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Catalogo nuda proprietà 9 giugno 2011

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contemporary art exhibition

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Ufficio Stampa: Mauro Orrico

Grafica catalogo: Pasquale Luongo

Un ringraziamento particolare a:

Claudia Pietrangelo

Umberto Visca

In copertina foto di Francesco Vizzini

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Nuove forme dell’abitare

contemporary art exhibition

Un progetto di GLORY ALLa cura di Roberto D’Onorio

9 giugno 2011 - piazza Vittorio Emanuele II Roma

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Annabella CuomoClaudia PadoanSerjCarmen ColibazziFilippo RinioloIndustriaIndipendenteDiego PagnottaLuca DonniniFrancesco VizziniGiacomo OrondiniTea Falco

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Nuda Proprietà è un suggestivo dogma del diritto che ha che fare con l’attesa e il possesso del bene cui è relativa. Nel passaggio epocale che stiamo affrontando l’attesa sembra essere l’unico sentimento che testimonia il presente in tutti i suoi campi: dalla risoluzione politica a quella economica, dalla individualità di principi alla verità. Questa nuova condizione apparentemente imprenscindibile ci pone di fronte ad una realtà confusa, in cui l’espressione artistica si trasforma in un canovaccio ideologico. Linguaggi preesistenti divengono il manifesto di una messa in scena paragonabile al teatro dell’assurdo post-atomico, in cui ci collochiamo come eterni procrastinatori, come meri ascoltatori di un dialogo univoco che suona come una voce perentoria, lasciando soccombere il nostro punto di vista a quella coerenza imbecille citata da Giuseppe Prezzolini.Questa situazione, incerta o drammaticamente certa, costringe il futuro artista ad allontanarsi da una ricerca libera e personale di significati e significanti, i cui canoni, radicati in uno scenario di verità relative, lo privano di una visione unitaria d’insieme. Da questa consapevolezza nasce la collaborazione con Glory All, volta a garantire alle generazioni

presenti gli stessi diritti e opportunità di cui hanno goduto generazioni passate. Nella mia intuizione, “Nuda Proprietà” rimanda a una visione Lamarckiana in cui il cambiamento evolutivo non è solo ambientale ma anche individuale. Il soggetto-artista dunque, a partire dal proprio genio interiore, può produrre una trasformazione nella collettività superando il proprio Io col soggetto arte. L’individuo distaccato e indipendente dal mondo, domina il luogo e lo invade con il suo linguaggio in una costante tensione tra la prospettiva di quello che sarà e il proprio mondo interiore ora. Lo spazio così, prende la forma e la vita dell’immaginario, si nutre e si crea delle tensioni, finalmente liberate, facendo da ponte a generazioni affini, passate e future.In linea di pensiero con la Filosofia dello scetticismo, la mostra propone l’interazione con l’altro come possibile cura. L’impegno intellettuale si deve tradurre in uno sforzo condiviso che vede la partecipazione di undici artisti, la cui competizione è viva non nel senso di gareggiare per arrivare a vincere o a perdere, ma secondo il suo etimo cum petere: camminare insieme, cercare insieme.

Roberto D’Onorio

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Annabella CuomoPhotographs: Necessary Reconstructions

La serie fotografica “Necessary Recostructions” presentata dall’artista pugliese Annabella Cuomo per Glory All sembra nascere dal desiderio di rivisitare la propria storia e il proprio passato. L’opera si presenta come frammento di un discorso mnemonico, in cui la figura apparentemente statica va intesa come portatrice di movimento, quasi coreografie che vanno ben oltre la sola fissità, in cui il gesto diviene segno. Il principio attivo che muove il set up della memoria nelle otto immagini è ciò che esse articolano attraverso l’assenza e la copresenza. In questo altrove ritrovato tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la proiezione. Niente si esaurisce. Comprendiamo da un primo sguardo che provengono tutte da un album di famiglia in cui rintracciamo, oltre alle stesse persone colte in diverse situazioni, anche i luoghi e i diversi periodi della vita legati all’infanzia dell’artista. Come i palazzi voyeur che prepotentemente spiano attraverso la finestra l’intimità di Annabella o ancora il bivio generatore del lutto affettivo. Sempre presente è anche una figura su cui il tempo sembra non lasciare traccia: una donna giovane e magra dai lunghi capelli neri. L’artista, infatti, rielabora e manipola vecchie fotografie che diventano qui formidabili medium per arrestare il divenire.

La Cuomo si inserisce nei vari supporti come leitmotiv pur rimanendo un personaggio esterno, una sorta di onnipresente fantasma che si trattiene al margine degli eventi. Il confronto con le fotografie del passato non risponde tuttavia all’esigenza di uno sguardo retrospettivo; l’opera volge alla realtà nel tentativo di travalicarne la dimensione spazio-temporale, incontrando virtualmente i luoghi e i propri affetti in diversi momenti della vita. Con una composizione surreale della verità, l’artista sopprime la distanza e, attraverso foto d’occasione, si volge contemporaneamente al proprio presente e alle proprie origini. In questa vera e propria manipolazione dell’assenza si dà luogo ad una reminescenza di sentimenti multipli: dubbi, desideri, malinconie. Lo sforzo di ricostruire il passato, salvare il ricordo, costituire l’identità del presente e definire un’apertura sul futuro, avviene come in una recita in cui vi è una scenografia dell’attesa organizzata, modificata, ritagliata in un lembo di tempo in cui la protagonista mima il ritrovamento dell’oggetto amato. Vicina a Moira Ricci nel delicato romanticismo e a Lucila Quieto nella forza evocativa delle immagini, Annabella si pone nel panorama contemporaneo come reporter dell’assenza.

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Al centro dell’opera di Claudia Padoan vi è il corpo

umano, la sua esistenza e la sua individualità.

L’artista stessa diventa così il motivo centrale

della riflessione.

Sin da giovanissima lavora su due fronti opposti e

allo stesso tempo complementari: la scultura e la

performance in cui, nella loro poetica esprimono

una stessa volontà di movimento. Un movimento

volto ad esprimere gli stati dell’essere, circoscritti

in fallaci confini. Sono questi stessi confini,

secondo l’artista, che devono essere distrutti.

Sin dai primi lavori corporei usa materiali deperibili

come correlativo oggettivo della fragilità d’animo,

strumenti con i quali tratta i grandi temi della sua

arte. L’espiazione, la carnalità, la rigenerazione

sono ancora una volta presenti nella performance

“L’irrecuperabile” presentata per Glory All, dove

Claudia Padoan si mostra nella sua più forte e

incisiva interpretazione della vita. Gli elastici che

legano l’artista sono corde da spezzare, sono

ferite da cui guarire, fili che collegano la sorte di

un individuo al suo passato.

Questa performance parla di perdite, del lasciar

qualcosa indietro e non voltarsi. Di allontanarsi

dallo spazio della sofferenza dove il senso

diventa condivisione di sentimento e sentimento

condivisibile. È questo il vero spirito dell’opera

della Padoan, rendere un’emozione parte di un

tutto e di tutti.

La ricerca dell’artista, nel seguire e sperimentare

nuovi generi, non è casuale ma è stimolata da un

impulso volto a curare le proprie lacerazioni.

Un processo di esplorazione che assume i connotati

di un’analisi spietata, quasi dissezionante del

proprio Io.

Claudia PadoanPerformance: L’irrecuperabile

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Nel campo d’azione della pittura di grisaille si possono far rientrare buona parte di quegli artisti presentati in una mostra del 1960 sotto l’etichetta “Monochrome Malerei.” Il fatto di avvalersi di una pittura monocroma non costituisce che uno degli aspetti di quest’arte, ne è un esempio l’enigma che avvolge l’imponente superficie dell’opera di Serj, la quale affronta con chiarezza gli umori e i disagi di quello che viene suggerito dal titolo dell’opera stessa. “Contenitore Scarto” si presenta come “taglio” idiomatico, in cui una cesura linguistica divide il senso e l’agire del piano. Dualità che vede nell’autodisciplina di segno una metodologia calibrata volta alla rivelazione di quelle linee guida dall’arte costituita. Così come afferma l’artista: “Ogni operazione artistica dipende dal proprio metodo, necessita della propria libera

autodisciplina, intesa come capacità di comportarsi secondo dettami dall’arte stessa costituiti, di conseguenza infiniti.” L’anima opaca presente in Contenitore Scarto lascia al caso oscuro il nucleo dell’opera, immergendo lo spettatore in un’esperienza estatica, in un accadere impassibile e rarefatto dove il tempo rallenta e si congela nella luce del colore. Lo spazio intorno diviene parte integrante della visione che l’occhio esterno non può che guardare da lontano. Contemplazione che nasce dal concetto di distanza, che complice dell’imponente opera, defunzionalizza il possesso dell’oggetto lasciando al fruitore una mancanza sul piano sensoriale tattile. Gli altri sensi si mettono in moto. L’opera di Serj diviene, così, un immenso specchio dell’anima, una dimensione che si può guardare e, se si riesce, ascoltare.

SerjPainting: Contenitore Scarto (traiettoria scarto)

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La ricerca dell’Io, della propria identità culturale, è al centro dell’attività artistica di Carmen Colibazzi. Identità che diviene luogo intimo d’indagine nei suoi intensi e delicati lavori. Gli elementi tessili sono i medium con cui l’artista si accompagna passo dopo passo, nel mito, nella religione e nella memoria delle arti tradizionali femminili. Così come in Annette Messager e in Annegret Soultau gli strumenti di Carmen Colibazzi vengono sottratti dall’immaginario collettivo per divenire narrazione interiore. La performance “Memoria Giovane” presentata per Glory All, vede l’artista attiva in un’azione che racchiude in sé molteplici significati. L’atto performativo è il camminare lentamente ai margini di due spazi, tra interno ed esterno, a srotolare gomitoli di lana, per lo più rossi, come un rito antico, come un gesto atavico che si ripete nel tempo e riempie lo spazio.

L’azione gioca su più piani di senso. Come si può srotolare il gomitolo, così il proprio passato, fino a comprenderlo, a difenderlo e a metabolizzarlo. Come si può tendere il filo, così la nostra vita da un lato all’altro dello spazio, si può lasciare appesa o anche tesa. Il prima e il dopo in un unico gesto. Quello che la Colibazzi mostra è un piccolo e semplice gesto che racchiude dei significati profondi e unici. Non esiste più il super uomo nietzschiano, teso a mirabolanti azioni, ma una donna che fa una piccola magia. La tematica che emerge, quindi, è la denuncia ad un’onnipotenza rincorsa con ansia e frustrazione, dettata da una società sovversiva alle possibilità. Il protagonista, oltre all’artista che tesse una tela vitale, è l’elemento tessile che si impone sulla città, sull’elemento urbano e ne entra a far parte, ne costituisce, alla fine, la vera essenza.

Carmen ColibazziPerformance: Memoria giovane

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Filippo RinioloInstallazione: Dream of Ahmadinejad

“Dream of Ahmadinejad” è una evocazione ribelle che prefigura una realtà lontana dall’Occidente civilizzato ma allo stesso tempo così costante e pregnante da scaturire in Filippo Riniolo una riflessione. La realtà islamica è la linea portante di questa installazione. Il titolo emblematico narra i proseliti di schieramento del capo di stato iraniano contro l’occidentalizzazione del Medio Oriente. La carta da parati che tappezza il muro della sala, mostra la ripetizione di un arabesco che parte da una struttura esagonale formata da triangoli. L’occhio dello spettatore deve essere attento, secondo l’artista, a carpire come all’interno di ogni singolo elemento, che compone il modulo, sia situato uno degli otto triangoli con cui i nazisti segnavano gli uomini condannati nei lager. Il parallelismo con la

realtà contemporanea è forte e vivo. In fondo, far coincidere la questione araba e le mosse del suo dittatore con le violenze naziste non appare difficile. In questo pensiero dicotomico si pone la denuncia dell’artista: una parte di mondo che si fonda ancora su una visione totalitarista e l’altra parte che invece vuole espatriare la sua democrazia fittizia. Filippo Riniolo gioca con lo spettatore, la cui attenzione deve essere prima stimolata da una visione estetica di una perfetta geometrica poi, si richiede un livello di conoscenza più profondo da aprirsi al significato intrinseco dell’opera. La bellezza dell’oro viene storpiata dalla drammaticità del rimando sociale. La delicatezza di un arabesco colpita dal ricordo di un epoca storica di violenza e sterminio.

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Luce presa in prestito rivela una situazioni dolorosa con brutale onestà. L’uso del neon, che nella seconda metà degli anni sessanta vede nei lavori di Joseph Kousut la dicotomia tra il sé tautologico dell’arte e le idee che essa esprime, viene messo in crisi dal cambiamento di senso che lo slogan di Filippo Rinuolo vuole esprime nell’opera “A cosa serve Ichino?”. Un cambio di significato che vede nella fragilità del vetro una consapevolezza torbida e contraddittoria. La differenza che nasce dal costruttivismo russo di Talin viene dall’incomprensione insita nella scritta che campeggia nel fondo della parete negli spazi di Piazza Vittorio. Dietro il motto centrale del 900, quale lifelong learning (letteralmente: formazione lungo tutto il corso della vita), si nasconde la più atroce condanna, così come assurge lo stesso Filippo: “Se il secolo scorso è ruotato intorno al lavoro come paradigma della storia e della politica, il secolo corrente ruota intorno alla conoscenza come elemento centrale tanto nell’emancipazione dei singoli e delle comunità quanto nelle nuove frontiere del capitalismo.”All’origine la scritta di Riniolo si presentava di metallo ed era destinata ai luoghi di formazione,

di cultura o dove si svolge il lavoro precario, ed era accompagnata da filo spinato ai lati, per Glory All, l’artista la rimaneggia nei materiali ma non nell’evocazione, facendola diventare un site specific lucente, un neon bianco. Il parallelismo con la scritta che campeggiava all’entrata del campo di concentramento di Auschwitz appare chiaro. Un confronto appositamente forzato. Filippo Riniolo sembra quasi cinico nel voler raffrontare due realtà così distanti, l’una lontana e orribile, l’altra vicina ma non così terrifica: il lavoro forzato dei lager e il lavoro precario dei giovani di oggi. Il nome dell’opera “A cosa serve Ichino?” rimanda alle posizioni di un’esponente del centrosinistra italiano il quale, nel suo saggio, “A cosa serve il sindacato?”, sdoganò l’idea che la precarietà potesse essere un volano per l’economia dell’Italia. La critica è forte ed evidente e la polemica sociale irrompe come nella maggior parte della produzione dell’artista che, con attenta capacità, ripercorre alcune tappe fondamentali della contemporaneità e le declina attraverso uno sguardo al passato, usando linee guida parallele sarcastiche e beffarde.

Filippo RinioloSite specific: A cosa serve Ichino?

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“Il sole si offuscò mentre la luna si faceva di sangue, le stelle precipitarono come frutti acerbi scossi da un vento bastardo. Il cielo si accartocciò come un foglio di giornale. Tutti i monti e le isole persero i loro posti. E tutti i capi, i potenti, i re, gli schiavi dicevano ai monti, alle rocce, ma soprattutto al cielo di spegnersi sopra di loro. E respiravano piano. Quando il cielo si spense.”

La performance nasce da un paradosso.La specie dei tirannosauri dominava il mondo e la natura fino a quando un meteorite spense per un attimo il cielo, rimportando tutto indietro e mostrando un mondo vuoto, di nuovo primordiale.Ed era proprio il t-rex, re incontrastato della natura, ad avere un cervello molto simile a quello dei mammiferi che, secondo alcuni scienziati,

avrebbe subito una sorta di evoluzione mancata impedendoci per sempre di sapere come il mondo si sarebbe trasformato nel corso del tempo.La performance racconta un mondo a cavallo tra le guerre, gli stermini, le razzie e le prevaricazioni, un momento prima di spegnersi, con nuovi protagonisti, ibridi di una sorte comune: mezzi uomini e mezzi dinosauri con cuore e sentimento pronti a divorare senza pietà e allo stesso tempo struggersi per la fine della propria specie.Articolata in più parti la performance culmina in una monodia in cui il canto ad una voce sola diventa l’urlo disperato di una moltitudine: una specie destinata ad estinguersi e a subire un’evoluzione mancata, proprio ciò che accadde al re dei dinosauri milioni di anni fa.

Industria Indipendente Performance: WHEN THE SKY GOES OUT (We are golden)

testi: Martina Ruggeriperformers: Jose Antonio Dammert, Roberto Rotondo, Michele Di Vito, Alessandro Formica, Giorgia Visani.violino: Carlotta Taschinidj set: Alessandra Grecomusiche originali: Industria Indipendentevideo: Paola Rotassoproduzione esecutiva: Elena Muratore

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“Forzata a sostenere l’insostenibile, costantemente a confronto con i fasti del passato, appesantita e impaurita dall’impossibilità di potersi rapportare e confrontare con i maestri del passato sempre più lontani in tempo e bravura”.

Così Diego Pagnotta descrive la società di oggi. Lungimirante artista e fotografo di corpi nudi che appaiono antichi e quasi nobili, dimostra negli spazi di “Nuda Proprietà” di avvalersi di uno spiccato senso del contemporaneo. Questa sua opera nasce durante la presa visione del luogo. Un site specific che racconta un po’ del passato e un po’ del presente. Alla base delle colonne di cemento, all’interno dello stabile di fine Ottocento, costruite per ricordare i fasti originali del loro tempo, saranno poste delle cornici. Queste daranno l’idea di un decadentismo onirico. La cornice, in effetti, rimanderà ad un’epoca che non esiste più, facendo da anima ad una costruzione amorfa e asettica.

Le colonne di cemento corrispondono secondo l’artista a una violenza gratuita, fatta a discapito di una genuinità. L’uomo corrompe per avere una preziosità, per avere una perfezione estetica da rimirare. Così, nella visione di Diego Pagnotta, il moderno invade il classico e lo sporca. “L’intersezione tra marmo e cemento rappresenta l’infiltrazione tra l’antico e il moderno. Lo scempio invasivo del cemento a sostenere il pesante arco di marmo è la rappresentazione materiale della socieà moderna.” Quello che appare chiaro è un classicismo sovrastato da un modernismo becero. La società moderna vuole sempre più distaccarsi da quella che è la sua tradizione sostituendo, decostruendo, minando le basi, appunto, le colonne di un passato. Pagnotta, quindi, partendo dallo spazio, lo monumentalizza. Restituisce la dignità che merita, senza partecipare attivamente e personalmente, ma ponendo oggetti che sono correlativi oggettivi della sua poetica.

Diego PagnottaSite specific

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Dalle stigmate del “proibito” di Diane Arbus ha inizio la parabola artistica di Luca Donnini che giunge alla fotografia come strumento di ricerca volta a raccontare il “corpo nel movimento delle identità di genere”. Lo straniamento e il senso di atemporalità che le sue immagini naturalmente producono non costituiscono il fine del linguaggio, ma piuttosto il punto di partenza per un’indagine curiosa. Le figure dell’artista romano per una sorta di eccesso di verità svelano come le categorie del tempo e della coerenza non siano che costruzioni e riadattamenti della nostra mente, così come profetizzava Brassai: “Il surrealismo (…) non è altro che il reale reso fantastico dalla visione”. Indugiando su un popolo notturno di amanti, lavoratori, malavitosi e frequentatori più o meno loschi, fin dentro alla vita segreta delle case chiuse, senza dimenticare le sue “visioni diurne”, le opere di Donnini si aprono alla dura scoperta di quella sub-realtà urbana che diverrà protagonista assoluta delle sue fotografie. La ricerca sensibile di un esasperato realismo trova punti di contatto con le immagini scattate da

Walker Evans per le vie di Chicago, o (specialmente per quanto riguarda il suo primo periodo) con le incisive “istantanee” dai toni espressionistici di Frank e Faurer. Fotografo attento nel trovare sempre il rapporto diretto di uno sguardo rivelatore, che ottiene anche grazie alla scarsa carica aggressiva del tipo di attrezzatura fotografica di cui fa uso: la sua macchina, una Rolleiflex, che è un limite psicologico posto a tutela reciproca. Nel lavoro presentato per Glory All colpisce proprio l’evidente esistenza di “un’empatia non sentimentale”, una forma di reciproca accettazione. Il suo stile illusoriamente semplice e classico conferisce un’incongruente solennità agli individui che per lui posano guardando al suo obiettivo senza inibizioni, siano essi ermafroditi, nudisti, gemelli, strane coppie borghesi, animali o giovani manifestanti. Una particolare attenzione iconoclasta delle immagini e della serialità compositiva nel linguaggio, conferisce agli ospiti di “No Nude” una valenza ironica pregressa di peccato originale, restituendo la condizione umana al divino.

Luca DonniniPhotographs: No nude

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“Il progetto Rumore Bianco o Dylar è composto dalla proiezione di immagini e da tre monitor; su di essi vengono trasmessi in loop video di noise pattern trattati con lenti convesse posizionate davanti l’obiettivo della camera. Il titolo dell’opera rimanda al libro di Don De Lillo, White Noise. In questo progetto esploro alcune tematiche discusse nel romanzo come il consumismo dilagante e la prepotenza dei mass media. Alle immagini del deserto, scattate nel Nevada e nella Death Valley, viene affidata la rappresentazione del desiderio di evadere, di ritrovare se stessi nell’isolamento di luoghi lontani. Il fragore del suono di sottofondo, ottenuto dalla registrazione di elettrodomestici e analogo al white noise, manifesta invece l’impossibilità di fuggire dal caos rumoroso della nostra società.”

Quando non c’è sincronizzazione con le frequenze di qualche fonte trasmittente, l’immagine che si riceve sullo schermo è quella di un segnale vuoto. In realtà, quello che si presenta davanti agli occhi è la visione impossibile di più informazioni. Ogni variazione è determinata da altre esterne, come i movimenti nella stessa stanza o ancora radiazioni più distanti. C’è semplicemente tutto.

Quello che Francesco Vizzini vuole donare attraverso la sua performance per Glory All, “Rumore Bianco”, è sicuramente una contraddizione e allo stesso tempo una congruenza. Tre monitor che ripetono, come suggerisce il titolo, un rumore bianco e la proiezione di un deserto che si replica in modo speculare. Il contrasto sta nell’interazione di due visioni così distanti a livello semico e morfologico. La vicinanza sta, invece, nell’espressione di un solo concetto. Il rumore bianco del monitor e il deserto naturale si allontanano tra loro per quanto riguarda il significante, ma si avvicinano nel significato. Entrambi, infatti, ripercorrono una solitudine, uno straniamento dal reale. Il deserto naturale indica la distanza dell’uomo dalla sua realtà. Il monitor mostra un altro deserto, quello mediatico, una desolazione fatta di pixel. Sicuramente una denuncia e una volontà di tornare ad una naturalità. Il bombardamento del mass media genera un allontanamento sia fisico che psichico. Non c’è via di scampo. L’opera di Vizzini sembra voler dire che se l’uomo deve ridurre se stesso alla solitudine, allora è meglio che lo faccia in maniera libera e spontanea, percorrendo una landa fatta di sabbia e cielo.

Francesco VizziniVideo art: Rumore bianco

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Riflettendo sulla funzione del rumore all’interno della cultura del ventesimo secolo, i primi esempi di quella che ora consideriamo musica noise erano esercizi, tentativi di de-programmazione culturale concepiti come sviluppi di disturbi estetici. L’avanguardia ha sempre guardato al rumore come meccanismo strutturale per espandere vocabolari sonori. Negli ultimi anni, la musica noise ha invertito il processo. Soltanto nel 1990 il rumore acquisisce la connotazione di genere, completo di codici, espressioni idiomatiche, narrazione, compiendo un passaggio cruciale: si sposta dall’ambito politico a quello musicale. Spiega Russolo: “Nell’antichità non c’era che il silenzio, ma con l’invenzione, nel XX secolo, della macchina, era nato il rumore. Da allora il rumore regnò come un maestro assoluto per la sensibilità degli uomini.” Così, il noise si rende possibile all’interpretazione e alla percezione come linguaggio che interagisce con l’animo.Oltre a seguire le tracce dell’opera dei protagonisti degli anni ottanta come Merzbow e Hijokaidan e dei musicisti che hanno lavorato sulle basi delle innovazioni da loro apportate, questo linguaggio

documenta il lavoro di autori che non considerano la propria musica come noise, ma che utilizzano elementi a esso riferibili, come “artiglieria onomatopeica” facente parte di una strategia. Esso può essere un processo artistico legato alla performance o al suono, un modo di riesaminare un percorso compositivo o la realizzazione di un sistema di riferimento filosofico. R00M or S dice questo. La performance di Giacomo Orondini per Glory All è un live. L’artista vuole giocare con i suoni tratti dalla sua dimensione personale: R00M è la sua stanza. Gli oggetti che la popolano hanno un animo perché producono un suono irrisolto dalla solitudine dell’azione. Il performer veicola la voce a elementi di affezione, viaggia sulle corde della sua anima, mostra sé stesso nell’intimità delle sue cose. L’oggetto trova il suo valore nell’essere quell’oggetto in quel luogo. Il rumore muta la sua poetica nella ricostruzione che ne fa l’artista. Giacomo Orondini, come nelle sue opere figurative, riutilizza, rimescola, installa insieme oggetti che da soli non esprimerebbero nient’altro che solitudine. Ci parla di vita, di voce donata, di energia necessaria.

Giacomo OrondiniPerformance: R00M or S (atto II°)

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“Potevamo essere qualsiasi cosa, qualsiasi persona, un carcerato, un albero, una prostituta e invece la vita ti sceglie di importi un ‘”Punto di vista” sul quale viaggiare l’intera vita.”

Tale dichiarazione ci consegna la consapevolezza culturale della giovane fotografa che arricchisce il linguaggio fotografico intrecciandolo con un’esperienza performativa. Nelle azioni di Tea Falco la superficie visibile del segno rimanda sempre all’enigma di una profondità psichica che muove ogni suo comportamento visto in relazione con la realtà circostante, animata o inanimata. Procedendo verso una progressiva messa in crisi

del concetto stesso di autoritratto, verso una successiva e più evidente relazione del proprio corpo con lo spazio naturale e architettonico. Così come nella performance “Punti di vista” propone in maniera provocatoria uno sguardo strabico adottato giorno per giorno da ogni uomo, restituendo una dimensione onirica dove l’oggetto preso in considerazione diviene entità divina. Con una pelliccia di montone e un cappellino rosso, davanti ad uno specchio (sul quale è incollata una foto wal contrario raffigurante l’artista vestita allo stesso modo) Tea Falco vaga attorno alle sue fotografie in una stanza nuda, priva di punti di vista.

Tea FalcoPerformance: Punti di vista

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“Con il progetto “Rimango negli occhi degli altri e delle cose”, fotografie in autoscatto “difficoltoso” ibianco enero, mi rappresento di volta in volta trasformata, durante i miei viaggi, le mie scalate e nell’evocazione dei miei ricordi, senza tener conto del presente, passato e futuro: i tre tempi si uniscono in un filo continuo di preparazione certosina alla mia morte stessa, ma senza lacrime, né rimpianti. Chi può dire di non essere mai nato?

Questo è il pensiero che campeggia nella sottile personalità di Tea Falco dove la vitalità generosa e sola delle sue opere rincorre la melanconia per decantare le azioni e l’altra faccia delle cose, viste con occhio metafisico, cercando altre misure dello spazio e del tempo verso un istante interiore in cui, non potendo vivere senza poesia, cerca di scassinare la realtà mischiando la rabbia e la riflessione con l’utopia e l’ironia. Molte delle foto di Tea ci danno la sensazione che qualcosa di irrevocabile stia accadendo e noi, impotenti, possiamo solo provare ad avvertire quell’aria di tragedia compiuta. Possiamo solo guardare e godere tutta quella mise-en-scène

esteticamente e compositamente perfetta che ci introducono nel dramma. La serie fotografica che accompagna la performance “Punti di vista”, come la videoinstallazione “The act of flying”, sviluppa la poetica personale della poliedrica artista, felicemente contestuale con il clima culturale della fine degli anni settanta, anni in cui la ricerca artistica portava verso la narrazione e la figurazione. Tea Falco, con un uso rigorosamente specifico del suo mezzo espressivo, realizza attraverso le peripezie del suo corpo una serie di frame aventi come sfondo luoghi urbani, architetture domestiche e spazi siti in un altrove intimo ed evocativo. Le trame fotografiche della Falco segnalano, attraverso la pura rappresentazione iconografica, il bisogno di reintrodurre l’Io narrante nell’inquadratura, il passaggio dalla impersonalità puramente concettuale del linguaggio a una temperatura che afferma la presenza del soggetto. La fotografia è un tentativo assolutamente terapeutico della giovane catanese di confermare la propria identità minacciata dal quotidiano e dagli urti del passato.

Tea FalcoPhotographs: Rimango negli occhi degli altri e delle cose

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Annabella Cuomo nasce a S. Pietro Vernotico (BR) nel 1985. Dopo il conseguimento del diploma in pittura all’Accademia di Belle Arti di Roma, si iscrive al master di fotogiornalismo presso l’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata. Nell’autunno del 2011 prosegue la sua formazione artistica trasferendosi a Rotterdam. Trova nella pittura e nella fotografia i suoi strumenti di difesa, ponendo all’origine della sua ricerca artistica l’indagine nella propria esistenza.

Claudia Padoan nasce a Roma nel 1983. All’Accademia di Belle Arti di Firenze intraprende il corso di studi in scultura che poi conclude a Roma. Si trasferisce in Spagna dove, grazie ai corsi di formazione alla Facultad de Bellas Artes di Valencia, aggiunge nuovi importanti tasselli alla sua ricerca artistica. Attraverso performance e sculture si interroga sul potenziale comunicativo del corpo. Già dalle prime performance Gabbie e Scatole (2005), Mi lavo i sogni (2008), Comprimida, (2008) l’artista ha sottolineato un’affermazione identitaria del corpo come censura dell’Io sociale: corpo come luogo del femminile e del materno, come spazio di decostruzione e soprattutto di rigenerazione.

SERJ (Marcello Plebani) nasce a Bergamo nel 1985. Dopo la maturità artistica si trasferisce a Roma dove ottiene il diploma di laurea in pittura all’Accademia di Belle Arti, qui l’incontro con il Maestro Gianfranco Notargiacomo sarà risolutivo per la sua analisi stilistica. Nel 2010 fonda a Roma, insieme all’artista Milena Schiano, lo spazio di ricerca contemporanea HUB26laboratorio. Sempre nello stesso anno partecipa a mostre colletive e personali, esponendo a Roma in particolare per la galleria Dante Marchetti.

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Carmen Colibazzi nasce a Roma nel 1981. Consegue nel 2006 la laurea in scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, l’anno successivo partecipa con una performance alla Biennale di Istanbul. Nel 2010 vince il concorso Manicomi Aperti di Cagliari. Il suo lavoro unisce la memoria e l’esperienza svelando ciò che c’é di più fragile e vulnerabile del proprio essere.

Filippo Riniolo nasce a Desio (MI) nel 1986. Studia presso l’Istituto d’arte e fotografia vincendo nel 2003 il “premio Angelo Tenchio Tencho” e nel 2006 il “premio Boccioni”. Si trasferisce poi a Roma dove frequenta l’Accademia di Belle Arti specializzandosi in curatela dell’arte contemporanea.Il forte impegno nel sociale penetra nel suo lavoro orientato verso l’’arte concettuale. Ha partecipato a diverse collettive tra Roma, Milano e Venezia. Nel 2011 il CIAC (Centro Internazionale d’Arte Contemporanea di Genazzano) gli dedica la sua prima personale in un museo.

Industria Indipendente nasce nel 2005, dalla collaborazione tra Martina Ruggeri e Erika Z. Galli, come collettivo artistico e di ricerca, principalmente dedito alle arti visive, figurative e teatrali. Il gruppo si è da subito affermato con autorevolezza sullo scenario indipendente romano esponendo in manifestazioni culturali quali Enzimi, Despatch, RomaEuropaFestival. Nel 2008 la ricerca drammaturgica della compagnia porta alla stesura dei testi 8.10.88 e Crepacuore, quest’ultimo spettacolo vince la rassegna MarteLive 2011 e il festival nazionale Teatri Riflessi di Catania 2011. Il collettivo continua la sua ricerca nell’arte contemporanea con performance sperimentazioni teatrali.

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Diego Pagnotta nasce a Roma nel 1980. Dopo gli studi superiori decide di trasferirsi a Londra per dedicarsi allo studio della tecnica fotografica, con questo obiettivo frequenta un master in arte alla London College of Communication. Forte dell’esperienza inglese rivolge le sue attenzioni al panorama artistico oltreoceano spostando la sua ricerca artistica a New York. Nel 2010 torna in Italia e decide di esplorare nuovi linguaggi lavorando con il video e le istallazioni.

Luca Donnini nasce a Roma nel 1961. Scenografo attivo nel campo del cinema e della televisione, lavora a Cinecittà e per produzioni televisive nazionali ed estere. Dal 1997 inizia ad allargare la sua ricerca artistica verso nuovi ambiti. Intraprende una formazione di trainig attoriale e lavora con il teatro di figura muovendosi tra Barcellona, Parigi e Praga. Firma regie, messe in scena teatrali e produce installazioni e video. Il tema che sviluppa nel suo lavoro è il racconto del corpo nel movimento delle identità di genere. Attualmente usa una macchina fotografica Rolleiflex come strumento della sua ricerca.

Francesco Vizzini nasce in Svizzera nel 1975. Trascorre la sua adolescenza in Sicilia; a Catania frequenta l’Accademia di Belle Arti, specializzandosi in scenografia cinematografica e televisiva.. Nel luglio del 2009 si trasferisce negli Stati Uniti per dedicarsi completamente alla fotografia. Vive tra San Francisco e New York. Nel 2010 partecipa con il suggestivo progetto Basement in North beach alla collettiva fotografica Anatomia dell’irrequietezza tenutasi a Roma in via Margutta. Negli States ha partecipato a diverse collettive e nel 2011 è stato selezionato nella categoria tomorrow stars per Verge Art Brooklyn e Verge Art Miami Beach.

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Giacomo Orondini nasce a Lecce nel 1978. Dopo la maturità scientifica si trasferisce a Roma dove ottiene il diploma in fumetto presso la Scuola Internazionale di Comics. L’incontro con il pittore Alberto Parres e con l’associazione culturale La Porta Blu, sarà determinante per il suo approccio alla pittura che approfondisce con gli studi all’Accademia di Belle Arti di Roma. Nelle sue opere, che spaziano dalle illustrazioni alla pittura, dalla fotografia alla performance, vive la passione, la tensione e il disagio come espressione libera, spontanea, a volte violenta, abbandondosi al puro accadere.

Tea Falco nasce a Catania nel 1986. Quando sua madre le regala una Zenit con la tracolla verde speranza, Tea capisce di voler percorrere i sensi del mondo attraverso la fotografia. Grazie ai suoi scatti inizia a collaborare nel settore della moda, della musica, dello spettacolo della variopinta scena romana. Nel frattempo, colleziona diverse mostre collettive e personali che l’anno portata con una performance fino a Los Angeles. Tea ha trascinato sapori e aromi delle proprie radici siciliane nella capitale: vive a Roma, impegnata in un lavoro che desidera distruggere e ricreare il reale attraverso una continua esplorazione passionale quanto amniotica.

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