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La tesi è suddivisa in tre parti: nella prima è presentata un'analisi dei conflitti in corso nel continente basato sul Rapporto di Amnesty International 2008. La seconda parte si focalizza sull'organizzazione, dalla nascita dell'Organizzazione dell'Unità Africana nel 1963, attraverso il passaggio all'Unione Africana del 2002, fino a spiegare nei dettagli la struttura di pace e sicurezza. Infine, l'ultimo capitolo è dedicato alla cooperazione con le Nazioni Unite e con l'Unione Europea in materia.

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Page 1: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

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Page 4: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

Ad Elena, che ogni giorno combatte la sua battaglia con il sorriso.

A tutti noi, e alle nostre battaglie.

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Page 6: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

3

SOMMARIO

CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE E QUADRO DELLA RICERCA .......................... 5

CAPITOLO I

I CONFLITTI IN ATTO

1 - Introduzione generale sulle cause dei conflitti .................................................................. 15 2 - I singoli conflitti................................................................................................................. 20

CAPITOLO II

L’UNIONE AFRICANA E IL MANTENIMENTO DELLA PACE

Parte Prima: Africa Must Unite 1 – Le origini: il Panafricanismo (1900 – 1963) .................................................................... 35 2 – La nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africana (1963) ............................................ 36 3 – L’operato dell’OUA e la nascita dell’Unione Africana (1963-2002)............................... 39 Parte Seconda: L’Unione Africana nel suo complesso 1 – Obiettivi e principi: dal 1963 al 2002............................................................................... 42 2- La struttura e gli organi dell’Unione ................................................................................. 47 Parte Terza: L’architettura africana per la pace e la sicurezza 1 – Politica Africana Comune per la Difesa e la Sicurezza.................................................... 51 2 – Il centro dell’architettura: il Consiglio di Pace e Sicurezza ............................................ 54 3 – Le “peace support operations” dell’UA........................................................................... 59

CAPITOLO III

LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE

Parte Prima: Le Nazioni Unite 1 – Il capitolo VIII della Carta delle Nazioni Unite e le missioni per il mantenimento della pace ......................................................................................................................................... 69 2 – La cooperazione tra Nazioni Unite e Unione Africana .................................................... 73 3 – Le missioni delle Nazioni Unite in Africa ......................................................................... 76 4 – Le misure non implicanti l’uso della forza ex art. 41 ....................................................... 85

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4

Parte Seconda: L’Unione Europea 1 – Il Titolo V del Trattato sull’Unione Europea................................................................... 88 2 – La cooperazione tra Unione Europea ed Unione Africana .............................................. 91 3 – Le missioni ex art. 17 del TUE in Africa .......................................................................... 94

CONSIDERAZIONI FINALI .................................................................................................. 99

BIBLIOGRAFIA..................................................................................................................... 103

Page 8: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

5

CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE E QUADRO DELLA RICERCA

“ “Africa” è termine che, per lungo tempo, ha evocato l’esotico e lo sconosciuto,

un luogo per l’esplorazione, le avventure e i safari, per non dire delle missioni di

civilizzazione. Ma oggi l’immagine popolare rivela molte diverse “Africa”.

C’è l’Africa come “cicatrice della coscienza del mondo”: un continente ferito in

bisogno di carità, il cui sviluppo è visto come un imperativo morale. C’è un’Africa

come covo di terroristi: un continente potenzialmente pericoloso che ha bisogno di

ordine e di governi forti e capaci di controllare efficacemente il loro territorio. C’è

un’Africa come fonte di rischi, minacce e problemi come la guerra, la fame, la siccità, la

migrazione, le malattie e il degrado ambientale: un continente trascurato che ha bisogno

di essere risistemato prima che questi problemi giungano fino alle nostre coste. E c’è

pure un’Africa come fonte di opportunità e ricca di fonti minerarie, energetiche e di

wildlife: un continente generoso che è maturo per la rinascita ma che ha bisogno di

stabilità e investimenti”. Proprio come dice Williams nell’introduzione del suo articolo

“Thinking about security in Africa”1, nel nostro immaginario l’Africa è tutte questo.

Nella pratica, però, è una cosa sola: è un solo grande continente dalle mille facce. In

questa grande varietà di profili, si può concordare sul fatto che geograficamente,

politicamente, e storicamente, l’Africa sia stata indirizzata in due cammini diversi dal

deserto del Sahara: divisione, questa, che è risaltata particolarmente con la fine del

periodo coloniale.

L’odierna Africa del nord si distingue dall’Africa sub sahariana per la sua

impronta araba che, con la fine del colonialismo, ne ha segnato l’evoluzione come Stato.

La lingua, la religione, l’etnia e la struttura sociale sono quindi comuni a quelle dei

paesi del Medio Oriente, e più distanti, invece, dalle tradizioni tribali del resto del

continente, dove i commercianti arabi hanno lasciato solo la religione come simbolo del

loro passaggio. Gli Stati africani che si affacciano sul Mediterraneo hanno guadagnato

l’indipendenza per primi, forti di una società in parte già strutturata, e con l’Islam

capace di garantire una gerarchia abbastanza stabile.

Il discorso è però diverso quando si passa all’Africa sub sahariana che - si può

1 Paul WILLIAMS, “Thinking about security in Africa”, in International Affairs 83: 6, 2007, pp. 1021–1038

Page 9: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

6

forse dire - non è mai arrivata a un’indipendenza de facto. Non è bastato il

riconoscimento di queste nuove entità statali, nate su confini tracciati

convenzionalmente, perché queste potessero da un giorno all’altro essere capaci di agire

come uno Stato. Sono nati – si può dire - come scatole vuote: delimitati sì, ma senza

un’autorità centrale che avesse concreto controllo del territorio e della popolazione.

Conseguenza inevitabile sono stati i conflitti civili che da anni devastano il continente,

con poche felici eccezioni, e tutto ciò che essi causano come morte, povertà, epidemie e

rifugiati. Per quanto scontri “interni”, le guerre africane non sono mai state

semplicemente una “questione interna”, ma sono sempre state parte di un quadro

geopolitico ben più ampio, che ha variato e varia seguendo l’andamento della situazione

mondiale (dal colonialismo fino al neoliberalismo). Le enormi risorse naturali non

hanno portato il benessere e la crescita economica sperate, ma al contrario sono state

una delle cause principali del terribile gioco di interessi in atto, che ha fatto dell’Africa

sub sahariana la regione più povera del mondo.

Come appena detto, gli Stati africani non sono nati spontaneamente, ma sono stati

imposti dall’alto dalle ex potenze europee. La mancanza di un processo di state-building

è la causa fondamentale della loro cronica instabilità: l’assenza di un periodo di

transizione e di una fase preparatoria all’indipendenza ha fatto sì che la nuova

burocrazia autoctona si ritrovasse del tutto impreparata ad affrontare la gestione di

queste nuove entità, create da una spinta esterna o non da un’evoluzione (e una volontà)

interna. Così i nuovi leader, con l’appoggio entusiastico della popolazione finalmente

libera, hanno adottato strutture e istituzioni di stampo europeo senza peraltro avere una

storia alle spalle che le giustificasse: mentre lo Stato moderno europeo è figlio di

centinaia di anni di storia (e di guerre), ed è quindi il risultato di un procedimento, lo

Stato africano è solo il risultato senza un procedimento, e non è figlio della sua storia.

Non dispone delle solide basi del modello europeo, poiché le sue sono solo fittizie,

nient’altro che un adattamento forzato alle strutture locali. La sua storia è stata deviata e

canalizzata nella direzione che più si confaceva agli interessi delle colonie, e tutto ciò è

stato fatto in parte seguendo l’idea del white man’s burden, ossia la credenza che fosse

responsabilità dell’uomo bianco quella di aiutare l’evoluzione di popoli sottosviluppati.

Lo Stato africano, in quanto invenzione, non ha affrontato nessun gioco di forze,

non ha dovuto combattere per rimanere in vita, non ha affrontato la selezione naturale

Page 10: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

7

come è successo nell’Europa dell’età moderna. Ecco perché le guerre africane sono

interne: non c’è stato bisogno di combattere per delimitare i confini (per quanto esistano

casi di rivendicazione di frontiere, più che altro per presenze di minoranze) ma c’era

bisogno di dare un ordine interno. A questo si somma, ovviamente, il fatto che la

delimitazione dei territori fosse stata fatta secondo la convenienza delle potenze e non

seguendo le divisioni tribali e etniche. E’ stato quindi questo vuoto (non assoluto, bensì

politico) interno, eredità delle colonie, a caratterizzare la storia dell’Africa

contemporanea. Non c’è stata comunque un’unica strada: il panorama sub sahariano si è

ramificato, a seconda sia dell’impostazione lasciata dagli europei, sia delle scelte (più o

meno indipendenti) del singolo Stato (tra marxismo e capitalismo durante la guerra

fredda, tra regimi militari o partiti unici, ecc.).

Nonostante questa eterogeneità, possiamo riscontrare alcuni tratti comuni nelle

difficoltà politiche della costruzione dello Stato africano: “[…] una forte concentrazione

e personalizzazione del potere nei nuovi capi di Stato o di governo; l’affermarsi di

regimi non democratici, militari o a partito unico; un’estrema diffusione di clientelismo

e corruzione; una competizione politica segnata da polarizzazione, instabilità e forti

connotazioni etniche; e un generale deterioramento delle economie e degli apparati

statali di gran parte di questi paesi”.2

In queste deviazioni dalla democrazia emergono gli ostacoli culturali di una

società, anzi, di molte società, originariamente tribali (per la maggioranza) che hanno

dovuto adattarsi a standard che non appartenevano loro. La sola idea di confine è

duramente messa alla prova dalle dimensioni del continente e dalla relativamente bassa

densità demografica, a cui consegue una forte dispersione e quindi la difficoltà

oggettiva nel controllo del territorio, data anche la carente rete di infrastrutture. Altre

volte, invece, i confini sono fortemente indeboliti per la ragione contraria, e cioè per il

sovrappopolamento, come nel caso del piccolo Ruanda, o della Nigeria, con le forti

tensioni che ne derivano, simili a quelle dovute alle masse di rifugiati in fuga dai

conflitti civili. Esistono poi le zone calde, dove divisioni azzardate affettano e separano

etnie e tribù dello stesso ramo con ovvie conseguenze, come nel caso della regione dei

Grandi Laghi, o della regione dell’Ogaden, parte dell’Etiopia a maggioranza somala.

Ciò che per l’Occidente è dato per scontato (almeno nella teoria), come la

2 Giovanni CARBONI, L’Africa, Il Mulino, Bologna, 2005, pag. 9

Page 11: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

8

democrazia, l’alternanza o l’avversione per la corruzione, non sono concetti altrettanto

diffusi e condivisi in altre culture. La personalizzazione della politica, ad esempio, è una

caratteristica tipica dei governi africani. Il clientelismo, ossia il favorire le persone con

cui si è in qualche modo legati, è parte della tradizione e delle usanze di molti popoli

africani, e spesso è visto come una forma di solidarietà, e quindi accettata. E’ chiaro che

queste pratiche, originarie delle esperienze tribali o comunque di comunità

relativamente limitate, applicate ad uno Stato di standard europeo provocano

risentimento e divisioni tra i beneficiari e gli esclusi di questi favoritismi, che spesso

coincidono con questa o con quella etnia. Sono proprio queste forme di clientelismo e

corruzione a fomentare le lotte di potere. In Africa è poi fortemente instaurato il

neopatrimonialismo, “una diffusa combinazione di istituzioni moderne e logica

patrimoniale”3, o in altre parole l’utilizzo dello Stato come strumento per arricchirsi,

così che molti leader politici sono diventati grandi uomini d’affari (Hastings Banda in

Malawi, Felix Houphouët-Boigny in Costa d’Avorio, Mobutu in Zaire). Si fa ancora

molto fatica a riconoscere una netta divisione tra ciò che è pubblico e ciò che è privato,

e questo non può che causare una forte instabilità. Lo Stato è appoggiato alla figura di

un singolo, lasciando così il futuro nell’incertezza e impedendo la creazione di basi che

garantiscano continuità. In pochi Stati esiste un’alternanza politica, che non dipende

semplicemente dallo svolgimento delle elezioni ma da tutta la struttura statuale: deve

esistere la capacità di governare bilanciando le forze e con la tutela delle minoranze, una

partecipazione reale e consapevole, un interessamento globale e non regionale o etnico,

solo per fare alcuni esempi. Non bastano le elezioni per creare la democrazia: essa ha

necessità di radici molto profonde e non può essere semplicemente esportata come una

merce.

Lo scopo di questa prima parte è presentare un quadro della situazione attuale nel

continente, a livello governativo come a livello di conflitti, e per fare ciò è stato preso in

analisi il rapporto di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel

mondo4. Il report è suddiviso per aree geografiche: Africa sub sahariana, Americhe,

Asia e Pacifico, Europa e Asia centrale, Medio Oriente e Africa del Nord. Anche in

3 G. CARBONI, op. cit., pag. 60 4 Amnesty International, Report 2008: http://www.Amnesty.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/105

Page 12: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

9

questo caso, quindi, possiamo notare la significativa separazione delle due aree. Dei 53

Stati facenti parte del continente, ne vengono considerati 42, con l’esclusione di

Botswana, Burkina Faso, Capo Verde, Gabon, Gibuti, Isole Comore, Lesotho,

Madagascar, Mauritius, Sahara Occidentale, Sao Tomè e Principe, Seychelles. Per

completezza e per avere un raffronto con i dati forniti da Amnesty, sono stati utilizzati

dati statistici presi da CIA World Factbook5, che invece copre tutti e 53 gli Stati6.

Per cominciare due indicatori generali: la speranza di vita e il tasso di

alfabetizzazione (Tab. 1 e 2). La media totale del continente per quanto riguarda la

speranza di vita è di 53 anni, con il valore più basso in Swaziland (31,99 secondo i dati

CIA e 40,9 secondo Amnesty) e quello più alto in Tunisia (75,56 per la CIA e 73,5 per

Amnesty). La differenza tra il Nord e il resto dell’Africa è ancora più palese nel

confronto tra le due medie: 71 per il primo, 51 per il secondo. La media mondiale (dati

CIA) è di 66,12 anni, più vicina quindi alla zona Nord.

Speranza di vita

0 10 20 30 40 50 60 70 80

Media Totale

Media Sub - Sahariana

Media Nord

CIAAmnesty

CIA 53,56 51,43 70,615Amnesty 52,81 50,23 71,94

Media Totale Media Sub - Sahariana Media Nord

Tabella 1- Speranza di vita nel continente, nell’area sub sahariana e nel nord secondo i dati Amnesty e CIA Factbook

5 CIA World Factbook https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/ . Dati aggiornati al 7 agosto 2008 6 Il CIA Factbook include anche il Sahara Occidentale, quindi come 54esimo stato, di cui però fornisce solo la speranza di vita e non il tasso di alfabetizzazione.

Page 13: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

10

Alfabetizzazione

0 10 20 30 40 50 60 70 80

Media Totale

Media Sub - Sahariana

Media Nord

CIAAmnesty

CIA 62,39 61,59 70,1Amnesty 58,77 57,15 70,42

Media Totale Media Sub - Sahariana Media Nord

Tabella 2 – Tasso di alfabetizzazione nel continente, nell’area sub sahariana e nel nord secondo i dati Amnesty e CIA Factbook

Il secondo indicatore, l’alfabetizzazione, è di circa il 60% di media totale, con

picchi del 24% (Mali, secondo Amnesty) o 21% (Burkina Faso, secondo la CIA) e

dell’89,4% (Zimbabwe, secondo Amnesty) o 91,8% (Seychelles, secondo la CIA). La

differenza tra Africa del Nord e Africa Sub sahariana è meno grande ma comunque

netta (70% contro 59%), mentre in questo caso la media mondiale quasi coincide con la

seconda zona (60%).

Primo aspetto da osservare è l’uniformità dei dati: nel caso della speranza di vita, i

valori rimangono abbastanza vicini alla media, se non per pochi casi, mentre

l’alfabetizzazione oscilla vertiginosamente con differenze, come abbiamo visto, anche

di 70 punti percentuali.

In secondo luogo, si può vedere che non esiste una stretta correlazione tra i due

indicatori, ossia che non necessariamente dov’è alta la speranza di vita, è alto anche il

tasso di alfabetizzazione, e viceversa. Per esempio, lo Zimbabwe ha una speranza di vita

di 40 anni, al di sotto quindi della media, ma gode del tasso di alfabetizzazione più

elevato. Al contrario, Burkina Faso e Mali pur avendo una speranza di vita vicina alla

media, si ritrovano tassi di alfabetizzazione di poco superiori al 20%. Le ragioni della

mancata correlazione possono essere molte: i diversi modi di vita, la diffusione di certe

malattie, l’accesso a strutture sanitarie e a scuole, ma anche le strategie dei governi o la

loro capacità di controllo della popolazione.

Page 14: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

11

Passando ora al vivo dell’analisi, Amnesty denuncia le violazioni dei diritti umani

da parte di ogni Stato distintamente considerato, e quindi delle sue responsabilità nei

confronti della popolazione. Per riuscire a schematizzare e riassumere le denunce

dell’organizzazione, i vari punti toccati sono stati divisi in categorie più o meno

elastiche e intersecate tra loro: libertà di espressione; situazione delle carceri; polizia e

forze di sicurezza; discriminazione e violenza sulle donne; trattamento dei difensori dei

diritti umani; situazione di sfollati, profughi e richiedenti asilo; situazione della

giustizia; misure anti-terrorismo (Tab. 3). Bisogna comunque sottolineare che nei casi in

cui gli Stati non siano inclusi in determinate categorie, è improbabile che il fenomeno

sia completamente assente, ma piuttosto che sia ridotto a un livello accettabile.

Amnesty denuncia la mancanza di una piena libertà di espressione in ben 29 stati

(sui 42 che considera, ricordiamo), il che comprende libertà di stampa, riunione e

manifestazione. E’ un dato che però non sorprende, pensando a quanti Stati africani

siano guidati da dittature più o meno marcate, dove, in casi come l’Eritrea, è addirittura

vietata l’esistenza di partiti di opposizione e di ONG indipendenti. In 8 Stati si pone poi

una particolare attenzione sulla situazione dei difensori dei diritti umani, che sono

ostacolati, minacciati e intimiditi, se non addirittura arrestati a discrezione.

Altro numero preoccupante è quello che riguarda la polizia e le forze di sicurezza:

in 3 Stati su 4 si sono riscontrati comportamenti illeciti, che vanno dalla tortura alle

uccisioni extra giudiziali. Anche questa è una testimonianza dell’assenza di uno stato di

diritto che garantisca la tutela dei cittadini, nonché la fotografia di uno Stato

personalizzato e strumentalizzato secondo i voleri e le preferenze di chi comanda.

L’impunità è dilagante, anche perché, oltre ai casi di insubordinazione, molto spesso gli

ordini arrivano direttamente dall’alto, e sono diretti verso certe categorie di

popolazione, come per i Pigmei in Congo o le più conosciute vicende di Hutu e Tusti

nella regione dei Grandi Laghi. Nel caso poi di conflitti civili, come nella Repubblica

Centrafricana, nel Congo Kinshasa, in Sudan o in Kenya, i casi di abuso crescono

esponenzialmente, e si sommano alle violenze commesse dai gruppi armati.

In quasi un terzo degli Stati è denunciata la condizione insostenibile delle carceri,

perennemente sovraffollate dove i prigionieri subiscono violenze e trattamenti

degradanti, oltre a una cronica carenza di cibo e assistenza sanitaria. Il numero enorme

Page 15: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

12

di carcerati dipende molto anche dalle detenzioni arbitrarie e da una giustizia parziale,

riportata ben 13 volte nel report di Amnesty.

La violenza sulle donne è un’altra piaga imperante nel continente, legata, come in

gran parte del resto del mondo, all’idea di donna nella cultura e nella società. Quasi

metà degli Stati sono accusati, includendo sia violenze (tra cui la mutilazione genitale

femminile, ancora legale in alcuni Stati e tollerata in altri), sia discriminazioni. Ci sono

stati comunque anche piccoli progressi, come per esempio l’introduzione di leggi contro

lo stupro maritale in Ghana. Anche i bambini sono spesso oggetto di maltrattamenti e

violenze, quando non vengono arruolati nei gruppi armati o anche negli eserciti, come

succede in Burundi, Ciad e nell’RDC.

Un gravissimo problema che affligge l’Africa è poi quello degli sfollati, dei

profughi e dei rifugiati, segnalato in 16 paesi. In questa categoria sono compresi sia gli

Stati dove, soprattutto a causa di conflitti, sono presenti masse di sfollati, come nel

Darfur, sia gli Stati, come quelli della costa nord, che non rispettano il diritto

internazionale per ciò che riguarda il trattamento di migranti e richiedenti asilo.

Infine, un problema relativamente nuovo è quello dell’abuso delle misure anti

terrorismo, nei casi di espatrio e rimpatrio forzato, di arresti arbitrari e torture. Sono ben

9 gli stati inclusi: tutti e cinque gli stati della costa nord, per sospetti legami con al-

Qaeda, e Kenya, Somalia, Eritrea (questi tre legati alla vicenda somala delle Corti

Islamiche) e Mauritania, confinante con gli Stati del nord.

Situazione secondo Amnesty International

29

13

33

19

816 13

9

05

10152025303540

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Tabella 3 – Grafico riassuntivo delle denunce del Report di Amnesty International 2008

Page 16: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

13

Ci sarebbero ancora moltissimi dati e aspetti interessanti da prendere in

considerazione, ma lo scopo di questo capitolo è solo quello di fornire un quadro

generale. Ad ogni modo, si possono ancora aggiungere un paio di informazioni: 18 stati

ancora prevedono la pena di morte (dei quali 4 hanno eseguito almeno un’esecuzione

nell’ultimo anno), 21 sono abolizionisti de facto (nessuna esecuzione negli ultimi 10

anni), e 14 sono abolizionisti per tutti i reati. In nove paesi (Ciad, Costa d’Avorio,

Guinea Bissau, Liberia, RDC, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Somalia, Sudan)

sono presenti missioni delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana o dell’Unione

Europea, sia di peace keeping che di peace building, argomento che verrà approfondito

nei capitoli II e III.

Page 17: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace
Page 18: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

15

CAPITOLO I I CONFLITTI IN ATTO

1 - Introduzione generale sulle cause dei conflitti

In proporzione agli abitanti, in Africa si è avuto il più alto numero di conflitti

armati al mondo1. E’ un dato che certo non sorprende, tanto che ci siamo quasi convinti

che sia normale la presenza di guerre in Africa. Quello a cui probabilmente non si

pensa, invece, è che la maggior parte delle volte gli Stati africani non si fanno la guerra

tra loro come si può immaginare, ma sono vittime delle lotte interne ai loro stessi

confini: guerre civili, guerre per le risorse, guerre per il potere centrale, guerre perché

ormai non si conoscono alternative. Certo è logico che all’interno di questi conflitti

interni, gli Stati interferiscano spesso e volentieri a seconda degli interessi in ballo, ma

raramente si è arrivati a scontri propriamente diretti tra due eserciti. Più generalmente,

le guerre che hanno coinvolto gli Stati africani possono suddividersi in tre gruppi:

guerre di secessione, guerre di liberazione e guerre civili, di cui si procederà adesso

all’analisi. Le prime due categorie sono di rilevanza minore, le prime per il numero

esiguo, le seconde perché si riferiscono esclusivamente al periodo del post colonialismo.

Le guerre civili invece sono la stragrande maggioranza, e per questo vi sarà dedicato più

spazio, nel tentativo di ricercarne le cause.

Guerre di secessione. La mancanza di un solido potere centrale induce le regioni a

cercare una forte autonomia interna piuttosto che lottare per un’indipendenza difficile

da ottenere, e per questo motivo le guerre di secessione sono state molto poche. Inoltre,

durante la decolonizzazione il diritto internazionale ha lavorato proprio al mantenimento

dei confini dei nuovi Stati per evitare questo genere di reazione. Già nell’atto costitutivo

dell’Organizzazione dell’Unità Africana all’art. III, par. 3, si chiede “Respect for the

sovereignty and territorial integrity of each State and for its inalienable right to

independent existence”. Questo principio è poi ripreso nella Dichiarazione del Cairo del

19642, che ricorda e riafferma l’impegno preso dagli Stati membri di rispettare i confini

esistenti al momento dell’indipendenza. Anche l’Assemblea Generale delle Nazioni

Unite apporta fondamento giuridico al mantenimento dello status quo in due risoluzioni 1 Stefano BELLUCCI, Storia delle guerre africane, Carrocci, Roma, 2006, pag. 9 2 AHG/Res. 16(I), in: http://www.africa-union.org/root/au/Documents/Decisions/hog/bHoGAssembly1964.pdf

Page 19: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

16

del 1960: nella 1514 (XV)3 con i concetti di autodeterminazione e di integrità

territoriale, e nella 1541 (XV)4 dove vengono elencati più precisamente i principi per

l’applicazione dell’autodeterminazione. La trentennale guerra condotta dall’Eritrea è

stata l’unica a chiudersi con un successo nel 1991, mentre tutte le altre (Cabinda in

Angola, il Katanga nell’attuale RDC, il Biafra in Nigeria, ad esempio) si sono concluse

con la vittoria del governo centrale, o addirittura sono ancora in corso. Bisogna dire che

le regioni alla ricerca della secessione sono spesso aree particolarmente dense di risorse,

per cui più che per l’indipendenza si lotta per mantenerne lo sfruttamento.

Guerre di liberazione. Le guerre di liberazione sono state invece protagoniste nel

secondo processo di decolonizzazione, negli anni 70, quando ormai la maggior parte

delle colonie aveva raggiunto l’indipendenza. Unici a dover ancora lottare erano i

territori lusitani, che il Portogallo non era affatto disposto a cedere in quanto fonti di

importanti di risorse. Ad ogni modo, dopo qualche anno di guerra, Angola, Mozambico

e Guinea Bissau andarono a completare in quadro dell’Africa libera, seppure nelle

prime due gli scontri sarebbero proseguiti sfociando in guerra civile. Si parla di guerre

di liberazione anche nei casi territori dominati da regimi razzisti, come la Rhodesia del

Sud, oggi Zimbabwe, il Sud Africa e l’Africa del Sud Ovest, oggi Namibia, dove la

lotta non fu contro la potenza coloniale ma bensì contro la minoranza bianca al potere.

Guerre civili. Le guerre civili rappresentano il capitolo più grande delle guerre in

Africa. Capire la ragione di un siffatto numero di conflitti non è impresa facile né

scontata: i fattori possibili sono molti e molto variabili da situazione a situazione, ed è

quindi bene cercare di non focalizzarsi solo su una causa emergente né su casi

particolari.

In generale, bisogna distinguere tra fattori esterni e fattori interni. Con i primi si

intende il quadro globale delle relazioni internazionali e quindi il ruolo del mondo

esterno nell’attività interne agli Stati in questione, a livello politico come in quello

economico. E’ indubbio infatti il peso avuto dalla guerra fredda nel periodo post

coloniale, nel quale l’Africa era come tutti parte del grande gioco dei blocchi.

Paradossalmente però, durante i quasi quarant’anni di gelo, l’attenzione delle due

potenze ha fatto sì che nessun cambiamento potesse avvenire al di fuori dagli schemi,

cosicché l’Africa manteneva una certa centralità, o almeno partecipazione e importanza, 3 GA/Res/1514 (XV), in: http://www.un.org/documents/ga/res/15/ares15.htm 4 GA/Res/1541 (XV), in: http://www.un.org/documents/ga/res/15/ares15.htm

Page 20: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

17

a livello internazionale. Con il crollo del muro, l’interesse per il continente è

improvvisamente sparito, lasciandolo isolato. Non è infatti casuale che proprio negli

anni 90 si sia avuto il numero di conflitti più alto dalla decolonizzazione, ben 44 nel

19945. Oggi invece è il fenomeno della globalizzazione ad avvicinare nuovamente

l’Africa alle dinamiche internazionali, portando con sé le crisi che non avvolgono solo

gli Stati del cosiddetto terzo mondo, ma anche molti Stati considerati potenze: crisi

economiche, scarsità di risorse, concentrazione di ricchezza e povertà, l’indebolimento

dello stato nazione. È quindi molto importante considerare il contesto internazionale per

poter comprendere gli sviluppi regionali.

I fattori interni sono innumerevoli ed estremamente intrecciati tra loro, così da

rendere impossibile una categorizzazione. Risulta quindi più fruttuoso cercare i

collegamenti tra essi piuttosto che procedere con una improbabile classificazione.

Partendo da un piano politico, lo Stato africano, come già detto, soffre di una cronica

instabilità originata nelle istituzioni coloniali e ancora profondamente radicata. Negli

anni delle guerra fredda sono spesso stati i regimi dittatoriali a riempire il vuoto di

potere, e le transizioni democratiche registrate sono state rare, surclassate da più facili

colpi di stato. La mancata legittimazione del governo è certamente una delle principali

carenze dello Stato africano, che non è stata colmata neanche con l’introduzione delle

elezioni, in quanto i regnanti hanno per lo più proseguito con la loro politica

personalizzata e indirizzata al raggiungimento di interessi mirati. Un governo

considerato illiberale e dittatoriale favorisce la creazione di gruppi ribelli che si

propongono come alternativa, in parte giustificati dalla condannabile condotta delle

istituzioni. È più facile che questi sorgano all’interno di sistemi politici che mostrano

una bassa capacità di risposta, e quindi non sempre dove vi è forte oppressione v’è

spazio per la reazione e la nascita di movimenti di opposizione. La debolezza del potere

centrale è dimostrata anche dalla facilità con cui perde il controllo della violenza

organizzata, soprattutto a causa delle ingerenze esterne.

Non è comunque detto, anzi, che un regime suppostamente democratico offra più

garanzie. La democratizzazione tanto cercata e voluta, si è nascosta dietro la facciata

delle elezioni, ed ha paradossalmente alimentato divisioni sempre più forti. Mentre

durante la decolonizzazione si era puntato al concetto di nazione, anche se non c’è stato

5 G. CARBONI, op. cit., pag. 90

Page 21: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

18

un processo di national-building paragonabile a quello occidentale, nell’epoca del

neoliberalismo si è fatto forte il concetto di etnia. Le vecchie gerarchie sono saltate, con

il risultato che i partiti oggi sono spesso espressione di un particolare settore della

popolazione. Il rischio è quindi che il vincitore governi solo per la parte di elettori che

rappresenta, concentrando spese e investimenti in determinate regioni senza considerare

il benessere generale e i bisogni dello Stato. L’esclusione politica è la molla che fa

scattare il malcontento. È quindi secondo questa logica che molti autori tendono ad

escludere l’etnicismo come causa del conflitto e a definirlo piuttosto come un fattore di

mobilitazione. Gli scontri tra etnie sarebbero dovuti al potere economico e politico

detenuto da un gruppo a discapito di un altro, e non alle oggettive differenze razziali.

Altro pesantissimo fattore è quello della povertà e della gestione delle risorse

naturali. Il grande paradosso dell’Africa: essere un ricchissimo continente povero. Le

sue potenzialità sono state un’attrazione irresistibile per l’Europa industriale, che non ha

più spostato i suoi interessi, ed anzi è stata affiancata via via dalle potenze emergenti.

Ma anche quando gli africani hanno recuperato il controllo di queste risorse con

l’indipendenza, il tenore di vita della popolazioni locali non è certo cambiato, in quanto

non ne sono mai diventati beneficiari. Per le imprese straniere non è stato difficile

mantenere i propri vantaggi, e anche quando sono state sostituite da imprese autoctone o

nazionalizzate, pochi ne hanno tratto benefici. Sono rari i casi in cui vi è stata una

politica di ridistribuzione, come in Botswana. Politici e uomini d’affari vengono spesso

a coincidere, approfondendo il divario tra la popolazione sempre più povera e elites

sempre più ricche.

Il deterioramento delle condizioni di vita sommato alla mancanza di opportunità, e

aggravato dal problema demografico di alcune aree, come quella dell’Africa

occidentale, spiana la strada alla ricerca di alternative. I giovani sono facilmente

reclutati da gruppi armati ribelli, che offrono un facile guadagno che altrimenti non

saprebbero come ottenere. Questi puntano al controllo delle risorse, specialmente quelle

localizzate e quindi controllabili come i giacimenti di petrolio, arrivando a stringere

accordi con imprese seppur non avendone il diritto. È quindi giusto notare che non

sempre i gruppi ribelli nascono come alternative giustificate a regimi autoritari, ma che

spesso sono privi di qualsiasi agenda politica e puntano esclusivamente a interessi

economici, come nel caso dei warlords, i signori della guerra. Ad ogni modo, le risorse

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19

più che causa primaria del conflitto - come nel caso dell’etnicismo - sono causa del suo

proseguimento, provocando la comparsa di nuovi attori, specie quando si tratta di nuovi

ritrovamenti (ad esempio il Coltan, minerale fondamentale per l’industria delle nuove

tecnologie per telefoni e computer).

Per citare ancora una volta Carbone, “gran parte delle guerriglie africane non

possono essere comprese guardando solo al guadagno che i ribelli possono ottenere, a

breve termine, dalle violenze (ipotesi greed). Esse hanno a che vedere con più ampi

processi di deterioramento di condizioni di vita e con l’esclusione politica o politico-

economica di determinati gruppi all’interno della società (ipotesi grievance). […] Non è

necessario né opportuno contrapporre l’ipotesi greed e l’ipotesi grievance come

spiegazioni antitetiche e alternative.”6

Esistono poi una serie di aggravanti esterne a fomentare il disordine. In primo

luogo il traffico d’armi, che ne permette la facile diffusione alimentando la presenza dei

gruppi ribelli. Se durante la guerra fredda gli schieramenti erano chiari, e dunque si

sapeva chi-armava-chi, oggi è più difficile ma certamente non impossibile risalire alla

fonti. Per tentare di rimediare a questo mercato, il comitato delle sanzioni dell’Onu ha

più di una volta imposto embarghi (in Sudan con risoluzione 1556 (2004)7 e rafforzato

con risoluzione 1591 (2005)8, in Sierra Leone con risoluzione 1132 (1997)9 e rafforzata

con risoluzione 1171 (1998)10, ad esempio), purtroppo ottenendo scarsissimi risultati.

Altro elemento è il mercenarismo, legato al fenomeno della privatizzazione della guerra,

nascosto dietro vere e proprie compagnie che lavorano a protezione diretta delle imprese

o per addestramento di eserciti. Non vi è alcuna regolamentazione a livello di diritto

internazionale, sicché si ritrovano ad operare in una vasta zona grigia.

6G. CARBONI, op. cit., pag. 159. 7 SC/Res/1556 (2004), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions04.html 8 SC/Res/1591 (2005), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions05.htm 9 SC/Res/1132 (1997), in: http://www.un.org/Docs/scres/1997/scres97.htm 10 SC/Res/1171 (1998), in: http://www.un.org/Docs/scres/1998/scres98.htm

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2 - I singoli conflitti

Passando ora all’esame dei conflitti in atto, ritengo opportuno suddividerli

per area geografica e per intensità. Quest’ultima è stata definita secondo il Conflict

Barometer 2008 dell’Heidelberg Institute for International Conflict Research, che si

basa sulla seguente scala di valori11:

1. Conflitto latente

2. Conflitto manifesto

3. Crisi: situazione tesa in cui almeno una delle parti utilizza la violenza in scontri

sporadici

4. Grave crisi: uso della violenza ripetuto e organizzato

5. Guerra: conflitto violento in cui la forza è usata con una certa continuità in

maniera organizzata e sistematica. L’entità delle distruzione è imponente e di

lunga durata.

L’analisi terrà conto solo dei conflitti di livello 4 e 5, mentre i conflitti di livello 3

saranno solo brevemente descritti, a parte alcuni casi che meritano un approfondimento.

Dei 26 conflitti presentati, tre sono classificati come guerre (Sudan, Somalia, Chad) e

cinque come gravi crisi (Kenya, Mali, Nigeria, Burundi, Repubblica Democratica del

Congo).

Per ricostruire le situazioni sono state utilizzate diverse fonti, tra cui: BIPPI12,

Human Rights Watch13, Global Security14, AlertNet15, UN News Centre16, International

Crisi Group17, BBC News18.

a. Maghreb Livello 3 – Crisi

Algeria – Insurrezione islamica

In Algeria la crisi è dovuta alla al-Qaeda Organization in the Islamic Maghreb

11 Conflict Barometer 2008, Heidelberg Institute for International Conflict Research, presso: http://www.hiik.de/en/index.html 12 B's Independent Pro-Peace Initiative, presso: http://www.bippi.org/bippi/menu_left/conflicts.htm 13 Human Rights Watch, presso: http://www.hrw.org/ 14 Global Security, presso: http://www.globalsecurity.org/military/world/war/ 15 Reuters AlertNet, presso: http://www.alertnet.org/thenews/emergency/index.htm?f=/thenews/emergency/conflicts.htm 16 UN News Center, presso: http://www.un.org/News/ 17 International Crisis Group, presso: www.crisisgroup.org 18 BBC News, presso: http://news.bbc.co.uk/2/hi/africa/default.stm

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(AQIM), una milizia che opera sull’esempio di al-Qaeda, anche se non si è certi che

esista un effettivo legame. L’AQIM si è reso responsabile di attacchi suicidi, anche

contro la sede delle Nazioni Unite, e nel corso del 2008 è stato scoperto un piano per

uccidere il primo ministro. Vi è il timore che l’AQIM e altre milizie operanti del Nord

Africa possano legarsi e costituire un nuovo movimento.

Mauritania – Insurrezione islamica19

Dal dicembre del 2007, l’AQIM milita anche in Mauritania e si è reso

responsabile di attentati ad ambasciate e uccisioni di turisti. In seguito al colpo di Stato

di agosto e all’annuncio del nuovo capo di Stato Abdel Aziz dell’intenzione di

sconfiggere le milizie, il leader dell’AQIM ha dichiarato la jihad alla Mauritania.

Livello 2 – Conflitto manifesto

Marocco e Sahara Occidentale – Questione irrisolta20

Il problema per la definizione del Sahara Occidentale, colonia spagnola a nord

ovest del continente, nacque negli anni 60, quando le tribù nomadi che si erano

insediate nel territorio diedero i primi segnali di nazionalismo. Il Fronte Polisario,

rappresentante delle popolazioni sahariane, si costituì nel 1973, e creò il primo governo

nel 1976, mentre le pretese di Marocco e Mauritania per il territorio furono stoppate nel

1975 dalla Corte Internazionale di Giustizia. Ciò nonostante, la guerriglia tra il Marocco

(la Mauritania aveva ritirato le sue pretese) e il Polisario continuò fino al 1991, anno in

cui si stabilì la missione MINURSO delle Nazioni Unite, con lo scopo di monitorare il

cessate il fuoco e di sostenere lo svolgimento del referendum per decidere lo status della

regione. A 18 anni di distanza, il referendum deve ancora prendere luogo per le

divergenze delle parti su chi detenga diritto di voto, visto l’alto numero di marocchini

presenti oggi nella regione. Nel frattempo, il numero di rifugiati sahariani in Algeria

(principale alleata del Polisario nella disputa) è cresciuto, e il loro ritorno non sarà

possibile finchè non verrà definito lo status del territorio.

19 La Mauritania, che nel rapporto di Amnesty era considerata Africa sub sahariana, è in questo caso considerata dall’HIIK come parte del Maghreb. 20 Il conflitto è stato inserito per l’importanza che riveste, dato il Marocco tutt’oggi è l’unico Stato del continente a non fare parte dell’Unione Africana

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22

b. Africa dell’Est Livello 5 - Guerra

Sudan – Darfur e divisione Nord/Sud

Il Sudan è il più grande africano, e sicuramente anche uno dei più travagliati. Attualmente, vi sono in corso ben due guerre: una nella regione sud-occidentale del Darfur, in corso dal 2003, tra un numero imprecisato di fazioni ribelli contro il governo e le milizie Janjaweed; l’altra tra il governo di Khartoum e la regione del Sud, ufficialmente conclusasi nel 2005 dopo 21 anni di conflitto. Quest’ultima è la conseguenza della struttura etnica e religiosa del Sudan: la metà nord è costituita, infatti, da etnia araba di religione islamica, mentre al sud sono prevalenti cristiani e animisti di origine africana. Al momento dell’indipendenza, il governo fu lasciato nelle mani del nord, le cui politiche marginaliste hanno causato tensioni con la regione del Sud, esacerbate al finire degli anni settanta dalla scoperta di giacimenti di petrolio in quest’ultima. Nel 2005 si concluse finalmente il Comprehensive Peace Agreement, che prevedeva la divisione dei ricavi del petrolio e l’entrata di elementi del Sudan People’s Liberation Movement/Army (SPLM/A) nel governo. Mentre gli sfollati stanno rientrando nella regione, la situazione è ancora instabile: sono rimasti forti contrasti sui confini della divisione delle regioni, mentre l’SPLM/A continua ad accusare il governo centrale di fomentare le guerriglie contro i civili.

Per il quinto anno consecutivo, il conflitto del Darfur è segnalato come guerra: 300,000 morti, quasi 3 milioni di sfollati, 4,7 milioni dipendenti da aiuti umanitari. L’inizio degli scontri è dovuto all’insorgere di due gruppi ribelli contro il governo, accusato di negligenza. Da allora le fazioni si sono moltiplicate arrivando intorno alla trentina, rendendo sempre più difficile trovare un riferimento per le mediazioni. Per sua parte, il governo accusato dai ribelli e dalla comunità internazionale di appoggiare milizie arabe chiamate Janjaweed, responsabili di attacchi continui e organizzati ai civili (uccisioni, stupri, distruzioni di interi villaggi). Nel 2006 la firma del Darfur Peace Agreement aveva portato un po’ di speranza ed ottimismo, ma a quasi tre anni di distanza la situazione non è migliorata, e l’accordo è stato ripetutamente violato. All’inizio del 2008, la missione di peace keeping dell’Unione Africana (AMIS) è stata sostituita dalla missione congiunta di quest’ultima e le Nazioni Unite, l’UNAMID. La Corte Penale Internazionale ha inoltre chiesto l’arresto del presidente sudanese al-Bashir per crimini di guerra. Il livello e la continuità degli scontri hanno causato tensioni con i

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paesi confinanti, specialmente con il Chad, anche visto il numero enorme di rifugiati che fuggono in cerca di riparo.

Somalia – Lotte per il potere centrale

La Somalia è stata senza un effettivo governo centrale dal rovesciamento di Siad Barre nel 1991. Costituita dall’unione tra un’ex colonia britannica e una italiana, la Somalia è indipendente dal 1960. Nel 1970, Barre dichiarò lo Stato socialista, legandosi quindi con l’URSS. Dalla sua nascita, la Somalia ha sempre avuto contrasti con gli Stati confinanti per questioni territoriali dietro il pretesto del pansomalismo e del ricongiungimento di tutti i somali, presenti in regioni come l’Ogaden, in Etiopia. Con quest’ultima arrivò anche allo scontro diretto nel 1977. Nel 1991 Barre fu rovesciato, ma i clan responsabili non trovarono accordo: il paese scivolò nell’anarchia più profonda, segnata da scontri tra clan e warlords. Nel 2006 l’ennesimo un governo di transizione (istituito nel 2004, il 14esimo dal 1991) si ritrovò a dover fronteggiare l’Unione delle Corte Islamiche, un gruppo islamista che in poco tempo prese il controllo del Sud, capitale compresa. Nonostante l’invasione delle truppe etiopi in appoggio al governo di transizione al finale dell’anno, il paese è rimasto spezzato in due. A complicare la situazione vi sono i sospetti legami con al-Qaeda da parte degli insorti islamici, mentre dall’altra parte l’assenza di un’autorità ha favorito l’emergere della pirateria somala come minaccia al traffico navale internazionale, vista la posizione strategica della Somalia. La missione AMISON dell’Unione Africana non ha forza sufficiente per stabilizzare la situazione. L’Etiopia ha annunciato di volersi ritirare, rendendo l’invio di un contingente ONU sempre più necessario. Alla fine di dicembre 2008, il presidente del governo di transizione Abdullahi Yusuf Ahmed ha presentato le dimissioni dopo i fortissimi contrasti con il primo ministro e il Parlamento.

Da segnalare nella questione somala vi è anche la posizione del Somailand, che

nel 1991 si è dichiarata indipendente, e anche se non riconosciuta dalla comunità

internazionale, gode di autonomia e relativa stabilità.

Livello 4 – Grave Crisi

Kenya – Crisi politica

Nel 2007 il Kenya ha affrontato la sua peggiore crisi dopo l’indipendenza, con più

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di 1000 morti e 300 mila sfollati21, in seguito alle contestate di elezioni nel dicembre

che assegnavano a Kibaki un secondo mandato. Il Kenya è stato per lungo tempo

considerato uno degli Stati più stabili del continente, seppur governato per 40 anni dal

Kenyan African National Union (KANU), partito unico per gran parte degli anni ’80,

cui dominio è stato interrotto solamente dalle elezioni del 2002. Già negli anni ’90

erano emersi contrasti a livello etnico, dovuti anche alla proprietà di terreni mai chiariti

al momento del passaggio all’indipendenza. Tutti questi elementi sono stati esacerbati

dalla crisi politica del 2007, portando a scontri veri e propri. La situazione si è

stabilizzata nell’aprile del 2008, grazie alla creazione di un governo di coalizione come

risultato della mediazione di un gruppo con a capo l’ex SG Kofi Annan, su mandato

dell’Unione Africana. I

Livello 3 – Crisi

Eritrea/Djibouti - Confine Vi sono stati scontri tra Eritrea e Djibouti per la costruzione di alcune basi militari

eritree che secondo il Djibouti sconfinavano nel suo territorio. Lega Araba, Unione

Africana e Nazioni Unite si sono occupate della questione, tramite commissioni

d’indagini, e spingendo per la soluzione diplomatica.

Etiopia – Regione secessionista dell’Ogaden

Gli scontri tra l’esercito etiope e il Fronte Nazionale di Liberazione dell’Ogaden

(ONLF – costituitosi nel 1984) hanno subito un’escalation negli ultimi due anni, in

seguito all’attacco dell’ONLF a un pozzo di petrolio ad Abole, nella regione somala

dell’Etiopia. L’ONLF rivendica l’indipendenza o la concessione di un’ampia

autonomia, in quanto territorio a maggioranza somalo e mussulmano. Gli scontri

continuano e molte ONG denunciano abusi da parte delle forze governative e dei

ribelli22. La situazione è inserita nel contesto della guerra somala e delle tensioni con

l’Eritrea, accusata di supportare i ribelli definiti terroristi dall’Etiopia.

21 International Crisis Group, http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=5314&l=1 22 Human Rights Watch, War Crimes and Crimes against Humanity in the Ogaden area of Ethiopia’s Somali Region, http://hrw.org/reports/2008/ethiopia0608/3.htm

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Livello 2 – Conflitto manifesto23

Eritrea/Etiopia – Confine

La guerra di confine tra Eritrea ed Etiopia scoppiata nel 1998 si è conclusa ufficialmente

nel 2000 con l’Accordo di Algeri. L’Eritrea era stata una provincia dell’Etiopia fino al

1991, anno in cui terminò la trentennale guerra di secessione e che portò

all’ufficializzazione dell’indipendenza con il referendum del 1993. Nonostante i buoni

rapporti iniziali, nel 1998 iniziarono gli scontri per i confini della regione di Badme. Nel

giugno del 2000, anche in seguito all’embargo d’armi imposta dal Consiglio di

Sicurezza ad entrambi gli Stati, si concordò finalmente il cessate il fuoco, fino

all’Accordo di Algeri di dicembre, in cui si prevedeva anche il dispiegamento di una

missione di peacekeeping (UNMEE) lungo il confine e la creazione di un’apposita

commissione per la determinazione della frontiera. La commissione (Eritrea-Ethiopia

Boundary Commission –EEBC-) decise di assegnare Badme all’Eritrea: l’Etiopia rifiutò

la soluzione, suscitando la reazione dell’Eritrea, che accusò la comunità internazionale,

e specialmente le Nazioni Unite, di non occuparsi adeguatamente della situazione, fino a

porre delle restrizioni alle truppe di peacekeeping. Il Consiglio di Sicurezza è stato

costretto prima a ritirare tutti i peacekeepers occidentali, e poi a ridurre il numero delle

forze visto i tagli ai rifornimenti posti in atto dall’Eritrea. Nel frattempo entrambi gli

Stati in lite hanno avvicinato le proprie forze armate al confine, facendo temere un

nuovo scontro. Il mandato della missione UNMEE si è estinto il 31 luglio 2008. La

situazione rimane incerta, anche a causa degli attacchi interni all’Etiopia, che accusa

l’Eritrea di supportare i ribelli, e al coinvolgimento dell’Etiopia in Somalia, ma il livello

di violenza è comunque basso.

c. Africa dell’Ovest Livello 4 – Grave Crisi

Mali – Insurrezione Tuareg

La grave crisi segnatala in Mali si deve alla presenza di ribelli Tuareg, che

combattono il governo accusandolo di marginalizzarli, chiedendo una maggiore

autonomia e una riallocazione delle risorse. La regione del Kindal di cui sono originari

si trova nel sud, al confine con Burkina Faso e Nigeria, quest’ultima anche alle prese 23 Si è deciso di inserire il conflitto Etiopia – Eritrea, seppur di livello due, per completare il quadro del Corno d’Africa.

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con rivolte Tuareg. Nel corso del 2008 è stato firmato un cessate il fuoco, che però è già

stato violato. Inoltre, la violenza dei Tuareg ha favorito la nascita di milizie anti-Tuareg

a complicare il quadro.

Nigeria – Conflitto religioso e risorse naturali

In Nigeria, l’HIIK segnala due gravi crisi: la prima nel nord, data dai continui

scontri tra musulmani e cristiani, l’altra nella zona del Delta del Niger, che comunque si

riflette in tutto il paese, per il controllo delle risorse.

Il primo conflitto in questione ha subito un’escalation importante nell’ultimo

anno: la costruzione di moschee, accuse di blasfemia, leggi islamiche imposte da alcuni

Stati federati hanno fomentato la divisione religiosa che continua senza sosta

dall’indipendenza. Per parte sua, il governo ha inviato truppe e imposto un coprifuoco

per limitare gli scontri.

La situazione nel Delta del Niger influenza inevitabilmente tutto il paese: la Nigeria è uno dei più grandi esportatori di petrolio al mondo e ciò nonostante più della metà della sua popolazione vive in povertà. Il nucleo del conflitto si trova nel Delta poiché è dove sono situate le imprese destinate all’estrazione del petrolio, ed è dove opera il Movement for the Emancipation of Niger Delta (MEND), rappresentante principale delle forze ribelli. Attraverso manomissioni e attacchi agli impianti, rapimenti del personale delle imprese straniere e scontri diretti con l’esercito, il gruppo ribelle rivendica un’equa distribuzione dei ricavati del petrolio. La Nigeria è l’esempio classico di come povertà ed esclusione politica ed economica possano portare al conflitto, e come di come poi questa insoddisfazione si propaghi lungo linee etniche e religiose. Paradossalmente, il paese era più stabile sotto la dittatura militare che l’ha guidato fino al 1997: col passaggio alla democrazia, la violenza è esplosa. Il degrado e la povertà che alimentano gli scontri, coinvolgendo spesso giovani senza lavoro e senza prospettive, sono dovuti alla mal gestione del governo e alla corruzione dilagante che non permettono una ridistribuzione delle entrate. Gli attivisti hanno incolpato anche le imprese straniere, ritenendo che diversi accordi con il governo nigeriano potrebbero favorire la situazione della popolazione. Da non dimenticare, inoltre, che il Delta del Niger è una delle zone più inquinate del mondo, e il degrado ambientale sta causando gravi conseguenze agli abitanti della zona e in generale all’ecosistema della zona.

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Livello 3 – Crisi

Costa d’Avorio – Transizione dalla guerra civile

Diversamente da molte altre storie africane, i primi trent’anni della Costa d’Avorio sono

stati i più stabili, sotto la forte leadership di Felix Houphouet-Boigny, che guidò il

paese dall’indipendenza del 1960 al 1993, anno della sua morte. Il suo successore, Henri

Konan Bedie, perse il potere nel 1999 a seguito del primo colpo di Stato della storia

ivoriana, a favore del generale Robert Guei. Questi modificò la costituzione affinché

potessero accedere alla carica presidenziale solo i candidati cui genitori fossero

entrambi ivoriani, escludendo così dalla corsa alle elezioni del 2000 il suo rivale più

accreditato, il musulmano Alassane Ouattara. Gli evidenti brogli alle elezioni fecero

insorgere la popolazione, e Laurent Gbagbo fu eletto presidente, suscitando la reazione

della regione nord musulmana. Il paese iniziò a spezzarsi in due, nonostante i tentativi

dei due leader per raggiungere un accordo. Nel 2002 la situazione peggiorò, con i ribelli

del nord sempre più forti, anche grazie all’appoggio della popolazione: Forza Nuova, il

nuovo gruppo guidato da Guillaume Soro, prende il controllo di tutta la zona nord. Nel

2004 le Nazioni Unite inviano un contingente di peace-keeping, la missione UNOCI

(recentemente prolungata fino a gennaio 2009), ad affiancare truppe francesi già

presenti, che sono state incorporate nel quadro ONU. Il Consiglio di Sicurezza nel

frattempo ha imposto sanzioni per combattere il traffico di diamanti con cui i ribelli si

riforniscono di armi, il traffico di armi stesso e sanzioni individuali. Nel 2007 è stato

finalmente raggiunto un accordo di pace tra Gbagbo e Soro, che è diventato primo

ministro. Tuttavia la situazione è ancora lontana dalla stabilità.

Guinea – Instabilità

La Guinea si ritrova ad essere uno degli Stati più poveri del mondo, nonostante le

sue risorse. Dopo ventisei anni di regime marxista sotto Ahmed Sekou Toure, il potere è

passato a Lansana Contè nel 1984, che lo ha detenuto fino alla sua morte, il 23 dicembre

2008. La povertà estrema è stata aggravata dall’arrivo di profughi da Sierra Leone e

Liberia, che ha causato anche tensioni etniche e guerriglie ai confini. Nel 2006 e 2007

forti proteste contro Contè, anche attraverso pensanti e estesi scioperi generali sfociati

in violenza, hanno portato all’orlo della guerra civile, che è stata evitata con la nomina

di un nuovo primo ministro, Lansana Kouyate, poi dimesso qualche mese più tardi. Le

Page 31: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

28

proteste dei militari per i bassi stipendi hanno fatto a lungo temere un colpo di stato24,

che si è in effetti concretizzato pochi giorni dopo la morte di Contè: nonostante la

condanna della comunità internazionale e la sospensione della membership da parte

dell’Unione Africana, buona parte della popolazione appoggia comunque il nuovo

presidente, il capitano Moussa Dadis Camara.

Niger – Insurrezione Tuareg

Come nel Mali, anche nel Niger il governo deve far fronte a milizie Tuareg

operanti nella zona ovest. I ribelli lamentano il mancato rispetto dell’accordo siglato nel

1995, che prevedeva maggior attenzione del governo nelle regioni abitate dai Tuareg. Si

teme che il conflitto si possa allargare nel caso di alleanze con i Tuareg maliani.

Senegal – Regione secessionista del Casamance

Uno dei pochi casi felici del continente, il Senegal dalla sua indipendenza è stata

una democrazia modello per l’Africa. Vanta un sistema multi partito, cambi di governo

democratici e un’economia stabile nonostante la povertà e la disoccupazione. Ciò

nonostante, da quasi trent’anni è teatro del conflitto tra il governo e il Movement of

Democratic Forces of Casamance (MFDC), cui obiettivo è la secessione della regione

del Casamance, al sud del paese. Purtroppo, gli scontri spesso coinvolgono civili.

Cameroon – Scontri nella penisola di Bakassi e contrasti con la Nigeria

Nel 2002 la Corte Internazionale di Giustizia decise che la sovranità della

penisola di Bakassi apparteneva al Cameroon, mettendo così fine alla disputa e

all’occupazione della Nigeria. Nel corso del 2006, mentre la Nigeria ritirava le sue

truppe, i leader del Bakassi dichiararono la secessione dal Cameroon. Gli scontri

vedono protagonisti i Liberatori del Cameroon del Sud (LSC) e il Movimento del

Bakassi per l’Autodeterminazione (BAMOSD), che si teme possano allearsi con il

MEND, attivo in Nigeria.

24 International Crisis Group, Guinea: Change or Caos, http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=4661&l=1 14 febbraio 2007

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d. Africa del Sud Livello 3 – Crisi

Angola – Transizione dalla guerra civile e la provincia secessionista di Cabinda

La guerra civile in Angola è scoppiata all’indomani della sua indipendenza, nel 1975, a conclusione della guerra di liberazione contro il Portogallo. Lo scontro, in pieno stile di guerra fredda, si è protratto per 27 anni tra la fazione del Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola (MPLA) e l’Unione Nazionale per la Totale Indipendenza dell’Angola (UNITA), e si è concluso solo nel 2002, in seguito all’uccisione del leader dell’UNITA, Jonas Savimbi, che ha permesso la stipulazione di un Memorandum d’intesa. Seguendo gli accordi, l’UNITA è diventata parte dell’opposizione di governo mentre i suoi combattenti sono stati integrati nell’esercito. Ciò nonostante, le tensioni tra il governo e l’opposizione rimangono alte. L’Angola si ritrova in una situazione critica, dovuta ai decenni di guerra, che la portano ad essere uno degli Stati più poveri del mondo, nonostante le enormi risorsi petrolifere e minerarie. Altro lascito della guerra sono le mine che ricoprono una parte importante del territorio, e la carenza di infrastrutture. Mentre le violenze per il potere nazionale si sono appianate, continuano gli scontri nella provincia di Cabinda, un’enclave staccata dall’Angola da una striscia di territorio appartenente alla Repubblica Democratica del Congo. La regione era protettorato del Portogallo, che ne ha unito l’amministrazione a quella della colonia dell’Angola solo nel 1956. La volontà di secessione del Cabinda è legata anche al controllo sulle risorse, visto che la provincia è ricca di petrolio. Il Fronte di Liberazione dell’Enclave di Cabinda (FLEC) ha firmato nel 2006 un Memorandum d’intesa con il governo centrale, ciò nonostante, mentre i ribelli vengono reintegrati, una parte separatista del movimento continua a provocare attacchi su piccola scala.

Comore (livello 3)

Unione delle Comore – Secessionismo di Anjouan

Le isole Comore sono un arcipelago situato tra Mozambico e Madagascar, composto

dalle tre isole vulcaniche di Grande Comore, Moheli e Anjouan. Come per altri Stati,

anche in questo caso fin dai primi anni dall’indipendenza (1975) vi è stata una lotta per

il potere in un susseguirsi di colpi di Stato. Al momento attuale, situazioni di violenza si

sono riscontrate tra il governo regionale di Anjouan e il governo centrale. Nel 1997 sia

Maheli che Anjouan dichiararono l’indipendenza, e il tentativo di riconciliazione da

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parte dell’Unione Africana e del presidente del Sud Africa Mbeki portarono a nuovo

sistema di autonomia politica per ogni isola. Nonostante ciò, il presidente di Anjouan

Mohamed Said Bacar, in carica dal 2001 ma rimosso dal governo centrale nel 2007, ha

proseguito lungo la via secessionista indicendo le elezioni e proclamandosi vincitore.

Nel marzo 2008 il governo centrale dell’Unione delle Comore ha ripreso il controllo

dell’isola grazie ad intervento militare a cui hanno partecipato anche truppe dell’Unione

Africana. Bacar è fuggito sull’isola di Mayotte, territorio d’oltre mare francese, e ha

richiesto asilo politico.

Zimbabwe – Ricerca di un governo di coalizione

Lo Zimbabwe si ritrova ad essere in una situazione assai delicata a causa dello

stato disastroso della sua economia, che conta un’inflazione ufficiale di 231,000,000%.

Il conflitto di potere tra il dittatore Mugabe, in carica dal 1980, e l’opposizione è

rimasto violento, specialmente in occasione delle elezioni presidenziali di marzo. Dopo

mesi di scontri e intimidazioni, Mugabe si è proclamato vincitore. Grazie alla

mediazione del presidente del Sud Africa Mbeki e della SADC, è stato raggiunto un

accordo per un governo di coalizione, ma i contrasti per la divisione dei ministeri ha

bloccato il processo di formazione.

Sud Africa – Violenza xenofoba

Nel corso del 2008, la crisi economica e l’alto tasso di criminalità hanno

alimentato un’onda xenofoba che si è abbattuta contro immigrati di diversi Stati

africani, tra cui somali, mozambicani e zimbabwani. Gli attacchi hanno raggiunto un

livello di violenza tale da indurre il presidente Mbeki a dispiegare l’esercito nelle città

per tenere sotto controllo la situazione, che sembra effettivamente essersi calmata. E’

stata considerata l’ondata di violenza più grave dalla fine dell’apartheid.

Swaziland – Contrasti tra governo e opposizione

Il regno di Swaziland è una delle poche monarchie assolute rimaste al mondo. I

partiti sono banditi e la spinta per una riforma dei poteri si è concretizzata attraverso

scioperi brutalmente interrotti. Re Mswati III non ritiene vi siano le condizioni

necessarie per l’instaurazione di un sistema multipartitico.

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e. Africa Centrale Livello 5 – Guerra

Chad – Gruppi ribelli e tensione con il Sudan

Dal 1960, anno dell’indipendenza, la situazione in Chad non è mai stata pacifica.

Nei primi anni il paese è stato spezzato in due: la zona nord musulmana appoggiata

dalla Libia, e la zona sud cristiana, appoggiata dalla Francia. Tutti i cambi di governo

sono stati originati da colpi di Stato: il primo presidente, Francois Tombalbaye, del sud,

venne assassinato, e sostituito da Felix Malloum, che a sua volta venne spodestato da

Goukouni Oueddei, musulmano del Nord. Solo due anni più tardi, Hissan Habre guidò

con successo una rivolta contro Oueddei, costringendo peraltro la Libia a ritirare le sue

truppe. Nel 1990 l’ennesimo colpo di Stato porta Idriss Deby alla guida del paese,

confermata nel 1996 con la vittoria nelle prime elezioni multipartitiche del Chad.

Tuttavia i gruppi ribelli tutt’ora attivi sono molti, e la situazione sta degenerando al

confine con il Sudan, dove gli scontri tra guerriglieri e eserciti regolari di entrambi gli

Stati sono sempre più gravi. Negli ultimi anni la mediazione di Libia, Unione Africana e

comunità internazionale ha portato ad accordi di pace che però non hanno avuto nessun

seguito. I gruppi più attivi sono il Fronte Unito per il Cambiamento (FUC), l’Unione di

Forze per la Democrazia e lo Sviluppo (UFDD) e l’Unione di Forze per la Democrazia e

lo Sviluppo – Fundamental (UFDD – F). E’ presente la missione MINURCAT delle

Nazioni Unite, supportata dalla missione EUFOR TCHAD/RCA dell’Unione Europea,

fortemente contestata dai ribelli per il comando francese. Nell’ultimo anno le violenze

sono aumentate, nonostante la presenza dei contingenti di peace keeping. Le

vicendevoli e continue accuse di appoggio ai gruppi ribelli di Chad e Sudan sono

proseguite nonostante la firma di tre accordi di pace in cui si richiedeva la cessazione

delle ostilità e il rispetto della sovranità reciproca. Le preoccupazioni aumentano

allargando il quadro, in quanto le situazioni di Sudan e Repubblica Centrafricana fanno

temere un’estensione drammatica del conflitto. Inoltre il numero di sfollati è in continuo

aumento, sia di sudanesi in Chad che di chadiani in Sudan, mentre le agenzie umanitarie

sono fortemente limitate dall’alto livello di rischio25.

25 UN news, Aid agencies suspend work in eastern Chad because of insecurity – UN, http://www.un.org/apps/news/story.asp?NewsID=28470&Cr=Chad&Cr1= 7 ottobre 2008

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Livello 4 – Grave Crisi

Burundi – Transizione dalla guerra civile

Il Burundi è un piccolo Stato situato nella regione dei Grandi Laghi, zona

caratterizzata da una forte tensione etnica. Nel 1993 l’assassinio del presidente Melchior

Ndadaye, primo presidente Hutu della storia del Burundi, da parte di un estremista Tutsi

dell’esercito, scatenò la reazione degli Hutu. La situazione fu poi aggravata dagli

avvenimenti in corso in Rwanda che portarono al genocidio dei Tutsi. Nel 2000 venne

firmato un primo accordo, l’Accordo di Pace di Arusha, a cui però non aderirono tutti i

gruppi combattenti. Quando nel 2003 il Consiglio Nazionale per la Difesa della

Democrazia (CNDD) e le Forze per la Difesa della Democrazia (FDD) firmarono un

altro accordo di pace, rimase solo il Fronte di Liberazione Nazionale (FNL) a

combattere. Nonostante questo, nel 2005 fu comunque possibile svolgere le elezioni

legislative, le prime dalla fine della guerra civile. Nel 2006 è stato finalmente raggiunto

il cessate il fuoco anche con i ribelli del FNL, ma la situazione rimane instabile per

disaccordi riguardo la reintegrazione dei combattenti. Nel corso della prima metà del

2008 le violenze sono aumentate, per poi diminuire nella seconda parte lasciando spazio

alla mediazione. Sembrano comunque dare buoni frutti gli sforzi delle Nazioni Unite

per il ritorno di rifugiati e sfollati26.

Rep. Democratica del Congo – Ricerca di stabilità

La guerra civile che ha imperversato nella Repubblica Democratica del Congo dal 1998 al 2003 è stata definita la “guerra mondiale d’Africa” o la “grande guerra d’Africa”. L’RDC è uno Stato enorme, le cui dimensioni si possono comparare a un quarto degli Stati Uniti o alla superficie dell’Europa Occidentale. AlertNet Reuters riporta 5,4 milioni di morti dal 1998, per violenze legate alla guerra, alla fame e alle malattie, nonché 40.000 donne e ragazze stuprate.27 Indipendente nel 1960, l’RDC attirò presto le attenzioni internazionali durante la famosa “crisi del Congo”, mettendo alla prova le capacità delle Nazioni Unite con sfida della decolonizzazione. La crisi e il tentativo secessionista della regione del Katanga si conclusero nel 1965 con la presa di potere di Mobutu, colonnello dell’esercito,

26 UN news, Burundi's rival ethnic groups learn to live side by side in UN-backed pilot project http://www.un.org/apps/news/story.asp?NewsID=28420&Cr=Burundi&Cr1=, 3 ottobre 2008 27 AlertNet Reuters, Crisis Briefings http://www.alertnet.org/db/crisisprofiles/ZR_CON.htm?v=at_a_glance

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che resterà al governo del rinominato Zaire per 32 anni. La dittatura di Mobutu inizia a barcollare col finire della guerra fredda, ma la vera fonte di instabilità è rintracciabile nell’esodo di migliaia di rifugiati provenienti dal confinante Rwanda, ove era in corso il genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati. Una volta messo fine al genocidio, e con l’arrivo di Paul Kagame al governo di Kigali, i responsabili fuggirono oltre il confine, nel tentativo di ricostituirsi e rientrare in Rwanda. Per evitare che ciò avvenisse ed in seguito a diverse incursioni di ribelli appoggiati da Mobutu, nel 1997 il Rwanda intervenne a favore dei ribelli congolesi, che riuscirono ad arrivare fino a Kinshasa mettendo fino alla dittatura con l’insediamento Laurent Kabila al governo. Ciò nonostante, Kabila si distaccò presto dai suoi alleati, iniziando una campagna anti-tutsi che provocò l’immediata reazione di Rwanda e Uganda, a cui risposero dall’altra parte Namibia, Angola e Zimbabwe, dando così inizio alla grande guerra del Congo (1998-2003). Nel 2000, a seguito di un precario cessate il fuoco, le Nazioni Unite inviano il primo contingente della missione MONUC, di sole 5,500 unità che nel primo periodo ebbe ben poca efficacia. Nello stesso anno fu avviato il Kimberley process, un programma per certificare la provenienza dei diamanti ed impedirne il commercio illegale a scopo di finanziare le milizie. Nel 2001 il presidente Kabila fu assassinato e sostituito da suo figlio Joseph. I dialoghi tra governo e milizie preseguirono, mentre Rwanda e Uganda annunciarono il ritiro delle loro truppe a seguito dei primi accordi di pace. Nel 2006 le prime elezioni democratiche dell’RDC hanno confermato Kabila presidente, il più giovane dell’Africa, e suscitato le violente reazioni dei sostenitori del suo avversario Jean-Pierre Bemba. Nel frattempo la missione MONUC è stata più volte prolunga, ed è attualmente sotto la Risoluzione 1856 (2008)28, composta da un totale di 18,389 unità, il che la rende la missione di peace keeping più imponente fino ad oggi. La regione del Kivu è quella che nel 2008 ha visto i livelli di violenza più alti, i ribelli guidati da Nkunda hanno preso il controllo di diverse città costringendo alla fuga la popolazione, e scontrandosi con l’esercito e le truppe MONUC.

Livello 3 – Crisi

Repubblica Centrafricana – Potere centrale

La Repubblica Centrafricana è instabile dalla sua indipendenza: tra dittature e

susseguirsi di colpi di Stato, il governo controlla poco più della capitale, mentre il resto

del paese è in mano alla milizie. Il nord è la zona che più ha subito il conflitto, causando

28 S/Res/1856(2008), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions08.htm

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migliaia di sfollati in fuga verso Chad e Cameroon. I forti legami con gli Stati limitrofi,

specialmente Chad e Sudan, fanno temere un ampliamento a tutta la regione del

conflitto. Nel corso del 2008 gli scontri tra le milizie e il governo è continuato

nonostante i diversi accordi di pace. I villaggi sono vittime di rapimenti, uccisioni,

stupri e distruzione, non solo da parte dei combattenti ma anche di semplici criminali

che approfittano dell’anarchia. Nella Repubblica operano ben tre missioni di peace

keeping: la MICOPAX della ECCAS, la MINURCA delle Nazioni Unite e l’EUFOR

CHAD/CAR dell’Unione Europea. Come altri Stati, il Chad è ricco di risorse, tra cui

diamanti e legname, ma cattiva gestione e corruzione hanno fatto sì che si ritrovi ad

essere uno degli Stati più poveri del mondo e con infrastrutture e strutture educative e

sanitarie quasi inesistenti.

Uganda – Milizie ribelli

Dopo decenni di abusi, guerre civili e dittature militari, l’Uganda ha recuperato

stabilità e prosperità economica a partire dalla fine degli anni 80. Attualmente, il

governo si ritrova a fronteggiare una delle insurrezioni più brutali di tutto il continente,

condotta da ormai due decenni dal Lord’s Resistance Army, il cui leader Kony auspica

di guidare il paese seguendo i dieci comandamenti biblici. Il gruppo ribelle è ritenuto

responsabile di aver causato più di un milione di sfollati e di aver ucciso o rapito decina

di migliaia di persone. Operante soprattutto nel nord del paese, spesso attraversa i

confini proseguendo i suoi attacchi nell’RDC e in Sudan. A febbraio del 2008 è stato

firmato un accordo per il cessate il fuoco e per la stesura di un definitivo accordo di

pace, che però non si è stato concluso nel corso dell’anno.

Rwanda – Gruppi ribelli Hutu

A distanza di 14 anni dal terribile genocidio dei Tutsi da parte Hutu, il Rwanda

vive ancora i contrasti tra le due etnie. Alcuni milizie Hutu ancora attive (tra cui gruppi

ribelli stanziati nell’RDC) si sono rese protagoniste di atto di violenza, specialmente in

occasioni di commemorazione del genocidio. Il lavoro del Tribunale Penale

Internazione per il Rwanda è ancora in corso. Rimangono tesi i rapporti con l’Uganda.

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CAPITOLO II L’UNIONE AFRICANA E IL MANTENIMENTO DELLA PACE

Il seguente capitolo – centrale per lo scopo di questo lavoro – è suddiviso in tre

parti: nella prima si vuole fornire un quadro storico e introduttivo dei processi che

hanno portato alla nascita dell’Unione Africana nel 2002; nella seconda si presenta

l’organizzazione nel suo complesso; e nell’ultima ci si focalizza sull’architettura di pace

e sicurezza e sull’operato fino ad oggi dell’organizzazione.

Parte prima: Africa must unite 1 – Le origini: il Panafricanismo (1900 – 1963)

La nascita dell’Unione Africana segna un ulteriore passo verso il sogno

dell’Africa unita, l’ultimo grado di un’evoluzione che parte dalle prime conferenze

panafricane dell’inizio del XX secolo e arriva fino ai giorni nostri, con

l’implementazione del sistema nato dalla Dichiarazione di Sirte del 1999.

Il Panafricanismo ha iniziato a farsi strada durante il periodo coloniale, a cavallo

del ‘900, con le prime reazioni al dominio europeo. Sono diverse le correnti di pensiero

riguardo al concetto di “africano” a cui si applica: tutti i neri d’Africa, compresi i

discendenti che adesso vivono al di fuori del continente; tutti gli africani, compresi

quelli non neri; o tutti gli Stati africani.

L’inizio del movimento vero e proprio porta la data del 1900, ossia quella della

prima conferenza Panafricana, a Londra, organizzata da Henry Sylvester Williams,

avvocato di Trinidad. L’argomento centrale, il trattamento ineguale dei neri nelle

colonie britanniche, fu presto superato: la conferenza raggiunse un raggio molto più

ampio, sconfinando nella più generale condizione della gente nera nel mondo.

Sulle sue scie, William Edward Burghardt Du Bois, americano, sarà l’artefice del

primo congresso Panafricano nel 1919, in contemporanea alla conferenza di pace di

Parigi. De Bois rimarrà nella storia del Panafricanismo come uno dei suoi padri, e

senz’altro colui che più ha cercato di diffonderne l’idea. Al congresso di Parigi ne

seguiranno altri quattro: 1921, 1924, 1927 e infine il Congresso di Manchester del 1945,

che chiude l’epoca del Panafricanismo esterno all’Africa per aprire quella del

Panafricanismo guidato dai nuovi leader africani emergenti.

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Il più grande protagonista del periodo è Kwame Nkrumah, carismatico attivista

nativo della Costa d’Oro, già intraprendente durante il suo periodo di studente negli

Stati Uniti e in Inghilterra. Nkrumah sarà il primo presidente del primo Stato

indipendente dell’Africa coloniale, il Ghana, nel 1957. Forte sostenitore dell’unità

africana, Nkrumah voleva che il suo Ghana agisse da esempio e da guida per lotta al

colonialismo, e sviluppò così due diversi progetti. Il primo si costituì nella promozione

di una serie di conferenze chiamate All-African People’s Conferences, che coinvolse

partiti politici e indipendenti di ventotto Stati africani, considerate eredi dei congressi

panafricani. La prima si tenne ad Accra nel dicembre 1958, nella quale si condannò

fermamente il colonialismo e si auspicò una pronta indipendenza per tutti i popoli

africani. Le altre si tennero a Tunisi nel 1960, e al Cairo nel 1961, a dimostrazione che

nel concetto di unità africana si volevano includere anche gli Stati del Nord.

Il secondo progetto invece si propose sul piano diplomatico: la prima conferenza

degli Stati indipendenti africani del 1958, sempre ad Accra, rappresentò il primo

incontro tra capi di Stato africani. Vi parteciparono otto Stati: Libia, Etiopia, Liberia,

Egitto, Tunisia, Sudan, Marocco e ovviamente Ghana. I temi trattati furono quelli tipici

di un vertice: politiche comuni su economia, politica e questioni sociali. Sarà questo il

punto di partenza per la nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africana, pochi anni più

tardi.

2 – La nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africana (1963)

Con l’aumento del numero degli Stati indipendenti, si andarono formando due

visioni diverse di cooperazione interafricana: da una parte vi era il blocco di

Casablanca, formato da Marocco, Ghana, Guinea, Mali, Repubblica Araba Unita, e

dall’altra il blocco di Monrovia, formata da ventidue Stati e guidata soprattutto da

Liberia, Nigeria e Sierra Leone. Il primo gruppo firmò nel 1961 la Carta di Casablanca,

un breve documento nel quale si definivano gli impegni per una cooperazione

economica e sociale, e l’istituzione di un African High Command con il duplice scopo

di difesa e di eradicare il colonialismo dall’Africa. A questa corrente progressista, che

puntava a un rapido processo di unione anche politica, si contrapponeva il gruppo

conservatore di Monrovia, che nello stesso anno costituiva l’Organizzazione degli Stati

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Africani e di Malagasy1 con la Carta di Lagos (Nigeria). Questa era basata su una

cooperazione più che altro tecnica ed economica, non volendo assolutamente includere

impegni politici, e ancor meno militari, e ribadendo invece il concetto di integrità

territoriale e di rispetto di non interferenza. I gruppi differivano di opinione riguardo i

conflitti in atto: la questione dell’Algeria (in lotta per l’indipendenza dalla Francia),

della Mauritania (su cui il Marocco avanzava delle pretese) e del Congo e dell’operato

delle Nazioni Unite nel territorio. Ad ogni modo, per la terza conferenza - dopo Liberia

e Nigeria - si cercò una sede che potesse essere accettata da entrambi i gruppi: l’offerta

dell’Imperatore etiope Haile Selassie si rivelò essere la soluzione ideale, dato il buon

rapporto dell’Etiopia con entrambi gli schieramenti. In preparazione all’incontro dei

capi di Stato e di governo, si riunì il Consiglio dei Ministri dell’Organizzazione, con

l’incarico di redigere un testo basato sulla Carta di Casablanca, sulla Carta di Lagos, e

sulla proposta etiope. Il testo concordato era in buona parte coincidente con la Carta di

Lagos, mentre le richieste di una maggiore unione politica furono fermamente rifiutate.

La Carta dell’Organizzazione delll’Unità Africana fu firmata ad Addis Abeba il 25

maggio del 1963, ed entrò in vigore tre mesi più tardi.

La Carta rifletteva le paure e le preoccupazioni degli Stati di nuova indipendenza,

espresse nello stato-centrismo che emerge nei 33 articoli da cui essa è formata. All’art.

II, par. 1 sono elencati gli obiettivi dell’organizzazione: (a) la promozione dell’unità e

della solidarietà tra gli Stati africani; (b) il coordinamento e l’intensificazione della

cooperazione per il raggiungimento di un livello di vita più alto per i popoli africani; (c)

la difesa della loro sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza; (d) eradicare

tutte le forme di colonialismo nel continente; (e) la promozione della cooperazione

internazionale, con riguardo alla Carta delle Nazioni Unite e alla Dichiarazione

Universale dei Diritti Umani. Al par. 2 sono elencati i campi in cui tale cooperazione è

richiesta per poter raggiungere i suddetti obiettivi, che vanno dal campo politico a

quello educazionale, a quello scientifico. Nel punto (a) del art. 2.1 traspare la

dimensione statista delle aspirazioni panafricane per la liberazione e l’integrazione, ed è

quindi il segno dell’alienazione e dell’allontanamento del Panafricanismo come

movimento del popolo e il suo passaggio a strumento ideologico nelle mani dei nuovi

1 Malagasy è l’isola del Madagascar, cui Presidente esercitò forti pressione perché vi fosse una menzione nel nome dell’organizzazione. Si veda T. O. Elias, “The Charter of the Organization of African Unity”, The American Journal of International Law, Vol. 59, No. 2, 1965, pp. 243-267.

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leader. I popoli africani riacquisteranno un certo peso nel contesto dell’organizzazione

solo con la nascita dell’Unione Africana, dove l’approccio da stato-centrico si trasforma

lentamente in umano-centrico. Il punto (c), inoltre, è un tipico obiettivo statista,

abbondantemente supportato, come si vedrà, dai principi espressi all’art.III. La lotta al

colonialismo del punto (d) è stato probabilmente l’obiettivo perseguito con più

decisione dalla organizzazione, tramite il lavoro - soprattutto diplomatico - svolto dal

Comitato per la Liberazione.

L’OUA era guidata da sette principi statisti elencati all’art. III: (1) l’eguale

sovranità di tutti gli Stati Membri; (2) la non interferenza negli affari interni; (3) il

rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale di ogni Stato e il suo inalienabile diritto

a un’esistenza indipendente; (4) la risoluzione pacifica delle controversie tramite la

negoziazione, la mediazione, la conciliazione o l’arbitrato; (5) la condanna senza

riserva, in tutte le sue forme, dell’assassinio politico come di tutte le attività sovversive

da parte degli Stati vicini o qualsiasi altro Stato; (6) l’assoluta dedizione alla totale

emancipazione dei territori africani ancora dipendenti; (7) l’affermazione di una politica

di non allineamento con riguardo ai blocchi. I primi quattro punti corrispondevano a

quelli contenuti nella Carta delle Nazioni Unite e riflettono tutt’oggi norme di diritto

internazionale, ma riflettono anche le paure e le lotte che esistevano in Africa nei primi

anni ’60. Per questa ragione, sembravano funzionare come politiche di assicurazione o

misure di mutua preservazione, che a lungo andare portarono all’OUA l’etichetta di

“club dei dittatori”. L’esistenza del punto (5) si deve ai timori dei nuovi leader, coscienti

di non avere nessuna solidità e impauriti dalla possibilità di sovversioni sia interne che

provenienti da Stati limitrofi, visto anche l’esempio di Sylvanus Olympio, primo

presidente del Togo, assassinato durante un colpo di Stato nel 1963.

Secondo la Carta dell’OUA, l’organizzazione doveva raggiungere i suoi scopi

attraverso quattro organi principali (art.VII): (1) l’Assemblea dei capi di Stato e di

governo; (2) il Consiglio dei ministri; (3) il Segretariato generale; (4) la Commissione di

mediazione, conciliazione e arbitrato. L’Assemblea era l’organo supremo, decideva le

politiche dell’organizzazione, ma le sue decisioni erano solo raccomandazioni, non

avendo l’autorità né per imporle né per espellere i Membri che non vi si conformavano.

Il Consiglio dei Ministri era sottoposto all’Assemblea, mentre il Segretariato generale e

il suo rappresentante erano stati privati di qualsiasi forza esecutiva, e ricoprivano un

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ruolo esclusivamente amministrativo, sempre per la paura degli Stati membri di poter

perdere il proprio potere decisionale. La costituzione della Commissione è rimandata

dall’art. XIX ad uno apposito protocollo, che come la Carta, si dimostra estremamente

debole: non aveva potere di richiamare gli Stati davanti la Commissione, non poteva

interpretare la Carta (compito dell’Assemblea), non poteva imporre le proprie decisioni.

La debole struttura dell’organizzazione, sommata alla mancanza di risorse

finanziarie, di esperienza, di conoscenza tecnica e di personale adeguato, furono le

cause principali delle enormi difficoltà cui dovette far fronte l’Organizzazione

dell’Unità Africana.

3 – L’operato dell’OUA e la nascita dell’Unione Africana (1963-2002)

Il sogno di un’Africa unita di Nkrumah non è stato raggiunto durante i

quarant’anni di operato dell’organizzazione: proprio il primo presidente ghanese aveva

detto “Seek ye first political kingdom and all else will follow” (“cercate il vostro regno

politico [l’indipendenza] e tutto il resto seguirà”), ma così non è andata, come ancora

oggi appare chiaro2. Durante questo periodo la maggior parte degli Stati ha sperimentato

guerre, dittature, colpi di stato, spesso legati ad interferenze esterne, che non hanno

certo portato unione né tra gli Stati africani e tantomeno tra le popolazioni.

Per quanto concerne l’argomento di questo lavoro - il mantenimento e il

ristabilimento della pace nel continente - i risultati ottenuti dall’organizzazione non possono

certo dirsi soddisfacenti. In generale, l’OUA si è dimostrata più efficiente quando si è

trattato di mediare tra i leader, come nelle questioni territoriali, e meno efficiente quando si

è trattato di problemi interni agli Stati. D’altronde l’organizzazione mancava di autorità e di

risorse materiali perché si potessero raggiungere risultati diversi. Tutto era lasciato alla

volontà dei membri, che erano disposti a collaborare nel caso di dialogo con altri governi,

mentre rivendicavano il proprio diritto a un’esistenza indipendente e il divieto di ingerenza

quando la controversia poteva riguardare la loro autorità. Seguendo i principi di non

interferenza dettati dalla stessa Carta, l’organizzazione è rimasta impotente a guardare colpi

di stato, regimi dittatoriali, e guerre civili.

Tra i casi più eclatanti si può ricordare la guerra civile in Angola, scoppiata nel

1975 a seguito dell’indipendenza dal Portogallo: l’organizzazione si ritrovò spezzata in 2 POKU, Nana K., REINWICK Neil, & PORTO, Joao Gomes, “Human Security and Development in Africa”, in International Affairs 83:6, 2007, pp. 1155-1170.

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due tra i sostenitori di una e dell’altra fazione, paralizzando l’Assemblea e quindi la

presa di qualsiasi decisione. La vicenda è inoltre un ottimo esempio del peso della

guerra fredda in Africa: mentre l’Organizzazione dell’Unità Africana era nata per

trovare “soluzioni africane a problemi africani”, in realtà questo nuovo regionalismo

non era certamente in grado di sottrarsi al gioco di forza delle potenze, se non per

volontà delle stesse. L’inefficacia dell’OUA si è palesata anche nelle guerre civili in

Congo (Kinshasa), Sudan, Burundi e Nigeria, quest’ultima nel caso della secessione del

Biafra, quando mentre da una parte l’organizzazione appoggiava il governo federale,

dall’altra alcuni membri riconoscevano e sostenevano la secessione. Nell’1981, per

cercare di supportare uno dei numerosi cessate il fuoco durante la guerra civile in Chad,

vi fu il primo invio di una missione di peace keeping sotto l’egida dell’OUA3: le truppe

proveniente di Congo, Benin e Guinea erano mal equipaggiate e mal addestrate, e la

missione si concluse con un fallimento. Ancora il genocidio del Rwanda del 1994 e il

collasso della Somalia sono tristi conseguenze di una più generale situazione di

confusione in cui si ritrovava il continente, e a cui l’OUA non riuscì mai a dare un

ordine. Altro punto di contrasto si ebbe nel 1985, con il ritiro del Marocco

dall’organizzazione in seguito all’ammissione del Sahara Occidentale, ritenuto dal

primo facente parte del suo territorio. Tutt’oggi, il Marocco è l’unico Stato del

continente africano a non far parte dell’Unione Africana.

Tuttavia, all’organizzazione si può riconoscere il merito di aver risolto alcune

controversie minori – se così si può dire – attraverso un’opera di mediazione e

facilitando il dialogo tra le parti. Un esempio è il conflitto tra Algeria e Marocco del

1963, riguardo ad alcuni territori del Sahara: in questo caso vi fu una sessione

straordinaria del Consiglio dei ministri che istituì una commissione ad hoc per studiare

la questione del confine e raccomandare una soluzione. L’operato della commissione

portò a negoziati diretti e ad un accordo finale. Altri casi più complicati, come le

questioni territoriali tra Kenya, Etiopia e Somalia sono tutt’oggi irrisolti. In generale, si

può dire che la gestione dei conflitti dell’OUA può dirsi quella di una ricerca della

soluzione all’interno dell’organizzazione, piuttosto che da parte dell’organizzazione4.

3 Stabilita dalla risoluzione CM/Res. 769 (XXXV) del Consiglio dei Ministri del 6-15 febbraio 1980. Reperibile su http://www.africa-union.org/root/au/Documents/Decisions/com/18CoM_1980a.pdf 4 B. David MEYERS, “Intraregional Conflict Management by the Organization of African Unity”, in International Organizations, Vol. 28, No. 3, 1974, pp. 345-373 e SAENZ, Paul, “The Organization of

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La solidarietà tra gli Stati africani è emersa invece all’interno delle Nazioni Unite, dove l’African Group godeva (e gode) di un peso importante grazie alla sua numerosità, che dagli anni ’60 ha completamento cambiato il volto dell’Assemblea Generale. Questo ha pesato particolarmente nella lotta all’apartheid e al colonialismo, forse unico degli obiettivi dell’OUA perseguito con una certa persistenza. Ne è una dimostrazione la “Convenzione Internazionale sull’Eliminazione e la Repressione del Crimine di Apartheid”, approvata con risoluzione 3068 (XXVIII) del 30 novembre 1973, ed entrata in vigore il 18 luglio 1976, ai sensi dell’art. 10.5 Non a caso, infatti, il 1994 è considerato un anno di svolta per l’OUA: con le sue prime elezioni democratiche e la fine dell’apartheid, il Sud Africa divenne il 53esimo Stato membro, completando il quadro dell’Africa unita. Sembrava, così, che l’organizzazione avesse concluso il suo ciclo. Il pressante bisogno di una riforma, ad ogni modo, si era sentito già a partire dal 1979 con la creazione di un Comitato per la revisione della Carta, ed era proseguito con dichiarazioni e trattati, tra cui quello di Abuja del 1991, concernente l’istituzione della African Economic Community6. Nel 1999, all’apice della spinta riformista, l’Assemblea di capi di Stato e di governo decise di accettare la proposta del colonnello Gheddafi per la convocazione di una sessione straordinaria dell’Assemblea (solo la quarta nella storia dell’organizzazione), centrata sul come mantenere l’OUA al passo con lo sviluppo politico ed economico in atto nel mondo7. Nella Dichiarazione di Sirte (Libia), i capi di Stato e di governo si dissero consapevoli del bisogno di “rivitalizzare l’organizzazione per poter ricoprire un ruolo più attivo” sia all’interno del continente che nelle relazioni internazionali, decidendo “la creazione di un’Unione Africana, in conformità con gli obiettivi della Carta dell’organizzazione continentale e della Comunità Economica Africana” 8. A questo scopo, si decise una più rapida messa a punto del trattato di Abuja, e si diede mandato al Consiglio dei Ministri di redarre l’atto costitutivo della nuova organizzazione. Con sorprendente velocità, l’Atto Costitutivo dell’Unione Africana fu adottato l’11 luglio 2000, con decisione AHG/Dec.143 (XXXVI) durante la

African Unity in the Subordinate African Regional System”, in African Studies Review, Vol. 13, No. 2, 1970, pp. 203-225 5 A/RES/3068 (XXVIII), in: http://www.un.org/documents/ga/res/28/ares28.htm 6 AEC Treaty, in http://www.africa-union.org/root/au/Documents/Treaties/Text/AEC_Treaty_1991.pdf 7 AHG/Dec. 140 (XXXV), in http://www.africa-union.org/root/au/Documents/Decisions/hog/9HoGAssembly1999.pdf 8 Sirte Declaration, 9 September 1999, in http://www.africa-union.org/Docs_AUGovernment/decisions/Sirte_Declaration_1999.pdf

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sessione ordinaria di Lomè (Togo) 9. Ultimo passo per il definitivo passaggio dall’OUA all’UA si celebrò al summit di Lusaka (Zambia) nel 2001, la cui dichiarazione contiene le direttive per il lancio dell’Unione Africana10.

La prima sessione ordinaria dell’Assemblea di capi di Stato e di governo dell’Unione Africana si tenne a Durban (Sud Africa) dall’8 al 10 luglio del 2002. Se le lotte di potere tra Ghana e Nigeria caratterizzarono il dibattito politico precedente la creazione dell’Organizzazione per l’Unità Africana, così la rivalità tra le grandi potenze regionali dell’Africa, specialmente Libia, Nigeria e Sud Africa, hanno circondato la nascita dell’Unione Africana. In circa quarant’anni, il Sud Africa è passato dall’osteggiare i sogni panafricani al guidare la più ambiziosa organizzazione panafricana, come dimostrato dalla scelta della sede del primo summit e da quella del primo presidente, Thabo Mbeki.

Parte seconda: L’Unione Africana nel suo complesso 1 – Obiettivi e principi: dal 1963 al 2002

L’Unione Africana è stata la risposta dei leader africani alle sfide del nuove

millennio, così come l’Organizzazione dell’Unità Africana fu la risposta alle sfide della

decolonizzazione. Mettendo a confronto l’Atto Costitutivo della prima con la Carta

della seconda, questo appare evidente già dal preambolo: da una parte si parla delle

“sfaccettate sfide portate dai cambiamenti sociali, economici e politici in atto nel

mondo”, di “affrontare le sfide portate dalla globalizzazione” e della “promozione e

protezione dei diritti umani e dei popoli”; dall’altra del “diritto inalienabile di tutti i

popoli di controllare il loro destino”, e di “salvaguardare e consolidare un’indipendenza

vinta duramente, così come la sovranità e l’integrità territoriale”. Sebbene gli Stati

africani siano tutt’oggi deboli, al finire del millennio certo non si sentiva più il bisogno

di proteggersi dall’ingerenza esterna e dal colonialismo come negli anni 60’, e anche le

questioni della definizione dei confini avevano ormai perso di importanza. Oggi le

preoccupazioni più grandi riguardano l’economia, la sanità e i conflitti dilaganti che

piagano il continente, e soprattutto oggi l’ottica è stata decisamente spostata dal piano

stato centrico a quello umano centrico. 9 AHG/Dec.143 (XXXVI), in http://www.africa-union.org/root/au/Documents/Decisions/hog/10HoGAssembly2000.pdf 10 AHG/Dec. 1 (XXXVII), in http://www.africa-union.org/root/au/Documents/Decisions/hog/11HoGAssembly2001.pdf

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L’Unione Africana è senz’altro molto più robusta e articolata rispetto al suo

predecessore, poiché nasce per l’appunto per coprire le carenze e i vuoti normativi posti

in risalto in quattro decenni di operato. Gli obiettivi (tab. 1) passano da 5 a 14: il raggio

d’azione non solo è più vasto, ma anche molto più pretenzioso. Si possono elencare nel

dettaglio le maggiori novità e differenze:

a) Stato centrismo – umano centrismo: mentre gli obiettivi dell’OUA sembravano

“lavorare” per gli Stati, quelli dell’UA pongono al centro i diritti e il benessere

dei popoli africani, nei punti: (a), solidarietà e unità anche tra i popoli africani, e

quindi non solo tra Stati; (d), posizioni comuni del continente e dei suoi popoli;

(g), principi democratici e partecipazione popolare; (h), diritti umani e dei

popoli; (k), innalzamento degli standard di vita; (n), malattie e salute. Nella

Carta dell’OUA, i popoli sono citati una volta al punto (b): almeno sulla carta, la

differenza è molta.

b) Integrazione e cooperazione africana: l’OUA nasce come una lasca

cooperazione tra Stati troppo gelosi della loro fresca indipendenza per cedere

anche piccoli pezzi di autorità. L’UA, al contrario, segna la presa di coscienza

della assoluta necessità di una maggiore integrazione per raggiungere obiettivi

comuni. Raggiungere è già una prima differenza: mentre l’OUA puntava a

promuovere unità e solidarietà, l’UA punta a raggiungerla (punto a). Si parla

anche di “accelerare l’integrazione politica e socio-economica” (punto c), di

“posizioni comuni” (punto d), di “integrazione delle economie africane” (punto

j), di “cooperazione in tutti i campi per innalzare gli standard di vita” (punto k),

di “coordinare e armonizzare le politiche con le Comunità Economiche

Regionali (RECs)” (punto l). Grande attenzione è data alla collaborazione

economica, vista la gravissima situazione in cui si trova l’economia africana e le

difficoltà imposte dalla globalizzazione. Anche la ricerca per lo sviluppo e la

sanità hanno acquistato importanza, considerando che nella Carta dell’OUA non

erano state neanche prese in considerazione.

c) Good governance: l’Atto Costituivo dell’Unione si interessa anche delle

questioni interne dei suoi membri, pur sempre garantendone la sovranità,

l’integrità territoriale e l’indipendenza (punto b). Il punto (g) dei suoi obiettivi è

il primo passo per un maggior controllo di ciò che accade anche all’interno degli

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Stati, per evitare che anche l’UA si trasformi in un “club dei dittatori” come

successe all’OAU. Alcuni principi e altri articoli del trattato completano il

quadro, come si vedrà più avanti.

Tabella 4: Gli obiettivi dall’OUA (art. II.1) a confronto con quelli dell’UA (art. III) Organizzazione per l’Unità Africana Unione Africana

(a) Promuovere l’unità e la solidarietà tra gli Stati africani

Raggiungere una più forte unità e solidarietà tra i Paesi africani e i popoli dell’Africa

(b) Coordinare e intensificare la loro cooperazione per il raggiungimento di un livello di vita più alto per i popoli africani

Difendere la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza dei suoi Stati membri

(c) Difendere la sovranità, l’integrità territoriale, e l’indipendenza [degli Stati africani]

Accelerare l’integrazione politica e socio-economica del continente

(d) Eredicare tutte le forme di colonialismo dall’Africa

Promuovere e difendere le posizioni comuni africane su temi di interesse per il continente e i suoi popoli

(e) Promuovere la cooperazione internazionale, con riguardo alla Carta delle Nazioni Unite e alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

Incoraggiare la cooperazione internazionale, con riguardo alla Carta delle Nazioni Unite e alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

(f) Promuovere la pace, la sicurezza, e la stabilità nel continente

(g) Promuovere i principi democratici e le istituzioni, la partecipazione popolare e la good governance

(h)

Promuovere e proteggere i diritti umani e dei popoli in conformità alla Carta Africana sui Diritti Umani e dei Popoli e agli altri rilevanti strumenti sui diritti umani

(i)

Istituire le condizioni necessarie per permettere al continente di svolgere il suo giusto ruolo nell’economia globale e nelle negoziazioni internazionali

(j) Promuovere uno sviluppo sostenibile a livello economico, sociale e culturale, come anche per l’integrazione delle economie africane

(k) Promuovere la cooperazione in tutti i campi delle attività umane per alzare il livello degli standard di vita dei popoli africani

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(l)

Coordinare e armonizzare le politiche tra le esistenti e le future Comunità Economiche Regionali per il graduale raggiungimento degli obiettivi dell’Unione

(m) Avanzare lo sviluppo del continente promuovendo la ricerca in tutti i campi, in particolare nelle scienze e tecnologie

(n) Lavorare con rilevanti partners internazionali per eradicare le malattie prevenibili e la promozione della buona salute nel continente

Anche i principi sono più che raddoppiati (7 contro 16), e in questo caso, ancora

più che con gli obiettivi, si vedono le dirette conseguenze di mezzo secolo di conflitti e

indifferenza. Nel dettaglio:

a) Cooperazione: oltre all’eguale sovranità, si fa riferimento all’interdipendenza

dei membri (punto a). Inoltre al punto (d) si ricerca una politica di difesa

comune.

b) Risoluzione controversie e questioni interne: queste sono forse le novità più

importanti di tutto il trattato. Il punto (e) riprende il principio del diritto

internazionale della risoluzione pacifiche delle controversie, a cui si aggiunge

“attraverso i mezzi appropriati come deciso dall’Assemblea”. L’uso di “mezzi

appropriati” lascia intendere anche la possibilità di un intervento, come poi

confermato dal punto (h), in cui l’Unione si riserva il “diritto di intervenire in

uno Stato membro a seguito di una decisione dell’Assemblea nel caso di gravi

circostanze”. Non solo, al punto (j) si dà ai membri la possibilità di richiedere

l’intervento dell’Unione. Inutile sottolineare il significato storico di questi

principi, che, almeno nella teoria, dovrebbero mettere fine al laissez faire che ha

regnato durante l’attività dell’OUA. I punti deboli di questi principi sono due:

primo, il fatto che sia l’Assemblea a dover decidere l’intervento, poiché è

difficile trovare un accordo tra i 53 capi di Stato, anche per la paura di dover poi

ritrovarsi nella condizione di subire l’intervento; e secondo, l’utilizzo

dell’espressione “grave circostanze”, che rimane vincolato a interpretazioni

soggettive.

c) Good governance: fortemente contrastanti con i sette principi statisti dell’OUA,

i punti (c), (l), (m), (p) segnano il passo verso l’umano centrismo compiuto

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dall’Unione. Si dà importanza alla partecipazione dei popoli (il cui strumento

principale dovrebbero essere il Parlamento PanAfricano, nonché il Consiglio

Economico, Sociale e Culturale, composto dalla società civile), all’eguaglianza

di genere, alla giustizia sociale, ai diritti umani, ai principi democratici e allo

stato di diritto. Punto fondamentale è il (p): la condanna e il rifiuto dei

cambiamenti di governo incostituzionale, altra arma nella mani dell’Unione per

impedire l’anarchia all’interno degli Stati membri, la cui lama è rappresentata

dall’art. XXX, che prevede la sospensione per questi casi.

Tabella 5: I principi dell’OUA (art. III) a confronto con quelli dell’UA (art. IV) Organizzazione dell’Unità Africana Unione Africana

(a) Eguale sovranità di tutti gli Stati membri Eguale sovranità e interdipendenza tra gli Stati membri dell’Unione

(b) Non interferenza negli affari interni degli Stati Rispetto dei confini esistenti al raggiungimento dell’indipendenza

(c) Rispetto per la sovranità e per l’integrità territoriale di ogni Stato e per il suo inalienabile diritto a un’esistenza indipendente

Partecipazione dei popoli africani nelle attività dell’Unione

(d) Risoluzione pacifica delle controversie tramite la negoziazione, la mediazione, la conciliazione e l’arbitrato

Istituzione di una politica di difesa comune per il continente africano

(e)

Condanna senza riserva, in tutte le sue forme, dell’assassinio politico come di tutte le attività sovversive da parte degli Stati vicini o qualsiasi altro Stato

Risoluzione pacifica delle controversie tra gli Stati membri dell’Unione attraverso mezzi appropriati come deciso dall’Assemblea

(f) Assoluta dedizione alla totale emancipazione dei territori africani ancora dipendenti

Proibizione dell’uso della forza e della minaccia dell’uso della forza tra gli Stati membri dell’Unione

(g) Affermazione di una politica di non allineamento con riguardo ai blocchi

Non interferenza di qualsiasi Stato membro negli affari interni di un altro

(h)

Diritto dell’Unione a intervenire in uno Stato membro a seguito della decisione dell’Assemblea nel caso di gravi circostanze, nominalmente: crimini di guerra, genocidi e crimini contro l’umanità

(i) Coesistenza pacifica degli Stati membri e il loro diritto a vivere in pace e sicurezza

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(j) Diritto degli Stati membri a richiedere l’intervento dell’Unione al fine di restaurare la pace e la sicurezza

(k) Promozione dell’indipendenza all’interno del quadro dell’Unione

(l) Promozione dell’uguaglianza di genere

(m) Rispetto per i principi democratici, per i diritti umani, per lo stato di diritto e la good governance

(n) Promozione della giustizia sociale per assicurare un bilanciato sviluppo economico

(o)

Rispetto per la santità della vita umana, condanna e rifiuto dell’impunità e dell’assassinio politico, degli atti di terrorismo e delle attività sovversive

(p) Condanna e rifiuto dei cambi di governo incostituzionale

2- La struttura e gli organi dell’Unione

L’art. V.1 elenca gli organi dell’Unione, che sono poi trattati dall’art. VI all’art.

XXII. Essi sono:

(a) L’Assemblea dell’Unione;

(b) Il Consiglio Esecutivo;

(c) Il Parlamento Pan-Africano;

(d) La Corte di Giustizia;

(e) La Commissione;

(f) Il Comitato dei Rappresentanti Permanenti

(g) I Comitati Tecnici Specializzati

(h) Il Consiglio Economico, Sociale, e Culturale

(i) Le Istituzioni Finanziarie.

Al par. 2 dell’art. V, l’Assemblea si riserva la possibilità di istituire altri organi

che possa ritenere necessari.

Nel dettaglio sono analizzati l’Assemblea, il Consiglio Esecutivo, il Parlamento

Pan Africano, la Commissione e il Consiglio Economico, Sociale e Culturale. Il

Consiglio di Pace e Sicurezza (istituito attraverso l’art. V.2) sarà esaminato nella terza

parte del capitolo.

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L’Assemblea dell’Unione

L’Assemblea è composta dai capi di Stato e di governo, o dai loro rappresentanti,

ed è l’organo supremo dell’Unione. Si riunisce almeno una volta l’anno in sessione

ordinaria, e può riunirsi in sessione straordinaria su richiesta di uno Stato membro e con

l’approvazione dei due terzi degli Stati membri. La presidenza dell’Assemblea è

affidato ad un capo di Stato o di governo eletto dopo la consultazione dei Membri per

un periodo di un anno. L’Assemblea raggiunge le sue decisioni per consensus, o quando

non sia possibile, attraverso la maggioranza dei due terzi degli Stati membri. Le

questioni procedurali richiedono invece una maggioranza semplice.

Secondo la regola di procedura 33, le decisioni dell’Assemblea sono divise in tre

categorie: regolamento (diretto a tutti i membri, che devono prendere tutte le misure

necessarie per applicarlo); direttiva (vincolante per uno o più Stati membri, con obbligo

di risultato); raccomandazioni, dichiarazioni, opinioni, ecc., che non sono vincolanti.

Nel caso di mancata implementazione di regolamenti o direttive, saranno applicate

sanzioni secondo l’art. XXIII, par.2 dell’Atto Costitutivo. La regola 37 stabilisce le

procedure da adottare in occasione di cambi di governo incostituzionali, ma

paradossalmente non vi sono indicazioni né nelle regole di procedura, né nell’Atto

Costitutivo, né nei regolamenti degli altri organi, riguardo il processo decisionale nel

caso di un intervento in uno Stato membro secondo gli artt. 4(j) e 4(h). Come verrà poi

approfondito più avanti, questo silenzio normativo lascia una zona grigia

potenzialmente pericolosa.

I poteri concessi all’Assemblea dall’art. IX sono enormi: questa decide le

politiche dell’Unione, ammette nuovi membri, adotta il budget, elegge il presidente

della Commissione e i commissari, nonché i giudici della Corte di Giustizia, e decide

l’intervento negli Stati membri. Secondo il punto (g), inoltre, può dare direttive al

Consiglio Esecutivo per la gestione dei conflitti, guerre o altre situazioni di emergenza.

L’operato dell’Assemblea dipende soprattutto dalla volontà degli Stati membri,

poiché si tratta di un organo politico su cui non è possibile esercitare nessun tipo di

controllo democratico diretto. Tuttavia, potendo l’Assemblea delegare i suoi poteri, è

potenzialmente possibile che le decisioni siano influenzate da organi più sensibili alla

popolazione civile, come l’ECOSOCC e il Parlamento Pan Africano.

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Il Consiglio Esecutivo

Il Consiglio Esecutivo è composto dai ministri degli affari esteri o da qualsiasi

altro ministro designato dagli Stati membri. Si riunisce almeno due volte l’anno, e anche

in questo caso può riunirsi in sessione straordinaria quando la richiesta è approvata da

due terzi degli Stati membri. Le decisioni, come per l’Assemblea, sono prese tramite

consensus, o con la maggioranza dei due terzi nel caso non si riesca a raggiungerlo. Per

le questioni procedurali è sufficiente la maggioranza semplice.

Il Consiglio Esecutivo si occupa di coordinare e prendere decisioni riguardo un

ampia varietà di questioni, tra cui commercio, educazione, trasporti, sviluppo, ecc. Il

Consiglio è responsabile all’Assemblea, e dovrebbe controllare la messa in atto delle

politiche decise dalla stessa: ad esempio non può decidere un intervento in uno Stato

membro, ma una volta che l’Assemblea prende la decisione, questo ha la responsabilità

di implementarla. Il Consiglio può delegare i suoi poteri ai Comitati Tecnici

specializzati. Il Consiglio si occupa inoltre di preparare l’agenda e il lavoro

dell’Assemblea, ed è a sua volta assistito dal Comitato dei Rappresentanti Permanenti.

Il Parlamento Pan Africano

Il Parlamento Pan Africano nasce nel marzo del 2004, in base art. XVII dell’Atto

Costitutivo, come uno dei nove organi previsti dal tratto delle Comunità Economica

Africana firmato ad Abuja (Nigeria), nel 1991. L’obiettivo ultimo del Parlamento è

quello di diventare l’organo legislativo dell’Unione, i cui membri siano eletti a suffragio

universale, operando così come piattaforma comune per tutti i popoli dell’Africa per

essere coinvolti nei processi decisionali riguardo i problemi e le sfide del continente. Al

momento, però, l’organo ha solo poteri consultivi e i suoi membri – 5 per ogni Stato, di

cui almeno uno deve essere donna – sono eletti dalle legislature nazionali. Nel corso del

2009, scaduti i cinque anni previsti dall’art. 25, il Protocollo sarà sottoposto a revisione,

e nel frattempo i suoi poteri sono limitati all’esaminare, discutere e esprimere opinioni

su ogni materia, come ad esempio il rispetto dei diritti umani, il consolidamento della

democrazia, la promozione della pace, della stabilità e della good governance.

L’elezione dei parlamentari dovrebbe rispecchiare gli equilibri politici esistenti nello

Stato membro, ma al momento non vi è una procedura comune di elezione dei membri

del Parlamento Africano da parte delle singole legislature. Ci sono state delle proteste,

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come da parte della Nigeria, per il principio di rappresentanza che prevede lo stesso

numero di membri indipendentemente dalla popolazione di ogni Stato membro.

Rimangono incertezze riguardo al rapporto tra il Parlamento e gli altri organi

dell’Unione, poiché il Protocollo non dice niente a riguardo. Come gli altri organi, il

Parlamento risente molto della mancanza di fondi e risorse.

La Commissione

La Commissione è il segretariato e l’organo esecutivo dell’Unione: dirige

l’organizzazione nel periodo tra i summit e implementa le decisioni prese dagli altri

organi. È composta da un presidente, da un vice presidente e dai commissari titolari dei

rispettivi dipartimenti, che sono tutti eletti dall’Assemblea su proposta del Consiglio

Esecutivo. I membri devono essere due per ogni regione geografica, almeno uno dei

quali deve essere una donna. Le funzioni della Commissione sono vastissime: custodire

i documenti dell’Unione, organizzare e gestire gli incontri, preparare il programma e il

budget da sottoporre agli organi politici, promuovere la pace, la sicurezza e la stabilità,

fornire supporto operativo al Consiglio di Pace e Sicurezza, e molto altro. Alcuni autori

ritengono che la Commissione stia andando oltre il suo ruolo neutrale di struttura

amministrativa per interferire con gli organi politici, specialmente con il Consiglio di

Pace e Sicurezza11.

Il Consiglio Economico, Sociale, e Culturale (ECOSOCC)

Come recita l’art. XXII dell’Atto Costitutivo, l’ECOSOCC è un “organo

consultivo composto da differenti gruppi sociali e professionali degli Stati membri

dell’Unione”. Inaugurato il 29 marzo del 2005 ad Addis Abeba, punta a dare alla società

civile africana un ruolo all’interno della formulazione delle politiche dell’Unione e dei

processi decisionali. E’ formato da 150 Organizzazioni Non Governative, così

suddivise: due per ogni Stato membro, dieci operanti a livello regionale e otto a livello

continentale, venti dalla diaspora africana (al di fuori del continente), sei nominate dalla

Commissione. I suoi membri devono essere ugualmente divisi per genere, e almeno il

50% deve essere tra i 18 e i 35 anni. L’ECOSOCC svolge il suo ruolo tramite la

proposta di concreti programmi e studi, ma la sua funzione principale rimane quella si 11 S. MAKINDA, W. OKUMU, The African Union : challenges of globalization, security, and governance, 2007, Routledge, London and New York, pp. 50-52.

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essere un ponte tra la popolazione civile e i governi. Per questo le si affida il compito di

promuovere la partecipazione popolare, i principi democratici, i diritti umani e di

consolidare i rapporti tra gli Stati membri e le ONG. In passato gli Stati si sono spesso

mostrati poco propensi a collaborare con le ONG, temendo interferenze esterne.

L’ECOSOCC potrebbe avere un importante ruolo all’interno dell’Unione, ma si

ritrova davanti ostacoli come la mancanza di fondi, l’astio di molti governi e la

debolezza di molte ONG.

Parte terza: L’architettura africana per la pace e la sicurezza

E’ necessario premettere che, avendo l’Unione Africana solo pochi anni di vita, le

informazioni a riguardo sono scarse e qualsiasi analisi in merito al suo operato

risulterebbe precoce, considerando che alcuni meccanismi previsti devono essere ancora

attuati ed altri sono appena entrati in attività. E’ possibile quindi esaminare la struttura

per come si presenta sulla carta e il lavoro svolto fino ad oggi, ma è ancora troppo

presto per formulare giudizi definitivi sull’efficacia dell’Unione nel campo del

mantenimento e ristabilimento della pace.

1 – Politica Africana Comune per la Difesa e la Sicurezza

La solenne dichiarazione sulla Politica Africana Comune per la Difesa e la

Sicurezza (Common African Defence and Security Policy – CADSP) è stato adottata

durante la sessione straordinaria dei capi di Stato e di governo a Sirte (Libia), il 28

febbraio 2004, come implementazione dell’art. IV(d) della Atto Costitutivo e dell’art.

III(e) del Protocollo per l’istituzione del Consiglio di Pace e Sicurezza12. Come dice il

punto 4, “l’adozione di una politica comune per la difesa e la sicurezza per l’Africa è

basata sulla comune percezione africana di ciò che è necessario compiere

collettivamente da parte Stati africani per assicurare che gli obiettivi e gli interessi della

difesa e della sicurezza comuni dell’Africa, specialmente come segnalato negli artt. III e

IV dell’Atto Costitutivo dell’Unione Africana, siano garantiti davanti alle minacce

comuni al continente nel suo insieme”. La dichiarazione, quindi, presenta un quadro

12 Solemn Decleration on a Common African Defence and Security Policy, in http://www.africa-union.org/News_Events/2ND%20EX%20ASSEMBLY/Declaration%20on%20a%20Comm.Af%20Def%20Sec.pdf

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dell’attuale situazione dell’architettura africana per la pace e la sicurezza,

comprendendo: definizione e scopi, principi e valori, obiettivi, l’elenco degli organi e

meccanismi implicati, le relazioni con le Nazioni Unite e altre organizzazioni

internazionali, e infine gli strumenti e i meccanismi continentali e regionali.

Nelle definizioni, vi è la forte presa di coscienza che i concetti di sicurezza e

difesa vadano oggi oltre la visione stato centrica di integrità territoriale e sovranità

nazionale: non è più solo una questione militare, ma concerne la protezione degli

individui e dei loro diritti (human security). Questa nuova nozione multi-dimensionale

comprende i diritti umani, la partecipazione popolare ai processi decisionali, il diritto

alla salute e all’educazione, il diritto alla difesa contro la povertà e molto altro. La

risposta all’instabilità quindi non può essere esclusivamente militare, ma anche politica,

economica e sociale. Questo approccio appare chiaro anche nell’elencare le minacce

comuni, che sono divise in interne o esterne al continente. Le prime sono a loro volta

suddivise in quattro gruppi (conflitti e tensione inter-statuali, conflitti e tensioni intra-

statuali, instabilità post-conflitto, e altri fattori), e variano dall’aggressione alla

violazione massiva dei diritti umani e alle epidemie. Le seconde includono crisi

internazionali, mercenarismo, terrorismo e altri fattori esterni.

I principi e gli obiettivi, oltre a quelli compresi nell’Atto Costitutivo dell’Unione,

puntano soprattutto allo sviluppo della solidarietà e dell’interdipendenza tra gli Stati

africani. Appare chiaro come ci sia bisogno di andare oltre le rivalità e la diffidenza che

hanno bloccato a lungo la crescita del continente e che hanno favorito al contrario il

dilagarsi dei conflitti. Tra gli obiettivi più importanti c’è sicuramente quello di

armonizzare e implementare i meccanismi e gli organismi che si occupano della

sicurezza e della difesa, per evitare che il mancato coordinamento porti strumenti

potenzialmente efficaci a un nulla di fatto. Gli attori che si devono occupare

dell’implementazione della politica comune di difesa e sicurezza sono l’Assemblea, il

Consiglio di Pace e Sicurezza, la Commissione e i gruppi economici regionali. Anche in

questo caso, si ribadisce il concetto di una necessaria coordinazione tra i vari attori,

cercando di dare al Consiglio di Pace e Sicurezza il ruolo di “organo-ombrello” (punto

27).

Il documento si conclude con l’elenco degli atti che fungono da meccanismi

continentali (dall’Atto Costitutivo al NEPAD) e con quello dei meccanismi regionali,

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53

ossia le Comunità Economiche Regionali (RECs). La proliferazione di queste negli

ultimi trent’anni si può leggere come una risposta all’inefficienza dell’OUA, e come la

ricerca di soluzioni alternative da parte degli Stati. Il numero di tali enti è però poi

cresciuto in una maniera incontrollata, creando serie inefficienze, duplicati,

sovrapposizioni e sprechi di risorse. Per quanto molte di queste siano esclusivamente

economiche, altre hanno ampliato le loro funzioni con politiche di difesa e sicurezza,

istituendo propri meccanismi per la prevenzione, le gestione e la risoluzione dei

conflitti, e acquisendo esperienze che potrebbero risultare utili per la missione

dell’Unione. Le principali organizzazioni sono: the East African Community (EAC), the

Economic Community of Western African States (ECOWAS), the Economic

Community of Central African States (ECCAS), the Intergovernmental Authority on

Development (IGAD), the Southern African Development Community (SADC), the

Union of Arab Maghreb (UMA), the Community of Sahelo-Saharan States (CEN-

SAD), the Common Market of Eastern and Southern Africa (COMESA). L’ECOWAS,

per esempio, ha già avuto esperienze di peace support operation in Liberia e in Sierra

Leone, e ha sviluppato meccanismi come la Commissione di Difesa e Sicurezza, il

Consiglio di Sicurezza e Mediazione, il Consiglio degli Anziani, sistemi di Early

Warning, e un Monitoring group per il cessate il fuoco. Anche l’IGAD dispone di simili

strumenti, come anche la SADC, che ha avuto un ruolo maggiore nei conflitti nella

regione dei Grandi Laghi e dell’Angola. Rilevanti per la costruzione dell’architettura

per la pace e la sicurezza dell’UA potrebbero essere l’Organo per la prevenzione e il

Consolidamento della Pace e la Sicurezza dell’Africa Centrale dell’ECCAS, il

Consiglio di Difesa Comune dell’UMA, la peace support operations della CEN-SAD

nella Repubblica Centrafricana e in Chad.

Durante il periodo di attività dell’OUA, il coordinamento tra quest’ultima e i

RECs non è mai stato definito con esattezza, in quanto non si è mai andato oltre l’invito

a armonizzare le strutture. Alla nascita dell’Unione Africana, la consapevolezza

dell’importanza dei RECs risulta all’art. III(l) (“coordinare e armonizzare le politiche tra

le esistenti e le future Comunità Economiche Regionali”), e ancora più peso è dato dal

Protocollo del Consiglio di Pace e Sicurezza agli artt. VII(j), VIII (10.c), X (2.c), XII

(2.b), art. XVI (che titola “Relazioni con i meccanismi regionali per la prevenzione, la

gestione e la risoluzione dei conflitti). Proprio in base a quest’ultimo articolo, a giugno

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del 2008 è stato concluso un Memorandum of Understanding tra l’Unione e i RECs, in

cui all’art. IV (Principi), par. ii si riconosce “la responsabilità primaria dell’Unione nel

mantenimento della pace, della sicurezza e della stabilità in Africa, secondo l’art. XVI

del Protocollo del Consiglio di Pace e Sicurezza”.

2 – Il centro dell’architettura: il Consiglio di Pace e Sicurezza

La decisione adottata dalla 37esima sessione ordinaria dell’Assemblea dei capi di Stato e di governo dell’OUA, a Lusaka (Zambia) nel 200113, prevedeva che fosse incorporato come uno degli organi dell’Unione anche il Meccanismo per la Prevenzione, la Gestione e la Risoluzione dei Conflitti dell’OUA – istituito a sua volta a seguito della Dichiarazione del Cairo del 199314. L’Assemblea, attraverso i poteri ex art. 5.2 dell’Atto Costitutivo, ha deciso la creazione del Consiglio di Pace e Sicurezza (CPS) e ne ha adottato il Protocollo durante la sessione inaugurale dell’organizzazione panafricana, a Durban nel luglio del 2002. Ratificato nel 2003, il Consiglio di Pace e Sicurezza è stato inaugurato nel marzo del 2004.

Il Consiglio di Pace e Sicurezza nasce come “organo di decisione permanente per la prevenzione, le gestione e la risoluzione dei conflitti” (art. II.1). I suoi obiettivi si possono riassumere come segue (art. III): (a), promuovere la pace, la sicurezza e la stabilità in Africa; (b), anticipare e prevenire i conflitti, o impegnarsi nel peace-making e peace-building quando il conflitto è già in atto; (c), promuovere e implementare il peace-building e la ricostruzione post-conflitto; (d), armonizzare gli sforzi continentali per prevenire e combattere il terrorismo; (e), sviluppare una politica di difesa comune; (f), promuovere e incoraggiare la good governance. I principi elencati all’art. IV sono l’espressione del compromesso tra diversi approcci: da un parte vi sono principi propriamente statisti come il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale (punto e) e il divieto di interferenza negli affari interni (punto f), e dall’altra vi sono i principi introdotti con l’Atto Costitutivo dell’Unione come il diritto dell’Unione di intervenire, in seguito alla decisione dell’Assemblea, negli Stati membri (punto j) e il diritto di uno Stato membro di richiedere l’intervento (k). L’UA è l’unica organizzazione internazionale che ha il potere di intervenire, e quindi interferire, all’interno di uno Stato

13 AHG/Dec. 1 (XXXVII), in http://www.africa-union.org/root/au/Documents/Decisions/hog/11HoGAssembly2001.pdf 14 AHG/DECL.3 (XXIX), in http://www.africa-union.org/root/au/Documents/Decisions/hog/3HoGAssembly1993.pdf

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membro (escludendo le Nazioni Unite). Il potere è mitigato dal fatto che può intervenire solo nel caso di “gravi circostanze, nominalmente: crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità”, e ciò implica grande soggettività, specialmente poiché a decidere è un organo politico.

Molto interessante è la composizione del CPS (art. V): 15 membri, dei quali 10 eletti per un periodo di due anni, e 5 eletti per un periodo di tre anni, in modo da garantire continuità. I membri, eletti dall’Assemblea, sono selezionati secondo il principio di rappresentanza regionale e di rotazione, e devono soddisfare criteri come l’impegno a sostenere i principi dell’Unione, il contributo alla promozione e al mantenimento della pace e della sicurezza, il contributo al Fondo per la pace, la partecipazione a missioni, il rispetto per il governo costituzionale, la presenza di una missione permanente sufficiente grande presso l’Unione e presso le Nazioni Unite. Contrariamente a quanto accade per il Coniglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, i membri uscenti possono essere rieletti immediatamente.

Le funzioni del CPS, elencate all’art. VI, ricoprono le seguenti aree: la promozione della pace e della sicurezza; la prevenzione, la gestione e la risoluzione delle controversie; la consolidazione dei processi di pace e la ricostruzione post-conflitto; e l’azione umanitaria e la gestione delle catastrofi. I poteri attraverso cui il Consiglio può operare, in collaborazione con il Presidente della Commissione, comprendono: anticipare e prevenire dispute e conflitti; intraprendere operazioni di peace-making e peace-building, autorizzare il dispiegamento delle missioni e deciderne le linee guida; raccomandare all’Assemblea di intervenire secondo l’art. 4(h) dell’Atto Costitutivo; esaminare e intraprendere azioni nel caso di minaccia all’indipendenza e alla sovranità di uno Stato membro; sostenere azioni umanitarie nel caso di conflitti armati e calamità naturali. L’autorità del CPS è riscontrabile anche nell’Atto Costitutivo all’art. IX.2: “l’Assemblea può delegare qualsiasi dei suoi poteri e funzioni agli altri organi dell’Unione”. Si può quindi presumere che l’Assemblea deleghi parte dei suoi poteri al CPS in quanto organo centrale per il mantenimento della sicurezza e della pace. Inoltre, il punto 3 del art. VII del Protocollo, ribadisce che “gli Stati membri sono d’accordo nell’accettare e implementare le decisioni del Consiglio di Pace e Sicurezza”.

Il CPS si incontra a tre livelli: Rappresentanti Permanenti (almeno due volte al mese), Ministri o Capi di Stato e di Governo (entrambi almeno una volta l’anno). I meeting sono chiusi, ma possono essere invitati Stati coinvolti nel conflitto o che

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ritengano coinvolti i loro interessi, e anche meccanismi regionali o organizzazioni internazionali o società civili che ne abbiamo un interesse, senza diritto di voto. Nel caso uno dei membri fosse parte del conflitto in questione, non gli è consentito partecipare alla discussione né alla decisione.

Il Consiglio è affiancato dal Presidente della Commissione, che può (art. X.2): richiamare l’attenzione del Consiglio su qualsiasi questione ritenga opportuna; prestare buoni uffici; e deve (art. X.3): assicurare l’implementazione delle decisioni del Consiglio e tenerlo informato riguardo gli sviluppi; assicurare l’implementazione delle decisioni dell’Assemblea in conformità con l’art. 4(h) e (j) dell’Atto Costitutivo; fornire report periodici per poter permettere al Consiglio di svolgere le sue funzioni efficacemente. Il Presidente della Commissione è assistito dal Commissario a capo del Dipartimento di Pace e Sicurezza, dove si stabilisce anche il segretariato del CPS. Durante la presidenza di Alpha Oumar Konaré, al tempo presidente in carica del Mali, la Commissione sembrava disporre di un potere più che amministrativo: dovendo tenere informato il CPS e redigere rapporti e raccomandazioni, sembrava approfittare di tutte le possibilità per indirizzare l’operato del Consiglio. Ad ogni modo, adesso che la presidenza è passata a Jean Ping, Ministro degli Esteri del Gabon, mai stato capo di Stato, è difficile pensare che la Commissione possa andare al di là del suo ruolo di organo operativo del CPS15. Oltre che dalla Commissione, il CPS è assistito da un Panel of Wise (PoW), da un sistema continentale di Early Warning (Continental Early

Warning System – CEWS), dall’African Standby Force (ASF) e da un Fondo Speciale (art. II.2). Il Panel of Wise (letteralmente “la commissione dei saggi”, art. XI), è costituito da cinque personalità africane che abbiano dato straordinario contributo alla causa della pace, della sicurezza e dello sviluppo del continente. I membri sono selezionati dal Presidente della Commissione su base regionale e sono nominati dall’Assemblea per un periodo di tre anni. La funzione principale del PoW è quella di consigliare il CPS e l’Assemblea. Il secondo meccanismo a servizio del CPS è il sistema continentale di Early Warning (art. XII), che consiste in un centro di osservazione e controllo denominato “The Situation Room”, responsabile della raccolta di informazioni e dati, secondo un modulo di indicatori da esso predeterminato. Ad esso dovrebbero essere direttamente collegati le unità di controllo dei meccanismi regionali. Nel frame 15 Paul D. WILLIAMS, The Peace and Security Council of the African Union: Evaluating an embryonic international institution, ISA annual convention, San Francisco, 26-30 March 2008.

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work adottato nel dicembre del 2006 per la messa in opera del CEWS, si prevede che il meccanismo possa entrare in funzione nel corso del 200916.

L’art. XIII fornisce al CPS lo strumento necessario allo svolgimento di missioni di peace supporting e di interventi in base all’art. 4 (h) e (j) dell’Atto Costitutivo, ossia l’African Standby Force. La forza dovrebbe essere costituita da contingenti multidisciplinari, con componenti civili e militari pronti a entrare in azione rapidamente quando richiesto. Si richiede ai membri di collaborare per stabilire dati contingenti, anche attraverso i meccanismi dei RECs. L’ASF sarà basata su cinque brigate fornite dalle cinque regioni del continente (Est, Ovest, Nord, Sud e Centro). Sono sei gli scenari previsti in cui potrebbe attuare17:

1. Consulenza militare o missione politica 2. Missione di osservatori in collaborazione con le Nazioni Unite 3. Missione di osservatori senza supporto 4. Missione di peace keeping o missione preventive 5. Complesse missioni multidimensionali di peace keeping 6. Intervento secondo l’art. 4 (h) e (j) dell’Atto Costitutivo

Secondo l’art. XV del Protocollo, l’ASF deve essere preparata per intraprendere

anche missioni umanitarie. Si prevede che l’ASF sarà operativa nel 2010. Il CPS sarà consigliato per le questioni militari dal Comitato Militare (MSC), composto da ufficiali degli Stati membri del Consiglio.

Il Consiglio di Pace e Sicurezza comprende nel suo meccanismo anche il Parlamento Pan Africano (art. XVIII), la Commissione Africana sui Diritti Umani e dei Popoli (ACHPR) (art. XIX), la società civile (art. XX), oltre ovviamente alla collaborazione con le Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali (art. XVII). Infine, per provvedere alle necessarie risorse finanziari si istituisce un Fondo Speciale, denominato Fondo per la Pace (art. XXI), le cui operazioni saranno gestite dalle regole finanziarie e dai regolamenti dell’Unione.

16 Framework for the operationalization of the Continental Early Warning System, in http://www.africa-union.org/root/au/publications/PSC/Early%20Warning%20System.pdf 17 Contenuti nel Policy framework for the establishment of the African Standby Force and the Military Committee, in http://www.africa-union.org/root/AU/AUC/Departments/PSC/Asf/Documents.htm

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L’architettura creata dall’Unione Africana (fig.1) sembra avere tutte le carte in

regola per poter conseguire i suoi obiettivi: autorità, organi consultivi e tecnici, un

sistema di monitoraggio per interventi immediati, una forza armata di rapido

dispiegamento, un fondo per il finanziamento. Tuttavia, l’implementazione di questo

meccanismo non si presenta certamente facile.

Figura 1: Architettura di pace e sicurezza dell’Unione Africana. Fonte: S. MAKINDA, W. OKUMU, The African Union : challenges of globalization, security, and governance, 2007, Routledge

Concretamente, l’ostacolo maggiore è il finanziamento per la creazione e il

mantenimento degli organi, della forza armata e ovviamente delle missioni: ad esempio,

non è ben definito da dove dovrebbero arrivare i finanziamenti per le brigate regionali,

se dall’Unione o dalla regioni stesse. A questo si sommano le capacità pratiche e

logstiche dell’Unione e dei suoi Stati membri di mettere in piedi tale struttura, come

l’addestramento delle truppe e il funzionamento della Situation Room. Ulteriore

difficoltà è data dall’anarchia di certi frangenti, dove è complicato persino individuare

le parti in conflitto, e di conseguenza lo è anche applicare gli strumenti di risoluzione. E

ultima ma non meno importante, è la volontà politica di darà attuazione alla strategia di

difesa e sicurezza comune. L’Assemblea ha il potere di intervenire in uno Stato

membro, ma saprà utilizzarlo? Né l’Atto Costitutivo né il Protocollo chiariscono l’esatto

meccanismo per le decisioni dell’Assemblea ex art. IV (h). Per il momento,

l’utilizzazione di tale procedimento rimane un’ipotesi lontana, visto e considerato che la

ASSEMBLEA

Consiglio di Pace e Sicurezza

Presidente della Commissione e Dip. di Pace e Sicurezza

Consiglio Esecutivo

RECs Altri organi dell’Au:

PAP, ECOSOCC, ACHPR

Pres. della Commissione PoW CEWS ASF Fondo per la pace

MSC

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risaputa terribile situazione del Darfur non è ancora stata considerata come “grave

circostanza”, presupposto indispensabile perché si possa attuare l’art. IV (h).

Durante i suoi quattro anni di operato, il Consiglio di Pace e Sicurezza:

! ha decretato quattro sospensioni per cambio di governo incostituzionali:

Togo nel 2005, Mauritania nel 2005 e nel 2008, Guinea nel 2008

! ha supportato un processo elettorale: African Union Mission for Support to

the Elections in Comoros nel 2006

! si è occupato di conflitti interstatatuali e intrastatali, tra cui: Burundi,

Chad, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo e altri.

! ha autorizzato tre18 missioni di peace-keeping: la African Mission in Sudan

(AMIS – 2004/2007, diventa African Union - United Nations Hybrid

Operation in Darfur - UNAMID), African Union Electoral and Security

Assistance Mission to the Comoros (2007 - MAES), la African Union

Mission to Somalia (AMISOM – 2007/presente).

3 – Le “peace support operations” dell’UA

In quest’ultima parte del capitolo, saranno presentate le missioni di peace keeping

intraprese dall’Unione Africana, compresa l’AMIB. Le missioni in cooperazione con le

Nazioni Unite saranno invece analizzate nel III capitolo.

African Mission in Burundi – AMIB A seguito del cessate il fuoco del 7 ottobre e 2 dicembre 2002 tra il Governo di

Transizione del Burundi e il CNDD-FDD di Ndayikengurukiye, il PALIPEHUTU-FNL

di Mugabarabona e il CNDD-FDD di Nkurunziza, risultati dall’Iniziativa Regionale di

Pace dopo più di dieci anni di guerra civile, l’Organo Centrale del Meccanismo di

Prevenzione, Gestione e Risoluzione delle Controversie approvò il dispiegamento di

una missione africana in data 3 febbraio 200319. I contingenti furono forniti da Sud

Africa (Stato guida), Etiopia e Mozambico, e l’Organo si appellò a tutti gli Stati membri 18 !La African Mission in Burundi (AMIB – 2003/2004) è stata la prima missione di peace keeping sotto l’egida dell’Unione Africana, ma è stata autorizzata dall’Organo Centrale del Meccanismo di Prevenzione, Gestione e Risoluzione delle Controversie e non dal CPS che doveva ancora entrare in funzione. 19 Central Organ/MEC/AHG/Comm.(VII), in: http://www.africa-union.org/News_Events/Communiqu%C3%A9s/Communique_E9_20_Eng_3feb03.pdf

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e alla comunità internazionale per avere il supporto finanziario e logistico necessario.

La risoluzione fu adottata dall’Organo riunito a livello di capi di Stato e di governo.

Il 2 aprile 2003 l’Organo si riunì nuovamente, a livello di ambasciatori, per

decidere le modalità di dispiegamento della missione. La durata prevista era di un anno,

alla scadenza del quale era possibile un rinnovo ogni sei mesi. Gli obiettivi del mandato

prevedevano: sorvegliare l’implementazione del cessate il fuoco, assistere il processo di

disarmo, contribuire alla stabilità, e soprattutto operare al fine di assicurare condizioni

favorevoli al dispiegamento di una missione di peace keeping sotto l’egida dell’ONU. Il

mandato dell’AMIS comprendeva i seguenti incarichi:

! stabilire e mantenere i collegamenti tra le Parti

! monitorare e verificare l’implementazione degli Accordi per il cessate il

fuoco

! favorire l’attività della Joint Ceasefire Commission (JCC) e dei Comitati

Tecnici per la stabilizzazione e la ristrutturazione della difesa nazionale e

delle forze di polizia

! difendere le aree di riunione identificate e le aree di disimpegno

! facilitare un passaggio sicuro alle Parti durante spostamenti pianificati alle

aree di riunione identificate

! facilitare e fornire assistenza tecnica ai processi di disarmo, smobilitazione

e reintegrazione

! facilitare la distribuzione di aiuti umanitari, anche a rifugiati e a sfollati

! coordinare le attività della missione con la presenza delle NU in Burundi

! provvedere alla protezione speciale per i leader al rimpatrio

Le regole d’ingaggio seguivano il diritto internazionale e il principio di legittima

difesa, mentre l’accordo tra l’UA e il Burundi per il dispiegamento delle forze, concluso

un mese più tardi, permetteva l’accesso e forniva garanzia di libertà di movimento alle

truppe.

Sono circa 3,300 i peace keepers (1,600 Sud Africa, 1,300 Etiopia, 228

Mozambico) dell’Unione Africana che hanno preso parte alla missione, a cui si

sommano circa 40 osservatori provenienti da Burkina Faso, Gabon, Mali, Togo e

Tunisia. Nel febbraio del 2004, le Nazioni Unite ritennero che la situazione fosse

sufficientemente stabile per l’invio della missione, stabilita con la risoluzione 1545

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(2004). Per il primo periodo, a partire dal 1 giugno 2004, le truppe dell’AMIS furono

assorbite dalla United Nation Operation in Burundi (ONUC), che venne poi rinforzata

fino a raggiungere un massimo di personale di 5,665.

African Mission in Sudan – AMIS L’AMIS nacque come missione di soli osservatori, in seguito all’Humanitarian

Ceasefire Agreement dell’8 aprile 2004, tra il Governo del Sudan da una parte e il

Sudan Liberation Movement/Army e il Justice and Equality Movement dall’altra.

L’Accordo tra le Parti prevedeva l’istituzione di una commissione per la supervisione

del cessate il fuoco e un Protocollo per l’accesso degli aiuto umanitari. La risoluzione

del Consiglio di Pace e Sicurezza si limitava quindi al dispiegamento di osservatori,

“with the required civilian component and, if necessary the protection element, to

support the work of the Ceasefire Commission (CFC)” 20. La missione di osservatori

militari aveva il ruolo di monitorare il cessate il fuoco e di riferirne qualsiasi violazione

alla CFC. La forza di protezione che accompagnava il contingente aveva solo mandato

di proteggere gli osservatori, non i civili, e non era autorizzata ad intervenire nel caso di

scontro tra le parti. Fu presto chiaro che una semplice missione di osservatori non

poteva garantire a lungo il cessate il fuoco, così il 20 ottobre 2004 il CPS decise l’invio

di una forza di peace keeping di 3,320 truppe, detta AMIS II. Nel mandato era compreso

il monitoraggio e il supporto alla stabilità, la facilitazione degli aiuti umanitari e in

generale il contributo alla sicurezza, ma non vi si includeva la protezione dei civili, né

l’assistenza al governo, né la smobilitazione e il disarmo dei combattenti. Nel corso del

2004, per rendere più efficiente il lavoro della Commissione dell’UA, fu istituito il

Darfur Integrated Taskforce (DITF) all’interno del dipartimento di Pace e Sicurezza.

Il contingente fu ulteriormente ampliato a seguito del communiquè del 28 aprile

2005, su suggerimento del Comitato Militare del PSC, vista l’incontrollabilità della

situazione e la mancata implementazione degli Accordi tra le parti in conflitto,

arrivando così a 6,171 elementi, dei quali 1,560 di polizia civile21. Con la firma del

Darfur Peace Agreement, il 5 maggio 2006, la missione AMIS assunse il nuovo

20 PSC/AHG/Comm. (X), 25 maggio 2004, in: http://www.amis-sudan.org/PSCCommuinque/2004%200511%20communique%2010th.pdf 21 PSC/PR/Comm.(XXVIII), in: http://www.issafrica.org/AF/RegOrg/unity_to_union/pdfs/centorg/PSC/2005/28com.pdf

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incarico di occuparsi e supportare la sua implementazione. Nel corso del 2006 il CPS

propose più volte di terminare il mandato per lasciare spazio ad una missione ONU, ma

il Sudan si oppose. In collaborazione con l’ONU, il Consiglio decise l’imposizione di

sanzioni a chiunque impedisse l’implementazione dell’Accordo di Pace, dando al

presidente della Commissione l’incarico di redigere la lista dei destinatari22. L’11 e 12

giugno del 2007 si tenne un incontro tra l’UA, le NU e il Governo del Sudan che portò

all’istituzione della United Nation – African Union Hybrid Operation23. La missione è

finanziata e gestita dalle Nazioni Unite, e il suo mandato prevede:

! contribuire alla restaurazione delle necessarie condizioni di sicurezza per

l’assistenza umanitaria e facilitare l’accesso degli aiuti in tutto il Darfur

! contribuire alla protezione della popolazione civile sotto imminente

attacco di violenza fisica e prevenire gli attacchi, entro le sue capacità e

area di interesse, senza pregiudicare la responsabilità del Governo del

Sudan

! monitorare e verificare l’implementazione dei vari accordi di cessate il

fuoco dal 2004, come del Darfur Peace Agreement e di eventuali accordi

successivi

! assistere il processo politico per assicurarsi che sia inclusivo, e sostenere la

mediazione comune di UA e NU al fine di ampliare e approfondire

l’impegno nel processo di pace

! contribuire alla creazione di un ambiente sicuro per la ricostruzione

economica e lo sviluppo, come anche per garantire il ritorno a casa di

rifugiati e sfollati

! contribuire alla promozione del rispetto e della protezione dei diritti umani

e delle libertà fondamentali in Darfur

! assistere la promozione dello stato di diritto in Darfur

! monitorare la situazione della sicurezza al confine con il Chad e la

Repubblica Centrafricana

22 PSC/MIN/Comm(LVIII), in: http://www.amis-sudan.org/PSCCommuinque/20060627%20Communique%20Darfur%2058th%20(Eng).doc 23 PSC/PR/Comm(LXXIX), in: http://www.iss.co.za/dynamic/administration/file_manager/file_links/PSC79COM.PDF?link_id=22&slink_id=4721&link_type=12&slink_type=13&tmpl_id=3

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La missione è autorizzata dalle Nazioni Unite con la risoluzione 1769 (2007), a

partire da non più tardi del 31 dicembre 2007 e con mandato di un anno24. Il 31 luglio

2008, il mandato è stato esteso fino al 31 luglio 2009.

African Union Mission to Somalia – AMISOM La Somalia non dispone di un governo centrale dai primi anni novanta: i tentativi di

riportare la stabilità e la normalità sono stati molti e tutti inefficaci. Nel corso del 2005 e del

2006 si sono tenute consultazioni tra Unione Africana, IGAD e Nazioni Unite, per la

progettazione di una missione di peace keeping. Nel gennaio del 2007, il Consiglio di Pace

e Sicurezza dell’Unione Africana decise di autorizzare una peace support mission, con lo

scopo di sostenere il Governo di Transizione Federale (GTF), di permettere gli aiuti

umanitari e di contribuire alla creazione di condizioni di stabilità, ricostruzione e sviluppo di

lungo termine in Somalia25. Il mandato prevede i seguenti compiti:

! sostenere il dialogo e la riconciliazione in Somalia, lavorando con tutti le

Parti interessate

! fornire protezione al GTF e alle sue istituzioni, affinchè possa svolgere le

sue funzioni

! assistere l’implementazione del Piano di Sicurezza Nazionale e di

Stabilizzazione della Somalia, particolarmente nell’effettivo ristabilimento

e addestramento di tutte le forza di sicurezza somali, tenendo a mente i

programmi già in attuazione condotti da partners bilaterali e multilaterali

della Somalia

! fornire, entro le capacità e come appropriato, supporto tecnico o di altro

genere al processo per il disarmo e la stabilizzazione

! monitorare, nell’area di interesse delle forze, la situazione della sicurezza

! facilitare, come può essere richiesto e entro le possibilità, operazioni

umanitarie, incluso il rimpatrio e la reintegrazione di rifugiati e sfollati

! proteggere il personale, le installazioni e gli equipaggiamenti, includendo

il diritto alla legittima difesa 24 S/RES/1769 (2007), in: http://daccessdds.un.org/doc/UNDOC/GEN/N07/445/52/PDF/N0744552.pdf?OpenElement 25 PSC/PR/Comm(LXXX), in: http://www.iss.co.za/dynamic/administration/file_manager/file_links/COMMSOMALIA69.PDF?link_id=22&slink_id=4015&link_type=12&slink_type=13&tmpl_id=3

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64

Si specifica da subito che la missione, con un mandato di sei mesi, è solamente preliminare al dispiegamento di una missione ONU (punto 9). Le forze previste sono composte da nove battaglioni, ma al momento sono presenti solo i battaglioni di Uganda e Burundi. Il 9 febbraio 2007, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite autorizzò la missione dell’Unione Africana, modificando le sanzioni imposte dalla risoluzione 751 (1992) per permetterne il funzionamento26.

La missione è tutt’oggi attiva: il suo mandato è stato esteso di sei mesi in sei mesi fino alla 163esima riunione del Consiglio di Pace e Sicurezza, tenutasi il 23 dicembre del 2008, dove lo stesso ha deciso di prorogare il mandato per altri due mesi a partire dal 16 febbraio 2009. Durante i due anni di operato, i frutti raccolti dall’UA sono stati veramente pochi: la situazione è vicina all’anarchia totale, le forze non sono ancora state totalmente dispiegate e c’è carenza di capacità tecniche e logistiche. Inoltre i peace keepers africani sono stati obiettivi di attacchi mirati, alcuni dei quali hanno causato delle perdite. In ogni suo communiquè, il CPS si è sempre appellato alle Nazioni Unite perché affrettassero l’invio di un contingente: è evidente però che l’organizzazione mondiale non ritenga vi siano le condizioni necessarie perché ciò avvenga. Con un banale gioco di parole, non c’è ancora nessuna pace da tenere.

African Union Electoral and Security Assistance Mission in Comoros – MAES

L’Unione Africana, e l’OUA prima di lei, è stata per lungo tempo coinvolta nelle crisi delle Comore, con il primo invio di una missione di osservatori alle elezioni locali e nazionali nel 2004 – la AU Obserserver Mission in the Comoros (MIOC) – con un mandato di quattro mesi27. Nel 2006 in previsione delle elezioni del presidente dell’Unione delle Comore e su richiesta del governo stesso, il Consiglio di Pace e Sicurezza decise l’invio di 462 militari e personale civile, con la partecipazione di Sud Africa (Stato guida), Repubblica Democratica del Congo, Mozambico, Nigeria, Rwanda, Madagascar e Mauritius, il cui mandavo prevedeva: il sostegno alla riconciliazione e la garanzia della sicurezza e della trasparenza del processo elettorale attraverso la protezione dei civili e del personale presso i seggi elettorali28. Questo permise di considerarle le prime elezioni democratiche nella storia delle isole.

26 S/RES/1744 (2007), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions07.htm 27 PSC/PR/3(VI), in: http://www.africa-union.org/Reports/29%20April%20Rpt%20of%20Chairperson%20-%20Comoros.pdf 28 PSC/PR/Comm.1(XLVII), http://www.africa-union.org/root/AU/News/Communique/2006/PSC/47th/Communiqu%C3%A9_47th_Comoros_Eng.pdf

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65

Nel 2007 seguirono ulteriori elezioni per i presidenti di ciascuna delle tre isole:

questa volta la necessità della missione derivava dall’agitazione dell’isola di Anjouan, il

cui presidente secessionista Bacar si rifiutava di lasciare l’incarico. La African Union

Electoral and Security Assistance Mission in Comors (MAES) fu autorizzata il 9

maggio 2007, con il seguente mandato29:

! favorire la creazione di sicurezza e stabilità per lo svolgimento delle

elezioni

! assicurare che le forze di sicurezza delle Comore svolgano il loro ruolo nel

garantire il normale processo delle elezioni

! monitorare il processo elettorale

! incoraggiare le parti al dialogo

! assistere e facilitare il recupero dell’autorità del governo dell’Unione

sull’isola di Anjouan

Le truppe furono fornite da Tanzania, Sud Africa, Senegal e Sudan. Nonostante il

rinvio delle elezioni da parte del governo centrale supportato dall’UA, Anjouan

confermò la rielezione di Bacar senza che la MAES potesse far nulla. Non riconoscendo

il processo elettorale legittimo, e dopo aver autorizzato la proroga della missione fino a

dicembre 200730, il Consiglio di Pace e Sicurezza decise di ampliarne il mandato31,

includendo:

! facilitare l’organizzazione delle elezioni del presidente di Anjouan e

provvedere la necessaria sicurezza perché le elezioni siano libere,

imparziali e trasparenti

! supervisionare la gendarmeria di Anjouan durante il processo elettorale e il

suo disarmo e integrazione nelle forze nazionali delle Comore

! aiutare l’istituzione di una forza di sicurezza interna nell’isola

! facilitare il ristabilimento dell’autorità dell’Unione nell’isola

29 SVENSONN, Emma, “The African Union’s Operation in the Comoros”, FOI, Swedish Defence Research Agency, Settembre 2008 http://www.foi.se/upload/projects/Africa/foir2659.pdf 30 PSC/PR/Comm(LXXXVII), in: http://www.iss.co.za/dynamic/administration/file_manager/file_links/PSC87COM.PDF?link_id=22&slink_id=4997&link_type=12&slink_type=13&tmpl_id=3 . Il Sud Africa ritirò la sua disponibilità alla partecipazione. 31 PSC/PR/Comm (XCV), in: http://www.iss.co.za/dynamic/administration/file_manager/file_links/PSC95COM.PDF?link_id=22&slink_id=5081&link_type=12&slink_type=13&tmpl_id=3

Page 69: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

66

La risoluzione prevedeva anche l’imposizione di sanzioni per il presidente di

Anjouan e i suoi sostenitori, consistenti nel congelamento dei beni e nel travel ban.

Tuttavia Bacar si oppose all’ingresso della missione nell’isola, inducendo l’Assemblea

dei capi di Stato e di governo a “richiedere a tutti i membri di fornire il necessario aiuto

al governo delle Comore per riportare il più velocemente possibile l’autorità

dell’Unione ad Anjouan e mettere fine alla crisi”32. L’intervento fu denominato

Operation Democracy in the Comoros: in seguito ad accordi e consultazioni tra l’UA, il

governo delle Comore e gli Stati impegnati, le truppe costituite da Tanzania, Senegal e

Sudan (con l’appoggio logistico della Libia) sbarcarono sull’isola di Anjouan il 25

marzo del 2008, prendendone il controllo nel giro di un giorno. La missione è stata poi

prorogata di sei mesi il 30 aprile 200833, per assistere il governo nel riportare la sua

autorità e per sostenere tutti processi da esso derivanti. I contingenti che hanno preso

parte alla Operation Democracy si sono ritirati, come presumibilmente farà il personale

militare MAES, lasciando sul campo solamente la componente civile.

Considerazioni sull’operato delle “peace support operation” dell’UA

E’ ancora presto per poter parlare di successo o fallimento dell’operato

dell’UA, in quanto l’esito e le conseguenze a lungo termine delle missioni presentate si

potranno conoscere solo tra qualche tempo. Ad ogni modo, è intanto possibile fare delle

considerazioni generali e riscontrare alcuni tratti comuni.

La volontà di trovare “soluzioni africane ai problemi africani” ha portato l’Unione

ad autorizzare quattro missioni in sei anni di esistenza: già questo può considerarsi un

buon risultato, ricordando soprattutto l’inefficienza e l’inoperosità dell’OUA. C’è da

dire, però, che la buona volontà non basta: per quanto nella teoria ci siano tutti gli

strumenti per fare bene, nella pratica la mancanza di risorse materiali e finanziarie

costituisce un ostacolo insuperabile per le deboli forze dell’organizzazione. A parte la

MAES (in quanto decisamente più limitata come estensione), tutte le altre missioni

erano e sono in carenza cronica di truppe, equipaggiamento e ogni altro strumento 32 Assembly/AU/Dec.186 (X), in: http://www.africa-union.org/root/au/Conferences/2008/january/summit/docs/decisions/Assembly.Dec_171%20-%20192%20_X_%20-%20Addis_February_2008.pdf 33 PSC/PR/Comm(CXXIV), in: http://www.iss.co.za/dynamic/administration/file_manager/file_links/PSC124COM.PDF?link_id=22&slink_id=6224&link_type=12&slink_type=13&tmpl_id=3

Page 70: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

67

necessario. Tutte le missioni sono state in (gran) parte finanziate da partner

internazionali e da altre organizzazioni – l’Unione Europea su tutte – che spesso hanno

fornito anche supporto logistico, come ad esempio il trasporto delle truppe. In nessuna

delle missioni (escludendo nuovamente la MAES) sono stati dispiegati tutti i

contingenti disposti dal mandato: è da vedere se con l’implementazione dell’African

Standby Force si potrà colmare questa lacuna e se l’Unione effettivamente disporrà del

numero necessario di personale.

Le tre più grandi missioni (AMIB, AMIS, AMISOM) sono state autorizzate per

fare da “apripista” a un successivo dispiegamento di forze ONU, con lo scopo di creare

condizioni sufficientemente favorevoli e stabili. Punto forte dell’Unione sta proprio

nella sua africanità, che le permette di ottenere più facilmente la fiducia dei governi: nel

caso del Darfur, per esempio, è stato possibile autorizzare l’AMIS, mentre il Sudan

rifiutava un intervento targato ONU, permesso solo dopo tre anni di dialogo. Punto

debole, invece, sta nella scarsa credibilità di molti membri che prendono parte alle

missioni: quando la democrazia è ristabilita da Stati certamente non democratici, c’è da

chiedersi se non vi siano secondi fini oltre quelli della difesa di principi da loro stessi

non perseguiti all’interno dei loro confini. La cooperazione tra Consiglio di Sicurezza e

Consiglio di Pace e Sicurezza è molto stretta, come si vede dai richiami reciproci nelle

risoluzioni. È molto interessante capire chi dei due ritenga di avere responsabilità

primaria nel mantenimento della pace in Africa: nel Protocollo del Consiglio di Pace e

Sicurezza, l’art. XVI dice che “i meccanismi regionali sono parte di una più grande

architettura della sicurezza dell’Unione, la quale ha responsabilità primaria nella

promozione della pace, della sicurezza e della stabilità in Africa” (corsivo mio), mentre

l’art. XVII dice che “il CPS deve cooperare e lavorare a stretto contatto con il Consiglio

di Sicurezza delle Nazioni Unite, il quale ha responsabilità primaria per il

mantenimento della pace e della sicurezza internazionale” (corsivo mio). La missione in

Somalia è autorizzata dal Consiglio di Sicurezza: bisogna chiedersi però se tale

autorizzazione è necessaria, dato il fatto che non si tratta di uso della forza e che tra

l’Unione Africana e il governo di transizione somalo vi è un accordo. Quando invece la

forza è stata usata nell’Operation Democracy, il Consiglio di Sicurezza non ha espresso

opinioni a riguardo: è da vedere se la risoluzione 1809, uscita due settimane dopo, in cui

il Consiglio si dice soddisfatto della cooperazione e dei risultati raggiunti dalle

Page 71: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

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organizzazioni regionali e in particolare con l’UA, sia collegata o meno a quanto

avvenuto nelle Comore34. I rapporti tra Unione Africana e Nazioni Unite saranno

approfonditi con maggiore attenzione nel III capitolo.

La Operation Democracy può essere considerata la prima missione di peace

enforcement dell’Unione Africana, in quanto l’uso della forza non è stato limitato alla

legittima difesa, ma in un vero e proprio attacco. Non vi è stata violazione dell’art. II.4

della Carta delle Nazioni Unite, in quanto l’operazione era stata autorizzata dal e

condotta con il governo centrale. Può sicuramente essere considerato un successo per

l’UA, a maggior ragione pensando che non vi è stato supporto da partner esterni. E’

comunque difficile paragonare la missione alla Comore con quelle in atto in Somalia e

Darfur, e non è pensabile che la riuscita della prima porti contributi concreti alle

seconde, ma se non altro porta credibilità a livello internazionale. E forse anche un po’

più di ottimismo per il futuro.

34 S/RES/1809 (2008), in: http://daccessdds.un.org/doc/UNDOC/GEN/N08/308/12/PDF/N0830812.pdf?OpenElement

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69

CAPITOLO III LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE

Il seguente capitolo – l’ultimo – è dedicato alla cooperazione internazionale

dell’Unione Africana con le Nazioni Unite e l’Unione Europea, che rivestono un ruolo

fondamentale nel sistema africano di pace e sicurezza. Per entrambe le organizzazioni si

presenta prima il quadro giuridico su cui poggia la cooperazione, per poi esporne gli

aspetti concreti, come le missioni.

Parte prima: Le Nazioni Unite 1 – Il capitolo VIII della Carta delle Nazioni Unite e le missioni per il mantenimento

della pace

La fine della guerra fredda ha segnato un punto di svolta epocale nella storia delle

relazioni internazionali: il bipolarismo rigido che aveva segnato gli ultimi 50 anni

crollava con il muro di Berlino, e nuovi paradigmi si presentavano all’orizzonte.

Sicuramente, anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha risentito in modo

particolare di questo cambiamento, ed è stato infatti proprio dai primi anni novanta che

si è iniziato a parlare con decisione della riforma del suo sistema. Tra i settori presi in

considerazione, oltre al più discusso Consiglio di Sicurezza, vi è anche quello del

capitolo VIII e più in generale dei rapporti tra le Nazioni Unite e le organizzazioni

regionali. Sono diversi gli elementi che hanno messo in risalto i limiti della Carta nel

definire il loro ruolo, come ad esempio la nascita del peace keeping, la nuova

definizione di sicurezza o lo stesso proliferare delle organizzazioni, favorito dalla

rottura dei blocchi.

Il capitolo VIII, che completa il quadro del sistema di sicurezza collettiva, contiene

solo tre articoli. Il primo di questi, l’art. 52, al par. 1, recita: “Nessuna disposizione del

presente Statuto preclude l’esistenza di accordi od organizzazioni regionali per la trattazione

di questioni concernenti il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali che si

prestino ad un’azione regionale, purché tali accordi od organizzazioni e le loro attività siano

conformi ai fini e ai principi delle Nazioni Unite”. Fin dal principio, l’ONU mostrava la

consapevolezza di non poter (e non voler) essere l’unico organismo responsabile del

mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. Appare comunque chiara la

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70

necessaria conformità degli strumenti regionali con la Carta, data anche dall’art. 103, che dà

precedenza a quest’ultima rispetto a qualsiasi altro accordo internazionale concluso dagli

Stati membri. Sempre sulla stessa linea, il par. 2 e 3 dell’art. 52 invitano gli Stati membri ad

utilizzare i meccanismi regionali per la risoluzione pacifica delle controversie locali prima

di deferirle al Consiglio di Sicurezza, specificando al par. 4 che questo non pregiudica gli

artt. 34 (possibilità del Consiglio di svolgere indagini su qualsiasi controversia) e 35

(possibilità di un membro di rivolgersi al Consiglio o all’Assemblea) dello Statuto. L’ONU

favorisce quindi il lavoro degli organismi regionali, nella speranza che possano portare a

una risoluzione pacifica senza che sia il Consiglio a dover entrare nel merito, anche se

questo non implica una sua dismissione. Su altri toni, invece, l’art 53 riserva al Consiglio la

possibilità di utilizzare gli accordi o le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la

sua direzione, specificando che nessuna azione coercitiva può essere intrapresa da queste

senza la sua autorizzazione. Quindi, se per la risoluzione pacifica delle controversie di

ordine locale la Carta sembra dare responsabilità primaria alle organizzazioni regionali,

questa priorità si inverte nel caso di azioni coercitive, come già specificato dall’art. 241.

Infine, il capitolo è chiuso dall’art. 54, che prevede che il Consiglio di Sicurezza sia tenuto

pienamente informato, in ogni momento, dell’azione intrapresa o progettata da accordi od

organizzazioni regionali. In sintesi, il capitolo VIII fissa quattro punti:

1. la necessaria conformità dell’accordo od organizzazione internazionale

con la Carta

2. la responsabilità primaria di queste per risolvere pacificamente le

controversie locali, pur salvaguardando il diritto del Consiglio di

Sicurezza di intervenire quando lo ritenesse necessario

3. l’indiscutibile responsabilità primaria del Consiglio di Sicurezza per

azioni che comportino l’uso della forza

4. l’obbligo di tenere costantemente informato il Consiglio

Appare ovvio che siano rimaste diverse zone grigie, molte delle quali – come già

detto – sono state messe in luce dell’evolversi delle relazioni internazionali. Non è definito

il tipo di cooperazione, che può essere intesa come una ripartizione delle responsabilità o

come un rapporto gerarchico. Molto verte intorno a cosa si intenda per “mezzi pacifici” e

“azioni coercitive”, come nel caso del peace keeping e delle sanzioni: il primo non ha 1 Per una trattazione completa si veda: Sergio MARCHISIO, L’ONU, Il Diritto delle Nazioni Unite, Il Mulino, Bologna, 2000, pag. 283 – 298.

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nessun tipo di riscontro nella Carta, mentre le seconde sono parte del capitolo VII

riguardante le azioni rispetto alla minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di

aggressione, di cui è responsabile il Consiglio di Sicurezza. Un primo passo verso la

definizione di questo rapporto è costituito dalla Dichiarazione sul rafforzamento della

cooperazione tra le Nazioni Unite e gli accordi o organizzazioni regionali nel mantenimento

della pace e della sicurezza internazionale del 1994, approvata dalla risoluzione

AG/RES/49/572. La Dichiarazione sottolinea il grande contributo che le organizzazioni

regionali possono apportare al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali,

considerando il loro lavoro come complementare all’attività delle Nazioni Unite. Non solo

si promuovono la diplomazia preventiva e la stretta collaborazione a favore della

prevenzione dei conflitti, ma si invitano gli organismi regionali a creare ed addestrare

gruppi di osservatori militari e civili, di missioni d’inchiesta, e di contingenti di forze di

peace keeping, da utilizzare in maniera appropriata, in coordinazione con le Nazioni Unite

e, quando necessario, sotto l’autorità o con l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.

Nonostante la centralità del Consiglio di Sicurezza sia ribadita più volte nel documento,

l’utilizzo di espressioni come “quando necessario” lasciano un certa discrezionalità

all’analisi delle situazioni e alla valutazione della necessità dell’autorizzazione. Ad ogni

modo, questa risoluzione dell’Assemblea Generale è una dimostrazione di come, dopo l’89,

il ruolo delle organizzazioni regionali sia completamente cambiato: mentre prima si trattava

sostanzialmente di patti militari nelle mani dei blocchi, adesso si dimostrano meccanismi di

fondamentale importanza per il conseguimento dei fini e dei principi della Carta.

Mantenendo questa linea, negli ultimi anni sia l’Assemblea Generale che il Consiglio di

Sicurezza hanno lavorato per la promozione della cooperazione, affidandone l’incarico

soprattutto al Segretario Generale3.

La prassi riguardante le operazioni per il mantenimento della pace condotte in

seno all’ONU (due terzi delle quali si è svolta durante gli anni 90) ha fatto emergere 2 AG/RES/49/57, in: http://www.securitycouncilreport.org/atf/cf/%7B65BFCF9B-6D27-4E9C-8CD3-CF6E4FF96FF9%7D/UNRO%20SRES%2049%2057.pdf 3 Si veda a riguardo la risoluzione dell’Assemblea Generale A/RES/61/296, in: http://www.un.org/Depts/dhl/resguide/r61.htm ; le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza S/RES/1631(2005), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions05.htm e S/RES/1809(2008), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions08.htm ; e gli statement del Presidente del Consiglio di Sicurezza S/PRST/2004/27, in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_pres_statements04.html ; S/PRST/2006/39, in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_pres_statements06.htm ; S/PRST/2007/7, in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_pres_statements07.htm ; S/PRST/2007/31, in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_pres_statements07.htm ; S/PRST/2007/42, in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_pres_statements07.htm .

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72

quelle che sono oggi considerati gli elementi tipici del peace keeping: imparzialità e

neutralità dell’operazione; consenso dello Stato territoriale; uso della forza solo per

legittima difesa. Su questo modello si sono sviluppate anche le missioni svolte dalle

organizzazioni regionali. Secondo quando detto finora, le operazioni per il

mantenimento della pace condotte al di fuori del sistema delle Nazioni Unite sono in

linea di principio lecite, salvo il caso in cui assumano carattere coercitivo e sempre che

siano rispettati i principi sopra elencati4. Tuttavia, è importante ricordare che l’art. 54

vincola le organizzazioni regionali a tenere sempre informato il Consiglio delle azioni

intraprese o progettate, restituendo così centralità e potere di controllo all’organo.

Detto questo, rimane centrale il problema della definizione di peace keeping:

rispetto alle missioni precedenti al crollo del muro, definite di prima generazione (in cui

l’obiettivo si limitava al porsi come cuscinetto tra le parti, generalmente in seguito a una

tregua o cessate il fuoco), dopo il 1989 e conseguentemente allo sblocco del Consiglio

di Sicurezza, le nuove missioni, dette di seconda e terza generazione, hanno assunto

aspetti di peace making, peace building e persino di peace enforcing5. Infatti le nuove

operazioni per il mantenimento della pace possono prevedere l’assistenza al disarmo, il

monitoraggio di elezioni, le mediazione tra la parte e molte altri funzioni che richiedono

un personale multidisciplinare. In altri casi, i contingenti di pace sono stati costretti ad

oltrepassare il mandato e ad utilizzare la forza a causa di situazioni instabili e

pericolose, arrivando ad imporre la pace e trasformandosi così in peace enforcing. Una

missione autorizzata e dispiegata secondo un mandato subisce spesso trasformazioni a

seconda dei risultati sul campo: ci sono state volte in cui si è passati dall’invio di pochi

osservatori al dispiegamento di numerosi contingenti militari. Queste evoluzioni sono

quelle che hanno causato più confusione per quanto riguarda la liceità di azioni per il

mantenimento della pace al di fuori delle Nazioni Unite, poiché possono trasformarsi in

azioni coercitive e quindi rendere necessaria l’autorizzazione del Consiglio di

Sicurezza. Nella prassi degli ultimi anni, ad ogni modo, non poche missioni hanno

implicato un uso della forza che è andato oltre la legittima difesa, specialmente nel

continente africano dove, come in Somalia, ci sono scenari vicini al livello di anarchia.

4 S. MARCHISIO, op. cit. pag. 294 e Natalino RONZITTI, Introduzione al diritto internazionale, Giappichelli Editore, Torino, 2004, pag. 353. 5 Si veda Paolo PICONE, “Il peace keeping nel mondo attuale: tra militarizzazione e amministrazione fiduciaria”, Rivista di Diritto Internazionale, 79/1, 1996, pp. 5-33.

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Si può cinicamente aggiungere che spesso vi è meno controllo sull’operato effettivo

delle forze di pace in Africa rispetto ad altri parti del mondo dove l’attenzione e

l’interesse sono più alti, lasciando quindi più libertà e più discrezionalità a chi vi opera.

Concludendo, è difficile pensare che missioni vere e proprie di peace enforcing

possano essere intraprese senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, ma si può

indubbiamente affermare che molte missioni di peace keeping vadano ben oltre le

caratteristiche di quelle prima generazione. Certamente, in qualsiasi situazione,

l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza contribuisce a dare legittimità all’azione, e

per questo andrebbe sempre ricercata, soprattutto quando si opera in contesti incerti. In

ogni caso, è oggi quasi impossibile, e forse neanche molto utile, cercare di classificare e

categorizzare i vari tipi di interventi, poiché difficilmente le missioni multidisciplinari

attuali possono rientrare sotto un’unica definizione.

2 – La cooperazione tra Nazioni Unite e Unione Africana

Nello specifico caso dell’Unione Africana, le Nazioni Unite si sono

particolarmente impegnate nella ricerca di una stretta cooperazione e nella promozione

del suo lavoro, consce degli enormi problemi che fronteggia e delle scarse risorse a sua

disposizione. Oltre allo svolgimento di sessioni del Consiglio di Sicurezza e Assemblea

Generale dedicate all’organizzazione panafricana6, il 16 novembre 2006 la

dichiarazione congiunta del Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan e del

Presidente della Commissione Alpha Oumar Konare ha presentato il Framework for the

Ten-years Capacity Building Programme for the African Union, un documento che

costituisce la cornice della strategia di cooperazione. Tra le ampie aree che ricopre,

particolare attenzione è data alle seguenti: institution- building, sviluppo delle risorse

umane e gestioni finanziarie; pace e sicurezza; diritti umani; questioni politiche, legali

ed elettorali; sviluppo sociale, economico, culturale ed umano; garanzia

dell’alimentazione e protezione ambientale. Il programma, che dovrebbe essere rivisto

ogni tre anni, comprende inter alia anche l’addestramento del personale destinato alla

missioni di mantenimento della pace, finanziamenti, supporto logistico e moltissimo

6 Si veda: S/RES/1809 (2008), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions08.htm A/RES/61/296, in: http://www.un.org/Depts/dhl/resguide/r61.htm S/PRST/2004/44, in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_pres_statements04.html , S/PRST/2007/7, in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_pres_statements07.htm

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74

altro. Nei documenti successivi, vi è sempre un richiamo all’impegno preso con questo

framework, la cui attuazione è però lasciata ad accordi ad hoc. Ciò nonostante, rimane

uno strumento chiave per lo sviluppo della cooperazione.

Un altro punto di svolta nei rapporti tra ONU e UA è stata la prima riunione

congiunta del Consiglio di Pace e Sicurezza dell’Unione Africana e del Consiglio di

Sicurezza delle Nazioni Unite il 16 giugno 2007 ad Addis Abeba, conclusa con il

rilascio di un joint communiquè in cui si possono trovare alcuni punti fondamentali per

la cooperazione7. I punti 6, 7 e 8 ribadiscono ancora una volta l’importanza della messa

in opera dell’architettura di pace e sicurezza africana in ogni sua parte, incoraggiando

l’implementazione del framework, confermando l’impegno di entrambe le parti nel

cooperare in tutti i settori tra cui la prevenzione e la gestione dei conflitti, il peace

keeping e il peace building, e riconoscendo i passi in avanti compiuti della

Commissione nell’accrescimento delle sue competenze. Il punto 9 definisce di

“particolare importanza” la costituzione dell’African Stanby Force. Riguardo le

possibilità di finanziamento all’Unione Africana, si concorda nel valutare le modalità

per sostenere il suo operato, comprese le missioni di peace keeping, ricordando che le

iniziative per la promozione della pace e della sicurezza in Africa, svolte sotto il

Capitolo VIII della Carta delle Nazioni Unite, sono portate avanti dall’UA

rappresentando tutta la comunità internazionale (punto 10). Infine, punto chiave per il

proseguo della cooperazione tra i due organi, si stabilisce di tenere riunioni in seduta

congiunta almeno una volta l’anno, a New York o ad Addis Abeba: poiché sono i due

Consigli a prendere le decisioni riguardo il mantenimento della pace e della sicurezza, è

logico che più stretta è la loro collaborazione, più facile sarà il coordinamento delle

organizzazioni e delle operazioni da queste intraprese.

Secondo quanto stabilito, il 17 aprile 2008 a New York si è tenuto il secondo

meeting tra il Consiglio di Sicurezza e il Consiglio di Pace e Sicurezza8. Ancora una

volta sono state discusse le modalità per massimizzare la cooperazione tra le due

7 UN Security Council and UA Peace and Security Council Joint Communiquè, in: http://www.amis-sudan.org/Press%20Release/PR%2020070616%20JOINT%20COMMUNIQUE%20AGREED%20BY%20THE%20UN%20SECURITY%20COUNCIL%20AND%20AU%20PEACE%20AND%20SECURITY%20COUNCIL.pdf 8 South Africa Government Information, in: http://www.search.gov.za/info/previewDocument.jsp?dk=%2Fdata%2Fstatic%2Finfo%2Fspeeches%2F2008%2F08042916451002.htm%40Gov&q=(+(aids%3CAND%3Epanel)+)&t=Foreign+Affairs+on+United+Nations+Security+Council

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75

organizzazioni, esprimendo soddisfazione per quanto attuato finora. È stato inoltre

deciso che la prossima riunione si terrà ad Addis Abeba: si può dunque iniziare a

considerare questi incontri annuali come una prassi.

Le Nazioni Unite hanno già contribuito a diversi programmi e all’assistenza delle

missioni intraprese dall’Unione Africana. In occasione della missione in Sudan, è stata

istituita una Assistance Cell presso il quartier generale dell’Unione Africana ad Addis

Abeba per fornire assistenza tecnica all’AMIS9, e sono stati svolti degli incontri ad alti

livelli tra il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il Consiglio di Pace e Sicurezza dell’UA e

rappresentanti di alcuni Stati africani, tra cui il Sudan, per pianificare il supporto tecnico

e operazionale. Nell’incontro conclusivo sono state decise le fasi per la fornitura di

equipaggiamento, la grandezza della forza, e la delega al Segretario Generale per

occuparsi del finanziamento. Si era anche stabilito che l’ultima di queste fasi, la terza,

dovesse prevedere una missione ibrida di Nazioni Unite e Unione Africana, pur

riconoscendo il necessario consenso del governo del Sudan, che sappiamo essere

arrivato quasi un anno più tardi10. Per quanto riguarda l’AMISOM, invece, è stata

istituita l’unità Strategic Planning and Management Unit for AMISOM, costituita da

esperti militari e civili forniti da Nazioni Unite, Unione Africana e altri partners, tra cui

la Nato11. Inoltre il Dipartimento per le operazioni di Peacekeeping dell’ONU (DPKO)

ha inviato una squadra per assistere l’UA nel dispiegamento dell’AMISOM12.

A livello più generale, le Nazioni Unite hanno istituito nel 2006 il Peace and

Support Team (PST), cui compito fondamentale è contribuire ad accrescere le capacità e

le competenze di lungo termine con riguardo all’African Standby Force e in generale

all’amministrazione delle missioni da parte dell’UA. Il PST ha doppia sede a New York

e ad Abbis Abeba: la prima per favorire la collaborazione con il DPKO, la seconda per

dirigere l’implementazione del piano d’azione. Inoltre, l’ONU fornisce l’addestramento

del personale di UA e ECOWAS attraverso i corsi Senior Mission Leadership

9 Department of Peacekeeping Operations, “Sudan: New mission deploys, provides assistance to the African Union in Darfur”, in: http://www.un.org/Depts/dpko/dpko/pub/year_review05/sudan.htm 10 Conclusi con “High Level Consultation on Darfur, Conclusions”, il 16 novembre 2006, in: http://www.un.org/News/dh/infocus/sudan/darfurconclusions.pdf 11 Si veda la S/RES/1814(2008), in: http://www.un-somalia.org/docs/Resolution%201814%20(15%20May%202008).pdf , per la Nato si veda “NATO assistance to the African Union” in: www.nato.int/issues/nato-au/index.html 12 Katherine N. ANDREWS and Victoria K. HOLT, “United Nations-African Union Coordination on Peace and Security in Africa”, Stimson Center, pag. 8. in: http://www.stimson.org/fopo/pdf/Stimson_AU-UNBrief_Aug07.pdf .

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76

Training13.

Nel complesso, le Nazioni Unite stanno dimostrando un intenso impegno

nell’approfondire le relazioni con l’Unione Africana, anche con rispetto ad altre

organizzazioni regionali. Per quanto peso, però, possano avere le dichiarazione e perfino

le risoluzioni, è chiaro che la creazione di appositi meccanismi per la cooperazione con

le organizzazioni regionali sarebbero lo strumento migliore. Infatti, tutti i programmi e

le attività attuate dalle Nazioni Unite, come le unità di supporto al peace keeping, sono

frutto di accordi ad hoc. La definizione di meccanismi certi, soprattutto riguardo

l’operato dei Consigli, ma anche con riguardo ai finanziamenti, e una più stretta

cooperazione tra i diversi organi potrebbero largamente favorire e velocizzare il pieno

funzionamento dell’architettura di pace e sicurezza in Africa.

3 – Le missioni delle Nazioni Unite in Africa

Attualmente, delle sedici missioni ONU attive, ben sette sono operanti nel

continente africano (tra parentesi la data di istituzione):

MINURSO – UN Mission for the Referendum in Western Sahara (aprile 1991)

MONUC – UN Organization Mission in the Democratic Republic of Congo

(novembre 1999)

UNMIL – UN Mission in Liberia (settembre 2003)

UNOCI – UN Operation in Cote d’Ivoire (aprile 2004)

UNMIS – UN Mission in Sudan (marzo 2005)

UNAMID – African Union-United Nations Hybrid Operation in Darfur (luglio

2007)

MINURCAT – UN Mission in Central African Republic and Chad (settembre 2007)

Nel corso del 2008 è terminata la missione UNMEE (UN Mission in Ethiopia and

Eritrea), attiva dal 2000. In Africa si trova anche la missione più grande al mondo, la

MONUC, nella Repubblica Democratica del Congo, con un personale di 22,092

13 K. N. ANDREWS and V. K. HOLT, op. cit. p. 6. Per la collaborazione più specifica tra Unione Africana e Nazioni Unite si veda anche V. K. HOLT, “African Capacity-Building for Peace Operations: UN Collaboration with the African Union and ECOWAS”, Stimson Center, in: http://www.stimson.org/fopo/pdf/African_Capacity-building.pdf

Page 80: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

77

elementi, dei quali 16,587 costituiscono la parte militare. Tuttavia, la MONUC è

destinata ad essere superata dall’UNAMID, la cui forza autorizzata conta 19,315 truppe,

anche se al momento ne sono dispiegate solo 9,75314.

Tra queste operazioni, assume particolarmente importanza per l’argomento di

questo lavoro – come anche nella storia delle due organizzazioni internazionali – la

missione congiunta in Darfur, a cui sarà quindi dedicato maggiore spazio.

MINURSO – UN Mission for the Referendum in Western Sahara

La missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale è stata

istituita con la risoluzione 690 del 1991 del Consiglio di Sicurezza15, a seguito del piano di

riconciliazione firmato il 30 agosto 1988 dal Marocco e dal Fronte POLISARIO (Frente

Popilar para la Liberación de Saguia el-Hamra y de Río de Oro). Il piano del Segretario

Generale, approvato dal Consiglio di Sicurezza, prevedeva un periodo di transizione

durante il quale il Rappresentante Speciale avrebbe avuto la responsabilità sola ed esclusiva

riguardo ad ogni questione legata al referendum con cui il popolo del Sahara Occidentale

avrebbe deciso tra l’indipendenza e l’integrazione con il Marocco, assistito da un gruppo

integrato di personale civile, militare e di polizia. Il mandato prevedeva:

! monitorare il cessate il fuoco

! verificare la riduzione delle truppe marocchine nel territorio

! monitorare il confinamento delle truppe del Marocco e del Fronte

POLISARIO nei luoghi designati

! mediare tra la parti per assicurare il rilascio di tutti i prigionieri politici del

Sahara Occidentale

! sorvegliare lo scambio dei prigionieri di guerra

! implementare il programma di rimpatrio

! identificare e registrare i votanti qualificati

! organizzare e assicurare un referendum libero e corretto e annunciare i

risultati

In questi 18 anni, il lavoro di mediazione svolto dalle Nazioni Unite non è riuscito

a colmare la distanza tra la posizione del Marocco e quella del fronte POLISARIO

14 United Nations Peacekeeping, Background Notes, in: http://www.un.org/Depts/dpko/dpko/bnote.htm 15 S/RES/690(1991), in: http://www.un.org/Docs/scres/1991/scres91.htm

Page 81: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

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riguardo l’identificazione dei votanti qualificati. Attualmente, la missione (prolungata

fino al 30 aprile 200916) si occupa ancora di monitorare il cessate il fuoco, di ridurre i

rischi causati dalle mine e assiste l’UNHCR (UN High Commisionar for Refugees) per

il programma per facilitare le relazioni tra la popolazione del Sahara Occidentale e i

campi dei rifugiati in Algeria.

MONUC – UN Organization Mission in the Democratic Republic of Congo

In seguito all’Accordo di Lusaka concluso tra l’RDC e gli altri cinque Stati

coinvolti nella grande guerra d’Africa, il 30 novembre 1999 con risoluzione 1279

(1999)17, il Consiglio di Sicurezza ha deciso la creazione della missione nella

Repubblica Democratica del Congo, incorporando personale già autorizzato in

risoluzioni precedenti. L’iniziale mandato è molto ristretto, prevendendo poco più del

monitoraggio del cessate il fuoco e la raccolta di informazioni. Con la risoluzione

1291(2000)18 ha inizio la seconda fase del dispiegamento: fino a 5,537 personale

militare, cui mandato prevede il monitoraggio del cessate il fuoco, la messa in atto del

piano per il disarmo dei gruppi armati e altre compiti in applicazione dell’Accordo di

Lusaka. Al punto 8 il Consiglio di Sicurezza, agendo sotto il Capitolo VII della Carta,

autorizza la MONUC ad utilizzare tutte le azioni necessarie per proteggere il personale,

le installazioni e l’equipaggiamento, per assicurare la sicurezza e la libertà di

movimento al personale e per proteggere i civili sotto imminente attacco. La missione è

rivista ancora una volta nel 2004, autorizzando il dispiegamento di altre 5,900 unità e

aggiornando il mandato19. Sempre agendo sotto il Capitolo VII, la MONUC ha il

compito di presenziare le aree critiche, specie nell’est, per scoraggiare l’uso della

violenza, di proteggere civili e personale, di collaborare con l’ONUB, e monitorare in

generale la situazione, come lo spostamento dei gruppi armati. Inoltre, in appoggio al

governo centrale, ha la responsabilità di proteggere le istituzioni, di favorire gli aiuti

umanitari, nonché il rimpatrio di combattenti disarmati e la protezione dei diritti umani.

In ultima istanza, alla MONUC è anche affidato l’incarico di sostenere le riforme

legislative e lo svolgimento di elezione nel futuro prossimo. Con questo mandato e con

16 S/RES/1813 (2008), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions08.htm 17 S/RES/1279 (1999), in: http://www.un.org/Docs/scres/1999/sc99.htm 18 S/RES/1291 (2000), in: http://www.un.org/Docs/scres/2000/sc2000.htm 19 S/RES/1565 (2004), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions04.html

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79

l’aumento dei contingenti schierati, la MONUC prende sempre più la forma di una

missione di peace enforcing.

L’ultima risoluzione del 22 dicembre 2008 prolunga la missione fino al 31 dicembre

2009, aumentando il suo personale militare fino a 19,815 unità (più 760 osservatori militari,

1,441 del corpo di polizia) e modificando ulteriormente il suo mandato20. L’attuale mandato

della MONUC è suddiviso secondo le seguenti aree di priorità:

! la protezione dei civili, del personale umanitario e del personale e delle

strutture delle Nazioni Unite

! il disarmo, la smobilitazione e il monitoraggio delle risorse dei gruppi

stranieri e congolesi

! l’addestramento delle FARDC (Forces Armées de la République

Démocratique du Congo) in sostegno alla riforma del settore della

sicurezza

! la sicurezza territoriale della Repubblica Democratica del Congo

Inoltre, la MONUC ha la responsabilità, insieme all’autorità congolese, di

rafforzare e promuovere le istituzioni democratiche e lo stato di diritto. Anche questa

risoluzione ricade sotto il Capitolo VII della Carta, e particolare attenzione è portata

sulla regione del Kivu, nell’ultimo anno teatro degli scontri.

UNMIL – UN Mission in Liberia

La missione UNMIL è la seconda missione ONU in Liberia: la prima UNOMIL era stata attiva dal 1993 al 1997 in seguito alla guerra civile che aveva distrutto il paese, ed era stata completata con la costituzione del governo liberiano. Quest’ultimo però non è stato in grado di riportare stabilità, e nel 2003 gli scontri tra l’esercito e le fazioni ribelli si sono intensificati, portando il Consiglio di Sicurezza all’istituzione di una Forza Multinazionale autorizzata ad usare tutti i mezzi necessari per portare a termini gli incarichi assegnatogli, in vista del dispiegamento di una forza ONU21. A seguito di un accordo tra le parti concluso in agosto, il 19 settembre 2003 il Consiglio di Sicurezza adottò la risoluzione 1509, autorizzando il dispiegamento di 15,000 unità, con il seguente mandato suddiviso in aree d’azione22:

20 S/RES/1856 (2008), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions08.htm 21 S/RES/1497 (2003), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions03.html 22 S/RES/1509 (2003), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions03.html

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! sostegno per l’implementazione dell’accordo

! protezione del personale e delle strutture delle Nazioni Unite, nonché dei

civili

! sostegno per gli aiuti umanitari

! sostegno per la riforma della sicurezza

! sostegno per l’implementazione del processo di pace

Anche questa risoluzione è adottata sotto al Capitolo VII della Carta. Nel 2005, il

mandato è stato modificato: la risoluzione 1638 incarica il personale UNMIL di

catturare l’ex presidente liberiano Charles Taylor nel caso dovesse fare ritorno nel

territorio e trasferirlo in Sierra Leone, dove è stato istituito il tribunale per i crimini

commessi durante la guerra civile in Liberia23. La missione è stata recentemente

prolungata fino al 30 settembre 200924.

UNOCI – UN Operation in Cote d’Ivoire

A seguito della degenerazione della situazione in Costa d’Avorio, spezzata a metà

tra il governo centrale al sud e i ribelli di Forza Nuova al nord, il Consiglio di Sicurezza

decise di sostituire la missione politica MINUCI con una missione di peace keeping. La

risoluzione 1528 prevede il dispiegamento di 6,240 militari, in collaborazione con le

forze francesi già presenti sul campo, secondo il mandato autorizzato sotto il Capitolo

VII della Carta25. Quest’ultimo è stato modificato due volte, prima con la risoluzione

1609 (2005) e poi con la risoluzione 1739 del 10 gennaio 2007, che stabilisce il

mandato attualmente in vigore, i cui compiti sono ancora una volta divisi per aree26:

! monitorare la cessazione delle ostilità e i movimenti dei gruppi armati

! disarmo, smobilitazione, reintegrazione, rimpatrio e riassetto delle varie

forze operanti

! disarmo delle milizie

! operazioni di identificazione della popolazione e registrazione dei votanti

! riforma del settore della sicurezza

! protezione del personale delle Nazioni Unite, delle istituzioni e dei civili

23 S/RES/1694 (2005), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions05.htm 24 S/RES/1836 (2008), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions08.htm 25 S/RES/1528 (2004), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions04.html 26 S/RES/1739 (2007), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions07.htm

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! monitoraggio dell’embargo sulle armi

! sostegno all’assistenza umanitaria

! sostegno per la ricostruzione dell’apparato amministrativo dello Stato

! sostegno per l’organizzazione di elezioni corrette, liberi e trasparenti

! assistenza nel campo dei diritti umani

! controllo dell’informazione pubblica, per evitare incitamenti alla violenza

e promuovere invece il processo di pace

! sostegno al ristabilimento della legge e dell’ordine

Si autorizzano l’UNOCI e le truppe francesi ad usare ogni misura necessaria per

implementare il mandato. In seguito all’accordo raggiunto tra le parti nel 2007, il

Consiglio di Sicurezza richiede all’UNOCI di supportarne lo sviluppo con le risorse a

sua disposizione27. La missione è stata prolungata fino al 31 gennaio 200928.

UNMIS – UN Mission in Sudan

La missione in Sudan delle Nazioni Unite è stata autorizzata in seguito all’accordo di pace tra il governo e il Sudan People’s Liberation Movement/Army del 9 gennaio 2005 (Comprehensive Peace Agreement – CPA), che segnava la fine della ventennale guerra tra il governo filo nordico e la regione del sud del paese. Il 25 marzo, il Consiglio di Sicurezza istituì l’UNMIS, costituita da 10,000 unità di personale militare, più un’appropriata parte civile, con il seguente mandato29:

! sostenere l’implementazione del CPA ! facilitare e coordinare, entro le sue capacità e l’area di interesse, il

volontario ritorno dei rifugiati e degli sfollati e l’assistenza umanitaria ! assistere le parti nel settore delle mine ! contribuire all’impegno internazionale nel proteggere e promuovere i

diritti umani in Sudan, come nel coordinare all’impegno nel proteggere i civili, con particolare attenzione ai gruppi vulnerabili, compresi gli sfollati, i rifugiati, le donne e i bambini, entro le capacità dell’UNMIS e in stretta cooperazione con le altre agenzie delle Nazioni Unite, alte organizzazioni correlate e organizzazioni non governative

27 S/RES/1765 (2007), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions07.htm 28 S/RES/1826 (2008), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions08.htm 29 S/RES/1590 (2005), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions05.htm

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Inoltre, agendo sotto il Capitolo VII della Carta, il Consiglio autorizza l’UNMIS a

prendere ogni azioni necessaria per proteggere il personale, le strutture, le installazione

e l’equipaggiamento delle Nazioni Unite; per assicurare la sicurezza e la libertà di

movimento del personale e degli operatori umanitari, e, senza pregiudicare le

responsabilità del governo del Sudan, per proteggere i civili sotto imminente attacco. La

missione opera nel sud del paese, e non nella regione del Darfur dove al momento

dell’istituzione era impegnata la missione AMIS dell’Unione Africana. Lungo il

documento, il Consiglio di Sicurezza sottolinea l’importanza della stabilità della regione

del Darfur per un processo di pace globale nel Sudan, e raccomanda la più stretta

collaborazione possibile con l’AMIS. Il 31 agosto del 2006, con la risoluzione 1706, il

Consiglio di Sicurezza decise di espandere l’UNMIS dispiegando parte della forza in

Darfur, in vista del passaggio di responsabilità dall’Unione Africana alle Nazioni

Unite30. Il Consiglio invitava così il governo del Sudan a concedere il consenso, che

però fu negato, in quanto considerato una violazione della sovranità e un’ingerenza

esterna31.

La missione UNMIS è tutt’ora circoscritta alla regione del sud del Sudan, con lo

stesso mandato assegnatole con la sua istituzione. Secondo la risoluzione 1812 (2008),

la missione è autorizzata fino al 30 aprile 200932.

UNAMID – African Union-United Nations Hybrid Operation in Darfur

Le pressioni delle Nazioni Unite e di tutta la comunità per un dispiegamento di

forze di pace nella regione del Darfur hanno dato i loro frutti solamente nel giugno del

2007, a quattro anni dall’inizio del conflitto. L’incontro tra le Nazioni Unite, l’Unione

Africana e il governo del Sudan ha portato il consenso di quest’ultimo per l’invio di un

contingente ibrido, autorizzato il 31 luglio dalla risoluzione 1769 (2007) del Consiglio

di Sicurezza33. L’UNAMID è sotto comando ONU, anche se la missione ha assorbito il

contingente AMIS ed è costituita soprattutto da personale africano, come richiesto dal

governo del Sudan. Infatti, i quattro ruoli di responsabilità della missione, ossia il

rappresentante congiunto di AU e NU, il suo vice, il comandante delle forze armate e il

30 S/RES/1706 (2006), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions06.htm 31 “Sudan rejects Darfur resolution”, BBC, 31 agosto 2006, presso: http://news.bbc.co.uk/2/hi/africa/5304160.stm 32 S/RES/1812 (2008), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions08.htm 33 S/RES/1769 (2007), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions07.htm

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commissario delle forze di polizia sono tutti africani, rispettivamente proveniente da

Congo, Ghana, Nigeria e Sud Africa. La forza autorizzata è di 19,555 unità di personale

militare, più un’ampia componente civile: in data 30 novembre 2008 sono presenti

12,442 unità di personale in divisa, dei quali 9,753 truppe. Il mandato e la struttura

adottate dal Consiglio fanno riferimento al rapporto congiunto del Segretario Generale

delle Nazioni Unite e del Presidente della Commissione dell’Unione Africana del 5

giugno 200734. Il mandato, secondo i paragrafi 54 e 55 del suddetto rapporto, prevede:

! contribuire alla restaurazione delle necessarie condizioni di sicurezza per

l’assistenza umanitaria e facilitare l’accesso degli aiuti in tutto il Darfur

! contribuire alla protezione della popolazione civile sotto imminente

attacco di violenza fisica e prevenire gli attacchi, entro le sue capacità e

area di interesse, senza pregiudicare la responsabilità del Governo del

Sudan

! monitorare e verificare l’implementazione dei vari accordi di cessate il

fuoco dal 2004, come del Darfur Peace Agreement e di eventuali accordi

successivi

! assistere il processo politico per assicurarsi che sia inclusivo, e sostenere la

mediazione comune di UA e NU al fine di ampliare e approfondire

l’impegno nel processo di pace

! contribuire alla creazione di un ambiente sicuro per la ricostruzione

economica e lo sviluppo, come anche per garantire il ritorno a casa di

rifugiati e sfollati

! contribuire alla promozione del rispetto e della protezione dei diritti umani

e delle libertà fondamentali in Darfur

! assistere la promozione dello stato di diritto in Darfur

! monitorare la situazione della sicurezza al confine con il Chad e la

Repubblica Centrafricana

Per più ampi obiettivi (par. 55), l’operazione dovrebbe comprendere i seguenti

compiti: sostenere il processo di pace e i buoni uffici; sostenere e promuovere la

sicurezza (ad es. monitorare, coordinare, assistere), sostenere e promuovere lo stato di

diritto, la good governance e i diritti umani; facilitare l’assistenza umanitaria. 34 S/2007/307/Rev.1, in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_presandsg_letters07.htm

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Inoltre, la risoluzione 1769 (2007) autorizza l’UNAMID, sotto il Capitolo VII

della Carta, a intraprendere ogni azione necessaria per proteggere il personale, le

strutture, le installazione e l’equipaggiamento delle Nazioni Unite, e per assicurare la

sicurezza e la libertà di movimento del suo personale e degli operatori umanitari; e per

sostenere l’implementazione del Darfur Peace Agreement, prevenendo il disturbo della

sua implementazione e gli attacchi armati, e per proteggere i civili, senza pregiudicare la

responsabilità del governo del Sudan.

Ad Addis Abeba è stato istituito il Joint Support Co-ordination Mechanism,

costituito da una serie di uffici di collegamento per garantire il coordinamento e le

consultazioni tra i due quartier generali. Il passaggio ufficiale di autorità dall’AMIS

all’UNAMID è avvenuto all’inizio del 2008, come stabilito. La risoluzione 1828 (2008)

ha prorogato l’autorizzazione dell’UNAMID fino al 31 luglio 200935.

MINURCAT – UN Mission in Central African Republic and Chad

Come l’UNAMID, anche la missione delle Nazioni Unite nella Repubblica

Centrafricana e in Chad è figlia della cooperazione, questa volta tra le Nazioni Unite e

l’Unione Europea. In questo caso, però, la risoluzione 1778 (2007)36 prevede un

personale ONU di solo 300 unità di polizia incaricate di sostenere la sicurezza e la

protezione dei civili, i diritti umani e lo stato di diritto attraverso, fondamentalmente,

l’addestramento e l’assistenza del personale locale. L’appoggio militare alla missione è

fornito dall’Unione Europea, che sotto mandato della stessa risoluzione, è autorizzata in

base al Capitolo VII della Carta ad usare ogni mezzo necessario per svolgere i compiti

assegnatoli, come la protezione dei civili, del personale, e la facilitazione degli aiuti

umanitari. L’operato dell’Unione Europea sarà analizzato nella seconda parte del

capitolo.

La missione MINURCAT e l’autorizzazione della missione dell’Unione Europea

sono state prolungate fino al 15 marzo 200937.

35 S/RES/1828 (2008), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions08.htm 36 S/RES/1778 (2007), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions07.htm 37 S/RES/1834 (2008), in: http://www.un.org/Docs/sc/unsc_resolutions08.htm

Page 88: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

85

Considerazioni sulle missioni ONU nel continente africano

Delle sette missioni attualmente attive, sei sono poste sotto il Capitolo VII della Carta: al di là di stabilire se si possano quindi catalogare come missioni di peace

enforcing, i mandati e la consistenza evidenziano prima di tutto la gravità della situazione in cui si trova il continente africano. L’Africa rappresenta il quadro delle contraddizione del concetto di peace keeping: la necessità del consenso da parte di governi che spesso sono i primi responsabili delle violenze in corso, l’utilizzo di contingenti provenienti da paesi che a loro volta sono destinatari di altre missioni, la discrezionalità nel decidere quando vi sia la necessità dell’invio di una missione. D’altronde, la Carta delle Nazioni Unite dispone dei poteri e delle funzioni che gli stessi Stati le hanno assegnato, e quindi tutto si rimanda sempre alla volontà di questi ultimi.

Nel merito, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza considerate richiamano frequentemente il ruolo dell’Unione Africana come punto di riferimento per il continente, nella funzione di mediatore, di promotore del processo di pace o come forum per il dialogo. Nel caso specifico del Sudan, l’Unione Africana si è dimostrata un attore fondamentale ai fini del dispiegamento del contingente ONU, poiché ha svolto la funzione di ponte tra il governo del Sudan e le Nazioni Unite, riempiendo un vuoto che altrimenti avrebbe lasciato la situazione in stallo. Si presume, con un po’ di ottimismo, che la missione UNAMID contribuisca a migliorare e ad accrescere le potenzialità dell’Unione Africana nel campo del mantenimento e del ristabilimento delle pace. Inoltre, la missione ibrida potrebbe anche essere l’inizio di un nuovo tipo cooperazione delle Nazioni Unite con le organizzazioni regionali, sfruttando i punti di forza dell’uno e dell’altro: da una parte la vicinanza e la migliore conoscenza del problema e quindi la maggiore facilità nel dialogo con le parti delle organizzazioni regionali; dall’altra l’esperienza, le risorse e l’autorità dell’organizzazione mondiale. Per completezza, bisogna ricordare che in Liberia, Costa d’Avorio e Sudan, le Nazioni Unite hanno collaborato anche con contingenti inviati dall’ECOWAS e dall’IGAD, dove in Liberia era la prima volta che l’ONU operava in presenza di altre missioni.

4 – Le misure non implicanti l’uso della forza ex art. 41

Tra i poteri conferiti al Consiglio di Sicurezza dal Capitolo VII della Carta, vi è

anche la possibilità di prendere decisioni di misure non implicanti l’uso della forza, che

possono comprendere un’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e

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86

delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e

la rottura delle relazioni diplomatiche. Queste misure, normalmente denominate

sanzioni, non hanno lo scopo di punire le Stato, ma piuttosto di far cessare i

comportamenti in contrasto con la Carta. Poiché le sanzioni possono avere effetti

devastanti, e arrecare gravi pregiudizi sia alla popolazione che a Stati terzi, il Consiglio

di Sicurezza ha sviluppato un approccio personalizzato, ritagliando importanti eccezioni

come quelle concesse per l’attività degli operatori umanitari. Inoltre, specialmente nella

prassi degli ultimi anni, sono sempre più frequenti le cosiddette smart sanctions, ossia

sanzioni intelligenti che colpiscono singoli individui, ad esempio congelandone i conti

bancari. Ogni volta che il Consiglio decide una sanzione nei confronti di uno Stato,

istituisce anche un Comitato, la cui composizione riflette quella del Consiglio, che ha il

compito di attuare e controllare l’esecuzione delle sanzioni imposte. Spesso il Consiglio

di Sicurezza di serve anche di Gruppi di Esperti o di Gruppi di Monitoraggio per

supervisionare gli effetti delle misure e deciderne eventuali modifica a seconda delle

raccomandazioni ricevute.

Nel continente africano, sono sei gli Stati sottoposti a misure ex art. 41:

1. Somalia, dal 1992, embargo di armi

2. Sierra Leone, dal 1997, embargo di armi, travel ban (divieto di viaggio)

3. Liberia, dal 2003, embargo di armi, travel ban, congelamento di beni

4. Repubblica Democratica del Congo, dal 2004, embargo di armi, travel

ban, congelamento di beni

5. Costa d’Avorio, dal 2004, embargo di armi, diamanti, travel ban,

congelamento di beni

6. Sudan, dal 2005, embargo di armi, travel ban, congelamento di beni

Somalia. Nel contesto della violenza della guerra civile, il Consiglio di Sicurezza

decise con la risoluzione 733 (1992) l’imposizione di un embargo totale di armi in

Somalia. L’embargo è stato modificato prima nel 2001 per favorire il lavoro del

personale delle Nazioni Unite e degli operatori umanitari, e ulteriormente nel 2007, in

occasione del dispiegamento della forza AMISOM dell’Unione Africana. Inoltre nel

2008 il Consiglio ha adottato alcune sanzioni intelligenti, tra cui il congelamento di beni

e il divieto di viaggio.

Page 90: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

87

Sierra Leone. La risoluzione 1132 (1997) impone l’embargo di armi verso tutti i

destinatari a parte il governo della Sierra Leone, più la sanzione mirata del divieto di

viaggio verso individui disegnati dal Comitato per le sanzioni. Dal 2000 al 2003 era

stato imposto anche un embargo per il commercio dei diamanti, che è stato lasciato

scadere in seguito alla partecipazione e dell’impegno della Sierra Leone al Kimberly

process.

Liberia. Nel 2003, il Consiglio di Sicurezza aveva imposto l’embargo su armi,

diamanti e legname, ed attualmente è ancora in vigore solamente quello sulle armi. Con

la stessa risoluzione decise la sanzione del divieto di viaggio verso determinati

individui, mentre l’anno seguente impose il congelamento dei beni dell’ex presidente

Charles Taylor e di altri individui designati. Quello attuale è il terzo Comitato per le

sanzioni operante per il caso della Liberia, dopo quelli del 1997 e del 2001.

Repubblica Democratica del Congo. Con la risoluzione 1533 (2004), il Consiglio

istituisce il Comitato per le sanzioni già decise con la risoluzione 1493 (2003), che

comprendono l’embargo d’armi all’interno dello Stato, in seguito alla firma

dell’Accordo di pace. Nel 2005 sono state decise sanzioni finanziarie e divieto di

viaggio ad individui designati, mentre nel 2008 è stato rimosso l’embargo d’armi verso

il governo, rimanente attivo nei confronti di tutti gli attori non governativi.

Costa d’Avorio. Il Consiglio di Sicurezza ha imposto l’embargo di armi e sanzioni

finanziarie e divieto di viaggio verso individui designati con la risoluzione 1572 (2004),

assegnando alla missione UNOCI e alle truppe francesi l’incarico di monitorarne

l’attuazione (Res. 1584 (2005)). Dal 2005 è inoltre attivo l’embargo per l’importazione

di diamanti.

Sudan. La risoluzione 1591 del 2005 decreta l’embargo d’armi verso tutte le entità

non governative, nonché sanzioni di divieto di viaggio e finanziarie verso individui

designati.

Page 91: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

88

Parte seconda: L’Unione Europea

1 – Il Titolo V del Trattato sull’Unione Europea

La Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) costituisce il secondo dei tre

pilastri dell’Unione Europea, istituito con il Trattato di Maastricht nel 1992 e in seguito

modificato ad Amsterdam (1997) e Nizza (2001). Al contrario del primo pilastro che si

basa sul metodo comunitario di integrazione, il secondo e il terzo pilastro si basano sulla

cooperazione intergovernativa. La PESC è contenuta nel Titolo V del TUE, che

comprende gli articoli dall’11 al 28. L’art. 11 elenca gli obiettivi della politica estera e

di sicurezza comune stabilita ed attuata dall’Unione: la difesa dei valori comuni, degli

interessi fondamentali, dell’indipendenza e dell’integrità dell’Unione conformemente ai

principi della Carta delle Nazioni Unite; il rafforzamento della sicurezza dell’Unione in

tutte le sue forme; il mantenimento della pace e il rafforzamento della sicurezza

internazionale, conformemente ai principi della Carta della Nazioni Unite, nonché ai

principi dell’atto finale di Helsinki, e agli obiettivi della Carta di Parigi; la promozione

della cooperazione; lo sviluppo e il consolidamento della democrazia e dello stato di

diritto, nonché rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Questi obiettivi

ricalcano i principi espressi all’art. 6 del TUE, e che in base all’art. 49 vincolano in

modo assai stringente l’ammissione all’organizzazione, molto più, ad esempio, che nel

caso delle Nazioni Unite, dove si fa semplicemente riferimento a “Stati amanti della

pace”.

La PESC si sottopone inoltre alla Carta delle Nazioni Unite e richiama

l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), attraverso l’atto

finale di Helsinki e la Carta di Parigi. Gli strumenti attraverso cui l’Unione persegue

questi obiettivi sono forniti dall’art.12: strategie comuni, azioni comuni, posizioni

comuni, cooperazione sistematica tra gli Stati membri. Si tratta di strumenti posti

unicamente nelle mani degli Stati: infatti è il Consiglio europeo, costituito dai capi di

Stato e di governo, a decidere le strategie comuni che saranno poi attuate dal Consiglio

dell’Unione, costituito a sua volta dai governi degli Stati membri, attraverso le azioni e

le posizioni comuni. Si può quindi notare la dimensione esclusivamente governativa

della PESC, dove i poteri del Parlamento europeo sono limitati alla consultazione e alla

possibilità di richiedere informazioni (art. 21). Inoltre, le decisioni a norma del Titolo V

sono adottate dal Consiglio dell’UE all’unanimità, il che equivale a un diritto di veto

Page 92: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

89

generalizzato, mitigato solamente l’astensione costruttiva che non impedisce l’adozione

della decisione. È chiaro che nell’Europa dei 27 di oggi, l’unanimità può essere un

ostacolo importante, e i disaccordi non sono certo una rarità.

L’articolo 17 costituisce l’articolo chiave della PESC, poiché ne definisce e

delimita il campo d’azione. Le questioni relative alla sicurezza dell’Unione

comprendono:

! la definizione progressiva di una politica di difesa comune, che potrebbe

condurre a una difesa comune qualora il Consiglio europeo decida in tal

senso

! la missioni umanitarie e di soccorso, le attività di mantenimento della pace

e le missioni di unità di combattimento nella gestione di crisi, ivi comprese

le missioni tese al ristabilimento della pace (le c.d. “missioni di

Petersberg”)

Come si vede dalle parole usate, c’è molta precauzione riguardo la politica di difesa

comune, poiché si parla solo di definire linee comuni, specificando che una difesa comune

potrebbe essere decisa solamente dal Consiglio europeo, e quindi solo dalle massime

cariche. A tutt’oggi, l’Europa è ancora lontana dal poter parlare con una voce unica in

materia di politica estera e di difesa, anche se nel Trattato di Lisbona si prevede di

raggrupparne tutti gli aspetti e di dare un volto all’Unione Europea attraverso la creazione di

una nuova figura istituzionale, risultato della combinazione delle funzioni dell’Alto

Rappresentante della PESC e di quelle del Vice Presidente della Commissione. Tuttavia,

questo non darà più poteri all’Unione, ma semplicemente servirà per canalizzare le azioni in

materia, lasciando gli Stati liberi di condurre una propria politica estera. Tornando all’art. 17

del TUE, è precisato che la politica dell’Unione non pregiudica l’impegno e gli obblighi di

quegli Stati membri che ritengano che la loro difesa comune si realizzi attraverso la NATO.

Inoltre, tra la NATO e l’Unione Europea vi sono stretti legami, che prevedono anche la

messa a disposizione delle forze NATO a servizio dell’Unione, secondo gli Accordi di

Berlin plus del 1996.

Con l’espressione “missioni di Petersberg” ci si riferisce a quelle missioni individuate

dal Consiglio dei Ministri della Unione Europea Occidentale (UEO) come attività in cui

impiegare le unità militari degli Stati membri dell’organizzazione e riprese in termini

Page 93: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

90

identici dal Trattato di Amsterdam38. Si è molto discusso sui tipi di missione che possono

rientrare sotto l’art. 17.2, e anche della possibili area di azione di tali missioni39. In linea di

massima, e secondo la prassi degli ultimi anni, l’Unione Europea può svolgere missioni

concernenti l’invio di aiuti umanitari, di monitoraggio, missioni civili con finalità di peace

building, nonché missioni finalizzate all’addestramento del personale locale sia di polizia

che di magistratura, e infine missioni di peace keeping. Risulta inutile soffermarsi

nuovamente sulla definizione di quest’ultimo, poiché è già stato sottolineata in precedenza

l’assenza di una definizione univoca: si può dire però che l’Unione Europea ha partecipato

anche a missioni che vanno oltre il c.d. peace keeping di prima generazione, includendo un

uso della forza che andava ben oltre la legittima difesa, come per la protezione dei civili.

Quando si tratta di operazioni militari, generalmente l’Unione Europea opera attraverso

interventi di brevi durata secondo un mandato ben definito, mentre per le missioni civili

attua anche programmi molto strutturati di lungo termine. Come già detto, l’Unione

Europea riconosce i principi della Carta delle Nazioni Unite, e infatti vi è sempre stata una

stretta collaborazione con il Consiglio di Sicurezza, soprattutto in occasione del

dispiegamento di missioni, a volte realizzate su invito del Consiglio stesso.

La Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD) si colloca quindi all’interno del

quadro della PESC. Per permettere all’Unione Europea di assumere pienamente le sue

responsabilità in ambito di gestione delle crisi, il Consiglio europeo ha deciso

l’istituzione di strutture politiche e militari permanenti (Nizza, 2000): il Comitato

Politico e di Sicurezza, il Comitato Militare dell’Unione Europea, lo Stato Maggiore

dell’Unione Europea, il Civilian Planning and Conduct Capability.

! Il Comitato Politico e di Sicurezza (COPS – art. 25 TUE) si incontra a

livello di ambasciatori come organo preparatorio per il Consiglio. Le sue

funzioni principali consistono nel monitorare la situazione internazionale e

nell’aiutare a definire le politiche all’interno della PESC, includendo

anche la PESD. Inoltre, si occupa anche della direzione strategica delle

operazioni di gestione delle crisi. 38 Francesca MARTINES, Il ruolo dell’Unione Europea nel mantenimento della pace e suo coordinamento con le Nazioni Unite e la UEO, p. 377 e ss., in Le organizzazioni regionali e il mantenimento della pace nella prassi di fine XX secolo, a cura di Flavia LATTANZI e Marina SPINEDI, Editoriale Scientifica, Napoli, 2004. 39 Per una ampia argomentazione riguardo i possibili interventi previsti dall’art. 17 del TUE si veda Sebastian Graf Von KIELMANSEGG, “The meaning of Petersberg: some consideration on the legal scope of the ESPD operations”, in Common Market Law Review 44, 2007, pp. 629–648.

Page 94: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

91

! Il Comitato Militare dell’Unione Europea (CMUE) è il più alto organo militare all’interno del Consiglio. È composto dai capi delle difesa degli Stati membri, o dai loro rappresentati militari permanenti. Il CMUE fornisce raccomandazioni e pareri al COPS su tutte le questioni militari all’interno dell’UE. In parallelo con il CMUE, il COPS è supportato da un Comitato per gli Aspetti Civili della Gestione della Crisi.

! Lo Stato Maggiore dell’UE è composto da esperti militari e civili forniti dagli Stati membri al Segretariato del Consiglio.

! Il Civilian Planning and Conduct Capability (CPCC), che fa parte del Segretariato del Consiglio, è la struttura permanente responsabile per la condotta autonoma di operazioni civili in ambito PESD. Sotto il controllo politico e la direzione strategica del COPS e sotto l’autorità generale dell’Alto Rappresentante, il CPCC si occupa della pianificazione e della condotta delle operazioni civili per la gestione dei conflitti, come anche dell’appropriata implementazione di tutti i compiti correlati alla missione.

Secondo l’art. 28 del TUE, le spese amministrative che le istituzioni sostengono per le disposizioni relative ai settori del titolo V sono a carico del bilancio delle Comunità Europee, come anche le spese operative, ad eccezione delle spese derivanti da operazioni che hanno implicazioni nel settore militare o della difesa, che sono a carico degli Stati membri. Per questi tipi di finanziamenti, è stato istituito un meccanismo denominato Athena nel marzo del 2004, sia per missioni direttamente intraprese dall’UE che per missioni di supporto a uno Stato terzo o ad una organizzazione terza.

2 – La cooperazione tra Unione Europea ed Unione Africana

La cooperazione tra Unione Europea ed Unione Africana è certamente più sviluppata

sul piano sociale ed economico, attraverso programmi per lo sviluppo e aiuti umanitari,

piuttosto che sul piano prettamente militare, inteso come operazioni per il mantenimento

della pace. Vi è chi accusa l’Unione Europea di ipocrisia, poiché certe sue politiche

economiche, come i sussidi agli agricoltori europei, danneggiano gli stessi paesi a cui sono

destinati gli aiuti finanziari40. In generale, l’Unione Europea appoggia la linea “soluzioni

africane ai problemi africani” promosso anche dall’Unione Africana, attraverso 40 Riguardo il ruolo dell’Unione Europea con rispetto alla sicurezza internazionale si veda: Alyson JK BAILES, “The EU and a better world: what role for the European Security and Defence Policy?”, in International Affairs 84: 1, 2008, pp. 115–130.

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92

finanziamenti e iniziative varie che vanno da ampie partnership a programmi per

l’addestramento, limitando invece la sua capacità militare ad interventi ridotti.

Tra gli strumenti più importanti si trova il Fondo di Pace per l’Africa (African

Peace Facility - APF), istituito con decisione 3/2003 del Consiglio dei Ministri

dell’ACP-EC41, a seguito della richiesta dell’Assemblea dei capi di Stato e di governo

dell’Unione Africana al summit di Maputo del luglio 2003. L’APF è uno strumento

finanziario destinato esclusivamente al finanziamento di missioni di mantenimento della

pace in Africa, condotte e costituite solamente da africani. Si basa su tre principi: il

primo è l’appartenenza, in quanto sostiene l’Unione Africana e le altre organizzazioni

sub regionali nel gestire le crisi del continente e nel trovarvi una soluzione continentale.

Il secondo è la solidarietà, poiché ogni Stato africano ha concordato nel concedere la

stessa percentuale dei fondi che riceve dall’UE tramite altri programmi all’APF, quindi

anche gli Stati non implicati nei conflitti contribuiscono comunque alla loro soluzione.

Il terzo è lo sviluppo, in quanto non è possibile ottenere questo senza prima fermare i

conflitti che piagano il continente. L’APF è stato rinnovato per il periodo 2008-2010,

con un finanziamento di 300 milioni di euro. L’AMIS è stata la prima missione a

beneficiare del fondo.

Ad ogni modo, lo strumento della cooperazione globale tra Unione Europa e

l’Unione Africana è rappresentato dalla Africa-EU Strategic Partnership, adottata al

summit tra Africa – Unione Europea tenutosi a Lisbona nel dicembre del 2007. Al

contrario dei programmi per lo sviluppo e della EU Strategy for Africa42, questa

partnership è un atto congiunto, basato su visioni condivise e principi comuni, con

l’obiettivo di promuovere e consolidare la cooperazione tra l’Africa e l’Unione Europea.

La strategia comprende otto aree: pace e sicurezza; governance e diritti umani;

commercio, integrazione regionale e infrastrutture; obiettivi del millennio; energia;

cambiamento climatico; migrazione, mobilità e occupazione; scienza, società

dell’informazione e spazio. A sua volta, l’area riguardante la pace e la sicurezza, è

suddivisa in tre obiettivi principali:

41 Decision 3/2003 of the ACP-EC Council of Ministers, in: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/en/oj/2003/l_345/l_34520031231en01080111.pdf 42 La strategia dell’UE per l’Africa, adottata nel 2005, delinea una cornice per l’azione degli Stati membri al fine di sostenere l’Africa nel raggiungimento degli obiettivi del millennio. Si veda: S.S. KINGAH, “The European Union’s New Africa Strategy: Grounds for Cautious Optimism”, in European Foreign Affairs Review 11, 2006, pp. 527–553,.

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93

1. Rafforzare il dialogo sulle sfide della pace e della sicurezza: attraverso

incontri a vari livelli, con la partecipazione di diversi attori. Prevede anche

incontri tra il Consiglio di Pace e Sicurezza dell’Unione Africane e il

Comitato Politico e di Sicurezza dell’Unione Europea

2. Piena messa in opera dell’architettura africana di pace e sicurezza:

riguarda l’entrata in funzione del Continental Early Warning System,

dell’African Standy Force, nonché programmi di addestramento e scambi

di informazioni

3. Finanziamenti prevedibili per le operazioni di pace condotte dall’Africa:

includendo l’APF, ma anche la partecipazione di Nazioni Unite e G-8.

La strategia congiunta prevede incontri a livello ministeriale, tra le commissioni e

anche tra i parlamenti. Inoltre, una delegazione dell’UA è presente a Bruxelles, e una

delegazione dell’UE è presente ad Addis Abeba. Il primo piano d’azione comprende il

biennio 2008-2010, quindi bisognerà aspettare per vedere i frutti di questa nuova

partnership.

Sul piano esclusivamente economico, l’Unione Europea è probabilmente il partner

più importante per l’Africa: infatti oltre ad essere il suo più grande importatore, è anche

il più grande finanziatore dei programmi di sviluppo del continente. Questo tipo di

cooperazione tra l’Europa e l’Africa risale al 1964, anno della firma delle Convenzione

di Yaoundé, sostituita nel 1975 dalla Convenzione di Lomè, che ha segnato la nascita

del gruppo di Stati dell’Africa, Caraibi e Pacifico (ACP) attraverso un piano di

finanziamento più volte rinnovato. Nel 2000, si è deciso di sostituire la Convenzione di

Lomè con un programma più ampio, rappresentato dall’Accordo di Cotonou, strutturato

su un piano ventennale, e già rinnovato una prima volta nel 2005. L’Accordo si basa su

tre pilastri (cooperazione allo sviluppo, cooperazione economica e per il commercio,

dimensione politica) e il suo obiettivo primario è la diminuzione della povertà attraverso

l’integrazione dei paesi ACP nell’economia mondiale. Lo strumento fondamentale per

tale scopo è il Fondo Europeo per lo Sviluppo (FES), finanziato dagli Stati membri al di

fuori del budget delle Comunità Europee e istituito per un periodo di più anni. L’attuale

fondo è il decimo, e copre il periodo 2008-2013.

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94

3 – Le missioni ex art. 17 del TUE in Africa

Dal 2003, l’Unione Europea ha gestito ventidue missioni, delle quali solo sei a

carattere esclusivamente militare: delle nove istituite nel continente africano, quattro

prevedono (o prevedevano) l’uso della forza. Le altre missioni sono per la maggioranza

operazioni di polizia o operazioni di sostegno alla riforma del settore della sicurezza,

che possono prolungarsi anche diversi anni. Queste l’elenco delle missioni UE

completate e in corso in Africa:

! EU Suppor to AMIS (2005-2006)

! EU Police Mission in Kinshasa (EUROPOL Kinshasa) (2005-2007)

! EUFOR RD Congo (2006)

! EU Military Operation in the Democratic Republic of Congo (Artemis)

(2003)

! EU military operation to contribute to the deterrence, prevention and

repression of acts of piracy and armed robbery off the Somali coast (EU

NAV FOR Somalia) (dal 2008)

! EU mission in support of Security Sector Reform in Guinea-Bissau (EU

SSR Guinea Bissau) (dal 2008)

! EUFOR Tchad/RCA (dal 2008)

! EUPOL RD Congo (dal 2007)

! EU security sector reform mission in the Democratic Republic of the

Congo (EUSEC RD Congo) (dal 2005)

Di seguito, saranno analizzate solamente le missioni di mantenimento della pace

in corso, ossia la EUFOR Tchad/RCA e la NAV FOR Somalia.

EUFOR Tchad/RCA

Con la risoluzione 1769 (2007), istituente l’UNAMID, il Consiglio di Sicurezza

esprimeva al Segretario Generale la sua disponibilità nel supportare eventuali missioni

multidimensionali nell’est del Chad e nel nord della Repubblica Centrafricana, per

migliorare la sicurezza dei civili in queste aree. L’invito è stato prontamente raccolto dal

Consiglio dell’Unione Europea, che si è detto disponibile al dispiegamento di

un’operazione militare per supportare la missione ONU. Il Consiglio di Sicurezza ha

quindi autorizzato con la risoluzione 1778 del 25 settembre del 2007 l’invio della

Page 98: L'Unione Africana e il suo ruolo per il mantenimento e il ristabilimento della pace

95

missione civile MINURCAT e, ai sensi del Capitolo VII della Carta, l’invio di

contingenti militari dell’UE, con il seguente mandato:

! Contribuire alla protezione di civili in pericolo, particolarmente i rifugiati

e gli sfollati

! Facilitare l’accesso degli aiuti umanitari e la libertà di movimento degli

operatori umanitari, contribuendo alla creazione di sicurezza nella zona

! Contribuire a proteggere il personale, le strutture, le installazioni e gli

equipaggiamenti delle Nazioni Unite, e assicurare la sicurezza e la libertà

di movimento del personale delle Nazioni Unite e associati.

Per eseguire tali compiti, l’operazione dell’UE è autorizzata ad usare tutti i mezzi

necessari, ed il mandato ha la durata di 12 mesi.

In base all’art. 14 del TUE, il Consiglio dell’UE ha istituito l’EUFOR Tchad/RCA

con l’azione congiunta 2007/677/CFSP del 15 ottobre 200743. Il Consiglio affida al

COPS la responsabilità del controllo politico e della direzione strategica della missione

secondo l’art. 25, e ricorda che poiché la missione ha implicazioni militari deve essere

finanziata dagli Stati membri attraverso l’Athena (art. 28.3). Il Comitato Militare è

invece responsabile dell’operazioni militari della missione. In seguito all’approvazione

del piano operativo e delle regole di ingaggio, la missione è stata ufficialmente avviata

il 28 gennaio 2008 con la decisione del Consiglio 2008/101/CFSP44. L’Unione Europea

ha poi stretto una serie di accordi con il Chad e la Repubblica Centrafricana sullo status

delle truppe UE, con il Cameroon per il transito di tali truppe, e con Albania, Croazia e

Russia per la loro partecipazione alla missione.

La missione ha raggiunto la sua capacità operativa iniziale il 15 marzo del 2008, e

ha continuato il suo dispiegamento fino alla raggiunta della piena operatività il 15

settembre del 2008, che comprende 3400 truppe provenienti da 25 Stati europei diversi.

Alla fine del suo mandato il 15 marzo 2009 (12 mesi dopo la capacità operativa

iniziale), l’EUFOR sarà sostituita da una componente militare della MINURCAT,

secondo quanto auspicato dal Consiglio dell’UE e secondo quanto deciso dal Consiglio

di Sicurezza con la risoluzione 1834 (2008).

43 2007/677/CFSP, in: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/en/oj/2007/l_279/l_27920071023en00210024.pdf 44 2008/101/CFSP, in: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2008:034:0039:0039:EN:PDF

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96

EU NAVFOR Somalia – Operazione ATALANTA

In seguito ai gravi atti di pirateria sempre più frequenti al largo della Somalia, il

Consiglio di Sicurezza, riconoscendo tali atti come minaccia alla pace in base al

Capitolo VII, ha deciso di incoraggiare gli Stati e le organizzazioni regionali disponibili

a coordinare gli sforzi per combattere la pirateria, autorizzandoli ad entrare nelle acque

territoriali della Somalia e ad usare ogni mezzo necessario per reprimere tali atti45.

L’Unione Europea ha deciso con l’azione comune 2008/749/CFSP di prendere parte

all’impegno sollecitato dal Consiglio di Sicurezza, prima con un’azione di

coordinamento militare attraverso una cellula di coordinamento (EU NAVCO) a

Bruxelles46, e in seguito con l’azione comune 2008/851/CFSP attraverso l’istituzione di

una missione militare, denominata Operazione Atalanta47. Il mandato assegnatole da

quest’ultima prevede:

! Fornire protezione alle navi del World Food Programme, incluso con la

presenza a bordo delle navi di unità armate dell’Atalanta, in particolare

durante l’attraversamento delle acque territoriali

! Fornire protezione, basata su una valutazione caso per caso, alle navi

mercantili mentre attraversano le aree dove è dispiegata l’operazione

! Monitorare le aree al largo della costa somala, incluse le acque territoriali

della Somalia, nelle quali ci sono pericoli per le attività marittime,

soprattutto per il traffico

! Prendere tutte le misure necessarie, incluso l’uso della forza, per

scoraggiare, prevenire, e intervenire per fermare gli atti di pirateria e di

rapine armate che possono essere commessi nell’area di interesse

! Arrestare, detenere e trasferire persone che hanno commesso, o sono

sospettate di aver commesso, atti di pirateria e rapine armate nell’area di

interesse e prendere in custodia la nave dei pirati o dei rapinatori o la nave

catturata a seguito di un atto di pirateria o di rapina armata che sia nelle

mani dei pirati, così come i beni presenti a bordo.

45 Si vedano le risoluzioni 1814 (2008) e 1816 (2008). 46 2008/749/CFSP, in: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2008:252:0039:0042:EN:PDF 47 2008/851/CFSP, in: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2008:301:0033:0037:EN:PDF

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97

! Fare da intermediario tra le organizzazioni e le entità, come tra gli Stati,

che operano nella regione per combattere gli atti di pirateria e di rapina

armata a largo delle coste della Somalia, in particolare con la forza

marittima “Combined Task Force 150”, che opera nella cornice

dell’Operazione Enduring Freedom.

Come per l’EUFOR Tchad/RCA, la direzione strategica e il comando politico

sono affidati al COPS, mentre il Comitato Militare ha le responsabilità delle operazioni

militari. Visto che si tratta di una missione con implicazioni militari o di difesa, il

finanziamento sarà a carico del meccanismo ATHENA. L’operazione è stata avviata

dalla decisione del Consiglio 2008/918/CFSP l’8 dicembre 200848.

La missione ha raggiunto la sua capacità operativa iniziale il 13 dicembre 2008, e

il suo mandato ha durata di 12 mesi. Si tratta della prima missione marittima intrapresa

dell’Unione Europea.

48 2008/918/CFSP, in: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2008:330:0019:0020:EN:PDF

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99

CONSIDERAZIONI FINALI L’Unione Africana rappresenta la speranza dell’Africa verso il cambiamento, la

stabilità, la pace, e l’integrazione del continente nel quadro dell’economia mondiale.

L’Organizzazione dell’Unità Africana ha lasciato in eredità moltissime questioni aperte,

ma anche quarant’anni di esperienza che hanno inevitabilmente condizionato la nascita

e la struttura della nuovo ente continentale: un’occasione, dunque, per correggere anche

gli errori del passato.

L’approccio proposto dall’Unione Africana è senz’altro in linea con i tempi,

perché più ampio, comprensivo, elaborato e integrante, però richiede un’enormità di

risorse per l’attuazione. L’Unione Africana può rappresentare un grande passo in avanti,

pur senza dimenticare che gli ostacoli e le sfide verso la stabilità richiedono tempo e un

impegno consapevole e duraturo da parte di tutti gli attori in vista di un loro

superamento.

Vero è che sarà possibile mettere alla prova l’architettura di pace e sicurezza

africana solo quando entreranno in funzione tutti i suoi meccanismi. Se da un lato

l’African Standby Force e il Continental Early Warning System lasciano sperare in una

risposta rapida e concreta alle crisi, dall’altro la difficoltà della loro messa in atto ispira

una certa diffidenza. La preoccupazione – per dirlo in altre parole – è che il sistema resti

monco o che comunque non lavori al massimo delle sue potenzialità, restando

incompleto come è successo al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Da questo

punto di vista, saranno di importanza vitale la volontà degli Stati membri dell’UA e il

sostegno della comunità internazionale, a livello finanziario come logistico.

Rimangono da chiarire alcuni punti, come, ad esempio, il meccanismo per le

decisioni da adottarsi in base all’art. 4 (h) e (j) riguardanti l’intervento in uno Stato

membro. Non è infatti specificato come tali decisioni vadano prese: l’intervento

dell’Unione Africana nelle Comore si può giustificare in base all’art. 4(j)? A mio modo

di vedere, l’intervento non rientra, infatti, nell’art.4 (h), poiché non si tratta di gravi

circostanze quali crimini di guerra o genocidio. L’art. 4 (j), invece, fa per l’appunto

riferimento all’intervento su richiesta di un membro per ristabilire la pace e la sicurezza:

tuttavia nella decisione dell’Assemblea non v’è alcun richiamo a nessun articolo, né

tantomeno si fa riferimento a nessuna richiesta particolare del governo delle Comore.

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100

Tale richiesta potrebbe forse essere considerata implicita, dato il consenso espresso per

il dispiegamento della missione MAES che ha operato nei mesi precedenti

all’intervento, ciò nonostante questo appare, a mio parere, una forzatura. Come si vede,

non v’è chiarezza riguardo l’operativizzazione di alcuni aspetti dell’architettura di pace

e sicurezza, anche su questioni, come queste, di importanza fondamentale.

Un altro punto di forza che può trasformarsi in un punto debole è rappresentato

dalla cooperazione tra l’UA e i RECs. È fondamentale che le risorse non vadano

sprecate a causa di un coordinamento inefficiente, specialmente considerando che alcuni

meccanismi regionali hanno già acquisito esperienze importanti nel campo del

mantenimento della pace, in cooperazione anche con le Nazioni Unite. Ancora una

volta, la prova del nove è rappresentante dall’esperienza dell’African Stanby Force,

poiché si prevede che proprio i RECs possano costituire le brigate regionali messe a

disposizione del Consiglio di Pace e Sicurezza.

La Nazioni Unite, l’Unione Europea, e molti altri attori della comunità

internazionale (Stati inclusi) sono e saranno indispensabili per la riuscita dei progetti

africani. Sebbene l’idea basilare sia quella di fornire “soluzioni africane ai problemi

africani”, c’è anzitutto bisogno di contribuire all’istituzione di strumenti efficienti

tramite cui l’Africa possa gestire i suoi problemi. Le Nazioni Unite si stanno

ampiamente adoperando nel campo del mantenimento della pace attraverso il sostegno e

il dispiegamento di peace support operations, nonché attraverso le agenzie

specializzate. Ancora una volta, bisogna allora sottolineare che il coordinamento tra

l’organizzazione mondiale e l’Unione Africana sarà tanto più indispensabile, sia per

mantenere un legittimo ordine nelle relazioni internazionali che per la migliore gestione

delle risorse. L’Unione Europea, per parte sua, ha avviato programmi di lungo termine

soprattutto in ambito economico, strettamente collegati agli ambiti di pace e sicurezza e

di good governance, senza rinunciare, al contempo, ad impegni militari contenuti.

L’Unione Africana deve pertanto muoversi su tre diversi piani intersecati tra loro per

raggiungere l’efficienza: il mantenimento della pace (o più in generale il piano di pace e

sicurezza), la good governance e l’economia. Per questa ragione, l’architettura di pace e

sicurezza è destinata a non avere futuro se verranno trascurate le dimensioni civili,

politiche e economiche nei progetti a lungo termine. Programmi come il NEPAD o la

partnership con l’Unione Europea sono dunque essenziali al raggiungimento

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dell’indipendenza – se così vogliamo dire – del continente.

Resta infine da sottolineare che ad avere la responsabilità primaria per il

funzionamento dell’architettura sono gli Stati membri dell’Unione Africana. D’altronde,

sono stati loro a deciderne la struttura e adesso sono loro a doverla attuare. A questo

proposito risulta però difficile pensare che vi sia una “volontà” sincera da parte di Stati

come il Sudan o la Repubblica Democratica del Congo, che sono teatri di alcune delle

tragedie più terribile della storia mondiale. Come è stato illustrato nell’introduzione e

nel primo capitolo, gli Stati africani sono ancora lontani, per la maggior parte dei casi,

dal dimostrare la maturità necessaria per gestire la situazione di caos e violenze presenti

nel continente.

Bisogna quindi augurarsi che i leader africani si rendano conto, anche attraverso

programmi come il African Peer Review Mechanism1 e programmi che vincolano gli

aiuti alla good governance, che l’indipendenza del continente africano dipende

dall’apporto di ogni singolo Stato che lo compone, in un contesto di solidarietà e

cooperazione. Al di là di ogni aspetto materiale ed economico, è essenziale la volontà di

chi prende le decisioni. La storia insegna: le Nazioni Unite hanno inventato il peace

keeping solo in base alla volontà di far fronte alle necessità, poiché nella Carta nulla si

dice espressamente a riguardo. Senza la volontà di far funzionare l’architettura africana

per la pace e la sicurezza, l’Unione Africana potrebbe apparire una macchina senza

carburante. Ma se, invece, si concretizzerà la volontà per avviare e continuare a

sostenere questo importante e imponente progetto, l’Africa potrebbe ritenere di aver

imboccato la giusta direzione in vista della pacificazione duratura.

1 L’African Peer Review Mechanism è uno strumento ad accesso volontario per il monitoraggio della conformità dei governi africani ai valori e agli standard di good governance, includendo l’ambito politico ed economico. L’APRM è contenuto nel quadro del NEPAD (New Partnership for Africa’s Development)

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RINGRAZIAMENTI

Questa tesi ha significato per me mesi di lavoro e di sudori. Per tutte le persone che mi

sono intorno, ha significato mesi di pazienza, e per questo devo ringraziarle tutte.

Innanzitutto i ringraziamenti accademici: un grazie sincero alla professoressa Cristiana

Fioravanti che mi ha seguito per tutto il lavoro, facendomi capire ed imparare lezioni che vanno

oltre la stesura di una tesi. Un ringraziamento speciale lo devo a Leòn, consulente prezioso e

indispensabile.

Sul piano personale, ci sono veramente tante persone che devo ringraziare. Partiamo dai

guasconi, ossia Mara, Riki, Carol e Stany: senza di loro Padova sarebbe insopportabile, e la mia

vita molto più noiosa e vuota. Grazie a tutti gli altri padovani, di nascita e di adozione: Alice,

Ilenia, Elena Mamba, Francesco, Carlo, Laura e ai compagni di università (troppi per citarli, ma

ricordiamo Andrea ed Elena per farli felici). Un grazie a Picci, che tra altissimi e bassissimi mi

ha accompagnato durante i miei primi tre anni di università. Salendo sui monti, ringrazio la mia

squadra di calcio, in cui da più di 10 anni mi sento come in famiglia, e che ho dovuto trascurare

parecchio per colpa di questa tesi. Quindi grazie al capitano Clod, a Lara, Mara (best friend!),

Vero, Chiara, Ambra, Sari, Dag, Giulia e a tutte le altre. Grazie a tutti i miei amici di Cortina:

Andy, Mario, Giacomo, Cristiano, Francesco e tutti gli altri. Voglio ringraziare anche gli amici

che ho conosciuto in Erasmus, perché è stata un’esperienza che ha fortemente segnato la mia

vita, e loro resteranno per sempre nel mio cuore. Ovviamente, un ringraziamento di cuore va

alla mia famiglia: a mamma e papà, a mio fratello Luca e alle mie sorelle Stanilla e Matilde,

sempre uniti nonostante le difficoltà e le distanze. Infine, un grazie particolare, davvero

particolare, va ad Elena, per avermi dato la possibilità di starle accanto e la forza e la voglia di

vivere.

Grazie a tutti quelli che mi sono stati accanto, oggi e ieri, perché dentro questo lavoro ci

sono io, e quello che sono io dipende anche da quello che mi avete dato voi. Grazie per esserci,

grazie di esistere, grazie per la pazienza.

Livestrong.

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