alla fine, metterla in luce. La voluta ambiguità del linguaggio utilizzato sta a esprimere l’ambiguità insita nella realtà uma‐na. Se ne può trovare un esempio in Pr 26,4‐5:

«Non rispender allo stolto secondo la sua stoltezza, altrimenti assomigli a lui pure tu. Rispondi allo stolto per la sua stoltezza, perché non si creda di esser saggio».

Questi due versetti, apparentemente contraddittori, raccomandano, secondo i casi, o di non discutere con lo stolto, oppure di trattarlo come si merita. Alla stessa famiglia dell’enig‐ma appartengono la «favola» e l’«allegoria», due forme che utilizzano il linguaggio metafori‐co e cifrato. Patrimonio letterario universale, «la favola è una delle forme primitive di espres‐


sione dell’attività intellettuale umana» (von Rad). La sua finalità non è dunque essenzialmen‐te morale, ma piuttosto didattica e in alcuni casi perfino di carattere ludico. Nell’AT ci sono poche favole e tutte si trovano al di fuori del corpus sapienziale: la favola di Iotam in Gdc 9,8‐15, la favola che il profeta Natan racconta a Davide in 2Sam 12,1‐4 e quella che riporta lo scontro tra Amasia, re di Giuda, e Ioas, re di Israele, in 2Re 14,9. Applicata a situazioni politi‐che concrete, la favola può diventare con il tempo un’allegoria, cioè un testo con due o più metafore tra le quali si stabilisce un rapporto reciproco di significato. Questo è il caso, per esempio, dell’allegoria dell’aquila e del cedro (cfr. Ez 17,1‐10) e di quella della leonessa e i suoi cuccioli (cfr. Ez 19,1‐14). Non vere e proprie allegorie, ma poemi in chiave allegorica so‐no Pr 5,15‐23 ‒ sulla fedeltà alla propria moglie ‒ e Qo 12,16 ‒ sulla vecchiaia. Molto vicino all’istruzione e all’inno, il «poema didattico» è generalmente espositivo, privo di verbi all’imperativo e con un chiaro obiettivo pedagogico. Un magnifico esempio è il ritratto del malvagio in Gb 27,13‐23 (cfr. anche Pr 2,1‐22; 24,30‐34; Sir 1,11‐20). Tuttavia, alcuni poemi sono difficili da classificare a causa della loro diversità formale e contenutistica. Sir 16,24‒17,14, per esempio, può essere considerato un poema didattico, un’istruzione o un inno. Esempi concreti di «preghiere», sia individuali che collettive, si trovano in Proverbi (cfr. Pr 30,7‐9), in Giobbe (cfr. Gb 7,7‐21; 10,1‐22; 13,20–14,22), in Siracide (cfr. Sir 22,27‒23,6; 36,1‐17; 51,1‐12) e in Sapienza (cfr. Sap 9,1‐18; 11,23–12,2).8 Frequenti sono anche gli «in‐ni». Alcuni lodano l’opera creatrice di Dio nell’universo (cfr. Sir 42,15‒43,33), altri cantano l’origine divina della sapienza o la sua vocazione nel mondo (cfr. Pr 8,22‐31; Gb 28; Sir 24,1‐22; Sap 7,22‒8,1). A differenza della letteratura egiziana e mesopotamica, nell’AT c’è un unico esempio di «dialogo»: il libro di Giobbe. Senza mettere in dubbio la grande varietà di generi letterari di questo libro, quello che predomina è infatti certamente il dialogo: la forma più adatta per affrontare, sviluppare e risolvere una questione.

Di origine egiziana, lo stile autobiografico è spesso utilizzato dai saggi come strumento pedagogico (cfr. Pr 4,3‐9; Qo 1,12–2,26; Sir 24,30‐34; 33,16‐18; 51,13‐30). Le liste di nomi, o onomastica, genere molto diffuso in Egitto e Mesopotamia, raccoglievano ogni sorta di ma‐teriale: animali, piante, paesi, razze, specie ecc. Queste liste enciclopediche rispondevano al desiderio umano‐sapienziale di controllare la realtà e allo stesso tempo facilitavano la pratica della scrittura. A queste forme sapienziali, senz’altro le più caratteristiche, possiamo aggiun‐gerne un’altra meno conosciuta e di solito meno studiata: la soluzione differita (cfr. Pr 5,15‐19; 23,29‐30; Gb 28). La utilizzarono i saggi per attirare l’attenzione dei discepoli, svegliare la loro curiosità e stimolare la loro intelligenza. Per mezzo di domande o di immagini enigmati‐che si invita alla ricerca di una risposta o soluzione, che soltanto sarà svelata alla fine del bra‐no in questione.

6. ORIGINE DELLA SAPIENZA IN ISRAELE9

Contrariamente a ciò che spontaneamente verrebbe da pensare, la sapienza biblica non pone il proprio ambiente di origine primariamente in ambito popolare, ma a corte, presso il re e i suoi consiglieri. È il re Salomone il sapiente per eccellenza, la sapienza la si insegna poi a coloro che devono assumersi l’onere dell’amministrazione pubblica e, infine, la famiglia il clan e la tribù sono fucine di apprendimento della sapienza. In realtà, è molto più probabile che Salomone e gli ambienti di corte abbiano raccolto ciò che veniva dal popolo.

8 Cfr. N. CALDUCH‐BENAGES ‐ J. YEONG‐SIK PAHK, La preghiera dei saggi. La preghiera nel Pentateuco Sapienziale,

Edizioni ADP, Roma 2004. 9 Sull’ambiente vitale della sapienza israelita cfr. V. MORLA ASENSIO, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione

allo studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 49‐54.


6.1. IL PATROCINIO DI SALOMONE10

Quando un personaggio viene ricordato per una caratteristica che lo ha fatto emergere fra i suoi contemporanei tramandandone la fama ai posteri, c’è un evento che ha impresso la svolta decisiva alla sua esistenza. Ma accade che, se a parlarne sono altri e lui stesso, si trovi‐no spesso in disaccordo nell’individuare quell’evento. Questo càpita anche per la figura bibli‐ca di Salomone, di solito ritenuto il sapiente per eccellenza a partire dal giudizio circa il figlio delle due prostitute (1Re 3,16‐28) e dalla sua scienza enciclopedica:

«Salomone pronunciò tremila proverbi; le sue odi furono millecinque. Parlò delle piante, dal cedro del Liba‐no all’issòpo che sbuca dal muro; parlò delle bestie, degli uccelli, dei rettili e dei pesci» (1Re 5,12‐13).

Secondo i testi biblici, dalle sue straordinarie conoscenze veniva quella sua fama che si era diffusa ovunque, per cui perfino la regina di Saba era venuta a visitarlo, ansiosa di consultare la sua sapienza (1Re 10,1‐13). Nella (fittizia) autobiografia di Sap 7–9, Salomone afferma in‐vece che tutto per lui derivò dalla notte trascorsa a Gabaon, appena salito al trono di Israele in Gerusalemme. A Gabaon, durante un sogno, aveva saputo rivolgere a Dio la preghiera a Dio gradita, così come è narrato in 1Re 3,4‐15 e in 1Cr 1,8‐10.

In coerenza con i molti episodi biblici che lo riguardano, anche a Gabaon Salomone fece dunque la scelta giusta al momento giusto. E così, dichiarata centrale per esplicita afferma‐zione del libro della Sapienza, la preghiera di Gabaon è chiave interpretativa della figura bi‐blica di Salomone e di lui come prototipo del sapiente.

In 1Re 3,4‐15 la figura di Salomone è dipinta a tutto tondo perché egli è presentato come sacerdote che offre sacrifici, e come profeta con il quale Dio comunica attraverso i sogni. Ma poi Salomone è in continuità con il re Davide, il re ideale di cui sono piene tutte le tradizioni storica, profetica e sapienziale fino al Nuovo Testamento, e lui stesso, Salomone, è re che go‐vernerà con giustizia. Infine, sempre in quel testo, Salomone è il sapiente perché chiede e ot‐tiene la sapienza.

Il ciclo che parla del regno di Salomone abbraccia i capitoli 1–11 di 1Re e l’arte narrativa dell’autore procede per successive inclusioni, disposte come scatole cinesi. Agli estremi, i ca‐pitoli 1–2 e 9–11 rappresentano il versante negativo: 1Re 1–2 narrano i raggiri con cui Betsa‐bea, appoggiata dal profeta Natan, fa in modo che Davide designi come suo successore il “suo” Salomone, al posto di Adonìa, che di per sé era il successore legittimo di Davide; invece i capitoli di 1Re 9–11 narrano la decadenza di Salomone che viene non solo dalla sua sene‐scenza, ma soprattutto dall’influsso delle donne straniere che allontanano il suo cuore da Dio per volgerlo all’idolatria dei paesi di origine delle concubine.

Dentro questa cornice negativa il contenuto è tutto positivo, ed è aperto e chiuso da due preghiere programmatiche: la preghiera appunto di Gabaon (1Re 3) e quella consacratoria all’inaugurazione del tempio (1Re 8).

La narrazione di 1Re 3,4‐15 ha come cornice di apertura e di chiusura il tema dei sacrifici: i mille olocausti di Gabaon del v. 4 e i sacrifici di Gerusalemme del v. 15.

L’ultima scatola cinese, la più piccola, è quella del sogno che introduce e chiude l’evento di Gabaon. Per l’inizio il narratore scrive: «Il Signore apparve in sogno a Salomone durante la notte» (v. 5a) e, per la fine: «Salomone si svegliò. Ecco: era stato un sogno» (v. 15).

Al centro del centro l’autore ha collocato il dialogo tra Dio e Salomone. Dio parla a due ri‐prese: dopo il primo intervento («Dio disse: chiedi ...», v. 5b) viene la preghiera di Salomone (vv. 6‐9) e, dopo la notizia del compiacimento di Dio («Piacque agli occhi del Signore che Sa‐lomone avesse domandato questa cosa», v. 10), Dio parla la seconda volta per approvare la

10 Cfr. G. DE CARLO, Un cuore in ascolto, capace di discernere. Il sogno e la preghiera di Salomone (1Re 3,4‐

15), in Parola Spirito e Vita 71 (2015) 21‐38 (ripreso in DE CARLO, Il bagliore delle luci antiche, 93‐108).


richiesta di Salomone, e per promettere al nuovo re anche quanto non aveva domandato (vv. 11‐14). Il testo si dispone dunque concentricamente intorno alla preghiera del giovane Salo‐mone e all’approvazione di essa da parte di Dio.

1Re 3 4 Il re andò a Gàbaon per offrirvi sacrifici, perché ivi sorgeva l’altura più grande. Su quell’altare Salomone offrì mille olocausti.

5 A Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte.

DIO disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».

6 SALOMONE disse: «Tu hai trattato il tuo servo Davide, mio padre, con grande amore, perché egli aveva camminato da‐vanti a te con fedeltà, con giustizia e con cuore retto verso di te. Tu gli hai conservato questo grande amore e gli hai dato un figlio che siede sul suo trono, come avviene oggi. 7 Ora, Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. 8 Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per quantità non si può calcolare né contare. 9 Concedi al tuo servo un cuore docile (lēb šōmēa‘, «CUORE in ASCOLTO»), perché sappia rendere g i u s t i z i a al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?».

10 Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa.

11 DIO gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai do‐mandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discer‐nimento nel giudicare (hābîn lišmōa‘ mišpāṭ, «il comprendere per ASCOLTARE il g i u d i z i o »), 12 ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un CUORE saggio e intelligente (lēb ḥākām wenābôn»): uno co‐me te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te. 13 Ti concedo anche quanto non hai domandato, cioè ricchezza e gloria, come a nessun altro fra i re, per tutta la tua vita. 14 Se poi camminerai nelle mie vie osservando le mie leggi e i miei comandi, come ha fat‐to Davide, tuo padre, prolungherò anche la tua vita».

15 Salomone si svegliò; ecco, era stato un sogno.

Andò a Gerusalemme; stette davanti all’arca dell’alleanza del Signore, offrì olocausti, compì sacrifici di comu‐nione e diede un banchetto per tutti i suoi servi.

L’episodio di Gabaon deve essere letto come la vocazione di Salomone, analoga alla chia‐mata profetica. Infatti, come il profeta veniva abilitato dalla vocazione al suo compito, così a Gabaon Salomone viene abilitato al regno e al governo. Inoltre, come nei racconti di vocazio‐ne di Gedeone (Gdc 6,11‐24), di Mosè (Es 3,15) e di Geremia (Ger 1,4‐10), anche in 1Re 3 di fronte alla proposta di Dio c’è l’obiezione del chiamato. Quella di Salomone, «io sono solo un ragazzo» (v. 7), si avvicina a quella di Geremia che, chiamato a fare il profeta, solleva la diffi‐coltà di essere troppo giovane: «Ahimè, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6). A Geremia il Signore assicura: «Non dire: “Sono giovane” ... perché io so‐no con te per proteggerti» (Ger 1,7‐8), a Salomone Dio dà «un cuore saggio e intelligente» (1Re 3,12), cosicché avrà la maturità necessaria per governare un numeroso popolo.

Come ha provocato il sogno di Salomone, così ora Dio sollecita la richiesta di Salomone. L’iniziativa è sempre di Dio, ed è lui infatti ad avere la prima e l’ultima parola. La domanda di Dio ha lo scopo di mettere il nuovo re di fronte alla sua responsabilità e di costringerlo a fare delle scelte: può scegliere, deve scegliere, ma quale scelta? Il suo bene personale o il bene comune per il popolo e per sé? Salomone dimostra di aver ben compreso di essere dinanzi ad una alternativa decisiva.

Come è da attendersi dal momento che sta per succedere sul trono a Davide, Salomone qui evoca ciò che Dio ha fatto nel passato a favore del padre e, raffigurato come orante che non può non confidare in Dio, mette in continuità l’assistenza divina ricevuta dal padre con


quella che lui sta già godendo e che, per la fedeltà di Dio, certamente godrà nel futuro che si sta inaugurando. E tuttavia Salomone non può non sentire il peso del grande compito di fron‐te al quale ormai si trova:

«... il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per quantità non si può calco‐lare né contare» (v. 8).

E non può non sentire di essere inesperto e impreparato:

«Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi» (v. 7).

È così giustificato il fatto che egli faccia a Dio la sua preghiera di domanda. Il settore di azione in cui Salomone si sente bisognoso dell’aiuto divino è quello dell’am‐

ministrazione della giustizia. A partire da Amos, i profeti avevano dovuto continuamente ri‐chiamare i giudici a fare scorrere il diritto come un fiume (cf. Am 5,24) invece che, come fa‐cevano, svantaggiare e danneggiare i poveri nelle loro inique sentenze. La stessa esigenza è avvertita di frequente anche nei Salmi, soprattutto il Salmo 72, in cui il re promesso da Dio è capace di governare secondo la sua volontà, assicurando diritto e giustizia ai poveri e agli op‐pressi. Per questo Salomone chiede a Dio di aiutarlo e di renderlo capace di coniugare il ver‐bo šāma‘, e più precisamente chiede «un cuore in ascolto (lēb šōmēa‘)».11 Se fa riferimento al giudizio da emettere in tribunale, di cui senza l’aiuto di Dio Salomone si sente incapace, signi‐fica che egli vorrebbe essere un re capace di ascoltare chi è vittima di sopruso e chiede giu‐stizia. Ma l’ascolto è anche, e soprattutto, verso Dio, perché il giovane re ha bisogno di essere illuminato dalla parola di Dio per essere capace di assicurare diritto e giustizia. E questa capa‐cità non gli può venire da calcoli o strategie politiche, ma solo da un costante ascolto di quel Dio da cui è stato scelto perché compia il desiderio divino di assicurare un regno di giustizia e di pace.

Davvero Salomone sente che il peso di cui stanno per essere caricate le sue spalle è il peso di un popolo desideroso di un re che non si chiude nel suo palazzo, a proprio beneficio e sol‐lazzo, ma siede in tribunale a beneficio di chi invoca diritto e giustizia. Dopo avere detto a Dio: «Concedi al tuo servo un cuore in ascolto, perché sappia rendere giustizia al tuo popo‐lo», Salomone aggiunge: «... e perché io sappia distinguere il bene dal male (lehābîn bên‐tôb lerā‘)». A differenza dei progenitori che orgogliosamente pretendono di allungare in autono‐mia la mano per afferrare il frutto dall’albero della conoscenza del bene e del male (cf. Gen 2,17; 3,6), Salomone chiede umilmente a Dio quella conoscenza.12 Infatti, non avrebbe potu‐to assolvere al suo compito senza la possibilità del discernimento. E questa possibilità gli de‐riva dal cuore in ascolto della parola di Dio. Le due finalità per la richiesta del cuore in ascolto sono dunque quella di saper rendere giustizia al popolo e quella di saper discernere tra il be‐ne e il male.

Alla preghiera di Salomone, nei vv. 6‐9, fa seguito l’approvazione di Dio. Il testo introduce la risposta di Dio con la sentenza:

«Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa» (v. 10).

Nella sua risposta, dunque, Dio approva il programma di governo di Salomone che mette al centro la giustizia contro il sopruso, contro la corruzione, contro la svendita del povero per

11 La Cei, sia nella versione del 1974 che in quella del 2008, traduce «un cuore docile», oscurando così il

verbo šāma‘; M. NOBILE, 1–2Re. Nuova versione, introduzione e commento (I libri biblici ‐ Primo Testamento 9), Paoline, Milano 2010, 62, traduce «un cuore sensibile». Per l’importanza dell’«ascolto» nell’Antico Testamento, cf. U. RÜTERSWÖRDEN, «šāma‘, šēma‘, šemû‘â», GLAT IX, 615‐644.

12 È evidente che Gen 2–3 non va compreso come se il Signore Dio avesse voluto precludere all’umanità l’accesso alla possibilità della conoscenza del bene e del male. In realtà, è proposta l’alternativa tra una acquisi‐zione autonoma da parte dell’umanità e quella della preghiera che, nella consapevolezza di essere creature di fronte al creatore, chiede al Signore Dio di ricevere il dono del discernimento tra il bene e il male.


un paio di sandali proprio nel santuario del diritto che è il tribunale. La risposta di Dio a Sa‐lomone è articolata in tre passi successivi.

Anzitutto Dio parafrasa la richiesta di Salomone con la formula: «Hai domandato per te l’intelligenza per ascoltare il giudizio (hābîn lišmōa‘ mišpāṭ)» (v. 11), riprendendo dalle parole di Salomone il verbo šāma‘, perché Salomone aveva chiesto «un cuore in ascolto». Lo scam‐bio di «cuore» con «intelligenza» è spiegabile con il fatto che per l’uomo biblico il cuore è se‐de dell’intelligenza, oltre che dell’affettività, dei sentimenti e delle emozioni.13

In secondo luogo, dopo avere dato il suo apprezzamento positivo, Dio fa la sua magnani‐ma concessione. Con una seconda parafrasi infatti Dio dice di concedere al giovane re «un cuore saggio e intelligente (lēb ḥākām wenābôn)» (v. 12). Dio riprende dunque il termine «cuore» che nella richiesta di Salomone era collegato all’ascolto in vista della giustizia e del discernimento tra bene e male, e riprende il termine «intelligenza‐intelligente» che invece era nella prima propria parafrasi, finalizzata al giudizio giusto in mezzo al popolo. Nelle parole di Dio l’elemento nuovo è l’aggettivo «sapiente (ḥākām)» che qualifica il cuore e l’ascolto. Questo significa che il vero dono che, in questo testo, tutto riassume, è quello della sapien‐za,14 e significa che un cuore saggio è un cuore che ascolta, che sa ascoltare. E l’ascolto che viene dalla sapienza è duplice. La sapienza rende tutta la persona capace di ascoltare anzitut‐to Dio, il suo volere, la sua parola, le sue indicazioni e ispirazioni e, in secondo luogo, la rende capace di ascoltare la voce della gente che, vittima di ingiustizie e di raggiri, ricorre al re per avere sentenze ispirate al diritto e non all’arbitrio e all’interesse – gente che il re, attento alle situazioni, deve governare e guidare nella pace come chiede il nome «Salomone = [re o uo‐mo] di pace».

In terzo luogo, con divina generosità e magnanimità, Dio dice infine di voler concedere a Salomone anche quello che egli, ammirevolmente preoccupato dell’unum necessarium, non ha chiesto:

«Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ric‐chezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici... ti concedo anche quanto non hai domandato, cioè ric‐chezza e gloria, come a nessun altro fra i re, per tutta la tua vita» (1Re 3,11.13).

Nella preghiera di Salomone per i rabbini c’è non solo saggezza, ma anche un pizzico di astuzia o, se si vuole, di saggia astuzia. A Rabbi Shimon è attribuita infatti una parabola di commento alla preghiera di Gabaon, e si sa che le parabole rendono evidente e piacevole con la narrazione l’aridità e l’astrattezza del ragionamento. La parabola attribuita al rabbino dice:

«Disse Rabbi Shimon in nome di R. Shimeon ben Chalafta: “Si può istituire un confronto con un consigliere che era cresciuto nel palazzo di un re e al quale il re disse: ‘Chiedimi quello che vuoi’. Il consigliere pensò: ‘Se io chiedo oro e argento me lo darà senz’altro e così se io chiedo perle e pietre preziose. Perciò mi con‐viene chiedere la figlia stessa del re, così avrò tutto’”».

È allora facile e fulminante il commento di Rabbi Shimon:

13 Cf. H.‐J. FABRY, «lēb, lēbāb», GLAT IV, 636‐682. 14 Circa la parentela di questi testi con la tradizione sapienziale, scrive Nobile: «Quest’ultima espressione

[“saper comprendere‐distinguere tra il bene e il male” (v. 9)], del resto assieme ad altri termini di questa peri‐cope, come “cuore retto” e, al seguente v. 12, “cuore saggio e intelligente”, appartiene alla terminologia sapien‐ziale, quella stessa che ritroviamo fin dall’inizio di Genesi–2Re (cf. il racconto di Adamo ed Eva di Gn 2–3: l’albero della conoscenza del bene e del male di Gn 2,17 e la facoltà che l’uomo acquista drammaticamente di distinguere il bene dal male di Gn 3,22). Il carattere sapienziale della letteratura deuteronomistica, centrata sul‐la legge mosaica, esprime quella parallelità che il “movimento deuteronomista” concepiva tra sapienza e Legge: un concetto che si è sviluppato nell’epoca postesilica (cf. Sir 24,22), ma che era stato preparato già nel Deutero‐nomio» (NOBILE, 1–2Re, 71).


«Analogamente: il Signore apparve in Ghibeon a Salomone durante un sogno e gli disse: Chiedimi cosa deb‐bo darti (ibid. 5). E Salomone pensò: “Se io chiederò oro e argento e pietre preziose, mi verranno concessi; perciò io chiedo la sapienza e in essa è tutto compreso”. Allora il Signore gli disse: “Salomone, hai domanda‐to la sapienza e non la ricchezza o la vita dei tuoi nemici; ti giuro che sapienza e conoscenza ti saranno ac‐cordate e per mezzo di esse otterrai beni e ricchezze”».15

Come il Pentateuco è stato attribuito a Mosè e i Salmi a Davide, i libri sapienziali (oltre ai Salmi 72 e 127) sono legati al nome di Salomone. Salomone, infatti, appare in maniera espli‐cita o implicita come l’autore di tre libri appartenenti alla terza parte della Bibbia ebraica, cioè gli «Scritti» (Proverbi, Cantico e Qoèlet). La versione della Settanta ne aggiunge un altro alla lista: la Sapienza di Salomone. Tutti questi libri sono stati scritti dopo l’esilio, quindi molti secoli dopo la morte del Salomone storico. Risulta quindi evidente che l’attribuzione al gran‐de re è un caso di pseudepigrafia, procedimento letterario molto frequente nell’antichità e soprattutto nel giudaismo ellenistico, che consiste nell’attribuire un’opera a un autore già no‐to e consacrato per darle più prestigio e autorevolezza. In una maniera o nell’altra, Salomone è presente in questi quattro libri.

Diceva Rabbi Jonatan:

«Salomone scrisse il Cantico quando era giovane, i Proverbi quando era un uomo maturo e Qoèlet quando diventò vecchio; perché quando un uomo è giovane compone canzoni d’amore; quando avanza negli anni, emette sentenze di saggezza; quando diventa vecchio, parla della vanità delle cose» (Midrash Rabba, Ct 1,10).

6.2. SCRIBI E SCUOLE

Gli scribi del re, ricordati in Pr 25,1 o che 1Re 5,13 lascia supporre, non sono da identifi‐carsi puramente e semplicemente con i suoi consiglieri politici. Leggendo i proverbi delle rac‐colte salomoniche si intuisce che certi scribi avevano un’altra funzione di importanza capitale per l’avvenire dello stato: quella di preparare la gioventù maschile meglio dotata a prendere un domani il cambio nella responsabilità dell’amministrazione, della diplomazia e del gover‐no. Bisognava insegnare a questi giovani ciò che rende l’uomo equilibrato e completo, e in‐nanzitutto il comportamento corretto a corte (Pr 16,10‐15; 25,2‐7). Che questa formazione fosse impartita a dei giovani, lo si può dedurre dal fatto che troviamo nei proverbi (come in Pr 27,11) il vocativo “figlio mio”.

6.3. ORIGINE POPOLARE DELLA SAPIENZA

La maggior parte dei proverbi antichi non ha niente a che vedere con la vita di corte. Un gran numero di proverbi riuniti nelle raccolte salomoniche proviene sicuramente dalla cam‐pagna o dai villaggi e il loro contenuto lo testimonia; ad es.: «Se non ci sono buoi la greppia è vuota; nella forza del giovenco c’è abbondanza di prodotti» (Pr 14,4). In questo l’origine della sapienza in Israele non differisce da quella di tutti gli altri popoli. Le testimonianze antiche, anteriori a Salomone, confermano questo dato. In Israele, come dappertutto, la sapienza proverbiale è di origine popolare e si trasmette in famiglia, come avverrà ancora molto più tardi con Tobia (Tb 4,3‐21). Salomone e i suoi scribi non hanno fatto altro che raccogliere questa saggezza popolare antica, organizzarla e metterla per iscritto, salvo a modificare qua e là la formulazione originale per farla meglio entrare nei quadri previsti per la raccolta. La sa‐pienza proverbiale non è solo l’opera di artigiani abili nel loro mestiere (cfr. Es 31,31; 2Cr 2,12); è più di questo. Un proverbio infatti è una espressione armoniosa – piacevole da ascol‐tare e da dire, concisa al massimo e che richiede riflessione per essere ben compresa – di una

15 R. PACIFICI, Midrashim. Fatti e personaggi biblici, Marietti, Casale Monferrato 1986, 122.


verità comprensibile a tutti e che sintetizza una lunga esperienza di osservazione degli uomi‐ni e delle cose. Un proverbio è il frutto di una lunga maturazione e l’osservazione ne è la ba‐se. La ripetizione di uno stesso fenomeno fu osservata da spiriti pazienti e perspicaci, rimasti quasi sempre anonimi, forse perché usciti dal popolino, e ciò ha permesso loro di scoprire il principio generale che regge questa molteplicità. Inoltre questa gente osservatrice è riuscita a condensare la propria scoperta in una formula breve e stringata, trasmessa dapprima oral‐mente. È solo a questo punto che è intervenuta l’azione degli scribi di corte o dei circoli intel‐lettuali. E questa messa per iscritto fin dalla più remota antichità è caratteristica delle culture del Vicino Oriente Antico. In Israele questa stesura dei proverbi in raccolte organizzate, come si faceva anche in Mesopotamia e in Egitto, conobbe un avvenire ancora migliore, dal mo‐mento che queste raccolte furono accettate come tali e trasmesse fedelmente lungo i secoli fino a noi. Così si conservava la tradizione, che alla fine acquistò un carattere religioso, dal momento che Pr fa parte della Bibbia, è parola di Dio.

7. IL MONDO SECONDO I SAPIENTI

La visione del mondo che i libri sapienziali presuppongono è strettamente legata all’idea di ordine secondo la quale il mondo (l’essere umano, la natura e il cosmo) risponde a una se‐rie di leggi stabilite da Dio nel suo atto creatore. Nel racconto di Gen 1 l’agire di Dio si espri‐me separando e dividendo gli elementi, in maniera tale da stabilire un ordine nel creato. Or‐bene, questo “ordine nel mondo” non è una categoria originale di Israele, ma appartiene al patrimonio sapienziale del Vicino Oriente antico. In Egitto esso si identifica con Maat, figlia del dio Ra e personificazione della verità, dell’ordine e della giustizia. Raffigurata come una giovane donna con in testa una corona dalla quale sporge una lunga penna di struzzo, e con in mano una croce ansata, simbolo della vita, Maat assicura allo stesso tempo l’ordine cosmi‐co, l’armonia nei rapporti sociali e il mondo degli dèi. In realtà, più che una dea, Maat è un principio, un concetto senza il quale il mondo sarebbe tornato al caos primigenio. In Israele Maat è sostituita dalla presenza e dalle azioni di Dio, oppure dalla Sapienza il cui spirito riempie l’universo e penetra ogni cosa (cfr. Sir 1,9; Sap 1,7; 7,24).

Molte sentenze del libro dei Proverbi esprimono l’ordine del mondo, il ritmo della natura e del tempo:

«Come il fresco della neve al tempo della messe [...] Nuvole e vento e niente pioggia» (Pr 25,13‐14); «La tramontana genera la pioggia» (Pr 25,23); «Acqua fresca per una gola assetata» (Pr 25,25); «Come la neve all’estate e come la pioggia alla messe» (Pr 26,1).

Le stesse idee sono formulate, con un grado di elaborazione superiore, da Qoèlet in un passo di grande bellezza:

«Una generazione va e una generazione viene; eppure la terra sta sempre ferma. Il sole sorge, il sole tra‐monta e si affretta al suo luogo. Va verso sud e gira verso nord il vento. Il vento, nel suo cammino, non fa che girare: ritorna sempre sulle sue spire. Tutti i fiumi scorrono verso il mare e il mare non si riempie mai; sempre i fiumi tornano a fluire verso il luogo dove vanno scorrendo» (Qo 1,4‐11).

Il passare delle generazioni, il movimento delle stelle, il flusso monotono delle acque e della storia rivelano un mondo ordinato, un autentico kósmos.

Sulla precisione e sull’ordine che caratterizzano la creazione insiste anche Ben Sira in un brano che riecheggia il racconto sacerdotale di Gen 1:

«Quando il Signore creò le sue opere all’inizio, dopo averle fatte, dispose i loro confini. Ordinò le sue opere per sempre, stabilì il loro dominio per le varie epoche; non hanno fame né si stancano, non cessano di com‐piere il loro lavoro. Ciascuna non urta quella che è vicina, non si ribellano mai alla sua parola» (Sir 16,26‐28; cfr. anche 42,21‐25).


Il saggio si sente capace, con l’aiuto della ragione e dell’esperienza, di capire e rispettare l’ordine del creato. Tant’è vero che tutti i suoi insegnamenti sono orientati alla difesa e alla con‐servazione di quest’ordine. Compito di ogni uomo è dunque quello di trovare il momento op‐portuno per realizzare l’azione opportuna. Sottomettersi all’ordine del mondo in tutte le sue sfaccettature, accettando i limiti della sapienza umana, non solo è un modo per allontanarsi dal male e imboccare il cammino della vita, ma aiuta anche all’autorealizzazione personale. In que‐sta prospettiva il giusto non è soltanto la persona onesta, bensì colui che si sottomette di pro‐pria volontà a quest’ordine. Al contrario, il malvagio non è soltanto la persona che compie azioni riprovevoli, ma colui che prescinde dall’ordine o tenta di distruggerlo. Questa certezza è garantita dalla teoria della retribuzione, così come è dimostrato da Proverbi. Il problema sorse però quando si iniziò ad avvertire la mancanza di corrispondenza tra azione e risultato: come mai le persone buone e giuste falliscono, mentre i malvagi e gli ingannatori sono abbracciati dal successo? Giobbe e Qoèlet, ognuno a modo suo, hanno minato le basi del castello di certezze costruito con grande sforzo dalla riflessione sapienziale: sono l’espressione della crisi dell’impresa dei sapienti d’Israele. La risposta a questa crisi verrà dall’ambito della teologia e si concretizzerà in quattro aspetti: il rapporto tra sapienza e timore del Signore (cfr. Gb 28; Sir 1), la personificazione della Sapienza, l’accostamento di sapienza e legge (cfr. Sir 24) e l’incar‐nazione della sapienza nella storia di Israele (cfr. Sir 44,1‒50,21).

8. LA SAPIENZA, ARGOMENTO CENTRALE

Il tema principale dei libri sapienziali è quello della sapienza e della sua acquisizione da parte del discepolo. Infatti i termini ebraici ḥokmāh, «sapienza», e ḥākām, «saggio» ‒ e i loro corrispondenti in greco, sophía e sophós ‒, sono maggiormente utilizzati in Proverbi, Giobbe, Qoèlet, Siracide e Sapienza. A eccezione di Gen 41,8 e Es 7,11, dove la sapienza è messa in rapporto con la magia e la mantica, o scienza divinatoria (più precisamente con l’oniro‐manzia, che trae presagi dall’interpretazione dei sogni), i termini sopra indicati generalmente designano l’intelligenza pratica, che secondo i contesti è chiamata destrezza, perizia o abilità. In questo senso la persona saggia è quella che dimostra una speciale dimestichezza nell’eser‐citare il proprio mestiere o nello svolgere una qualche attività artigianale. Nel libro dell’Esodo sono noti i brani che descrivono la costruzione della tenda santa, la fabbricazione degli arredi del santuario e la confezione dei paramenti liturgici. Il Signore dice a Mosè di aver riempito Besalèl del suo

«spirito di sapienza, intelligenza, scienza per ogni opera, per far progetti ed eseguirli in oro, argento e bron‐zo, per [...] fare ogni opera» (Es 31,1‐6; cfr. anche Es 35,31).

E lo stesso fece con gli altri artisti (cfr. Es 31,7‐11; 35,35). Anche le donne collaborarono a questa impresa con la loro saggezza pratica:

«Ogni donna saggia di cuore con le proprie mani filò [...] tutte le donne portate dal proprio cuore con sag‐gezza filarono i peli di capra» (Es 35,25‐ 26).

In altri testi si considera sapienza la semplice perizia dell’armatore di una nave (cfr. Sap 14,1‐2), l’arte dello scriba (cfr. Sir 38,24) o la scelta del metodo adeguato (cfr. Qo 1,13; 2,21; 7,23). Orbene, la sapienza artigianale raggiunge il culmine quando è applicata antropomorfi‐camente a Dio creatore:

«Il Signore con la sapienza ha fondato la terra, sostenendo i cieli con l’intelligenza» (Pr 3,19; cfr. anche Ger 51,15).

Nell’ambito dei rapporti interpersonali, la sapienza può diventare sagacità, ingegno, talen‐to, astuzia. Con ironica violenza risponde Giobbe a Sofar:


«Davvero voi siete gente importante e con voi morirà la sapienza!» (Gb 12,2).

Lapidarie sono le sentenze del saggio:

«Non c’è sapienza né intelligenza né consiglio che si oppongano al Signore» (Pr 21,30);

o anche:

«Chi è prudente studia bene la sua strada, ma la follia degli stolti è sbandamento» (Pr 14,8).

Questo aspetto negativo emerge anche nei brani in cui si parla di coloro che credono di essere saggi e agiscono da stolti (cfr. Gb 5,13; 15,2; Pr 3,7; 26,12.16; 28,11; Sir 7,5; 37,20). In‐fine, in due occasioni Giobbe parla della sapienza degli animali, cioè del loro istinto sagace:

«Chi ha concesso all’ibis la sapienza, e chi ha dato al gallo intelligenza?» (Gb 38,36);

e del maldestro struzzo dice:

«Dio gli ha negato la sapienza e non gli ha dato in sorte l’intelligenza» (Gb 39,17).

Anche l’autore di Proverbi loda la saggezza di alcuni animali piccolissimi: le formiche, gli iraci, le cavallette e la lucertola «sono saggi tra i saggi» (Pr 30,24). D’altro canto, la sapienza viene anche equiparata al sapere, alla scienza e alla dottrina. Oltre al re Salomone, famoso per la sua sapienza enciclopedica, ci sono altri personaggi passati alla storia come dei veri sa‐pienti: per esempio Davide (cfr. 2Sam 14,19), Qoèlet (cfr. Qo 12,9), Daniele e i suoi compagni (cfr. Dn 1,4.17.20).

Numerosi sono i testi che parlano della sapienza come di un bene o valore in sé stesso, frutto maturo di una lunga esperienza personale o collettiva (cfr. Gb 26,3; Qo 9,10.13). Di conseguenza essa è molto apprezzata dai saggi, che la raccomandano ai discepoli con insi‐stenza (cfr. Pr 5,1).

È paragonata a un tesoro (cfr. Gb 28,18), che però non serve a nulla se rimane nascosto:

«Se la sapienza è nascosta e il tesoro invisibile, quale utilità si ha in entrambi? Vale più l’uomo che nasconde la sua stoltezza che l’uomo che nasconde la sua sapienza» (Sir 41,14‐15).

La sapienza dà gran dignità a chi la possiede (cfr. Sir 11,1) e lo rende felice (cfr. Pr 3,13; Sir 3,29; 14,20), mentre colui che la disdegna è un infelice (cfr. Sap 3,11). L’uomo tuttavia non nasce con la sapienza, deve impararla (cfr. Pr 4,11; Sir 6,22) e darsi da fare per acquistarla (cfr. Pr 4,5). Ci vuole molto impegno per diventare saggio:

«Se vuoi, o figlio, puoi essere istruito, se ti ci dedichi diventerai perspicace» (Sir 6,32; cfr. anche Pr 6,6).

Il processo di apprendistato richiede, per lo meno, lo sforzo personale:

«Non sono i molti anni a dare la sapienza, né per essere anziano uno sa giudicare» (Gb 32,9).

In una cultura orale la sapienza si trasmette per mezzo della parola. Per questo diventa co‐sì importante volere e sapere ascoltare:

«Tendi l’orecchio e ascolta le parole dei sapienti, applica il tuo cuore perché tu le comprenda» (Pr 22,17; cfr. anche Sir 6,33; Gb 15,17‐18).

La compagnia dei saggi fa diventare saggi (cfr. Pr 13,20; Sir 6,34), perché «nel discorso del saggio c’è sempre saggezza» (Sir 27,11) e «la lingua dei saggi produce la scienza» (Pr 15,2).

La sapienza è in stretto rapporto con l’arte di governare. Prima di morire Davide dà diversi consigli a suo figlio Salomone. Riferendosi a Ioab, il quale aveva ucciso due generali dell’eser‐cito a sua insaputa, gli dice:

«Agirai saggiamente se non permetterai che la tua canizie discenda in pace agli inferi» (1Re 2,6).


Poco tempo dopo il desiderio di suo padre fu compiuto (cfr. 1Re 2,28‐34). Nei testi sacri l’arte di saper governare è un dono che il Signore invia a coloro che glielo chiedono. Così ac‐cade con il re Salomone. Nel libro della Sapienza l’intelligenza, o prudenza politica, è una viva raccomandazione che l’autore rivolge ai sovrani delle nazioni (cfr. Sap 6,9.20‐21).

Nell’ambito della morale la sapienza è equiparata alla prudenza, all’assennatezza, all’one‐stà e alla giustizia. In questo senso essa va intesa come una virtù o qualità positiva, che orien‐ta la vita e le azioni di colui che la possiede. La persona saggia è quella capace di prendere decisioni etiche di fronte a Dio e agli altri. Questa dimensione etica della sapienza si esprime, per esempio, nell’identificazione tra saggio e giusto (in opposizione a quella tra stolto e mal‐vagio), molto frequente in Proverbi:

«Da’ al saggio e diventerà ancora più saggio, istruisci il giusto e farà altro acquisto» (Pr 9,9);

o ancora:

«Il frutto del giusto è l’albero di vita, un conquistatore di anime è il saggio» (Pr 11,30).

Oltre a essere un’arte di vivere, un cammino di educazione integrale, una virtù profonda‐mente umana, la sapienza biblica si inserisce anche nella sfera religiosa: per i saggi d’Israele la sapienza non è quella «scienza delle cose divine e umane» che, secondo la dottrina stoica, si conquista con lo studio. Anzi: molto spesso essa viene equiparata alla pietà, alla religiosità, al timore di Dio. Anche se il punto di partenza del saggio è sempre l’esperienza dell’umano, del quotidiano, egli sa che Dio ha creato e governa il mondo, ed è dunque consapevole dei propri limiti in quanto essere creato. È Dio l’origine e la causa della sapienza (cfr. Sir 1,1.8); è anzitutto Dio che agisce con saggezza (cfr. Pr 3,19; Sap 1,9; 14,5); è Dio che concede la sa‐pienza a quanti la desiderano, osservano le sue leggi e gliela chiedono per se stessi o per gli altri (cfr. Sir 6,37; 43,33; 50,23). Insomma, né laica né secolare, la sapienza biblica è profon‐damente religiosa, ancorata nella tradizione di un popolo che crede nell’unico Dio, creatore dell’universo.

9. LA SAPIENZA PERSONIFICATA

A eccezione di Qoèlet, tutti i libri sapienziali hanno dei brani dedicati a Donna Sapienza, la personificazione più possente della Bibbia ebraica. Essa si presenta nelle pagine del libro dei Proverbi (cfr. Pr 1,20‐33; 8,1‐36; 9,1‐6), di Giobbe (cfr. Gb 28), del Siracide (cfr. Sir 1,1‐10; 24,1‐23), della Sapienza (cfr. Sap 7‒9), e anche in Baruc (cfr. Bar 3,9‒4,4) con i volti più diver‐si: è bambina, sorella, ragazza, ospitale padrona di casa, madre e maestra, guida e compagna di viaggio, fidanzata corteggiata e sposa accogliente. Volti certo diversi, ma sempre femminili. Numerose spiegazioni tentano di far luce su questa personificazione femminile. Alcune si ba‐sano sul genere femminile del sostantivo ebraico ḥokmāh, «sapienza», e del suo equivalente greco sophía. Altre suggeriscono l’attrattiva che la sapienza come gentildonna provocava in un uditorio esclusivamente maschile: di fatto gli allievi dell’insegnamento sapienziale erano giovani ragazzi al momento di affrontare la vita e le future responsabilità sociali. Un terzo gruppo di risposte si rifà all’influsso di divinità femminili ‒ come la dea cananea Astarte, la Siduri‐Sabitu babilonese, la Ishtar fenicia (che si rispecchia nel libro di Achikar), la Maat egi‐ziana, o la lside ellenistica. Infine non si possono dimenticare gli studi di Claudia V. Camp sulla figura della sapienza e sulla sua relazione con le donne, reali o immaginarie, della società israelitica. Queste risposte illuminano solo parzialmente l’enigmatica sapienza; nessuna rie‐sce a sviscerare il misterioso alone che continua ad avvolgere questa figura. Invece che di personificazione letteraria o poetica, alcuni tuttavia preferiscono parlare di personificazione


dell’ordine cosmico, o di personificazione dottrinale o rivelatrice; altri arrivano a parlare per‐fino di ipostasi, un termine teologico di non facile spiegazione.16

In Pr 8 Sapienza rivolge un discorso pubblico, lungo e solenne, dove fa un elogio del suo insegnamento e di se stessa (cfr. Pr 1,20‐32; 9,1‐6). In esso Sapienza si riconosce una creatura intelligentissima (la caratterizzano consiglio e competenza), moralmente incensurabile (dete‐sta l’alterigia, l’orgoglio, il cammino perverso e la lingua contorta) e, inoltre, esercita il suo potere fra i grandi (re, principi e governanti). Anzitutto, però, Sapienza eccelle per la sua ca‐pacità di relazione. Essa sa come comportarsi con coloro che la amano e la desiderano: li colma di frutti. L’elemento più rilevante dell’intero discorso è la stretta relazione che sin dall’inizio si stabilisce tra Dio e la sapienza, tra il Creatore e la sua prima creatura. L’intensa attività creatrice di Dio descritta nel testo può riassumersi in questo modo: Dio crea la sa‐pienza e crea l’universo. Deriva da qui l’idea che ambedue ‒ la sapienza e l’universo ‒ sono creature dipendenti da Dio. Creata da Dio prima del mondo, la sapienza assiste alla sua orga‐nizzazione e agisce come ponte tra Dio e gli uomini. Una cosa è certa: la sapienza è divina, ma non è Dio. Non può esserlo perché è una sua creatura. E al contrario: Dio è intimamente legato alla sapienza, ma non è la sapienza. Non può esserlo, poiché è suo creatore. Nono‐stante ciò, Pr 8 sembra voler identificare la sapienza con Dio. Sono così vicini l’uno all’altra che la loro presenza si confonde: la stessa voce, lo stesso desiderio di comunicarsi agli uomi‐ni. La sapienza è la rivelazione di Dio, è la sua comunicazione vitale; una comunicazione che si lascia sentire nell’universo, nella storia e in ogni essere umano.

Considerato generalmente un’aggiunta, Gb 28 è un poema sulla sapienza che alcuni met‐tono in bocca a Giobbe (cfr. Gb 27,1‒28,28), altri in bocca dell’autore, di un portavoce ano‐nimo o di un coro (cfr. Gb 28,1‐28). La composizione poetica è caratterizzata da un ritornello ripetuto con leggerissime varianti in Gb 28,12.20: «Ma la sapienza da dove si estrae? Dov’è il giacimento della prudenza?». Nella prima strofa (cfr. Gb 28,1‐12) l’homo faber, capace di estrarre minerali preziosi dalle profondità della terra, è incapace di trovare la sapienza. La se‐conda (cfr. Gb 28,13‐20) soppesa il valore incalcolabile della sapienza: è più preziosa dell’oro, delle pietre preziose e di tutte le ricchezze del mondo. Nella terza (cfr. Gb 28,21‐28), poi, si svela il mistero dell’inaccessibilità della sapienza: «Dio solo ne conosce la via ed egli solo sa dove si trovi» (Gb 28,23). E qual è questo luogo? Qual è il suo posto? È possibile raggiunger‐lo? I versetti seguenti indicano una pista: quando il Signore ordinava l’universo, «la vide e la calcolò, la scrutò e la stabilì» (cfr. Gb 28,27). Pertanto la sapienza era con lui, nascosta nella creazione, in qualche angolo inaccessibile per i mortali. Questa volta non contempliamo da vicino il volto femminile della sapienza; la vediamo tuttavia di nuovo assieme a Dio, nell’uni‐verso e con gli uomini.

In Sir 24 Sapienza pronuncia un discorso che in realtà è un elogio di se stessa. Come la pa‐rola creatrice di Dio in Gen 1, Sapienza esce dalla bocca dell’Altissimo e come vapore rinfre‐scante, seduta su un trono di nuvole, inizia un lungo viaggio attraverso il mondo: percorre il cielo, l’abisso, il mare, la terra, esercitando il suo dominio su tutto il creato, così come si addi‐ce a Dio, come se fosse essa stessa Dio. Il viaggio di Sapienza ha uno scopo ben concreto: cerca un’abitazione per riposarsi e un’eredità dove stabilirsi. Sapienza si impegna attivamente

16 Sulla sapienza personificata cfr. R.E. MURPHY, L’albero della vita. Una esplorazione della letteratura sapien‐

ziale biblica, Queriniana, Brescia 1993, 171‐191; M. GILBERT ‐ J.N. ALETTI, La sapienza e Gesù Cristo, Gribaudi, Torino 1982; G. SEGALLA, Le figure mediatrici di Israele tra il III e il I secolo a.C. La storia di Israele tra guida sapienziale e attrazione escatologica, in G.L. PRATO (ed.), Israele alla ricerca di identità tra il III sec. a.C. e il I sec. d.C., in RStB (1989/1) 13‐65. Una lettura dei testi su «Donna Sapienza» con la loro attualizzazione per un percor‐so formativo viene proposta in G. DE CARLO, «Ti indico la via». La ricerca della Sapienza come itinerario formati‐vo, EDB, Bologna 2003.


in questa ricerca, però la decisione la prende il suo Creatore, dicendole quello che deve fare: «Metti tenda in Giacobbe, sia in Israele la tua eredità» (Sir 24,8). Terminato il suo viaggio, Sa‐pienza si rifà alle origini del tempo e si proietta verso un futuro illimitato, seguendo un mo‐vimento centrifugo: dalla tenda santa (il tempio, designato anche come Sion) passa alla città amata (Gerusalemme) e da lì al popolo glorioso (o “porzione del Signore”, Israele). Per mezzo di suggestive comparazioni con gli alberi, i profumi, i frutti e i fiori più caratteristici del paese, Sapienza ci racconta come il suo processo di crescita abbracci l’intero territorio di Israele. Nel desiderio di entrare in comunione di vita con gli uomini, ella produce frutti abbondanti e invi‐ta coloro che la desiderano a farsi suoi discepoli, a nutrirsi di lei e a vivere la sua stessa vita. Paradossalmente i frutti della Sapienza sono la sapienza stessa. Mangiare e bere la sapienza, come si mangia il pane, come si beve il vino, significa ascoltare, assimilare e mettere in prati‐ca il suo insegnamento. A partire da Sir 24,22 e fino alla fine del capitolo la voce di Sapienza sparisce e il saggio riprende la parola per decodificare il discorso di lei. Proprio in questo ver‐setto l’autore frena il processo di personificazione al femminile di Sapienza, creando uno stretto rapporto fra lei e la Torah, che era monopolio esclusivo degli uomini. Tutto ciò che prima Sapienza aveva detto di sé, adesso è diventato la Torah, la legge che Dio diede al suo popolo per mezzo di Mosè sul monte Sinai. Se prima Sapienza aveva piantato la sua tenda in Israele, adesso si attualizza nella Torah.

In Sap 7‒9 la figura della sapienza è illuminata attraverso un’infinità di immagini. l tre capi‐toli sono preceduti da una breve introduzione dove l’autore assume la figura di Salomone ed evoca l’episodio di Gàbaon (cfr. 1Re 3,4‐15), in quanto vuole presentare la sapienza come frutto della preghiera molto più prezioso di tutti gli altri valori: il potere, la ricchezza, la salu‐te, la bellezza, la luce del giorno. Di più: la sapienza è la madre e l’origine di tutti i beni e ga‐rantisce l’amicizia con Dio (cfr. Sap 7,1‐14). Come in 1Re 5,9‐14 l’autore implora da Dio la sa‐pienza, giacché è lui che la guida e dirige, è lui che concede al saggio la scienza per compren‐dere tutte le meraviglie della creazione. In Sap 7,21 si afferma però che è Sapienza stessa ad ammaestrare il saggio su tutte le realtà nascoste e manifeste nel mondo, una sapienza de‐scritta come artefice di tutto. Questa attività divina della sapienza viene chiarita in Sap 7,22‒8,1, dove la personificazione della sapienza giunge al culmine. La natura spirituale della sapienza è descritta con ben ventuno aggettivi, numero intenzionale che indica la perfezione. Questa sapienza onnipresente, che permea ogni briciola della realtà sempre per il bene, ha la sua origine in Dio. Dipende da lui in tutto e per tutto. Servendosi di tre simboli (effluvio, emanazione e riflesso) l’autore vuole esprimere non soltanto l’origine della sapienza, ma an‐che l’intima relazione che essa ha con Dio, una relazione che sfiora delicatamente l’identifi‐cazione. Grazie a questo stretto vincolo, la sapienza è in grado di riprodurre in sé gli attributi di Dio: il suo potere, la sua gloria, la sua luce, la sua bontà e la sua attività creatrice e benefi‐ca. Dopo aver descritto le attività della sapienza, l’autore riprende la sua storia personale: quando era giovane, amò la sapienza, la desiderò e la ricercò come fidanzata (cfr. Sap 8,2); poi la prese come sposa o compagna (cfr. Sap 8,9: pròs symbíōsin) e alla fine egli riposa paci‐ficamente a suo lato. Il desiderio della sapienza precede e ne motiva la ricerca. Ma non è suf‐ficiente il solo desiderio, poiché non la si può raggiungere con il solo sforzo personale. La sa‐pienza è un dono di Dio, che soltanto lui può concedere. Perciò occorre chiederlo, come fece Salomone in 1Re 3,6‐9. Nella preghiera di Sap 9,1‐18 la sapienza sopravanza la Torah. Si slega da essa e procede verso un orizzonte di portata universale. Qui la sapienza, identificata con lo Spirito divino, è la presenza di Dio nel mondo e nell’umanità, specialmente nell’umanità da cui essa è desiderata, ricercata e amata.

Il mistero della sapienza in Pr 8 e Gb 28 ‒ una sapienza di origine divina, ma non identifi‐cabile, non localizzabile ‒ scompare in Sir 24 e in Bar 3,9‒4,4, dove la nobildonna Sapienza,


nascondendo le sue fattezze femminili, si è trasformata nella Torah. Non si può dimenticare, tuttavia, che questa Sapienza‐Torah venne sulla terra per vivere con gli uomini. È la medesi‐ma idea incontrata precedentemente in Pr 8, Sir 24, e Sap 7. La sapienza personificata conti‐nuerà a evolversi con il passare del tempo. Per esempio, nel Libro delle Parabole (I sec. d.C.) la sapienza ritorna in cielo giacché non ha trovato dimora sulla terra. Invece di convivere con gli esseri umani, convive con gli angeli:

«La saggezza non trovò posto dove stare e la sua sede era nei cieli. Essa venne a stare tra i figli degli uomini e non trovò posto. Ritornò alla propria sede e si mise tra gli angeli» (1En 42,1‐3).

10. I LIBRI SAPIENZIALI E IL NUOVO TESTAMENTO

10.1. GESÙ E LA SAPIENZA

I libri sapienziali, e in modo particolare la tradizione della sapienza personificata, hanno lasciato un’orma profonda in numerosi passi del Nuovo Testamento. Ognuno a suo modo, Paolo, Matteo, Luca e Giovanni presentano Gesù che insegna non solo usando lo stile dei saggi (cfr. le parabole, il discorso della montagna, il discorso sul pane di vita e i numerosi pro‐verbi da lui citati), ma addirittura come la sapienza di Dio. Adattano i testi dell’antica sapienza d’Israele in modo da poter essere applicati alla persona di Gesù. Perciò attribuiscono a Gesù i lineamenti, le funzioni, le espressioni proprie della sapienza personificata. Paolo insisterà nel‐la funzione cosmica di Cristo (cfr. 1Cor 1,6‐8.18‐31; 2,6‐8; Col 1,15‐20); da parte loro i Sinotti‐ci vedono in Gesù il maestro che imparte insegnamenti sapienziali (cfr. Mt 11,16‐19.28‐30; 12,38‐42; 23,24‐36 e par.).

Giovanni ci rivela la chiave dell’identità di Gesù riflessa nella traiettoria che ha percorso la sapienza (cfr. Gv 1,1‐18).

All’inizio della prima lettera ai Corinzi (cfr. 1Cor 1,18‐31) Paolo presenta la contrapposizio‐ne tra la falsa e l’autentica sapienza. Vale a dire tra la sapienza del mondo, intesa come l’insieme di speculazioni logiche e di inutili artifici retorici, e la sapienza di Dio, che è lo stesso Cristo Gesù. La relazione Cristo‐Sapienza emerge con forza in 1Cor 1,22‐24, dove il Cristo cro‐cifisso incarna la sapienza divina. Più che di identificazione tra Cristo e sapienza, il testo pone l’accento sul paradosso della croce di Cristo: scandalo e stoltezza per gli uni e strumento di salvezza per gli altri. In 1Cor 1,30 Paolo non dice neppure che Cristo sia la sapienza, bensì che la salvezza giunge attraverso Cristo crocifisso. Ad ogni modo, i tratti della sapienza personifi‐cata son più chiari in altri passi della lettera, per esempio in 1Cor 2,6‐8 dove Paolo descrive la sapienza divina che agisce nella persona di Cristo con tratti che nell’Antico Testamento sono propri di Donna Sapienza (cfr. anche 1Cor 8,6). Infine, nell’inno cristologico di Col 1,15‐20, Paolo, utilizzando il linguaggio e i concetti della tradizione sapienziale (cfr. specialmente Sap 7‒9), presenta Cristo vincitore della morte e re dell’universo.

Nei vangeli sinottici la parola «sapienza» appare dieci volte, sempre in rapporto con la persona di Gesù. Già nella sua fanciullezza Gesù si distingue per la sapienza (cfr. Lc 2,40.52), nella vita pubblica cresce la sua fama di maestro sapiente. Gli abitanti di Nàzaret si stupisco‐no degli insegnamenti di Gesù, ma ricusano di riconoscerne l’autorità a motivo della sua umi‐le origine: «Donde ha costui tali cose? Che sapienza è quella che gli è stata data? E che mira‐coli avvengono per le sue mani?» (Mc 6,2; cfr. Mt 13,54). In alcuni testi di Matteo e Luca la persona di Gesù appare strettamente legata alla sapienza dell’Antico Testamento: il segno di Giona (cfr. Mt 12,38‐42; Lc 11,29‐32), la piccola parabola di Mt 11,16‐19 sugli scribi e i farisei (cfr. Lc 7,31‐35), Mt 11,28‐30, dove Gesù parla come il saggio di Sir 51,23‐26 («Avvicinatevi a me...»), e infine Mt 23,24‐36 (cfr. Lc 11,49‐51). Per i Sinottici Gesù di Nàzaret, pur insegnando


con proverbi, aforismi ed enigmi, non è solamente un maestro di sapienza nello stile degli an‐tichi saggi: Gesù è la medesima sapienza di Dio in persona.

Negli scritti di Giovanni, invece, i termini «sapienza» e «sapiente» non appaiono mai e, tut‐tavia, è innegabile la tematica sapienziale del quarto vangelo. Il suo autore usa infatti la termi‐nologia, il simbolismo e i concetti teologici della tradizione sapienziale per elaborare una pro‐fonda cristologia dell’incarnazione, il che distingue Giovanni dagli altri vangeli. Il prologo del quarto vangelo (cfr. Gv 1,1‐18), pur non essendo l’unica testimonianza della tradizione sapien‐ziale dell’Antico Testamento (cfr. il resto del vangelo e le lettere giovannee), ne è l’esempio più significativo. L’autore descrive il Logos con tratti sapienziali e gli attribuisce funzioni proprie del‐la sapienza. Inoltre, il movimento letterario e teologico del prologo è molto simile a quello di Sir 24,8. In ambedue i casi si tratta di un movimento discendente (Logos e Sapienza sono al principio con Dio nel cielo e in seguito scendono sulla terra); Gv 1,14 (il Logos «dimorò fra noi», cioè «Si accampò in mezzo a noi») è una chiara allusione a Sir 24,8 («Allora il Creatore [...] ha detto [a Sapienza]: Metti tenda in Giacobbe»). L’autore del prologo utilizza dunque il termine astratto Logos invece del nome proprio Gesù; in realtà quanto ci presenta è la storia del Figlio di Dio, che richiama a sua volta la figura della sapienza personificata.

10.2. CITAZIONI E ACCOSTAMENTI

Il libro dei Proverbi fu molto apprezzato dalle prime generazioni di cristiani come dimo‐strano le numerose citazioni (ca. 100 incluse le allusioni, le citazioni implicite e i paralleli let‐terari) che si trovano nel NT. Riportiamo alcuni esempi. L’autore della seconda lettera di Pie‐tro riferisce Pr 26,11 ai falsi dottori:

«A loro è accaduto quanto dice un proverbio vero: “Il cane si rivolge verso ciò che ha vomitato” e “La scrofa, lavata, ritorna a sguazzare nel fango”» (2Pt 2,22).

Gli apostoli generalmente utilizzano i proverbi per insegnare ai fedeli come condurre una vita secondo Dio: dare generosamente conformemente ai propri mezzi (cfr. Pr 3,27 e 2Cor 8,12), comportarsi con umiltà davanti a Dio e agli altri (cfr. Pr 3,34 e Gc 4,6; 1Pt 5,5), temere il Signore e il re (cfr. Pr 24,21 e 1Pt 2,17), raddrizzare i cammini tortuosi (cfr. Pr 4,26 e Eb 12,13), dar da mangiare al nemico affamato (cfr. Pr 25,21‐22 e Rm 12,20). L’autore della lette‐ra agli Ebrei rivolge ai suoi destinatari l’istruzione di Pr 3,11‐12:

«E vi siete dimenticati dell’esortazione che si rivolge a voi come a figli: “Figlio mio, non disprezzare la corre‐zione del Signore e non ti scoraggiare quando sei da lui ripreso. Il Signore infatti corregge colui che ama e frusta ogni figlio che egli accoglie”» (Eb 12,5‐6).

Nel NT si contano un’ottantina di echi del libro di Giobbe. Tuttavia di Giobbe si parla una volta sola, in un brano verso la fine della lettera di Giacomo:

«Avete udito parlare della perseveranza (hypomonḗ) di Giobbe e conoscete l’esito finale, opera del Signore» (Gc 5,11).

L’esortazione dell’apostolo, che apparentemente conferma l’immagine tradizionale di un Giobbe paziente ricompensato da Dio, va intesa in senso più profondo. Il termine greco hy‐pomonḗ deriva dal verbo hypoméno, che significa «stare sotto», quindi «resistere», «soppor‐tare», «perseverare». Nell’ottica di Giacomo, dunque, Giobbe diventa un vero profeta, un uomo che nel crogiuolo della prova e della sofferenza ha saputo scoprire i segni della presen‐za di Dio e aspettarne la manifestazione.

Anche se il libro del Qoèlet non viene mai esplicitamente citato nel NT, ci sono dodici testi che presentano delle allusioni o possibili contatti con l’opera del saggio, che meriterebbero uno studio più approfondito. Ne prendiamo in considerazione soltanto tre. L’insegnamento di Gesù sulla preghiera: «Pregando, poi, non sprecate parole come i gentili» (Mt 6,7; cfr. Gc


1,19) ricorda la raccomandazione di Qoèlet all’uso moderato e tranquillo delle parole nel rapporto con Dio nell’unico brano del libro che tratta di una tematica religiosa (cfr. Qo 4,17‒5,6). Il consiglio che Giacomo rivolge alla comunità ‒ «E ciascuno sia [...] lento all’ira» (Gc 1,19) ‒ è molto vicino tematicamente a Qo 7,9: «Non essere facile a irritarti nell’intimo, perché l’irritazione ha sede nel seno degli stolti». Nelle parole del ricco stolto nella parabola di Luca ‒ «Bene! Ora hai fatto molte provviste per molti anni. Ripòsati, mangia, bevi e divèrti‐ti» (Lc 12,19) ‒ riecheggiano quelle del saggio: «E allora ho esaltato l’allegria, perché per l’uomo non c’è altro bene sotto il sole, se non mangiare, bere e stare allegro» (Qo 8,15).

Nel NT non si trova nessuna citazione esplicita neppure del Siracide; né l’autore, né il libro vengono menzionati. Tuttavia, certe analogie terminologiche e tematiche sono innegabili. Ol‐tre ai vangeli di Matteo e Luca, al prologo di Giovanni, al corpus paulinum e a Ebrei, la lettera di Giacomo è lo scritto neotestamentario più vicino all’opera di Ben Sira. Tra i numerosi con‐tatti esistenti tra queste due opere (una decina circa) spicca l’affinità letteraria, tematica e contestuale che lega Sir 2,1‐18 e Gc 1,2‐12, due testi che in epoche e contesti diversi testi‐moniano una società in crisi. Il primo testo sembra alludere all’influsso inarrestabile dell’elle‐nismo tra i giudei di Gerusalemme, mentre il secondo si rivolge ai cristiani di origine giudaica che vivono nella diaspora. In ambedue i testi le diverse prove inviate dal Signore possono servire, anche per la persona fedele e osservante, come mezzi di purificazione interiore, ulte‐riore crescita nella fede e motivo di gioia profonda. È da notare che i due primi versi dei brani in questione hanno i seguenti elementi in comune: l’uso del vocativo, l’uso dell’imperativo e la presenza del sostantivo peirasmós, «prova». «Figlio, se ti muovi a servire il Signore prepara il tuo animo alla prova» (Sir 2,1) e «Ritenete tutto una gioia, fratelli miei, quando vi imbattete in prove svariate» (Gc 1,2) contengono l’autentica sapienza di un maestro che è sempre di‐sposto ad aiutare il discepolo in tempo di tribolazione.

Pur non contenendo nessuna citazione esplicita del libro della Sapienza, sembra che non si possa negare che il NT, soprattutto Giovanni e le lettere di Paolo, risenta del suo influsso in alcune tematiche (per esempio le tradizioni relative all’esodo in Giovanni). È molto probabile che alcuni autori neotestamentari abbiano letto il libro della Sapienza, poiché la Bibbia che essi utilizzano è principalmente quella greca, proveniente da Alessandria, dove certamente il libro era conosciuto. L’edizione del NT di Nestle‐Aland riporta più di un centinaio di testi che in certo qual modo alludono a Sapienza, tra cui segnaliamo: Rm 5,12 (cfr. Sap 2,24), Eb 1,3 (cfr. Sap 7,25) e Mt 27,43 (cfr. Sap 2,18).

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