regole del gioco

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Una casa, cinque persone, solo uno può sopravvivere. Il nuovo thriller di Mario De Martino

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Underground4

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MARIO DE MARTINO

REGOLEDEL GIOCO

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Copyright © 2013 by La Corte Comunication

I edizione: maggio 2013

LA CORTE COMUNICATIONVia Paolo Regis 44, Chivasso (To)

Tutti i diritti riservatiLA CORTE EDITORE è un marchio La Corte Comunication

Cover Design: elaborazione grafica di © lassedesignen - Fotolia.com Progetto grafico: Multicreative - www.multicreative.it

ISBN 9788896325346Finito di stampare nel mese di Maggio 2013 presso lo stabilimento grafico Universal-

Book di Rende (Cs) per conto di La Corte Comunication

www.lacorteditore.it

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A mio nonno Mario, con sincero affetto e un abbraccio grande come il mare.

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Gioco [‘ʤɔko] s.m. dal latino iŏcus, ossia scherzo, burla.

1. Attività svolta da una o più persone per divertimento.2. Svago, passatempo.3. Principio nascosto che guida un com-portamento – Es. «Ho capito il suo gio-co!»

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PARTE PRIMARISVEGLIO

«L’inferno sono gli altri.»Jean-Paul Sartre

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1KIMBERLY

Istruzioni: Il gioco comincia quando tutti i parte-cipanti prendono coscienza della situa-zione.

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Una voce, nel mio orecchio: «Qual è la cosa più orribile che tu abbia mai fatto?»

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Mi drizzo a sedere, batto la testa e cado all’indietro. Che cazzo...? C’è puzza di chiuso. Sono scomoda e ho la schiena a pezzi. Quando

apro gli occhi mi rendo conto che è come se non l’avessi fatto.Buio. Ovunque.Provo a stendere il braccio, ma non ci riesco. A pochi centimetri dalla

mia spalla c’è un ostacolo; lo sfioro coi polpastrelli sperando di capire cosa sia. Lo stesso ostacolo è alla mia destra: venoso e ruvido al tatto, come il legno. Odora di terriccio bagnato.

Scalcio. Un altro tramezzo è sotto i miei piedi. E dietro la mia testa. Non può essere vero, c’è stato uno sbaglio! IO SONO VIVA!

«Aiuto! Aiutatemi!» Tempesto di pugni il coperchio sospeso a meno di

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venti centimetri dal mio naso. «Fatemi uscire!»L’oscurità inghiotte le mie grida, quelle di un’illusa che prova a parlare

sott’acqua. Assumo la consapevolezza che nessuno verrà a salvarmi. Non dovevo dare retta a Steve. Non dovevo cacciarmi in questo casino!

(«Avanti, ragazzi! Che stronzata di scherzo è mai questo?!»)Stavolta non c’è niente che possa fare, a parte pregare. Forse qualcuno

mi sentirà prima che l’ossigeno finisca, oppure morirò così. Sottoterra. Nel buio.

Aiutooooo!(«Non sento più battere! Ehi, Steve! NON SENTO PIÙ BATTERE! E se

fosse...»)Ricomincio a picchiare con foga sul coperchio, ma è come tentare di

smuovere una lastra di cemento. L’aria mi penetra in bocca – è densa, ha uno strano sapore – per fuoriu-

scire in brevi respiri. Sopra di me, il minuscolo foro all’estremità di una canna di bambù infilata nel coperchio: un respiratore improvvisato.

(Fruscio.)L’acqua penetra nella canna e mi finisce sulla faccia. Tanta acqua. Una

cascata inarrestabile.Mi dimeno. Provo a piegarmi. Tappo il foro, ma l’acqua continua a

scendere. Gli abiti inzuppati mi si appiccicano alla pelle mentre grido nella speranza di ricevere aiuto.

In un attimo sono sommersa. Non respiro più. Un formicolio mi perva-de il corpo, e apro gli occhi. Per davvero.

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Riacquisto conoscenza.Credo di essermi addormentata con la luce accesa, la stessa luce che

adesso mi trapana le palpebre.No, non è la stessa. Non sono nella mia camera, e quello che sto guardando non è il soffitto

di casa mia. La luce che brilla su di me ha un brutto colorito biancastro che mi rende livida la pelle. Proviene da quattro lampade al neon intorno alle quali svolazza una miriade di moscerini.

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Sono seduta su un pavimento sporco, ho le unghie rotte e i piedi nudi. La mia stanza è sparita: le pareti, il comodino, la sveglia, le lenzuola. Tutto. Ho ancora mal di testa, forse qualcuno mi ha appena assestato una sberla.

Sobbalzo. Mi tiro le ginocchia al petto stringendole con tanta foga da schiacciarmi i seni. Non riesco nemmeno a controllare il respiro.

Dove sono? Cos’è questo posto? Le parole mi restano incastrate in gola.

Reggendomi col braccio, provo a sollevarmi. Ce la faccio al secondo tentativo. La stanza sembra uscita da un film in costume: la carta da parati strappata scopre grosse sezioni d’intonaco color miele ed emana un cattivo odore; la polvere s’infila nelle fughe tra le assi del pavimento; i quadri (brutti) con le cornici annerite e sudicie pendono dai chiodi ar-rugginiti.

Boccheggio mentre il cuore minaccia di sfondarmi la gabbia toracica. Raccolgo tutta la forza che ho in corpo, e grido.

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«Pensavo non ti saresti svegliata più.»La donna che ha parlato ha i capelli scuri e indossa un completo grigio.

È in piedi sotto la lampada incassata nel soffitto, con le braccia incrociate e il volto serio abbruttito dal contrasto tra luce e ombra.

Non so chi sia. Riesco a percepire la puzza del suo sudore. È come se qualcuno mi stringesse le braccia e avvicinasse le sue luride labbra al mio orecchio per sussurrarmi che non ho via di scampo. Perché sono sicura di non averla. Tutto ciò che sta accadendo non è reale.

La puzza è più forte. Acre. Ho le mani appiccicose e la fronte bollente; avverto il calore che emano, oltre al mugolio che esce dal mio stomaco.

Mi appiattisco al muro e guardo la donna con gli occhi che vorrebbe-

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ro schizzare fuori dalle orbite. Ho le labbra spalancate quando tiro fuo-ri qualche schizzo di saliva e dico: «Chi sei?! Che vuoi?! Dove cazzo sono?!»

So già che non riceverò risposta, ma quella di parlare è una necessità. Ho bisogno di sentire la mia voce per assicurarmi di esistere, perché a questo punto non ho più certezze: ci sono davvero, oppure è soltanto la fantasia che smuove gli ingranaggi del mio cervello?

Sono come un gatto intrappolato in un sacco, e qualcuno mi sta agitan-do col chiaro intento di farmi perdere l’orientamento.

Cerco di mantenermi a debita distanza dalla sconosciuta, ma lo spazio che ho a disposizione non è granché. Se mi fossi risvegliata in una bara, avrei sortito lo stesso effetto.

(Era solo un sogno, Kim!)Mi hanno insegnato a diffidare della gente, anche di quella che non

pare voglia creare casini. L’espressione della donna non è mutata di una ruga da quando mi ha parlato. È perfino nella stessa posizione. Mi dice: «Calmati», ma suscita in me la reazione contraria.

Eccola. Si avvicina. Ha le mani nude, niente armi. (Niente armi. Sta’ tranquilla!)Vorrei scappare, ma i piedi non li sento più. Il legno ruvido mi pizzica

le piante. «Chi cazzo sei?!»Ho caldo, stavolta la fronte pare voglia scoppiarmi. Perfino la vista mi

gioca brutti scherzi: non è solo la sensazione di non riuscire a distinguere il giorno dalla notte – anche se non ne ho la più pallida idea – ma un sen-so di privazione che mi fa sentire come una prigioniera in un posto che non conosco. Ho perso la cognizione del tempo. Sono finita nel sogno di qualcun altro!

«Mi chiamo Alene.» Ha la classica voce acuta e femminile di chi è abituato a parlare. Non so se si trova nella mia stessa condizione. Forse sono solo io

(ti hanno rapito, Kim. Fattene una ragione! Adesso prova a cercare una via d’uscita!)

a essere stata portata qui.Ho in testa la voce della donna, però non ricordo cosa ha detto. Sento le

parole, confuse, senza senso, che echeggiano nei corridoi della mia men-te in una specie di filastrocca che minaccia di farmi scoppiare i timpani: mi chiamo...

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La fulmino con gli occhi prima che possa aggiungere altro: «Allonta-nati!»

Lei non fa niente, e questo mi rende ancora più isterica. Di solito non ragiono sulle cose, mi muovo d’istinto e spero di non farmi troppo male. Stavolta è diverso: so di essere in pericolo, e se non starò attenta mi cac-cerò nei guai.

(Sto per morire?)Mi dice: «Tranquilla...»Credo di non avere più coscienza delle mie azioni. Do una gomitata alla

piccola tela appesa alle mie spalle, e il vetro che la protegge va in mille pezzi. In un attimo ne raccolgo una scheggia, la più grande che riesco a inquadrare nei cinque secondi in cui il nostro contatto visivo s’interrom-pe. «Stammi lontana o ti ammazzo!»

So di poterlo fare. So che la ucciderò, se si azzarderà a fare un passo falso; e guardandola intuisco che lo ha capito anche lei: è spaventata qua-si quanto me, con l’unica eccezione che non ha bisogno di litigare con nessuno. Lei non vuole litigare. Nemmeno mi considera. E allora perché sto facendo tutto questo?!

«Non voglio farti niente!»Il tempo si ferma. Lei è immobile, io ho il braccio teso. Stringo il vetro

così forte che riesco a farmi sanguinare il palmo della mano. Ansimo come una cagna in calore. «Dimmi dove sono!»

«Mettilo via.» Parla lentamente. «Andrà tutto bene.»Sto tremando. Ho il volto rosso e le lacrime mi rigano le guance. Perfi-

no i capelli mi si appiccicano alla fronte. «Dimmi dove sono!»«Non lo so!» Riesco a portarla al limite dell’esasperazione. Adesso,

forse, si avventerà contro di me. «È una stanza!» dice. «Una casa!»La scheggia mi scivola dalla mano e non faccio niente per trattener-

la. Mi accorgo di essermi ferita anche il gomito. Un’orribile oppressione all’altezza del diaframma mi fa piegare in due. Non è la fame, è l’ansia. Mi manca l’aria.

Di nuovo il respiro affannoso.Di nuovo i suoi occhi che si mescolano ai miei.Di nuovo quel terribile odore. E le forze che mi vengono meno.«Stai bene?» mi chiede.Devo trovare una finestra, ma non ce ne sono. Non c’è nemmeno una

porta. Sono davvero chiusa in una bara, potrei morire da un momento

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all’altro. Forse sono già morta.Mi sfioro la faccia quasi per assicurarmi che sia ancora al suo posto.

Con gli occhi sbarrati trovo la forza di gridare: «Ci hanno murate den-tro!»

La donna non risponde. Abbassa la testa e guarda il pavimento. Proba-bilmente è una mia impressione; non vuole distogliere lo sguardo! Ades-so tornerà a guardarmi e dirà qualcosa. Qualsiasi cosa. Non se ne starà zitta come se non ci fosse via d’uscita!

«Credevo fossi morta» dice all’improvviso. «Il polso non ti batteva più.»

Impiego qualche istante a connettere il cervello sul canale giusto. Ecco che mi guarda di nuovo e mi chiede: «Ti fa male?»

Ho quasi dimenticato la ferita alla mano. Non è profonda. Strofino il palmo sul pigiama e lascio una lunga striscia rossa. Rispondo che non è niente.

«Aspetta.»Si strappa una manica e si avvicina di qualche passo. Ho ancora le spal-

le schiacciate contro il muro quando mi afferra con veemenza e avvolge il tessuto intorno alla ferita. Mi ritraggo e la colpisco in pieno volto col braccio sano. «Ho detto che non è niente!»

Ora rischio grosso, e il silenzio non aiuta.La donna fa l’unica cosa che richiederebbe una buona dose di follia

anche da parte del più pericoloso dei matti: si mette a ridere. Che cazzo c’è da ridere?

«Siamo sulla stessa barca, stronzetta. Lo sai?»Il suo tono mieloso è simile al ronzio di una mosca che mi si infila

nell’orecchio. Le chiedo: «Come sei arrivata qui?», e lei ride di nuovo, nemmeno avessi fatto una battuta.

Sposta il peso del corpo da una gamba all’altra e si piega da un lato. Dà l’impressione di essere ubriaca.

«Come ci sono arrivata?» Si morde il labbro, mi squadra da capo a pie-di. «Come ci sei arrivata tu, immagino.»

«Io... non ne ho idea!»«Ieri sera ero nel mio letto, quando mi sono svegliata stavo lì, nell’an-

golo. Puzzavo, volevo dare di stomaco, e tu dormivi a fianco a me. Ho urlato per mezz’ora, almeno credo. Non so quanto tempo sia passato. Ho picchiato sulle pareti fino a slogarmi i polsi.» Me li mostra per convincer-

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mi che dice il vero. «Poi ti sei svegliata.»Credo di aver afferrato la metà delle parole che ha detto. Sono troppo

impegnata a capire perché non ci sia una cazzo di porta. «Siamo in una casa, Cristo santo!»

«Forse» dice lei.«Che significa forse?»«Significa che non lo so. Hai mai visto una casa come questa? Sei mai

stata qua dentro, prima d’ora?»Il cuore non lo sento più. «Come hai detto che ti chiami?»«Alene. Tu chi sei?»«Kimberly.»«Ti sta sanguinando la mano, Kim.» Non serve abbassare gli occhi

per capire che ha ragione. Il sangue caldo si sta appiccicando al braccio. «Posso aiutarti, adesso?»

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Provo l’infantile necessità di urlare il nome di mia madre, e quasi mi metto a piangere. So di essere una stupida, so perfino che tutto ciò che sta accadendo non ha alcun senso e che non me ne starò ad aspettare di morire di fame. Perché è questo che vuole chi ci ha rinchiusi qui!

Mi tornano alla mente le immagini del sogno, la cassa di legno, le grida sorde e il buio. La sensazione di annegare in un’oscurità così fitta da poter essere toccata.

Il mio stomaco è in subbuglio, un puzzo nauseabondo mi colma le na-rici. Puzza di urina e di escrementi.

Una mosca mi zampetta sulla mano. La guardo senza fare nulla, av-vicino appena il capo mentre vola via. Si appoggia al pavimento, cam-mina, raggiunge il punto dove ci sono i pezzi della cornice che ho rotto a gomitate. Sfrega le zampette sui frammenti di vetro sporchi del mio sangue. Mi sale un conato di vomito e il respiro torna a farsi affannoso. D’improvviso, ho la bocca piena di saliva.

Colpisco il muro col palmo della mano e affondo le unghie nella carta da parati. In uno scatto d’ira, provoco un profondo squarcio e caccio un altro grido. Alene è impassibile. Come diavolo fa a essere così calma?

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«Dammi una mano!» la supplico.«A fare cosa?»«Se facciamo rumore, forse qualcuno ci sentirà. Deve esserci qualcuno,

là fuori.»Le mie stesse parole mi terrorizzano. E se fosse vero? Se realmente ci

fosse qualcuno?Per la seconda volta, non riesco a trattenere le lacrime.«Adesso basta, okay?» Alene scatta in piedi e colpisce il muro a spal-

late.Sollevo la testa per guardarla negli occhi. Non mi piace la sua espres-

sione. Un attimo fa sembrava rassegnata al suo destino, adesso sprizza energia da tutti i pori. Ha la fronte solcata dalle rughe e le labbra viola per la luce.

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La telecamera mi compare davanti senza che me ne renda conto. È alle spalle di Alene, attaccata alla parete. L’obiettivo nero è un occhio rapace che minaccia di mangiarmi.

Alene ruota il fianco e fa un giro su se stessa quando le sussurro: «Vol-tati.»

Il led rosso acceso indica che sta trasmettendo. E che qualcuno sta ascoltando. Adesso. In questo preciso momento!

«Sporco pervertito...»Un colpo fa vibrare la parete. Arriva dall’esterno. Striscio sul pavimen-

to e mi rannicchio nel lato opposto della stanza. «Cos’è stato?»Un altro colpo, più forte. Alene si precipita verso di me e mi stringe tra

le braccia, tappandomi le orecchie. Entrambe studiamo il foro che s’in-grandisce nella carta da parati sollevando un denso pulviscolo.

«Lasciaci in pace!» grida, la voce storpiata dalle lacrime. Perché ades-so si mette a piangere?

L’ennesimo colpo.Le sagome di tre uomini compaiono dall’altra parte del muro.

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2RYAN

Istruzioni: I partecipanti sono tenuti sotto osserva-zione fino al termine del gioco.

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Il ragazzo col tatuaggio sul collo – non gli do più di trent’anni – tasta le pareti nella speranza di trovare qualcosa. Ha detto che c’è puzza di gas, ma io non sento niente. Ha detto anche che moriremo qui dentro, uno a uno, e che nessuno ci sentirà gridare.

‘Fanculo.L’orologio che ho al polso si è fermato a mezzanotte (o a mezzogiorno)

e dodici minuti. Non so quanto tempo sia trascorso da quando ho riaperto gli occhi, e in questo momento nemmeno m’interessa.

Mi studio le vene dei polsi e le nocche delle dita, ormai spellate. Il ra-gazzo col tatuaggio si tormenta il labbro. Vuole tenermi d’occhio, quell’i-diota!

Oltre a noi c’è un altro uomo. È più vecchio di entrambi, sta seduto nell’angolo e si rigira i pollici. Vorrei sapere cosa gli passa per la testa e perché tiene la bocca cucita. Ha detto solo di chiamarsi Todd; cioè, l’ha detto a Harry (il ragazzo col tatuaggio), con me si è limitato a un’occhiata che aveva tutta l’aria di significare: «Togliti dalle palle, bastardo!»

Misuro la stanza a piccoli passi. La porta è fatta di legno, con la mani-glia arrugginita. Mi basta ruotarla una volta per capire che non si tratta di una trappola: si apre senza problemi. Chiunque ci abbia portato qui non vuole che rimaniamo nella stanza. O almeno ci ha dato la libertà di

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muoverci. «Che hai?» chiede Harry. In un primo momento penso si stia rivolgen-

do a Todd, poi mi accorgo che ce l’ha con me, perché i suoi occhi appic-cicosi sono alla ricerca dei miei. «Aiutami.»

Non so quanto sia stupida la cosa che vuole fare, ma sicuramente non ci porterà da nessuna parte; si accovaccia sulle ginocchia e appoggia l’orec-chio all’intonaco per sentire che suono produce ogni volta che lo colpisce con le nocche. «Vuoi tastare le pareti?»

Lui torna a fissarmi, stavolta la sua occhiata è viscida. «Sono sottili.» Sfrega una mano sul cartongesso. «Potrebbero sentirci, dall’altra parte.»

«Pensi sul serio che ci abiti qualcuno? Cristo santo, ti sei guardato in-torno?»

Mi accosto alla finestra e do un’occhiata fuori. È la terza volta che lo faccio, eppure continuo a sperare di vedere qualcosa: ci sono tre finestre nella stanza, tutte finte. Dietro i vetri hanno alzato un muro di mattoni!

«Allora, mi aiuti o no?»Stringo gli occhi, spazzo un velo di polvere dal maglione e scrollo le

spalle: «Continuate a fare gli stronzi, se volete. Io me ne vado.»Ho la voce ferma, non so come sia possibile. La verità è che ho una

paura fottuta e nessuna intenzione di darlo a vedere. Non a un tipo che potrebbe essere un avanzo di galera, o a un deficiente che si comporta come un mentecatto!

Però non riesco a muovermi. Non subito, almeno. Passo più di mezzo minuto a guardare gli altri, mentre nella mia mente si affollano i pensieri; come diamine ci sono finito in questa situazione?

Harry mi chiede cosa sto aspettando e, poiché non rispondo, aggiunge: «Dove vuoi andare?»

Afferro la maniglia della porta. Il corridoio che mi si para davanti è lungo e stretto, illuminato dalla stessa luce al neon che rende i miei tratti simili a quelli di un cadavere. Sento l’odore della vernice fresca. Deve esserci per forza una via d’uscita!

Una voce nuova, Todd: «Perché noi?» Non mi guarda, e non guarda nemmeno Harry; continua a tenere gli

occhi sul pavimento. «Come ci siamo finiti qua dentro?!»Harry sghignazza. «Stai piangendo?» Scopre un sorriso macchiato di

tabacco, bene in mostra sopra il pizzetto ispido. «Hai dimenticato le palle a casa?»

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«Ehi, ehi!» dico io. «Sta’ calmo!»«Non te ne stavi andando?»Proprio così, piccolo stronzo. Sputo a terra e mi allontano. Che gran

figlio di puttana!

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Nel corridoio la puzza c’è, ed è forte. Ma non è gas. L’arredamento è quello di una casa degli anni Sessanta: qualche quadro

con la cornice scrostata, la carta da parati per metà staccata dal muro, il soffitto altissimo.

Provo a pensare a quello che è successo prima di addormentarmi, ma non ricordo di aver detto o fatto nulla di troppo strano. Eppure non è possibile che accada una cosa del genere: non puoi addormentarti nel tuo letto e svegliarti in un posto che non hai mai visto. Cazzo!

Ho voglia di fumare. Anzi, ne ho bisogno. Sento il mio stesso sangue reclamare un po’ di nicotina.

Faccio un respiro profondo e mi piego in avanti per afferrarmi le gi-nocchia.

Ho la sensazione che qualcuno mi stia osservando. Sollevo gli occhi e colgo il mio riflesso nello specchio. È un brutto specchio a parete, mac-chiato e scheggiato. La polvere si è accumulata ai bordi della cornice.

Qualcuno fa il mio nome. Credo di immaginarmelo, perché non vedo nessuno e la voce è appena un sussurro. «Ryan!» sento ancora; stavolta è più vicina. Mi volto. Niente.

Torno indietro di qualche passo, facendo vibrare le assi di legno sotto le scarpe. Harry e Todd sono ancora nella stanza. Harry ha smesso di picchiare sul muro e Todd è in piedi, di fianco a lui.

Incastrata sotto al cornicione del soffitto, c’è una telecamera.D’un tratto le mie supposizioni si avverano: qualcuno ci sta guardando.

Mi sento come un bambino che si accorge di essere finito in un incubo, con la differenza che gli incubi svaniscono nel momento in cui ti accorgi di stare sognando.

L’ipotesi che si tratti di uno scherzo mi sfiora la mente per un nanose-condo e svanisce così com’è arrivata. Ho paura di muovere un dito, o di

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dire una parola. Qualsiasi reazione potrebbe compromettere la mia in-columità. Degli altri non m’interessa. È stupido pensarlo, ma non voglio avere niente a che fare con quei due. Se esistesse un modo per salvarmi il culo, non penserei a loro.

Harry agita le braccia e fa roteare il pugno in aria. Si rivolge alla tele-camera con l’autorità di chi non vuole farsi prendere in giro. È ridicolo, considerando che lui è dentro e la persona che lo sta ascoltando se ne sta chissà dove a guardarlo. «Mi ascolti, bastardo?!» sbraita. «Riesci a sentirmi?»

«Cosa cerchi di fare?» gli chiede Todd, lo afferra per le spalle e lo fa uscire dall’inquadratura.

Li guardo picchiettando la suola della scarpa contro il battiscopa. È tutto inutile, eppure continuano a insistere.

Un suono.«Zitti» dico, ma Harry riprende a urlare. «Fate silenzio!» Sento qualcosa(è la mia immaginazione che si mette all’opera. Solo la mia immagi-

nazione)che arriva da lontano, ovattata. Un tonfo sordo che si ripete a ritmi

regolari. «Che ci fai ancora qui?» mi chiede Harry, acido. Todd aggrotta la fron-

te e si accosta al muro.«Non lo sentite?» «Sentire cosa?»Torno di nuovo nel corridoio e appoggio l’orecchio alla parete. Procedo

a piccoli passi, accarezzando la carta da parati ruvida. Il suono diventa più forte, dall’altro lato. Si ripete con regolarità. Un suono umano. Delle voci.

«È oltre il muro.» Nell’apprensione, ciò che dico perde parecchie lette-re. «Non siamo soli!»

3

A pochi passi c’è un comodino mangiato dai tarli. Faccio un cenno con la mano per dire agli altri di aiutarmi.

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«Vuoi sfondare la parete?»Sarebbe un’idea. Eccome!Non prendiamo la mira, scaraventiamo il comodino contro l’intonaco.

Manca poco che s’incastri. La polvere scende dal muro e mi finisce in un occhio. Brucia. Stringo i denti e proviamo di nuovo.

Se quel figlio di puttana è dall’altra parte, io lo scoprirò. Il cassetto scivola fuori dal comodino e precipita a terra, mancandomi i piedi per un soffio.

(Suoni umani. Voci. Lamenti.)Insieme al cassetto c’è il vetro rotto di una cornice nella quale s’in-

travede una vecchia foto. Ho gli occhi velati. Mi abbasso un attimo per raccoglierla, ma Harry mi blocca il braccio. «Che fai?»

Nella foto c’è un bambino. Lo riconosco dagli occhi, dal sorriso, dalle mani. Mani che salutano. Deve essere questa la sensazione che si prova quando...

«Allora?» incalza Todd. «Forza!»Metto la foto in tasca e mando giù un grumo di saliva. Un altro colpo,

l’ultimo. Oltre lo squarcio nella parete distinguo le sagome di due ragazze che si

tengono strette in un abbraccio. Una è sporca di sangue, l’altra non riesce a staccarmi gli occhi di dosso. Il suo sguardo è appiccicoso come una foglia bagnata mentre mi dice: «Lasciaci in pace!»

Ma forse non sta parlando con me. Certo, perché dovrebbe?Sento un altro rumore. È chiaro.Driiiin! Driiiin! Driiiiin! Proviene dal corridoio alle mie spalle e si perde nella semioscurità.

Stavolta non è umano. DRIIIIIN!

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3HARRY

Istruzioni: Il Master può contattare i giocatori me-diante apparecchi telefonici (o strumen-ti analoghi) reperibili all’interno della casa.

1

Quell’uomo non mi piace. Non fa che guardarmi, e ogni occhiata mi trapassa il cervello. Prima si toglie dalle palle, meglio è.

È chiaro che non gli sono simpatico. Non sono un tipo a posto, so bene qual è l’impressione che faccio alla gente. Ho in testa gli occhi dei pendo-lari alla fermata della metro, nei parcheggi dei centri commerciali, nelle strade buie dove quelli come me bruciano l’asfalto nelle corse clande-stine. Insomma, guardatemi! Si vede lontano un miglio che non c’è da fidarsi, e lo ha capito anche quell’idiota di Ryan.

Ma io lo so come si finisce a essere buoni, so con che genere di perso-ne ho a che fare ogni sacrosanta volta che fingo di far parte delle “classi alte”, o come le chiamano. Io non sono uno di loro, non lo sarò mai. Nem-meno ci voglio assomigliare. Non per piacere ai tipi come Ryan!

Il suono mi richiama alla realtà, mi dimostra che non siamo abbando-nati a noi stessi, che c’è qualcuno che vuole qualcosa da noi. Cerco una risposta negli sguardi degli altri, ma nessuno è disposto a offrirmela. Sono tutti concentrati sulle due donne rannicchiate in fondo alla stanza. Forse anche loro sono nella nostra situazione, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Potrebbero fingere. Potrebbero fingere tutti!

Il suono che sento è quello di un telefono. Mi sembra così assurdo, e

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non è l’effetto della droga.Tendo l’orecchio nella speranza di riconoscerne la fonte: proviene

dall’altra parte del corridoio, dove la luce è più fioca. Todd e Ryan si stan-no già incamminando. Li raggiungo, anche se ho capito cosa vogliono fare e non ho alcuna voglia di assecondarli.

È un vecchio telefono di bachelite nera poggiato su un tavolinetto. Ri-esco a malapena a cogliere il mio riflesso – e quello degli altri – nello specchio che lo sormonta, tra la polvere e le incrostazioni. Ryan allunga la mano sulla cornetta.

«Coraggio» dice Todd. Io lo guardo storto. Ryan non si muove.Hanno tutti paura di scoprire chi è che chiama. E hanno ragione. Chi ci

ha portati qui è anche l’unico che può indicarci come uscire!Ognuno guarda l’altro, ognuno cerca conferma dall’estraneo di turno. E il telefono squilla.«Andate tutti a ‘fanculo!» Afferro la cornetta e rispondo: «Chi parla?!»Una voragine si apre sotto i miei piedi e m’inghiotte. Non ho forze, la

testa mi scoppia e il sudore mi arriva in bocca. Percepisco il sapore salato sulla lingua.

Da un lato, spero con tutte le mie forze che la voce al telefono non re-plichi alla mia domanda. Non ho voglia di sentirla, e non ho voglia di ac-corgermi della sua concretezza. Perché, è chiaro, una risposta fugherebbe ogni dubbio, mi darebbe la certezza che non si tratta né di uno scherzo né di un sogno.

(Perché, credi ancora di stare sognando?)Dall’altro capo giunge un respiro. È la conferma che qualcuno c’è, e mi

sta ascoltando. Poi una voce: «Benvenuti.»

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È il tono di un computer, o di chi parla con l’ausilio di quelle macchi-nette per la stimolazione delle corde vocali.

Todd prova a strapparmi la cornetta dalla mano. Io lo schivo.Il respiro ritorna. Stavolta dà l’impressione di essere seccato: «I giochi

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di squadra si basano sulla fiducia. Sei stato tu a rispondere al telefono, e tu solo hai il diritto di ascoltarmi. Quando metterò giù, potrai riferire agli altri le mie istruzioni. La fiducia, Harry, è fondamentale.»

Ammutolisce. Capisco che vuole invitarmi a ribattere, ma io non ho argomentazioni. Tutto ciò che riesco a dire è: «Come sai il mio nome?»

Di nuovo quel respiro, la consapevolezza di dover fare qualcosa. Non per gli altri, per me. Per non sentirmi solo. Per credere che ci sia una via d’uscita, anche quando non si vedono scappatoie.

Gli altri mi guardano. Non sono gli occhi di chi aspetta un responso, mi fissano come se le loro vite dipendessero da me. Ma si sbagliano. Non sono io a dettare le regole. Io non so niente!

«Di’ agli altri che ho delle istruzioni. Sarai il primo ad ascoltarle, quin-di fai molta attenzione a ciò che sto per dirti.»

Il mio corpo è immobile, eppure i miei occhi hanno già sondato ogni angolo del corridoio. Torno ad affondare lo sguardo nello specchio. «Dice che ha delle istruzioni.»

«Ora concentrati, ho una storia da raccontarti. Cinque sconosciuti si svegliano in una casa. Dio solo sa come ci sono arrivati, eppure a nessuno di loro importa scoprirlo: vogliono soltanto uscire di lì, a ogni costo. Ma c’è una cosa che non sanno: ognuno ha un conto in sospeso con gli altri. Pur vivendo in quartieri separati, pur svolgendo lavori differenti, hanno qualcosa che li accomuna: un debito di sangue che procurerebbe loro un biglietto di sola andata per l’inferno.»

Gli altri sono impazienti, ma non mi azzardo a parlare. Non prima che la voce abbia finito.

«Ogni angolo della casa è tenuto sotto osservazione. I cinque sventurati ignorano che io possa sentire le loro voci. Molte persone faticano a essere se stesse davanti all’obiettivo di una telecamera. A me non interessa. Ciò che conta è che si usi il cervello.»

Stringo i denti e fisso un punto a caso nella semioscurità. «Perché non ci dici come uscire e la facciamo finita?»

«Perché non sarebbe divertente. Rilassati, Harry. È soltanto un gioco.»«Come sarebbe...»«Conosci l’idea dell’inferno di Sartre? Tre persone sono condotte in una

stanza priva di finestre e specchi. Non ci sono interruttori della luce, né cibo, né letti. I tre ospiti sono i dannati, e devono scontare lì la loro pena. Credono che subiranno le più atroci torture, ma non è così. Non avrebbe

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senso infliggere loro del male fisico, l’inferno non è fatto solo di carne.»«Facci uscire di qui!»«Nel dramma di Sartre, i tre protagonisti si torturano a vicenda senza

spargimento di sangue. Preferiscono rievocare i più reconditi orrori della loro psiche, le passioni, le angosce, i peccati della loro vita precedente. Sai come termina la storia?»

«Chi sei tu? Con chi sto parlando?!»«Sai come termina, Harry?»Inghiottisco un grumo di saliva. «No.»«I protagonisti scoprono che la porta è sempre stata aperta, ma ormai

non possono più uscire. Hanno instaurato un rapporto così solido che si ritrovano nell’impossibilità di muoversi. Sono incatenati dai loro stessi tormenti.» Silenzio, ma dura un attimo. «Adesso, anche le cinque perso-ne di cui ti parlavo sono isolate. Vivono sotto una luce artificiale e respi-rano aria viziata. Sono come insetti intrappolati in una bottiglia, e solo io posso sollevare il tappo.»

Esamino le espressioni degli altri. Vogliono dirmi qualcosa, ma stanno zitti. Forse muoiono dal desiderio di piombarmi addosso e strapparmi questo cazzo di telefono!

Ho l’orecchio in fiamme e il sudore mi cola sulla faccia. Fa così caldo che potrei esplodere da un momento all’altro. «Dove vuoi arrivare?»

La voce del misterioso interlocutore non si fa attendere: «Se questa fos-se la realtà, ti direi che hai le ore contate. Ma questo è un gioco, e perfino tu hai la possibilità di salvarti. Diciamo pure che sono il proprietario della casa e che possiedo la chiave della porta. Potrei lasciarvi andare adesso o tenervi qui per sempre. Se la stanza di Sartre avesse un padrone, io sarei lui.»

«Dicci che cosa vuoi.»«Tanto per cominciare, posso anticiparti che sei già stato ingannato. E

non fare quella faccia, anche per un tipo come te sarebbe stato difficile accorgersene.»

«Cosa?...»«Fatti una domanda: è giusto fidarsi della gente? Ogni giorno, quan-

do sei in strada, al lavoro, al supermercato, ti fidi davvero di chi ti sta intorno? Come fai a distinguere gli amici da coloro che vogliono solo impadronirsi di un pezzetto della tua anima? Anche l’amico più fedele può girarti le spalle, non credi? L’inferno sono le certezze che abbiamo,

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perché quando ci crollano addosso non sappiamo più vivere. Dai rapporti che tessiamo con gli altri scaturiscono le nostre pene.»

Mi massaggio il collo. È la più brutta sensazione che abbia mai provato.«E allora tieniti forte, perché voglio svelarti un segreto: uno di voi cin-

que è a conoscenza di tutto. Sa come siete arrivati qui e quali sono i legami che vi uniscono. Conosce perfino la via d’uscita, anche se non lo ammetterebbe nemmeno a se stesso. Uno di voi cinque sta mentendo. Sei abbastanza furbo da impedirgli di vincere il gioco?»

Trattengo il respiro. Todd è così vicino che percepisco il suo alito sulla pelle del collo.

«Quando metterò giù il telefono, partirà il timer. Un segnale acustico vi avvertirà allo scadere di ogni ora. È chiaro fin qui?»

«Che genere di timer?»«È chiaro, Harry?»Ho gli occhi che bruciano. «È chiaro.» «Avete cinque ore di tempo per stabilire chi di voi potrà uscire dalla

casa. Se allo scadere della quinta ora non ne sarà rimasto uno solo, le luci si spegneranno e io potrei accidentalmente perdere la chiave della porta.»

«Cosa intendi quando dici che uno di noi sta mentendo?!»«Avete tutti la coscienza sporca, ma c’è chi ha commesso più errori

degli altri. Sarete voi stessi a scegliere il più meritevole.»«Vuoi che ci scanniamo a vicenda?!»«Cinque ore, Harry. A partire da adesso.»