salvatore r.a. l'ora di wulfgar

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ARMENIA

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ISBN 978-88-344-2358-5

Titoli originali delle opere: The Silent Blade,The Spine of the World,Sea of Swords

Traduzione di Annarita Guarnieri

Forgotten Realms and the Wizard of the Coast logos are registered trademark of Wizard of the Coast, Inc., in the USAand other countries. © 1999, 2000, 2001 Wizards of the Coast. All rights reserved. Licensing by HPG.

Art cover by Todd Lockwood

U.S., Canada, Asia, Pacific, & Latin America Wizards of the Coast, Inc.P.O. Box 707 Renton, wa 98057-0707 + 1-800-324-6496

European Headquarters Hasbro UK Ltd Caswell Way Newport, Gwent NP9 0YH Great Britain

Visit our web site at www.wizards.com

Opera edita in Italia dal Gruppo Editoriale Armenia S.p.A. Via Valtellina, 63 - Milano [email protected] www.armenia.it

Stampato da Print Duemila S.r.l.per conto del Gruppo Editoriale Armenia S.p.A.

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VOLUME 035

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L'autore:

R.A. Salvatore, nato nel 1959 a Leominster, nel Massachusetts,esordì nella narrativa fantasy nel 1988 e con il tempo si èaffermato come uno degli autori più amati e prolifici delgenere.

È il creatore della lunga e fortunata saga di Drizzt. Presso lanostra casa editrice ha pubblicato cicli narrativi ormai mitici: laTrilogia degli elfi scuri, la Trilogia delle terre perdute, L'Ereditàdi Drizzt, I soldati di ventura, La Lama del Cacciatore,Transizioni e La Trilogia del demone, seguita da L'eredità deldemone.

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Salvatore: Cronologia Opere

ND Aya: Inlcudouno schema per provare a fare un po’ d’ordine nelleopere di Salvatore che si svolgono in Forgotten Realms:DR = DalereckoningD: libri legati alla figura di Drizzt

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I SENTIERI DELLE TENEBRE

La serie I SENTIERI DELLETENEBREera, prima del 2005, unatetralogia che racconta le vicende che avvengono subito dopogli eventi narrati nella serie in quattro volumi intitolata L'EREDITÀ DIDRIZZT(Legacy of the Drow, pubblicata in linguaoriginale tra il 1992 e il 1996), e prima degli avvenimentinarrati nella trilogia intitolata LA LAMA DELCACCIATORE(The Hunter's Biade Trilogy, pubblicata tra il 2002 e il 2004). Iquattro volumi che componevano la serie I SENTIERI DELLETENEBREerano in origineLa Lama Silente (The Silent Biade, 1998), L'Ora di Wulfgar (The Spine of the World, 1999), Il Servitore della Reliquia (Servant of the Shard, 2000) e II Mare delle Spade (Sea of Swords, 2001).

Nel 2005, in seguito alla pubblicazione del volumeLa Promessa del Re-Stregone (Promise of the Witch King), che

narra vicende strettamente legate aIl Servitore della Reliquia, e di cui è il naturale seguito, I SENTIERI DELLETENEBREsono statistrutturati ex novo in una trilogia, composta ora dai libriLa Lama Silente, L'Ora di Wulfgar, e II Mare delle Spade. Ilvolume II Servitore della Reliquia è così diventato a tutti glieffetti il primo della nuova serie I SOLDATI DI VENTURA(The Sellswords), il cui secondo episodio è il già menzionatoLa

Promessa del Re-Stregone, e il terzo èLa Strada del Patriarca (Road of the Patriarch, 2006).

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PROLOGO

L'uomo noto a Luskan con molti nomi, ma soprattutto come Morikil Furfante, sollevò in alto la bottiglia e l'agitò per valutare il suocontenuto perché il vetro sporco gli impediva di vedere il livello delliquido sullo sfondo della luce del tramonto.

«Anche questa è andata», disse poi, sollevando il braccio come seavesse avuto l'intenzione di bere l'ultimo sorso.

L'uomo massiccio che gli sedeva accanto sull'estremità del molo glisottrasse però la bottiglia con una mossa rapida, dando prova diun'agilità incredibile per un individuo della sua mole. D'istinto, Moriksi protese per recuperare la bottiglia, ma il suo grosso compagnosollevò un braccio muscoloso per tenere a bada le sue mani e svuotòquanto restava del liquore in un solo lungo sorso.

«Wulfgar, ultimamente sei sempre tu a tenerti l'ultimo sorso», silamentò Morik, assestando al compagno una pacca amichevole sullaspalla.

«Me lo sono meritato», ribatté Wulfgar.Morik lo adocchiò per un momento con aria scettica, poi

rammentò la loro ultima gara, nel corso della quale Wulfgar si eraeffettivamente aggiudicato il diritto all'ultimo sorso della prossimabottiglia che avessero bevuto.

«Un tiro fortunato», borbottò quindi, anche se sapeva che non eradavvero così e aveva da tempo cessato di stupirsi per il talento di

guerriero dimostrato da Wulfgar.«Che potrei anche ripetere», dichiarò Wulfgar, issandosi in piedi e

impugnando Aegis-fang, il suo meraviglioso martello da guerra.Nel calare con forza l'impugnatura dell'arma sul proprio palmo

aperto Wulfgar però barcollò un poco e subito un astuto sorrisoapparve sul volto bruno di Morik, che si alzò in piedi a sua voltafacendo dondolare per il collo la bottiglia vuota.

«Lo pensi davvero?» ribatté.

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«Cerca di lanciarla abbastanza in alto se non vuoi rassegnarti aun'altra sconfitta», replicò il barbaro, sollevando il braccio e puntandoverso il mare aperto il martello da guerra.

«Conterò fino a cinque prima che raggiunga l'acqua», si limitò arispondere Morik, scrutando con occhi gelidi il suo amico mentrerecitava le regole del piccolo gioco che avevano escogitato moltigiorni prima.

Morik aveva vinto le prime gare ma entro il quarto giorno Wulfgaraveva imparato a seguire nel modo giusto la traiettoria della bottigliae a ridurla con il suo martello in una miriade di schegge di vetro sparsesulla baia. Adesso Morik aveva qualche speranza di vincere la solita

scommessa soltanto quando capitava che Wulfgar avesse bevutotroppo.«Non toccherà mai l'acqua», borbottò Wulfgar, osservando Morik

tirare indietro il braccio per prepararsi al lancio.Una volta in posizione l'ometto si arrestò e tornò a scrutare il suo

grosso compagno con una certa dose di disprezzo, poi fece oscillare ilbraccio avanti e indietro e all'improvviso lo mosse di scatto come pereffettuare il lancio.

«Cosa?» esclamò Wulfgar, sorpreso, nel rendersi conto che si eratrattato di una finta e che in effetti Morik non aveva abbandonato lapresa sulla bottiglia. Poi si volse a guardare verso il compagno eproprio in quel momento l'ometto ruotò su se stesso e scagliò labottiglia molto in alto e molto lontano.

In direzione del sole avviato a tramontare.

Non avendo seguito la traiettoria del bersaglio fin dall'inizio, Wulfgar fu costretto a socchiudere gli occhi per cercare di individuarlosullo sfondo della luce abbagliante del sole, e quando finalmente loscorse scagliò con un ruggito il martello da guerra, mandandoquell'arma magica di splendida fattura a vorticare sopra le acque dellabaia.

Convinto di aver tratto in inganno il compagno, Morik si lasciòsfuggire un grido di trionfo nel vedere che al momento del lancio di

Wulfgar la bottiglia era ormai bassa nel cielo e distante almeno ventipassi dal molo, troppo lontano a suo parere per poter essere colpita,

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Il bandito più magro emise una sorta di ringhio e protese in avantila spada.

«Suvvia, Morik!» cominciò a esclamare, ma prima che avesse finitodi pronunciare quelle parole Morik scattò in avanti con una rotazioneche gli permise di evitare la lama ricurva della spada e di portarsi conla schiena a ridosso dell'avambraccio dell'assalitore in modo daspingerlo verso l'al to. Il momento successivo Morik s'insinuò sotto ilbraccio dello stupefatto bandito e lo spinse verso l'alto con la destra,mentre la sinistra si spostava di scatto in avanti accompagnata da unbagliore argenteo che incrociò gli ultimi raggi del sole morente; unistante più tardi la daga di Morik si conficcò sotto l'ascella del suoincredulo assalitore.

Nel frattempo anche l'altro bandito si era fatto avanti con laconvinzione di avere di fronte un avversario disarmato e facile daabbattere, ma quando Wulfgar spostò da dietro la schiena il bracciodestro, rivelando che il possente martello da guerra era magicamentetornato in suo possesso, si arrestò di scatto e lanciò un'occhiata pienadi panico in direzione del compagno.

Quest'ultimo però era stato già disarmato da Morik ed era in fuga,inseguito dal piccolo furfante che lo beffeggiava ridendo istericamentee continuava a pungolarlo colpendolo ai glutei con la daga.

«Dannazione!» esclamò il bandito rimasto, accennando a voltarsi.«Posso colpire una bottiglia in volo», gli ricordò però Wulfgar, e le

sue parole lo indussero ad arrestarsi di colpo e a girarsi lentamente afronteggiare il grosso barbaro.

«Non vogliamo guai», dichiarò, deponendo cautamente la spadasulle assi del molo. «Niente guai, buon signore», ripeté quindi,inchinandosi più volte.

Wulfgar lasciò allora cadere Aegis-fang e il bandito smise diinchinarsi, fissando intensamente l'arma.

«Avanti, raccogli pure la spada, se vuoi», lo invitò il barbaro.Il bandito sollevò lo sguardo su di lui con espressione incredula, poi

si decise a recuperare la spada nel constatare che l'avversario era privodi armi, tranne naturalmente i suoi pugni massicci.

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Wulfgar attaccò prima che lui avesse il tempo di vibrare anche unsolo fendente, protendendo di scatto la mano possente a bloccargli ilpolso destro e imprimendo un movimento improvviso quantoviolento a tutto il braccio in modo da sollevarlo e da poterlo colpire al

petto con un devastante sinistro che gli tolse il respiro e le forze,facendogli perdere la presa sulla spada che cadde sul molo. Wulfgar diede all'uomo un secondo strattone, sollevandolo da

terra e slogandogli la spalla, poi abbandonò la presa in modo dapermettere al bandito di atterrare pesantemente, ancora in piedi, e gliassestò uno spaventoso gancio sinistro alla mascella. La sola cosa cheimpedì all'uomo di precipitare a testa in avanti giù dal molo fu lamano di Wulfgar, che lo afferrò per il davanti della camicia e dandoprova di una forza spaventosa lo sollevò poi dal plancito di almenouna trentina di centimetri, tenendolo sospeso nell'aria.

Disperato, il bandito cercò di afferrargli il braccio per spezzare lasua presa, ma Wulfgar cominciò a scrollarlo con tale violenza che luiper poco non si staccò la lingua con un morso nel tremare a tal puntoda avere l'impressione che tutto il suo corpo si fosse tramutato ingomma.

«Questo qui non ha una borsa molto fornita», commentò intantoMorik.

Nel guardare oltre la sua vittima, Wulfgar vide che il suo compagnoaveva costretto il bandito in fuga a descrivere un ampio giro e lo stavapilotando di nuovo verso il molo; adesso l'uomo zoppicavavistosamente e continuava a implorare misericordia, cosa che peròservì soltanto a indurre Morik a punzecchiargli ulteriormente i glutei,

strappandogli un gemito di dolore.«Per favore, amico», balbettò l'uomo che Wulfgar stava tenendosospeso.

«Taci!» ruggì il barbaro, abbassando con forza il braccio inconcomitanza con un deciso scatto in avanti del collo massiccio, inmodo da mandare la propria fronte a urtare con violenza con la facciadel bandito.

Adesso il barbaro era preda di una ribollente ira primitiva, un'irache gettava le sue radici in qualcosa che andava al di là di quel

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semplice incidente e del tentativo di taglieggiarli. Infatti Wulfgar nonera più in piedi su un molo di Luskan, nella propria mente lui era dinuovo nell'Abisso, nel covo di Errtu, tormentato prigioniero di quelmalvagio demone, e l'avversario che teneva nella propria stretta era

uno dei seguaci del potente demone, un glabrezu dalle braccia atenaglia o addirittura un succubo tentatore. L'illusione era per luiquanto mai reale, al punto che vedeva il fumo grigio e sentiva il fetoredell'Abisso, avvertiva il dolore della frusta e dei fuochi, delle chelesulla sua gola, percepiva il freddo contatto delle labbra del succubo.

Tutto era così nitido, così vivido! L'incubo era tornato adavvilupparlo, stringendolo in una morsa fatta d'ira allo stato puro esoffocando in lui ogni traccia di misericordia e di compassione difronte all'enormità del tormento fisico e psichico a cui era sottoposto.Poteva avvertire il contatto rovente e urticante di quei piccolimillepiedi di cui Errtu era solito servirsi, che gli si annidavano sotto lapelle e strisciavano dentro di lui, accendendogli nel corpo migliaia difuochi con le loro minuscole tenaglie avvelenate. Essi erano su di lui,dentro di lui, ovunque, le loro piccole zampe gli solleticavano edeccitavano i nervi in modo da permettergli di avvertire più

intensamente l'intollerabile agonia prodotta dal loro veleno urticante.Pur in preda a quei tormenti, Wulfgar si accorse in manieraimprovvisa quanto inaspettata di non essere più nell'Abisso e l'istantesuccessivo il bandito si sentì sollevare in aria quando lui se lo issò senzafatica sopra la testa nonostante il suo considerevole peso. Con unruggito primitivo, un grido che scaturiva dalle radici più profonde delsuo essere, il barbaro si girò quindi verso il mare aperto e scagliòlontano il suo fardello.

«Non so nuotare!» stridette il malcapitato, agitando a più non possole braccia e le gambe nell'andare a cadere in acqua a quasi cinque metridal molo, dove prese a dibattersi e a chiedere aiuto. Wulfgar però glivolse le spalle senza mostrare di averlo sentito, comportamento cheindusse Morik a fissarlo con una certa sorpresa.

«Non sa nuotare», commentò, quando il barbaro gli si avvicinò.«Allora è il momento che impari», borbottò con freddezza Wulfgar,

che con il pensiero stava ancora percorrendo i corridoi fumosi delle

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vaste prigioni di Errtu, continuando a passarsi le mani sulle braccia esulle gambe per allontanare immaginari millepiedi.

Scrollando le spalle, Morik abbassò lo sguardo sull'altro bandito,che si contorceva ai suoi piedi sul molo gemendo e implorando.

«Sai nuotare?» gli chiese.Il bandito levò lo sguardo su di lui spaventato e abbozzò,

speranzoso, un cenno di assenso.«Allora va' a salvare il tuo amico», ordinò Morik, e nel guardare il

bandito che si allontanava strisciando lentamente, aggiunse rivolto a Wulfgar: «Temo che il suo compagno sarà già morto prima che riesca araggiungerlo».

Il barbaro non mostrò però di averlo sentito.«Oh, aiuta quel disgraziato!» sospirò allora Morik, afferrandolo per

un braccio e costringendolo a mettere a fuoco lo sguardo su di lui.«Fallo per me. Non mi va di cominciare la notte con una morte sullacoscienza.»

Con un profondo sospiro Wulfgar protese le mani massicce e ilbandito che stava strisciando in ginocchio si sentì di colpo sollevare dalplancito per il colletto e per i calzoni, poi si trovò a volare nell'aria ead andare a cadere violentemente in acqua vicino al compagno cheancora si dibatteva.

Wulfgar però non lo vide neppure toccare l'acqua perché il suointeresse per la scena era ormai svanito e lui si era già girato,richiamando a sé Aegis-fang con un comando mentale per poioltrepassare a grandi passi Morik, che chinò il capo in segno dideferenza verso quel suo amico possente quanto pericoloso.

Morik riuscì infine a raggiungere Wulfgar quando questi era già infondo al molo.

«Si stanno ancora dibattendo nell'acqua», disse. «Quello grassocontinua stupidamente ad aggrapparsi all'amico, trascinando entrambisotto la superficie. Forse annegheranno tutti e due.»

Wulfgar non parve mostrare il minimo interesse per la cosa, unostato d'animo che Morik sapeva essere effettivo; lanciata a sua voltaun'ultima occhiata in direzione del porto, il furfante infine scrollò le

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spalle, dicendosi che dopo tutto quei due banditi avevano raccolto ciòche avevano seminato.

Wulfgar figlio di Beornegar non era persona da affrontareimpunemente.

Con quella riflessione Morik allontanò dalla mente ogni pensierorelativo ai due banditi, per i quali del resto non aveva mai nutrito unapreoccupazione effettiva, e si concentrò invece sul suo sorprendentecompagno, che aveva imparato a combattere sotto l'addestramentoaddirittura di un elfo drow.

Quel pensiero strappò un sussulto a Morik, anche se naturalmente Wulfgar era troppo assorto in se stesso per accorgersene, perché sulla

scia di quelle riflessioni il piccolo furfante si trovò a ripensare a un altrodrow che gli aveva fatto inaspettatamente visita non molto tempoprima, ingiungendogli di tenere d'occhio Wulfgar e pagandoloanticipatamente per i suoi servigi (pagamento accompagnato da unaminaccia abbastanza esplicita in merito al fatto che il signore dell'elfoscuro sarebbe stato molto contrariato se Morik non si fosse dimostratoall'altezza dell'incarico ricevuto). Da allora, e con suo sollievo, Moriknon aveva più avuto notizie degli elfi scuri, ma stava comunquebadando a tener fede all'impegno preso e a non perdere di vista

Wulfgar.Nel formulare quei pensieri, Morik dovette però ammettere

almeno con se stesso che questo non era del tutto vero: certo, luiaveva iniziato il suo rapporto di amicizia con Wulfgar mosso da motividi mero vantaggio personale, in parte per timore dei drow e in parteperché temeva Wulfgar e desiderava sapere qualcosa di più sul conto

dell'uomo che era evidentemente diventato un suo rivale per ilcontrollo delle strade. Quella era stata la situazione all'inizio, maadesso non aveva più timore di Wulfgar anche se a volte gli capitava diavere paura per quell'uomo così angosciato e tormentato e glicapitava di rado di pensare agli elfi drow, che non si erano più fattivivi da molte settimane. La cosa più sorprendente, però, era che avevafinito per sviluppare un'effettiva simpatia per Wulfgar e avevaimparato ad apprezzare la sua compagnia, nonostante il suocomportamento spesso cupo e indecifrabile.

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In quel momento Morik fu quasi sul punto di parlare a Wulfgardella visita degli elfi drow, sulla spinta di un bisogno istintivo dimettere in guardia quell'uomo che era diventato suo amico. Poi però illato più pratico della sua natura, quell'egoistico pragmatismo che gli

aveva permesso di rimanere in vita in un ambiente ostile come quellodelle strade di Luskan, gli ricordò che quella rivelazione non sarebbetornata a vantaggio di nessuno. Infatti, se gli elfi scuri fossero tornatiper dare la caccia a Wulfgar lui sarebbe stato sconfitto in partenza,anche se fosse stato preavvertito, considerato che quegli elfipossedevano potenti magie e lame affilate. Potevano entraresilenziosamente nella camera di Morik e destarlo dal sonno. Perfino

Wulfgar ogni tanto doveva dormire, e se dopo essersela presa con ilpovero Wulfgar gli elfi scuri fossero venuti a sapere che Morik li avevatraditi...

Il furfante sentì un brivido corrergli lungo la schiena e si costrinse adallontanare quei pensieri angosciosi per concentrare di nuovo lapropria attenzione sul suo grosso amico. Stranamente, Morik vedevain lui uno spirito affine, un uomo che avrebbe potuto essere (e che ineffetti era stato) un nobile e possente guerriero, un condottiero di

uomini, ma che per qualche ignoto motivo era caduto in disgrazia.Questo era infatti il modo in cui Morik vedeva la propriasituazione, anche se in effetti lui era stato avviato al suo modo divivere fin dalla prima infanzia. D'altro canto, se sua madre non fossemorta di parto, se suo padre non lo avesse abbandonato sulla strada,se...

Nel guardare il barbaro, Morik non poteva fare a meno di pensareall'uomo che lui stesso sarebbe potuto diventare, all'uomo che

Wulfgar era stato. Secondo il suo modo di vedere, le circostanzeavevano rovinato entrambi e in un certo senso lui considerava ilgrosso barbaro come una sorta di fratello minore, il che spiegavaperché continuava a rimanere con lui nonostante l'istinto gli suggerissedi non farlo (dopo tutto, quell'uomo era tenuto d'occhio da elfidrow).

Questo, e il fatto che l'amicizia di Wulfgar gli fruttava un maggiorerispetto da parte della marmaglia che frequentava le strade, dato che

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per natura cercava sempre e comunque una motivazione pratica perqualsiasi cosa.

Il giorno volgeva ormai al termine, la notte stava iniziando e conessa il momento preferito da Morik e da Wulfgar, quello in cui lestrade di Luskan cominciavano a vivere.

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presente, nel momento attuale, senza nessuna considerazione per il futuro o per il passato, e questa è una trappola, una prospettiva disfattista che permette di tentare di saziare senza limiti il bisogno di piaceri fisici. Una persona intossicata tenterà perfino azioni

stoltamente azzardate perché la guida interiore, e perfino lo stesso istinto di sopravvivenza sono compromessi. Quanti giovani guerrieri si scagliano stoltamente contro nemici troppo forti per loro soltanto per essere uccisi? Quante giovani donne si trovano a concepire un figlio da amanti che non prenderebbero mai in considerazione come futuri mariti?

Ed è questa trappola, questa prospettiva disfattista, che io non posso tollerare. Io vivo la mia vita alla luce della speranza costante che il futuro sarà migliore del presente, ma sono consapevole che sarà così soltanto se lavorerò per ottenere tale risultato. E con questo tipo di fatica che giunge la soddisfazione di vivere, quel senso di realizzazione di cui abbiamo bisogno per conoscere la vera gioia. Come potrei rimanere fedele a quella speranza se mi concedessi un momento di debolezza che potrebbe benissimo distruggere tutto quello che ho ottenuto lavorando e che spero di conseguire? Come avrei mai potuto

reagire a tante inattese crisi se al momento del loro verificarsi fossi stato influenzato da qualche sostanza che altera la mente ed essa avesse influenzato la mia capacità di giudizio o alterato la mia prospettiva?

Non bisogna inoltre sottovalutare il pericolo di ciò a cui queste sostanze possono condurre. Se avessi permesso a me stesso di lasciarmi trasportare dall'atmosfera generale della cerimonia di promozione di Melee-Magthere, se mi fossi concesso i piaceri sensuali offerti dalle sacerdotesse, quanto ne sarebbe poi uscito sminuito qualsiasi mio onesto incontro d'amore?

Enormemente, almeno secondo il mio modo di vedere. I piaceri sensuali sono, o dovrebbero essere, il culmine del desiderio fisico,combinato con una decisione intellettuale ed emotiva di concedere se stesso, nel corpo e nello spirito, in un legame di fiducia e di rispetto. In una situazione come quella della cerimonia di promozione non si

sarebbe mai potuta verificare una condivisione del genere: sarebbe stata soltanto una concessione del proprio corpo e soprattutto un accettare merci offerte da altri, non ci sarebbe stata un'unione più

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elevata, un'esperienza spirituale, e quindi sarebbe mancata la vera gioia.

Io non posso vivere in un simile crogiolarsi senza speranza, perché è di questo che si tratta: del miserabile crogiolarsi nei livelli più infimi

dell' esistenza generato, a mio parere, dalla mancanza di speranza in un livello di esistenza più elevato.

Di conseguenza rifiuto ogni utilizzo, se non quanto mai moderato,di sostanze intossicanti, e pur non giudicando apertamente coloro che indulgono in esse compatisco la loro anima vuota.

Cos'è che spinge una persona a simili abissi di abiezione? Credo che sia la sofferenza, unita a ricordi troppo dolorosi per essere affrontati

apertamente. Le sostanze intossicanti possono infatti attutire il dolore del passato a danno del futuro, ma non è uno scambio equo.

Sulla base di queste riflessioni temo molto per Wulfgar, il mio perduto amico. Dove mai troverà sollievo dai tormenti della sua schiavitù?

DRIZZT DO’URDEN

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CAPITOLO IAL PORTO

«Detesto questo posto», commentò il mago Robillard, rivolgendosial Capitano Deudermont delFolletto del Mare , mentre lo schooner atre alberi aggirava un lungo molo e giungeva in vista del porto dellasettentrionale città di Luskan.

Deudermont, un uomo dal fisico statuario, con i modi di un nobilee un atteggiamento calmo e riflessivo, si limitò ad annuire di fronte

all'affermazione del mago perché non era la prima volta che sentivaRobillard levare proteste di quel genere. Il suo sguardo si posò poisulla distesa della città, e in particolare sulla caratteristica strutturadella Torre Arcana, la famosa sede della corporazione dei maghi diLuskan che sapeva essere la causa effettiva dello sprezzanteatteggiamento di Robillard nei confronti di quel porto, anche se ilmago era sempre stato molto restio a dare spiegazioni al riguardo,limitandosi a vaghi commenti sugli «idioti» che gestivano la Torre esulla loro incapacità di distinguere un vero maestro della magia da unsemplice illusionista, commenti che avevano destato in Deudermont ilsospetto che in passato a Robillard fosse stato negato l'ingresso nellacorporazione.

«Perché proprio Luskan?» protestò ancora il mago. «Waterdeep nonsarebbe stata più adatta alle nostre necessità? Lungo tutta la Costadelle Spade non c'è nessun porto paragonabile a Waterdeep in quanto

a cantieri per le riparazioni».«Luskan era più vicina», gli ricordò Deudermont.«Appena di un paio di giorni», ribatté Robillard.«Se in quei due giorni fossimo stati sorpresi da una tempesta lo scafo

danneggiato si sarebbe potuto spaccare e i nostri corpi sarebbero finitiin pasto ai granchi e ai pesci», sottolineò il capitano. «Mi è sembratostupido correre un rischio del genere per salvaguardare l'orgoglio di un

solo uomo».Robillard accennò a ribattere ma poi colse il significato implicito

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delle ultime parole del capitano ed evitò di compromettersiulteriormente.

«I pirati avrebbero avuto la meglio su di noi se non avessi calcolatola mia scarica con tempismo perfetto», borbottò con fare accigliato,concedendosi qualche momento per calmarsi.

Deudermont non poté che annuire perché in effetti il lavoro diRobillard nel corso dell'ultimo scontro con i pirati era stato addiritturaspettacolare. Parecchi anni prima ilFolletto del Mare, rinnovato e resopiù grande, forte e veloce, era stato commissionato dai Signori di

Waterdeep come cacciatore di pirati e nessun'altra nave si era maidimostrata altrettanto abile in questo lavoro, al punto che quando la

vedetta aveva avvistato un paio di navi pirata che stavano solcando leacque settentrionali al largo della Costa delle Spade, nelle vicinanze diLuskan, area spesso pattugliata dalFolletto del Mare , Deudermontaveva stentato a credere ai suoi occhi. La semplice reputazione delloschooner era infatti stata sufficiente a tenere quelle acque sgombre dapirati per molti mesi.

Era però risultato che quelle navi pirata erano venute in cerca divendetta e non di qualche mercantile che offrisse una facile preda, ederano state quindi ben preparate allo scontro, essendo dotate ciascunadi una piccola catapulta, di un buon contingente di arcieri e di un paiodi maghi. Nonostante questo, esse non erano state all'altezzadell'abilità di manovra di Deudermont e del suo esperto equipaggio, ei maghi non avevano potuto tenere testa al potente Robillard, che daoltre un decennio esercitava la sua arte magica in combattimenti sulmare. Una delle illusioni create da Robillard aveva dato l'impressioneche il Folletto del Mare fosse in panne nell'acqua, con l'albero dimaestra abbattuto che giaceva di traverso sul ponte e dozzine dicadaveri accasciati sulle murate. Simili a lupi famelici i pirati avevanopreso a navigare in cerchio, sempre più vicini alla preda, e alla fine sierano scagliati all'attacco, una nave da babordo e una da tribordo, conl'intento di dare il colpo di grazia alla nave danneggiata.

In realtà ilFolletto del Mare non aveva invece subito danni degni dinota grazie all'opera di Robillard che aveva contrastato l'offensivamagica dei maghi nemici; quanto alle piccole catapulte dei pirati, esse

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avevano avuto ben poco effetto sulle fiancate corazzate delloschooner.

Gli arcieri di Deudermont, tutti molto abili, avevano sferrato unduro colpo alle navi in avvicinamento e intanto lo schooner avevasostituito la velatura da battaglia con la velatura piena con precisioneed efficienza, scivolando via dalla morsa dei sorpresi pirati con tantarapidità da dare l'impressione che la prua balzasse fuori dall'acqua.

Nel contempo Robillard aveva gettato un velo di silenzio sulle navinemiche per impedire ai maghi dei pirati di ricorrere a incantesimidifensivi, poi aveva scaricato tre sfere di fuoco in rapida successione,una su ciascuna nave e una in mezzo a esse. Era infine seguita la

convenzionale raffica di proiettili di balista e di catapulta, caricate contratti di catena per distruggere velatura e sartiame, alternati a vasi dipece incendiata per alimentare il fuoco che già divorava le navinemiche.

Prive di alberi, alla deriva e in fiamme, le due navi erano prestoaffondate, e la conflagrazione scatenata da Robillard era risultata cosìgrande che Deudermont e i suoi uomini erano riusciti a salvare benpochi superstiti dalle fredde acque dell'oceano.

Il Folletto del Mare non era però uscito illeso dalla battaglia eadesso era sospinto da una sola vela; il danno più pericoloso eratuttavia una crepa di considerevoli dimensioni appena sopra la linea digalleggiamento, che aveva costretto Deudermont a impegnare quasidue terzi dell'equipaggio a gettare fuoribordo l'acqua imbarcata e adirigersi verso il porto più vicino, appunto Luskan.

Per quanto lo riguardava, Deudermont considerava quella sceltauna decisione eccellente. Infatti preferiva Luskan al più grande porto di Waterdeep perché se da un lato lui era finanziato dai signori della cittàmeridionale e poteva cenare a casa di qualsiasi nobile cittadino,dall'altro gli uomini del suo equipaggio, marinai che non avevano laposizione sociale o i modi adatti per cenare con la nobiltà, trovavanoa Luskan una maggiore ospitalità. Come Waterdeep, anche Luskanaveva le sue classi ben definite, ma qui gli ultimi gradini della scalasociale erano comunque posizionati un po' più in alto rispetto a quellicorrispondenti di Waterdeep.

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Quando si avvicinarono alla città, grida di saluto salirono fino aloro da ogni molo perché a Luskan ilFolletto del Mare era ben notoed era molto rispettato: infatti, gli onesti pescatori e i mercantiproprietari di navi della città e di tutta l'area settentrionale della Costa

delle Spade avevano da tempo imparato ad apprezzare l'operato delCapitano Deudermont e del suo veloce schooner.«A me sembra una scelta eccellente», commentò il capitano.«A Waterdeep ci sono cibo migliore, intrattenimenti più sofisticati e

donne più belle», ribatté Robillard.«Ma non ci sono maghi più abili», non riuscì a trattenersi dal

ribattere Deudermont. «Senza dubbio la Torre Arcana è fra le più

rispettate corporazioni di maghi dei Regni».Gemendo, Robillard si girò e si allontanò borbottando qualche

imprecazione.Deudermont non si volse per seguirlo con lo sguardo ma non poté

evitare di sentire i tonfi sonori dei suoi passi sul plancito.

***

«Soltanto pochi momenti», mormorò in tono seducente la donna,tormentandosi con una mano gli sporchi capelli biondi e assumendoun'espressione imbronciata. «Appena un poco per rilassarmi prima dipassare una notte servendo ai tavoli».

Il grosso barbaro si passò la lingua sui denti per attenuare la

sensazione di aridità della bocca, che sembrava piena di stoffa. Dopouna notte di lavoro nella taverna della Scimitarra era andato ancora aimoli con Morik e come al solito i due erano rimasti là a bere finoall'alba, quando Wulfgar era tornato alla Scimitarra, sua dimora eluogo di lavoro, per andare a dormire.

Poi però questa donna, Delly Curtie, una cameriera della tavernache era stata la sua amante negli ultimi mesi, era venuta a cercarlo. Untempo Wulfgar aveva visto quella donna come una piacevoledistrazione, come la ciliegina sulla torta e perfino come un'amica pienadi sollecitudine, perché Delly si era presa cura di lui nel corso dei primi,

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difficili giorni del suo soggiorno a Luskan, si era fatta carico disoddisfare le sue necessità fisiche ed emotive senza fare domande esenza giudicare, senza chiedere nulla in cambio.

Ultimamente però la loro relazione aveva cominciato a subire uncerto cambiamento, sottile ma continuo. Ora che si era sistemato piùcomodamente nella sua nuova vita, dedicata quasi interamente atenere a bada il ricordo della sofferenza degli anni vissuti nelle mani diErrtu, il barbaro era giunto a vedere Delly Curtie sotto una lucediversa.

Dal punto di vista emotivo lei era una bambina capricciosa evolitiva e Wulfgar, che aveva superato da tempo i vent'anni, era di

parecchi anni più maturo di lei: era stato così che, all'improvviso, luiera diventato l'adulto nel loro rapporto e che a poco a poco leesigenze di Delly avevano cominciato ad avere la meglio sulle sue.

«Oh, suvvia, certo hai dieci minuti per me, mio Wulfgar», insistettelei, facendosi più vicina e accarezzandogli la guancia con una mano.

Afferratole il polso, Wulfgar la allontanò da sé con gentilefermezza.

«È stata una lunga notte», ripeté, «e speravo di poter riposare più alungo prima di tornare a svolgere il mio lavoro per Arumn».«Ma io...»«Voglio riposare ancora», la interruppe Wulfgar, ponendo maggior

enfasi in ciascuna parola.Delly si ritrasse da lui e d'un tratto il suo atteggiamento seducente si

mutò in una posa di fredda indifferenza.«Credi di essere il solo uomo che desidera dividere il mio letto?»

domandò. Wulfgar non si degnò neppure di rispondere anche perché la sola

risposta che avrebbe potuto dare sarebbe stata che, in realtà, non gliimportava di quello né di niente altro, che amare, bere, combattereerano tutti modi per nascondersi e niente di più. La verità era che luirispettava Delly, le era affezionato e la considerava un'amica... o

l'avrebbe considerata tale se avesse onestamente ritenuto di poteressere un amico per lei... per cui non voleva farle del male.

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Tremante e incerta, Delly esitò per un momento ancora nellacamera di Wulfgar, poi di colpo si sentì d'un tratto molto nuda nellasottile camicia da notte e stringendosi le braccia intorno al corpo uscìdi corsa nel corridoio, raggiungendo la propria stanza e sbattendosi la

porta alle spalle.Chiudendo gli occhi Wulfgar scosse il capo, poi scoppiò in unarisatina impotente quando di lì a poco sentì la porta di Delly che siriapriva e un rumore di passi in corsa diretti lungo il corridoio e versola porta esterna; anche quella porta venne chiusa con fragore, e daquesto Wulfgar comprese che l'intera messa in scena era stataelaborata a suo beneficio, che Delly aveva voluto essere certa che lui lasentisse per fargli sapere che era andata a cercare conforto fra lebraccia di qualcun altro.

Consapevole ormai che Delly era una persona complicata, afflittada un tormento emotivo ancora più profondo del suo, Wulfgar sichiese come le cose fra loro fossero riuscite ad arrivare fino a quelpunto: all'inizio la loro relazione era stata molto semplice e diretta, ilrapporto di due persone che avevano ciascuna bisogno dell'altra, madi recente la situazione si era fatta più complessa e quel semplice

bisogno si era mutato in problemi emotivi. Delly aveva bisogno che luisi prendesse cura di lei, che la proteggesse, le dicesse che era bella, ma Wulfgar sapeva di non essere in grado di prendersi cura di se stesso etanto meno di un'altra persona. Delly aveva bisogno del suo amore,ma lui non aveva amore da dare perché nel suo animo c'eranosoltanto sofferenza e odio, soltanto ricordi del demone Errtu e dellaprigionia nell'Abisso, dove era stato torturato per oltre sei lunghi anni.

Sospirando, Wulfgar si massaggiò gli occhi appannati dal sonno eprotese la mano verso la bottiglia soltanto per scoprire che era vuota.Con un ringhio di frustrazione la scagliò allora dalla parte oppostadella stanza, mandandola a frantumarsi contro una parete, e per unmomento appena immaginò di averla fracassata sulla faccia di DellyCurtie, un'immagine che lo colse alla sprovvista ma che non losorprese, inducendolo a chiedersi se Delly non lo avesse portato diproposito fino a quel punto di esasperazione: forse quella donna non

era poi una bambina innocente ma un'astuta cacciatrice. Possibile chequando era venuta per la prima volta da lui per offrirgli confortoavesse avuto intenzione di approfittare della sua debolezza emotiva

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per attirarlo in una trappola e magari farsi sposare? Che avesse avutointenzione di soccorrerlo soltanto perché un giorno lui la salvasse dallamiserabile esistenza che si era creata come cameriera di taverna?

Accorgendosi di avere i pugni serrati al punto che le nocche eranosbiancate, Wulfgar si costrinse a rilassare le mani e trasse parecchiprofondi respiri per calmarsi, poi si concesse un altro sospiro nelpassarsi di nuovo la lingua sui denti sporchi e infine si alzò in piedi,stiracchiando la sua notevole mole alta quasi due metri. Come glicapitava quasi ogni pomeriggio quando eseguiva quel piccolo ritopersonale, si rese conto di avere i muscoli e le ossa ancor più dolorantidel giorno precedente e d'istinto abbassò lo sguardo sulle bracciamassicce: certo, esse erano pur sempre più spesse e muscolose di quelledi quasi qualsiasi altro uomo vivente, ma lui non poté evitare dinotare un certo rilassamento dei muscoli, come se la pelle stessecominciando a essere un po' troppo larga rispetto alla sua sagomamassiccia.

Quanto era diversa la vita che conduceva adesso rispetto a quellemattine di tanti anni prima, nella Valle del Vento Ghiacciato, quandoera solito lavorare ogni giorno per lunghe ore accanto a Bruenor, il

nano che era suo padre adottivo, spaccando e sollevando enormipietre, o quando andava a caccia di giganti insieme a Drizzt, il suoamico guerriero, correndo e combattendo per tutto il giorno. A queltempo e in quei luoghi le ore erano state molto più faticose, più densedi sforzi fisici, ma prive di qualsiasi fardello emotivo, e lui non avevaavvertito dolori.

La fonte di tutto era l'oscurità che gli gravava nel cuore, il dolorepiù intenso di ogni altro.

Wulfgar tentò quindi di ripensare a quegli anni perduti, quando erasolito lavorare e combattere accanto a Bruenor e a Drizzt, o quandotrascorreva la giornata correndo lungo i ventosi pendii del Picco diKelvin, l'unica montagna della Valle del Vento Ghiacciato, inseguendoCatti-brie...

Il semplice pensare a quella donna fu sufficiente a troncare di colpole sue riflessioni e a lasciarlo vuoto, e in quel vuoto inevitabilmentes'insinuarono immagini di Errtu e dei suoi demoniaci seguaci. Unavolta uno di quei seguaci, un'orribile succubo, aveva assunto la forma

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di Catti-brie, divenendo una sua copia perfetta, ed Errtu aveva cosìconvinto Wulfgar di essere riuscito a catturarla e che lei stesse orasoffrendo i suoi stessi eterni tormenti, per causasua.

Errtu aveva poi afferrato il succubo, Catti-brie, davanti agli occhiinorriditi di Wulfgar e l'aveva fatto a pezzi un arto dopo l'altro,divorandolo in un'orgia di sangue e di interiora lacerate.

Con il respiro ora affannoso, Wulfgar si costrinse a tornare con ilpensiero a Catti-brie, la vera Catti-brie. Lui l'aveva amata, era stataforse la sola donna che avesse mai amato, ma adesso era convinto diaverla perduta per sempre perché anche se si fosse recato nelle TenTowns, nella Valle del Vento Ghiacciato, e l'avesse ritrovata, il legame

che li univa era stato reciso dalle profonde cicatrici lasciate da Errtu edalla reazione dello stesso Wulfgar a quelle cicatrici.Le ombre sempre più lunghe che cominciavano a filtrare dalla

finestra lo avvertirono che la giornata stava volgendo al termine e chepresto avrebbe dovuto ricominciare il suo lavoro di buttafuori perArumn Gardpeck; quando aveva detto a Delly di aver bisogno diriposare ancora, lui era però stato sincero quindi, pur sapendo cheavrebbe dovuto muoversi, si lasciò ricadere sul letto e scivolò dinuovo in un sonno profondo.

La notte era ormai calata su Luskan quando finalmente Wulfgarentrò barcollando nell'affollata sala comune della Scimitarra.

«Di nuovo in ritardo, sempre che la cosa possa ancora sorprendere»,commentò un cliente abituale, un ometto magro dagli occhi sfuggentidi nome Josi Puddles che era amico di Arumn Gardpeck, notandol'ingresso del barbaro. «Quello là sta lavorando sempre meno e bevetanto da mandarti in rovina».

Arumn Gardpeck, un uomo gentile ma severo e dallo spiritoeminentemente pratico, avrebbe voluto rispondere a Josi nel modoconsueto, intimandogli di tacere, ma in effetti non se la sentì dicontestare la sua affermazione anche se lo addolorava vedere come

Wulfgar stesse cadendo sempre più in basso. Quando inizialmenteaveva offerto la sua amicizia al barbaro molti mesi prima, poco dopo

il suo arrivo a Luskan, il locandiere si era interessato a lui soltanto acausa della sua evidente forza fisica, perché un possente guerrierocome Wulfgar poteva senza dubbio essere una vera benedizione per

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una taverna che si trovava nell'area dei moli di una città turbolentacome quella, ma subito dopo la prima conversazione con Wulfgar siera reso conto che i suoi sentimenti nei confronti del barbaroandavano al di là del semplice opportunismo e che lui gli era

effettivamente simpatico.E fin dall'inizio Josi aveva continuato a ricordargli i potenziali rischi,a sottolineare che presto o tardi anche i più grandi buttafuoridiventavano cibo per i topi che infestavano le strade.

«Ti pare che il sole sia appena tramontato?» domandò intanto Josi a Wulfgar, quando questi gli passò accanto a passo lento, sbadigliando.

Il barbaro si arrestò e si girò con fare lento e deliberato a fissare

l'ometto con occhi roventi.«La notte è già passata per metà», continuò Josi, passando

bruscamente a un tono più discorsivo, «ma io ho sorvegliato il locale altuo posto, anche se cominciavo a temere di dover intervenire pertroncare un paio di risse».

«Tu non riusciresti neppure a troncare un pezzo di burro con uncoltello caldo», ribatté Wulfgar, guardandolo con aria scettica, poi

concluse la frase con un altro enorme sbadiglio.Codardo come sempre, Josi incassò l'insulto con un cenno del capo

e un sorriso di autodeprecazione.«Comunqueabbiamo un accordo in merito all'ora in cui devi

cominciare a prestare servizio», intervenne in tono serio Arumn.«E anche in merito a quali siano le tue effettive esigenze», gli ricordò

Wulfgar. «In base alle tue stesse parole, la mia presenza diventaindispensabile a notte più inoltrata perché è difficile che ci sianoproblemi all'inizio della serata. Hai detto che il mio orario cominciavaal tramonto ma che non sarei stato davvero necessario se non moltopiù tardi».

«Questo è vero», convenne Arumn, con un cenno di assenso chestrappò un gemito a Josi, ansioso di veder punito quel grosso uomoche secondo lui lo aveva rimpiazzato come miglior amico di Arumn.

Poi però il taverniere proseguì: «Adesso però la situazione è cambiata.Ti sei creato una reputazione e ti sei fatto non pochi nemici. Ogninotte arrivi qui sempre più tardi e i tuoi... i nostri nemici se ne stanno

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accorgendo, per cui temo che quanto prima verrà il giorno in cuientrerai qui barcollando a notte fonda soltanto per trovarci tuttiassassinati».

Wulfgar assunse un'espressione incredula e volse le spalle adArumn, accantonando con un cenno quella paura per lui inesistente.

«Wulfgar», lo richiamò però Arumn, in tono deciso.Il barbaro si girò con espressione accigliata.«La notte scorsa sono sparite tre bottiglie», affermò con calma il

locandiere, anche se dalla sua voce traspariva ora una nota dipreoccupazione.

«Mi hai promesso che potevo bere quanto volevo», obiettò Wulfgar.«Tu sì, ma non quel tuo piccolo amico strisciante», dichiarò il

locandiere.Quanti si trovavano nelle vicinanze e sentirono il commento

sgranarono gli occhi per la sorpresa, perché a Luskan non erano moltii tavernieri che potevano azzardarsi a parlare in maniera così aperta eardita del pericoloso Morik il Furfante.

Wulfgar dal canto suo abbassò lo sguardo e ridacchiò, scuotendo ilcapo.

«Buon Arumn», replicò quindi, «ti andrebbe di essere tu a dire aMorik che non ha il permesso di bere il tuo liquore?»

Arumn socchiuse gli occhi con espressione minacciosa e per unmomento appena Wulfgar ricambiò l'espressione.

In quel momento Delly Curtie entrò nella sala con gli occhi arrossatie ancora umidi di pianto, e nel fissarla Wulfgar si sentì assalire da unsenso di colpa che però si guardò bene dal manifestare in pubblico.Girandosi, cominciò a svolgere il proprio lavoro, procedendo aminacciare un ubriaco che stava alzando troppo la voce.

«Sta giocando con lei come il gatto con il topo», commentò JosiPuddles, rivolto ad Arumn.

Il taverniere rispose soltanto con un sospiro carico di frustrazioneperché se da un lato si era affezionato a Wulfgar, dall'altro il

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comportamento sempre più offensivo del grosso guerriero stavacominciando a logorare quell'affetto. Da almeno un paio d'anni Dellyera per lui come una figlia, e se davvero Wulfgar stava giocando conlei senza nessuna considerazione per i suoi sentimenti presto o tardi un

confronto fra loro sarebbe diventato inevitabile.Arumn spostò poi la propria attenzione da Delly per riportarla su Wulfgar, appena in tempo per vederlo sollevare il chiassoso ubriacoper la gola, trasportarlo alla porta e scagliarlo in strada senza eccessivagentilezza.

«Quell'uomo non ha fatto nulla», protestò Josi Puddles. «Secontinua a comportarsi così ti ritroverai senza clienti».

Arumn sospirò ancora.

***

Un gruppetto di tre uomini che si trovava all'estremità opposta delbancone era a sua volta intento a studiare con notevole interesse imovimenti del grosso barbaro.

«Non è possibile», mormorò poi uno di essi, un ometto magro ebarbuto. «Il mondo è troppo vasto per una simile coincidenza».

«Ti dico che è lui», ribatté il compagno che aveva accanto. «A queltempo tu non eri ancora a bordo delFolletto del Mare. Quel Wulfgarnon è persona che si possa dimenticare facilmente e io ho navigatoinsieme a lui da Waterdeep a Memnon e poi di nuovo fino a

Waterdeep, ingaggiando più di un combattimento contro i pirati».«Sembra un tipo che è comodo avere accanto nel l'affrontare i

pirati», osservò Waillan Micanty, il terzo componente del gruppetto.«È vero», convenne l'altro marinaio, «ma non quanto il suo

compagno. Lo conosci anche tu, quel tizio dalla pelle scura, minuto edi bell'aspetto ma più feroce di un sahuagin ferito e più veloce dichiunque altro abbia mai visto con quelle sue due scimitarre».

«Drizzt Do'Urden?» intervenne il marinaio barbuto. «Quella speciedi colosso viaggiava con il drow?»

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«Già», confermò l'uomo al centro del gruppo, e nell'accorgersi diavere ora la completa attenzione dei compagni si concesse un ampiosorriso, sia per la sensazione di importanza che gliene derivava sia peri ricordi di quel viaggio che gli erano riaffiorati alla mente, viaggio reso

quanto mai eccitante dalla presenza di Wulfgar, di Drizzt e dellapantera che sempre accompagnava il drow. «Catti-brie ci ha raggiuntia sud di Baldur's Gate», spiegò quindi. «È arrivata insieme a un nano,Re Bruenor di Mithral Hall, a bordo di un carro volante in fiamme. Tigarantisco che non ho mai visto nulla di simile: quel pazzo d'un nanoha fatto passare il carro attraverso la velatura di una delle navi piratacontro cui stavamo combattendo e l'ha mandata a picco, e con tuttociò era ancora pieno di voglia di combattere quando lo abbiamo tiratofuori dall'acqua».

«Stai inventando tutto», accennò a protestare il marinaio magro ebarbuto.

«No, è una storia che ho già sentito raccontare dal capitano stesso,e da Drizzt e da Catti-brie», intervenne però Waillan Micanty.

Le sue parole ebbero l'effetto di zittire il compagno e per unmomento tutti e tre indugiarono a osservare in silenzio i movimenti di

Wulfgar.«Sei sicuro che sia proprio lui?» chiese infine il primo marinaio. «Che

sia quel Wulfgar?»Nel momento stesso in cui formulava quella domanda Wulfgar

appoggiò al muro Aegis-fang, che fino ad allora aveva tenuto appesoalla schiena.

«Oh, ti garantisco che è proprio lui», dichiarò il secondo marinaio.«È impossibile dimenticare quel suo martello da guerra. Conquell'arnese lui è capace di infrangere l'albero di una nave o di colpirein un occhio un pirata a cento passi di distanza».

Dall'altra parte della stanza, Wulfgar, impegnato in una brevediscussione con un cliente, protese una mano possente e afferrò conestrema facilità l'interlocutore per la gola, sollevandolo dalla sedia etenendolo a mezz'aria per poi dirigersi con calma verso la porta della

taverna e scaraventare l'ubriaco in strada.

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Deudermont ripensò al suo ultimo viaggio in compagnia di queidue, quando ilFolletto del Mare aveva raggiunto una remota isola inalto mare. In quell'occasione una veggente cieca aveva rivolto a Drizztun enigma relativo a qualcuno che lui riteneva di aver perduto;

l'ultima volta che Deudermont aveva visto il drow e la ragazza erastato sulle rive di un lago, sul quale ilFolletto del Mare era statoinvolontariamente trasportato per magia.

Possibile che Wulfgar fosse davvero vivo? Il Capitano Deudermontaveva visto troppe cose per poter scartare a priori quella possibilità,ma d'altro canto gli sembrava più probabile che il suo marinaio si fossesbagliato. Dopo tutto i suoi uomini avevano poca esperienza perquanto riguardava i barbari del settentrione, che apparivano tuttimassicci, biondi e forti, e ai loro occhi essi sembravano uno ugualeall'altro, quindi poteva darsi che in effetti alla Scimitarra avesseroassunto un barbaro come buttafuori ma che quel guerriero non fosse

Wulfgar.Avendo una quantità di doveri da assolvere e numerosi impegni

presso le case più agiate della città, il capitano non pensò più alla cosa,ma tre giorni più tardi, mentre era a cena presso una delle famiglie

nobili di Luskan, la conversazione finì per vertere sulla morte di unodei più famosi bulli cittadini.«Stiamo molto meglio senza lo Spaccaceppi», dichiarò uno degli

ospiti. «Era il maggior problema che questa città avesse mai avuto.»«Era soltanto un furfante, e neppure così duro», ribatté un altro.«Era in grado di bloccare un cavallo in corsa semplicemente

parandoglisi davanti», insistette il primo. «È una cosa che io stesso gliho visto fare.»

«Ma non è riuscito ad abbattere il nuovo buttafuori di ArumnGardpeck», osservò l'altro. «Quando ha provato ad affrontarlo, loSpaccaceppi è volato fuori dalla porta della Scimitarra trascinandosidietro gli stipiti.»

Deudermont tese l'orecchio, improvvisamente interessato.«Già, a giudicare dalle storie che ho sentito quell'uomo è troppo

forte per qualsiasi avversario», convenne il primo commensale. «E quelsuo martello da guerra è l'arma più bella che abbia mai visto».

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Nel sentire quell'accenno al martello per poco Deudermont non sistrozzò con il boccone che aveva in bocca perché rammentava bene ilpotere di Aegis-fang.

«Come si chiama?» chiese quindi.«Chi?»«Il nuovo buttafuori di Arumn Gardpeck.»I due uomini si scambiarono un'occhiata e scrollarono le spalle.«Wolf-qualcosa, credo», disse quindi il primo.Quando lasciò la casa nobiliare, un paio d'ore più tardi, invece di

tornare al Folletto del Mare il Capitano Deudermont si trovò ad

addentrarsi nella zona più pericolosa della città e a imboccare lamalfamata Strada della Mezzaluna, dove si trovava la Scimitarra.Raggiunta la locanda entrò senza esitazioni e prese posto al primotavolo libero, individuando il grosso barbaro ancora prima di essersiseduto: non c'erano dubbi, quello era Wulfgar figlio di Beornegar. Inpassato Deudermont non aveva avuto modo di conoscere a fondo

Wulfgar ed erano trascorsi molti anni dall'ultima volta che lo avevavisto, ma non ebbe dubbi sulla sua identità perché la sua stessa mole,l'aura di forza che emanava dalla sua persona e lo sguardo deipenetranti occhi azzurri erano tratti inconfondibili. Senza dubbio luiaveva ora un aspetto più trasandato, con la barba incolta e gli abitisporchi, ma era comunque Wulfgar.

Per un momento il grosso barbaro incontrò lo sguardo diDeudermont, ma subito dopo si volse senza mostrare di averloriconosciuto; dal canto suo Deudermont ebbe intanto la certezza

dell'identità del barbaro nel vedere lo splendido martello da guerra,Aegis-fang, assicurato alla sua ampia schiena.«Sei qui per bere o sei in cerca di guai?» chiese in quel momento una

voce femminile. Voltandosi, Deudermont trovò una giovane donna ferma accanto

al suo tavolo con un vassoio in mano.«Allora?» insistette lei.

«Perché pensi che sia in cerca di guai?» ribatté il capitano con ariasconcertata, non riuscendo a capire la domanda.

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«Per il modo in cui lo stai fissando», rispose la giovane donna,accennando in direzione di Wulfgar. «Sono in molti a venire qui incerca di guai e sono in molti quelli che poi vengono portati via abraccia, ma se sei qui per scatenare una lite sono affari tuoi e forse per

lui sarebbe meglio se lo lasciassi morto in mezzo alla strada.»«Non sono in cerca di lite», garantì Deudermont. «Sai dirmi come sichiama?»

La donna sbuffò e scosse il capo in un gesto pieno di frustrazione dicui Deudermont non riuscì a comprendere la causa.

«Si chiama Wulfgar», rispose quindi, «e sarebbe stato meglio pertutti noi se non fosse mai venuto qui».

Poi si allontanò senza neppure chiedere al capitano se volevaqualcosa da bere.

Senza prestare ulteriore attenzione alla donna, Deudermontcontinuò a fissare il grosso barbaro, domandandosi come avesse fatto

Wulfgar a finire lì, come mai non fosse davvero morto e dove fosseroDrizzt e Catti-brie.

Con pazienza, il capitano continuò a osservare quanto accadevanel locale mentre le ore scorrevano lente, e infine con l'approssimarsidell'alba tutti i clienti finirono per andarsene alla spicciolata, tranne luie un ometto ossuto appoggiato al bancone.

«Ora di chiudere», avvertì il taverniere, e quando Deudermont nonaccennò a rispondere o ad alzarsi dalla sedia il buttafuori si diresseprontamente verso il suo tavolo.

Massiccio e incombente, Wulfgar si fermò accanto al capitanoseduto, fissandolo con espressione minacciosa.

«Puoi uscire con i tuoi piedi o volare fuori, sta a te scegliere», intimòin tono brusco.

«Ti sei molto allontanato dai tuoi combattimenti contro i pirati asud di Baldur's Gate», replicò Deudermont, «anche se non approvo ladirezione che hai scelto».

Wulfgar piegò il capo da un lato e indugiò a osservarlo piùattentamente mentre un vago e fugace bagliore di riconoscimento gliaffiorava nello sguardo.

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«Hai dimenticato il nostro viaggio nel sud?» insistette Deudermont.«Lo scontro con il pirata Pinochet e il carro di fuoco?»

«Come fai a sapere queste cose?» chiese Wulfgar, dilatando gli occhiper la sorpresa.

«Come faccio a saperle?» ripeté in tono incredulo il CapitanoDeudermont. «Wulfgar, tu hai viaggiato sulla mia nave fino aMemnon e da lì a Waterdeep. I tuoi amici Drizzt e Catti-brie hannonavigato con me di nuovo non molto tempo fa, anche se eranoconvinti che tu fossi morto.»

Il grosso barbaro indietreggiò come se fosse stato schiaffeggiato inpieno volto e nei suoi occhi azzurri apparve una confusa mescolanza

di emozioni, dalla nostalgia al disgusto, mentre per un lungomomento lui lottava per riprendersi dallo shock.«Ti sbagli, brav'uomo», rispose infine, con estrema sorpresa di

Deudermont. «Ti sbagli riguardo al mio nome e al mio passato. Ora ètempo che te ne vada.»

«Ma, Wulfgar!» accennò a protestare Deudermont, poi sussultò perla sorpresa nello scoprire che un altro uomo, un individuo bruno e

minuto dall'aspetto minaccioso, gli era arrivato alle spalle senza che luisentisse il rumore dei suoi passi. Wulfgar dal canto suo guardò verso il nuovo venuto e spostò lo

sguardo su Arumn, che dopo un momento di esitazione infilò unamano dietro il bancone e tirò fuori una bottiglia, lanciandola versoMorik che fu pronto ad afferrarla con dita agili.

«Preferisci camminare o volare?» chiese quindi di nuovo Wulfgar a

Deudermont, in un tono vuoto che non era gelido, ma pervaso dipura e semplice indifferenza e che colpì profondamente il capitano inquanto gli fece capire che il barbaro non avrebbe esitato a far seguire ifatti alle parole e a scagliarlo fuori dalla taverna se non si fosse mossoimmediatamente.

«IlFolletto del Mare resterà in porto ancora per una settimanaalmeno», disse, alzandosi e avviandosi alla porta. «Sei il benvenuto abordo come ospite o come nuovo membro dell'equipaggio, perché ionon ho dimenticato», concluse in tono deciso, una promessa checontinuò ad aleggiare alle sue spalle mentre lui lasciava la taverna.

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«Chi era quello?» domandò Morik a Wulfgar, dopo cheDeudermont fu scomparso nel buio della notte di Luskan.

«Uno stolto», si limitò a rispondere il grosso barbaro.Raggiunto il bancone, sfilò quindi con una mossa lenta e deliberata

un'altra bottiglia dallo scaffale e dopo aver lasciato scorrere lo sguardoda Arumn a Delly uscì dal locale insieme a Morik.

***

Il Capitano Deudermont aveva davanti a sé una lunga passeggiata

prima di arrivare ai moli; mentre camminava le immagini e i suonidella notte di Luskan si riversarono su di lui, voci impastate chearrivavano dalle porte aperte delle taverne, cani che abbaiavano,sussurri clandestini in angoli bui, ma lui quasi non se ne accorse perchéera troppo immerso nei propri pensieri.

Dunque Wulfgarera vivo, e tuttavia era in condizioni moltopeggiori di quelle in cui lui avrebbe mai potuto immaginare di trovarequell'uomo eroico. La sua offerta di unirsi all'equipaggio delFolletto del Mare era stata sincera, ma dal comportamento di Wulfgar eraevidente che lui non l'avrebbe mai accettata.

Perplesso, Deudermont si chiese cosa poteva fare, perché da un latovoleva aiutare Wulfgar ma dall'altro aveva troppa esperienza dipersone in difficoltà per non sapere che era impossibile aiutarequalcuno che non voleva essere aiutato.

«Quando hai intenzione di attardarti dopo un invito a cena, siitanto gentile da informarci su dove intendi andare», fu il saluto caricodi rimprovero che il capitano ricevette nell'avvicinarsi alla sua nave.

Nel sollevare lo sguardo Deudermont vide che Robillard e WaillanMicanty erano fermi accanto alla murata, intenti a fissarlo.

«Non dovresti andare in giro da solo», rincarò Micanty, maDeudermont accantonò quell'idea con un gesto indifferente.

«Quanti nemici ci siamo fatti negli ultimi anni?» domandò alloraRobillard in tono severo, con il volto carico di preoccupazione.

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«Quanti sono coloro che sborserebbero sacchi d'oro per la semplicesoddisfazione di vederti morto?»

«È per questo che pago un mago perché vegli su di me», rispose concalma Deudermont, iniziando a salire la passerella.

«Come faccio a vegliare su di te se non so neppure dove sei?»esclamò Robillard, sbuffando di fronte all'assurdità di quel commento.

Deudermont si arrestò di colpo e levò lo sguardo sul mago con unampio sorriso dipinto sul volto.

«Se non sei in grado di localizzarmi magicamente, che fiducia possoavere che tu sappia trovare coloro che desiderano farmi del male?»

«Robillard ha ragione, capitano», interloquì Micanty, mentre ilmago si tingeva di un cupo rossore. «Sono molti quelli a cui piacerebbesorprenderti indifeso per le strade.»

«Devo dunque isolare a bordo tutto l'equipaggio e impedire achiunque di circolare a terra per timore di rappresaglie degli amici deipirati?» chiese Deudermont.

«Sono pochi quelli che lascerebbero ilFolletto del Mare da soli», glifece notare Micanty.

«E sono ancora meno quelli che sono abbastanza noti ai pirati dapoter costituire un bersaglio», rincarò Robillard. «I nostri nemici nonattaccherebbero mai un insignificante marinaio che può esserefacilmente rimpiazzato perché sanno che così facendo incorrerebberonelle ire di Deudermont e dei signori di Waterdeep, ma quello è peròun prezzo che pagherebbero volentieri pur di avere l'occasione dieliminare il capitano delFolletto del Mare.» Interrompendosi, il magosi concesse un sospiro carico di frustrazione e fissò negli occhi ilcapitano mentre concludeva in tono deciso: «Non dovresti andare ingiro da solo».

«Dovevo verificare come stava un vecchio amico», spiegòDeudermont.

«Che si chiama Wulfgar?» domandò il mago, intuitivo comesempre.

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«Pensavo di sì», rispose in tono acido Deudermont, riprendendo asalire la passerella e oltrepassando i due uomini alla volta del suoalloggio senza aggiungere una sola parola.

***

Il locale era troppo piccolo e malfamato per avere un nome, ilritrovo della feccia peggiore di Luskan, per lo più marinai ricercati dainobili o da qualche famiglia danneggiata dai loro orribili crimini. Illoro timore di essere arrestati o assassinati se si fossero aggiratiapertamente per le strade di qualsiasi città a cui avesse attraccato laloro nave era giustificato, quindi essi cercavano ovunque tane comequella, stanze sul retro di taverne di quart'ordine situate nella zona deimoli.

Morik il Furfante conosceva bene quei locali perché da ragazzoaveva cominciato la sua carriera sulle strade lavorando come vedettaper il più pericoloso di quei ritrovi, ma adesso non vi si recava piùmolto spesso perché nelle taverne più civilizzate era rispettato,

considerato e temuto, cosa che più di ogni altra gli dava soddisfazione,mentre lì era soltanto un altro furfante, un ladruncolo in un nido diassassini.

Quella notte però lui non riuscì a resistere alla tentazione di entrarenella bettola, spinto dal sorprendente fatto che il capitano del famoso Folletto del Mare aveva avuto una conversazione con il suo amico

Wulfgar.

«Quanto era alto?» gli chiese Creeps Sharky, uno dei due soggettipoco raccomandabili che sedevano al suo tavolo, un vecchio marinaiobrizzolato dalla barba sporca e incolta e privo di un occhio. «Creeps ilTirchio», così lo chiamavano spesso gli altri clienti, perché lui era tantorestio nel tirar fuori la borsa quanto era invece pronto a snudare la suavecchia daga arrugginita, ed era così tirchio che non si era neppurecomprato una benda adeguata per coprire l'occhio mancante per cuiadesso il bordo scuro dell'orbita vuota pareva fissare Morik da sotto le

pieghe inferiori del fazzoletto che lui portava legato intorno alla testa.

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«È più alto di me di una testa e mezza, forse anche di due», risposeMorik.

Creeps lanciò allora un'occhiata al suo compagno, che costituiva unesemplare davvero esotico, con i capelli neri stretti in una lunga codae tatuaggi che gli coprivano il volto, il collo e ogni altro tratto di pelleesposta, che era davvero molta considerato che lui indossava soltantoun gonnellino di pelle di tigre. Il semplice seguire la direzione dellosguardo di Creeps e guardare verso il suo compagno fu sufficiente a farrabbrividire Morik, perché anche se non aveva informazioni specifichein merito a quell'uomo aveva sentito anche lui le voci secondo cui quelpirata, Tee-a-nick- nick, era umano soltanto per metà e per l'altra metàera invece un qullan, una rara e feroce razza di guerrieri.

«IlFolletto del Mare è in porto», osservò poi Creeps, rivolto aMorik.

Questi annuì perché nel dirigersi verso quella bettola aveva vistocon i suoi occhi lo schooner a tre alberi ancorato ai moli.

«Aveva una barba curata che correva soltanto lungo la linea dellamascella», aggiunse poi, cercando di fornire una descrizione il piùcompleta possibile.

«Siede diritto?» domandò il pirata coperto di tatuaggi.Morik però si limitò a guardarlo con aria perplessa, come se non

avesse capito cosa lui voleva sapere.«Sedeva eretto sulla sedia?» spiegò allora Creeps, assumendo una

posizione perfetta e diritta. «Dava l'impressione che gli avesseroinfilato un palo giù per la gola?»

«Dritto ed eretto», annuì Morik, sorridendo.Di nuovo i due pirati si scambiarono un'occhiata.«Sembra proprio Deudermont», commentò Creeps. «Darei una

borsa d'oro per poter piantare un coltello nella gola di quel cane, cheha mandato a fondo una quantità di miei amici e ci ha danneggiatitutti moltissimo.»

Il pirata coperto di tatuaggi dimostrò il proprio assenso gettandosul tavolo una borsa piena di monete; contemporaneamente Morik si

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rese conto che nella bettola tutte le altre conversazioni erano cessate eche ogni sguardo era fisso su lui e sui suoi due compagni.

«Allora, Morik, ti piace quello che stai vedendo?» commentòCreeps, indicando la borsa. «È tua, e credo che ce ne siano altre diecicome quella. Cosa ne dite, ragazzi?» gridò, alzandosi così di scatto darovesciare all'indietro la sedia. «Chi ha qualche moneta d'oro dapagare per avere la testa di Deudermont delFolletto del Marel»

Nel locale si levò un grande applauso misto a imprecazioniall'indirizzo di Deudermont e del suo equipaggio, ma Morik quasi nonsentì quel chiasso perché la sua attenzione era concentrata sulla borsapiena d'oro e sul pensiero che ogni uomo presente nella bettola, e

senza dubbio cento altri ancora, sarebbero stati pronti a pagarequalcosa. Deudermont era venuto a cercare Wulfgar e aveva mostratodi conoscerlo bene e di fidarsi di lui. Mille monete d'oro? Diecimila?Nel riflettere sul fatto che lui e Wulfgar sarebbero potuti arrivarefacilmente a Deudermont, il furfante sentì la propria mente avidavacillare di fronte alle possibilità che questo offriva.

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CAPITOLO IIINCANTESIMO

Meralda stava saltellando lungo il viottolo con l'aria allegra esbarazzina di una bambina e tuttavia il suo aspetto era senza dubbioquello di una giovane donna, con i lucidi capelli neri che leondeggiavano sulle spalle e gli occhi verdi che scintillavano luminosiquanto il radioso sorriso che le splendeva sul volto.

Aveva appena parlato con lui, con Jaka Sculi, dagli affascinanti

occhi azzurri e dai ribelli riccioli castani che gli ricadevano a ciocchesugli occhi, e questo la induceva a saltellare invece di camminare, lefaceva dimenticare il fango che penetrava nella suola delle scarpeormai vecchie e il cibo insapore che avrebbe trovato nella sua ciotoladi legno alla tavola dei genitori, quella notte. Nulla di tutto ciò avevaimportanza, e neppure gli insetti o l'acqua sporca: aveva parlato conJaka il che di per sé era sufficiente a farla sentire accaldata, piena diformicolii, spaventata e al tempo stesso quanto mai viva.

Fu una delle piccole, tacite ironie della sorte che proprio quellostato d'animo generato dall'incontro con l'ombroso Jaka inducesse losguardo di un altro uomo a posarsi sulla sua figura piena di gioia divivere.

Nell'arco dei suoi ventiquattro anni di vita Lord Feringal Auckaveva sentito il proprio cuore tremare alla vista di molte donne, per lopiù figlie di mercanti i cui padri erano alla ricerca di un altro rifugiosicuro a nordovest di Luskan, e che si fermavano al villaggio in quantoesso sorgeva vicino al passo più trafficato che attraversava la SpinaDorsale del Mondo, sostando il tempo necessario per rifornirsi diprovviste e riposare prima di intraprendere il pericoloso viaggio finoalle Ten Towns, nella Valle del Vento Ghiacciato.

Mai prima di allora Feringal Auck aveva avuto il respiro tantoaffannoso da trovarsi praticamente a corto di aria nel protendersi fuori

dal finestrino dell'elegante carrozza.

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«Feri, i pini stanno cominciando a liberare nel vento la loro polveregialla», protestò la voce di Priscilla, la sorella maggiore di Feringal, lasola che si ostinasse a chiamarlo Feri, con sua estrema irritazione.«Ritirati nella carrozza! La polvere ti farà starnutire e sai quanto sia

terribile...»Interrompendosi, la donna studiò con maggiore attenzione ilfratello, rilevando in particolare l'espressione intenta del suo sguardo.

«Feri?» chiamò quindi, spingendosi in avanti sul sedile per afferrarloper un gomito e scrollarlo con vigore. «Feri?»

«Chi è?» domandò il signore di Auckney, che non aveva neppuresentito sua sorella. «Chi è quella creatura angelica, quell'avatar della

dea della bellezza, immagine dei più puri desideri di un uomo,personificazione della tentazione?»Spinto di lato il fratello, Priscilla protese la testa fuori dalla carrozza.«Chi, quella contadina?» esclamò in tono incredulo, con una palese

nota di disprezzo nella voce.«Devo saperlo», dichiarò Lord Feringal, con voce estatica, mentre

abbandonava la tempia contro l'intelaiatura del finestrino econtinuava a tenere lo sguardo fisso sulla giovane donna; infine lacarrozza imboccò una curva e l'agile figura saltellante uscì dal suocampo visivo.

«Feri!» lo rimproverò Priscilla, sollevando la mano come se avesseavuto intenzione di schiaffeggiare il fratello minore, ma trattenendosidal raggiungere il bersaglio.

Il signore di Auckney si riscosse dal suo stato di estasi amorosa per iltempo necessario a fissare minacciosamente la sorella.

«Saprò chi è», ribadì.Appoggiatasi allo schienale, Priscilla Auck si trattenne dal ribattere,

anche se era sinceramente sconcertata da quell'insolita manifestazioneemotiva da parte del fratello. Fino ad allora Feringal si era sempremostrato un giovane gentile e tranquillo che si lasciava facilmentemanipolare dalla sorella zitella, più vecchia di lui di quindici anni.

Ormai prossima al suo quarantesimo compleanno, Priscilla non si eramai sposata perché in realtà non aveva mai provato interesse per

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nessun uomo al di là del soddisfacimento delle proprie esigenzefisiche. Sua madre era morta nel dare alla luce Feringal, suo padre eravenuto a mancare cinque anni più tardi e Priscilla si era trovata a doverportare avanti la gestione del feudo paterno con l'aiuto del consigliere

di suo padre, Temigast, in attesa che Feringal fosse cresciutoabbastanza da addossarsi i suoi doveri. Quello era però uno stato dicose che a Priscilla era sempre piaciuto, come dimostrava il fatto cheanche dopo il raggiungimento della maggiore età da parte di Feringale ancora adesso, a quasi dieci anni di distanza, la sua voce aveva unpeso considerevole nella gestione di Auckney. Poiché personalmentenon aveva mai desiderato introdurre un elemento estraneo nellafamiglia, Priscilla aveva sempre supposto che anche Feri la pensassecome lei.

Accigliandosi, Priscilla lanciò un'ultima occhiata in direzione dellagiovane donna, anche se essa era ormai scomparsa da tempo alla vista,dato che la carrozza stava già percorrendo il piccolo ponte di pietrache con il suo arco si estendeva sulla baia riparata dove si trovaval'isola su cui sorgeva il Castello di Auck.

Come il villaggio stesso, che non contava più di duecento abitanti e

che appariva di rado sulle mappe, anche il castello era di proporzionimodeste, composto da una dozzina di stanze per la famiglia, enaturalmente per Temigast, e da altre cinque per la mezza dozzina diservitori e i dieci soldati di cui l'edificio disponeva. Ai due lati delcastello sorgevano un paio di basse e tozze torri, alte appena cinquemetri a causa del vento che soffiava sempre ad Auckney, così forte ecostante da aver dato origine a una diffusa storiella secondo cui,qualora il vento avesse smesso di soffiare, tutti gli abitanti del villaggiosarebbero caduti in avanti per l'abitudine di opporre resistenza alla suaspinta nel camminare.

«Dovrei uscire più spesso dal castello», commentò Lord Feringalmentre lui e sua sorella attraversavano l'atrio per entrare in un salottodove il vecchio Siniscalco Temigast sedeva impegnato a dipingere unodei suoi innumerevoli paesaggi.

«Intendi dire per recarti al villaggio, oppure per visitare lecircostanti fattorie dal tetto di torba?» ribatté Priscilla, con evidente

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sarcasmo. «Entrambe le destinazioni sono soltanto un mucchio difango, pietra e sporcizia.»

«E in mezzo a quel fango una gemma scintilla ancora più luminosa»,ribatté il giovane nobile innamorato, con un profondo sospiro.

Nel cogliere quello strano scambio di battute il siniscalco inarcò unsopracciglio e distolse lo sguardo dal suo dipinto. Temigast avevavissuto a Waterdeep per la maggior parte degli anni giovanili ed eragiunto ad Auckney quando era già un uomo di mezz'età, circatrent'anni prima.

Più esperto e mondano degli isolati abitanti di Auckney (compresala famiglia Auck), Temigast non aveva avuto difficoltà a entrare nelle

simpatie del signore feudale Tristan Auck e nel conquistarsi la carica disuo principale consigliere e poi di siniscalco; quella stessa esperienzadelle cose del mondo gli permise ora di comprendere il perché delsospiro di Feringal e cosa esso implicasse.

«Era soltanto una ragazza», protestò Priscilla. «Una bambina, e perdi più anche sporca.» Accorgendosi poi che Temigast stava seguendo laconversazione spostò lo sguardo su di lui in cerca di sostegno e spiegò:«Temo che Feringal si sia preso una cotta, e per di più per unacontadina. Il signore di Auckney desidera una sporca e puzzolentecontadina».

«Incredibile», replicò Temigast, fingendosi inorridito anche sesecondo il suo modo di vedere, che era anche quello di chiunque nonfosse originario di Auckney, il «signore di Auckney» era lui stesso pocopiù che un contadino. La famiglia in effettiaveva una sua storia: ilcastello era stato eretto oltre seicento anni prima dai Dorgenast, cheerano stati signori del luogo per i primi due secoli ed erano poi statiassorbiti tramite matrimonio dagli Auck.

Ma qual era in realtà la consistenza di quel dominio? Auckney sitrovava alle frange estreme delle vie commerciali, a sud dello speronepiù occidentale della Spina Dorsale del Mondo, e la maggior partedelle carovane che viaggiavano fra le Ten Towns e Luskan evitavaaddirittura il villaggio per imboccare il più diretto passo fra le

montagne che si trovava molte miglia più a est; anche coloro che nonosavano addentrarsi su quel pericoloso passo privo di sorveglianzatransitavano comunque a est di Auckney, attraverso un altro passo che

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ospitava la città di Hundelstone, che aveva una popolazione sei voltepiù numerosa di Auckney e poteva offrire maggiori quantità diprovviste e i servigi di artigiani più numerosi e qualificati.

Pur essendo un villaggio costiero, Auckney era troppo a nord perrientrare nelle rotte commerciali marittime. Qualche volta capitavache una nave, per lo più qualche peschereccio sorpreso da una buferaal largo di Fireshear e diretto a sud, si addentrasse nel piccolo porto diAuckney, in genere per effettuare delle riparazioni. Alcuni di queipescatori finivano per insediarsi nel feudo, ma nonostante questo lapopolazione era rimasta più o meno costante da quando esso era statofondato dall'irruente Lord Dorgenast e dai suoi seguaci, reduci da unfallito e poco importante gioco di potere fra le famiglie nobiliari disecondo piano di Waterdeep. Ormai vicina alle due centinaia, lapopolazione era adesso più numerosa di quanto fosse mai stata(soprattutto grazie all'afflusso di gnomi da Hundelstone), ma inpassato era giunta spesso a calare fino a un solo centinaio di anime,con il risultato che tutti gli abitanti del villaggio erano imparentati fraloro, spesso in più di un modo, con la sola eccezione degli Auck che disolito sceglievano i consorti all'esterno del villaggio.

«Non ti puoi trovare una moglie adatta fra le donne di buonafamiglia di Luskan?» chiese Priscilla. «O magari stipulando unfavorevole contratto con qualche ricco mercante? Dopo tutto, unacospicua dote ci farebbe comodo.»

«Moglie?» ridacchiò Temigast. «Non è un'idea un po' prematura?»«Per nulla», dichiarò Lord Feringal. «Io l'amo, so che è così.»«Stolto!» gemette Priscilla, ma Temigast le batté un colpetto sulla

spalla per calmarla, senza smettere di ridacchiare.«È ovvio che l'ami, mio signore», rispose quindi, «ma purtroppo di

rado un nobile si sposa per amore. Per un nobile il matrimonio è unaquestione di posizione sociale, di alleanze e di ricchezze».

«Io l'amo!» ribadì Feringal, sgranando gli occhi.«Allora prendila come amante», suggerì in tono ragionevole

Temigast, «come giocattolo personale. Senza dubbio un uomo dellatua levatura sociale ha diritto a concedersi un simile passatempo».

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Incapace di parlare a causa del nodo crescente che gli stringeva lagola, Feringal girò sui tacchi e si allontanò a grandi passi verso le suestanze private.

***

«Lo hai baciato?» chiese Tori, la minore delle sorelle Ganderlay,ridacchiando all'idea.

Appena undicenne, Tori stava cominciando soltanto adesso arendersi conto delle differenze esistenti fra ragazzi e ragazze,

un'educazione che aveva assunto un ritmo accelerato da quando suasorella Meralda, maggiore di lei di sei anni, si era invaghita di JakaSculi, affascinata dai suoi lineamenti delicati, dalle lunghe ciglia e daimeditabondi occhi azzurri.

«No, certo che no», replicò Meralda, spingendo indietro i lunghicapelli neri dal bel volto dalla carnagione olivastra, quel volto che asua insaputa aveva catturato il cuore del signore di Auckney.

«Ma volevi farlo», la provocò Tori, scoppiando a ridere, e il fattoche Meralda si unisse alla sua risata fu già di per sé un'ammissione.

«Oh, certo che lo desideravo», confessò la ragazza più grande.«E volevi toccarlo», insistette sua sorella. «Volevi abbracciarlo e

baciarlo. Caro, dolce Jaka!» esclamò quindi, schioccando le labbracome se stesse baciando qualcuno, e stringendosi le braccia intorno alcorpo nel girarsi di spalle in modo da dare l'impressione che qualcunola stesse abbracciando.

«Smettila!» ingiunse Meralda, assestandole una pacca scherzosa sullaschiena.

«Ma non lo hai neppure baciato», protestò Tori. «Perché no, sevolevi farlo? Non lo voleva anche lui?»

«Non l'ho fatto per ottenere che lui lo desiderasse ancora di più»,spiegò la ragazza più grande. «Per indurlo a pensare a me di continuo,a sognare di me.»

«Ma se lo volevi...»

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«Io voglio molto di più», spiegò Meralda, «e se riesco a costringerload aspettare posso indurlo a implorare, e se lo porterò a implorarepotrò ottenere da lui tutto quello che voglio e anche di più».

«Che altro di più puoi volere?» chiese Tori, confusa.«Essere sua moglie», dichiarò senza esitazione Meralda.Per un istante Tori rimase tanto sconcertata che per poco non

svenne, poi però si riprese e brandì il cuscino di paglia, usandolo percolpire la sorella sulla testa.

«Oh, non dirai sul serio!» gridò, a voce troppo alta.Il momento successivo la tenda che chiudeva la loro camera da

letto venne tratta indietro e la testa di Dohni Ganderlay, un uomoreso muscoloso dal lavoro nei campi e con il volto scurito dal sole, fececapolino all'interno.

«Dovreste essere già addormentate da tempo», osservò in tono dirimprovero.

Immediatamente le ragazze si tuffarono sotto le ruvide coltri,tirandosele fin sotto il mento senza smettere di ridacchiare.

«Non intendo tollerare queste assurdità!» ruggì Dohni, lanciandosiin avanti e lasciandosi cadere su di loro come una grossa bestia incaccia, dando inizio a una breve lotta che si concluse con un abbracciofra le due ragazze e il loro adorato genitore.

«Adesso cercate di riposare, tutte e due», ingiunse poco dopoDohni, in tono serio. «Vostra madre non sta molto bene e le vostrerisate le impediscono di dormire.»

Poi le baciò entrambe ed uscì.Rispettose del padre e preoccupate per la madre, che in effetti sisentiva ancor peggio del solito, le due ragazze scivolarono ognuna neipropri pensieri.

L'ammissione di Meralda era per Tori una cosa strana che laspaventava, ma se da un lato non era certa di apprezzare l'idea che lasorella maggiore si sposasse e se ne andasse di casa, dall'altro era ancheeccitata alla prospettiva di crescere e di diventare una giovane donnacome lei.

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Sdraiata accanto alla sorella, Meralda aveva la mente pervasa diattesa. In passato aveva già baciato più di un ragazzo, ma si era sempretrattato di curiosità o di qualche scommessa con le sue amiche, mentrequesta era la prima volta che desiderava veramente baciare

qualcuno... e quanto desiderava baciare Jaka Sculi! Baciarlo e farscorrere le dita fra i suoi ricciuti capelli castani e accarezzare la suaguancia liscia, sentire le mani di lui sui suoi capelli, sul suo volto...

Meralda scivolò nel sonno in preda a sogni quanto mai piacevoli.

***

In un letto molto più comodo, in una stanza senza altrettantispifferi situata non molto lontano, annidato fra i suoi morbidi cuscinidi piume, Lord Feringal stava desiderando di trovare rifugio nel sonnoe di sognare di tenere fra le braccia la ragazza del villaggio, di esserelibero dalla sua soffocante posizione sociale e di poter fare quello chevoleva senza l'interferenza di sua sorella o del vecchio Temigast.

Forse quel suo desiderio di fuga onirica era troppo intenso, datoche non riuscì a trovare pace nel suo grande, soffice letto, e ben prestofinì per attorcigliarsi intorno alle gambe la morbida trapunta imbottitadi piume; fortunatamente per lui, le sue fantasticherie amorose loavevano indotto ad abbracciare uno dei cuscini, che gli attutì l'impattoquando infine nel rigirarsi una volta di troppo rotolò oltre il bordo delletto, atterrando sul pavimento.

Districatosi dal groviglio di coltri, Feringal prese a camminare per la

stanza grattandosi la testa, con i nervi più tesi di quanto lo fossero maistati, chiedendosi cosa gli avesse mai fatto quell'incantatrice.«Mi serve una tazza di latte caldo», borbottò infine ad alta voce,

pensando che il latte lo avrebbe calmato e lo avrebbe aiutato aprendere sonno. Sgusciato fuori dalla sua stanza si avviò in silenzio giùper la stretta scala ed era ancora a metà quando sentì delle vociprovenire dal basso.

Nel riconoscere la voce nasale della sorella, seguita da una risata diquest'ultima a cui si unì anche quella ansimante del vecchio Temigast, ilgiovane si arrestò di colpo perché qualcosa gli parve d'un tratto fuori

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posto e una sorta di sesto senso lo avvertì che lui era in qualche modola causa di quella risata. Con passo ancor più silenzioso continuòquindi la discesa fino ad arrivare sotto il livello del soffitto del primopiano, scivolando nell'ombra più fitta a ridosso della balaustra di

pietra.Priscilla era seduta su un divano, intenta a lavorare a maglia, e ilvecchio Temigast le sedeva di fronte su una sedia a schienale rigido,con un bicchiere di whisky in mano.

«Oh, ma io l'amo», gemette Priscilla, smettendo di lavorare perportarsi una mano alla fronte con fare drammatico. «Non posso viveresenza di lei!»

«Te la sei cavata egregiamente per tutti questi anni», ribattéTemigast, stando al gioco.«Ma sono stanco, buon siniscalco», dichiarò Priscilla, che stava

palesemente facendosi beffe di suo fratello. «Amare ed essere soli è unafatica terribile!»

Temigast quasi si strozzò nel sorseggiare il suo whisky e Priscillascoppiò in una nuova risata.

Incapace di controllarsi oltre, Feringal scese le scale a passo dicarica, pieno d'ira.

«Ora basta! Basta!» ruggì.Sorpresi, i due si girarono verso di lui e si morsero le labbra, anche

se Priscilla non riuscì a soffocare un'ultima gorgogliante risata.Lord Feringal la fissò con occhi roventi e con i pugni serrati lungo i

fianchi, più vicino a cedere all'ira di quanto lo fosse mai stato.«Come osate?» ringhiò, a denti stretti e con le labbra tremanti.

«Come osate farvi beffe di me in questo modo?»«Era solo uno scherzo, mio signore», tentò debolmente di spiegare

Teniigast, per attenuare la pericolosa tensione della situazione.«Niente di più.»

Ignorandolo, Feringal concentrò però la propria ira sulla sorella.

«Cosa ne sai tu dell'amore?» le urlò. «Tu non hai mai provato ilminimo desiderio in tutta la tua miserabile vita, tanto che non

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riusciresti neppure a immaginare cosa significa giacere con un uomo,vero, cara sorella?»

«Ne sai meno di quanto credi», replicò Priscilla, gettando di lato illavoro a maglia e accennando ad alzarsi.

La mano di Temigast, che le bloccò con forza un ginocchio, latrattenne però dal completare il gesto e l'espressione del vecchiosiniscalco, che le stava ricordando senza mezzi termini di stare attentaa quello che diceva e di mantenere un certo loro segreto, la indusse acalmarsi considerevolmente.

«Mio caro Lord Feringal», cominciò quindi il siniscalco in tonopacato, «non c'è nulla di sbagliato nei tuoi desideri, tutt'altro: io li

considero un segnale salutare, anche se un po' tardivo. Non dubito cheil tuo cuore brami quella contadina, ma ti garantisco che non c'è nulladi male nel prenderla come tua amante. Senza dubbio esistonoprecedenti di un comportamento del genere fra i passati signori diAuckney e anche della maggior parte degli altri regni».

Feringal emise un lungo e profondo sospiro e scosse il capo senzabadare alle parole del vecchio.

«Io l'amo», ribadì. «Non riuscite a capirlo?»«Non la conosci neppure», si azzardò a interloquire Priscilla. «Senza

dubbio estrae torba con le sue dita sporche.»Feringal mosse un passo verso di lei con fare minaccioso, ma

Temigast fu pronto a interporsi con un'agilità e una rapidità notevoliper la sua età e con gentilezza costrinse il giovane a sedersi.

«Io ti credo, Feringal. Tu l'ami e desideri riscattarla dalla suacondizione.»

«Riscattarla?» ripeté in tono vacuo Feringal, colto alla sprovvista daquelle parole.

«Naturalmente», ribadì Temigast. «Tu sei il signore di Auckney e seiil solo che abbia il potere di elevare questa contadina dalla suacondizione miserabile.»

Feringal mantenne il suo atteggiamento perplesso per un momentoancora, poi prese ad annuire vigorosamente.

«Sì, certo!» esclamò.

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«L'ha vista una volta soltanto», ripeté, costringendo Temigast arivolgere su di lei la propria attenzione.

«A volte è sufficiente», replicò lui, in tono sommesso.Quelle parole indussero Priscilla a tacere e a sollevare lo sguardo sul

vecchio di cui divideva segretamente il letto fin dai primissimi giornidella propria giovinezza. Nonostante tutta la loro intimità fisica,Temigast non si era però mai aperto con lei tranne una volta, quandoaveva fugacemente parlato della sua vita a Waterdeep prima ditrasferirsi ad Auckney; in quell'occasione il siniscalco aveva cambiatoquasi subito argomento dopo aver pronunciato un nome di donna, eda allora Priscilla si era sempre chiesta se quella donna avesse

significato per Temigast più di quanto lui desse a intendere. E adessoera evidente che il vecchio siniscalco era caduto preda di qualchericordo ridestato dalle dichiarazioni di amore eterno di Feringal.

D'impulso Priscilla volse le spalle al suo amante in preda allagelosia, ma come sempre si calmò in fretta e ricordò a se stessa qualifossero il suo destino e i suoi piaceri nella vita: forse la determinazionedi Temigast di impedire a Feringal di correre dietro a quella contadinaera stata smorzata dai ricordi del passato, ma Priscilla non eraaltrettanto pronta ad accettare l'impetuosa decisione del fratelloperché l'andamento della vita al Castello di Auck le andava bene cosìcom'era ormai da molti anni, e l'ultima cosa che desiderava era cheuna giovane contadina, e magari anche la sua puzzolente famiglia,venissero a vivere là con loro.

***

Temigast si ritirò per la notte di lì a poco, rifiutando l'invito diPriscilla a dividere il suo letto perché i suoi pensieri erano concentratisu un'epoca ormai lontana decenni e su una donna che avevaconosciuto un tempo, una donna che gli aveva rubato il cuore e chenel morire così giovane lo aveva lasciato fino a quel giorno prigionierodi un'amarezza e di un cinismo senza limiti.

Temigast non si era reso conto della profondità di quel suoinaridirsi interiore fino a quando non si era trovato a dubitare della

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sincerità degli evidenti sentimenti di Feringal e ad accantonarli comeinsignificanti... e in quel momento si era sentito un vecchio miserabile.

Sedutosi su una sedia vicino alla stretta finestra, il vecchio siniscalcoindugiò a contemplare il sottostante porto di Auckney, sul quale laluna era tramontata ormai da tempo, lasciando le acque scure epunteggiate di creste bianche sotto il cielo stellato. Come Priscilla,anche lui non aveva mai visto il suo giovane protetto così animato eagitato, così pieno di fuoco e di vita. Di solito Feringal aveva uncomportamento apatico e quasi letargico, ma questa sera non c'erastato nulla di letargico nel modo in cui il giovane era sceso a passo dicarica per le scale per proclamare il suo amore per quella giovanecontadina, nulla di letargico nel modo in cui aveva affrontato la suaprepotente sorella maggiore.

Quell'immagine fece affiorare un sorriso sul volto di Temigast.Forse adesso il Castello di Auck aveva bisogno di quel fuoco, forse eragiunto il momento di dare una scrollata a quel vecchio edificio eall'intero feudo, e magari se il signore di Auckney avesse trovato unpo' di spirito vitale questo sarebbe servito a portare lo spesso ignoratovillaggio a un livello simile a quello dei più famosi centri vicini,

Hundelstone e Fireshear. Mai prima di allora un signore di Auckneyaveva sposato una delle contadine del villaggio: la maggior parte dellepoche famiglie risiedeva là da secoli e la possibilità di contrarre unlegame anche remoto di parentela tramite matrimonio eraun'argomentazione che consigliava di evitare che Feringal facesse amodo suo.

D'altro canto la pura e semplice energia che il giovane nobile avevadimostrato nel perorare la sua causa parve in quel momento aTemigast un'argomentazione a favore di quell'unione, quindi lui deciseche avrebbe vagliato la cosa con estrema attenzione, provvedendo ascoprire l'identità di quella contadina e vedendo se era possibileorganizzare qualcosa di concreto.

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CAPITOLO IIIL’ULTIMA GOCCIA

«Quell'uomo ti conosceva», si azzardò a dire Morik quando tornòa raggiungere Wulfgar, quella stessa notte a ora molto tarda dopo lasua visita nella sordida bettola, constatando che in sua assenza l'amicoaveva già bevuto quasi tutta la seconda bottiglia. «E tu conoscevi lui.»

«Ha creduto di conoscermi», precisò Wulfgar, strascicando ogniparola e non riuscendo quasi a stare seduto senza barcollare perché era

più ubriaco di quanto fosse sua abitudine a quell'ora della notte.All'uscita dalla Scimitarra lui e Morik si erano separati, Wulfgar con

le due bottiglie di liquore in mano, ma invece di andare dritto ai moliil barbaro aveva cominciato a vagare per la città e ben presto avevafinito per ritrovarsi nell'area più esclusiva di Luskan, quella doveabitavano le persone rispettabili e i mercanti; le guardie cittadine nonerano intervenute per allontanarlo perché in quella zona si trovava laGogna dei Prigionieri, una piattaforma pubblica sulla quale idelinquenti venivano puniti pubblicamente. Quella notte su di essac'era un ladro a cui il torturatore stava chiedendo ripetutamente diammettere il suo crimine; quando l'uomo aveva rifiutato diconfessare, il torturatore gli aveva troncato il mignolo con una grossacesoia, ripetendo la propria domanda. La risposta fornita infine dalladro aveva strappato un coro di urla di approvazione al gruppo dipersone che si era raccolto ad assistere a quel macabro spettacolo.

Naturalmente l'aver ammesso il suo crimine non era stato per quelpoveretto un modo per cavarsela a buon mercato e gli era invececostato la perdita dell'intera mano, un dito per volta, fra le urladivertite della folla.

Wulfgar non aveva però trovato nella scena nulla di divertente edessa era invece stata per lui traumatica in quanto lo aveva scaraventatoindietro nel tempo, agli anni vissuti nell'Abisso in balia dell'agonia

inflittagli da Errtu. Quali sofferenze aveva conosciuto laggiù! Era statoferito e frustato e percosso fino a essere quasi in punto di morte e ogni

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volta era stato risanato dalla magia di uno degli immondi seguaci diErrtu. Laggiù le dita gli erano state staccate a morsi e poi rigenerate.

E adesso la vista di quello sventurato ladro aveva fatto riaffiorarenitide in lui le immagini di quei tormenti.

L'incudine. Sì, quella era stata la peggiore tortura fisica che Errtuaveva escogitato per lui, riservata per quei momenti in cui il grandedemone era in preda a un'ira tale da non riuscire a escogitare una piùsottile e devastante tortura mentale.

L'incudine era gelida come un blocco di ghiaccio, così gelida dabruciare come fuoco a contatto con le sue cosce quando i possentiseguaci di Errtu lo costringevano a sedere a cavalcioni su di essa, nudo,

e poi a sdraiarsi supino all'indietro.A quel punto Errtu avanzava verso di lui con passo lento e

minaccioso, gli si arrestava davanti e con un movimento improvviso eviolento calava sui suoi occhi aperti un minuscolo martelletto irto diaghi, facendogli esplodere nelle orbite ondate su ondate di nauseantee intollerabile agonia.

Poi, naturalmente, i seguaci di Errtu lo risanavano in modo che

quella divertente operazione potesse essere ripetuta.Anche a tanto tempo di distanza dalla sua fuga dalle mani di Errtu,

gli capitava spesso di svegliarsi raggomitolato su se stesso come unbambino con le mani strette sugli occhi, avvertendo l'agonia passata.

Wulfgar conosceva un solo modo per sottrarsi a quella sofferenza,quindi si era allontanato di corsa con le due bottiglie strette in mano esi era servito del potente liquore per appannare i ricordi.

«Hacreduto di conoscerti?» domandò Morik in tono dubbioso. Wulfgar lo fissò con espressione vacua.«Parlo di quell'uomo che è venuto alla Scimitarra», spiegò Morik.«Si è sbagliato», insistette Wulfgar, con voce impastata.Morik gli lanciò un'occhiata piena di scetticismo.«Conosceva quello che io ero un tempo, non quello che sono

adesso», ammise infine il barbaro.«Deudermont», commentò Morik.

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Wulfgar si girò a guardarlo con aria sorpresa, perché se da un latosapeva che Morik conosceva la maggior parte della gente di Luskan (ilche era logico dato che le informazioni erano un suo strumento disopravvivenza), dall'altro lo stupiva il fatto che lui conoscesse anche

quello che riteneva essere un oscuro marinaio in visita nel loro porto.«Quello è il Capitano Deudermont delFolletto del Mare », spiegòMorik. «Un uomo molto noto e molto temuto dai pirati della Costadelle Spade e che sembra avere con te un rapporto di conoscenzareciproca».

«Una volta ho navigato con lui... una vita fa», ammise Wulfgar.«Ho molti amici, squali del mare, che sarebbero disposti a pagare

profumatamente pur di veder eliminare quell'uomo», proseguì Morik,protendendosi verso l'amico. «Forse potremmo sfruttare a nostrovantaggio la familiarità che hai con lui.»

Non aveva ancora finito la frase che Wulfgar reagì con inaspettatarapidità e durezza, serrandogli una mano intorno alla gola. Alzatosisulle gambe rese poco salde dal liquore bevuto, Wulfgar trovòcomunque la forza di sollevare da terra il furfante con un braccio solo,poi fece un balzo in avanti e mandò entrambi a sbattere contro laparete di un vicino magazzino, dove tenne Morik il Furfante bloccatoa mezz'aria con i piedi che dondolavano a parecchi centimetri da terra.

D'istinto Morik infilò la mano in una tasca profonda e la chiuseintorno a un affilato coltello con cui sapeva di essere in grado ditrapassare in un istante il cuore di Wulfgar, poi però si trattenne dalcolpire perché Wulfgar non stava cercando di accentuare la pressioneo di fargli in qualche modo del male e anche perché in un angolo dellasua mente perdurava il ricordo degli elfi drow e dell'interesse cheavevano manifestato nei confronti del barbaro. Come avrebbe fatto aspiegare loro che aveva ucciso chi doveva sorvegliare? E cosa nesarebbe stato di lui se non fosse riuscito a eliminare Wulfgar sul colpo?

«Se mai dovessi chiedermi di nuovo una cosa del genere, io...»cominciò Wulfgar, poi lasciò la minaccia in sospeso e lasciò andareMorik, girandosi verso il mare così di scatto che per poco non perse

l'equilibrio in avanti e non cadde giù dal molo.

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Dietro di lui Morik indugiò a massaggiarsi la gola indolenzita,stupito da quell'esplosione di rabbia, ma quando ci ebbe riflettutosopra per un momento si limitò ad annuire fra sé nel rendersi conto diaver toccato una ferita dolorosa che era stata aperta dall'inattesa

apparizione del vecchio compagno di Wulfgar, Deudermont. Quellaera la classica lotta fra il passato e il presente, un conflitto che lui avevavisto devastare più di un uomo intento a scolare una bottiglia diliquore: i sentimenti destati in lui dalla vista del capitano con cui avevanavigato un tempo erano ancora troppo vivi e dolorosi per Wulfgar,che non riusciva a riconciliare il suo stato attuale con quello che erastato un tempo. Sorridendo fra sé, Morik lasciò quindi caderel'argomento perché era consapevole che nel suo amico il conflitto frapresente e passato era ancora tutt'altro che risolto.

Forse alla fine il presente avrebbe avuto la meglio e Wulfgar sisarebbe deciso a dare ascolto alla sua proficua proposta relativa aDeudermont, e in caso contrario lui avrebbe sempre potuto agire perconto proprio, sfruttando a proprio vantaggio la familiarità esistentefra questi e Wulfgar senza che il barbaro ne venisse a conoscenza.

Quanto all'aggressione nei suoi confronti, Morik decise di

perdonare Wulfgar... per questa volta.«Allora ti piacerebbe tornare a navigare con lui?» chiese dopo un

po', usando deliberatamente un tono più discorsivo. Wulfgar si lasciò cadere in posizione seduta e lo fissò con

un'espressione incredula negli occhi appannati dall'alcol.«Dobbiamo alimentare le nostre borse», gli ricordò Morik. «Tu

sembri esserti stancato di Arumn e della Scimitarra, quindi magariqualche mese per mare...»

Wulfgar gli intimò con un cenno di tacere, poi si girò per sputare inmare e un momento più tardi si chinò oltre il bordo del molo pervomitare.

Nel contemplare il barbaro con un misto di compassione, didisgusto e d'ira, Morik decise che sarebbe andato a caccia diDeudermont sia che Wulfgar decidesse o meno di essere della partita,

e che si sarebbe servito del suo amico per trovare un punto debole nelfamoso capitano delFolletto del Mare. Morik si sentì poi assalire da

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«Stavo pensando che Morik potrebbe davvero preparare una bellatrappola per Deudermont e magari recitare una parte in questogiochetto senza sapere che gli è stata assegnata», continuò Creeps. «Seha simpatia per l'amico di Morik, Deudermont potrebbe abbassare un

po' troppo la guardia.»«Tu crepi noi facciamo?» domandò Tee-a-nick-nick, che sembravainteressato.

Creeps adocchiò l'amico e ridacchiò fra sé per la difficoltà che ilmezzo-qullan incontrava nel parlare anche se aveva navigato con gliumani per la maggior parte della sua vita, fin da quando era statoraccolto da giovane su un'isola dove la sua stessa gente, i selvaggi

qullan alti oltre due metri e intolleranti nei confronti dei sanguemisti,lo aveva abbandonato perché considerato inferiore.Nel frattempo Tee-a-nick-nick mimò l'atto di soffiare in qualcosa e il

riferimento non sfuggì a Creeps Sharky, in quanto nessun pirata sunessun mare era in grado di maneggiare meglio del mezzo-qullan unaparticolare arma, un lungo tubo cavo che lui chiamava cerbottana, econ la quale Creeps gli aveva visto colpire una mosca sulla murata daun lato all'altro di un ampio ponte di nave. Tee-a-nick-nick avevainoltre una buona conoscenza in fatto di veleni, retaggio della sua vitacon gli esotici qullan, e li applicava sugli artigli di gatto che a volteutilizzava come missili per la sua cerbottana... e i suoi erano veleni chenessun chierico umano era in grado di individuare o di contrastare.

Un semplice tiro ben diretto avrebbe potuto fare di Creeps e diTee-a-nick-nick due uomini molto ricchi, forse tanto ricchi da poterarmare una loro nave.

«Hai un veleno particolarmente potente per il CapitanoDeudermont?» chiese infine Creeps.«Tu crepi noi facciamo», dichiarò il mezzo-qullan, con un sorriso

soddisfatto.

***

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Arumn Gardpeck si lasciò sfuggire un sospiro nel vagliare i danniarrecati alla porta che dava accesso all'ala degli ospiti della Scimitarra,i cui cardini erano stati distorti in maniera tale che adesso il battentenon era più allineato con lo stipite e pendeva invece da un lato senza

più riuscire a chiudersi in maniera adeguata.«È di nuovo di cattivo umore», commentò Josi Puddles, che erafermo dietro il taverniere. «Lo è oggi e lo sarà domani. Quello lì èsempre di cattivo umore.»

Ignorandolo, Arumn imboccò il corridoio e si andò ad arrestaredavanti alla porta di Delly Curtie, appoggiando l'orecchio al legno:dall'interno giungeva un sommesso ma nitido suono di singhiozzi.

«L'ha buttata fuori di nuovo», ringhiò Josi. «Ah, che razza di cane.»Anche se stava pensando più o meno la stessa cosa, Arumn gli

lanciò un'occhiata rovente e non si lasciò influenzare in nessun mododalle lamentele di Josi, perché era consapevole che lui avevasviluppato una profonda avversione nei confronti di Wulfgar basatasoprattutto sulla gelosia, l'unica emozione che pareva sempregovernare le azioni di Josi. D'altro canto i singhiozzi di Delly stavanoaddolorando il suo animo già turbato perché lui era giunto aconsiderare quella ragazza come una figlia. In un primo tempo,nonostante le proteste di Josi che era da anni innamorato dellaragazza, Arumn era stato molto contento dello sbocciare di unarelazione fra Delly e Wulfgar, ma adesso doveva ammettere che quelleproteste sembravano contenere un nocciolo di verità, perché direcente il comportamento di Wulfgar nei confronti della ragazza lostava amareggiando e preoccupando non poco.

«Ti costa più di quanto renda», continuò intanto Josi, allungando ilpasso per non rimanere indietro rispetto al massiccio Arumn, che sistava dirigendo con decisione verso la porta di Wulfgar, in fondo alcorridoio. «Spacca una quantità di cose e la gente onesta non viene piùalla Scimitarra per timore di farsi fracassare la testa.»

Arrivato davanti alla porta del barbaro, Arumn si arrestò e si giròcon decisione verso l'ometto.

«Ora chiudi quella bocca», ingiunse in tono secco, poi si girò verso ilbattente e sollevò una mano come per bussare, ma subito dopo

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possente martello da guerra che solcava vorticando l'aria, direttoverso la sua testa.

Entrato nella stanza con passo furtivo, l'ometto indugiò a guardarela piccola sacca di monete che Arumn aveva lasciato fra la porta e illetto di Wulfgar, poi estrasse un grosso coltello e appoggiò la punta diun dito sulla schiena del barbaro, appena sotto la scapola, fino adavvertire il battito del cuore. Sostituita al dito la punta del coltello, sidisse che tutto quello che doveva fare era appoggiarsi su di esso contutto il suo peso per conficcarlo nel cuore di Wulfgar e porre fine aisuoi problemi: in quel modo la Scimitarra sarebbe sopravvissuta, tuttosarebbe tornato a essere com'era prima che quel demone arrivasse aLuskan e Delly Curtie sarebbe tornata a essere una preda raggiungibile.

Lentamente, Josi cominciò a esercitare pressione sulla lama ma inquel momento Wulfgar si mosse appena, ancora molto lontano dalriprendere coscienza.

Quell'accenno di movimento fu però sufficiente a gettare Josi nelpanico. Cosa sarebbe successo se avesse mancato il bersaglio e avessesoltanto ferito il grosso guerriero? L'immagine di Wulfgar che balzavaruggendo dal letto per afferrare il suo aspirante assassino fu sufficientea fargli tremare le ginocchia a tal punto che per poco non caddeaddosso al barbaro addormentato, e non appena si fu ripreso siaffrettò a ritrarsi dal letto e a girarsi verso la porta, cercando di nonurlare per la paura.

Ritrovando il controllo, si costrinse a rammentare i propri timoriper la scenata a cui si aspettava di assistere quella notte, quando

Wulfgar sarebbe sceso nella sala comune ad affrontare Arumn e con

quel suo terribile martello da guerra avrebbe devastato il locale eabbattuto quanti si trovavano al suo interno.Prima ancora di potersi soffermare a riflettere su quello che stava

facendo, attraversò a precipizio la stanza e con estrema fatica sollevò ilpesante martello, tenendolo fra le braccia come un bambino, poi fuggìdalla stanza e lasciò la locanda dalla porta posteriore.

***

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«Suvvia, non voglio guai», aggiunse Arumn, tornando ad agitare lemani in un gesto conciliante.

Personalmente Wulfgar non era intenzionato a causare guai, anchese era senza dubbio di pessimo umore, ma in quel momento notò unmovimento da parte di Josi Puddles, un evidente segnale in risposta alquale una mezza dozzina di uomini massicci, fra cui due che Wulfgarriconobbe come vecchi dipendenti di Arumn, si dispose a semicerchioe cominciò a convergere su di lui.

«Niente guai!» ribadì Arumn con maggiore intensità, rivolto più albranco di cani da caccia di Josi che a Wulfgar.

«Aegis-fang», borbottò intanto il barbaro.

Poco lontano vicino al bancone Josi s'irrigidì e pregò di essereriuscito a porre il martello al di fuori della portata del richiamo magicodi Wulfgar.

«È nella tua stanza», affermò intanto Arumn.Con un movimento improvviso quanto violento Wulfgar scagliò

lontano la sacca delle monete mandandola a scivolare lontano sulpavimento.

«Credi che questo sia un pagamento sufficiente?» ruggì.«È più di quanto ti devo», si azzardò a controbattere Arumn.«Una manciata di monete in cambio di Aegis-fang?» esclamò in tono

incredulo Wulfgar.«Non sono per il martello da guerra», balbettò Arumn, consapevole

che la situazione si stava deteriorando in fretta. «Quello è nella tua

stanza.»«Se ci fosse stato lo avrei visto», rispose Wulfgar, protendendosi inavanti con fare minaccioso.

In reazione al suo gesto il gruppo di bravacci si avvicinò un po' dipiù e un paio di essi impugnarono corti randelli mentre un terzo siavvolse un tratto di catena intorno al pugno.

«E se pure non l'avessi visto, il martello da lì sarebbe giunto al mio

richiamo», continuò Wulfgar, poi chiamò ancora, questa volta a pienavoce: «Aegis-fang!».

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Non accadde nulla.«Dov'è il mio martello?» tornò a domandare il barbaro ad Arumn.«Vattene di qui, Wulfgar», implorò il taverniere. «Vattene e non fare

storie. Se troveremo il martello te lo faremo avere, ma ora va'.»Intuendo quello che stava per succedere, Wulfgar si espose di

proposito protendendo il braccio oltre il bancone come se avesseavuto intenzione di afferrare Arumn per la gola, salvo poi bloccare ilgesto a metà e trarre indietro il braccio di scatto in modo daintercettare l'assalitore in arrivo sul fianco destro, Reef, cogliendolo inpiena faccia con il gomito. Reef ondeggiò e barcollò per un momento,poi venne scagliato lontano da una seconda gomitata di Wulfgar.

Sulla pura spinta dell'istinto, il barbaro si girò quindi di scatto esollevò in posizione difensiva il braccio sinistro appena in tempo perintercettare uno dei compagni di Reef, che lo stava assalendo con uncorto e spesso randello il cui impatto venne così bloccatodall'avambraccio.

A quel punto ogni parvenza di strategia e di tattica scomparve inuna frazione di secondo quando tutti e cinque i bravacci ancora in

piedi si scagliarono contemporaneamente contro Wulfgar, che prese ascalciare e a colpire con i pugni massicci mentre continuava invano achiamare a gran voce Aegis- fang. Fra un pugno e un calcio, Wulfgarscattò poi più volte in avanti con la testa in modo da centrare in pienoora il naso di un assalitore ora la tempia di un altro, mandandoli abarcollare lontano.

In mezzo a quella confusione aleggiavano le grida di Delly Curtie eun ripetuto quanto angosciato e impotente «No!» di Arumn.

Wulfgar però non era in condizione di sentirli e se anche avessepotuto farlo non avrebbe comunque avuto modo di obbedire a quellasupplica perché in quel momento la sua massima priorità era quella diconquistare un po' di tempo e di spazio di manovra perché stavaincassando tre colpi per ognuno che mandava a segno e anche se i suoipugni e i suoi calci erano di gran lunga più potenti, Reef e i suoi amicinon erano certo novellini in fatto di risse.

Intanto gli altri clienti della Scimitarra stavano osservando la scenacon uno stato d'animo fra il confuso e il divertito perché sapevano che

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pervase il volto e in bocca gli affiorò intenso il sapore del sangue: perquanto stordito, Wulfgar contrattaccò ugualmente ma il suo pugnoraggiunse soltanto di striscio la spalla dell'avversario.

Nel frattempo un altro uomo si lanciò alla carica a testa bassa,colpendo Wulfgar al fianco con una spallata, ma essendo puntellatocontro il bancone il barbaro non si spostò di un millimetro e rimaseconcentrato invece sull'altro, più pericoloso assalitore: in quelmomento il pugno avvolto nella catena scattò di nuovo verso la suafaccia e lui ebbe il tempo di vedere che gli anelli di metallo eranoarrossati dal suo sangue prima di schivare come poteva l'impatto, conil risultato che il pugno lo raggiunse di striscio e gli lacerò una guancia.

L'uomo che aveva tentato la spallata era intanto rimbalzatoall'indietro senza provocare danni e provò questa volta ad afferrarelateralmente il barbaro per immobilizzarlo e gettarlo al suolo.Levando un ruggito di sfida Wulfgar non si lasciò però smuovere eriuscì invece a insinuare con una contorsione il braccio sinistro sotto laspalla dell'uomo in modo da afferrarlo per i capelli all'altezza dellanuca.

Una volta consolidata la presa, venne quindi avanti con un ruggitoe sferrando una serie di pugni con la mano destra ancora libera mentrecon la sinistra badava a tenere sotto controllo l'uomo che gli si eraaggrappato addosso. Il furfante con il pugno rivestito di catena prese aindietreggiare allora sulla difensiva, servendosi del braccio sinistro perparare i colpi, ma poi scorse un'apertura a cui non seppe resistere evenne avanti per sferrare un altro pugno, questa volta colpendo inpieno Wulfgar alla clavicola. Il furfante avrebbe però fatto meglio acontinuare la propria ritirata perché adesso Wulfgar aveva ritrovatol'equilibrio quanto bastava per vibrare con tutte le sue considerevoliforze un potente gancio destro.

Il furfante sollevò il braccio sinistro ma non riuscì quasi a deviare ilcolpo e il pugno di Wulfgar abbatté tutte le sue difese, cogliendolo inpieno a una tempia e scagliandolo al suolo privo di sensi.

***

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Seduto al suo tavolo nell'angolo più lontano della sala, Morik stavasorseggiando la sua birra con aria imperturbata, abbassandosi di tantoin tanto per schivare una bottiglia o il corpo di qualche malcapitatoche solcava l'aria. Nonostante quella facciata di calma apparente, il

furfante era però preoccupato per il suo amico e per la Scimitarraperché lui stesso stentava a credere alla brutalità della rissa che si erascatenata quella notte. Pareva che tutti i bravacci di Luskan avesserodeciso di cogliere al volo quest'unica grande opportunità dicombattere in una taverna dove le risse si erano fatte relativamenterare da quando era arrivato Wulfgar, che con la sua mole avevasempre spaventato o messo subito fuori combattimento i potenzialifomentatori di disordini.

Morik poi sussultò quando la catena andò a sbattere contro lafaccia di Wulfgar, provocando uno spruzzo di sangue, e per unmomento prese in considerazione l'eventualità di andare in aiutodell'amico, accantonando però subito quell'idea perché lui erasoprattutto un abile accumulatore di informazioni, un ladro chesopravviveva con la propria astuzia e le proprie armi, tutte qualità chenon gli potevano essere d'aiuto in una comune rissa da taverna.

Di conseguenza non poté fare altro che rimanere seduto al tavolo,tenendo d'occhio il tumulto che gli ribolliva intorno e che aveva ormaicoinvolto quasi tutti i presenti. Un uomo gli passò davanti trascinandouna donna per i suoi lunghi capelli neri e dirigendosi verso la porta,ma aveva appena superato Morik che un altro uomo gli calò una sediasulla testa, facendolo crollare al suolo svenuto.

Quando l'improvvisato soccorritore si girò verso la donna, leiprontamente gli fracassò una bottiglia sulla faccia sorridente, poi sigirò e tornò di corsa verso il folto della mischia, balzando sulle spalledi un uomo e trascinandolo al suolo mentre con le unghie glidevastava la faccia.

Dalla sua postazione, Morik osservò con particolare attenzionequella donna, in modo da imprimersi bene i suoi lineamenti nellamemoria, perché riteneva che quel suo spirito combattivo si sarebbepotuto rivelare decisamente piacevole nell'eventualità di un futuroincontro privato.

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Poi un subitaneo movimento alla sua destra, colto con la codadell'occhio, lo indusse a spingere in fretta indietro la sedia e a metterein salvo boccale e bottiglia nel momento stesso in cui due uominiatterravano sul suo tavolo, fracassandolo e scivolando lontano

insieme al legno in frantumi.Scrollando le spalle Morik accavallò le gambe e si appoggiò allaparete, bevendo un altro sorso di birra.

***

Dopo aver abbattuto l'uomo con la catena intorno al pugno, Wulfgar sperimentò un momento di relativa calma, ma un altroavversario fu pronto a farsi sotto aggredendolo lateralmente eappendendogli al braccio libero nel tentativo di bloccarlo; dopoqualche momento l'uomo si rese poi conto che i suoi sforzi eranoinutili e abbandonò la presa per aggrapparsi con le mani alla faccia di

Wulfgar per cercare di fargli abbassare la testa, mordendogli al tempostesso un orecchio.

Ruggendo di dolore e di rabbia, Wulfgar impresse un violentostrattone ai capelli dell'avversario, allontanando da sé la sua testa eanche un piccolo pezzo del proprio orecchio, insinuò la mano destrasotto il braccio sinistro dell'uomo ed impresse una rotazione e unatorsione fino a costringerlo a lasciargli andare la camicia; afferratosaldamente il malcapitato per le braccia, il barbaro si girò di scattoverso il bancone e impresse un violento strattone verso il basso,mandando l'uomo a sbattere contro il legno con tanta forza che le assis'incrinarono. Senza neppure accorgersi che l'avversario aveva cessatodi reagire, lo sollevò quindi di nuovo e lo calò ancora contro ilbancone, scrollò le spalle e con un possente ruggito scagliò lontano ilpoveretto ormai privo di sensi, girandosi per far fronte agli attacchisuccessivi.

A quel punto il suo sguardo velato dal sangue mise finalmente afuoco per un breve momento la scena che eli imperversava intorno e

lui stentò a credere alla portata della rissa: pareva che il mondo interofosse impazzito, corpi e tavoli volavano da ogni parte e quasi tutti i

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clienti presenti quella notte, più o meno un centinaio, erano ormaicoinvolti nella mischia. Dall'altra parte della sala Wulfgar individuòMorik, che sedeva tranquillamente con le spalle appoggiate allaparete, limitandosi a spostare di tanto in tanto le gambe per evitare

qualche impatto indesiderato; incontrando a sua volta lo sguardodell'amico, Morik sollevò cordialmente il bicchiere verso di lui. Wulfgar però lo vide appena perché proprio allora fu costretto ad

abbassarsi e a puntellarsi per intercettare un uomo che voleva colpirloalla testa con una pesante asse, e che in questo modo volò invecelontano oltre le sue spalle.

Wulfgar scorse anche Delly, che stava attraversando di corsa la sala

cercando di tenersi il più possibile al coperto e chiamandolo a più nonposso; la ragazza era a metà strada da lui quando una sedia volante laraggiunse alla tempia e la gettò al suolo.

D'istinto Wulfgar si mosse per andare da lei, ma proprio allora unnuovo avversario approfittò della sua momentanea distrazione perscagliargli contro, afferrandolo all'altezza delle ginocchia. Il barbarolottò per mantenere l'equilibrio e riuscì a muovere un passobarcollante, poi però un altro uomo gli balzò sulla schiena e intantoquello che già lo aveva afferrato alle ginocchia spostò la presa su unacaviglia in una morsa a due braccia per rotolare su se stesso in mododa torcergli la gamba proprio mentre un terzo uomo gli piombavaaddosso a tutta velocità, mandando l'intero gruppo a rovinare alsuolo in un groviglio di braccia che si agitavano e di gambe chescalciavano.

Wulfgar rotolò addosso all'ultimo assalitore e gli calò l'avambraccio

sulla faccia, puntellandosi su di lui per cercare di rialzarsi, ma unpesante stivale gli si abbatté pesantemente sulla schiena e lo spinse dinuovo giù con violenza, togliendogli il respiro. L'invisibile assalitoreche lo sovrastava cercò di calpestarlo ancora, ma Wulfgar ebbe lapresenza di spirito di rotolare di lato e l'uomo finì così per raggiungereallo stomaco uno dei suoi compagni.

Lo spostamento repentino ricordò intanto a Wulfgar che avevaancora un avversario saldamente attaccato a una caviglia e lui provò ascalciare con la gamba libera per districarsi; sdraiato com'era, non

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aveva però modo di fare leva e prese quindi a dibattersi e contorcersiin modo frenetico per cercare di liberarsi.

L'uomo continuò però a restargli cocciutamente aggrappatosoprattutto perché non aveva il coraggio di lasciarlo andare. Vistal'inutilità dei propri sforzi Wulfgar optò infine per una tattica diversa:sollevata la gamba prigioniera insieme all'uomo a essa attaccato, tornòa distenderla di scatto in modo da spostare la presa dell'avversario piùin su rispetto al piede, e nello stesso tempo passò la gamba liberaintorno alla schiena dell'uomo fino ad agganciare fra loro le caviglie.

In quel momento un secondo uomo gli balzò addosso,afferrandogli un braccio e bloccandolo al suolo con il proprio peso,

mentre un terzo avversario faceva lo stesso con l'altro braccio. Perqualche momento Wulfgar lottò selvaggiamente contro quella morsae quando questa tattica non funzionò si limitò a spingere verso l'altocon un ruggito, sollevando le braccia ad angolo retto all'altezza delgomito e avvicinandole una all'altra sopra il proprio torace massiccio,mentre al tempo stesso accentuava la stretta delle gambe possenti aspese dell'uomo aggrappato alla caviglia, che cercò invano di resisterea quella morsa e di gridare: il solo suono che giunse da lui fu infatti lo

schiocco sonoro di una spalla che si slogava.Adesso che in basso ogni resistenza era cessata, Wulfgar liberò le

gambe con una contorsione e scalciò fino a quando il gementeavversario non rotolò lontano, poi spostò la propria attenzione suidue assalitori sospesi sopra di lui, che non cessavano di colpire e digraffiare. Dando prova di una forza impensabile in un mero mortale,distese allora le braccia fino a sollevare completamente i due, poi litrasse di scatto sopra la propria testa e contemporaneamente ripiegòle gambe sotto di sé con uno scatto che lo fece rotolare su se stesso e glipermise di fare leva con le mani nel girarsi in modo da potersi alzare inpiedi di fronte ai due avversari ancora proni.

Il puro e semplice istinto in quel momento lo indusse a girarsi perfar fronte a un'ennesima carica con un pugno deciso che raggiunse inpieno petto l'assalitore, l'uomo con la catena avvolta intorno allamano. La collisione fu terribile per entrambi perché Wulfgar non erariuscito a girarsi abbastanza in fretta da riuscire a parare in tempol'attacco dell'avversario, il cui pugno gli centrò in pieno la faccia. I due

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uomini si arrestarono con un brivido, l'uomo con la catena intornoalla mano si accasciò fra le braccia del barbaro che lo spinse di lato e lolasciò crollare pesantemente al suolo prono e del tutto privo diconoscenza.

Al tempo stesso Wulfgar si rese però conto che quell'ultimo colpoaveva avuto serie conseguenze, perché adesso la vista gli si era fattasfocata e incerta e lui doveva continuare a ricordare a se stesso dove sitrovava. D'un tratto sollevò di scatto un braccio ma riuscì a deviaresolo in parte una sedia volante che lo centrò in pieno alla fronte conuna gamba, aumentando il suo senso di vertigini. Adesso intorno a luiil ritmo frenetico dello scontro stava rallentando perché la genteancora in piedi e impegnata a lottare era molto meno numerosa diquella priva di sensi, ma Wulfgar si rese conto di aver bisogno di unaltro momento di tregua, sia pure temporanea e optò per l'unica viapossibile, rotolando sopra il bancone per atterrare in piedi al di là diesso... faccia a faccia con Arumn Gardpeck.

«Questa notte hai fatto una cosa davvero meravigliosa, non credi?»ringhiò il locandiere. «Una rissa ogni notte per Wulfgar perché se nonon si diverte.»

Afferratolo per il davanti della tunica Wulfgar lo issò rudemente inpiedi dalla sua posizione accoccolata dietro il bancone e lo mandò asbattere contro la parete sovrastante gli scaffali delle bottiglie,fracassando al tempo stesso alcune scorte di costoso liquore.

«Sii lieto che la tua faccia non si trovi sulla traiettoria di un miopugno», ringhiò, tutt'altro che pentito.

«Soprattutto, devo essere lieto che tu non abbia giocato con i mieisentimenti come hai fatto con quelli della povera Delly», ringhiò dirimando Arumn.

Quelle parole ferirono profondamente Wulfgar, che non avevamodo di controbattere l'accusa e non poteva onestamente sosteneredi non avere colpe nei confronti di Delly. Assestato ad Arumn unpiccolo strattone tornò a posarlo per terra e indietreggiò di un passo,fissandolo con occhi roventi, poi notò un movimento laterale e lanciò

un'occhiata in quella direzione in tempo per vedere un enorme pugnofluttuante nell'aria che si stava librando al di sopra del bancone.

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L'istante successivo quel pugno lo raggiunse alla testa con unaviolenza di cui lui non ricordava di aver mai sperimentato l'eguale:barcollando, Wulfgar si aggrappò in cerca di sostegno a uno scaffale dibottiglie di whisky, lo sradicò dalla parete e girò su se stesso sempre

barcollante, puntellandosi al bancone.Di fronte a lui Josi Puddles gli sputò in faccia, e prima di avere iltempo di reagire Wulfgar vide quella magica mano fluttuante tornaread abbattersi su di lui. Quel secondo colpo gli privò di ogni forza legambe, poi ne arrivò un terzo che lo sollevò da terra e lo sbatté conviolenza contro la parete retrostante. Adesso tutto gli vorticava ormaiintorno e lui si sentì crollare sul pavimento.

In parte trasportandolo e in parte sorreggendolo, qualcuno lotrascinò fuori da dietro il bancone e sul pavimento, mentretutt'intorno gli ultimi focolai della rissa si estinguevano di colpo allavista del possente Wulfgar infine sconfitto.

«Facciamola finita fuori», disse Reef, aprendo la porta con un calcio,ma nel girarsi verso la strada si venne a trovare con una daga puntataalla gola.

«È già finita», lo corresse con indifferenza Morik, tradendo peraltrola sua calma apparente con un'occhiata nervosa in direzionedell'interno della locanda e del magro mago intento a riporre le suecose, a quanto pareva del tutto indifferente a quanto stavano dicendo.Reef lo aveva assunto come una sorta di assicurazione sulla vita e nelconstatare che il mago non pareva avere un interesse personale nellarissa lui si calmò un poco e accentuò la pressione del coltello controReef mentre borbottava fra sé: «Io odio i maghi».

Reef lanciò un'occhiata al suo compagno, che teneva Wulfgar perl'altro braccio, e all'unisono con lui scagliò poco cerimoniosamente ilbarbaro nel fango della strada.

Rialzatosi in piedi sulla spinta della sola forza di volontà, Wulfgar sicostrinse a schiarirsi la mente e si girò verso la porta chiusa, ma Morikfu pronto a trattenerlo per un braccio.

«Non lo fare», gli ingiunse. «Là dentro non ti vogliono. Cosa credi di

dimostrare?»

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Wulfgar accennò a protestare ma nell'incontrare lo sguardo diMorik si rese conto che non c'erano obiezioni valide da sollevare ecomprese che il furfante aveva ragione e che adesso lui non aveva piùuna casa.

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CAPITOLO IVUNA VITA DA SIGNORA

«Ganderlay», annunciò Temigast, entrando nella stanza in cui sitrovavano Priscilla e Feringal, che lo guardarono entrambi concuriosità, non riuscendo a capire cosa lui avesse inteso dire. «Miriferisco alla donna che hai visto, Lord Feringal: il cognome della suafamiglia è Ganderlay», aggiunse il siniscalco.

«Non conosco nessun Ganderlay ad Auckney», osservò Priscilla.

«Mia signora, al villaggio sono poche le famiglie di cui conosci ilnome», replicò Temigast in tono alquanto asciutto. «Questa donna èuna Ganderlay e vive con la sua famiglia sul pendio meridionale delMonte Maerlon», continuò, riferendosi a un'area piuttosto popolosadi Auckney che si trovava a circa tre chilometri dal castello, su unpendio montano intagliato a terrazze che si affacciava sul porto.

«Ragazza», corresse Priscilla in tono condiscendente. «Non la si può

certo definire ancora una donna.»Troppo eccitato per le notizie portate dal siniscalco, Feringal nonparve neppure rilevare il suo commento.

«Ne sei certo?» domandò a Temigast, balzando in piedi eavanzando con fare deciso fino a porglisi davanti. «È davvero lei?»

«La ra... la donna stava percorrendo la strada nel momento in cui latua carrozza è passata di là», confermò il siniscalco. «Parecchie persone

che la conoscono l'hanno vista ieri sulla strada: tutti hanno accennatoai suoi lunghi capelli neri e la loro descrizione corrisponde a quella chemi hai dato tu, mio signore. Sono certo che si tratti della figliamaggiore di un certo Dohni Ganderlay.»

«Andrò da lei», decise Feringal, camminando avanti e indietro concrescente impazienza e cambiando di continuo direzione come sefosse stato incerto su dove andare e cosa fare. «Farò preparare lacarrozza e...»

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«Questo, Lord Feringal, sarebbe quanto mai sconveniente»,intervenne Temigast in un tono pacato ma imperioso che ebbel'effetto di calmare l'irruenza del giovane nobile.

«Perché?» esclamò Feringal, fissandolo con occhi sorpresi.«Perché è una contadina e non è degna di...» cominciò Priscilla, ma

poi lasciò la frase in sospeso perché era evidente che nessuno le stavadando retta.

«Non ci si presenta a casa di una signora per bene senza farsiannunciare», spiegò intanto Temigast. «La strada deve essere preparatadal tuo siniscalco e dal padre della giovane donna.»

«Ma io sono il signore di Auckney», protestò Feringal. «Io posso...»«Puoi fare come preferisci se la vuoi soltanto come un passatempo»,

fu pronto a interromperlo Temigast, attirandosi un'occhiata accigliatada parte sia di Feringal sia di sua sorella. «Se invece la desideri comemoglie bisogna procedere nel modo giusto. Esiste, Lord Feringal, unmodo in cui tutti noi dobbiamo agire in situazioni come questa, e tigarantisco che violare l'etichetta in una situazione del genere potrebberisultare disastroso.»

«Non capisco.»«È ovvio che tu non capisca, ma fortunatamente per tutti noi io

capisco benissimo le esigenze della situazione», ribatté il siniscalco.«Adesso va' a lavarti, perché se la giovane Ganderlay in questomomento si trovasse sottovento rispetto a te puoi essere certo chefuggirebbe senza pensarci due volte», aggiunse quindi, costringendoFeringal a girarsi e spingendolo con decisione verso la porta.

«Mi hai tradita!» gemette Priscilla, non appena suo fratello se ne fuandato.Temigast accolse quella ridicola affermazione con uno sbuffo di

disgusto.«Non intendo accettarla in questa casa», aggiunse la donna, in tono

deciso.«Non ti sei ancora resa conto che a parte ricorrere all'omicidio non

c'è nulla che tu possa fare per impedirlo?» ribatté Temigast in tonograve. «Mi riferisco all'assassinare tuo fratello, naturalmente, e non la

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ragazza perché uccidendo lei otterresti soltanto di scatenare su di te leire di Feringal.»

«Ma tu lo hai aiutato in questa sua assurda iniziativa.»«Gli ho fornito soltanto le informazioni che lui stesso avrebbe

potuto ottenere ponendo qualche domanda a qualsiasi contadino,comprese tre donne che lavorano in questa casa, una delle quali sitrovava ieri sulla strada».

«Quell'idiota non avrebbe mai pensato a interpellarle», insistettePriscilla.

«Ma avrebbe scoperto comunque il nome della ragazza», insistetteTemigast, «e magari nel corso della sua poco dignitosa caccia ciavrebbe messi tutti in grave imbarazzo».

Ridacchiando, il siniscalco si avvicinò a Priscilla e le passò un bracciointorno alle spalle.

«Capisco le tue preoccupazioni, mia cara Priscilla, e in certa misurale condivido», disse. «Anch'io avrei preferito che tuo fratellos'innamorasse della figlia di qualche ricco mercante di un'altra città enon di una contadina di Auckney, o addirittura che avesseaccantonato del tutto il concetto di amore dando sfogo al propriodesiderio quando e dove ne aveva voglia senza prendere moglie, eforse può darsi che le cose vadano ancora così.»

«È meno probabile, ora che tu lo hai aiutato», dichiarò in tonotagliente Priscilla.

«Niente affatto», la contraddisse Temigast, sfoggiando un ampiosorriso che catturò l'attenzione della donna in quanto ora la suaespressione si era fatta astuta. «Io ho ottenuto soltanto di aumentare lafiducia che tuo fratello nutre in me e nella mia capacità di giudizio. Puòdarsi che rimanga radicato nella convinzione di amare questa ragazzae di volerla sposare, ma ti prometto che lo terrò d'occhio a ogni passoe che gli impedirò di recare vergogna alla famiglia Auck, così comeimpedirò alla ragazza e alla sua famiglia di ottenere da noi cose chenon meritano. Ti garantisco che questa è una situazione in cui nonpossiamo piegare la volontà di Feringal e che la tua indignazioneservirà soltanto a renderlo più deciso.»

Priscilla sbuffò con fare dubbioso.

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«Non senti la sua ira quando lo contrasti su questo argomento?»domandò Temigast, strappandole un involontario sussulto. «Tiavverto che se ci mettiamo ora in aperto contrasto con tuo fratello lapresa che quella ragazza Ganderlay ha su di lui... e su Auckney... ne

risulterà accentuata.» Priscilla non sbuffò, non scosse il capo e nonmostrò in nessun modo di dissentire, limitandosi a fissare a lungoTemigast con espressione intensa. Lui la baciò su una guancia e lasciò lastanza, pensando che doveva far preparare subito la carrozza eprocedere a svolgere i suoi doveri come emissario di Lord Feringal.

Jaka Sculi sollevò lo sguardo dal fangoso campo di torba insiemeagli altri lavoratori, umani e gnomi, quando l'elegante carrozzapercorse il viottolo di terra battuta e si andò a fermare davanti allapiccola casa di Dohni Ganderlay; un vecchio scese dal veicolo e sidiresse verso la casa, e questo indusse per un momento Jaka Sculi asocchiudere gli occhi con aria accigliata. Ricordandosi d'un tratto cheforse qualcuno degli altri lo stava osservando, il giovane si affrettò poiad assumere di nuovo la consueta aria distaccata: dopo tutto lui eraJaka Sculi, l'amante desiderato e sognato da tutte le giovani donne diAuckney e in particolare dalla donna che viveva nella casa di fronte

alla quale si era arrestata la carrozza nobiliare. L'idea che la splendidaMeralda lo desiderasse non era cosa da poco per il giovane, anche senaturalmente non poteva permettere a nessuno di accorgersi del suointeresse.

«Dohni», chiamò intanto uno degli altri lavoranti presenti sulcampo, un piccolo gnomo curvo dal lungo naso appuntito. «DohniGanderlay, hai visite!»

«O forse hanno scoperto che razza di furfante sei!» esclamò un altrognomo, suscitando una risata generale.

L'unico ad astenersi, naturalmente, fu Jaka, che non intendevapermettere agli altri di vederlo ridere.

In quel momento Dohni Ganderlay apparve sul costone retrostanteil campo di torba e guardò in direzione di quelli che lo avevanochiamato con espressione interrogativa; i due gnomi però silimitarono ad accennare verso la sua casa e nel seguire con lo sguardoil loro movimento Dohni si accorse infine della carrozza, la cui vista loindusse a correre verso la propria abitazione.

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E Jaka Sculi lo seguì con lo sguardo fino a quando non ne ebbevarcato la soglia.

«Allora, ragazzo, vuoi deciderti a scavare?» chiese una voce, accantoa lui.

Quando Jaka si girò, il vecchio sdentato che lo aveva interpellato siprotese a passargli una mano fra i ricciuti capelli castani e il giovanereagì a quel gesto scrollando la testa con disgusto. Notando la crosta ditorba nera che rivestiva le dita del vecchio, lui scrollò ancora il capo escosse con forza i capelli, allontanando al tempo stesso con decisione ilvecchio che stava accennando ad allungare ancora la mano.

«Hee, hee, hee», ridacchiò questo. «Sembra che la tua ragazzina

abbia visite.»«E un visitatore anziano, per di più», rincarò un altro uomo, più che

disposto a farsi a sua volta beffe di Jaka.«Del resto anch'io sto cominciando a pensare di farle la corte»,

aggiunse il vecchio che si trovava accanto a Jaka, e quando infine ilgiovane si girò a fissarlo con espressione accigliata scoppiò in una risataancor più sonora, soddisfatto di aver infine ottenuto una reazione da

lui.Jaka fece scorrere lo sguardo sul campo e sui lavoranti, sulle poche

case sparse sul fianco della montagna, sul Castello di Auck che spiccavain lontananza e sulle cupe e fredde acque che si allargavano al di là diesso, le stesse acque che quattro anni prima avevano portato lui, suamadre e suo zio in quel luogo dimenticato. Jaka non sapeva perché sifossero trasferiti ad Auckney e dal canto suo era stato più chesoddisfatto della vita che conduceva a Luskan; sapeva soltanto che erauna cosa che aveva a che vedere con suo padre: aveva l'abitudine dipicchiare selvaggiamente sua madre, e aveva il sospetto che iltrasferimento fosse stato una fuga da lui o dal boia. Quella sembravaessere una tattica tipica della famiglia Sculi, perché già quando lui eraancora molto piccolo lei aveva abbandonato la casa ancestrale neiRegni della Lama per viaggiare fino a Luskan. Adesso senza dubbioprima o poi suo padre, un uomo violento che lui quasi non conosceva,

li avrebbe ritrovati e avrebbe ucciso sua madre e suo zio per punirli diessere fuggiti, o magari lui stesso era già morto, lasciato immerso nelsuo stesso sangue da Rempini, lo zio di Jaka.

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La verità, quale che fosse, non aveva per lui nessun interesse: tuttoquello che sapeva era che si trovava in questo feudo squallido,ventoso, freddo e spoglio la cui unica qualità era stata per lui fino apoco tempo prima il fatto che la perpetua malinconia del luogo

serviva ad alimentare la sua natura poetica. Jaka, che amavaconsiderarsi un eroe romantico, aveva ormai superato il suodiciassettesimo compleanno e aveva già preso molte volte inconsiderazione l'eventualità di unirsi a una delle poche carovane dimercanti che passavano di lì per visitare la vastità del mondo e magariarrivare fino a Luskan o addirittura alla grande Waterdeep. Il suosogno era quello di crearsi là una fortuna e di riuscire magari un giornoa tornare addirittura nei Regni della Lama.

Adesso però tutti quei piani erano stati momentaneamenteaccantonati perché di recente un aspetto positivo si era rivelato ai suoiocchi e lui non poteva più negare l'attrazione che provava neiconfronti della giovane figlia di Ganderlay.

Però quella era naturalmente una cosa che non poteva lasciarcapire né a lei né a nessun altro, almeno fino a quando non avesseavuto la certezza che Meralda fosse stata disposta a donarglisi

completamente.

***

Nell'oltrepassare con passo affrettato la carrozza Dohni Ganderlayriconobbe il conducente, uno gnomo dalla barba grigia di nome Liam

Woodgate, e quando questi gli rivolse un cenno del capoaccompagnato da un sorriso cominciò a sentirsi molto più rilassatoanche se mantenne un'andatura decisa fin oltre la soglia; una volta incasa, trovò il siniscalco del Castello di Auck seduto al piccolo tavolodella cucina, di fronte a sua moglie Biaste, che sfoggiava sul visoscavato dalla malattia un'espressione raggiante di cui lui da lungotempo non aveva più visto l'uguale.

«Mastro Ganderlay», salutò con cortesia il siniscalco, «io sono

Temigast, siniscalco del Castello di Auck ed emissario di Lord Feringal».

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«So chi sei», replicò in tono cauto Dohni, e senza distogliere losguardo dal visitatore inatteso aggirò il tavolo, ignorando le due sedieancora vuote per andare ad arrestarsi in piedi dietro la moglie, con lemani posate sulle sue spalle.

«Stavo appunto spiegando a tua moglie che il mio e tuo signoredesidera che la tua figlia maggiore si rechi questa sera a cena alcastello», continuò intanto il siniscalco.

Quella sconvolgente affermazione colpì Dohni Ganderlay con laviolenza di un pugno, ma lui badò a mantenere inalterata la suaespressione mentre assimilava la notizia e fissava gli occhi grigi delvecchio Temigast per valutare a fondo cosa si celasse dietro di essa.

«Naturalmente sulla carrozza ho un abito adeguato per MissMeralda, qualora tu decida di acconsentire», concluse intantoTemigast, con un sorriso accattivante.

L'orgoglioso Dohni Ganderlay vide però, al di là di quella facciatasorridente e del tono rispettoso e cortese, la condiscendenza che essicelavano e la sicurezza di Temigast, la sua convinzione che loro nonpotessero opporre un rifiuto perché erano soltanto miserabilicontadini: il signore di Auckney aveva avanzato una richiesta e ci siaspettava che fossero più che pronti a soddisfarla.

«Dov'è Meralda?» chiese infine a sua moglie.«Lei e Tori sono andate al mercato, a prendere qualche uovo per la

cena», rispose la donna, con una nota tremante nella voce che nonsfuggì a Dohni.

«Questa notte, e magari per molte altre notti, Meralda potrà

banchettare a suo piacimento» commentò Temigast.E di nuovo nelle sue parole e nel suo tono Dohni colse unasprezzante condiscendenza che era diretta a ricordargli quale fosse lasua condizione di vita, la sorte dei suoi figli, dei suoi amici e dei lorofigli.

«Allora Meralda verrà?» chiese infine il siniscalco, dopo una lungapausa pervasa di disagio.

«Spetterà a Meralda decidere», ribatté Dohni Ganderlay, in tonopiù tagliente di quanto fosse stata sua intenzione.

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«Ah», annuì Temigast, con un altro sorriso, poi si alzò in piediinvitando al tempo stesso con un cenno Biaste a rimanere seduta eaggiunse: «Certo, è naturale, però vieni lo stesso a prendere l'abito,Mastro Ganderlay, perché qualora decidessi di mandare da noi la

giovane signora per lei sarà più facile prepararsi avendo già qui ilnecessario».«E se non volesse venire?»Temigast inarcò un sopracciglio con espressione tale da lasciar

intendere che a suo parere l'idea che Meralda potesse opporre unrifiuto era semplicemente assurda.

«in tal caso», rispose tuttavia, «domani manderò qui il cocchiere a

recuperare l'abito».Senza replicare, Dohni abbassò lo sguardo sul volto emaciato della

moglie malata, notando la sua espressione supplichevole.«Mastro Ganderlay?» lo chiamò intanto Temigast, accennando alla

porta.Battuto un colpetto sulla spalla di Biaste, Dohni si diresse insieme al

siniscalco verso la carrozza, dove trovarono il conducente gnomo cheli stava aspettando con l'abito in mano e le braccia sollevate perevitare che la stoffa delicata strisciasse sulla strada polverosa.

«Faresti bene a convincere tua figlia a venire», consigliò Temigastnel consegnare l'abito a Dohni, che per reazione assunseun'espressione ancora più rigida. «Tua moglie è malata e senza dubbiouna misera esistenza in una casa piena di correnti non può certogiovarle con l'inverno che si avvicina.»

«Parli come se avessimo una possibilità di scelta al riguardo», ribattéDohni.«Lord Feringal è un uomo facoltoso», gli ricordò Temigast. «Può

ottenere con facilità erbe terapeutiche, letti caldi e potenti chierici.Sarebbe un peccato lasciare che tua moglie soffra inutilmente.Ceneremo subito dopo il tramonto, quindi farò passare di qui lacarrozza verso il crepuscolo», aggiunse, battendo un colpetto

sull'abito, poi salì sulla carrozza e si chiuse lo sportello alle spallementre il cocchiere frustava prontamente i cavalli per indurli adavviarsi.

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Dohni Ganderlay rimase a lungo fermo con il vestito in mano aguardare la nuvola di polvere sollevata dal veicolo che si allontanava,lo sguardo fisso nel vuoto. Dentro di sé avrebbe voluto gridare che seLord Feringal era un signore così benevolo e con simili conoscenze

avrebbe dovuto usare spontaneamente tali mezzi per il benessere dellasua gente: persone come Biaste Ganderlay avrebbero dovuto poterottenere l'aiuto di cui avevano bisogno senza essere costrette avendere le loro figlie... perché in effetti ciò che Temigast gli avevaappena offerto equivaleva a vendere sua figlia per il bene dell'interafamiglia. Vendere sua figlia!

E tuttavia, nonostante il suo orgoglio, Dohni Ganderlay non poténegare a se stesso di riconoscere l'opportunità che gli si stava offrendo.

***

«Era la carrozza del nostro signore», insistette Jaka Sculi, rivolto aMeralda che aveva intercettato sulla via di casa. «E si è fermata davantialla tua porta», aggiunse, con quel suo accento esotico pieno di

drammatici toni aspirati.Tori Ganderlay ridacchiò e Meralda le assestò un pugno su una

spalla, segnalandole di precederli.«Ma io voglio sentire», protestò la ragazzina.«Sentirai quanto pesano le mie mani», ribatté Meralda, poi accennò

ad avanzare verso di lei ma subito si ricompose nel ricordare chi erapresente e si girò di nuovo verso Jaka con un dolce sorriso dipinto sulvolto, pur riuscendo al tempo stesso a lanciare con la coda dell'occhioun'occhiata rovente alla sorella.

Tori dal canto suo si avviò saltellando lungo la strada.«Volevo vederti mentre lo baciavi!» strillò allegramente nel correre

via.«Sei certo che fosse la carrozza del nostro signore?» chiese intanto

Meralda a Jaka, sforzandosi di ignorare l'imbarazzante commento diTori.

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Il giovane rispose soltanto con un drammatico sospiro diesasperazione.

«Ma cosa può volere Lord Feringal dai miei genitori?» insistetteMeralda.

Jaka si limitò a scrollare le spalle, infilando le mani in tasca einclinando il capo da un lato con aria perplessa.

«In ogni caso è bene che mi affretti», decise Meralda.Quando però accennò ad avviarsi, Jaka si spostò in modo da

bloccarle il passo.«Cosa credi di fare?» domandò lei.

Jaka la fissò allora con quei suoi occhi azzurri, passandosi una manofra la massa di riccioli castani, e Meralda si sentì quasi soffocare per ilnodo che le stava serrando la gola, così come temette che il cuorefinisse per esploderle nel petto a causa del battito sempre più violento.

«Cosa credi di fare?» chiese di nuovo, però in tono molto piùsommesso e senza convinzione.

Jaka avanzò allora verso di lei e Meralda cercò di ricordare a se

stessa ciò che aveva detto a Tori su come bisognava costringere unragazzo a implorare, ricordò a se stessa che non doveva cedere, nonancora, e tuttavia non accennò a indietreggiare e addirittura avanzò asua volta mentre lui si faceva tanto vicino da permetterle di sentire ilproprio alito caldo sul volto. Poi Jaka le sfiorò appena le labbra con leproprie e subito si ritrasse, mostrandosi d'un tratto timido.

«Allora, cosa vuoi fare?» insistette Meralda, ora con evidenteimpazienza.

Quando Jaka si limitò a sospirare lei si fece avanti per prima perbaciarlo, tremando in tutto il corpo per il desiderio che lui ricambiasseil bacio, cosa che in effetti fece. Quel momento si protrasse a lungo,meraviglioso, poi Jaka si trasse indietro.

«Ti aspetto dopo cena», disse, poi si girò e s'incamminò lentamente.Meralda scoprì che stava quasi facendo fatica a respirare perché

quel bacio era stato tutto ciò che aveva sognato e molto di più, l'avevalasciata con un senso di calore nel ventre, con le ginocchia tremanti e ilcorpo che formicolava tutto. Non aveva importanza il fatto che con

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una semplice esitazione Jaka fosse riuscito a fare esattamente ciò cheuna donna avrebbe dovuto fare a un uomo: per il momento lei nonera in grado di pensare a questo perché era troppo affascinata dallarealtà di quello che era appena successo e dalla promessa di quello che

sarebbe potuto accadere più tardi.Lasciata la strada imboccò lo stesso sentiero lungo cui era scomparsaTori e si avviò con lo stesso passo saltellante e la stessa gioia infantiledella sorella, come se il bacio di Jaka l'avesse liberata dai vincoli didignità e di temperanza che derivavano dall'essere una donna.

Quando entrò in casa con un ampio sorriso sul volto, sgranò gliocchi nel vedere sua madre in piedi accanto al tavolo con l'espressione

più felice che avesse sfoggiato da settimane e con in mano unosplendido abito di un intenso verde smeraldo sul quale eranoapplicate gemme scintillanti.

«Oh, quando lo avrai indossato sarai la ragazza più bella che si siamai vista ad Auckney!» esclamò Biaste Ganderlay, e accanto a lei Toriscoppiò in un'irrefrenabile risatina.

Per un lungo momento Meralda continuò a fissare con perplessità ilvestito, poi si girò verso suo padre che era in piedi in un angolo dellastanza e che stava sorridendo a sua volta, anche se a lei quel sorrisoparve molto più forzato di quello di Biaste.

«Ma mamma, non abbiamo il denaro per un abito del genere»,protestò quindi, anche se in effetti era affascinata dall'indumento enon poté trattenersi dall'avvicinarsi per sfiorare la morbida stoffa,pensando a quanto sarebbe piaciuto a Jaka vederla con quellameraviglia indosso.

«È un dono, non ci costa nulla», spiegò Biaste, provocando altrerisatine da parte di Tori.

Assumendo un'espressione d'un tratto incuriosita, Meralda si giròverso suo padre per avere una spiegazione, ma sorprendentemente luidistolse lo sguardo.

«Mamma, cosa sta succedendo?» chiese infine la ragazza.

«Hai un pretendente, ragazza mia», dichiarò allegramente Biaste,posando l'abito per poter abbracciare la figlia. «Oh, è il nostro signorein persona che desidera corteggiarti!»

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Dal momento che aveva sempre molto riguardo per i sentimenti disua madre, soprattutto adesso che era malata, Meralda fu lieta cheBiaste la stesse abbracciando e che quindi non avesse potuto vederel'espressione infelice e sconvolta che le era apparsa sul volto. Tori

invece la vide, ma si limitò a fissare la sorella e ad arricciareripetutamente le labbra mimando silenziosamente dei baci; Meraldaspostò quindi lo sguardo su suo padre, che ora la stava di nuovoguardando, ma la sola reazione di Dohni fu quella di annuire con ariasolenne.

Infine Biaste allontanò da sé la figlia, guardandola con ariaraggiante.

«Oh, la mia bambina», esclamò. «Quando sei diventata così bella? Epensare che hai addirittura catturato il cuore di Lord Feringal!»Lord Feringal. Di nuovo Meralda stava faticando a respirare, ma

non per la gioia, considerato che quasi non conosceva il signore delCastello di Auck, anche se le era capitato di vederlo da lontano innumerose occasioni, di solito intento a presenziare con aria annoiataalle svariate celebrazioni che si tenevano nella piazza cittadina.

«Si è preso una cotta per te, ragazza mia», proseguì Biaste, «e aquanto ha detto il suo siniscalco è una cosa seria».

Per amore di sua madre Meralda riuscì a costringersi a sorridere.«Presto ti verranno a prendere, quindi sbrigati a fare un bagno»,

aggiunse intanto Biaste, «poi indosserai questo abito e tutti gli uominiche ti vedranno cadranno ai tuoi piedi».

Con movimenti metodici, Meralda prese l'abito e si diresse verso la

sua stanza seguita da Tori con l'impressione di essere finita in un sognotutt'altro che piacevole; suo padre si avvicinò intanto a sua madre e leili sentì avviare una conversazione anche se il suo attuale stato diconfusione non le permise di distinguere quello che stavano dicendo.La sola cosa che le giunse chiara all'orecchio fu un'esclamazione diBiaste:

«Un nobile per la mia bambina!»

***

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Auckney non era un centro molto grande e anche se le case non

sorgevano una a ridosso dell'altra gli abitanti erano comunqueabbastanza vicini da far sì che entro breve tempo la notiziadell'appuntamento fra Lord Feringal e Meralda Ganderlay facesse ilgiro del paese.

Jaka Sculi apprese la verità sulla visita del siniscalco di Lord Feringalquella sera stessa prima di aver finito di mangiare, mentre il sole stavaancora calando sull'orizzonte occidentale.

«Pensare che un uomo della sua posizione sociale si possa abbassareal punto di toccare una contadina», commentò sua madre, sempre

pessimista, con voce ispessita dal forte accento contadino della suaperduta patria, i Regni della Lama. «Ah, il mondo sta proprio andandoin rovina.»

«È davvero una brutta notizia», convenne suo fratello, un vecchiobrizzolato e avvizzito che sembrava aver visto troppe cose nel mondo.

Anche Jaka riteneva che quella fosse una notizia terribile, ma peruna ragione molto diversa, o almeno riteneva che la sua ira avesse una

motivazione differente in quanto non sapeva con certezza perché suamadre e suo zio fossero così sconvolti, una perplessità che trasparivadal suo sguardo confuso.

«Ognuno di noi ha la sua posizione sociale», spiegò suo zio. «Sonoconfini ben precisi che nessuno deve attraversare.»

«Lord Feringal sta recando disonore alla sua famiglia», rincarò suamadre.

«Meralda è una donna splendida», si trovò a ribattere Jaka, prima diavere il tempo di trattenere quelle parole rivelatrici dei suoi segretisentimenti.

«È una contadina e lo sarà sempre», fu pronta a replicare sua madre.«Noi abbiamo il nostro posto e Lord Feringal ha il suo. Oh, senzadubbio quella gente gioirà della cosa, pensando di poter trarre un po'di speranza dalla fortuna di Meralda, ma non sa come stanno

realmente le cose.»«E come stanno, realmente?»

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«Lui la userà», predisse sua madre, «e in questo modo farà di sestesso uno zimbello e della ragazza una sgualdrina».

«E lei finirà rovinata o morta, mente Lord Feringal perderàcompletamente il favore dei suoi pari», concluse suo zio. «Sonodavvero brutte notizie.»

«Perché pensate che lei soccomba?» domandò Jaka, sforzandosi inogni modo di impedire alla disperazione di trapelargli dalla voce.

Sua madre e suo zio si limitarono a scoppiare in una risata e Jakacomprese fin troppo bene cosa avessero inteso rispondergli: Feringalera il signore di Auckney, quindi come poteva Meralda opporgli unrifiuto?

Era davvero troppo perché il povero, sensibile Jaka potessetollerarlo. Calato con violenza il pugno sul tavolo, il giovane spinseindietro la sedia e scattò in piedi, incrociando lo sguardo sorpreso disua madre e di suo zio con occhi che ardevano d'ira, poi girò sui tacchie si precipitò fuori, sbattendosi la porta alle spalle.

Prima ancora di rendersene conto si trovò a correre con la mente insubbuglio e di lì a poco raggiunse un tratto di terreno sopraelevato, un

piccolo ammasso di rocce che dominava lo stesso campo di torbadove era stato impegnato a lavorare quel pomeriggio, una posizioneche gli permetteva di avere una splendida visuale del tramonto e dellacasa di Meralda. In lontananza, verso sudovest, era visibile anche ilcastello e lui non faticò a immaginare la splendida carrozza che risalivaa passo lento la strada con Meralda al suo interno.

Nel formulare quelle riflessioni Jaka ebbe l'impressione che un pesoschiacciante gli gravasse sul petto, come se tutti i limiti della suamiserabile esistenza si fossero di colpo mutati in pareti tangibili che glisi stavano chiudendo intorno sempre più. Nel corso degli ultimi annilui aveva lavorato a lungo per assumere l'atteggiamento, l'aspetto e ilcomportamento più adatti per conquistare il cuore di qualsiasi giovanedonna e adesso ecco che questo stupido nobile, questo azzimato eprofumato damerino, senza nessuna reputazione tranne quella che gliderivava dalla sua posizione sociale, si stava facendo avanti per

portargli via ciò che lui aveva coltivato con tanta cura.

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Naturalmente il giovane non stava vedendo la situazione inmaniera così nitida, a lui sembrava semplicemente che gli fosse statafatta un'enorme ingiustizia soltanto a causa della classe sociale in cuiera nato, che questi miserabili contadini di Auckney non fossero in

grado di capire la verità sul suo conto, di vedere la grandezza che c'erain lui e che era celata alla vista dalla polvere dei campi e delle fosse ditorba.

Avvilito e sgomento, si passò le mani fra i riccioli castani e si lasciòsfuggire un profondo sospiro.

***

«Farai meglio a lavarti tutta, perché non sai cosa vorrà vedere LordFeringal», scherzò Tori, nel passare un panno ruvido sulla schiena diMeralda che sedeva raggomitolata come un gatto nella vasca piena diacqua fumante.

Girandosi di scatto Meralda le schizzò l'acqua in piena faccia e Torismise di colpo di ridere nel vedere l'espressione cupa della sorella.

«So benissimo che cosa vedrà Lord Feringal», garantì intantoMeralda. «Se vuole riavere il suo vestito dovrà venire a riprenderseloin questa casa.»

«Vorresti respingerlo?»«Non intendo neppure baciarlo», ribadì Meralda, sollevando

nell'aria il pugno gocciolante, «e se dovesse essere lui a provarci, io...»

«Tu ti comporterai da signora», intervenne la voce di suo padre, enel guardare verso la tenda d'ingresso le ragazze videro Dohni fermosulla soglia. «Vattene», ordinò questi a Tori, e dal suo tono leicomprese che era il caso di obbedire senza esitazione.

Dohni Ganderlay indugiò sulla soglia per un momento ancora, inmodo da accertarsi che la troppo curiosa Tori se ne fosse andatadavvero, poi si avvicinò alla vasca e porse a Meralda un pannomorbido con cui asciugarsi. Dal momento che la loro casa era talmenteangusta da rendere inutile il pudore, Meralda non ebbe il minimo

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imbarazzo nell'uscire dalla vasca, anche se si avvolse nel panno primadi sedersi su un vicino sgabello.

«La piega presa dagli eventi non ti soddisfa», osservò infine Dohni.Meralda serrò le labbra in una linea sottile e si protese in avanti ad

agitare nervosamente con la mano l'acqua ormai fredda del bagno.«Lord Feringal non ti piace?»«Non lo conosco neppure, e lui non conosce me! Non mi conosce

affatto», esclamò Meralda.«Ma ti vuole conoscere, e tu dovresti considerarlo il massimo fra i

complimenti», insistette Dohni.

«Accettare un complimento significa cedere ai desideri di chi lorivolge?» domandò Meralda, con tagliente sarcasmo. «Non ho forsepossibilità di scelta al riguardo? Lord Feringal mi vuole, quindi devoandare?»

Nel parlare continuò a sferzare l'acqua con gesti che da nervosi sierano ora fatti pieni d'ira e così facendo mandò involontariamenteuna piccola onda a riversarsi su suo padre. Quando lui reagì conviolenza inattesa, afferrandole con forza il polso e costringendola agirarsi a guardarlo, Meralda comprese però che non era stata l'acquama il suo atteggiamento a indurlo a comportarsi così.

«No, non hai scelta», dichiarò suo padre, senza mezzi termini.«Feringal è il signore di Auckney, un uomo facoltoso che ci puòtogliere dalla miseria in cui viviamo.»

«Forse preferisco la miseria», accennò a ribattere Meralda, ma leparole successive di suo padre troncarono sul nascere qualsiasi altraprotesta.

«È l'uomo che può far guarire tua madre.»L'effetto che quelle poche parole ebbero su di lei fu più

sconvolgente di quanto avrebbe potuto esserlo l'impatto del suogrosso pugno che l'avesse colpita in pieno volto: nel fissare conincredulità suo padre, Meralda notò l'espressione disperata e quasiselvaggia dei suoi lineamenti di solito impassibili e di colpo ebbedavvero paura.

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«Non hai scelta», ripeté lui, in tono forzato e monocorde, «perchétua madre ha la tisi e probabilmente non vivrà fino alla prossimaprimavera. Andrai da Lord Feringal e ti comporterai come unasignora, riderai delle sue battute e acclamerai la sua grandezza. Lo farai

per tua madre», concluse, con una nota avvilita nella voce.Mentre stava per uscire Meralda notò un bagliore di pianto nei suoiocchi e comprese.

Sapere quanto quella situazione fosse orribile anche per suo padrel'aiutò a prepararsi per la serata e a far fronte a quello scherzo deldestino all'apparenza così crudele.

***

Il sole era ormai tramontato e il cielo si stava tingendo di un blucupo quando la carrozza passò sotto di lui diretta verso la piccola emisera casa di Meralda. Poi lei uscì sulla soglia e anche da quellanotevole distanza Jaka vide quanto apparisse bella, come una sorta digemma che si faceva beffe dell'oscurità del tramonto.

Ilsuo gioiello, la giusta ricompensa per la bellezza che era dentro dilui e non un dono acquistato per capriccio dal viziato signore diAuckney.

Jaka immaginò Lord Feringal protendere la mano fuori dallacarrozza per toccare e stringere quella di lei mentre Meralda salivaaccanto a lui sul veicolo e quell'immagine gli fece venire voglia diurlare e di inveire contro l'ingiustizia di quella situazione. Poi lacarrozza si avviò alla volta del distante castello con Meralda al suointerno, proprio come lui aveva immaginato poco prima, e Jaka sisentì derubato come se Lord Feringal gli avesse infilato una mano intasca e gli avesse sottratto fino all'ultima moneta.

Per molto tempo rimase seduto sulla collinetta coperta di polveredi torba, crogiolandosi nel suo dolore, passandosi le mani fra i capellie imprecando contro le ingiustizie della sua miserabile esistenza, così

concentrato su se stesso da essere colto del tutto alla sprovvista dalsuono della voce di una ragazzina.

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«Sapevo che eri qui in giro.»Aprendo gli occhi sognanti e umidi, Jaka vide Tori Ganderlay

intenta a fissarlo.«Lo sapevo», lo provocò la ragazzina.«Che cosa sapevi?»«Hai saputo dell'invito a cena avuto da mia sorella e sei venuto a

verificare con i tuoi occhi», spiegò Tori. «E stai ancora aspettando eosservando.»

«Tua sorella?» ripeté Jaka, in tono opaco. «Io vengo qui ogni notte.»Tori distolse lo sguardo da lui per lasciarlo vagare sulle case

sottostanti e in particolare sulla propria abitazione, le cui finestreerano rischiarate dalla luce del fuoco.«Ci vieni perché speri di vedere Meralda nuda attraverso la

finestra?» chiese quindi, con una risatina.«Vengo quassù da solo, al buio, per allontanarmi dai fuochi e dalla

luce», ribatté in tono deciso Jaka, «per allontanarmi da personefastidiose che non sono in grado di capire».

«Di capire cosa?»«La verità», dichiarò il giovane, ermetico, augurandosi di fare

adeguatamente impressione.«La verità su cosa?»«La verità della vita», precisò Jaka.Tori lo fissò a lungo con espressione concentrata, come se stesse

cercando di decifrare le sue parole, poi riportò lo sguardo sulla propriacasa.«Bah, io credo che tu voglia soltanto vedere Meralda nuda», ribadì,

e si allontanò lungo il sentiero saltellando allegramente.Guardandola allontanarsi, Jaka pensò che più tardi la ragazzina si

sarebbe divertita con Meralda a sue spese, poi emise un altroprofondo sospiro e si allontanò diretto verso i campi ancora più buiche si allargavano più in alto sul pendio montano.

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«Maledetta questa vita!» gridò, levando le braccia verso la lunanascente. «Maledetta, maledetta, e che volino via da me questespoglie mortali! Qual fato crudele vivere e vedere immeritevoli esserisottrarre spoglie a me dovute. Quando la giustizia giace trafitta,

quando il valore si misura in ereditarietà... oh, Lord Feringal sialimenta del dolce collo di Meralda. Maledetta questa vita, e che volivia da me!»

Jaka concluse quei versi improvvisati crollando in ginocchio eaffondando fra le mani il volto lacrimoso, posizione che mantenne alungo, crogiolandosi nella propria sofferenza.

Poi l'ira sostituì l'autocommiserazione e lui si rialzò recitando una

nuova strofa con cui completare i suoi versi.«Quando la giustizia giace trafitta, quando il valore si misura inereditarietà», scandì con voce tremante di rabbia, poi un sorriso siallargò sui suoi lineamenti avvenenti mentre proseguiva: «Il miserabileFeringal si nutre del dolce collo di Meralda, ma non avrà la suaverginità!». Alzatosi in piedi con mosse incerte, tornò a sollevare ilvolto verso la luna piena e aggiunse con un ringhio: «Lo giuro.Maledetta questa vita», borbottò di nuovo in tono drammatico,avviandosi verso casa.

***

Meralda affrontò la serata con stoicismo, rispondendo con cortesiaalle domande e badando a evitare di incrociare lo sguardo della

palesemente contrariata Lady Priscilla Auck. Quanto al SiniscalcoTemigast, scoprì che le era molto simpatico, soprattutto perché siaddossò il compito di tenere viva la conversazione raccontando storiedivertenti relative al proprio passato e al precedente signore delcastello, il padre di Feringal; la gentilezza di Temigast arrivò al puntodi organizzare con Meralda un sistema di segnali che l'aiutassero acapire quale pezzo di argenteria usare con ognuna delle diverseportate.

Anche se il giovane signore di Auckney, che le sedeva di fronte enon cessava di fissarla, non le fece un'impressione particolarmente

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favorevole, Meralda non poté negare la propria meraviglia di fronteal delizioso banchetto che le venne servito e dentro di sé si chiese se alCastello di Auck mangiassero in quel modo ogni giorno, a base dicrostacei e di pesce, di patate e di verdure pregiate che lei non aveva

mai assaggiato in tutta la sua vita.Per insistenza di Lord Feringal, dopo cena il gruppetto passò nelsalotto, una comoda camera quadrata priva di finestre situata alcentro del piano terreno del castello, dove le spesse pareti tenevanolontano il gelido vento dell'oceano e un massiccio camino contenenteun fuoco grande quanto un falò di villaggio aumentava l'atmosferacalda e accogliente.

«Gradisci forse mangiare ancora?» suggerì Priscilla, con un tono cheperò non aveva nulla di generoso. «Se vuoi posso chiedere a una servadi portarti qualcosa.»

«Oh, no, mia signora», rispose Meralda. «Non potrei inghiottire unaltro boccone.»

«Non ne dubito, ma del resto hai approfittato ampiamente dellacena vera e propria, giusto?» ribatté Priscilla, con un sorriso fasullodipinto sul brutto volto. Nel guardarla, Meralda pensò che LordFeringal era quasi affascinante se paragonato alla sorella. Quasi.

In quel momento un servitore entrò nella stanza portando unvassoio su cui erano posati alcuni bicchieri pieni di un liquido scuro chelei non conosceva. Timorosa di opporre un rifiuto, Meralda accettò ilbicchiere che le veniva offerto e in risposta al brindisi di Temigast se loportò alle labbra, bevendo un lungo sorso. L'istante successivo perpoco non soffocò in reazione alla sensazione bruciante che il liquido lescatenò nella gola.

«Qui non beviamo il brandy come se fosse acqua», commentò intono asciutto Priscilla. «È il modo di fare dei contadini.»

Umiliata, Meralda desiderò di poter strisciare sotto il tappeto, el'espressione piena di critica con cui Lord Feringal la stava guardandonon le fu certo di aiuto.

«È piuttosto tipico di chi non ha familiarità con i liquori forti»,intervenne Temigast, venendo in suo aiuto. «Ci vogliono piccoli sorsi,

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mia cara. Imparerai, anche se è possibile che anche tu, come me, nonimparerai mai ad apprezzare il sapore unico di questo liquore.»

Sorridendo, Meralda rivolse un tacito cenno di ringraziamento aquel vecchio che ancora una volta era intervenuto ad attenuare latensione. Sentendosi un po' stordita a causa del liquore, si appartòquindi dalla conversazione senza più badare ai commenti taglienti diPriscilla e alle occhiate insistenti di suo fratello, mentre la sua menteprendeva a vagare e lei si ritrovava accanto a Jaka Sculi, magari su uncampo rischiarato dalla luna o addirittura in quella stessa stanza.Quanto sarebbe stato meraviglioso quel posto con lo spesso tappeto,il grande fuoco che ardeva nel camino e quella bevanda inebriante selei avesse avuto accanto a sé il suo caro Jaka e non quei dannati fratelliAuck.

Poi la voce di Temigast trapassò la nebbia che l'avviluppava nelricordare a Lord Feringal che avevano promesso di riportare a casa lagiovane signora entro una certa ora che si stava rapidamenteavvicinando.

«Allora concedeteci qualche minuto da soli», replicò Feringal.Meralda si sforzò di non cedere al panico.«Non mi sembra una richiesta conveniente», interloquì Priscilla, poi

guardò verso Meralda e sogghignando aggiunse: «Ma del resto chemale ne può venire?».

Priscilla lasciò quindi la stanza e nel seguirla il vecchio Temigastindugiò a battere un confortante colpetto sulla spalla di Meraldaprima di uscire.

«Confido, mio signore, che ti comporterai da gentiluomo, comerichiede la tua posizione», disse poi a Feringal, indugiando sulla soglia.«In tutto il mondo ci sono poche donne belle come Miss Meralda.Farò preparare la carrozza alla porta», concluse, sorridendo allagiovane donna.

Nel guardare il battente richiudersi Meralda rifletté che il vecchiosiniscalco era suo alleato, cosa di cui non poté che sentirsi grata.

«È stata una cena splendida, vero?» chiese intanto Lord Feringal,spostandosi in modo da sedersi accanto a lei.

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«Oh, sì, mio signore», rispose Meralda, abbassando lo sguardo.«No, no», la corresse lui. «Mi devi chiamare Lord Feringal, non "mio

signore".»«Sì, mio... Lord Feringal», assentì Meralda.Per quanto si stesse sforzando di tenere lo sguardo distolto da lui,

Feringal le era troppo vicino ed era troppo imponente, e quandoinfine si decise a guardarlo dovette rendergli atto del fatto che lui sisforzò di distogliere l'attenzione dal suo seno per guardarla negli occhi.

«Ti ho vista sulla strada e ho dovuto conoscerti», spiegò intanto ilgiovane nobile. «Dovevo rivederti perché non c'è mai stata una donnaaltrettanto bella.»

«Oh, mio... Lord Feringal», mormorò Meralda, tornando adistogliere lo sguardo perché lui si era avvicinato ancora e adesso erafin troppo vicino, almeno secondo il suo modo di vedere.

«Dovevo rivederti», ripeté Feringal, con voce che era poco più di unsussurro, ormai così vicino che Meralda lo sentì distintamente e avvertìsull'orecchio il suo alito caldo.

Poi la giovane donna dovette costringersi a controllare il propriopanico quando la mano di lui le sfiorò dolcemente una guancia e le siarrestò intorno al mento, costringendola con gentilezza a girare ilvolto. Feringal la baciò, dapprima con tenerezza e poi con fogacrescente nonostante il fatto che lei non lo stava ricambiando,arrivando addirittura ad alzarsi dalla sedia per gravare su di lei. Mentrequel bacio si protraeva Meralda pensò a Jaka e a sua madre e tollerò lasituazione, perfino quando la mano di Feringal si appoggiò sulla sottile

stoffa che le copriva il seno.«Chiedo scusa, Lord Feringal», disse dalla porta la voce di Temigast.Arrossendo, il giovane nobile si trasse indietro e si girò verso il

siniscalco.«La carrozza aspetta», continuò Temigast. «È ora che Miss Meralda

torni a casa.»Meralda uscì dalla stanza quasi correndo.«Ti inviterò qui ancora, e presto, puoi esserne certa», le gridò dietro

Feringal.

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Nel tempo che la carrozza impiegò ad attraversare il ponte cheuniva il Castello di Auck alla terraferma Meralda riuscì in certa misuraa calmare il battito martellante del proprio cuore. Era consapevole diquale fosse il proprio dovere nei confronti della sua famiglia e in

particolare di sua madre, malata com'era, ma aveva la sensazione diessere prossima a svenire o a vomitare. Senza dubbio quell'arpia diPriscilla si sarebbe divertita enormemente se avesse scoperto che lacontadina aveva vomitato sulla sua carrozza dorata.

Un chilometro e mezzo più tardi, dal momento che continuava asentirsi male e che non vedeva l'ora di liberarsi di tutta quella messa inscena, Meralda si sporse dal finestrino della carrozza.

«Fermo! Per favore, fermati!» gridò al conducente.La carrozza si arrestò lentamente, ma prima ancora che si fossefermata del tutto lei spalancò la portiera e saltò a terra.

«Mia signora, ti devo accompagnare a casa», protestò Liam Woodgate, scendendo da cassetta accanto a lei.

«E lo hai fatto», ribatté Meralda. «Siamo abbastanza vicini.»«Ma hai da percorrere un lungo viottolo buio», protestò lo gnomo.

«Il Siniscalco Temigast mi strapperà il cuore se...»«Non lo saprà mai», promise Meralda. «Non temere per me.

Percorro questo viottolo ogni notte e conosco ogni cespuglio, ogniroccia e ogni persona di ogni casa fra qui e la mia abitazione».

«Ma...» tentò ancora di obiettare lo gnomo.Meralda però lo oltrepassò con un sorriso pieno di sicurezza e si

allontanò rapida nel buio.La carrozza la seguì per un breve tratto ma poi Liam parve infine

convincersi che lei conosceva la zona quanto bastava per non corrererischi e si decise a girare il veicolo e a tornare al castello.

La notte era fresca ma non fredda e d'impulso Meralda si allontanòdalla strada per addentrarsi fra i campi bui che si estendevano sulpendio montano nella speranza di trovare Jaka là ad attenderla comeavevano convenuto. Il posto prestabilito però era vuoto e nel sostaresola nel buio Meralda ebbe l'impressione di essere l'unica personaesistente al mondo. Ansiosa di dimenticare quella notte, di scordarsi di

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Lord Feringal e della sua insopportabile sorella, sentì il bisogno diliberarsi dell'elegante abito che aveva indosso e se lo sfilò. Quella seraaveva cenato con i nobili e a parte il cibo e forse quel liquore chegenerava calore non era rimasta favorevolmente impressionata.

Con indosso soltanto la sua semplice sottoveste, cominciò adaggirarsi sui campi rischiarati dalla luna dapprima a passo lento ma poiprendendo a saltellare e addirittura a danzare a mano a mano che ilpensiero di Jaka Sculi veniva a cancellare l'immagine fin troppo nuovadi Lord Feringal. Spiccando un balzo cercò di afferrare una stellacadente, ruotò su se stessa per seguirne la traiettoria e finì per cadereseduta sull'erba, ridendo e pensando a Jaka.

Quello che non sapeva era di trovarsi quasi nello stesso identicopunto in cui aveva sostato in precedenza Jaka, il punto in cui lui avevagridato le proprie proteste a un dio indifferente, aveva imprecatocontro l'ingiustizia della sorte e implorato la vita di abbandonarlo,dove aveva giurato di rubare la verginità di Meralda soltanto per ilgusto di impedire che Lord Feringal potesse averla per sé.

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CAPITOLO VALLE STRETTE

«Dove hai messo quel dannato arnese?» domandò in tono pieno difrustrazione Arumn Gardpeck a Josi Puddles il pomeriggio successivo.«So che sei stato tu a prenderlo, quindi non mi mentire.»

«Sii lieto che lo abbia fatto», ribatté Josi, per nulla pentito, agitandoun dito davanti alla faccia di Arumn. «Con quel martello da guerra inmano Wulfgar avrebbe ridotto questo posto a un mucchio di legna da

ardere».«Sei un idiota, Josi Puddles», dichiarò Arumn. «Se ne sarebbe andato

senza protestare.»«Questo lo dici tu» insistette Josi. «Parli sempre così quando si tratta

di lui, prendi sempre le sue parti anche se ha causato soltanto problemia te e a quelli che ti sono fedeli. Cos'ha mai fatto di buono per te quel

Wulfgar, Arumn Gardpeck? Che cosa?»

Arumn socchiuse gli occhi minaccioso, fissando con durezza il suointerlocutore.«E tutte le risse che ha interrotto erano sempre state scatenate da

lui», aggiunse Josi. «Bah, adesso se n'è andato ed è meglio per lui emolto meglio per noi.»

«Dove hai messo il martello da guerra?» domandò di nuovo Arumn.Josi si girò di scatto levando le mani al cielo in un gesto esasperato,

ma Arumn era deciso a non permettergli di cavarsela così facilmente efu pronto ad afferrarlo per una spalla e a farlo voltare di nuovo versodi sé con un violento strattone.

«Te l'ho già chiesto due volte», scandì in tono cupo. «Noncostringermi a farlo la terza.»

«È andato», replicò Josi. «Andato abbastanza lontano da impedireche Wulfgar lo possa richiamare a sé.»

«Andato?» ripeté Arumn, poi il suo volto si dipinse a poco a poco diun'espressione astuta perché lui conosceva troppo bene Josi per

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pensare che si fosse limitato a gettare nell'oceano un'arma cosìsplendida. «E quanto ti è fruttato?»

Josi farfugliò una protesta, agitò le mani e balbettò ancora, il cheservì soltanto a confermare il sospetto di Arumn.

«Vallo a riprendere, Josi Puddles», ingiunse il taverniere.«Non posso...» cominciò a protestare Josi, sgranando gli occhi, ma

Arumn lo afferrò per una spalla e per il fondo dei pantaloni e lo spinseverso la porta.

«Vallo a riprendere», ripeté con un tono severo che non lasciavaspazio a obiezioni, «e non tornare più da me senza quel martello inmano».

«Ma non posso farlo», gemette Josi. «Non con quella gente.»«Allora qui non sei più il benvenuto», dichiarò Arumn, spingendo

con forza Josi oltre la porta e in mezzo alla strada. «Non farti piùvedere, Josi Puddles, a meno di avere in mano quel martello!»aggiunse, poi richiuse con violenza la porta lasciando lo sconvolto Josisolo in mezzo alla strada.

D'istinto l'ometto ossuto prese a guardarsi nervosamente intornocome se si stesse aspettando di vedere qualche furfante usciredall'ombra per derubarlo, e del resto i suoi timori non erano del tuttoinfondati perché la Scimitarra di Arumn era il suo luogo diappartenenza nell'ambiente delle strade e in un certo senso era la suafonte di protezione, e il fatto che nessuno gli causasse problemidipendeva non solo dal suo essere decisamente una nullità, ma anchee soprattutto dalla consapevolezza generale che chi gli avesse creato

problemi si sarebbe trovato chiuso fuori dal locale, che era il ritrovofavorito di tutti.Sulle strade Josi si era creato non pochi nemici, e una volta che si

fosse venuto a sapere che aveva rotto con Arumn...Doveva rientrare nelle grazie di Arumn, ma quando si soffermò a

pensare a ciò che avrebbe dovuto fare per riuscirci sentì le ginocchiacedergli, perché aveva venduto Aegis-fang a una pericolosa piratessa

in una bettola malfamata che in genere evitava di frequentare. Mentrerifletteva sul da farsi, Josi continuò a guardarsi intorno pieno ditensione, scrutando la Strada della Mezzaluna e i vicoli che lo

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avrebbero portato a quella segreta e privata bettola vicino ai moli.Sapeva che a quell'ora Sheila Kree non ci sarebbe ancora stata e cheavrebbe invece potuto trovarla sulla sua nave, laDama Balzante, nome che faceva riferimento all'immagine di Sheila Kree che balzava

dal ponte della sua nave su quella di qualche sfortunato veliero, con lasciabola insanguinata in mano. Il pensiero di incontrarsi con lei sulponte della sua nave, su cui si diceva che quella donna avesse torturatoa morte decine di innocenti, gli strappò un brivido e alla fine lui deciseche avrebbe atteso e l'avrebbe incontrata nella bettola, che era unluogo un po' più pubblico.

Frugandosi in tasca constatò di avere ancora tutto l'oro che Sheilagli aveva pagato in cambio di Aegis-fang, a cui poteva aggiungerequalche altra moneta.

Dubitava che quella cifra potesse essere sufficiente, ma dovevatentare, visto che era in gioco l'amicizia di Arumn.

***

«È meraviglioso essere qui con te», disse Delly Curtie, facendoscorrere le dita sulla massiccia spalla nuda di Wulfgar, che sussultò didolore perché quella spalla, come ogni altra parte del suo corpo, nonera uscita indenne dalla rissa alla Scimitarra.

Borbottando qualcosa d'incomprensibile, Wulfgar si alzò dal letto,persistendo a ignorare il tocco delle mani di Delly che continuavanoad accarezzarlo.

«Sei certo di volertene già andare?» domandò infine la donna,seducente.«Sì, sono sicuro», borbottò lui, vestendosi e avviandosi alla porta.Delly accennò a richiamarlo ma poi si trattenne dal supplicare

ancora, così come si trattenne dal protestare, perché sapeva chesarebbe stato tutto inutile e che nessuna parola aspra avrebbe potutonascondere il suo dolore, non questa volta.

La notte precedente lei era andata da Wulfgar non appena Arumnaveva chiuso la locanda, e cioè non molto dopo la fine della rissa che

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aveva sconvolto il locale, certa di sapere dove trovarlo perché era aconoscenza del fatto che Morik aveva una stanza in affitto pocolontano.

Quanto si era sentita eccitata quando Wulfgar le aveva permesso dientrare nonostante le proteste di Morik! Di nuovo si era concessa diabbassare la guardia e aveva trascorso la notte fra le braccia di

Wulfgar, fantasticando di poter sfuggire alla sua miserabile esistenzagrazie a quell'uomo eroico: insieme avrebbero forse potuto fuggire daLuskan e tornare nella selvaggia Valle del Vento Ghiacciato dove leiavrebbe potuto essere sua moglie a pieno titolo e dargli dei figli.

Naturalmente la mattina - o per meglio dire il primo pomeriggio -

le aveva mostrato quanto fossero infondate quelle fantasie portandocon sé il consueto rifiuto borbottato, e adesso nel giacere sul letto lei sisentì d'un tratto svuotata, sola, impotente e senza speranze. Anche seultimamente le cose fra lei e Wulfgar avevano cominciato a nonfunzionare più, il semplice fatto che lui fosse sempre nelle vicinanze leaveva permesso di continuare ad aggrapparsi ai suoi sogni, ma seadesso Wulfgar se ne fosse andato lei avrebbe perso ogni possibilità disfuggire all'esistenza che conduceva.

«Ti aspettavi qualcosa di diverso?» domandò Morik, dandol'impressione di averle letto nella mente.

Delly si limitò a lanciargli un'occhiata acida quanto triste.«Ormai dovresti sapere cosa aspettarti da lui», continuò Morik,

venendosi a sedere sul letto.D'istinto, Delly accennò a coprirsi, ma poi ricordò che quello era

soltanto Morik e che sapeva benissimo come lei fosse fatta.«Non ti darà mai quello che desideri», aggiunse Morik. «Ci sono

troppi fardelli che gli opprimono la mente, troppi ricordi dolorosi. Sesi aprisse a te come tu speri che faccia probabilmente finirebbe perucciderti per errore.»

Delly lo guardò come se non riuscisse a capire e lui si limitò asorridere, per nulla sorpreso.

«Non ti darà mai quello che desideri», ripeté quindi.

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«Allora sarà Morik a darmelo?» domandò Delly, con palesesarcasmo.

Il furfante scoppiò a ridere all'idea.«Non direi proprio», ribatté, «ma almeno io lo ammetto

apertamente. Tranne quando do la mia parola, io non sono un uomoonesto e non voglio una donna onesta. La mia vita mi appartiene enon desidero il peso di una moglie e dei figli».

«Sembra una vita solitaria.»«È una vita libera», la corresse Morik, ridendo ancora. «Ah, Delly»,

aggiunse, protendendosi a passarle una mano fra i capelli. «Se ticrogiolassi nelle gioie del presente senza temere per quelle future,scopriresti che la vita può essere molto piacevole.»

Delly Curtie si appoggiò alla testata del letto, riflettendo su quelleparole senza riuscire a trovare qualcosa di valido da obiettare.

Interpretando quel silenzio come un invito, Morik s'insinuò nelletto accanto a lei.

***

«In cambio delle monete che mi offri ti posso dare questa parte, miopiccolo amico», dichiarò la pericolosa Sheila Kree, battendosi di piattosulla mano la testa di Aegis-fang, poi esplose di colpo in unmovimento rapido e violento che fece descrivere al martello da guerraun arco sopra la sua testa e lo mandò ad abbattersi sul centro del

tavolo che la separava da Josi Puddles.All'improvviso Josi si rese conto con notevole allarme che adessofra lui e la piratessa c'era soltanto aria vuota perché il tavolo giaceva alsuolo ridotto in schegge.

Con un perfido sorriso Sheila Kree tornò a sollevare Aegis-fang eJosi si lanciò di corsa verso la porta e al di là di essa, uscendonell'umida aria notturna, appena prima che alle sue spalle il martelloda guerra entrasse in violenta collisione con lo stipite fra le risatedivertite dei molti tagliagole che frequentavano il locale.

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Josi continuò la fuga senza guardarsi indietro e quando infine siarrestò si rese conto di essere appoggiato al muro della Scimitarra, cosache lo indusse a chiedersi come avrebbe mai fatto a spiegare lasituazione ad Arumn.

Era ancora appoggiato là con il respiro affannoso, impegnato acercare di riprendere fiato, quando vide Delly arrivare a passo velocelungo la strada con lo scialle stretto intorno alle spalle. Di solito noncapitava mai che lei tornasse alla Scimitarra così tardi, quando il localeera già pieno di clienti, a meno che fosse andata a fare qualchecommissione per conto di Arumn. Le mani della ragazza però eranovuote, quindi Josi non ebbe difficoltà a immaginare dove fosse stata oalmeno chi fosse andata a trovare.

Quando lei fu più vicina, la sentì singhiozzare e questo gli confermòche la ragazza era andata a trovare Wulfgar e che lui l'aveva ferita dinuovo e ancor più dolorosamente nei sentimenti.

«Stai bene?» chiese, avanzando verso la ragazza, che si ritrasse conun sussulto di sorpresa perché non si era accorta della sua presenza.«Cosa ti addolora?» insistette Josi in tono sommesso, facendosi piùvicino e protendendosi a batterle un colpetto sulla spalla, dicendosiche avrebbe forse potuto sfruttare questo momento di dolore e divulnerabilità di Delly a proprio vantaggio per riuscire finalmente adavere nel proprio letto quella donna su cui stava fantasticando daanni.

Nonostante i singhiozzi e l'espressione avvilita, Delly si ritrasse e lofulminò con lo sguardo.

«Ti ha fatto del male, Delly», osservò Josi, in tono sommesso econfortante. «Ti ha ferita, ma io ti posso aiutare a sentirti meglio.»

Delly accolse la sua offerta con una risata sprezzante.«Sei stato tu a organizzare tutto questo, vero, Josi Puddles?» lo

accusò. «Devi essere proprio contento adesso che sei riuscito ascacciare Wulfgar.»

E prima che Josi avesse il tempo di ribattere lo oltrepassò escomparve all'interno della Scimitarra, dove lui non poteva seguirla.Rimasto solo nella strada vuota immersa nel buio della notte, senza un

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posto dove andare o un amico degno di quel nome, Josi attribuì a Wulfgar la colpa di quanto gli stava succedendo.

Josi Puddles trascorse quella notte girovagando per i vicoli e per lebettole della parte più malfamata di Luskan, senza rivolgere la parola anessuno ma ascoltando con estrema attenzione perché in quelle zonepericolose era sempre meglio stare all'erta. E con sua sorpresa finì cosìper sentire qualcosa di molto interessante, una storia che riguardavaMorik il Furfante e il suo grosso amico barbaro, e un sostanziosocontratto per l'eliminazione del capitano di una certa nave.

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CAPITOLO VIALTRUISMO

«Lord Dohni, mi inchinerò al tuo cospetto fino a sporcarmi la facciadi fango», commentò in tono scherzoso un vecchio bracciante ilmattino successivo, quando Dohni Ganderlay e gli altri uomini egnomi si ritrovarono a lavorare nel campo, e tutti coloro che si eranoraccolti intorno a Dohni scoppiarono in una risata sarcastica.

«Adesso dovremo pagare direttamente a te le decime?» chiese un

altro uomo. «Un po' di questo e di quello, un po' di mangime per ilmaiale e il maiale stesso?»«Soltanto la metà posteriore», ribatté il primo che aveva parlato.

«Quella anteriore la puoi anche tenere».«Tieni la parte che mangia il grano, ma non quella grassa che lo

trasforma in carne», commentò uno gnomo dal naso appuntito. «Unvero ragionamento da nobile!»

E tutti scoppiarono di nuovo a ridere. Dal canto suo DohniGanderlay si sforzò in ogni modo di unirsi all'ilarità generale perché necomprendeva la motivazione, sapeva che quei contadini avevano benpoche possibilità di innalzarsi dalla loro condizione sociale e cheadesso nel vedere che apparentemente e inaspettatamente la sortedella famiglia Ganderlay era mutata in meglio tutti si sentivanorincuorati all'idea che uno di loro potesse salire quell'impossibile scalasociale. Ma per quanto ci provasse, il riso gli morì sulle labbra.

Di per sé lui avrebbe potuto accettare senza problemi quegli scherzie unirsi spensieratamente alle risate generali, aggiungendo perfino asua volta qualche battuta a proprie spese, se non fosse stato per unsolo, sgradevole fatto che lo aveva tormentato per tutta quella notteinsonne e per tutta la mattina seguente: Meralda non aveva volutoandare a quella cena. Se la ragazza avesse espresso qualche sentimentopositivo nei confronti di Lord Feringal, Dohni sarebbe stato l'uomo più

felice di tutto il settentrione, ma poiché sapeva come stavano in effettile cose non riusciva a soffocare il proprio senso di colpa ed era per

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«Come sua sorella, Lady Priscilla, non è riuscita a smettere diinfangarmi», replicò Meralda, usando il termine tipico dei contadiniper indicare gli insulti.

«È una grassa mucca e la tua bellezza è servita soltanto a ricordarlequanto è brutta», dichiarò Tori, in tono secco.

Per un momento le due ragazze condivisero una risata a spese diPriscilla, poi però Meralda tornò ad accigliarsi in volto.

«Come fai a non sorridere?» domandò Tori. «Lui è il signore diAuckney e ti può dare tutto quello che chiunque potrebbe mai volere.»

«Davvero?» ribatté in tono sarcastico Meralda. «Mi può dare la mialibertà? Può darmi il mio Jaka?»

«Può darti un bacio?» suggerì con aria da monella Tori.«Non sono riuscita a impedirgli di baciarmi, ma ti garantisco che

non gli concederò altre occasioni per farlo», dichiarò Meralda.«Intendo dare il mio cuore a Jaka e non a un profumato nobilotto!»

La sua dichiarazione però perse vigore e la voce le si ridusse a unsussurro quando la tenda venne tratta di lato e Dohni Ganderlay feceirruzione nella stanza con aria furente.

«Lasciaci soli», ingiunse a Tori, e quando lei esitò, guardando conaria preoccupata verso la sorella, ruggì con voce ancor più alterata:«Vattene, piccola impicciona!».

Tori si affrettò a raggiungere la soglia e una volta che l'ebbeoltrepassata si girò a guardare verso suo padre, la cui furia evidente laindusse a proseguire la ritirata e a uscire di casa.

Dohni Ganderlay concentrò allora il proprio sguardo iroso suMeralda, che non seppe come interpretarlo perché quella eraun'espressione che non era abituata a vedere sui lineamenti di suopadre.

«Pa...» cominciò, in tono esitante.«Gli hai permesso di baciarti?» la interruppe Dohni Ganderlay, con

voce tremante. «E lui voleva di più?»

«Non sono riuscita a fermarlo», garantì Meralda. «È stato troppoveloce.»

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«Ma volevi fermarlo.»«È ovvio!»Quelle parole le erano appena uscite di bocca che la grossa mano

callosa di suo padre le calò con forza sul volto.«E vorresti invece dare il tuo cuore e le tue grazie femminili a quel

contadinotto?» ruggì Dohni.«Ma, pa...»Un altro schiaffo fece cadere Meralda dal letto e la mandò ad

atterrare sul pavimento. Cedendo infine alla frustrazione che gliribolliva dentro, Dohni Ganderlay piombò su di lei e prese a

tempestarle di colpi la testa e le spalle con le sue grosse mani,continuando al tempo stesso a gridare che lei si stava «prostituendo»senza nessuna considerazione per sua madre, per le persone che ledavano di che nutrirsi e vestirsi.

Meralda cercò di protestare, di spiegare che amava Jaka e non LordFeringal e che non aveva fatto nulla di male, ma suo padre non era incondizione di sentire nulla e continuò a percuoterla e a imprecarlecontro, un colpo dopo l'altro, fino a quando lei giacque prona sulpavimento con le braccia incrociate sulla testa nel vano tentativo diproteggersi.

Poi le percosse cessarono improvvise com'erano iniziate e dopo unmomento Meralda si azzardò a sollevare il volto ammaccato,girandosi lentamente a guardare verso suo padre, che sedeva sul lettocon la testa fra le mani, piangendo apertamente, una cosa che non gliaveva mai visto fare prima. Sollevatasi sulle ginocchia, Meralda gli si

avvicinò lentamente, con calma, sussurrandogli che era tutto a posto,ma di colpo l'ira tornò a sostituire le lacrime e lui l'afferrò per i capelli,issandola in piedi.

«Adesso ascoltami, ragazza», ingiunse a denti stretti, «e ascoltamibene. Non spetta a te scegliere. Darai a Lord Feringal tutto quello chevuole e anche di più, e lo farai con un sorriso felice sul volto. Tuamadre è prossima a morire, stolta ragazza, Lord Feringal è il solo chepossa salvarla, e io non intendo vederla morire a causa del tuoegoismo», concluse, assestandole una rude spinta e lasciandola andare.

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Meralda lo fissò come se fosse stato uno sconosciuto e per ilfrustrato Dohni Ganderlay quella fu forse la cosa più dolorosa di tutte.

«Piuttosto», aggiunse comunque, con calma, «vedrò prima JakaSculi morto, con il corpo infranto sulle rocce dove i gabbiani se nepossano cibare».

«Pà...» protestò Meralda, con voce ridotta a un sussurro tremante equasi inudibile.

«Sta' lontana da lui», ingiunse Dohni Ganderlay. «Andrai da LordFeringal, e non voglio sentire una sola parola di protesta al riguardo.»

Meralda non accennò a muoversi, neppure per asciugare le lacrimeche avevano preso a scorrerle copiose dai grandi occhi verdi.

«Adesso ripulisciti», aggiunse suo padre. «Tua madre tornerà prestoa casa e non ti deve vedere in questo stato. Le sue speranze e i suoisogni sono tutti concentrati su di te, ragazza, e se glieli toglierai lacondannerai alla tomba.»

Ma a quelle parole Dohni si alzò dal letto e si diresse verso Meraldacome se avesse avuto intenzione di abbracciarla, ma quando protese lemani verso di lei la vide irrigidirsi come non aveva mai fatto prima e siritrasse, oltrepassandola con le spalle accasciate da un senso di assolutasconfitta.

Lasciando Meralda sola in casa, Dohni si diresse con passo decisoverso il pendio nordoccidentale della montagna, un terreno rocciosoche nessuno coltivava, dove avrebbe potuto rimanere solo con i suoipensieri. E con i suoi orrori.

«Cosa intendi fare?» chiese Tori, che si era precipitata in casa nonappena suo padre era scomparso alla vista, e quando Meralda non lerispose, impegnata a ripulirsi l'angolo del labbro dalle ultime tracce disangue, suggerì: «Dovresti fuggire con Jaka».

Nel parlare s'illuminò in volto perché le pareva di aver appenatrovato la soluzione perfetta per tutti i problemi del mondo, maMeralda si limitò a guardarla con espressione dubbiosa.

«Oh, sarebbe l'apice della vostra storia d'amore», continuò la

ragazzina, raggiante. «Fuggire da Lord Feringal. Non posso credere chenostro padre ti abbia picchiata.»

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Meralda indugiò a guardare nello specchio i lividi che le segnavanoil volto, concreto ricordo di quella spaventosa esplosione di rabbia. Alcontrario di Tori, lei non stentava a credere a quello che era successo,perché non essendo più una bambina aveva visto l'agonia dipinta sul

volto di suo padre mentre la colpiva e sapeva che lui aveva paura, unapaura terribile, per sua madre e per tutti loro.Nel formulare quelle riflessioni, Meralda giunse a rendersi conto di

quale fosse il suo dovere e si rese conto che quel dovere nei confrontidella sua famiglia aveva la precedenza su ogni altra cosa, non a causadelle minacce subite ma in virtù dell'affetto che nutriva per sua madre,suo padre e la sua sfacciata sorellina. Soltanto adesso, nel contemplareallo specchio il proprio volto segnato dai lividi, Meralda Ganderlaycomprese la responsabilità che si era abbattuta sulle sue fragili spalle,l'opportunità che era stata concessa alla loro famiglia.

E tuttavia, nel ripensare alle labbra di Lord Feringal sulle sue e allamano di lui sul suo seno non poté trattenersi dal rabbrividire.

***

Dohni Ganderlay non era quasi consapevole che il sole stavatramontando in lontananza sul mare, così come non avvertiva lezanzare che lo avevano trovato seduto là immobile e che stavanobanchettando a spese della pelle delle sue braccia e del suo collo. Delresto quel disagio fisico aveva poca importanza. Come aveva potutocolpire la sua amata figlia? Da dove era scaturita tutta quell'ira? Comeaveva potuto infuriarsi con lei che non aveva fatto nulla di male, chenon gli aveva disobbedito?

Dohni continuò a rivivere nella mente quegli spaventosi momenti,una volta dopo l'altra, rivedendo Meralda, la sua splendida,meravigliosa Meralda, che si accasciava al suolo per nascondersi da luie per proteggersi dai suoi colpi. Dentro di sé, Dohni Ganderlay eraconsapevole di non essere infuriato con lei, che la sua frustrazione e lasua ira erano dirette contro Lord Feringal, derivavano dalla misera

posizione che gli era stata riservata nel mondo, posizione che relegavalui e la sua famiglia al rango di contadini, che aveva permesso che sua

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moglie si ammalasse e che ne avrebbe permesso la morte, salvol'eventuale intervento di Lord Feringal.

Dohni Ganderlay sapeva tutto questo a livello razionale, ma il suocuore era consapevole soltanto del fatto che per le proprie egoistichemotivazioni lui stava gettando la sua figlia adorata tra le braccia e nelletto di un uomo che lei non amava. In quel momento DohniGanderlay seppe di essere un vigliacco, soprattutto perché nonriusciva a trovare il coraggio di scagliarsi giù da quello speronemontano per infrangersi sugli aguzzi scogli sottostanti.

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PARTE SECONDALUNGO UNA STRADA OSCURA

Ho vissuto in molte società, da Menzoberranzan dei drow a Blingdenstone degli gnomi sotterranei, dalle Ten Towns governate come la maggior parte dei comuni insediamenti umani alle tribù barbariche con le loro strane usanze e a Mithral Hall dei nani del Clan Battlehammer. Ho vissuto a bordo di una nave, dove esiste una società di un tipo del tutto diverso, e in tutti questi luoghi ho trovato

usi e costumi differenti, diverse strutture di governo, forze sociali,religioni e associazioni.

Qual è il sistema migliore? Vi capiterà di sentire molte teorie al riguardo, basate per lo più sulla prosperità, sul diritto divino o sul semplice destino. Per i drow si tratta semplicemente di una questione religiosa, in quanto essi strutturano la loro società secondo i desideri della caotica Regina Aracnide e combattono di continuo per modificare aspetti particolari di quella struttura ma non la struttura in se stessa. Per gli gnomi sotterranei si tratta di rendere il dovuto rispetto e omaggio agli anziani della loro razza, accettando la saggezza di chi ha vissuto più a lungo degli altri. Presso gli insediamenti delle Ten Towns il potere deriva dalla popolarità, mentre i barbari scelgono i loro condottieri soltanto sulla base della forza fisica. Quanto ai nani, il comando viene tramandato ereditariamente. Bruenor è diventato re perché suo padre era re e il padre di suo padre prima di lui, e così via.

Io valuto la superiorità di qualsiasi società in una maniera diversa,basata interamente sulla libertà individuale. Fra tutti i posti in cui ho vissuto, quello che preferisco è Mithral Hall, ma sono consapevole che questo dipende dalla saggezza dimostrata da Bruenor nel lasciare alla sua gente la sua libertà e non dalla struttura politica propria dei nani.Bruenor non è un re attivo, funge da portavoce per il clan nelle questioni politiche, è il comandante nelle situazioni di guerra e fa da mediatore nelle dispute fra i suoi sudditi, ma soltanto quando viene

richiesto il suo intervento. Per il resto Bruenor conserva tutta la sua

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indipendenza e concede la stessa gioia a tutti i membri del Clan Battlehammer.

Ho sentito parlare di molte regine e re, di madri, matrone e di chierici, che giustificano la loro autorità e si autoassolvono da ogni

colpa sostenendo che la gente comune che è al loro servizio ha bisogno di essere guidata. Questo può anche essere vero in molte società che esistono da tempo, ma soltanto perché molte generazioni di condizionamento hanno sottratto al cuore e all'anima dei sudditi qualcosa di essenziale, perché molte generazioni di subordinazione hanno tolto loro la sicurezza di saper determinare il proprio destino.Tutti i sistemi di governo condividono la caratteristica di rubare la libertà dell'individuo, di imporre determinate condizioni alla vita di ciascun cittadino nel nome della «comunità».

Apprezzo e condivido il concetto di «comunità», ed è indubbio che gli individui all'interno di qualsiasi raggruppamento del genere debbano fare dei sacrifici e accettare dei limiti per il bene di tutti se si vuole che qualsiasi comunità prosperi, ma quanto sarebbe più forte una comunità se quei sacrifici derivassero dal cuore di ciascun cittadino e non dagli editti degli anziani, delle madri matrone o dei re e delle

regine? La libertà è la chiave di tutto, la libertà di restare o di andarsene, di

lavorare in armonia con gli altri o di scegliere una via più individuale,la libertà di contribuire a risolvere i problemi comuni o di astenersi dal farlo, di costruirsi una vita o di esistere nello squallore, di tentare di tutto o di non fare nulla.

Pochi possono contestare il desiderio di libertà: tutti coloro che ho

avuto modo di incontrare desiderano il libero arbitrio o pensano di desiderarlo, quindi è strano come siano in tanti a rifiutare di accettare il costo che deriva dalla libertà: la responsabilità.

Una comunità ideale dovrebbe funzionare bene perché i singoli membri accettano le loro responsabilità dirette al benessere del singolo e della comunità nel suo complesso, non perché venga loro ordinato di farlo, ma perché comprendono e accettano i benefìci derivanti da una scelta del genere. Infatti esistono effettivamente delle conseguenze per ogni nostra scelta, per tutto quello che facciamo o che decidiamo di non fare, ma temo che tali conseguenze non siano

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poi così evidenti. L'uomo egoista può pensare di ottenere un vantaggio, ma quando si troverà ad avere più che mai bisogno di amici probabilmente non ne troverà nessuno e alla fine, come tipica eredità di qualsiasi persona egoista, non sarà ricordato con affetto o sarà

addirittura dimenticato. L'avidità di una persona egoista può garantire beni materiali ma non può recare le vere gioie, i tangibili piaceri dell'amore.

Lo stesso accade con le persone odiose, con quanti disprezzano o invidiano il prossimo, con i ladri e i bravacci, con gli ubriaconi e i pettegoli. La libertà elargisce a ciascuno il diritto di scegliere la vita che vuole condurre ma esige anche che quella persona accetti le responsabilità che derivano dalle sue scelte, nel bene e nel male.

Ho sentito dire spesso che persone convinte di essere in punto di morte si sono trovate a rivivere eventi della loro vita, anche molto remoti e da tempo sepolti nella memoria. Credo quindi che in quegli ultimi momenti dell'esistenza, prima di scoprire i misteri di ciò che può esserci oltre la vita, ci venga concessa la benedizione, o la maledizione,di riesaminare le nostre scelte, di vederle messe a nudo davanti alla nostra coscienza senza la confusione degli orpelli della vita quotidiana,

senza la nebbia delle giustificazioni o il potenziale rifugio di vane promesse di fare ammenda.

Quanti preti, mi domando, includerebbero questo momento di massima nudità spirituale nella loro descrizione del paradiso e dell' inferno?

DRIZZT DO’URDEN

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CAPITOLO VIIDISTACCO DA UN VECCHIO

AMICOIl grosso barbaro era ad appena un passo di distanza. Josi Puddles

lo vide arrivare quando era ormai troppo tardi. Terrorizzato, siraggomitolò contro la parete nel tentativo di nascondersi, ma Wulfgargli fu addosso in un istante e lo sollevò con una mano, usando l'altraper annullare i suoi deboli tentativi di reazione.

Poi Josi venne sbattuto con violenza contro la parete.«Lo rivoglio indietro», dichiarò con calma il barbaro, e la serenità

espressa dalla sua voce e dal suo volto fu la cosa che più terrorizzò ilpovero Josi.

«Co... cosa stai ce... cercando?» balbettò.Sempre con un solo braccio, Wulfgar lo allontanò dal muro e tornò

a sbatterlo contro di esso.«Sai a cosa mi riferisco», disse, «e io so che sei stato tu a prenderlo».Josi si limitò a scrollare le spalle e a scuotere il capo, ottenendo di

essere sbattuto contro il muro per la terza volta.«Tu hai preso Aegis-fang», precisò Wulfgar, cominciando a perdere

la calma e avvicinando il volto accigliato a quello di Josi, «e se non melo restituisci ti farò a pezzi e utilizzerò le tue ossa per costruirmi unanuova arma».

«Io... io l'hopreso in prestito», cominciò a dire Josi, e quando quellescuse furono interrotte da un altro colpo contro il muro strillò:«Credevo che avresti ucciso Arumn, che ci avresti uccisi tutti!».

Quelle strane parole ebbero l'effetto di calmare parzialmente Wulfgar.

«Uccidere Arumn?» ripeté in tono incredulo.

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«Quando ti ha mandato via», spiegò Josi. «Sapevo che voleva farloperché me lo ha detto mentre tu dormivi e ho pensato che lo avrestiucciso in preda all'ira.»

«E quindi hai preso il mio martello da guerra?»«Sì», ammise Josi, «ma volevo recuperarlo. Ho provato a farlo».«Dov'è?» domandò Wulfgar.«L'ho dato a un'amica», rispose Josi. «L'ho consegnato a una

marinaia perché lo tenesse in custodia e fuori dalla portata del tuorichiamo. Ho cercato di recuperarlo ma lei non ha voluto restituirlo eha cercato di schiacciarmi la testa!»

«Chi è?» chiese Wulfgar.«Sheila Kree, dellaDama Balzante », confessò Josi. «Lo ha lei e haintenzione di continuare a tenerselo.»

Wulfgar si arrestò per un momento, valutando l'informazionericevuta e la sincerità del tono con cui era stata fornita, poi tornò afissare Josi con espressione ancor più incupita.

«Non mi piacciono i ladri», disse, scrollando il poveretto, e quando

Josi cercò di reagire, arrivando a colpirlo debolmente in volto, loallontanò dal muro e tornò ancora una volta a sbatterloviolentemente contro di esso.

«Qui a Luskan mettiamo in catene i furfanti», intervenne una voce, enel girarsi verso di essa Wulfgar e Josi videro Arumn Gardpeck usciredal suo locale insieme a parecchi altri uomini; questi ultimi però sitennero a distanza di sicurezza, palesemente riluttanti ad avere a chefare con Wulfgar, mentre Arumn avanzava con cautela verso ilbarbaro brandendo in mano un randello e intimava: «Mettilo giù».

Wulfgar sbatté Josi contro il muro un'ultima volta, poi lo calòrudemente al suolo e gli impresse una brusca scrollata senza peròabbandonare la presa.

«Ha rubato il mio martello e intendo riaverlo», dichiarò in tonodeciso.

«Ci ho provato», gemette Josi, quando Arumn lo fissò con occhiroventi. «Però Sheila Kree... sì, ce l'ha lei... non intende restituirmelo.»

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Wulfgar lo scrollò ancora, con tanta violenza da fargli sbattere identi.

«Lo ha lei perché sei stato tu a darglielo», gli ricordò.«Però ha cercato di recuperarlo», intervenne Arumn. «Ha fatto tutto

quello che poteva. Adesso hai intenzione di ammazzarlo per questo?Dopo ti sentiresti meglio, Wulfgar il bruto? Perché ammazzarlo non tiaiuterà certo a riavere il tuo martello.»

Wulfgar gli lanciò un'occhiata rovente, poi spostò lo sguardo sulpovero Josi.

«In effetti dopo mi sentirei meglio», ammise, e Josi parve contrarsisu se stesso, tremando in modo visibile.

«Allora dovrai picchiare anche me», affermò Arumn. «Josi è mioamico, come credevo che lo fossi anche tu, e intendo combattere perdifenderlo.»

Wulfgar accolse quelle parole con uno sbuffo di disprezzo e con unsemplice scatto del braccio possente mandò Josi a cadere ai piedi deltaverniere.

«Ti ha detto dove puoi trovare il tuo martello», osservò alloraArumn.

Comprendendo il senso implicito di quelle parole, Wulfgaraccennò ad allontanarsi ma nel guardarsi alle spalle vide Arumn cheaiutava Josi a rialzarsi da terra e circondava con un braccio le spalledell'ometto tremante, accompagnandolo verso la Scimitarra.

Quell'ultima immagine, che costituiva una scena di vera amicizia,ebbe l'effetto di turbarlo profondamente, perché in passato anche luiaveva conosciuto un'amicizia del genere e aveva avuto la benedizionedi possedere amici pronti a venire in suo aiuto anche quando lasituazione sembrava essere senza speranza. Immagini di Drizzt e diBruenor, di Regis e di Gwenhwyvar e soprattutto di Catti-brie gliattraversarono fugaci la mente.

Poi però chiuse gli occhi e barcollò, arrivando quasi a cadere alsuolo, quando una parte più cupa dei suoi pensieri gli ricordò che

quella era tutta una menzogna: c'erano posti dove gli amici nonpotevano venire in soccorso, orrori che nessuna amicizia poteva

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alleviare. No, l'amicizia era tutta una menzogna, era una facciatacreata da quell’ estremamente umano e, in ultima analisi,profondamente infantile bisogno di sicurezza, di avvilupparsi in falsesperanze. Lui lo sapeva perché aveva visto quella futilità, aveva visto

la verità e sapeva quanto fosse cupa in realtà.Senza quasi rendersi conto di cosa stesse facendo, raggiunse di corsala porta della Scimitarra e la spalancò con forza tale che il violentoimpatto del battente contro la parete attirò l'attenzione di tutti ipresenti. Un solo grande passo gli fu sufficiente per raggiungere Arumne Josi, poi lui spinse di lato con indifferenza il randello del locandieree assestò a Josi uno schiaffo in piena faccia che lo lanciò a parecchimetri di distanza, mandandolo a cadere disteso sul pavimento.

Arumn si lanciò allora all'attacco brandendo il randello, ma Wulfgar afferrò l'arma improvvisata con una sola mano, la strappòalla presa del taverniere e spinse indietro Arumn. Proteso il randellodavanti a sé, con una mano a ciascuna estremità, flesse quindi con unringhio i possenti muscoli del collo e delle spalle, spaccando a metà ilduro pezzo di legno.

«Perché stai facendo questo?» gli chiese Arumn. Wulfgar non seppe cosa rispondere perché non ne aveva idea e in

effetti non gli importava neppure di capirlo. Nella confusione che gliannebbiava la mente lui aveva l'impressione di aver conseguito unapiccola vittoria a spese di Errtu e dei suoi demoni: aveva appenanegato la menzogna costituita dall'amicizia e, così facendo, avevatolto a Errtu l'arma più dolorosa che poteva usare contro di lui. Gettatia terra i due pezzi di legno infranti uscì a grandi passi dalla Scimitarra,

consapevole che nessuno dei suoi tormentatori avrebbe osatoseguirlo.Stava ancora ringhiando fra sé e borbottando imprecazioni contro

Errtu, Arumn e Josi Puddles, quando arrivò al porto e prese acamminare avanti e indietro lungo i moli, sollevando echi profondicon l'impatto dei suoi pesanti stivali.

«Cosa stai cercando?» gli chiese una vecchia.

«LaDama Balzante», rispose Wulfgar. «Dov'è?»

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«La nave di Kree?» domandò la donna, più che altro parlando a sestessa. «Oh, ha preso il largo, senza dubbio in fuga per paura di quelloscomodo vicino», aggiunse quindi, indicando la sagoma scura di unasnella imbarcazione ancorata dall'altra parte del lungo molo.

Incuriosito, Wulfgar si fece più vicino, notando le tre vele, l'ultimadelle quali triangolare, un tipo di velatura che non aveva mai vistoprima.Nell’attraversare l'ampio molo ricordò poi le storie che Drizzt eCatti-brie gli avevano raccontato e comprese: quella nave era il Folletto del Mare.

Quel nome ebbe l'effetto di riportare ordine nei suoi pensiericonfusi e lui si erse sulla persona, lasciando vagare lo sguardo lungo lo

scafo e sul nome dipinto su di esso, per poi spostarlo sulla murata delponte e su un marinaio che era addossato a essa, intento a fissarlo.«Wulfgar!» esclamò Waillan Micanty. «È un piacere vederti!»Il barbaro si volse di scatto e si allontanò a grandi passi.

***

«Forse era venuto a chiedere il nostro aiuto», opinò il CapitanoDeudermont.

«A me sembra più probabile che si fosse semplicemente perduto»,ribatté in tono scettico Robillard. «Stando a quanto ha riferitoMicanty, la reazione del barbaro alla vista delFolletto del Mare è statapiù che altro di sorpresa.»

«Non possiamo esserne certi», dichiarò Deudermont, avviandosiverso la porta della cabina.«Non dobbiamo esserne certi», replicò Robillard, afferrandolo per

un braccio per fermarlo.Arrestandosi, Deudermont si girò a fissare con occhi roventi la

mano del mago posata sul suo braccio, poi sollevò lo sguardo aincontrare quello pieno di determinazione di Robillard.

«Non è tuo figlio», gli ricordò questi. «Lo conosci appena e non hainessuna responsabilità nei suoi confronti.»

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«Drizzt e Catti-brie sono miei amici», gli ricordò Deudermont.«Sononostri amici e Wulfgar è un loro amico, un fatto che nonpossiamo ignorare per semplice comodità.»

«Per sicurezza, capitano», precisò il mago in tono pieno difrustrazione, lasciandogli andare il braccio, «non per comodità».

«Intendo andare da lui.»«Ci hai già provato e sei stato respinto», gli ricordò in tono brusco il

mago.«Ma la scorsa notte è venuto da noi, forse perché ci aveva

ripensato», insistette Deudermont.

«O perché si era perso lungo i moli.»Deudermont annuì, ammettendo quella possibilità.«Però non lo sapremo mai se non torno da Wulfgar per

chiederglielo», osservò poi, avviandosi verso la porta.«Manda qualcun altro», suggerì Robillard, sulla spinta di

un'ispirazione improvvisa. «Manda magari Micanty, oppure possoandare io.»

«Wulfgar non conosce né te né Micanty.»«Senza alcun dubbio ci devono essere a bordo uomini

dell'equipaggio che hanno conosciuto Wulfgar durante quel viaggio dialcuni anni fa», insistette cocciutamente il mago. «Uomini di cui lui siricorda.»

Deudermont scosse il capo, serrando la mascella in un'espressionedecisa.

«A bordo delFolletto del Mare c'è un solo uomo che può riuscire aparlare con Wulfgar, e quello sono io», disse quindi. «Intendo tornareda lui, e se necessario farlo ancora un'altra volta prima che prendiamoil largo.»

Robillard accennò a protestare ma alla fine si arrese di fronteall'evidente inutilità delle sue obiezioni e sollevò le mani inun'ammissione di sconfitta.

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«Le strade circostanti il porto di Luskan sono piene di gente che nonnutre certo molto affetto nei tuoi confronti, capitano», aggiunsesoltanto. «Bada che ogni ombra potrebbe celare un pericolo.»

«Ne sono consapevole, come lo sono sempre stato», risposeDeudermont con un sorriso, che si fece ancora più marcato quandoRobillard gli si avvicinò e appose su di lui una quantità di incantesimiintesi a neutralizzare l'impatto di eventuali colpi, di missili scagliati dalontano e di certi tipi di attacchi tramite magia..

«Ricordati che hanno una durata prestabilita», ammonì quindi.Deudermont annuì, grato delle precauzioni prese dal suo amico, e

si diresse verso la porta.

Non appena se ne fu andato, Robillard si accasciò su una sedia evagliò l'opportunità di ricorrere alla sfera di cristallo, pensando alleenergie che avrebbe dovuto consumare per utilizzarla.

«Una fatica inutile», commentò quindi con un sospiro esasperato,«per il capitano come per me. Una fatica inutile per un topo di fognache non la merita».

Quella sarebbe stata una notte molto lunga.

***

«E ne hai davvero così tanto bisogno?» si azzardò a chiedere Morik.Considerato l'umore nero di Wulfgar, infatti, anche soltanto porre

un interrogativo del genere equivaleva a correre un notevole rischio.

Wulfgar non si prese neppure la briga di rispondere a una domandatanto assurda, ma l'occhiata che lanciò a Morik fu quanto maiesplicativa.

«Deve essere proprio un'arma meravigliosa», commentò il furfante,più che altro per cambiare argomento e giustificare la sua domandacosì palesemente assurda.

Naturalmente lui aveva sempre saputo che Aegis-fang era un'armaincredibile, perfetta nella fattura e adatta come nessun'altra alle manipossenti di Wulfgar, ma secondo il suo modo di vedere pragmatico

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questo non giustificava un viaggio in mare aperto all'inseguimento diSheila Kree e della sua banda di tagliagole.

Nel formulare quelle riflessioni Morik si disse che forse non sitrattava soltanto del valore effettivo dell'arma, che forse Aegis-fangaveva per Wulfgar un valore sentimentale, considerato che era stataforgiata dal suo padre adottivo. Forse Aegis-fang era la sola cosa chegli rimanesse della sua vita precedente, il solo ricordo di chi lui fossestato un tempo, ma quella era una domanda che Morik non si sarebbemai azzardato a formulare ad alta voce perché, anche se la suasupposizione fosse stata esatta, l'orgoglioso Wulfgar non lo avrebbemai ammesso e avrebbe potuto reagire con violenza imprevedibile.

«Puoi prendere gli accordi necessari?» chiese di nuovo Wulfgar, intono impaziente.Quello che voleva era che Morik affittasse una nave abbastanza

veloce e con un capitano abbastanza esperto da riuscire a raggiungereSheila Kree e da seguirla magari in un altro porto, o semplicemente daavvicinarsi alla sua nave quanto bastava perché di notte Wulfgarpotesse accostarla con una piccola imbarcazione e salire a bordo senzadare nell'occhio. Il grosso barbaro non si aspettava l'aiuto di nessunonel recuperare il martello, tranne che per arrivare fino a Kree, e nonriteneva neppure di aver bisogno di aiuto.

«Cosa mi dici di quel capitano tuo amico?» replicò Morik. Wulfgar lo fissò con espressione incredula.«Deudermont, delFolletto del Mare, è il più famoso cacciatore di

pirati della Costa delle Spade», continuò Morik, in tono brusco ediretto. «Se c'è in tutta Luskan una nave capace di raggiungere SheilaKree, si tratta delFolletto del Mare, e a giudicare dal modo in cui ti hasalutato credo che il Capitano Deudermont sarebbe lieto di addossarsiquesto incarico.»

«Cerca un'altra nave», disse soltanto Wulfgar, non avendo modo diconfutare le affermazioni quanto mai valide di Morik.

Questi lo fissò con aria intenta per un lungo momento, poi annuì.

«Ci proverò», promise.

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«Subito», ingiunse Wulfgar, «prima che laDama Balzante si siaallontanata troppo».

«Stanotte abbiamo un lavoro da fare», gli ricordò Morik.Essendo entrambi a corto di fondi, i due avevano infatti accettato di

aiutare un locandiere a scaricare dalla stiva di una nave un carico dicarne macellata.

«Penserò io a scaricare la carne», propose Wulfgar, e quelle parolesuonarono come musica agli orecchi di Morik, che in realtà non eramai stato troppo amante del lavoro onesto.

Il piccolo ladro non sapeva proprio da che parte cominciare pernoleggiare una nave che potesse raggiungere Sheila Kree, ma preferivadi gran lunga cercare una risposta a quel problema e magari trovarelungo la strada qualche tasca da vuotare, che non scaricare tonnellatedi carne salata e ritrovarsi umido, puzzolente e stanco.

***

Robillard stava guardando attentamente nella sfera di cristallo,intento a osservare Deudermont percorrere un ampio viale benilluminato e pattugliato da numerose squadre di guardie cittadine, cheper lo più si fermavano a salutarlo ossequiosamente, cosa cheRobillard poteva dedurre soltanto dai loro gesti, dato che la sfera dicristallo trasmetteva le immagini ma non i suoni.

D'un tratto qualcuno che bussava alla porta infranse la suaconcentrazione e trasformò la nitida immagine in una vorticantenebbia grigia. Naturalmente Robillard avrebbe potuto evocare dinuovo la scena senza perdite di tempo, ma supponeva che per ilmomento Deudermont non stesse correndo pericoli immediati,soprattutto se si consideravano gli incantesimi protettivi che avevaapplicato su di lui, e comunque preferiva sempre essere solo etranquillo quando operava con la magia.

«Vattene!» ingiunse quindi in tono brusco, procedendo a versarsi un

bicchiere di liquore.Il bussare però si ripeté, con maggiore insistenza.

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«Mastro Robillard, c'è una cosa che devi vedere», avvertì una voce.Riconoscendola, Robillard si rassegnò ad aprire la porta con il

bicchiere in mano e un borbottio di protesta sulle labbra, e trovò sullasoglia uno dei membri dell'equipaggio che si stava lanciando delleocchiate alle spalle in direzione della murata.

Là Waillan Micanty e un altro marinaio erano fermi vicino allapasserella e sembravano impegnati a parlare con qualcuno che sitrovava sul molo.

«Abbiamo un ospite», commentò quindi il marinaio che avevabussato alla porta.

Ritenendo che si trattasse di Wulfgar, e incerto se quella fosse daconsiderare una cosa positiva o negativa, Robillard si avviò attraversoil ponte, non prima di essersi girato a chiudere la porta della cabinadavanti alla faccia del marinaio troppo curioso che stava cercando disbirciare all'interno.

«Non puoi salire a bordo se prima Mastro Robillard non avrà datoil permesso», esclamò intanto Micanty, rivolto a qualcuno sul moloche replicò implorandolo di abbassare la voce.

Avvicinatosi a Micanty, il mago guardò verso il basso e vide unapiccola, miserevole figura raggomitolata sotto una coperta, cosa di persé significativa se si considerava che la notte non era fredda.

«Vuole parlare con il Capitano Deudermont», spiegò WaillanMicanty.

«Come no!» ribatté in tono sprezzante Robillard, poi si rivolseall'uomo sul molo e aggiunse: «Dobbiamo forse permettere a ognivagabondo che capita nei dintorni di salire a bordo e di parlare con ilCapitano Deudermont?».

«Tu non capisci», rispose l'uomo, abbassando la voce e guardandosinervosamente intorno come se si fosse aspettato di vedere unassassino piombare su di lui da un momento all'altro. «Ho delle notizieda darvi, ma non qui», precisò, guardandosi di nuovo intorno, «nondove tutti ci possono sentire».

«Fatelo salire a bordo», ordinò il mago a Micanty, e quando questilo fissò con aria scettica sostenne il suo sguardo con un'espressione

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intesa a ricordargli quale fosse il suo posto e anche che Robillardriteneva assurdo preoccuparsi del fatto che quel miserevole omettopotesse causare qualche problema quando lui era presente. «Loriceverò nel mio alloggio», aggiunse quindi, allontanandosi.

Pochi momenti più tardi Waillan Micanty accompagnò l'omettotremante oltre la soglia della cabina di Robillard; parecchi altri marinaiincuriositi cercarono di fare capolino oltre la soglia, ma senza neppureaspettare un ordine in tal senso da parte del mago Micanty chiuse lorola porta in faccia.

«Tu sei Deudermont?» chiese l'ometto.«No», ammise il mago, «eppure sono io la persona più vicina a lui

che puoi sperare di raggiungere».«Devo vedere Deudermont», insistette l'ometto.«Come ti chiami?» domandò il mago.«Devo parlare con Deudermont», ribadì l'ometto, scuotendo il

capo. «Però io non ho detto nulla, se capisci cosa intendo.»Robillard, che per sua natura non era un uomo paziente, non cercò

neppure di capire e con un cenno di un dito gli proiettò addosso unascarica di energia che lo scaraventò all'indietro.

«Come ti chiami?» domandò poi di nuovo, e quando lui esitò locolpì con un'altra scarica. «Ti garantisco che ne ho molte altre diriserva», aggiunse quindi.

L'ometto si girò allora verso la porta ma venne investito in pienovolto da una tremenda folata di vento magico che per poco non glifece perdere l'equilibrio e che lo costrinse a girarsi di nuovo verso ilmago.

«Qual è il tuo nome?» domandò con calma Robillard.«Josi Puddles», rispose Josi, prima ancora di avere il tempo di

pensare a fornire un nome falso.Robillard rifletté per un momento su quel nome, poi si appoggiò

all'indietro contro lo schienale della sedia e assunse un atteggiamentopensoso.

«Forniscimi le tue informazioni, Mastro Puddles», disse.

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«Sono per il Capitano Deudermont», spiegò Josi, palesementesopraffatto. «Vogliono ucciderlo. Sulla sua testa c'è una grossa taglia.»

«Chi?»«Un uomo grosso», replicò Josi. «Un uomo grosso di nome Wulfgar

e il suo amico, Morik il Furfante.»«Come sai tutto questo?» chiese ancora il mago, facendo del

proprio meglio per nascondere la sorpresa.«Sulla strada lo sanno tutti», rispose Josi. «Dicono che quei due

vogliono uccidere Deudermont in cambio di diecimila monete d'oro.»«C'è dell'altro?» domandò minaccioso Robillard.

Josi scrollò le spalle, guardandosi intorno con occhi pieni ditensione.«Perché sei venuto qui?» lo incalzò intanto il mago.«Pensavo che doveste saperlo», rispose Josi. «Io di certo vorrei

essere informato se persone con la reputazione di Wulfgar e di Morikmi stessero dando la caccia.»

Robillard annuì, poi ridacchiò.«Sei venuto su una nave... un vascello che dà la caccia ai pirati... che

ha una pessima fama fra i più pericolosi frequentatori dei moli, peravvertire un uomo che non hai mai incontrato, ben sapendo che ungesto del genere ti avrebbe potuto porre in mortale pericolo. Chiedoscusa, Mastro Puddles, ma il tuo comportamento non mi apparecoerente.»

«Ho pensato che doveste saperlo, ecco tutto», ribadì Josi,

abbassando lo sguardo.«Io non lo credo», dichiarò con calma Robillard, e quando Josi

tornò a fissarlo, timoroso, gli chiese: «Quanto vuoi?».Sul volto di Josi apparve un'espressione incuriosita.«Un uomo più saggio avrebbe contrattato prima di fornire

l'informazione», spiegò Robillard, «ma noi non siamo degli ingrati.Cinquanta monete d'oro ti possono bastare?».

«E... ecco, sì, certo», balbettò Josi, poi subito si corresse: «Ecco, no,non proprio. Io stavo pensando a un centinaio».

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«Sei davvero abile nel contrattare, Mastro Puddles», commentòRobillard, rivolgendo al tempo stesso un cenno del capo a Micantyche stava cominciando ad agitarsi sempre di più. «Le tue informazionipotrebbero risultare molto preziose, sempre che tu non stia

mentendo, naturalmente.»«No, signore, non mentirei mai!»«Allora d'accordo per cento monete d'oro», annuì Robillard. «Torna

qui domani per parlare con il Capitano Deudermont e sarai pagato.»«Se non ti dispiace, Mastro Robillard, preferirei non tornare qui»,

replicò Josi, guardandosi intorno.«Ma certo», ridacchiò nuovamente Robillard, poi tirò fuori da una

sacca che portava al collo una chiave che gettò a Waillan Micanty,dicendogli: «Provvedi tu. Troverai la somma nell'armadietto disinistra, in basso. Pagalo in monete da dieci e poi scortalo giù dallanave, mandando con lui un paio di marinai che provvedano aproteggerlo fino a quando non avrà lasciato i moli».

Micanty stentava a credere a quello che stava sentendo ma nontentò neppure di discutere con il pericoloso mago e prese Josi Puddles

per un braccio, lasciando la cabina insieme a lui.Quando tornò indietro, di lì a poco, trovò Robillard chino sulla sua

sfera di cristallo e intento a osservare con la massima concentrazione leimmagini da essa fornite.

«Gli hai creduto», commentò. «Abbastanza da pagarlo senza averenessuna prova.»

«Cento pezzi di rame non sono poi una somma così elevata»,replicò Robillard.

«Rame?» esclamò Micanty. «A me è parso oro.»«Lo sembrava soltanto, ma ti garantisco che era rame», ribatté

Robillard, «e per di più monete che potrò rintracciare con facilità perritrovare il nostro Mastro Puddles... per punirlo qualora si rendanecessario o per ricompensarlo adeguatamente se l'informazionedovesse risultare vera».

«Non è venuto da noi in cerca di una ricompensa», commentòMicanty, che era un attento osservatore, «e di certo non è neppure un

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amico del Capitano Deudermont. No, a me pare che il nostro amicoPuddles non abbia molta simpatia per Wulfgar o per quel tale Morik».

Robillard lanciò un'altra occhiata alla sua sfera di cristallo, poi siappoggiò allo schienale della sedia, intento a riflettere.

«Hai trovato il capitano?» osò chiedere Micanty.«Sì», rispose il mago. «Vieni a vedere.»Nell'avvicinarsi a Robillard, il marinaio vide la scena nella sfera di

cristallo passare dalle strade di Luskan a una nave che si trovava daqualche parte in aperto oceano.

«Il capitano?» chiese, con preoccupazione.

«No, no», replicò Robillard. «Forse si tratta di Wulfgar, o del suomartello magico. Conosco quell'arma, che mi è stata descritta a fondoe pensando che mi avrebbe portato a Wulfgar ho orientato su di essala mia ricerca magica, che mi ha invece portato a questa nave, laDama Balzante».

«Una nave pirata?»«È probabile», annuì Robillard. «Se Wulfgar è effettivamente a

bordo è possibile che lo incontriamo ancora, ma d'altro canto se si èimbarcato la storia del nostro amico Puddles perde di credibilità.»«Puoi chiamare il capitano?» domandò Micanty, ancora

preoccupato. «Farlo tornare a casa?»«Non mi darebbe ascolto», rispose Robillard, con un amaro sorriso.

«Ci sono alcune cose che il nostro cocciuto Capitano Deudermontdeve imparare a sue spese. Lo terrò attentamente d'occhio. Tu intanto

provvedi alle difese della nave e raddoppia le sentinelle, anzi triplicalee avverti gli uomini di tenere d'occhio ogni ombra. Se davvero ci sonopersone decise ad assassinare il capitano è possibile che lo vengano acercare qui.»

Una volta solo, Robillard si concentrò nuovamente sulla sfera dicristallo e riportò l'immagine sul Capitano Deudermont. Ciò che videgli strappò un sospiro di esasperazione, perché per quanto se lo fosseaspettato non gli fece piacere vedere che il capitano si era addentratonelle zone più pericolose della città. Proprio mentre Robillard tornavaa mettere a fuoco l'immagine su di lui,

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Deudermont passò sotto l'insegna della Strada della Mezzaluna.

***

Se fosse stato in grado di esaminare un'area più ampia, Robillardavrebbe potuto vedere due figure che sgusciavano in un vicoloparallelo alla strada appena imboccata da Deudermont.

Procedendo di corsa, Creeps Sharky e Tee-a-nick-nick imboccaronoun altro vicolo e sbucarono nella Strada della Mezzaluna proprio allespalle della Scimitarra, precipitandosi al suo interno perché Sharky era

convinto che fosse proprio quella la meta di Deudermont. I duepresero posto a un tavolo d'angolo sulla destra rispetto alla porta,allontanando i due clienti che già l'occupavano con un ringhiominaccioso; si sedettero e ordinarono da bere a Delly Curtie. Poi illoro sorriso soddisfatto si fece più accentuato quando qualchemomento più tardi il Capitano Deudermont oltrepassò la soglia e sidiresse verso il bancone.

«Non resta molto ora Wulfgar non qui», commentòTee-a-nick-nick.

Creeps si concesse un momento di riflessione per decifrare la frase eil suo significato, poi annuì. Personalmente, lui aveva un'ideaabbastanza precisa di dove si trovassero Wulfgar e Morik, perché unsuo amico li aveva visti sui moli qualche ora prima.

«Tienilo d'occhio», ordinò a Tee-a-nick-nick, poi prese una sacca cheaveva preparato in precedenza e si accinse a uscire.

«Troppo facile», commentò Tee-a-nick-nick, ribadendo le lamenteleda lui già formulate in precedenza sul piano di Creeps.

«Già, ed è proprio questo il bello della cosa, amico mio», ribattéCreeps. «Morik è troppo sicuro di sé e troppo curioso per buttarla via.No, l'avrà con sé e servirà a farlo correre da noi più in fretta che mai.»

Poi uscì e si guardò intorno lungo la strada, localizzando senzadifficoltà uno dei molti ragazzini che si aggiravano nella zona, pronti afungere da sentinelle o da corrieri.

«Ehi, ragazzo!» chiamò.

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Il monello, che non aveva più di dieci anni, lo adocchiò con ariasospettosa ma non si avvicinò.

«Ho un incarico per te», spiegò Creeps, sollevando la sacca.Con esitazione, il ragazzo si decise a dirigersi verso quel pirata

dall'aspetto pericoloso.«Prendi questa», ordinò Creeps, porgendogli la piccola sacca, «e non

guardare dentro!» si affrettò ad aggiungere, quando vide il bambinoche già si accingeva ad allentare i lacci.

Subito dopo però cambiò idea, rendendosi conto che il monelloavrebbe potuto credere che la sacca contenesse qualcosa di speciale...oro o un oggetto magico... e decidere di tenerla per sé, quindi glielatolse di mano, l'aprì e gli mostrò il suo contenuto, costituito da alcunipiccoli artigli simili a quelli di un gatto, da una fiala piena di un liquidotrasparente e da una pietra dall'aspetto insignificante.

«Ecco, così hai visto che non c'è nulla che valga la pena di rubare»,commentò.

«Io non rubo», protestò il ragazzo.«Non ne dubito», annuì Creeps, con una risata. «Sei un bravo

ragazzo, vero? Dimmi, conosci quello che chiamano Wulfgar? Unuomo grosso con i capelli biondi, che faceva il buttafuori per Arumndella Scimitarra?»

Il ragazzo annuì.«E conosci il suo amico?»«Morik il Furfante», recitò il monello. «Tutti conoscono Morik.»

«Bene», approvò Creeps. «Sono giù ai moli, o stanno venendo qui. Voglio che li trovi e che consegni questa sacca a Morik. Riferisci a lui ea Wulfgar che il Capitano Deudermont li vuole incontrare davanti allaScimitarra per una questione che riguarda un grosso martello. Sei ingrado di farlo?»

Il bambino sogghignò, come a indicare che era una domandaridicola.

«E lo farai?» insistette Creeps, infilando una mano in tasca e tirandofuori una moneta d'argento. Quando stava per porgerla al ragazzo

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però cambiò idea e infilò di nuovo la mano in tasca, esibendoparecchie scintillanti monete d'argento mentre aggiungeva: «Chiedi aituoi amici di cercare in tutta Luskan. Per te ce ne saranno delle altre seporterai Wulfgar e Morik alla Scimitarra», concluse, consegnando le

monete al monello.Prima che avesse il tempo di dire un'altra parola il bambino afferròle monete, si girò e scomparve di corsa nei vicoli.

Qualche momento più tardi Creeps tornò a raggiungereTee-a-nick-nick con un sorriso compiaciuto dipinto sul volto, certo cheil ragazzino e la vasta rete dei monelli di strada avrebbero assolto alloro compito in brevissimo tempo.

«Lui aspetta», disse Tee-a-nick-nick, indicando Deudermont che siera appoggiato al bancone e stava sorseggiando un bicchiere di vino.«È un uomo paziente», commentò Creeps, con un sorriso sempre

più accentuato. «Se sapesse quanto tempo gli rimane da vivere forseavrebbe un po' più di premura.»

Detto questo segnalò a Tee-a-nick-nick di uscire dalla Scimitarra euna volta fuori i due non tardarono a prendere posizione su un basso

tetto da dove potevano tenere bene d'occhio la porta della taverna.Tee-a-nick-nick tirò quindi fuori dalla camicia un lungo tubo cavo eprese dalla tasca un piccolo artiglio a cui erano fissate alcune piume.Con mosse molto caute, il selvaggio mezzo-qullan girò verso l'alto ilpalmo della mano destra e preso l'artiglio con la sinistra premette unpacchetto segreto fissato al bracciale che portava al polso destro,accentuando lentamente la pressione fino a farne scaturire una gocciadi una sostanza densa come la melassa, che lui raccolse sulla puntadell'artiglio di gatto prima di infilarlo in un'estremità della cerbottana.«Tee-a-nick-nick paziente anche», disse con un perfido sorriso.

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CAPITOLO VIIICALDI SENTIMENTI

«Oh, ma guardati!» gemette Biaste Ganderlay, avvicinandosi peraiutare Meralda a indossare il nuovo abito che Lord Feringal le avevainviato per la loro cena di quella sera.

Nello sfilarsi la sottoveste accollata che aveva avuto indosso pertutto il giorno, infatti, Meralda aveva appena esposto alla vistal'effettiva estensione dei lividi che le costellavano il corpo, nitide

chiazze violacee che le spiccavano sul collo e sulle spalle, più grandidelle due che le segnavano il volto.«Non ti puoi presentare a Lord Feringal in questo stato!» continuò

Biaste. «Cosa penserà mai di te?»«In tal caso vuol dire che non andrò», rispose Meralda, tutt'altro che

entusiasta all'idea dell'appuntamento di quella sera, ma le sue paroleebbero soltanto l'effetto di aumentare l'agitazione di sua madre e

fecero apparire un'espressione accigliata sul suo volto grigio e scarno,la cui vista ricordò a Meralda la malattia che la affliggeva e quale fosseil solo modo possibile per risanarla.

Angosciata, la ragazza abbassò lo sguardo mentre Biaste siavvicinava alla credenza e cominciava ad armeggiare con scatole evasetti, prelevando cera d'api, lavanda, radice di consolida e olio perpoi precipitarsi all'esterno a raccogliere un po' di argilla di colorechiaro da aggiungere alla miscela; un momento più tardi la donnarientrò nella stanza di Meralda munita di un mortaio di cui si servì pertriturare e miscelare energicamente con un pestello tutti gli ingredienti.

«Gli dirò che è stato un incidente», suggerì Meralda mentre suamadre si avvicinava per applicare sui lividi quel balsamo emolliente emascherante. «Se cadessi dalle scale di pietra del Castello di Auckprobabilmente mi procurerei lividi tali da far apparire questiinsignificanti al loro confronto.»

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«È questo che ti è successo?» domandò Biaste, anche se lei le avevagià spiegato di essersi fatta male andando distrattamente a sbatterecontro un albero mentre correva.

Meralda si sentì assalire dal panico perché non voleva doverconfessare a sua madre che era stato il suo affezionato padre apercuoterla in quel modo.

«Ma cosa dici?» ribatté in tono difensivo. «Mi credi tanto stupida daandare a sbattere contro un albero di proposito?»

«No, certo che no», rispose Biaste, riuscendo a sfoggiare un sorriso,e Meralda sorrise a sua volta, lieta che il diversivo avesse funzionato.«Non hai poi un aspetto così brutto», commentò intanto Biaste,

colpendo scherzosamente sulla testa la figlia con il pezzo di flanella dicui si stava servendo per medicare i lividi. «Lord Feringal non se neaccorgerà neppure.»

«Lord Feringal mi guarda con più attenzione di quanto immagini»,ribatté Meralda.

Scoppiando in una risata, Biaste l'abbracciò con slancio, dandol'impressione di essere quel giorno un po' più in forze del solito.

«Il Siniscalco Temigast ha detto che questa notte passeggerete neigiardini», osservò poi. «Oh, stanotte ci sarà la luna piena. Ragazza mia,come avrei mai potuto sperare così tanto per te?»

Meralda rispose soltanto con un altro sorriso perché temeva che, seavesse cercato di parlare, avrebbe sfogato tutta la rabbia che provavaper quell'ingiustizia e avrebbe finito per far stare di nuovo male suamadre.

Presa Meralda per mano, Biaste l'accompagnò poi nella stanzaprincipale della casa, dove la tavola era apparecchiata per la cena; Toriera già seduta e si stava agitando con impazienza, mentre DohniGanderlay rientrò proprio in quel momento e si soffermò sulla soglia afissare le due donne.

«Correva ed è andata a sbattere contro un albero», commentòBiaste. «Riesci a immaginare quanto sia sciocca questa ragazza?

Sbattere contro un albero quando Lord Feringal la invita al castello!»

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E scoppiò in una nuova risata, imitata da Meralda che peròcontinuò a fissare suo padre senza battere ciglio.

Dohni e Tori si scambiarono un'occhiata piena di disagio, poi ilmomento passò e la famiglia Ganderlay sedette a tavola per untranquillo pasto serale... o per meglio dire per un pasto che sarebbestato tranquillo se non fosse stato per la ribollente esuberanza diBiaste, che appariva manifestamente eccitata.

Poco dopo, e molto prima che il sole avesse raggiunto l'orizzonteoccidentale, i Ganderlay si raccolsero davanti alla loro casa perguardare Meralda salire sulla carrozza dorata e alla fine Biaste,incapace di contenere l'eccitazione crescente, raggiunse di corsa il

centro del viottolo per agitare la mano in segno di saluto. Quellosforzo parve però prosciugare le sue energie e lei si sentì venire meno,tanto che sarebbe caduta se suo marito non fosse stato pronto adafferrarla e a sorreggerla.

«Ora andrai a letto», ordinò Dohni, affidando con tenerezza ladonna a Tori che l'accompagnò in casa.

Dohni invece indugiò all'esterno, osservando la carrozza che siallontanava sempre più sulla strada polverosa e sentendosi laceratonel cuore e nell'anima. Non rimpiangeva la lezione che avevaimpartito a Meralda perché la ragazza doveva capire bene qualifossero le sue priorità, ma picchiarla gli aveva fatto male nella stessamisura in cui ne aveva fatto a sua figlia.

«Pà, perché la mamma per poco non è svenuta?» chiese poco dopoTori, cogliendo di sorpresa l'assorto Dohni. «Era così in forze esorridente...»

«Ha abusato troppo di se stessa», spiegò Dohni, non troppopreoccupato.

Lui conosceva la vera natura della malattia di Biaste, la tisi, o«avvizzimento», com'era comunemente chiamata, e sapeva che nonsarebbe bastato un animo sereno per risanarla. No, essere serenapoteva ridarle forze temporaneamente, ma alla fine la malattiaavrebbe avuto il sopravvento e ci sarebbero voluti tutti i mezzi che

Lord Feringal poteva procurare per garantire che lei guarisse davvero.

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Abbassando lo sguardo su Tori, lui scorse nei suoi occhi un'effettivapaura per sua madre.

«Ha soltanto bisogno di riposare», spiegò, passandole un bracciointorno alle spalle.

«Meralda ha detto alla mamma di essere andata a sbattere controun albero», si azzardò a osservare Tori, inducendo suo padre a fissarlacon espressione accigliata.

«E così è stato», rispose Dohni, in tono sommesso e triste. «Perchésta opponendo resistenza?» chiese poi d'impulso a Tori. «Dopo tutto èil nostro signore in persona a essersi invaghito di lei e questo leprospetta una vita migliore di quanto avrebbe mai potuto sperare.»

Dal modo in cui Tori si limitò a distogliere lo sguardo Dohnicomprese che lei sapeva più di quanto desse a intendere e le si piazzòdavanti, afferrandole il mento con una mano e costringendola aguardarlo negli occhi quando lei si ostinò a fissare il terreno.

«Che cosa sai?» chiese.Tori non rispose.«Dimmelo, ragazza!» ingiunse Dohni, assestandole un rude

scrollone. «Cosa c'è nella testa di tua sorella?»«Lei ama un altro», ammise con riluttanza Tori.«Jaka Sculi», rifletté ad alta voce Dohni, allentando leggermente la

presa. Era esattamente ciò che aveva sospettato, e cioè che i sentimentidi Meralda per Jaka fossero molto profondi o che almeno lei licredesse tali. Dohni conosceva Jaka abbastanza bene da capire chequel ragazzo era più apparenza che sostanza, ma non era cieco ed eraanche consapevole del fatto che quasi tutte le ragazze del villaggioerano affascinate da quel giovane dall'aria tenebrosa.

«Se dovesse immaginare che te l'ho detto mi ucciderà», cominciò asupplicare Tori, ma suo padre la interruppe con un altro rudescrollone, il volto atteggiato a un'espressione che lei non vi aveva maivisto, ma che era certa fosse la stessa a cui Meralda si era trovatadavanti quel pomeriggio.

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«Credi che sia tutto un gioco?» la rimproverò Dohni, poi la lasciòandare quando lei scoppiò a piangere e ingiunse: «Tieni la bocca chiusacon tua madre e tua sorella».

«Dove stai andando?»«Farò quello che deve essere fatto e non sono tenuto a renderne

conto alle mie figlie», ribatté Dohni, poi la costrinse a girarsi e leassestò una spinta verso la casa.

Più che disposta ad allontanarsi da lui, Tori si mise a correre eoltrepassò la porta senza guardarsi indietro.

Dohni invece indugiò a contemplare la strada vuota che portava alcastello dove la figlia maggiore, la sua splendida Meralda, stavabarattando il proprio cuore e il proprio corpo per l'interesse dellafamiglia, e d'un tratto fu assalito dal desiderio di correre fino alCastello di Auck e di strozzare Lord Feringal con le sue mani. Poi peròaccantonò quel pensiero e ricordò a se stesso che c'era un altrogiovane pretendente che doveva essere fatto oggetto della suaattenzione.

***

Fermo sulla spiaggia rocciosa di fronte all'isola su cui sorgeva ilCastello di Auck, Jaka Sculi guardò l'elegante carrozza percorrere ilponte ed entrare nel castello, consapevole di chi ci fosse a bordo ancorprima di vedere Meralda scomparire all'interno della dimoranobiliare, una vista che gli fece ribollire il sangue e gli contrasse lostomaco.

«Dannazione a te!» ringhiò, protendendo il pugno verso il castello.«Dannazione, dannazione, dannazione! Troverò una spada per ferireil tuo cuore come tu hai ferito il mio, malvagio Feringal! E quale gioianel vedere il tuo sangue chiazzare il suolo sotto di te, nel sussurrare neltuo orecchio morente che alla fine a me, e non a te, ha arriso lavittoria! E tuttavia, o sventura, non posso farlo!» esclamò poi,

dondolandosi sulle rocce umide e calandosi un braccio sulla fronte. «Osventura!» gemette quindi di nuovo, sollevandosi a sedere e tastandosila fronte con le dita. «Una febbre è su di me! Una febbre causata da

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La notizia colse in certa misura Meralda di sorpresa e la indusse arivedere la sua prima impressione relativa alla signora del Castello diAuck, perché chiunque poteva curare un giardino con tanta attenzionee amore da portarlo a un simile livello di bellezza doveva per forza

possedere qualche qualità positiva.«Tu non vieni mai qui?» chiese quindi, girandosi a guardare ilgiovane nobile.

Feringal scosse le spalle e sorrise con aria contrita, come se fossestato imbarazzato ad ammettere che di rado si avventurava in quelluogo.

«Non credi dunque che sia bello?» insistette Meralda.

«Di certo non è più bello di te», dichiarò Feringal, avvicinandosi eprendendole la mano nella sua.

Decisamente più audace di quanto lo fosse stata in occasione delloro primo incontro, Meralda si liberò dalla sua stretta.

«Ma questo giardino...» ribadì, «questi fiori con le loro forme e iloro profumi... non li trovi splendidi?».

«Certamente», fu pronto a rispondere Feringal, e Meralda si reseconto che aveva parlato soltanto per compiacerla.

«Ma guardalo!» esclamò in tono di rimprovero. «Non continuare afissare me, guarda i fiori e la bellezza creata dall'eccellente lavoro ditua sorella. Vedi come vivono insieme? Come un fiore fa spazio a unaltro e sono tutti vicini senza però coprirsi a vicenda la luce del sole?»

Infine Lord Feringal si decise a distogliere lo sguardo da lei percontemplare la miriade di fiori e sul suo volto si diffuse una stranaespressione, come se avesse appena avuto una rivelazione.

«Lo vedi?» chiese ancora Meralda, dopo una lunga pausa di silenzio.Per qualche momento ancora Feringal continuò a osservare i colori

che li circondavano, poi tornò a guardare verso Meralda conun'espressione meravigliata negli occhi.

«Ho vissuto qui per tutta la mia vita», disse, «e in tutti questi anni,anzi decenni, il giardino è sempre stato qui senza però che io lo vedessimai davvero. Ci sei voluta tu per mostrarmi la sua bellezza».

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Fattosi più vicino a Meralda le prese la mano nella propria e sichinò a baciarla con gentilezza, senza l'insistente passione del loroprecedente incontro.

«Grazie», mormorò infine, nel ritrarsi da lei.Meralda riuscì a sfoggiare un debole sorriso di risposta.«Dovresti ringraziare tua sorella», osservò poi. «Ci è voluto molto

lavoro per ottenere questo risultato.»«Lo farò», promise Lord Feringal, senza troppa convinzione.Sorridendo di nuovo, Meralda tornò a concentrare la propria

attenzione sul giardino e a pensare a quanto sarebbe stato bello poter

passeggiare lì con Jaka accanto; poi però il giovane nobile innamoratole si fece più vicino, posandole le mani sulle spalle, e lei non riuscì amantenere viva quella fantasia; concentrandosi invece sui fiori, si disseche se fosse riuscita a perdersi nella loro bellezza e a contemplarli finoa quando il sole non fosse scomparso e poi ancora sotto la morbidaluce della luna, forse sarebbe stata in grado di sopravvivere a quellanotte.

Feringal, dal canto suo, fu abbastanza considerato da permetterleper molto tempo di guardarsi intorno in assorto silenzio; poi il soletramontò e con il levarsi della luna, che pure era al massimo dellapienezza, il giardino perse parte della sua magia, tranne per i profumiche continuarono a mescolarsi con il sentore salmastro dell'aria.

«Questa notte non vuoi proprio guardarmi?» chiese infine Feringal,inducendola con gentilezza a girarsi verso di lui.

«Stavo pensando», replicò Meralda.«Dimmi a cosa pensavi», la incitò lui.«Erano solo pensieri sciocchi», si schermì Meralda, scrollando le

spalle.Lord Feringal però s'illuminò in viso, sfoggiando un ampio sorriso.«Scommetto che stavi pensando che sarebbe splendido poter

passeggiare ogni giorno fra questi fiori», azzardò, «poter venire quiogni volta che ne avessi voglia, sotto il sole o sotto la luna, perfino ininverno, per contemplare le acque fredde e gli iceberg che si formanonel nord».

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Meralda evitò saggiamente di confutare apertamente quellasupposizione o di aggiungere che avrebbe potuto pensare a una cosadel genere soltanto se accanto avesse avuto un altro uomo, il suo Jaka,e non Lord Feringal.

«Ma tu puoi avere tutto questo», continuò intanto Feringal,eccitato. «Sai, lo puoi avere, tutto questo e molto di più.»«Quasi non mi conosci», esclamò la ragazza, prossima al panico e

incapace di credere a quello che stava sentendo.«Oh, invece ti conosco, mia Meralda», dichiarò Feringal, lasciandosi

cadere su un ginocchio e prendendole una mano nella propria per poiaccarezzarla gentilmente con l'altra. «Ti conosco perché ti ho cercata

per tutta la vita.»«Stai dicendo assurdità», borbottò Meralda, ma Feringal continuò

imperterrito la propria dichiarazione.«Mi ero chiesto se avrei mai potuto trovare una donna capace di

rubarmi in questo modo il cuore», disse, dando a Meraldal'impressione di parlare più a se stesso che a lei. «Naturalmente mi sonostate presentate altre donne e sono molti i mercanti che vorrebbero

crearsi un rifugio sicuro in Auckney dandomi in moglie una delle lorofiglie, ma nessuna mi ha mai conquistato», continuò, rialzandosi confare drammatico e avvicinandosi al muro. «Nessuna», ripeté, girandosia guardarla negli occhi, «fino a quando non ho scorto quella visionechiamata Meralda. Nel profondo del mio cuore so che in tutto ilmondo non c'è un'altra donna che preferirei avere come moglie».

Meralda balbettò qualche parola incoerente, sconvoltadall'immediatezza di quella dichiarazione e dalla semplice rapidità concui il nobile stava cercando di accelerare i tempi del corteggiamento, ementre rimaneva lì ferma a cercare qualcosa da replicare lui l'abbracciòe riprese a baciarla con crescente passione, premendo le labbra sullesue e accarezzandole la schiena con le mani.

«Devo averti», mormorò, spingendola all'indietro al punto che leiquasi perse l'equilibrio.

Insinuando un braccio in mezzo a loro, Meralda sbatté con forza ilpalmo contro la faccia di Feringal e lo costrinse a indietreggiare di unpasso; si era però appena liberata che lui tornò a incalzarla.

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«Per favore, Meralda!» gridò. «Il sangue mi bolle nelle vene!»«Dici di volermi come moglie ma mi tratti come una sgualdrina!»

gridò lei di rimando. «Nessun uomo sposa una donna che ha giàposseduto», aggiunse, ora in tono di supplica.

«Ma perché?» domandò con sincera perplessità Lord Feringal,arrestandosi di colpo. «Dopo tutto ti desidero per amore, quindi nonc'è nulla di male. Il sangue mi bolle e il cuore mi scoppia nel petto perquanto ti desidero.»

Meralda si guardò intorno disperatamente alla ricerca di una via difuga, che le venne offerta da una fonte inaspettata.

«Chiedo scusa, mio signore», interloquì una voce proveniente dallaporta, e nel girarsi i due videro il Siniscalco Temigast uscire dal castello.«Ho sentito un grido e ho temuto che uno di voi potesse esserescivolato.»

«Ora che hai visto che non è così puoi andartene», ribatté Feringal,esasperato, agitando una mano in un cenno di congedo e tornando agirarsi verso Meralda.

Per un lungo momento il Siniscalco Temigast indugiò a osservarecon aria comprensiva il volto pallido e spaventato della ragazza.

«Mio signore», osservò poi con calma, «se sei effettivamenteintenzionato a sposare questa donna devi trattarla come una signora.L'ora è ormai tarda», continuò, «e senza dubbio la famiglia Ganderlayaspetta il ritorno di questa sua figlia. Faccio preparare la carrozza».

«Non ancora!» fu pronto a esclamare Lord Feringal, prima ancorache Temigast avesse avuto il tempo di girarsi. «Per favore», aggiunse, intono più calmo e pacato, rivolto al siniscalco ma soprattutto aMeralda. «Non possiamo aspettare ancora un poco?»

Temigast guardò verso Meralda, che annuì con riluttanza.«Tornerò presto a prenderti», le garantì il siniscalco, e rientrò nel

castello.«Bada che non intendo sopportare oltre le tue assurdità», lo

ammonì allora Meralda, resa più sicura dalla nota di supplica contritache aveva avvertito nella voce del suo giovane corteggiatore.

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«Per me è molto difficile, Meralda», cercò sinceramente di spiegarelui, «più difficile di quanto tu possa capire. Penso continuamente a te,e attendo con impazienza il giorno in cui ci sposeremo e tu ti doneraicompletamente a me».

Meralda non seppe cosa rispondere e per un momento dovette fareun notevole sforzo per evitare che un'espressione irosa le apparisse sulvolto. Poi però pensò a sua madre e ricordò una conversazione che leera capitato di sentire fra suo padre e un'amica di famiglia, che avevapredetto in tono triste che Biaste non sarebbe probabilmentesopravvissuta all'inverno se non si fosse riusciti a procurarle una casamigliore o un chierico o un guaritore che la risanasse.

«Ti garantisco che non intendo aspettare a lungo», continuò intantoLord Feringal. «Questa notte stessa dirò a Priscilla di cominciare ipreparativi.»

«Non ho neppure detto di essere disposta a sposarti!» stridette conun filo di voce Meralda.

«Ma è ovvio che lo farai», replicò in tutta sicurezza Feringal. «Tuttoil villaggio presenzierà alla cerimonia e sarà una festa che resterà pertutta la vita nel cuore e nella memoria di quanti vi parteciperanno.Quel giorno, Meralda, sarai tu quella che gioirà più di tutti», proseguì,avvicinandosi e prendendole la mano, questa volta però con faregentile e rispettoso. «Fra anni... no, decenni... le donne del villaggioparleranno ancora della bellezza della sposa di Lord Feringal.»

Meralda non poté negare di sentirsi commossa dalla sincerità diquell'uomo e alquanto eccitata alla prospettiva di un matrimoniograndioso come quello descritto da Feringal, un matrimonio di cui adAuckney si sarebbe parlato per anni a venire. Quale donna avrebbepotuto non desiderare una cosa del genere?

E tuttavia non poteva negare con se stessa che per quanto l'idea diquello splendido matrimonio la allettasse, il suo cuore apparteneva aun altro. A poco a poco stava cominciando a vedere un altro lato delcarattere di Lord Feringal, a scoprire in lui la natura di un uomo onestoe gentile, sepolta forse sotto la coltre dell'educazione nobiliare che

aveva ricevuto, ma nonostante questo non riusciva semplicemente adimenticare per un solo momento che Lord Feringal non era Jaka.

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Di lì a poco il Siniscalco Temigast tornò per annunciare che lacarrozza era in attesa, e per quanto pronta ad andarsene Meralda nonfu abbastanza veloce da riuscire a schivare un altro tentativo delgiovane nobile di rubarle un bacio.

La cosa però non ebbe molta importanza per Meralda, che stavacominciando a vedere la situazione con chiarezza: comprendeva benequale fosse la sua responsabilità nei confronti della sua famiglia ed eradecisa ad anteporla a ogni altra cosa.

Nonostante questo il tragitto in carrozza oltre il ponte e lungo lastrada polverosa parve interminabile a causa dei pensieri e delleemozioni in conflitto che la tormentavano fino a farle girare la testa.

Anche quella sera chiese al conducente di lasciarla a una certadistanza da casa e dopo essersi tolta le scomode scarpe che Temigast leaveva inviato insieme al vestito si incamminò scalza lungo il viottolosotto la luce della luna. Troppo confusa dagli eventi di quella sera edalla prospettiva di essere prossima a sposarsi, non era quasiconsapevole di cosa la circondasse e non stava neppure sperando,come in occasione del suo primo invito al castello, di poter incontrareJaka sulla strada, quindi venne colta del tutto alla sprovvista quando ilgiovane le apparve davanti all'improvviso.

«Cosa ti ha fatto?» le chiese, prima ancora che lei avesse anche soloil tempo di salutarlo.

«Fatto?» ripeté Meralda sconcertata.«Cosa ti ha fatto?» ripeté Jaka. «Sei rimasta là a lungo.»«Abbiamo passeggiato nel giardino», rispose lei.

«Soltanto passeggiato?» insistette Jaka, e la sua voce assunse unanota tagliente che lasciò Meralda sconcertata.«Cosa stai pensando?» si azzardò infine a domandare.Jaka le volse le spalle con un profondo sospiro.«Non sto pensando, ed è questo il problema», gemette. «Quale

incantesimo hai lanciato su di me, Meralda? Oh, sono stregato, e soche Feringal deve sentirsi nello stesso modo», aggiunse, tornando agirarsi verso di lei. «Quale uomo potrebbe restare insensibile?»

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Sul volto di Meralda apparve un luminoso sorriso che però nondurò a lungo quando lei cominciò a chiedersi per quale motivo Jaka sistesse comportando in maniera così strana, perché d'un tratto simostrasse innamorato mentre fino ad allora non aveva mai

manifestato simili sentimenti.«Ti ha avuta?» domandò poi lui, facendosi molto vicino. «Glielo haipermesso?»

Quella domanda colpì Meralda come se lui l'avesse sferzata inpieno volto con un asciugamano bagnato.

«Come puoi chiedermi una cosa del genere?» protestò.Jaka si lasciò cadere in ginocchio davanti a lei e le prese le mani

nelle proprie, premendosele contro le guance.«Perché a pensarti con lui mi sento morire», dichiarò.Meralda sentì le ginocchia che minacciavano di cederle e lo

stomaco che le si contraeva: era troppo giovane e inesperta per poterdare un senso a tutto questo, alla prospettiva di un matrimonio, agliestremi del comportamento di Lord Feringal che passava dal cortese alpassionale, e tanto meno a questa improvvisa trasformazione di Jakain un pretendente innamorato.

«Io...» cominciò, incerta, poi proseguì più decisa. «Non abbiamofatto nulla. Oh, lui mi ha rubato un bacio, ma non l'ho ricambiato.»

Jaka sollevò lo sguardo su di lei con un sorriso che in certa misura laspaventò, poi le si fece più vicino e le sfiorò le labbra con le proprie,accendendo una miriade di fuochi nel suo corpo. Le sue mani preseroa scivolarle sul corpo e lei non provò timore, almeno non come neaveva provato con il suo nobile corteggiatore... no, questa voltal'esperienza era eccitante, ma respinse ugualmente da sé il giovane.

«Vuoi negare l'amore che proviamo uno per l'altra?» esclamò Jaka,in tono ferito.

«Qui non si tratta dei nostri sentimenti», cercò di spiegare Meralda.«È ovvio che si tratta di questo», insistette il giovane in tono

sommesso, tornando ad avvicinarsi. «È la sola cosa che conti.»Poi la baciò di nuovo con gentilezza e Meralda scoprì di credergli:

in quel momento la sola cosa al mondo che avesse importanza erano

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i sentimenti che lei e Jaka provavano uno per l'altra. Senza quasirendersene conto ricambiò il bacio, scivolando sempre più inprofondità in un abisso di gioia.

Poi Jaka venne allontanato bruscamente da lei e nel riaprire gliocchi Meralda lo vide cadere a terra, trovando invece di fronte a sé uninfuriato Dohni Ganderlay.

«Sei dunque una stupida?» chiese questi, sollevando un bracciocome per colpirla, poi però sul suo volto apparve un'espressioneaddolorata e si affrettò ad abbassare la mano, limitandosi ad afferrarerudemente la figlia per una spalla e a costringerla a girarsi verso casa.Dopo averle assestato una spinta in quella direzione, Dohni si girò

verso Jaka, che sollevò le mani davanti alla faccia in un gesto di difesae si gettò di lato, cercando di fuggire.«Pà, non lo picchiare!» gridò Meralda, e quella supplica fu la sola

cosa che arrestò Dohni.«Sta' lontano dalla mia ragazza», ammonì, rivolto a Jaka.«Io l'amo...» accennò a ribattere il giovane.«Troveranno il tuo corpo infranto sulla spiaggia», minacciò Dohni.Poi un altro grido di Meralda lo indusse a girarsi di scatto verso di

lei con fare altrettanto minaccioso.«A casa!» ingiunse, e Meralda si allontanò di corsa senza neppure

fermarsi a raccogliere la scarpa che le era caduta di mano quando suopadre l'aveva spinta.

Quando se ne fu andata, Dohni tornò a voltarsi verso Jaka e i suoiocchi arrossati dall'ira e dalle notti insonni furono la cosa piùspaventosa che il giovane avesse mai visto. Rialzatosi di scatto Jakacercò di fuggire, ma prima che avesse mosso tre passi Dohni lo afferròalle ginocchia e lo fece cadere prono al suolo.

«Meralda ti ha chiesto di non picchiarmi!» implorò il giovane,terrorizzato.

«Meralda non sa cosa è meglio per lei», ribatté Dohni con unringhio nella voce, facendoglisi sopra e girandolo rudemente supino,poi il suo pugno calò sulla testa del giovane, spingendola di scatto daun lato.

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Jaka cominciò a urlare e ad agitare selvaggiamente le braccia neltentativo di difendersi, ma i colpi continuarono a superare la sua goffaguardia e gli gonfiarono gli occhi e le labbra, staccarono un dente dalsuo sorriso perfetto e fecero affiorare lividi bluastri sulle guance

abitualmente rosee. Alla fine Jaka ebbe abbastanza buon senso daincrociare le braccia a protezione del volto malconcio ma Dohni, chenon aveva ancora sfogato tutta la propria rabbia, si limitò a mirare piùin basso tempestandogli di pugni il torace, e ogni volta che il ragazzoprovò ad abbassare un braccio per intercettarlo ne approfittò perlasciargli altri lividi sul volto già devastato.

Alla fine Dohni si sollevò dalla sua vittima e l'afferrò per il davantidella camicia, issandola in piedi con un singolo, violento strattone, poila vista di Jaka che protendeva le mani davanti a sé in segno di resa loindusse a reagire a quell'atto di codardia con un ultimo, brutale gancioalla mascella che scaraventò di nuovo il giovane al suolo;risollevatolo, Dohni trasse indietro il braccio per colpire ancora, ma ilgemito piagnucolante di Jaka lo indusse a pensare a Meralda eall'inevitabile espressione che le sarebbe apparsa sul volto quando luifosse rientrato in casa con le nocche sporche di sangue, e invece di

sferrare il pugno afferrò Jaka con entrambe le mani, facendolo giraresu se stesso e spingendolo via.«Ora vattene!» gli ringhiò, «e non farti più pescare intorno alla mia

ragazza».Jaka emise un sonoro gemito e si allontanò incespicando nel buio.

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CAPITOLO IXIL FONDO DELLA BOTTE

Robillard si grattò il mento con preoccupazione nel vedere Wulfgare Morik percorrere il vicolo in direzione della porta principale dellaScimitarra, perché Deudermont era ancora dentro e la cosa nonandava molto a genio al mago in considerazione dell'attività cheaveva notato fuori dalla taverna. Robillard aveva infatti visto unsoggetto dall'aria poco raccomandabile uscire sulla strada e pagare un

monello, senza dubbio perché gli facesse da messaggero, e poco dopoaveva di nuovo visto quello stesso soggetto... una figura davveroinsolita, uscire di nuovo dalla Scimitarra e allontanarsi nell'ombra.

Di lì a poco Wulfgar era sopraggiunto insieme a un uomo bassodalla carnagione bruna, e Robillard non era rimasto sorpreso nelloscorgere lo stesso monello di poco prima che sbirciava fuori dal vicoloa una certa distanza da loro, senza dubbio in attesa dell'opportunità ditornare al suo posto di lavoro abituale.

Una volta messi insieme tutti quei fatti e dopo averli conditi conuna salutare dose di sospettosità, Robillard si rese conto di quello chestava succedendo. Giratosi verso la porta lanciò un sempliceincantesimo e protese la mano come per afferrare l'aria, inducendo ilbattente a spalancarsi.

«Mastro Micanty!» chiamò, usando un altro incantesimo peramplificare la propria voce. «Prendi un paio di uomini, avverti laguardia cittadina e precipitati più in fretta che puoi alla Scimitarra,nella Strada della Mezzaluna.»

Con un ringhio il mago invertì quindi il suo primo incantesimo erichiuse con fragore la porta per poi tornare a concentrarsi sulleimmagini offerte dalla sfera di cristallo e in particolare sulla portaprincipale della Scimitarra; dopo qualche istante spostò lo sguardoall'interno del locale e vide Deudermont appoggiato con calma al

bancone.

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Trascorsero alcuni minuti senza che succedesse nulla e in queltempo Robillard riportò il proprio sguardo magico all'esterno per iltempo necessario a constatare che Wulfgar e il suo piccolo amico sitenevano annidati nell'ombra, come se stessero aspettando qualcosa.

Il mago accennò a spostare di nuovo lo sguardo all'interno, e inquello stesso momento Deudermont si diresse verso l'uscita dellataverna.

«Micanty, fa' presto», mormorò il mago, ma dentro di sé sapeva cheper quanto fosse ben addestrata, la guardia cittadina non sarebbearrivata in tempo e che sarebbe toccato a lui intervenire in qualchemodo. In fretta, progettò il percorso da seguire, con una porta

dimensionale che sboccasse all'estremità dei moli e un'altra che siaprisse nel vicolo alle spalle della Scimitarra. Un'ultima occhiata allasfera di cristallo mostrò che Deudermont stava uscendo dal locale eche Wulfgar e l'altro uomo si stavano dirigendo verso di lui, poiRobillard interruppe ogni contatto con la sfera e aprì la prima portadimensionale.

***

Accoccolato nell'ombra sulla sommità del tetto accanto a CreepsSharky, il selvaggio mezzo- qullan si portò la cerbottana alle labbra nelmomento stesso in cui Deudermont uscì dalla taverna.

«Non ancora», ordinò però Creeps, afferrando l'arma eabbassandola. «Lascia prima che parli con Wulfgar e con Morik, e che

arrivi abbastanza vicino perché la mia pietra possa eliminare qualsiasiprotezione magica apposta su di lui. Gli altri devono vedere quei treinsieme prima che Deudermont muoia e nel momento in cui luicomincerà ad accasciarsi.»

Interrompendosi, il pirata si umettò le labbra con impazienteattesa.

«Loro si prendono la colpa e noi il bottino», aggiunse.

***

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«Wulfgar», salutò il Capitano Deudermont nel vedere il barbaro e il

suo compagno uscire dall'ombra e avvicinarsi con passo deciso. «I mieiuomini mi hanno detto che sei venuto alFolletto del Mare».

«Non perché lo desiderassi», borbottò Wulfgar, ottenendo così unagomitata da Morik.

«Hai detto di rivolere il tuo martello da guerra», gli ricordò poi amezza voce il piccolo furfante.

Quello che però Morik stava pensando in effetti era che questapoteva essere per lui l'occasione perfetta per apprendere qualcosa dipiù sul conto di Deudermont, sulle protezioni di cui godeva esoprattutto sulle sue debolezze. Quando aveva rintracciato lui e

Wulfgar ai moli, il monello aveva consegnato loro la piccola saccadallo strano contenuto e spiegato che il Capitano Deudermontdesiderava vederli davanti alla Scimitarra, nella Strada dellaMezzaluna. Di nuovo Morik aveva parlato a Wulfgar del potenzialeguadagno che potevano ricavare dalla cosa, ma aveva lasciato cadereimmediatamente l'argomento nel vedere l'amico accigliarsipericolosamente; dentro di sé aveva però deciso di portare avanticomunque il progetto da solo se Wulfgar si fosse rifiutato di aiutarlo,perché anche se non aveva nulla contro Deudermont e di solito nonera tipo da commettere assassinii, questa volta la posta in gioco eratroppo grande per poter essere ignorata e secondo il suo modo divedere a cose fatte Wulfgar non avrebbe certo avuto da ridire quandosi fosse trovato a vivere nel lusso, disponendo degli alloggi migliori,del cibo più prelibato, del liquore più pregiato e delle prostitute più

belle.Annuendo, Wulfgar avanzò fino a fermarsi davanti a Deudermont,anche se non accettò la mano che questi gli stava porgendo.

«Che cosa sai?» domandò.«Soltanto che sei venuto ai moli e che ti sei fermato a guardare

verso Waillan Micanty», rispose Deudermont. «Ho supposto chevolessi parlarmi.»

«Tutto quello che voglio da te sono informazioni relative adAegis-fang», replicò in tono cupo il barbaro.

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«Il tuo martello?» chiese Deudermont, guardandolo con ariaincuriosita come se si fosse reso conto soltanto allora che lui non avevacon sé la sua arma.

«Il ragazzo ha detto che avevi delle informazioni», interloquì Morik,a titolo di spiegazione.

«Il ragazzo?» ripeté il capitano, sempre più confuso.«Quello che mi ha consegnato questa», precisò Morik, esibendo la

sacca.Deudermont allungò una mano come per prenderla ma poi si

arrestò a metà del gesto nel vedere Robillard emergere di corsa da unvicolo laterale.

«Fermo!» gridò il mago.Nello stesso momento Deudermont avvertì un'acuta puntura su un

lato del collo e protese istintivamente una mano per verificarne lacausa, ma prima che le sue dita si potessero chiudere intorno all'artigliodi gatto una fitta oscurità calò su di lui e le ginocchia gli si piegarono.

D'impulso Wulfgar scattò in avanti per sorreggerlo ma Robillardlanciò un urlo e scatenò contro di lui un attacco magico, protendendoun bastone e colpendo il grosso barbaro in pieno petto con una bolladi una sostanza appiccicosa che lo scaraventò all'indietro contro laparete della Scimitarra e lo tenne incollato contro di essa. Morikintanto si girò e si diede alla fuga.

«Capitano! Capitano!» gridò Robillard, e scagliò un altro globoappiccicoso verso Morik.

L'agile ladro fu però troppo rapido per lui e riuscì a schivare quellostrano proiettile nell'imboccare un altro vicolo, dove dovette quasiimmediatamente cambiare direzione perché dall'estremità oppostastavano arrivando due guardie cittadine, munite di torce e con laspada sguainata. Nonostante tutto Morik mantenne peraltro lalucidità mentale quanto bastava per gettare in un canale di scolo ilsacchetto che il ragazzo gli aveva dato prima di svoltare in un altrovicolo.

Contemporaneamente la Strada della Mezzaluna parve esploderein una frenesia di movimento, con guardie cittadine e marinai del

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Folletto del Mare che sbucavano da ogni direzione possibile eimmaginabile.

Bloccato contro la parete della Scimitarra, Wulfgar stava intantolottando per riuscire a respirare e quella situazione fece precipitare dinuovo la sua mente nel grigiore dell'Abisso, evocando il ricordo dialcune magie simili a quella che il demone Errtu aveva usato pertenerlo immobile e impotente davanti ai suoi diabolici seguaci. Quellavisione generò in lui un'ira intensa che a sua volta gli alimentò le forzeal punto da permettergli di ritrovare l'equilibrio e di arrivare a staccareun'asse dalla parete dell'edificio nei suoi titanici sforzi per liberarsi.

Robillard, che stava ululando di frustrazione e di preoccupazione

inginocchiato accanto a Deudermont, che quasi non respirava, siaccorse della cosa e lo colpì con un altro globo appiccicoso, tornandoa incollarlo alla parete.

«Lo hanno ucciso!» gridò poi alle guardie. «Prendete quel piccoloratto!»

***

«Andiamo», disse Tee-a-nick-nick, non appena Deudermontcominciò ad accasciarsi.

«Colpiscilo ancora», chiese Creeps.«Una volta basta», ribatté però il mezzo-qullan, scuotendo il capo.

«Andiamo.»Nel momento in cui lui e Creeps accennavano ad avviarsi, però, le

guardie calarono sulla Strada della Mezzaluna e su tutti gli altri vicolidella zona, quindi Creeps guidò l'amico verso l'ombra proiettata da unabbaino di un edificio dove lasciarono la cerbottana e il veleno primadi spostarsi verso un altro abbaino e di sedersi con le spalle addossateal muro. Creeps tirò quindi fuori una bottiglia di liquore e i duecominciarono a bere, fingendo di essere in uno stato di totaleubriachezza.

Entro pochi minuti tre guardie si issarono oltre il bordo del tetto e si

avvicinarono, ma dopo aver dato loro una superficiale occhiata siallontanarono con aria disgustata, quando un grido proveniente dal

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«Capitano!» esclamò Waillan Micanty, sopraggiungendo in quelmomento, e si lasciò cadere in ginocchio accanto a Deudermontmentre Robillard gli posava una mano sulla spalla in un gesto diconforto e si girava a fissare Morik con occhi roventi.

«Sono innocente», dichiarò il piccolo ladro, ma proprio in quelmomento da uno dei vicoli giunse un grido e di lì a poco una guardiatornò indietro di corsa con una piccola sacca in mano.

Subito Robillard l'aprì e ne estrasse innanzitutto la pietra, intuendosubito di cosa si trattasse perché aveva vissuto durante il Periodo deiDisordini i e sapeva che nel mondo c'erano regioni morte alla magia eche pietre provenienti da quelle aree potevano annullare qualsiasi

magia presente intorno a esse. Se la sua supposizione era esatta, questopoteva spiegare come mai Morik e Wulfgar avessero sopraffatto contanta facilità gli incantesimi da lui apposti sul capitano.

L'oggetto successivo che estrasse dalla sacca fu un artiglio di gatto.Tenendolo bene in vista, il mago spostò con fare esplicito lo sguardoda Morik e dalle guardie a quello strano oggetto e al collo diDeudermont, poi esibì un identico artiglio che aveva estratto dallaferita del capitano.

«Altro che innocente», commentò quindi in tono asciutto,inarcando un sopracciglio.

«Odio i maghi», borbottò fra sé Morik.Un verso inarticolato da parte di Wulfgar indusse quindi tutti a

girarsi verso di lui: adesso che gli era stata liberata la faccia il grossobarbaro stava tossendo e sputando per liberare la bocca da pezzi diquella sostanza appiccicosa, e non appena cominciò a riprendersiemise un ruggito di rabbia e prese a dibattersi con tale feroce violenzada far tremare tutto l'edificio della Scimitarra con i suoi strattoni.

Guardandosi intorno, Robillard si accorse allora che ArumnGardpeck e parecchi altri erano usciti dal locale e stavano osservandocon occhi increduli la scena che avevano davanti; dopo un momento iltaverniere si avvicinò a Wulfgar e indugiò a guardarlo scuotendo contristezza il capo.

«Che cosa hai fatto?» gli chiese infine.«Nulla di buono, come al solito», commentò Josi Puddles.

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«Conosci quest'uomo?» chiese Robillard ad Arumn, avvicinandosi eindicando Wulfgar con un cenno del capo.

«Ha lavorato per me fin da quando è arrivato a Luskan, laprimavera scorsa», spiegò Arumn, «finché...».

Esitando, il taverniere lasciò la frase in sospeso e tornò a guardareverso il grosso barbaro, scuotendo il capo.

«Finché?» lo incitò Robillard.«Finché lui ha cominciato a essere troppo pieno di rabbia nei

confronti del mondo intero», fu pronto a interloquire Josi Puddles.«Verrete convocati per testimoniare contro di lui davanti ai

magistrati», affermò Robillard. «Tutti e due.»Arumn annuì con riluttanza mentre Josi si mostrò ben felice dicollaborare; fin troppo felice, come Robillard osservò fra sé purdovendo ammettere di dover essere grato a quel piccolo miserabile.

Di lì a poco sopraggiunse di corsa una schiera di preti, il cui numeroe la cui fretta nell'intervenire potevano già di per sé essere consideratiun indice della grande reputazione di cui il Capitano Deudermontgodeva come cacciatore di pirati, e nell'arco di alcuni minuti il feritovenne portato via su una lettiga.

Sulla cima di un tetto vicino, Creeps Sharky sorrise soddisfatto nelporgere a Tee-a-nick-nick la bottiglia vuota.

***

Le prigioni di Luskan erano adiacenti al porto ed erano costituite daun fangoso labirinto di grotte dalle dure e irregolari pareti di roccia.Fuochi tenuti perennemente accesi davano a quel posto unatemperatura intollerabile e levavano nell'aria veli di vapore, creandostrati di umidità dovunque l'aria calda entrasse in collisione con quellafredda che proveniva dalle vicine acque della Costa delle Spade. Lecelle effettive erano poche, per lo più riservate a prigionieri politici checostituivano una minaccia per le famiglie governanti e per i mercantipiù potenti, e che avrebbero potuto diventare ancor più pericolosi sefossero stati trasformati in martiri, in quanto la maggior parte dei

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prigionieri non rimaneva reclusa molto a lungo perché destinata benpresto a cadere vittima della macabra, brutale ed efficiente Gogna deiPrigionieri.

La cella comune di questo gruppo che variava di continuo eracostituita da coppie di manette fissate alla parete abbastanza in alto dacostringere la vittima a stare in punta di piedi, dolorosamente appesaper le braccia, una tortura a cui si andava a sommare l'operato deicarcerieri, grossi bruti per lo più per metà orchi, che si aggiravano conpasso lento e metodico per il complesso brandendo ferri arroventati.

«Questo è tutto un equivoco, dovete capirlo», si lamentò Morik,quando l'ennesimo carceriere si diresse verso lui e Wulfgar.

Il grosso bruto scoppiò in una lenta risatina simile allo stridere didue pietre una contro l'altra e con indifferenza protese l'estremitàrovente di un attizzatoio verso il ventre di Morik. Agile, il piccololadro si proiettò di lato esercitando la massima tensione possibile sulbraccio incatenato ma nonostante questo subì comunque unadolorosa ustione al fianco; il carceriere dal canto suo non controllòneppure se aveva centrato o meno il bersaglio e si avvicinò a Wulfgarcontinuando a ridacchiare.

«E tu cos'hai da dire?» chiese, protendendosi verso il barbaro einvestendolo in volto con il suo alito fetido. «Sei innocente anche tu,eh? Non meriti di essere imprigionato, vero?»

Inespressivo in volto, Wulfgar continuò a tenere lo sguardo fissodavanti a sé e quasi non sussultò neppure quando il grosso bruto glisferrò un pugno nello stomaco o quando il ferro arroventato entrò incontatto con la tenera pelle dell'ascella, sollevando una sottile volutadi fumo.

«Un duro», commentò il carceriere con un'altra risatina. «Sono i piùdivertenti.»

Sollevato l'attizzatoio all'altezza del volto di Wulfgar, cominciòquindi ad avvicinarlo con lentezza a un occhio.

«Oh, adesso sì che ti sentiremo urlare», commentò.

«Ma non siamo ancora neppure stati processati!» esclamò Morik intono di protesta.

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«Credi che abbia importanza?» ribatté il carceriere, fermandosisoltanto per il tempo necessario a girarsi a guardarlo con un sorrisosarcastico. «Siete tutti colpevoli per principio anche se non lo sietedavvero.»

Quelle parole colpirono Wulfgar come una profonda verità: quellaera la vera faccia della giustizia. Il suo sguardo si posò sul carcerierecome se lui lo stesse vedendo per la prima volta e rilevò la semplicesaggezza di quell'individuo, il suo punto di vista che derivava dalleosservazioni pratiche.

La saggezza dalla bocca degli idioti, pensò. Poi l'attizzatoio tornò ad avvicinarsi ma lui si limitò a fissare il

carceriere con uno sguardo di una calma assoluta e devastante,un'espressione derivante dalla sua assoluta sicurezza che quell'uomo,che tutti quegli stolti uomini mortali, non avrebbe potuto fargli nullache reggesse il confronto con le agonie che aveva sofferto per operadel demone Errtu.

Il carceriere parve cogliere quel messaggio, o almeno intuirlo inparte, perché esitò e trasse perfino indietro l'attizzatoio per studiaremeglio la sua espressione.

«Credi di poter resistere?» gli chiese. «Credi di poter mantenerequella faccia impassibile quando ti trafiggerò l'occhio?»

E tornò a protendere l'attizzatoio.Dalle labbra di Wulfgar scaturì un ringhio che proveniva da un

angolo molto profondo del suo essere, un suono primitivo che fecemorire le proteste sulle labbra di Morik e che derivava dai tormenti

che lui aveva subito nelle profondità dell'Abisso.Tendendo al massimo i muscoli del petto, il barbaro fece quindiappello a tutte le sue forze e protese una spalla in avanti con taleferoce violenza e velocità che l'ancoraggio della manetta si staccò dalmuro e volò in avanti, inducendo il carceriere a ritrarsi di scatto.

«Oh, ti ucciderò per questo!» esclamò il mezzo ogre, e riprese adavanzare brandendo l'attizzatoio come se fosse stato un randello.

Wulfgar però era pronto a riceverlo. Raccogliendosi su se stesso alpunto da girarsi quasi di nuovo verso il muro, fece descrivere un

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ampio arco al braccio libero in modo che la catena, il blocco dimetallo e la pietra ancora fissata a esso colpissero come una frustal'attizzatoio rovente e lo strappassero di mano al carceriere. Questi siaffrettò di nuovo a indietreggiare e Wulfgar si girò allora

completamente verso la parete, risalendola con le gambe in modo dapiantare saldamente i piedi ai lati della manetta rimanente.«Butta giù le pareti!» applaudì Morik.Il carceriere si girò e si diede alla fuga.Con un altro ringhio, Wulfgar si mise a tirare con tutte le sue forze,

tendendo ogni muscolo del corpo possente. Quell'ancoraggio era piùsaldo del precedente, la pietra della parete più solida intorno a esso,

ma la trazione da lui esercitata era tale che un anello della pesantecatena cominciò ad allargarsi.«Continua a tirare!» lo incitò Morik.

Wulfgar lo fece e un momento più tardi si trovò a volare lontanodalla parete, ruotando su se stesso in una capriola all'indietro per poirotolare a terra illeso. In quel momento però si sentì assalire daun'ondata d'angoscia più dolorosa e intensa di qualsiasi tortura che il

sadico carceriere avrebbe potuto escogitare, perché nella sua mente luinon era più nelle segrete di Luskan ma era di nuovo nell'Abisso, eanche se non era più in catene sapeva che non poteva esserci via difuga o vittoria contro i suoi onnipotenti catturatori. Quante volteErrtu lo aveva ingannato in quel modo, facendogli credere di esserelibero soltanto per tornare a intrappolarlo e trascinarlo di nuovo nelfetore e nella sporcizia, per percuoterlo, risanarlo e poi percuoterloancora?

«Wulfgar?» chiamò più volte Morik, in tono implorante, provandoinvano a tendere le proprie catene. «Wulfgar!»

Il barbaro però non poteva sentirlo e neppure vederlo perché eraperso nelle nebbie vorticanti dei propri pensieri: quando tornò conuna dozzina di colleghi, il carceriere lo trovò raggomitolato al suoloche tremava come un bambino.

Di lì a poco, percosso e malconcio, Wulfgar si trovò di nuovoappeso alla parete, questa volta con manette che avrebbero resistito aun gigante, catene spesse e solide che lo tenevano con i piedi sospesi a

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«Purtroppo, non ti posso promettere nulla», dichiarò la vecchia,sollevando le mani in un gesto teatrale. «Non avendo a disposizioneun campione del veleno, le mie erbe faranno quello che potranno.»

La donna si diresse quindi verso un angolo della stanza dove erastato situato un piccolo tavolo su cui potesse lavorare, e prese adarmeggiare con un assortimento di fiale, vasetti e bottiglie. Robillarddal canto suo spostò lo sguardo su Camerbunne che lo fissò a sua voltacon espressione avvilita: lui e i suoi chierici avevano lavoratoinstancabilmente su Deudermont nella giornata trascorsa da quandoera stato affidato alle loro cure, applicando incantesimi che avrebberodovuto neutralizzare il violento veleno che gli scorreva nel corpo.Quegli incantesimi avevano invece fornito soltanto un temporaneosollievo, rallentando l'azione del veleno e permettendo al capitano direspirare un po' meglio quando la febbre gli era calata leggermente.Deudermont non aveva però dato segni di ripresa da quando era statoattaccato e con il passare delle ore il suo respiro era tornato a farsirauco e irregolare, le gengive e gli occhi avevano preso a sanguinargli.Robillard non era un guaritore, ma aveva visto la morte da vicinoabbastanza spesso da essere consapevole che per il Capitano

Deudermont sarebbe stata la fine se non si fosse trovata al più prestouna soluzione.«Un veleno malvagio», commentò Camerbunne.«Senza dubbio si tratta di un'erba, né malvagia né maliziosa.

Un'erba è soltanto un'erba», ribatté Robillard.«In essa c'era un tocco di magia, buon mago, puoi esserne certo»,

obiettò però Camerbunne, scuotendo il capo. «I nostri incantesimi

sono in grado di sconfiggere qualsiasi veleno naturale, mentre questodeve essere stato preparato in modo speciale da un maestro e conl'aiuto della magia oscura.»

«Cosa possiamo fare?» chiese ancora il mago.«Possiamo continuare a riversare su di lui i nostri incantesimi e

cercare di offrire quanto più conforto possibile nella speranza che ilveleno esaurisca il suo effetto», spiegò Camerbunne. «E possiamo

sperare che la vecchia Gretchen trovi la giusta miscela di erbe perl'antidoto.»

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«Sarebbe più facile se avessi un campione del veleno», interloquì intono lamentoso la donna.

«E poi possiamo pregare», concluse Camerbunne.Quell'ultima affermazione fece apparire un'espressione accigliata sul

volto dell'ateo Robillard, che era governato dalla logica e da leggispecifiche e non indulgeva nella preghiera.

«Andrò a parlare con Morik il Furfante per sapere qualcosa di più suquesto veleno», decise infine il mago, con un ringhio nella voce.

«È già stato torturato», gli garantì Camerbunne, «ma dubito chesappia qualcosa. Senza dubbio si tratta di una sostanza che haacquistato da qualcuno».

«Torturato?» ripeté Robillard in tono scettico. «Qualche frustata equalche giro di ruota? No, quella non è tortura, è soltanto un sadicogioco. L'arte della tortura si fa quanto mai squisita quando a essa vieneapplicata la magia.»

Poi accennò a dirigersi alla porta, ma Camerbunne lo trattenne perun braccio.

«Morik non può sapere nulla del veleno», insistette, fissando conespressione seria il furente mago. «Resta con noi, resta con il tuocapitano: Deudermont potrebbe non superare la notte e se prima dimorire dovesse affiorare dal sonno è bene che trovi accanto a sé unamico.»

Di fronte a quelle parole così solenni Robillard non trovò daobiettare e con un sospiro si lasciò cadere di nuovo su una sedia.

Qualche tempo dopo una guardia cittadina bussò alla porta edentrò nella stanza, inviata dal magistrato per un controllo di routine.

«Riferisci a Jerem Boll e al vecchio Jharkheld che l'accusa contro Wulfgar e Morik sarà di omicidio volontario», riferì in tono sommessoCamerbunne.

Robillard sentì le sue parole ed esse ebbero l'effetto di aumentare lasua depressione. A lui non importava molto di quale fosse l'accusamossa contro Wulfgar e Morik perché in ogni caso, sia che si trattassedi omicidio volontario o di tentato omicidio, essi sarebbero statigiustiziati, anche se nel primo caso il processo sarebbe durato più a

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lungo con estrema soddisfazione della folla che frequentava la Gognadei Prigionieri.

Per Robillard guardarli morire sarebbe però stata una ben miserasoddisfazione nel caso che il suo amato capitano non fossesopravvissuto. Abbandonando la testa fra le mani, il mago prese dinuovo in considerazione l'eventualità di andare da Morik e ditorturarlo con i suoi incantesimi fino a costringerlo a cedere e arivelargli quale tipo di veleno fosse stato utilizzato ma poi finì peraccantonarla perché sapeva che Camerbunne aveva ragione e perchéconosceva i ladri cittadini, come Morik il Furfante, che senza dubbioaveva ottenuto il veleno da una fonte ben pagata e non lo avevapreparato di persona.

D'un tratto il mago sollevò il capo con il volto teso illuminato daun'intuizione improvvisa: si era infatti ricordato dei due uomini cheerano arrivati alla Scimitarra prima di Wulfgar e Morik e che avevanopoi pagato il ragazzo che era corso a chiamarli, ed anche dellaDama Balzante che aveva lasciato in tutta fretta il porto di Luskan. Possibileche Wulfgar e Morik avessero barattato il meraviglioso martello daguerra del barbaro con il veleno necessario per uccidere Deudermont?

Robillard si alzò di scatto dalla sedia, non sapendo bene da dovecominciare ma ormai convinto di essere su una pista significativa:qualcuno, o i due che avevano segnalato l'arrivo di Deudermont, o ilmonello di strada che era stato pagato per chiamare Wulfgar e Morik,o qualcuno a bordo dellaDama Balzante sapeva di quale veleno sitrattava.

Lanciata un'ultima occhiata al suo povero capitano,

manifestamente vicino alla morte, Robillard uscì a grandi passi dallastanza, deciso a trovare delle risposte.

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CAPITOLO XPASSAGGIO

La mattina successiva Meralda entrò in cucina con passo esitante,consapevole dello sguardo di suo padre fisso su di lei e guardò indirezione di sua madre alla ricerca di qualche indizio che suo padre leavesse parlato del suo incontro con Jaka della sera precedente. Biasteappariva però raggiante e ignara di tutto.

«Oh, il giardino!» esclamò con un ampio sorriso. «Parlami del

giardino. È bello come lo descrive Gurdy Harkins?»Meralda lanciò un'occhiata in direzione di suo padre e nel notare

con sollievo che anche lui stava sorridendo si decise a sedersi accanto aBiaste.

«È ancora più bello», disse, sorridendo a sua volta con entusiasmo.«È pieno di colori, anche sotto il sole del tardo pomeriggio, e sotto laluna i suoi profumi ti incantano, anche se le tinte sono molto meno

vivaci.«Questa però non è la sola cosa che mi ha incantata», continuò poi,costringendosi a mantenere un tono allegro nel fornire la notizia chetutti si aspettavano di sentire. «Lord Feringal mi ha chiesto di sposarlo».

Biaste emise uno strillo deliziato, Tori si lasciò sfuggire un grido disorpresa insieme a una buona parte del cibo che aveva in bocca eDohni Ganderlay calò le mani sul tavolo in un gesto pieno di

entusiasmo.Biaste, che appena la settimana prima non era quasi in grado dialzarsi dal letto, si affrettò ad alzarsi da tavola e a prepararsi per uscire,insistendo che doveva andare immediatamente a dare la notizia a tuttii suoi amici, soprattutto a Gurdy Harkins che si dava sempre tante arieperché qualche volta cuciva dei vestiti per Lady Priscilla.

«Perché la scorsa notte sei rientrata tutta agitata e piangendo?»chiese Tori, quando lei e Meralda furono sole nella loro stanza.

«Pensa alle cose che ti riguardano», ribatté Meralda.

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«Vivrai al castello e andrai in visita a Hundelstone e a Fireshear eperfino a Luskan e in tanti altri posti meravigliosi», insistette Tori,«eppure stavi piangendo».

Con gli occhi che minacciavano di velarsi di nuovo di lacrime,Meralda le lanciò un'occhiataccia e continuò con i suoi lavoridomestici.

«Si tratta di Jaka», decise Tori. «Stai ancora pensando a lui.»Meralda si arrestò nell'atto di sprimacciare un cuscino e lo strinse a

sé per un momento... gesto da cui Tori dedusse che la sua intuizioneera esatta... poi si girò di scatto e lo scagliò contro la sorella,afferrandola subito dopo in modo da farla cadere sul letto.

«Arrenditi!» le ingiunse.«Neanche per sogno», ribatté Tori, cocciuta, ma quando Meralda

prese a farle ripetutamente il solletico alla fine cedette e gridò piùvolte: «Mi arrendo! Mi arrendo!».

Qualche momento più tardi, quando Meralda aveva già ripreso arifare il letto, Tori però tornò alla carica.

«Però sei triste a causa di Jaka», osservò.«L'ho visto la scorsa notte, nel tornare a casa», ammise Meralda. «Si

tortura a causa mia e di Lord Feringal.»Tori sussultò e si protese in avanti, ascoltando avidamente ogni

parola.«Mi ha baciata anche lui.»«Meglio di Lord Feringal?»

Meralda annuì con un sospiro, chiudendo gli occhi e perdendosi nelricordo di quell'unico, breve, tenero momento con Jaka.

«Oh, Meralda, che cosa farai?»«Jaka vuole che fugga con lui», rispose Meralda.«E lo farai?» gemette Tori, stringendo a sé il suo cuscino.Meralda si erse sulla sua persona e le lanciò un sorriso coraggioso.

«Il mio posto è accanto a Lord Feringal», dichiarò.«Ma Jaka...»

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«Jaka non può fare nulla per la mamma e per voi», ribatté Meralda.«Si può dare il proprio cuore a chi si vuole, ma bisogna dare la propriavita alla persona più adatta e alle persone care.»

Tori accennò a protestare ancora, ma in quel momento DohniGanderlay entrò nella stanza.

«Avete del lavoro da fare», ricordò a entrambe, poi guardò versoMeralda con un'espressione da cui lei comprese che doveva aversentito la loro conversazione e le rivolse addirittura un breve cenno diapprovazione con il capo prima di lasciare la stanza.

Per tutta la giornata Meralda si mosse come immersa in una nebbia,cercando in cuor suo di accettare la responsabilità che gli veniva

imposta. Voleva fare quello che era giusto per la sua famiglia, lovoleva davvero, ma non poteva ignorare il richiamo del suo cuore, ildesiderio di scoprire l'amore fra le braccia dell'uomo che amavadavvero.

Sui campi a terrazza che risalivano il pendio della montagna, DohniGanderlay era intanto preda di un conflitto altrettanto intenso. Quellamattina aveva visto Jaka Sculi e non si erano scambiati che una rapidaocchiata... con un solo occhio da parte di Jaka in quanto l'altro eratanto gonfio da essere chiuso. Per quanto desiderasse strozzare quelragazzo per aver messo a rischio la situazione della sua famiglia, Dohninon poteva peraltro rinnegare i propri ricordi di amori giovanili, cheadesso lo facevano sentire colpevole nel guardare verso il malconcioJaka. Qualcosa di più potente della responsabilità aveva attratto Jakae Meralda uno verso l'altra la notte precedente, e Dohni impose a sestesso di non nutrire risentimento nei confronti di sua figlia o di quel

ragazzo il cui solo crimine, per quanto lui poteva saperne, era di essersiinnamorato di sua figlia.La casa era immersa nella quiete e nel silenzio più assoluti

nell'oscurità che precedeva il crepuscolo e questo aveva l'effetto diamplificare il rumore di ogni movimento di Meralda. L'intera famigliasi era ritirata presto per la notte dopo una lunga giornata di lavoro el'eccitazione provocata dall'arrivo di un altro invito al castello perMeralda, fra tre giorni, accompagnato dal più bell'abito di seta verdeche le tre donne avessero mai visto. Adesso Meralda stava cercando di

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infilarsi quell'abito senza far rumore, ma la stoffa persisteva a frusciarerumorosamente.

«Cosa stai facendo?» sussurrò Tori, con voce assonnata.«Shh!» ingiunse Meralda, avvicinandosi al suo letto e

inginocchiandosi in modo da permetterle di sentire le sue paroleappena sussurrate. «Dormi e sta' zitta.»

«Stai andando da Jaka!» esclamò Tori, e Meralda le premetteprontamente una mano sulla bocca.

«Niente affatto», protestò. «Sto soltanto provando il vestito.»«Non è vero», insistette Tori, ora del tutto sveglia, sollevandosi a

sedere. «Stai andando da Jaka. Dimmi la verità altrimenti chiamonostro padre.»«Promettimi che non dirai nulla», chiese Meralda, sedendosi sul

letto accanto a lei, e quando Tori annuì con aria eccitata proseguì:«Spero di trovare Jaka là fuori. Va ogni notte a contemplare la luna ele stelle».

«Vuoi fuggire con lui per sposarlo?»

«No, nulla del genere», replicò Meralda con una risatina triste.«Intendo affidare la mia vita a Lord Feringal per il bene dei nostrigenitori e per il tuo, e lo faccio senza rimpianti», spiegò, prevenendo leproteste della sorella. «No, sono certa che al castello lui mi offrirà unavita piacevole perché non è un uomo cattivo anche se ha molte coseda imparare. Però intendo concedere questa notte al mio cuore, unanotte con Jaka per dirgli addio», concluse, battendo un colpetto sulbraccio di Tori nell'alzarsi per uscire. «Ora torna a dormire.»

«Soltanto se prometti domani di raccontarmi ogni cosa», ribattéTori. «Promettilo oppure dirò tutto.»

«Non lo farai», replicò con sicurezza Meralda, consapevole che Toriera affascinata dall'aspetto romantico di quella situazione quanto loera lei e forse anche di più, perché essendo più giovane noncomprendeva ancora che quelle erano decisioni destinate aripercuotersi su tutta la vita. «Torna a dormire», ripeté in tono

sommesso, baciando la sorella sulla fronte.

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Assestatasi il vestito, lanciò un'occhiata nervosa in direzione dellatenda che copriva la porta e sgusciò fuori dalla piccola finestra,allontanandosi nella notte.

***

Dohni Ganderlay osservò la figlia scomparire nel buio pienamenteconsapevole di quali fossero le sue intenzioni. Una parteconsiderevole del suo animo avrebbe voluto seguirla, sorprenderlacon Jaka e uccidere una volta per tutte quel fastidioso ragazzo, maun'altra parte aveva fiducia che sua figlia sarebbe tornata e avrebbefatto quello che era giusto per la famiglia, come aveva detto a suasorella quella mattina.

Lacerato nel profondo del cuore, perché comprendeva fin troppobene il fascino dell'amore giovanile, alla fine Dohni decise diconcedere a Meralda quella singola notte, senza domande e senzagiudizi.

***

Meralda si allontanò nel buio in preda al timore, non di eventualimostri che potessero assalirla perché quella era la sua terra e non avevamai temuto cose del genere, ma di quella che avrebbe potuto essere lareazione dei suoi genitori, e in particolare di suo padre, se si fosseroaccorti della sua assenza.

Ben presto si lasciò la casa alle spalle e suo malgrado finì persoccombere al fascino del cielo stellato. Addentratasi in un campoprese a piroettare e a danzare, assaporando il contatto dell'erba umidasui piedi nudi, godendo dell'impressione di protendersi verso il cieloper unirsi a quei magici punti luminosi; senza quasi accorgersene presea cantare sommessamente fra sé una melodia che aveva un suonospirituale e che di certo si adattava ai sentimenti che la pervadevano

nel trovarsi là fuori da sola, serena e in comunione con le stelle.

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In quel momento non stava pensando a Lord Feringal, ai suoigenitori, alle sue responsabilità e neppure al suo amato Jaka, non stavapensando affatto, si stava limitando a esistere nella gloria della notte edella danza.

«Perché sei qui?» chiese alle sue spalle la voce di Jaka.La magia si dissolse e Meralda si girò lentamente ad affrontare il

giovane, che era fermo con le mani in tasca e la testa bassa, i capelliricciuti che gli ricadevano sulla fronte in maniera tale da impedirle divederlo negli occhi, e d'un tratto si sentì assalire da un altro timore,dalla paura che quello che aveva previsto si verificasse quella notte,con quell'uomo.

«Lord Feringal ti ha permesso di uscire?» chiese ancora Jaka, in tonosarcastico.«Non sono una marionetta ai suoi ordini», ribatté Meralda.«Non diventerai sua moglie?» domandò Jaka, poi sollevò lo

sguardo e la fissò intensamente, traendo una certa soddisfazione allavista delle lacrime che le velavano gli occhi mentre aggiungeva: «Èquello che si dice al villaggio. Meralda Ganderlay», continuò,

assumendo un tono di voce chiocciante simile a quello di una vecchiafemmina di gnomo. «Oh, quanto è fortunata! Pensare che LordFeringal in persona le sta facendo la corte!»

«Smettila», implorò in tono sommesso Meralda.Jaka però insistette, modificando ancora il timbro della voce.«Ah, ma cosa sta pensando quello stolto di Feringal?» esclamò,

imitando i toni bruschi di un uomo del villaggio. «Ci coprirà tutti divergogna, sposando una donna a lui tanto inferiore, quando invece cisono cento graziose e ricche figlie di mercanti che implorano disposarlo. Ah, che stolto!»

Meralda gli volse di scatto le spalle, sentendosi di colpo più ridicolache bella nell'abito di seta verde; poi avvertì una mano sulla spalla ecomprese che Jaka era dietro di lei.

«Devi saperlo», mormorò lui. «Metà di loro pensa che Lord Feringal

sia uno stolto e l'altra metà è troppo accecata da false speranze, come

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se stesse rivivendo i propri amori per tuo tramite, desiderando che laloro miserabile vita possa essere stata più simile alla tua».

«E tu cosa pensi?» domandò Meralda, girandosi infine a guardarlo,poi sussultò nel vedere con chiarezza i lividi che gli segnavano il volto,il labbro gonfio e l'occhio chiuso, ma ritrovò immediatamente ilcontrollo perché non faticò a capire chi avesse percosso Jaka in quelmodo e perché.

«Penso che Lord Feringal si ritenga superiore a te», rispose in tonobrusco Jaka.

«E lo è.»«No!» esclamò lui in tono tagliente, inducendola a indietreggiare

per la sorpresa. «No, lui non ti è superiore», ribadì in tono sommesso,sollevando con gentilezza una mano ad accarezzarle la guancia umidadi pianto. «Piuttosto sei tu a essere più di quanto lui meriti, ma LordFeringal non vedrà le cose in questo modo, ti userà a suo piacere e poiti metterà da parte.»

Meralda avrebbe voluto contestare quelle parole ma non era deltutto certa che lui si sbagliasse. Comunque la cosa non aveva

importanza, perché, quali che fossero le intenzioni di Lord Feringal neisuoi confronti, le cose che poteva fare a favore della sua famigliaavevano la precedenza su tutto.

«Perché sei venuta qui?» chiese di nuovo Jaka, e Meralda ebbel'impressione che si fosse accorto soltanto allora del suo abito perchélui fece scorrere la stoffa di una manica fra pollice e indice, come pervalutarne la qualità.

«Sono venuta per dare a Meralda una notte tutta per lei», spiegò lagiovane donna, «una notte in cui i miei desideri abbiano la precedenzasulle mie responsabilità, una notte...».

Poi s'interruppe quando Jaka le posò un dito sulle labbra e ve lolasciò per un lungo momento.

«Desideri?» ripeté infine lui, in tono astuto. «Fra di essi includi ancheme? Sei venuta fin qui, vestita così, soltanto per vedermi?»

Meralda annuì e prima ancora che avesse concluso il gesto Jaka le fuaddosso, premendo le labbra sulle sue e baciandola

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appassionatamente. Meralda ebbe l'impressione di fluttuare, poi sirese conto che Jaka la stava adagiando sull'erba morbida senzainterrompere il bacio. Le sue mani intanto continuavano adaccarezzarla ma lei non cercò di fermarle neppure quando il loro

tocco si fece sempre più intimo. No, questa era la sua notte, la notte incui sarebbe diventata donna con l'uomo di sua scelta, l'uomo chedesiderava e che non le veniva imposto dalle sue responsabilità.

Poi Jaka le sollevò l'abito fino alla vita e si lasciò scivolare fra le suegambe.

«Piano, per favore», mormorò Meralda, prendendogli il volto fra lemani e tenendolo molto vicino a sé in modo da costringerlo a

guardarla negli occhi. «Voglio che sia tutto perfetto.»«Meralda», sussurrò il giovane, all'apparenza disperato. «Non possoaspettare un altro minuto.»

«Non dovrai farlo», garantì lei, traendolo a sé e baciandolo congentilezza.

Poco più tardi i due erano distesi nudi uno accanto all'altro sull'erbaumida, con la fredda aria dell'oceano che accarezzava i loro corpi e lo

sguardo fisso sulla volta stellata. Meralda si sentiva diversa, ebbra eleggera, quasi spirituale, come se si fosse appena sottoposta a una sortadi magico rito di passaggio, e mille pensieri le vorticavano nella mente.Come avrebbe potuto tornare da Lord Feringal dopo questimeravigliosi momenti d'amore con Jaka? Come avrebbe potutovolgere le spalle a questi sentimenti di pura gioia e di calore? In quelmomento si sentiva splendidamente e avrebbe voluto che quellasensazione perdurasse per il resto della sua vita... la sua vita con Jaka.

Però sapeva che questo era impossibile, che quelle sensazionisarebbero svanite con l'alba per non tornare mai più. Aveva avuto ilsuo momento ed era finito, un pensiero che le fece salire un nodo ingola.

Ciò che Jaka Sculi stava provando era leggermente diverso anche senon meno soddisfacente. Aveva preso la verginità di Meralda,sconfiggendo il signore stesso di Auckney in quella specialissima gara:

lui, che agli occhi di Lord Feringal era un semplice contadino, avevasottratto a quel nobile qualcosa che non avrebbe mai potuto essere

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sostituito e che era più prezioso di tutto l'oro e le gemme che c'erano alCastello di Auck.

Quella era una sensazione che gli piaceva, ma come Meralda anchelui temeva che il suo stato di appagamento non sarebbe durato.

«Lo sposerai?» chiese d'un tratto.Splendida alla luce della luna, Meralda si girò a guardarlo con occhi

assonnati.«Stanotte non parliamo di queste cose», lo implorò. «Non parliamo

di Lord Feringal o di chiunque altro.»«Devo saperlo, Meralda», insistette con fermezza Jaka, sollevandosi

a sedere e abbassando lo sguardo su di lei. «Dimmelo.»Meralda lo guardò con l'espressione più dolente che lui avesse maivisto.

«Lui può prendersi cura di mia madre e di mio padre», cercò dispiegare. «Devi capire che non spetta a me scegliere», concluse, inpreda a una disperazione crescente.

«Capire?» ripeté Jaka in tono incredulo, balzando in piedi e

allontanandosi di qualche passo. «Capire? Come posso, dopo quelloche abbiamo appena fatto? Oh, perché sei venuta da me se haiintenzione di sposare Lord Feringal?»

Meralda lo raggiunse e lo afferrò per le spalle.«Sono venuta per concedermi una notte in cui mi fosse permesso

scegliere», replicò. «Perché ti amo e vorrei con tutto il cuore che le cosepotessero essere diverse.»

«Abbiamo avuto soltanto un fugace momento», gemette Jaka,girandosi a guardarla.«Abbiamo ancora tempo», gli ricordò Meralda, sollevandosi in

punta di piedi per baciarlo, un'offerta a cui Jaka non seppe resistere.Qualche tempo dopo, mentre lui ancora giaceva disteso sull'erba,

Meralda si rialzò e si rivestì.«Rifiutalo», disse inaspettatamente Jaka, inducendola a fermarsi a

fissarlo. «Rifiuta Lord Feringal», ripeté lui con disinvoltura, come se si

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fosse trattato della più semplice fra le decisioni. «Dimenticalo e fuggicon me, a Luskan o addirittura a Waterdeep.»

Meralda sospirò e scosse il capo.«Ti supplico di non chiedermelo», cominciò a dire, ma Jaka non

mostrò di averla sentita.«Pensa alla vita che potremmo avere insieme», continuò. «Correre

per le strade di Waterdeep, della magica Waterdeep! Correre e rideree amarci, creare una famiglia insieme... pensa a quanto saranno belli inostri figli!»

«Smettila!» scattò Meralda, con tanta decisione da troncargli laparola in bocca. «Sai che lo desidero e sai anche che non posso farlo.»

Con un profondo sospiro fece quindi la cosa più difficile che avessemai fatto in tutta la sua vita: si chinò a baciare un'ultima volta le labbraimbronciate di Jaka e si avviò verso casa.

Una volta solo, Jaka rimase a lungo disteso sul campo con la mentein tumulto. Aveva ottenuto la sua conquista, che si era rivelata dolcecome aveva supposto, ma la cosa non sarebbe durata, Lord Feringalavrebbe sposato Meralda e la vittoria finale sarebbe stata sua, unpensiero che gli riusciva intollerabile.

«Maledetta questa vita», borbottò, contemplando la luna, oravelata dietro alcune nubi in rapido movimento.

Ci doveva essere qualcosa che poteva fare per sconfiggere LordFeringal, qualcosa per riportare a sé Meralda.

Poi un sorriso sicuro gli si allargò sul volto avvenente quandoricordò i suoni che erano sfuggiti dalle labbra di Meralda, il modo incui il suo corpo si era mosso all'unisono con il suo.

No, non sarebbe stato sconfitto.

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CAPITOLO XISFORZI CONGIUNTI

«Mi dirai di che veleno si tratta», ingiunse il Prelato Vohltin, uncollega di Camerbunne, seduto comodamente su una sedia nel centrodella stanza dalla temperatura torrida e illuminato dal chiaroredell'enorme braciere che ardeva alle sue spalle.

«Mai usato», replicò Morik, provocando un altro giro di torcipolliceda parte del massiccio e sadico carceriere guercio (che non aveva

neppure il buon gusto di coprire l'orbita vuota e che doveva avere piùsangue di orco che di umano nelle vene). «Il veleno, intendo», precisò,con voce resa acuta dalle ondate di agonia che gli percorrevano ilbraccio.

«Quello nella fiala non era lo stesso veleno», aggiunse Vohltin, poirivolse un cenno al carceriere che si spostò alle spalle di Morik.

Questi cercò di girare la testa per seguire i suoi movimenti ma non

ci riuscì perché aveva entrambe le braccia tese e incatenate ai polsi, unamano chiusa in una pressa e l'altra intrappolata in una sorta di stranascatola i cui pannelli la tenevano aperta e con le dita protese in modoche il carceriere le potesse «trattare» una per volta.

Scrollando le spalle il prelato sollevò le braccia in un gesto diesasperazione e quando Morik non accennò a rispondere un gatto anove code gli calò sulla schiena nuda, lasciando solchi profondi che ilsudore fece bruciare ancora di più.

«Tu avevi il veleno», asserì Vohltin, seguendo un ragionamentologico, «e l'arma del delitto, ma il veleno su di essa non era lo stessocontenuto nella fiala che abbiamo trovato, il che immagino siaun'astuzia destinata a mandarci su una falsa pista nei nostri tentativi dirisanare le ferite del Capitano Deudermont».

«Un'astuzia, certo», commentò Morik in tono asciutto.Il carceriere lo colpì di nuovo con la frusta e sollevò il braccio per

sferzarlo ancora, ma Vohltin sollevò una mano per bloccarlo.

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«Lo ammetti?» domandò.«Tutto quanto», replicò Morik. «È stata un'astuzia perpetrata da

qualcun altro, che ha fatto pervenire a me e a Wulfgar oggetti cherisultassero prove contro di noi per poi colpire Deudermont mentrestava venendo a parlarci...»

«Basta così!» esclamò Vohltin, in tono di palese frustrazione perchéquelle erano le assurdità che lui e gli altri inquisitori avevano giàsentito più volte da Morik e da Wulfgar; poi il prelato si alzò perandarsene, scuotendo il capo, e Morik comprese cosa questosignificasse.

«Posso dirti altre cose» supplicò, ma Vohltin si limitò ad agitare una

mano con indifferenza.Senza darsi per vinto, Morik cercò di parlare ancora ma un violento

colpo ai reni da parte del carceriere gli troncò la parola e il respiro,strappandogli un urlo e un sussulto che servì soltanto ad accentuare ildolore alla mano e al pollice.

Per quanto si sforzasse di controllarsi, un momento più tardi ilfurfante sussultò ancora sotto un nuovo colpo del carceriere, perché

questi portava infilata sulle nocche una striscia di metallo a cui eranofissati numerosi spilli.Fra le ondate di sofferenza, Morik si trovò a ripensare ai visitatori

drow che quella notte di tanto tempo prima si erano presentati nelpiccolo appartamento da lui preso in affitto nelle vicinanze dellaScimitarra e si chiese se gli elfi scuri fossero al corrente di quanto stavasuccedendo, se sarebbero venuti in soccorso di Wulfgar e, in tal caso,se avrebbero soccorso anche lui. Durante le prime ore di prigionia,quando erano ancora incatenati nella stessa stanza, lui per poco nonaveva parlato a Wulfgar dei drow e si era trattenuto dal farlo soltantoper il timore che Wulfgar, così palesemente perso in un mare di ricordidolorosi, non lo sentisse neppure e che invece qualcun altro potessefarlo.

La sola cosa che gli mancava, infatti, era che i magistrati loaccusassero anche di essere in combutta con gli elfi scuri... non che del

resto questo potesse avere qualche importanza. Intanto il carceriere gli

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tornare nella camera della cappella, dove i preti stavano ancoraoperando freneticamente e la vecchia erborista era intenta adapplicare sul torace sudato di Deudermont un balsamo biancodall'aspetto cremoso.

Preparati i componenti - una fiala di sangue di troll dei ghiacci e unpezzo di pelliccia di un grande orso bianco - Robillard srotolò lapergamena, l'appiattì su un piccolo tavolo e distolse lo sguardo dalmorente Deudermont per concentrarsi su quello che doveva fare. Conla disciplina possibile soltanto a un mago prese quindi a lavorare inmaniera metodica, cantilenando sommessamente e agitando in modospecifico le dita e le mani. Infine, si versò sul pollice e sull'indice ilsangue di troll dei ghiacci, strinse la pelliccia fra le dita, soffiò su di essatre volte e la scagliò al suolo lungo il muro spoglio sul lato oppostodella stanza. Immediatamente cominciò il tamburellare della grandineche rimbalzava sul pavimento che si fece sempre più stentoreo conl'aumentare delle dimensioni dei pezzi di ghiaccio, fino a quandonell'arco di pochi secondi il Capitano Deudermont si venne a trovareadagiato su un nuovo letto, un blocco di ghiaccio.

«Questo è il momento critico», spiegò intanto Camerbunne. «La

febbre è troppo alta e temo che lui ne possa morire perché il tropposudare gli sta indebolendo il sangue. Ho fuori altri preti che aspettanodi prendere il posto di questi quando avranno esaurito i loroincantesimi di risanamento e ho mandato a chiedere aiuto innumerose altre cappelle, incluse quelle di divinità rivali. Verranno»,aggiunse, sorridendo dell'espressione sorpresa di Robillard. «Verrannotutti.»

Se Robillard non era un uomo religioso, questo dipendevasoprattutto dal fatto che quando in passato aveva cercato di trovareun dio che si adattasse al suo spirito era rimasto sgomento di frontealle liti e alle rivalità costanti che separavano le numerose chiese,quindi non faticò a comprendere il complimento che Camerbunneaveva appena fatto al capitano: Deudermont si era creato una talereputazione presso la gente onesta della parte settentrionale dellaCosta delle Spade che adesso quei preti avrebbero accantonato

animosità e rivalità e avrebbero collaborato fra loro nel suo interesse.

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E in effetti arrivarono, proprio come Camerbunne aveva promesso,preti di quasi ogni confessione esistente a Luskan, che entrarono nellastanza in gruppi di sei per riversare le loro energie risananti sulmalconcio capitano.

La febbre che devastava Deudermont calò intorno a mezzanotte, enell'aprire stancamente gli occhi trovò Robillard addormentato con latesta appoggiata al suo letto sulle braccia conserte.

«Quanti giorni?» chiese con voce debole, consapevole che erasuccesso qualcosa di grave e di molto strano perché gli sembrava diessersi appena svegliato da un lungo e terribile incubo. Inoltre, anchese era avvolto nelle coperte, poteva avvertire che quello non era un

letto normale perché era troppo duro e si sentiva la schiena umida.Il suono della sua voce indusse Robillard a destarsi di soprassalto,con gli occhi sgranati per lo stupore; il mago posò quindi una manosulla fronte di Deudermont e il suo sorriso si accentuò ancora di piùquando sentì la pelle fresca al tocco.

«Camerbunne!» chiamò, attirandosi una strana occhiata da partedel confuso capitano.

Ma quella per Robillard fu la cosa più bella che avesse mai visto.

***

«Tre circuiti», decretò la voce nasale del Magistrato Jharkheld, unmiserabile vecchio rinsecchito che a parere di Morik traeva fin troppopiacere dal suo lavoro.

Ogni giorno quel vecchio si aggirava per le caverne che formavanola prigione e indicava coloro per cui era giunto il momento di recarsialla Gogna dei Prigionieri, decidendo il periodo di durata della loroesposizione in base alla gravità del crimine commesso o forsesemplicemente in base al proprio umore. Un «circuito», in base aquello che aveva detto il carceriere che si presentava regolarmente apercuotere Morik, era un tempo equivalente a quello che ci voleva a

fare a passo lento il giro della piazza dove si teneva la Gogna deiPrigionieri, cioè circa dieci minuti; questo significava che l'uomo

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appena indicato da Jharkheld sarebbe stato condotto alla gogna etorturato in diversi modi non letali per un tempo complessivo dimezz'ora prima ancora che Jharkheld tenesse l'udienza del suoprocesso. Morik sapeva che tutto questo veniva fatto per eccitare la

folla e che quel vecchio miserabile di Jharkheld godeva nell'essereapplaudito.«E così sei di nuovo qui a picchiarmi», commentò Morik, quando il

brutale carceriere entrò nella camera scavata nella roccia dove lui eraincatenato alla parete. «Hai portato con te il sant'uomo? O ilmagistrato? Ci raggiungerà per ordinare che io venga portato allagogna?»

«Niente percosse oggi, Morik il Furfante», rispose il carceriere. «Nonvogliono sapere più niente da te perché il Capitano Deudermont nonne ha più bisogno.»

«È morto?» domandò Morik, senza riuscire a mascherare una certanota di preoccupazione nella voce.

Infatti se Deudermont era morto l'accusa mossa contro lui e Wulfgar sarebbe stata quella di omicidio volontario e Morik viveva aLuskan da abbastanza tempo da aver avuto modo di assistere aparecchie esecuzioni di persone condannate con quell'accusa, per cuisapeva che in quei casi la tortura durava almeno una giornata.

«No», replicò il carceriere, in tono contrariato. «No, non siamo cosìfortunati. Deudermont è vivo e sta meglio, quindi pare che tu e

Wulfgar avrete una morte facile.»«Oh, gioia», commentò Morik.

Il bruto si arrestò per un momento, si guardò intorno, poi siavvicinò e gli sferrò una serie di pugni violenti allo stomaco e al petto.«Credo che il Magistrato Jharkheld vi convocherà alla gogna

abbastanza presto», disse quindi, «e volevo accomiatarmi da te come sideve».

«Grazie tante», ribatté Morik, sempre sarcastico, ottenendo incambio un gancio sinistro che gli fece saltare un dente e gli lasciò la

bocca piena di sangue caldo.

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***

Deudermont si stava rimettendo in salute così in fretta che i pretistavano avendo notevoli difficoltà a costringerlo a rimanere a lettomentre continuavano a pregare su di lui e a lanciare incantesimi dirisanamento, affiancati dalla vecchia erborista con i suoi decotti e i suoibalsami.

«Non può essere stato Wulfgar», protestò Deudermont, quandoRobillard gli ebbe riferito tutto quello che era successo dopo latragedia davanti alla Scimitarra.

«Wulfgar e Morik», ribadì con decisione Robillard. «Io ho vistotutto, capitano, ed è stata una fortuna che ti stessi tenendo d'occhio!»

«Per me è una cosa che non ha senso», replicò Deudermont.«Conosco Wulfgar.»

«Lo conoscevi», precisò Robillard.«Lui è amico di Drizzt e di Catti-brie, e sappiamo entrambi che quei

due non avrebbero mai nulla a che fare con un assassino... almeno nona livello di amicizia.»

«Era loro amico», lo corresse cocciutamente Robillard. «Adesso Wulfgar stringe amicizia con soggetti come Morik il Furfante, unfamoso bravaccio di strada, e con un altro paio di soggetti che ritengosiano anche peggiori di lui.»

«Un altro paio?» chiede Deudermont.In quel momento Waillan Micanty e un altro marinaio delFolletto

del Mare entrarono nella stanza e per prima cosa si avvicinarono alcapitano, salutandolo con un inchino e con un ampio sorriso,soddisfatti di vedere che Deudermont sembrava migliorato rispetto acome lo avevano visto alcune ore prima, quando tutto l'equipaggioera accorso in risposta alla gioiosa convocazione di Robillard.

«Li avete trovati?» domandò impaziente il mago.«Credo di sì», replicò Waillan, con aria compiaciuta. «Sono nascosti

nella stiva di una nave, ad appena due attracchi di distanza dal Folletto del Mare.»

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«Ultimamente non si sono visti molto in giro», aggiunse l'altromarinaio, «ma alla Scimitarra abbiamo parlato con alcuni uomini chehanno detto di conoscerli e hanno sostenuto che il marinaio con unsolo occhio ultimamente spende monete d'oro con la massima

disinvoltura».Robillard annuì con aria compiaciuta perché quella era la confermache l'attacco era stato commissionato e che quei due facevano partedel piano.

«Con il tuo permesso, capitano», disse quindi, «vorrei far salpare il Folletto del Mare».

«Ma Mastro Micanty ha detto che quei due erano in porto», obiettò

Deudermont.«Sono a bordo dellaDama dalle Gambe Storte in qualità di

passeggeri paganti. Quando accosterò quel mercantile con ilFolletto del Mare e con le armi spianate senza dubbio li consegneranno senzafare storie», replicò Robillard, con gli occhi accesi d'entusiasmo.

«Vorrei soltanto poter venire con voi», ridacchiò Deudermont, e nelcogliere quell'implicito assenso gli altri tre si affrettarono a dirigersi alla

porta.«Che notizie ci sono del Magistrato Jharkheld?» si affrettò a

chiedere loro Deudermont, prima che potessero andarsene.«Gli ho chiesto di sospendere il giudizio su quei due come tu

volevi», rispose Robillard. «Ci serviranno per confermare che anchequesti due facevano parte del complotto.»

Deudermont annuì e segnalò loro di andare, immergendosi neipropri pensieri, in quanto continuava a non essere convinto che Wulfgar potesse essere coinvolto, anche se non aveva idea di comefare per riuscire a provarlo. A Luskan, come nella maggior parte dellecittà del Faerun, anche la parvenza di attività criminale poteva causarel'impiccagione di un uomo o poteva condannarlo a essere squartato oa qualsiasi altra sgradevole forma di esecuzione fosse venuta in menteal magistrato di turno.

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vincitore, Errtu il grande balor che odiava Drizzt Do'Urden più diqualsiasi altro essere mortale e che stava sfogando di continuo lapropria ira su Wulfgar.

«Wulfgar?» chiamò una voce lieve e gentile, che non era quellarauca e demoniaca di Errtu.

Wulfgar riconobbe la trappola, le false speranze, la finta amicizia,perché quello era un trucco che Errtu aveva usato con lui innumerevolivolte, cogliendolo in momenti di disperazione, sollevandolo dal suoabbattimento emotivo soltanto per poi farlo precipitare nella più nerae profonda fossa della disperazione.

«Ho parlato con Morik», insistette la voce, ma Wulfgar non la stava

più ascoltando.«Lui si proclama innocente», insistette cocciutamente Deudermont,

ignorando lo sbuffare sarcastico di Robillard, al suo fianco. «E tuttaviaquel cane di Sharky vi ha coinvolti entrambi.»

Sforzandosi di ignorare le parole Wulfgar emise un basso ringhio,certo che Errtu fosse tornato a tormentarlo.

«Wulfgar?» chiamò ancora Deudermont.«È inutile», dichiarò in tono piatto Robillard.«Dammi qualche appiglio, amico mio», continuò Deudermont,

appoggiandosi pesantemente a un bastone per sorreggersi perché nonsi era ancora rimesso in forze. «Confermami in qualche modo la tuainnocenza in modo che possa chiedere al Magistrato Jharkheld diliberarti.»

Di nuovo non ci fu risposta tranne quel ringhio protratto.«Dimmi la verità», persistette Deudermont. «Io non credo che tu sia

coinvolto ma ho bisogno di sentirlo da te, se voglio esigere un giustoprocesso.»

«Non ti può rispondere, capitano», commentò Robillard, «perchénon c'è nessuna verità che possa esonerarlo dall'accusa».

«Hai sentito Morik», ribatté Deudermont.

I due erano infatti appena stati nella cella di Morik, dove il piccololadro aveva sostenuto con veemenza la sua innocenza e quella di

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Wulfgar, spiegando che Creeps Sharky aveva offerto una notevoletaglia per la testa di Deudermont, ma che lui e Wulfgar avevanoopposto un secco rifiuto.

«Ho sentito un uomo disperato elaborare una storia altrettantodisperata», dichiarò Robillard.

«Potremmo trovare un prete che lo interroghi», suggerìDeudermont. «Molti di loro hanno incantesimi per individuare lemenzogne.»

«Non è permesso dalla legge di Luskan», spiegò Robillard, «perchésono troppi i preti che sfruttano la cosa per fare il loro interesse. Qui ilmagistrato porta avanti gli interrogatori alla sua maniera e con

notevole successo».«Tortura questi poveretti finché non ammettono la loro

colpevolezza, vera o falsa che sia», precisò Deudermont.«Ottiene risultati», affermò Robillard, scrollando le spalle.«Riempie la gogna.»«Quanti di coloro che finiscono alla gogna pensi siano innocenti,

capitano?» domandò in tono brusco Robillard. «Anche ammesso chenon si siano macchiati del particolare crimine per cui vengono punitisenza dubbio hanno commesso molte altre atrocità.»

«Questa è una visione alquanto cinica della giustizia, amico mio»,osservò Deudermont.

«Questo è realismo», rispose Robillard.Sospirando, Deudermont tornò a guardare Wulfgar che, appeso

alla parete, continuava a ringhiare senza proclamare la propriainnocenza e senza dire nulla di coerente, poi provò a chiamarloancora e arrivò addirittura ad avvicinarsi per battergli un colpetto sulfianco.

«Devi darmi un motivo per credere a Morik», disse. Wulfgar sentì il tocco gentile di un succubo che lo attirava verso un

inferno emotivo: con un ruggito ruotò i fianchi e scalciò, sfiorandoappena lo stupito capitano ma colpendolo con forza sufficiente a farlobarcollare e cadere a terra.

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Robillard lasciò partire dal proprio bastone una sfera di sostanzaappiccicosa, mirando basso per bloccare le gambe di Wulfgar contro laparete. Il grosso barbaro prese a dibattersi, ma con i polsi incatenati ele gambe bloccate quei movimenti servirono soltanto a intensificare il

dolore alle spalle.Poi Robillard gli si parò davanti sussurrando in tono sibilante uncanto di qualche tipo e infine si protese ad afferrargli l'inguine,scatenandogli una scossa elettrica in tutto il corpo e strappandogli unululato di dolore.

«No!» esclamò Deudermont, rialzandosi in piedi a fatica. «Bastacosì!»

Imprimendo alla mano una secca torsione, Robillard abbandonò lapresa e volse le spalle al barbaro con il volto contortodall'indignazione.

«Ti servono altre prove, capitano?» domandò.Deudermont avrebbe voluto ribattere, ma non trovò nulla da dire.«Andiamo via di qui», si limitò a mormorare.«Sarebbe stato meglio se non fossimo mai venuti», borbottò

Robillard.Poi Wulfgar rimase di nuovo solo, e per qualche momento trovò

un certo sollievo finché la sostanza appiccicosa continuò a supportareil suo peso; quasi subito però essa cominciò a dissiparsi e ben presto luisi trovò di nuovo appeso alle manette con i muscoli contratti da nuoveondate di dolore, e scivolò in un'oscurità ancora più cupa.

Tutto quello che desiderava era una bottiglia dietro cui nascondersi,il bruciante liquore che gli liberasse la mente dal tormento.

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CAPITOLO XIIFEDELE ALLA FAMIGLIA

«Il Mercante Banci desidera parlarti», annunciò il SiniscalcoTemigast, addentrandosi nel giardino dove Lord Feringal e Meraldastavano sostando in silenzio, intenti ad assaporare il profumo e la vistadei fiori sotto la scintillante luce arancione del tramonto che sirifletteva sulle acque scure.

«Accompagnalo qui», replicò il giovane nobile, desideroso di

sfoggiare la propria conquista.«Sarebbe meglio se andassi tu da lui», replicò Temigast. «Banci è un

uomo nervoso e ha premura, quindi non sarebbe una compagniaideale per la cara Meralda e temo che rovinerebbe l'atmosfera delgiardino.»

«È una cosa che non possiamo permettere», ammise Lord Feringal,poi sorrise a Meralda, le batté un colpetto sulla mano e si avviò verso

Temigast.Una volta che Feringal lo ebbe oltrepassato, il vecchio siniscalcostrizzò l'occhio a Meralda per farle capire che l'aveva appena salvatada un lungo periodo di noia assoluta; dal canto suo, la giovane donnanon si sentiva certo insultata per essere stata esclusa dall'incontro edera piuttosto sorpresa per la facilità con cui Feringal avevaacconsentito ad andare a vedere il mercante.

Adesso finalmente era libera di godersi in solitudine quelmeraviglioso giardino, di toccare i fiori per assaporarne la consistenzasetosa, di crogiolarsi nel loro profumo senza la costante pressionederivante dall'avere vicino un uomo adorante che seguiva ogni suomovimento con gli occhi e con le mani, quindi si sforzò di godere afondo di quel momento e giurò a se stessa che quando fosse diventatala signora del castello avrebbe trascorso molto tempo là da sola.

D'un tratto però percepì di non essere effettivamente sola e nelgirarsi di scatto sorprese Priscilla a osservarla.

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«Dopo tutto, questo è ilmio giardino», commentò con freddezza ladonna, avvicinandosi per innaffiare un filare di fiori di un azzurrointenso.

«Il Siniscalco Temigast me lo ha detto», replicò Meralda, e quandoPriscilla non rispose e neppure sollevò lo sguardo su di lei, aggiunse intono più tagliente: «Apprenderlo mi ha sorpresa, considerato quantoquesto posto sia bello».

Quelle parole indussero Priscilla, che era molto sensibile agli insultisia pure velati, a sollevare lo sguardo di scatto e ad avanzare versoMeralda con espressione tanto accigliata che per un momento lagiovane donna pensò che lei avrebbe cercato di colpirla, o magari di

infradiciarla con l'acqua del secchio.«Ma certo, fra noi due la bella sei tu, non è vero?» ritorse Priscilla. «Enaturalmente soltanto una donna graziosa come te potrebbe essere ingrado di creare un giardino tanto bello.»

«Parlavo di bellezza interiore», dichiarò Meralda, senza mostrarsiminimamente intimidita perché si era accorta che il suo atteggiamentoaveva colto alla sprovvista la prepotente Priscilla. «Sì, mi intendo difiori quanto basta per capire che è il modo in cui li accarezzi e parli conloro che li aiuta a crescere. Se mi concedi di dirlo, Lady Priscilla, dicerto tu non hai mai mostrato a me quel lato della tua natura cheriservi ai tuoi fiori.»

«Se ti concedo di dirlo?» ripeté Priscilla, ergendosi sulla persona congli occhi sgranati, sconvolta per la diretta franchezza di quellacontadina, poi tentò di balbettare qualche parola di risposta maMeralda la prevenne.

«A me questo sembra il giardino più bello di tutta Auckney», disse,distogliendo lo sguardo da quello di Priscilla per contemplare dinuovo i fiori con un'espressione piena di approvazione intesa a daremaggiore enfasi alle sue affermazioni. «E pensare che ti consideravouna persona odiosa.»

Nel parlare tornò a girarsi verso l'altra donna senza traccia d'iranello sguardo e constatò che anche l'espressione accigliata di Priscilla si

era in parte ammorbidita.

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«Adesso però so che non è così perché chiunque sia in grado dicreare un giardino così splendido deve nascondere una bellezzaspeciale dentro di sé», concluse, con un sorriso disarmante a cuineppure Priscilla poté resistere facilmente.

«Lavoro a questo giardino da anni», spiegò. «Piantando, potando ecercando fiori che sboccino in ogni settimana di ogni estate.»«È un lavoro di cui si vedono i risultati», si congratulò Meralda, in

tutta sincerità. «Scommetto che neppure a Luskan o a Waterdeep èpossibile trovare un giardino che regga il confronto con questo.»

Poi non riuscì a trattenere un accenno di sorriso quando videPriscilla arrossire: a quanto pareva aveva trovato il suo punto debole.

«È un bel giardino», convenne Priscilla, «ma a Waterdeep hannogiardini grandi quanto tutto il Castello di Auck».

«Di certo sono più grandi ma non possono essere più belli»,insistette Meralda.

Priscilla balbettò di nuovo qualche parola confusa, coltapalesemente alla sprovvista dall'inattesa adulazione di quellacontadina.

«Ti ringrazio», riuscì infine a dire, mentre sul suo volto rotondoappariva il sorriso più ampio che si potesse immaginare. «Ti va divedere qualcosa di veramente speciale?»

In un primo tempo Meralda esitò ad accettare perché non avevacerto motivo di fidarsi di lei, ma alla fine decise di correre il rischio e lepermise di prenderla per mano e di trascinarla nel castello, attraversoun paio di piccole stanze e giù per una scala nascosta da dovesbucarono in un cortile all'aperto che sembrava più che altro un bucopraticato nella struttura del castello, uno spazio vuoto grande a stentoquanto bastava perché loro due potessero stare in piedi una accantoall'altra. Nel guardarsi intorno Meralda poi scoppiò a ridere perché,nel distogliere lo sguardo dalle mura di pietra grigia che apparivanocrepate e segnate dagli elementi, vide nel centro del cortiletto una filadi papaveri e accanto a quelli della consueta varietà di un rosso accesone scorse parecchi di una delicata tinta rosata che non aveva mai visto.

«Questo è il posto dove lavoro con le piante», spiegò Priscilla,guidandola verso i vasi, poi s'inginocchiò davanti ai papaveri rossi e

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Meralda però non si lasciò smontare perché in quel singolo giornoaveva fatto più progressi con Priscilla di quanti si fosse aspettata difarne in una vita intera.

«Ah, ecco dov'eri finita», osservò il Siniscalco Temigast, apparendosulla porta del cortile con il consueto perfetto tempismo. «LadyMeralda, ti prego di perdonarci ma temo che Lord Feringal rimarràimpegnato per tutta la notte perché Banci è terribile quando si tratta dicontrattare e ha portato in effetti alcuni pezzi che hanno destato il suointeresse. Lord Feringal mi ha pregato di chiederti se ti farebbe piacerevenire qui in visita domani durante il giorno.»

Meralda guardò verso Priscilla nella speranza di ricevere un

suggerimento di qualche tipo, ma lei aveva ripreso a occuparsi dei suoifiori come se fosse stata del tutto sola nel cortile.«Puoi riferirgli che verrò sicuramente», rispose infine Meralda.«Spero che tu non sia troppo irritata con noi», aggiunse Temigast, e

quando lei scoppiò a ridere per l'assurdità di quell'idea proseguì,traendosi di lato: «Benissimo, in tal caso è meglio che ti avvii perché lacarrozza è in attesa e temo che per stanotte si profili una tempesta».

«I tuoi papaveri Priscilla sono i fiori più belli che abbia mai visto»,disse Meralda a quella donna con cui presto si sarebbe trovataimparentata.

Con sua estrema sorpresa Priscilla la trattenne per una piega delvestito e quando lei si girò il suo stupore crebbe ancora di più nelvedere che Priscilla le stava porgendo un piccolo papavero rosa.

Le due donne si scambiarono un sorriso, poi Meralda oltrepassò

Temigast, addentrandosi nel castello; invece di seguirla subito, però, ilsiniscalco indugiò sulla soglia, concentrando la propria attenzione suPriscilla.

«Un'amica?» chiese infine.«Tutt'altro», fu la fredda risposta. «Forse se ha un fiore tutto suo

lascerà in pace i miei.»Temigast ridacchiò, inducendo Priscilla a lanciargli un'occhiata

gelida.

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«Un'amica... un'amica del suo rango, potrebbe non essere una cosacosì spiacevole come tu sembri ritenere», commentò il siniscalco, poi sivolse e si affrettò a raggiungere Meralda lasciando Priscillainginocchiata nel suo giardino privato e immersa in alcuni pensieri

strani quanto inaspettati.

***

Sulla via del ritorno dal Castello di Auck molte idee cominciarono a

germogliare nella mente di Meralda. Riteneva di aver gestito bene ilcolloquio con Priscilla e cominciava addirittura a sperare che prima opoi lei e quella donna potessero diventare veramente amiche.

Nel momento stesso in cui le affiorò alla mente, quell'idea le fecesalire alle labbra una risatina divertita perché non riusciva proprio aimmaginare di poter mai diventare veramente amica di Priscilla, che sisarebbe sempre e comunque considerata superiore a lei.

Adesso però Meralda aveva le idee molto più chiare, non a causadel colloquio avuto quel giorno con la nobildonna, ma piuttosto invirtù di quanto era accaduto la notte precedente con Jaka Sculi: orainfatti comprendeva molto meglio il mondo, o quanto meno ilpiccolo angolo di esso da lei occupato. Ci era voluto quel momento dicontrollo, da parte di Meralda e per Meralda stessa, per accettare lapiù grande e meno piacevole responsabilità che le era stata imposta, eadesso avrebbe conquistato completamente Lord Feringal fino a farsi

condurre all'altare nella cappella del Castello di Auck, garantendo cosìdi ottenere per sé e soprattutto per la sua famiglia ciò di cui avevanobisogno. Naturalmente quei vantaggi avrebbero avuto un prezzo, masi trattava di un prezzo che questa nuova donna... che non era più unabambina... sarebbe stata pronta a pagare conservando una certamisura di controllo.

D'altro canto era anche contenta di non essere stata costretta apassare quella sera troppo tempo con Lord Feringal: senza dubbio luiavrebbe di nuovo cercato di farla sua e lei dubitava che sarebbe

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riuscita a mantenere il proprio autocontrollo abbastanza da riuscire anon scoppiare a ridergli in faccia.

Sorridente e soddisfatta, la giovane donna lasciò vagare lo sguardofuori dal finestrino della carrozza, osservando lo snodarsi della stradatortuosa, poi d'un tratto lo vide e il suo sorriso svanì: Jaka Sculi era inpiedi su un'altura rocciosa, una figura solitaria che stava fissando ilpunto in cui di solito lei si faceva lasciare dal conducente.

«Cocchiere, per favore, questa notte portami fino a casa», ordinòMeralda, protendendosi dal finestrino sul lato opposto rispetto aquello su cui si trovava Jaka in modo da impedirgli di vederla.

«Oh, speravo proprio che me lo chiedessi, Lady Meralda», replicò

Liam Woodgate, «perché mi pare che uno dei cavalli stia avendoproblemi con un ferro. Pensi che tuo padre abbia una barra diritta e unmartello?»

«Certamente», rispose Meralda. «Accompagnami a casa e sono certache lui ti aiuterà a riparare il ferro.»

«Benissimo!» esclamò il cocchiere, poi agitò le redini con unoschiocco e fece accelerare il passo ai cavalli.

Appoggiatasi di nuovo allo schienale del sedile, Meralda rimase aguardare la sagoma snella dell'uomo che sapeva essere Jaka a causa delsuo atteggiamento desolato e avvilito, e nel visualizzare con chiarezzanella mente la sua espressione per poco non cambiò idea e chiese alcocchiere di farla scendere. Forse sarebbe potuta andare di nuovo daJaka e amarlo ancora sotto la luce delle stelle, concedendosi unaseconda notte di libertà, e forse sarebbe potuta fuggire con lui e viverela propria vita per se stessa e per nessun altro.

No, quella era una cosa che non poteva fare a sua madre, a suopadre e a Tori. Lei era una figlia su cui i suoi genitori potevano fareaffidamento perché prendesse la decisione più giusta, e sapeva che ladecisione più giusta era quella di relegare nel passato l'affetto per JakaSculi.

Poi la carrozza si arrestò davanti alla casa dei Ganderlay e Liam Woodgate balzò agilmente a terra per aprire la portiera della carrozzaprima che Meralda potesse fare da sola.

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«Non ce n'era bisogno», disse la giovane donna, quando lo gnomol'aiutò a scendere dal veicolo.

«Tu diventerai la signora di Auckney», replicò allegramente ilvecchio gnomo, con un sorriso ammiccante. «Non possiamopermettere che ti si tratti come una contadina, giusto?»

«Non è poi così male... essere una contadina, intendo», ribattéMeralda. «Ti permette di uscire dal castello la notte.»

«E ti permette di rientrare quando ne hai voglia», convenne Liam,ridendo di cuore. «Il Siniscalco Temigast ha detto che io sono a tuadisposizione, Lady Meralda, per portare te e la tua famiglia dovunquevogliate andare.»

Meralda gli rivolse un cenno di ringraziamento accompagnato daun ampio sorriso, poi si accorse che suo padre aveva aperto la porta dicasa ed era fermo sulla soglia con espressione cupa.

«Pà!» esclamò. «Potresti aiutare il mio amico... non so neppure il tuonome», osservò quindi, girandosi a guardare verso il cocchiere.

«La maggior parte delle nobili dame non perde tempo a chiederlo...e poi a voi gente alta noi sembriamo tutti uguali», rispose lo gnomo,ridendo ancora insieme a Meralda, poi fece un profondo inchino eammiccando aggiunse: «Sono Liam Woodgate, al tuo servizio».

«Questa sera ti sei fermata poco al castello», osservò sospettosoDohni Ganderlay, avvicinandosi.

«Lord Feringal ha avuto un impegno con un mercante ma devotornare là domani», rispose Meralda. «Liam ha un problema con unferro di uno dei cavalli. Puoi aiutarlo?»

Dohni lanciò un'occhiata in direzione dei cavalli e annuì.«Certamente», rispose. «Ora va' in casa, ragazza», ordinò quindi a

Meralda. «Tua madre sta di nuovo male.»Meralda si precipitò in casa, dove trovò sua madre a letto, con il

volto arroventato dalla febbre e gli occhi infossati nelle orbite;inginocchiata accanto a lei, Tori aveva una tazza piena d'acqua in unamano e un panno umido nell'altra.

«Si è sentita male poco dopo che te ne sei andata», spiegò.

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Nell'abbassare lo sguardo su sua madre Meralda desiderò lasciarsicadere al suolo e scoppiare in pianto nel vedere quanto lei apparissefragile e quanto fosse instabile la sua salute. Pareva quasi che BiasteGanderlay stesse camminando ogni giorno in precario equilibrio

sull'orlo della tomba e negli ultimi tempi la sola cosa che l'avevasorretta era stata la gioia derivante dalla corte che Lord Feringal lestava facendo. In preda alla disperazione, la giovane donna fecericorso al solo tipo di medicamento che avesse a disposizione.

«Oh, mamma!» esclamò, fingendosi esasperata. «Hai scelto proprioil momento giusto per ammalarti di nuovo!»

«Meralda», sussurrò Biaste Ganderlay, e perfino pronunciare quella

singola parola parve essere per lei una fatica enorme.«Adesso dovremo rimetterti in piedi, e al più presto, per di più»,continuò Meralda, in tono severo.

«Meralda!» la rimproverò Tori.«Ti ho parlato del giardino di Lady Priscilla», proseguì Meralda,

ignorando le proteste della sorella. «Provvedi a rimetterti in frettaperché domani sei invitata a venire con me al castello per passeggiare

nel giardino.»«E io?» implorò Tori.Nel girarsi verso di lei Meralda si accorse di avere un altro

ascoltatore, in quanto Dohni Ganderlay era fermo sulla porta con unamano appoggiata allo stipite e un'espressione sorpresa sul voltostanco.

«Certo, Tori, puoi venire con noi, ma devi promettere dicomportarti bene», affermò Meralda, sforzandosi di ignorare suopadre.

«Oh, mamma, per favore, rimettiti in fretta!» implorò Tori,afferrando con forza la mano di Biaste che per un momento parvemostrare un po' più di vitalità.

«Avanti, Tori, corri dal conducente della carrozza... si chiamaLiam... e digli che domani noi tre avremo bisogno della carrozza a

mezzogiorno per andare al castello. Non possiamo far camminaretanto la mamma», ordinò Meralda.

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Senza perdere un istante Tori si precipitò fuori per obbedirle eMeralda si chinò su sua madre.

«Rimettiti», sussurrò, baciandola sulla fronte, e Biaste annuì con unsorriso per indicare che ci avrebbe provato.

Nel lasciare la stanza Meralda avvertì su di sé lo sguardo indagatoredi suo padre, poi lo sentì chiudere la tenda della stanza dei suoigenitori e seguirla nella camera comune.

«Lui ti permetterà di portarle entrambe con te?» domandò Dohni,in tono sommesso per evitare che Biaste potesse sentirlo.

«L'idea è che io diventi sua moglie», ribatté Meralda, scrollando lespalle. «Sarebbe uno stolto a negarmi questo piccolo favore.»

Il volto di Dohni Ganderlay si ammorbidì in un sorriso pieno digratitudine e lui si avvicinò alla figlia, abbracciandola con forza, eanche se non poteva vederlo in volto Meralda si rese conto che stavapiangendo.

Affondando la testa sulla spalla paterna lei ricambiò l'abbraccio conun abbandono tale da far capire esplicitamente che anche se si stavacomportando da soldato coraggioso nell'interesse della sua famigliasotto molti aspetti era comunque una ragazzina spaventata.

Poi suo padre la baciò sulla testa e lei si sentì pervadere di calore difronte a quell'assicurazione che stava facendo la cosa più giusta.

***

Sulla collina, a poca distanza dalla casa, Jaka Sculi osservò DohniGanderlay aiutare il cocchiere a sistemare il ferro del cavallo mentreentrambi chiacchieravano e ridacchiavano fra loro come se fosserostati vecchi amici, una vista che per poco non sopraffece il povero,geloso Jaka, soprattutto in considerazione di quello che DohniGanderlay gli aveva fatto due notti prima. Possibile che Dohni noncapisse che Lord Feringal voleva le stesse cose per cui aveva percossolui? Che non riuscisse a capire che le intenzioni di Jaka erano piùoneste di quelle di Lord Feringal, che lui era più simile a Meralda per

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classe di appartenenza e origine e che sarebbe quindi stato un partitomigliore per lei?

Poi Dohni rientrò in casa e di lì a poco la sorella di Meralda uscìdall'edificio saltando di gioia nel precipitarsi a parlare con il cocchiere.

«Non ho dunque alleati?» si chiese Jaka, mordicchiandosi con farepetulante il labbro inferiore. «Sono tutti contro di me, accecati dallaricchezza e dal prestigio immeritati di Feringal Auck? Dannazione a te,Meralda! Come hai potuto tradirmi così?» gridò poi, senza curarsi delfatto che le sue parole potevano arrivare fino a Tori e al cocchiere.

Incapace di continuare a guardare, serrò quindi i pugni e se lipremette sugli occhi, lasciandosi cadere supino al suolo.

«Che giustizia c'è in questa vita?» gemette. «Oh sventura, essere natopovero, mentre il manto di un re sarebbe stato veste più adatta! Qualegiustizia permette a quello stolto di Feringal di aggiudicarsi un similepremio? Quale Ordine universale decreta che i diritti della borsa sianopiù forti di quelli dei lombi? Oh, maledetta questa vita! E che siadannata Meralda!»

Il giovane rimase disteso lassù borbottando imprecazioni e

mugolando come un gatto in trappola ancora per molto tempo dopoche Liam Woodgate ebbe riparato il ferro, condiviso un bicchiere divino con Dohni Ganderlay e imboccato la via del ritorno, per moltotempo dopo che la madre di Meralda fu infine sprofondata in unsonno tranquillo e che Meralda ebbe finito di confidare a Tori tuttoquello che era successo con Jaka, con Feringal, con Priscilla e conTemigast, molto dopo lo scatenarsi della tempesta prevista daTemigast, la cui furia si riversò sulla forma prona di Jaka,martellandolo di pioggia e sferzandolo con i freddi venti dell'oceano.

Quando infine il vento spinse via le nubi per lasciare il posto aun'alba scintillante e i lavoratori cominciarono ad avviarsi verso icampi, lui era ancora disteso sulla collina. Uno dei lavoranti, il solonano presente nel gruppo, gli si avvicinò e lo urtò con la punta dellostivale.

«Sei morto o ubriaco?» chiese.

Jaka rotolò lontano da lui, soffocando un gemito dovuto allarigidità di ogni muscolo e di ogni giuntura: troppo ferito nell'orgoglio

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per rispondere e troppo pieno di rabbia per poter fronteggiarechiunque, si alzò in piedi e si allontanò di corsa.

«Quello è davvero un tipo strano», commentò il nano, e quanti glisi erano raccolti intorno annuirono.

Quella stessa mattina ma molto più tardi, quando ormai i vestiti glisi erano asciugati sul corpo tuttora permeato del gelo accumulato nelcorso della notte, Jaka tornò sui campi per la giornata di lavoro,sopportando in silenzio i rimproveri del caposquadra e lo schernobonario degli altri braccianti. Per quanto si sforzasse di portare avantiil proprio lavoro nel modo migliore, fare qualsiasi cosa gli risultòestremamente faticoso perché aveva la mente in subbuglio e lo spirito

attanagliato dalla depressione, e si sentiva la pelle fredda e umidanonostante il sole battente.Il suo stato poi peggiorò ulteriormente quando vide la carrozza di

Lord Feringal percorrere la strada sottostante, dapprima in direzionedella casa di Meralda e poi di ritorno al castello con a bordo più di unapasseggera.

Erano tutti contro di lui.

***

Meralda apprezzò quella particolare giornata al Castello di Auckpiù di tutte le sue precedenti visite, anche se Lord Feringal non cercò dinascondere la propria delusione per il fatto di non poterla avere tuttaper sé e Priscilla non fece che ribollire di sdegno nel vedere il suomeraviglioso giardino invaso da tre contadine.

Temigast però non tardò a portare la situazione sotto controllo egrazie a qualche tempestivo intervento da parte sua il comportamentodi Priscilla rimase se non altro esteriormente cortese. Del resto perMeralda la sola cosa che avesse importanza era vedere sua madresorridere e sollevare verso il sole il fragile volto, crogiolandosi nel suocalore e negli aromi preziosi dei fiori, una scena che servì ad

alimentare la sua determinazione e a darle speranza per il futuro.

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Le tre visitatoci non si fermarono a lungo al castello, e dopo essersiconcesse un'ora nel giardino, un pasto leggero e un'altra brevepasseggiata all'aperto infine si congedarono; dietro richiesta diMeralda, che voleva così in certo modo scusarsi con Lord Feringal per

quell'intrusione inattesa, il giovane nobile si unì a loro nel tragitto diritorno fino alla casa dei Ganderlay, lasciando sulla porta del castelloTemigast e l'inacidita Priscilla.

«Contadini», dichiarò lei. «Dovrei percuotere sulla testa mio fratelloper aver portato gente del genere al Castello di Auck.»

La prevedibilità del suo commento strappò una risatina a Temigast.«In effetti sono un po' rozzi», ammise poi il siniscalco, «ma non sono

persone sgradevoli».«Mangiatori di fango», ringhiò Priscilla.«Forse stai vedendo la situazione da una prospettiva sbagliata»,

suggerì Temigast, girandosi a guardarla con un asciutto sorriso.«Esiste un modo soltanto per guardare ai contadini: dall'alto in

basso», replicò Priscilla.«I Ganderlay però sono destinati a non essere più contadini», non

riuscì a trattenersi dal ricordarle Temigast.Priscilla sbuffò con fare dubbioso.«Forse dovresti vedere questa situazione come una sfida», continuò

Temigast, poi fece una pausa e quando Priscilla si girò a guardarlo concuriosità aggiunse: «Come far nascere da un bulbo un fiore delicato».

«I Ganderlay? Delicati?» commentò in tono incredulo Priscilla.

«Forse potrebbero esserlo con l'aiuto di Lady Priscilla Auck»,dichiarò Temigast. «Quale grande realizzazione sarebbe per teilluminarli e perfezionarli, un'impresa che indurrebbe tuo fratello avantarsi di te con ogni mercante di passaggio e che senza dubbioarriverebbe perfino all'orecchio della buona società di Luskan. Unasorta di medaglia d'onore sul tuo petto.»

Priscilla sbuffò di nuovo con aria tutt'altro che convinta ma nonribatté e non borbottò neppure i consueti insulti; mentre siallontanava la sua espressione si fece incuriosita, come se stesseelaborando qualche piano.

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Nel guardarla Temigast si rese conto che aveva abboccato all'amo oche quanto meno aveva assaggiato l'esca, e scosse il capo consconcerto perché il modo in cui i nobili si consideravano migliori dellepersone da essi governate, anche se quella era una posizione dovuta

soltanto alla casualità della propria nascita, non cessava mai distupirlo.

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rinchiudersi a esclusione di ogni altra cosa, e lassù sulla gogna tornò acercare rifugio in quell'angolo.

Uno alla volta i prigionieri vennero sciolti dal palo e fatti circolarelungo il perimetro della piattaforma, abbastanza vicini alla folla dapermettere agli spettatori di infierire su di loro, oppure per esserecondotti agli strumenti di tortura, che includevano una croce a cuilegarli per essere frustati, una sorta di argano studiato per sollevarli inaria mediante un palo infilato sotto le braccia legate dietro la schiena,cavigliere per appenderli a testa in giù dentro secchi pieni di acquasporca o, nel caso dello sfortunato Creeps, di urina. Creeps urlò per lamaggior parte del tempo, mentre Tee-a-nick-nick e Wulfgaraccettarono con silenzioso stoicismo tutte le pene corporali escogitatedall'assistente del magistrato, senza emettere alcun suono trannequalche inevitabile sussulto dovuto alla mancanza d'aria; quanto aMorik, sopportò ogni cosa con coraggio, continuando a protestare lapropria innocenza e a rivolgere alle guardie commenti sarcastici che gliprocurarono una dose ancora maggiore di percosse.

Poi il Magistrato Jharkheld fece la sua comparsa fra ululati eapplausi della folla, vestito con una spessa veste nera e un cappello

dello stesso colore e tenendo in mano un tubo per pergamene inargento. Portatosi al centro della piattaforma, si arrestò in mezzo aiprigionieri e li fissò deliberatamente a uno a uno negli occhi, poiavanzò di qualche passo e con un gesto drammatico esibì il tubod'argento contenente i documenti di condanna, ottenendo un altrocoro di applausi.

Scandendo con calma ogni movimento in modo da scatenare unareazione crescente da parte del suo pubblico, Jharkheld aprì il tubo eprelevò i documenti, poi li srotolò e li mostrò alla folla a uno a uno,leggendo il nome di ciascun prigioniero.

In quel momento il magistrato sembrava senza dubbio molto similea Errtu nel modo in cui orchestrava quella tortura psicologica, tantoche agli orecchi del barbaro perfino la sua voce suonò simile a quelladel balor, stridente, gutturale e inumana.

«Adesso vi racconterò una storia di inganno e di tradimento, diamicizia rinnegata e di assassinio tentato per profitto», cominciòJharkheld, poi indicò con un ampio gesto Creeps Sharky e proseguì:

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«Quell'uomo mi ha confessato ogni cosa, e l'orrore che ho provato miha da allora impedito di dormire».

Il magistrato procedette quindi a esporre nei dettagli la storia delpiano criminoso così come Sharky gliel'aveva raccontata. Secondoquel miserabile, il piano era stato un'idea di Morik, che insieme a Wulfgar aveva attirato Deudermont allo scoperto in modo cheTee-a-nick-nick potesse colpirlo con un dardo avvelenato. Secondo ilpiano Morik avrebbe poi dovuto ferire il capitano utilizzando undiverso tipo di veleno per essere certo che i preti non potesserosalvarlo, ma il tempestivo arrivo della guardia cittadina gli avevaimpedito di farlo. Secondo Sharky, per tutto il tempo richiesto dallapreparazione del piano lui aveva cercato di dissuadere i complici dalmetterlo in atto ma non aveva parlato della cosa con altri per timoredi Wulfgar, perché il grosso barbaro aveva minacciato di strappargli latesta dalle spalle e di farla rotolare a calci per tutte le strade di Luskan.

Quell'ultima parte della storia parve decisamente credibile a moltifra la folla perché avevano avuto modo di cadere vittima delle tatticheutilizzate da Wulfgar per mantenere l'ordine alla Scimitarra.

«Voi quattro siete accusati di cospirazione e di tentato omicidio neiconfronti del buon Capitano Deudermont, un visitatore che nellanostra città gode di un'eccellente reputazione», dichiarò Jharkheld,una volta ultimata la storia, poi attese che le urla e le acclamazionidella folla si spegnessero per aggiungere: «E siete inoltre accusati diaver recato gravi danni fisici al suddetto capitano. Nell'interesse dellagiustizia, siamo ora disposti a sentire cosa rispondete a queste accuse».

Il magistrato si avvicinò quindi a Creeps Sharky.

«Ho riferito la storia così come tu me l'hai raccontata?» domandò.«Sì, signore, lo hai fatto», fu pronto a replicare il pirata. «Sono stati

loro a fare tutto!»Dalla folla si levarono molte grida che esprimevano dubbi al

riguardo, ma altri fra i presenti si limitarono a ridere del miserospettacolo offerto da quell'uomo.

«Mastro Sharky», proseguì Jharkheld, «ammetti di essere colpevoledella prima accusa?»

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«Sono innocente!» protestò Sharky, in un tono da cui si capiva cheera animato dalla speranza che la sua collaborazione gli permettesse disfuggire alle estreme conseguenze della gogna, ma le beffe della follacoprirono quasi completamente la sua voce.

«Ammetti di essere colpevole della seconda accusa che ti vienemossa?»«Sono innocente!» insistette il pirata in tono di sfida, arrivando a

sorridere ai magistrato.«Colpevole!» gridò una vecchia. «È colpevole, e merita di morire in

modo orribile per come ha cercato di scaricare la colpa sugli altri!»Cento voci si levarono ad applaudire le parole della donna, ma

Creeps Sharky non accennò a perdere il proprio sorriso e la propriaapparente sicurezza mentre Jharkheld si avvicinava al limite dellapiattaforma e levava in alto le mani per tentare di calmare la folla.

«La storia di Creeps Sharky ci ha permesso di condannare gli altri»,disse, quando fu tornato il silenzio. «Di conseguenza gli abbiamopromesso di usargli misericordia in virtù della sua collaborazione»,continuò, scatenando una marea di fischi e di proteste, poi concluse:

«Lo abbiamo promesso per la sua onestà e per il fatto che, stando allesue parole che non sono state confutate dagli altri, lui non hapartecipato direttamente al fatto».

«Io le contesto!» gridò Morik, generando un coro di applausi.Jharkheld però rivolse solo un cenno a una guardia che zittì Morik

con una randellata nel ventre.«Gli abbiamo promesso clemenza», ripeté Jharkheld, levando in

aria le mani con un gesto impotente come a dire che quella era unacosa a cui non poteva porre rimedio. «Di conseguenza gliconcederemo una morte rapida.»

Quelle parole cancellarono il sorriso sulla faccia di Creeps Sharky etrasformarono il coro di fischi in un roboante applauso diapprovazione.

Sharky venne quindi trascinato fino a un ceppo e costretto a

inginocchiarsi nonostante le sue incoerenti parole di protesta.

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«Sono innocente!» gridò il pirata, ma la voce gli venne troncata ingola da una guardia che gli sbatté la faccia contro il blocco di legnomentre un grosso boia munito di un'ascia di dimensioni mostruoseveniva a mettersi in posizione accanto a lui.

«Il colpo non sarà preciso se ti dibatti», avvertì la guardia.«Me lo avevate promesso!» urlò Creeps Sharky, sollevando la testa.Le guardie tornarono a spingerlo con forza sul ceppo.«Smettila di contorcerti!» ingiunse una di esse.Terrorizzato, il pirata si liberò con uno strattone dalla loro presa e

cadde sulla piattaforma, rotolando disperatamente lontano dal

ceppo, poi scoppiò il caos quando le guardie lo afferrarono di nuovoe lui prese a scalciare violentemente fra le risate della folla e grida chesuggerivano di impiccarlo, di fargli fare qualche «giro di chiglia» o diricorrere ad altri orribili metodi di esecuzione capitale.

***

«Un'amabile adunata», commentò in tono sarcastico il CapitanoDeudermont rivolto al mago Robillard che, insieme a lui e a parecchialtri marinai delFolletto del Mare, era fermo al margine della folla cheurlava e si agitava.

«È giustizia», dichiarò con fermezza il mago.«Mi chiedo se lo sia davvero», replicò in tono pensoso il capitano.

«È giustizia o soltanto un macabro intrattenimento? Esiste una linea

molto sottile, amico mio, e considerato questo spettacolo quasiquotidiano sono convinto che le autorità di Luskan l'abbianooltrepassata ormai da molto tempo.»

«Sei stato tu a voler venire qui», gli ricordò Robillard.«È mio dovere presenziare come testimone», rispose Deudermont.«Intendevo qui a Luskan», precisò Robillard. «Sei voluto venire tu in

questa città, capitano. Io avrei preferito Waterdeep.»Deudermont lo fissò con severità ma non trovò nessuna valida

obiezione a quelle parole.

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***

«Smettila di contorcerti!» gridò la guardia a Creeps, ma il piratacontinuò a lottare con crescente vigore, scalciando e urlandodisperatamente, al punto che per qualche tempo riuscì addirittura asottrarsi alla presa delle guardie per la delizia degli spettatori che sistavano divertendo come non mai per quello spettacolo. Poi i freneticimovimenti di Creeps lo portarono in una posizione da cui lui incrociòlo sguardo di Jharkheld e il magistrato lo fissò con occhi così roventi eminacciosi che lui s'immobilizzò di colpo.

«Squartatelo», ordinò il magistrato, scandendo quella singola parolain tono lento e deciso.

In tutta la sua vita Creeps aveva avuto modo di assistere soltantodue volte a quel tipo di esecuzione, ma questo fu sufficiente a tingereil suo volto di un pallore mortale, a generare in tutto il suo corpo untremito incontrollabile e a indurlo a urinarsi addosso davanti amigliaia di spettatori.

«Hai promesso», sussurrò, a stento in grado di respirare, ma convoce abbastanza forte perché il magistrato lo sentisse.

«Ho promesso misericordia», affermò in tono pacato Jharkheld,avvicinandosi, «e terrò fede alla mia parola, ma soltanto secollaborerai. Sta a te scegliere».

Quanti fra gli spettatori erano abbastanza vicini da riuscire a sentirelevarono grida di protesta, ma Jharkheld li ignorò.

«Ho quattro cavalli già pronti in attesa», ammonì.Creeps cominciò a piangere.«Conducetelo al ceppo», ordinò allora il magistrato, e questa volta

Creeps non tentò in nessun modo di opporre resistenza quando leguardie lo trascinarono di nuovo fino al blocco di legno,costringendolo a inginocchiarsi e spingendogli giù la testa.

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Escludendo dalla propria sfera di attenzione la voce del magistrato,Morik si costrinse a ritirarsi con la mente in un luogo in cui era serenoe al sicuro. Pensò a Wulfgar, a come stranamente e contro ogniprobabilità lui e il barbaro fossero diventati amici, considerato che un

tempo erano stati rivali a causa della crescente reputazione di Wulfgarnella Strada della Mezzaluna, soprattutto dopo che lui aveva ucciso ilbrutale Spaccaceppi. Essendo il solo che ancora avesse una reputazioneda proteggere, Morik aveva preso in considerazione l'eventualità dieliminare Wulfgar, anche se in realtà l'assassinio non era mai stato ilsuo modo d'agire preferito.

Poi c'era stato quell'incontro incredibile: un elfo scuro... un dannatodrow... era entrato nella stanza da lui presa in affitto, apparendovisenza il minimo preavviso, e gli aveva intimato di tenere attentamented'occhio Wulfgar senza però fargli del male. L'elfo scuro lo avevapagato molto bene, ed essendo consapevole che l'oro del drow erameglio della lama affilata delle sue armi Morik si era attenuto alleistruzioni ricevute, sorvegliando Wulfgar sempre più da vicino a manoa mano che i giorni passavano. In questo modo loro avevanocominciato a bere insieme e a trascorrere le tarde ore della notte,

spesso anche fino all'alba, seduti sui moli.Morik non aveva più avuto notizie dell'elfo scuro, ma sapeva che segli fosse giunto l'ordine di eliminare Wulfgar avrebbe rifiutato. Nelformulare quei pensieri il furfante si rese conto che se adesso fossestato avvertito che gli elfi scuri stavano venendo a uccidere il barbarosi sarebbe schierato al suo fianco.

Subito dopo però ammise più realisticamente con se stesso che conogni probabilità non si sarebbe schierato al fianco di Wulfgar ma loavrebbe avvertito perché potesse fuggire il più lontano possibile.

Adesso però non c'era più dove fuggire. Fugacemente, Morik sichiese se gli elfi scuri si sarebbero fatti vivi per salvare quell'umano neicui confronti avevano manifestato tanto interesse. Forse una legionedi guerrieri drow avrebbe attaccato la Gogna dei Prigionieri, facendo apezzi quei macabri spettatori con le spade affilate nel dirigersi verso lapiattaforma.

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Quella fantasticheria non poté però trovare appiglio duraturoperché dentro di sé Morik sapeva bene che i drow non sarebberovenuti per Wulfgar. Non questa volta.

«Mi dispiace davvero, amico mio», mormorò, rivolto a Wulfgar,perché non poteva ignorare il fatto che quella situazione era in granparte colpa sua.

Wulfgar non rispose e Morik si rese conto che lui non lo avevaneppure sentito perché era già fuggito a modo suo da quel posto,ritirandosi in profondità dentro se stesso.

E forse quello era il comportamento migliore da adottare. Nelguardare la folla sogghignante, nell'ascoltare Jharkheld che continuava

ad arringarla, nell'osservare il cadavere decapitato di Creeps Sharkyche veniva trascinato giù dalla piattaforma, Morik desiderò di essereanche lui capace di isolarsi in quel modo.

***Dopo aver raccontato di nuovo la storia di Creeps Sharky e di come

gli altri tre avessero cospirato con lui per assassinare l'eccellenteCapitano Deudermont, il Magistrato Jharkheld si avvicinò a Wulfgar eindugiò per un momento a fissarlo scuotendo il capo prima di girarsi dinuovo verso la folla, in attesa della prevista reazione.

Che giunse puntualmente sotto forma di un fiume di grida discherno e di insulti all'indirizzo del barbaro.

«Tu sei il peggiore di tutti!» gridò Jharkheld, con la faccia a pochicentimetri da quella di Wulfgar. «Lui era tuo amico e tu lo hai tradito!»

«Fategli fare un giro di chiglia intorno alla nave di Deudermont!»gridò qualcuno.

«Squartatelo e datelo in pasto ai pesci!» suggerì qualcun altro.Jharkheld si girò verso la folla e sollevò una mano per chiedere

silenzio, e dopo qualche momento gli spettatori obbedirono.«Ritengo che sia bene lasciare costui per ultimo», decretò allora il

magistrato.Quella decisione suscitò un coro di proteste.

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«E quanto ci divertiremo», continuò però Jharkheld, da imbonitorenato. «Rimangono tre prigionieri, e tutti e tre si rifiutano diconfessare.»

«Giustizia», sussurrò fra sé Morik. Wulfgar intanto continuò a tenere lo sguardo fisso davanti a sé, e

soltanto il pensiero del povero Morik lo trattenne dallo scoppiare aridere in faccia al magistrato. Jharkheld credeva davvero che qualsiasicosa gli avesse fatto potesse essere peggiore dei tormenti che Errtu gliaveva inflitto? Jharkheld poteva far apparire Catti-brie su quellapiattaforma, possederla e poi smembrarla davanti ai suoi occhi comeErrtu aveva fatto innumerevoli volte? Poteva creare un'immagine

illusoria di Bruenor, tranciare a metà con le zanne il cranio del nano epoi usare la metà rimanente come ciotola in cui consumare uno stufatodi cervello? Poteva infliggere al suo corpo agonie peggiori di quelleescogitate da un demone che si esercitava da millenni nell'arte dellatortura? E alla fine di tutto, poteva Jharkheld portarlo sulla sogliastessa della morte soltanto per poi risanarlo in modo da ricominciaretutto daccapo innumerevoli volte?

Nel seguire quelle riflessioni Wulfgar si rese d'un tratto conto di unacosa che lo indusse addirittura a illuminarsi in volto: era in questo cheJharkheld e il suo macabro palcoscenico non potevano reggere ilconfronto con l'Abisso. Qui lui sarebbe morto e finalmente sarebbestato libero.

***

Allontanatosi di corsa dal barbaro, il magistrato si arrestò davanti aMorik e gli afferrò con mano salda il volto sottile, costringendolorudemente a guardarlo in faccia.

«Ammetti di essere colpevole?» urlò.Morik per poco non lo fece, per poco non gridò di aver

effettivamente cospirato per uccidere Deudermont. Formulando

mentalmente un rapido piano, decise che avrebbe ammesso di avercospirato, ma soltanto con il pirata coperto di tatuaggi, per cercare disalvare in qualche modo l'amico innocente.

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se era dotato della capacità di concentrazione dei qullan, un modomolto simile a quello utilizzato da Wulfgar per rimuovere se stessodalla realtà che stava vivendo.

«Confesserai tutto, ma allora sarà troppo tardi», promise Jharkheld,agitandogli rabbiosamente un dito davanti alla faccia, senza rendersiconto che la discendenza e la disciplina del pirata rendevano inutiliquei gesti intimidatori.

La folla si fece addirittura frenetica quando le guardie staccarono ilpirata dal palo a cui era legato e lo trascinarono da uno strumento ditortura all'altro. Mezz'ora più tardi, sebbene lo avessero percosso efrustato, cospargendogli le ferite di acqua salata e arrivando

addirittura a cavargli un occhio con un ferro rovente, Tee-a-nick-nickancora non mostrava in nessun modo di essere disposto a parlare enon aveva praticamente emesso suono, né per confessare né perimplorare o anche solo per urlare.

Frustrato oltre ogni limite, Jharkheld si diresse verso Morik giustoper mantenere vivo lo spettacolo e non gli chiese neppure se eradisposto a confessare, procedendo addirittura a schiaffeggiarloviolentemente e ripetutamente ogni volta che lui cercava di dire unaparola. Ben presto Morik venne legato alla ruota, con il torturatoreche accentuava ogni pochi minuti la tensione in maniera lieve e quasiimpercettibile per chiunque, tranne per il povero prigioniero.

Nel frattempo Tee-a-nick-nick continuò a subire le torture piùbrutali, tanto che quando Jharkheld tornò a concentrarsi su di luiormai le gambe non lo reggevano più e le guardie furono costrette aissarlo in piedi e a sorreggerlo.

«Sei pronto a dirmi la verità?» domandò il magistrato.Tee-a-nick-nick gli sputò in faccia.«Portate qui i cavalli!» stridette il magistrato, tremando di rabbia, e

quell'ordine scatenò la frenesia della folla perché non capitava spessoche lui optasse per lo squartamento. Coloro che avevano assistito allacosa sostenevano che era lo spettacolo più eccitante di tutti.

Nella piazza furono condotti quattro cavalli bianchi, a ciascuno deiquali era assicurata una robusta corda e le guardie cittadine spinseroindietro la folla per permettere agli animali di avvicinarsi alla

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piattaforma. Il magistrato guidò poi con precisione i suoi uomini perpredisporre la fase successiva dello spettacolo e ben prestoTee-a-nick-nick si trovò con i polsi e le caviglie legati rispettivamente aciascun cavallo.

A un segnale del magistrato i cavalieri incitarono le possenticavalcature ognuna verso un diverso punto cardinale e d'istinto ilpirata contrasse i muscoli per resistere alla tensione. La lotta però eradel tutto impari e ogni resistenza inutile: ben presto Tee-a-nick-nick sivenne a trovare teso al di là delle possibilità fisiche del suo corpo edalle labbra gli sfuggirono infine alcuni ansimanti grugniti quando icavalieri e le loro cavalcature ben addestrate lo tennero per qualchemomento tirato al massimo; poi si sentì uno schiocco sonoro cheaccompagnò l'infrangersi dell'articolazione di una spalla, seguita di lì apoco da quella di un ginocchio.

Segnalando ai cavalieri di tenere fermi i cavalli, Jharkheld siavvicinò al condannato con un coltello in una mano e una frustanell'altra e mostrò la lama scintillante al pirata, rigirandola davanti aisuoi occhi.

«Posso porre fine alla tua agonia», offrì. «Confessa la tua colpa eavrai una morte rapida.»

Grugnendo di dolore, il pirata tatuato distolse lo sguardo e a uncenno di Jharkheld i cavalieri fecero avanzare i cavalli di un altropasso.

L'osso pelvico del condannato s'infranse e lui infine prese a ulularedi dolore, poi la sua voce fu sovrastata dal ruggito di entusiasmo dellafolla quando la sua pelle cominciò a lacerarsi.

«Confessa!» gridò a gran voce Jharkheld.«L'ho colpito!» stridette Tee-a-nick-nick.Prima che la folla avesse anche solo il tempo di emettere un gemito

di delusione, Jharkheld fece schioccare la frusta.«Troppo tardi!» esclamò.I cavalli spiccarono un balzo in avanti strappando le gambe di

Tee-a-nick-nick dal torso, poi gli altri due animali a cui erano fissati ipolsi del condannato si lanciarono in direzioni opposte e sul volto del

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a ripulire dal sangue e dalle interiora il tratto di piazza antistante alpalco.

«Hai visto quanto tempo ci vuole ad ammettere la verità?» chiese aMorik. «Ha confessato troppo tardi, quindi ha sofferto fino alla fine.

Vuoi essere altrettanto stolto?»Morik, i cui arti cominciavano a essere sottoposti a una tensione

tale da essere prossimi al punto di rottura, accennò a rispondere conl'intenzione di confessare, ma Jharkheld gli posò un dito sulle labbra.

«Non è ancora il momento», spiegò, e quando Morik cercò ancoradi parlare lo fece imbavagliare con uno straccio sporco infilato inbocca e un altro legato su di esso e intorno alla testa per tenerlo fermo.

Portatosi alle spalle della ruota, il magistrato esibì poi una piccolascatola di legno, chiamata la scatola del topo, e dalla folla si levaronoululati di entusiasmo mentre nel riconoscere quell'orribile strumentoMorik sgranava gli occhi per il terrore e cominciava a lottare nel vanosforzo di liberarsi. Odiava i topi, ne era sempre stato terrorizzato pertutta la sua vita.

E adesso il suo incubo peggiore stava diventando realtà.

Portatosi di nuovo sul davanti della piattaforma Jharkheld sollevònuovamente la scatola, rigirandola in modo che la folla potesse vedereil modo ingegnoso in cui era strutturata: il davanti era di rete metallicamentre le altre tre pareti e la sommità erano di legno, come pure ilfondo che aveva però un pannello scorrevole per permettere di aprireil tutto. Nella scatola sarebbe stato infilato un ratto, poi il congegnosarebbe stato assicurato sul ventre nudo di Morik, il fondo scorrevolesarebbe stato rimosso e alla scatola sarebbe stato appiccato il fuoco.

Naturalmente il ratto sarebbe fuggito nel solo modo possibile...attraverso il corpo di Morik.

Un uomo munito di uno spesso guanto si avvicinò tenendo inmano un ratto che insinuò nella scatola, sistemando poi il tutto sulventre di Morik, ma invece di appiccare subito il fuoco diede prima iltempo all'animale di aggirarsi nella sua prigione con le zampe chetamburellavano sulla pelle esposta, mordicchiandola di tanto in tantomentre Morik continuava inutilmente a contorcersi.

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Jharkheld intanto si avvicinò a Wulfgar, chiedendosi come avrebbefatto a innalzare ulteriormente il già frenetico livello di eccitazione e didivertimento della folla e cosa poteva fare a quello stoico colosso perrendere la sua fine ancor più spettacolare delle due precedenti

esecuzioni.«Ti piace quello che stiamo facendo al tuo amico Morik?» domandòal barbaro.

Wulfgar, che aveva visto le profondità del dominio di Errtu e cheera stato divorato da creature che avrebbero terrorizzato un esercitodi ratti, non si prese neppure il fastidio di rispondere.

***

«Hanno davvero la massima stima nei tuoi confronti», commentòRobillard, rivolto a Deudermont. «È capitato di rado che Luskanassistesse a una così elaborata esecuzione multipla.»

Quelle parole destarono echi violenti nella mente del capitano,soprattutto la prima affermazione e l'idea che fosse stata lareputazione di cui godeva a Luskan a scatenare quello che stavaaccadendo. No, in realtà aveva soltanto fornito al sadico Jharkheld la

scusa per infliggere quell'orribile trattamento ad altri esseri umani, perquanto essi potessero essere colpevoli, e comunque continuava a nonessere convinto del coinvolgimento di Wulfgar e di Morik. Aggiunta atutto questo, la realizzazione che quella strage stava venendo eseguitain suo onore lo disgustò profondamente.

«Mastro Micanty!» chiamò, scrivendo in fretta un biglietto checonsegnò al marinaio.

«No!» esclamò Robillard, intuendo cosa Deudermont intendessefare e sapendo che un'azione del genere avrebbe avuto un costonotevole per il Folletto del Mare , sia presso le autorità che con lapopolazione cittadina. «Merita di morire!»

«Chi sei tu per giudicare?» domandò Deudermont.«Non sono io a giudicare, ma loro!» esclamò il mago, indicando la

folla con un ampio gesto del braccio.

Deudermont sbuffò con disprezzo di fronte a quell'idea assurda.

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«Capitano, saremo costretti a lasciare Luskan e non saremo più ibenvenuti qui per chissà quanto tempo», gli fece notare Robillard.

«Dimenticheranno tutto non appena i prossimi prigionieri verrannoportati qui per il loro divertimento, probabilmente all'alba didomani», ribatté Deudermont, con un asciutto e amaro sorriso. «Ecomunque hai sempre sostenuto che Luskan non ti piace.»

Robillard gemette, poi levò le braccia ai cielo in un gesto disconfitta e sospirò mentre Deudermont, cedendo alla sua naturatroppo civile, porgeva il biglietto a Micanty e gli ordinava di correre aconsegnarlo al magistrato.

***

«Incendiate la scatola!» ordinò Jharkheld sul palco, dopo che leguardie ebbero fatto girare Wulfgar in modo che potesse contemplarel'orribile sorte di Morik.

Il barbaro scoprì di non essere in grado di distaccarsi dalla vistadella gabbia che veniva incendiata e del topo terrorizzato cheprendeva dapprima a correre avanti e indietro e poi a scavare.

La scena di una simile sofferenza inflitta a un amico penetrò infinenel suo dominio privato e prese a erodere il muro difensivo da luieretto nello stesso modo in cui il ratto stava artigliando la pelle diMorik. Dalle labbra gli scaturì un ringhio così minaccioso e innaturaleda attirare su di lui l'attenzione generale distogliendola dall'orribilespettacolo offerto da Morik, poi i possenti muscoli si contrassero e siflessero, Wulfgar fece scattare il torso da un lato e l'uomo che lo stavatenendo fermo da quella parte venne scagliato lontano;contemporaneamente il barbaro scalciò con una gamba facendoroteare la palla di ferro che l'appesantiva in modo da avvolgere lacatena a cui essa era fissata intorno alle gambe dell'altro uomo che lotratteneva, poi gli bastò un deciso strattone per far crollare la guardiaal suolo.

Wulfgar prese quindi a tirare con la forza della disperazionequando altre guardie gli piombarono addosso e lo percossero con irandelli mentre Jharkheld, infuriato da quella distrazione, ordinava di

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togliere il bavaglio a Morik. In qualche modo, per quanto potessesembrare incredibile, il possente Wulfgar liberò infine le braccia eavanzò barcollando verso la ruota.

Le guardie gli si lanciarono addosso una dopo l'altra e, per quantolui continuasse a scagliarle lontano come se fossero state dei bambini,alla fine il loro numero risultò comunque tale da impedirgli di aprirsiun varco fino all'amico, che adesso stava urlando di dolore.

«Toglimelo di dosso!» implorò Morik.D'un tratto Wulfgar si venne a trovare prono sulla piattaforma e

Jharkheld riuscì ad avvicinargli abbastanza da calargli la frusta sullaschiena con uno schiocco sonoro.

«Ammetti la tua colpa», ingiunse il magistrato in tono isterico,continuando a colpire con violenza crescente.

Ringhiando, Wulfgar non cessò invece di lottare: un'altra guardiarotolò lontano e un'altra ancora ebbe il naso fracassato.

«Toglimelo di dosso!» stridette Morik, in tono sempre più frenetico.La folla andò in delirio per l'entusiasmo e Jharkheld si rese conto di

aver raggiunto un nuovo livello di perfezione.«Basta!» ingiunse poi qualcuno dal pubblico, riuscendo in qualche

modo a sovrastare le grida generali. «Basta così!»L'eccitazione si spense in fretta e tutti si girarono, riconoscendo in

chi aveva parlato il Capitano Deudermont delFolletto del Mare che,scavato in volto e con l'aria ancora sofferente, stava venendo avantiappoggiandosi pesantemente a un bastone.

La trepidazione del Magistrato Jharkheld aumentò quando WaillanMicanty spinse di lato le guardie per salire sulla piattaforma e siprecipitò verso di lui per consegnargli il messaggio di Deudermont.

Aperto il biglietto, Jharkheld cominciò a leggerlo e la sua sorpresa,che rasentava lo stupore, si mutò in rabbia crescente a ogni parola.Infine il magistrato sollevò lo sguardo su Deudermont, segnalò con uncenno noncurante a una delle guardie di imbavagliare di nuovo Morikper metterne a tacere le urla e alle altre di issare in piedi il percosso

Wulfgar.

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Senza pensare a se stesso e incapace di comprendere cosa stessesuccedendo a parte la tortura a cui Morik era ancora sottoposto,

Wulfgar si liberò ancora una volta dalla presa delle guardie e purbarcollando e inciampando a causa delle catene e dei pesi che gli

ostacolavano i movimenti riuscì ad avvicinarsi alla ruota quantobastava per protendersi e scagliare lontano dal ventre di Morik lascatola in fiamme e il ratto.

Naturalmente venne percosso ancora e trascinato davanti aJharkheld.

«Adesso le cose per Morik peggioreranno ancora di più», promisequesti, sottovoce, poi si girò verso Deudermont con un'espressione

indignata sul volto. «Capitano Deudermont, in qualità di vittima e dinobile riconosciuto come tale tu hai l'autorità per stilare undocumento del genere, ma seicerto di volerlo fare? Proprio adessoche è quasi troppo tardi?»

Deudermont venne avanti, ignorando i borbottii, le proteste eperfino le minacce della folla assetata di sangue, e si erse sulla personacon coraggiosa dignità.

«Le prove contro Creeps Sharky e il pirata tatuato erano concrete»,spiegò, «ma è plausibile anche la storia di Morik secondo cui lui e

Wulfgar sarebbero stati incastrati in modo da essere consideraticolpevoli mentre gli altri due intascavano la taglia».

«Però», obiettò Jharkheld, puntando un dito verso l'alto, «èplausibile anche la versione data da Creeps Sharky, che li incriminatutti e quattro».

La folla, confusa ma ormai animata dal sospetto che il suodivertimento stesse per finire, mostrò di preferire la spiegazione delmagistrato.

«Come è plausibile anche la storia di Josi Puddles, che implicaulteriormente Morik il Furfante e Wulfgar», continuò questi.«Capitano, posso ricordarti che il barbaro non ha neppure cercato diconfutare le accuse di Creeps Sharky?»

Deudermont guardò verso Wulfgar, che però era tornato adassumere il consueto, irritante atteggiamento passivo.

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aria guardinga e un attimo più tardi comprese il perché nel vedere ilCapitano Deudermont e il suo amico mago che si avvicinavano.

Per un momento pensò che Deudermont li avesse salvati daJharkheld soltanto perché desiderava punirli di persona, ma quel suotimore fu di breve durata perché il capitano puntò dritto verso Wulfgar, fissandolo con espressione dura ma senza minacciarlo innessun modo; il barbaro dal canto suo sostenne quello sguardo conespressione impassibile.

«Hai detto la verità?» domandò Deudermont. Wulfgar si limitò a sbuffare e il capitano si rese conto che non

avrebbe avuto altra risposta.

«Cosa è successo a Wulfgar figlio di Beornegar?» chiese ancora intono sommesso, e quando Wulfgar accennò ad allontanarsi si affrettòa bloccargli il passo, aggiungendo: «Mi devi almeno questo».

«Non ti devo nulla», ribatté Wulfgar.Deudermont rifletté per un momento su quella risposta e

nell'osservarlo Morik si rese conto che lui stava cercando di vedere lecose dal punto di vista di Wulfgar.

«Ne convengo», disse infine, strappando un verso di contrarietà aRobillard. «Hai proclamato la tua innocenza, e in quel caso non midevi nulla perché ho fatto soltanto ciò che era giusto. Ascoltami innome della nostra passata amicizia.»

Wulfgar lo fissò con freddezza ma non accennò ad allontanarsi.«Non so cosa abbia causato la tua caduta, amico mio, cosa ti abbia

fatto allontanare da amici come Drizzt Do'Urden e Catti-brie, come iltuo padre adottivo Bruenor, che ti ha accolto presso di sé e ti hainsegnato a vivere», continuò il capitano. «Posso soltanto pregare chequei tre e l'halfling siano sani e salvi.»

Poi fece una pausa, ma Wulfgar non rispose alla sua domandaindiretta.

«Non puoi trovare sollievo duraturo in una bottiglia, amico mio»,proseguì Deudermont, «e non c'è nulla di eroico nel difendere unataverna dai suoi clienti abituali. Perché hai voluto abbandonare ilmondo che conoscevi per questa vita?».

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PARTE TERZAUNA TERRA SELVAGGIA RESA

ANCOR PIU' SELVAGGIAIl corso degli eventi della mia vita mi ha spesso indotto a esaminare

la natura del bene e del male, e sono stato sovente testimone del manifestarsi di entrambi, soprattutto del male, nella loro forma più pura. La totalità della prima parte della mia vita è stata trascorsa a contatto del male, in un 'atmosfera intrisa di una malvagità così intensa che ha finito per soffocarmi e costringermi ad andarmene.

Solo di recente, a mano a mano che la mia reputazione mi ha permesso di conquistare una certa misura di accettazione... o almeno di tolleranza... da parte delle popolazioni umane, sono giunto a osservare una versione più complessa di ciò che avevo già visto a Menzoberranzan, una sfumatura di grigio che varia di intensità. Sono moltissimi (anzi sembrano essere la maggioranza) gli umani che hanno

nella loro natura un lato oscuro, una passione per il macabro e la capacità di infliggere senza provare rimorso sofferenza agli altri nel perseguire il proprio interesse.

Questo fenomeno è più che mai evidente nella Gogna dei Prigionieri di Luskan e in altre simili messinscene che sono solo una finzione di giustizia. I prigionieri, a volte colpevoli e a volte no (ma del resto la cosa ha poca importanza), vengono esposti al ludibrio della folla assetata di sangue e poi percossi, torturati e infine giustiziati in maniera spettacolare. Il magistrato che presiede all'operazione si sforza in ogni modo di strappare le più laceranti urla di assoluta agonia a quei poveretti e il suo compito è quello di trasformare il loro volto nell'incarnazione stessa del terrore, di far trasudare dai loro occhi l'orrore più assoluto.

Una volta, quando mi trovavo a Luskan con il Capitano Deudermont del Folletto del Mare,mi sono recato alla gogna per assistere al «processo» di numerosi pirati che avevamo ripescato in mare dopo averne affondato la nave. Assistere allo spettacolo di un

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migliaio di persone assiepate in una piazza intorno a una sorta di grande palcoscenico, intente a inveire e a strillare di entusiasmo mentre quei miserabili pirati venivano letteralmente fatti a pezzi per poco non mi ha indotto ad abbandonare la nave di Deudermont e la

vita di cacciatore di pirati per ritirarmi in solitudine nelle foreste o sulle montagne.

Naturalmente Catti-brie è stata pronta a ricordarmi quale fosse la verità, a sottolineare che spesso quegli stessi pirati avevano inflitto simili torture a prigionieri innocenti. Pur ammettendo che questo non

giustificava la Gogna dei Prigionieri, a cui non si sarebbe mai avvicinata per nessun motivo, Catti-brie ha osservato che trattare i pirati in quel modo era preferibile al permettere loro di circolare liberi in alto mare.

Ma perché? Perché tanta crudeltà gratuita?

Quell'interrogativo mi ha tormentato per tutti questi anni e nel cercare una risposta a esso sono giunto a esplorare un'ennesima sfaccettatura di queste complicate creature chiamate umani. Cosa induceva persone normali e peraltro buone e oneste ad abbassarsi a un simile livello animalesco di fronte allo spettacolo della Gogna dei Prigionieri? E per quale motivo perfino alcuni membri dell'equipaggio del Folletto del Mare,uomini e donne che sapevo essere onesti e onorevoli, traevano piacere dalla macabra vista di quelle torture ?

La risposta, forse (sempre che esista una risposta più complessa della natura stessa del male) risiede nell'esame degli atteggiamenti delle altre razze. Fra le razze buone, soltanto gli umani «celebrano» l'esecuzione e la tortura dei prigionieri. Nelle società degli halfling non esiste nulla di

tutto questo, anzi si conoscono casi di halfling reclusi morti per indigestione, e lo stesso vale anche per i nani, nonostante la loro natura aggressiva. Nella loro società i prigionieri vengono eliminati in maniera efficiente e pulita, senza pubblico spettacolo; a un assassino,per esempio, viene infetto un singolo colpo sul collo. Quanto agli elfi,non ne ho mai visti presenziare alla Gogna dei Prigionieri, tranne una volta in cui due di essi si sono avventurati nella piazza soltanto per andarsene subito in preda a un evidente disgusto, e per quanto ne so la

società degli gnomi non contempla neppure le esecuzioni capitali,soltanto una vita di prigionia in una comoda cella.

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Dunque perché solo gli umani indulgono in queste cose? Cosa c'è nella struttura emotiva di un essere umano che riesce a generare uno spettacolo come la Gogna dei Prigionieri? Il male? Io ritengo che anche questa sia una risposta troppo semplice.

Gli elfi scuri apprezzano molto la tortura... cosa che so fin troppo bene... e in effetti le loro azioni sono basate sul sadismo e sulla malvagità, su un insaziabile desiderio di soddisfare la fame demoniaca della Regina Aracnide, ma come sempre quando si tratta degli umani,nel loro caso la risposta si fa un po' più complessa. Senza dubbio è presente una certa dose di sadismo, soprattutto da parte del magistrato che presiede alle esecuzioni e dei torturatori che lo assistono, ma per quanto riguarda la gente comune, la massa di popolani impotenti che costituiscono il pubblico plaudente, credo che il suo entusiasmo abbia un 'altra causa.

Innanzitutto nel Faerun i popolani sono sudditi impotenti dei capricci di nobili e di signori terrieri privi di scrupoli, oppressi dal costante pericolo di qualche invasione da parte di goblin, giganti o altri umani che vengano a distruggere la misera vita che sono riusciti a costruirsi. La Gogna dei Prigionieri permette a questa gente sfortunata

di assaporare il potere sulla vita e sulla morte e di sentire per qualche tempo di avere il controllo sulla propria vita.

In secondo luogo, gli umani non vivono a lungo quanto gli elfi o i nani, e di solito perfino gli halfling vivono più a lungo di loro. I contadini si trovano ogni giorno di fronte alla possibilità della morte,e una madre abbastanza fortunata da sopravvivere a due o tre parti ha buone probabilità di assistere alla morte di almeno uno dei suoi figli prima dell'età adulta. Vivere a così stretto contatto con la morte

genera ovviamente curiosità e timore. Alla Gogna dei Prigionieri quelle persone assistono alla morte nella sua forma più orribile, la peggiore che ci possa essere, e traggono consolazione dal fatto che, a meno di essere accusati di qualcosa e condotti davanti ai magistrati, la loro morte non sarà mai altrettanto orribile. Avendo assistito a ciò che di peggio la Morte è in grado di fare, cessano di temerla.

La terza spiegazione per l'interesse destato dalla Gogna dei

Prigionieri consiste nel bisogno di giustizia e di punizione, necessari per mantenere l'ordine in una società, ed è stato a questo aspetto che si è

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appellato il mago Robillard al mio ritorno al Folletto del Mare, essendosi accorto del mio stato di orrore. Anche se lo spettacolo offerto dalla gogna non gli piaceva e lui vi aveva assistito di rado,Robillard lo ha difeso con la stessa determinazione che avrei potuto

aspettarmi dal magistrato incaricato di amministrare la giustizia,sostenendo che la vista della pubblica umiliazione inflitta a quegli uomini e della loro agonia avrebbe indotto altre persone a mantenersi oneste. Per lui, quindi, gli applausi della folla non erano altro che una conferma data da quelle persone della loro fede nella legge e nell'ordine della loro società.

Questa è un 'argomentazione difficile da contestare, soprattutto per quanto concerne l'efficacia del potere di dissuasione dal crimine di simili spettacoli, ma si tratta di vera giustizia?

Forte delle argomentazioni dì Robillard mi sono allora recato da alcuni magistrati di rango minore di Luskan con la scusa di decidere il protocollo più adatto per la consegna dei pirati catturati da parte del Folletto del Mare,ma in realtà per indurli a parlare della Gogna dei Prigionieri, e mi è subito risultato evidente che essa non aveva nulla a che fare con la giustizia, in quanto molti uomini e donne innocenti

erano finiti sul macabro palcoscenico di Luskan dopo essere stati costretti con la violenza a confessare ed erano poi stati pubblicamente puniti per quei crimini, cosa che i magistrati sapevano benissimo ed erano pronti ad ammettere senza difficoltà, sottolineando il loro sollievo per il fatto che se non altro la colpevolezza dei prigionieri che noi portavamo loro era garantita.

Per questo motivo non potrò mai venire a patti con la Gogna dei Prigionieri. Un metro per misurare qualsiasi società è il modo in cui essa tratta coloro che si sono allontanati dalla via della decenza e della collaborazione reciproca, e un trattamento indecente inflitto a questi criminali sminuisce gli standard morali dell'intera società portandoli allo stesso livello di quelli di coloro che vengono torturati.

E tuttavia questa pratica continua a prosperare in molte città del Faerun e in moltissime comunità rurali, dove per una questione di mera sopravvivenza la giustizia deve essere ancor più aspra e

definitiva.

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CAPITOLO XIVSEME RUBATO

Fermo davanti alle mura di Luskan, Wulfgar indugiò a contemplarela città dove era stato ingiustamente accusato, torturato epubblicamente umiliato; nonostante tutto questo lui però nonprovava ira nei confronti degli abitanti della città e neppure neiconfronti del sadico magistrato. Se gli fosse capitato di incontrarloancora, probabilmente gli avrebbe torto il collo, ma non tanto per

odio quanto per il bisogno di chiudere in modo definitivo quelparticolare incidente, perché l'odio era una cosa che aveva superatoormai da molto tempo. Era stato lo stesso quando lo Spaccaceppi eravenuto a cercarlo alla Scimitarra e lui lo aveva ucciso, o quando si eraimbattuto nei Cavalli del Cielo, una tribù barbara simile alla sua; inquell'occasione si era vendicato del loro malvagio sciamano per tenerefede a un giuramento fatto molti anni prima, e il suo gesto non erastato dettato dall'odio o da un'ira irrefrenabile, ma soltanto dal suo

bisogno di cercare di portare avanti la propria esistenza e diallontanarsi da un passato troppo orribile per essere ricordato.Adesso però aveva finito per rendersi conto che non stava facendo

nessun passo in avanti, cosa che gli parve evidente nel contemplare lacittà: stava girando in cerchi sempre più stretti che continuavano afarlo rimanere sempre nello stesso posto, un posto tollerabile soltantoattingendo al contenuto di una bottiglia per offuscare il passato fino acancellarlo momentaneamente e per non pensare al futuro.

Sputando per terra in preda al disgusto, Wulfgar cercò, per la primavolta da quando era giunto a Luskan alcuni mesi prima, di capire comeavesse fatto a scivolare in quella spirale discendente e ripensò alleaperte praterie del settentrione, alla sua patria nella Valle del VentoGhiacciato, dove tante volte aveva condiviso la gioia e l'eccitazionedell'azione con i suoi amici; ripensò a Bruenor, che lo aveva sconfittoin battaglia quando era soltanto un ragazzo e che poi si era mostrato

tanto generoso da accoglierlo presso di sé come un figlio e da chiederea Drizzt di addestrarlo a diventare un vero guerriero. Che amico era

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stato Drizzt, un amico che lo aveva condotto verso grandi avventure esi era schierato sempre al suo fianco in ogni battaglia, per quanto lasituazione potesse essere disperata. E adesso lui lo aveva perduto.

Poi i suoi pensieri tornarono ad accentrarsi su Bruenor, che gliaveva donato la massima espressione del suo talento di fabbro, ilmeraviglioso Aegis-fang, simbolo dell'affetto che provava per lui. Eadesso lui aveva perduto non soltanto Bruenor ma anche il magicomartello da guerra.

Wulfgar pensò quindi a Catti-brie, che per lui era stata forse lapersona più speciale, la donna che gli aveva rubato il cuore e che luiammirava e rispettava più di chiunque altra. Forse non sarebbero mai

stati marito e moglie e neppure amanti, forse lei non gli avrebbe maigenerato dei figli, ma era comunque un'amica onesta e sincera... e nelripensare al loro ultimo incontro Wulfgar giunse a comprendere laprofondità di quell'amicizia, rendendosi conto che Catti-brie era statadisposta a dargli qualsiasi cosa avesse potuto aiutarlo, a condividerecon lui i momenti e i sentimenti più intimi anche se, ora Wulfgar losapeva per certo, il suo cuore apparteneva a un altro.

Quella constatazione non generò in lui ira o gelosia ma soltantorispetto, perché nonostante i suoi sentimenti Catti-brie sarebbe statapronta a donarsi interamente per aiutarlo. Ed ora anche lei era persaper sempre.

Wulfgar sputò di nuovo per terra, dicendosi che non meritavaamici come Bruenor, Drizzt o Catti-brie, e neppure come Regis che,nonostante la sua taglia minuscola e la sua mancanza di talentoguerriero, in un momento di crisi sarebbe stato pronto a pararsi

davanti a lui per difenderlo in qualsiasi modo gli fosse stato possibile.Come poteva aver gettato via tutto questo?La sua attenzione venne riportata bruscamente alla realtà dalla vista

di un carro che stava uscendo dalla porta occidentale di Luskan, esebbene fosse di umore orribile lui non riuscì a trattenere un sorrisoquando il veicolo si avvicinò e gli fu possibile distinguere ilconducente, una florida donna di età avanzata.

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O per meglio dire Morik.

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1 I due erano stati banditi dalla città due giorni prima ma eranorimasti nelle sue vicinanze perché Morik aveva deciso che avevabisogno di procurarsi delle provviste se voleva sopravvivere lungo lastrada, motivo per cui era rientrato in città da solo. Notando il passo

lento dei due cavalli e sulla base del semplice fatto che Morikaveva uncarro e dei cavalli, Wulfgar comprese che il suo astuto amico avevaportato a termine il suo piano con successo.

Allontanato il carro dalla strada, il furfante lo diresse verso lapiccola pista boschiva dove Wulfgar lo stava aspettando e quandoarrivò alla base dell'altura su cui il barbaro era seduto si alzò in piedi acassetta e s'inchinò.

«Non è stata una cosa tanto difficile», dichiarò.«Le guardie non ti hanno riconosciuto?» chiese Wulfgar.Morik sbuffò come se quella fosse stata un'idea assurda.«E per di più erano le stesse che ci hanno scortati fuori dalla città»,

aggiunse, con una nota di orgoglio nella voce.L'esperienza vissuta nelle mani delle autorità di Luskan aveva

ricordato a Wulfgar come lui e Morik fossero soltanto grossi giocatoriin un campo molto ristretto, insignificante se messo a confronto conquello molto più vasto costituito dalla grande città... ma che giocatoreabile era Morik nel loro piccolo angolo!

«Ho perfino perso un sacco di viveri vicino alle porte», continuòintanto Morik, «e una delle guardie è corsa a raggiungermi per poterlocaricare di nuovo sul carro».

Sceso il pendio dell'altura, Wulfgar si avvicinò al carro e trasse dilato il telo che copriva il carico, costituito da sacchi di viveri, corde,materiale per erigere un riparo e soprattutto, almeno dal suo punto divista, casse di bottiglie piene di liquore.

«Ho pensato che ti avrebbero fatto piacere», commentò Morik,avvicinandoglisi mentre lui continuava a fissare quel bottino. «Averlasciato la città non significa che dobbiamo rinunciare ai nostri piaceri.Ho pensato perfino di trascinare via con noi anche Delly Curtie.»

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Wulfgar gli lanciò un'occhiata furente perché sentir pronunciare ilnome della ragazza in maniera tanto lasciva lo offendevaprofondamente.

«Vieni», riprese Morik, schiarendosi la gola e affrettandosi acambiare argomento. «Troviamo un posto tranquillo dove placare lasete.»

Lentamente si liberò del travestimento, sussultando per il doloreche ancora gli permeava le articolazioni e lo stomaco lacerato, lesioniche sarebbero guarite molto lentamente, in particolare quelle alleginocchia. Soffermatosi per un momento a contemplare la parrucca,pieno di ammirazione per il proprio operato, salì quindi di nuovo a

cassetta e prese le redini in mano.«I cavalli non sono granché», osservò Wulfgar, notando che i dueanimali apparivano vecchi e magri.

«L'oro mi è servito per comprare il liquore», spiegò Morik.Guardando in direzione del carico, convinto di aver chiuso con il

bere, Wulfgar pensò che Morik avrebbe fatto meglio a spendere queisoldi per una pariglia di cavalli più robusta e accennò a risalire il

pendio, ma venne arrestato da un richiamo dell'amico.«In città mi hanno informato che ci sono banditi sulla strada»,

avvertì il furfante. «Ce ne sono sulla pista a nord della foresta e lungotutta la strada fino al passo che attraversa la Spina Dorsale delMondo.»

«Hai paura dei banditi?» domandò Wulfgar, sorpreso.«Soltanto di quelli che non mi conoscono», spiegò Morik, e Wulfgar

non faticò a comprendere cosa avesse voluto sottintendere, dato che aLuskan la sua reputazione era stata sempre più che sufficiente a tenerea bada i soggetti peggiori. «In ogni caso è meglio essere preparati aeventuali guai», continuò Morik, infilando una mano sotto il sedile edesibendo un'enorme ascia. «Guarda», puntualizzò con un sorrisoorgoglioso nell'indicarne la lama, «è ancora sporca del sangue diCreeps Sharky».

Quella era l'ascia del boia di Luskan! Nel rendersene conto Wulfgaraccennò a chiedere a Morik come avesse mai fatto a riuscire a

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grosso quasi quanto lui, che stava cercando disperatamente diincoccare un'altra freccia.

«Prendi!» urlò lo gnoll, spaventato, lanciandogli contro l'arco perpoi gettarsi giù dal ramo, preferendo una caduta di circa sei metri alleire di Wulfgar.

Fuggire però non gli riuscì tanto facile perché Wulfgar protese discatto una mano e lo afferrò per gli abiti mentre già stava spiccando ilbalzo nel vuoto, e nonostante il suo peso e il fatto che si dibattesse escalciasse, non ebbe difficoltà a issarlo di nuovo sul ramo.

In quel momento sentì Morik gridare per chiedere aiuto.

***

In piedi sul sedile di guida del carro, Morik stava manovrandofuriosamente la spada per difendersi dagli attacchi congiunti di Togo edi un altro spadaccino umano che era sbucato dai cespugli; più dei dueassalitori, però, lo preoccupavano un terzo bandito che sentivasopraggiungere alle proprie spalle e le frecce che continuavano afendere l'aria intorno a lui.

«Pagherò!» gridò, ma il mostruoso bandito si limitò a scoppiare inuna risata sarcastica.

Con la coda dell'occhio Morik vide poi un altro arciere prenderlo dimira e spiccò un salto per evitare sia la freccia sia un affondo dellospadaccino sorprendentemente abile che lo stava fronteggiando.Quella mossa però gli costò cara perché gli fece perdere l'equilibrio elo mandò a cadere all'indietro nel carro sopra una cassa di bottiglie,frantumandone il contenuto. Rialzatosi di scatto, Morik stridetted'indignazione per quello spreco e calò con rabbia impotente la spadasul sedile di guida.

Un momento più tardi Togo salì a cassetta, conquistando quellaposizione vantaggiosa, ma il furente Morik gli tenne testa senzadifficoltà e lo attaccò con forza senza più pensare all'altro spadaccino

o agli arcieri, e quando Togo sollevò il braccio per vibrare un fendentedall'alto in basso ne approfittò per precederlo con un affondo che gli

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trapassò la mano e che gli fece perdere la presa sull'impugnatura dellaspada. Nel momento stesso in cui l'arma cadeva rumorosamente sulsedile di legno del carro, Morik riprese ad avanzare, usando la spadaper tenere a bada gli attacchi del compagno di Togo ed estraendo

dalla cintura una daga lunga e affilata con cui trafisse più volte il ventredel grosso avversario disarmato. Il mezzo orco tentò disperatamentedi parare i suoi attacchi con le mani nude, ma Morik si rivelò tropporapido e abile per lui e lo colpì comunque più volte mentre con laspada continuava a tenere a distanza la lama dell'altro bandito.

Infine Togo cadde a terra dal carro e riuscì a muovere un singolopasso prima di crollare al suolo con le mani strette contro il ventrelacerato.

Contemporaneamente Morik sentì il terzo assalitore aggirare il latodel carro e al tempo stesso udì un urlo di terrore provenire dall'alto emescolarsi a un grido del nemico che gli si stava avvicinando. Unafugace occhiata in quella direzione gli permise poi di vedere lo gnollcatturato da Wulfgar volare giù dalla sua postazione arborea urlandoe agitando disperatamente le braccia: quel missile umanoide andò acolpire in pieno il terzo bandito, una minuta donna umana, e tutti e

due andarono a sbattere in un mucchio informe contro una mota delcarro. Gemendo, la donna cercò di lì a poco di allontanarsi strisciando,ma l'arciere rimase disteso immobile dov'era caduto.

Libero da altre minacce, Morik intensificò il proprio attacco control'unico avversario rimasto, sia per riuscire infine a scendere dal veicolosia per porre fine allo scontro. Lo spadaccino parve però non avere piùmolta voglia di protrarre lo scontro adesso che i suoi amici erano statiabbattuti uno dopo l'altro e cominciò a indietreggiare fra una parata el'altra, permettendo a Morik di balzare a terra per poi continuare apressarlo da vicino, insinuando la propria spada ora sotto ora sopra lasua.

Il furfante eseguì un rapido affondo, poi fu pronto a indietreggiarequando lo spadaccino parò il colpo e a tornare ad avanzare con unafinta che gli permise di aggirare la lama del bandito. Barcollando, conuna spalla che sanguinava, l'uomo indietreggiò e si girò per fuggire, maMorik continuò a incalzarlo e lo costrinse a riprendere a difendersi.

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In quel momento alle spalle di Morik echeggiò un grido di allarmeseguito dal fragoroso spezzarsi di alcuni rami e il furfante sorrise senzaneppure girarsi a guardare, consapevole che Wulfgar stavaprocedendo a togliere di mezzo gli altri arcieri.

«Per favore, signore», gemette lo spadaccino, a mano a mano cheun numero sempre maggiore degli affondi di Morik riusciva a superarela sua guardia con effetti devastanti, dimostrando con chiarezza che ilfurfante era più abile di lui nell'uso della spada. «Avevamo soltantobisogno di denaro.»

«Quindi non avreste fatto del male a me e al mio amico dopo averciderubati?» ribatté in tono cinico Morik.

L'uomo scosse con decisione il capo e Morik sfruttò quel suomomento di distrazione per superare nuovamente la sua guardia,tracciandogli una rossa linea di sangue su una guancia. Con un grido,l'uomo si lasciò cadere in ginocchio e gettò via la spada, implorandomisericordia.

«Io tendo a essere misericordioso», affermò con finta comprensioneMorik, sentendo Wulfgar che si avvicinava rapidamente, «ma temonon si possa dire lo stesso del mio amico».

In quel momento Wulfgar lo oltrepassò a passo di carica e afferròl'uomo inginocchiato per la gola, issandolo in aria e sbattendolo con laschiena contro un tronco. Con un solo braccio, in quanto l'altra manoera chiusa protettivamente intorno all'asta di una freccia che glisporgeva dalla spalla, Wulfgar tenne quindi il bandito sospeso per lagola, soffocandolo a poco a poco.

«Io potrei fermarlo», intervenne Morik, avvicinandosi per posareuna mano sul braccio massiccio dell'amico e accorgendosi soltantoallora della sua ferita, tutt'altro che lieve, «però ci dovrai condurre alvostro campo».

«Niente campo!» annaspò l'uomo, ma quando Wulfgar accentuò lastretta si affrettò a strillare: «Sì, lo farò!».

Poi la voce gli si spense in gola perché il barbaro continuòcomunque a stringere, troncandogli la parola e l'afflusso dell'aria.

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«Lascialo andare», ingiunse Morik, ma Wulfgar non rispose e nonallargò la stretta, il volto contorto da un'espressione di furiaincontrollata.

L'uomo intrappolato nella sua morsa si dibatté debolmente e cercòdi colpirgli il braccio con le mani, senza però riuscire a spezzare lapresa o a trarre un solo respiro.

«Wulfgar!» chiamò Morik, afferrando il braccio del grosso barbarocon entrambe le mani e tirando con tutte le sue forze. «Torna in te!»

Wulfgar però non lo stava sentendo e non pareva essersi neppureaccorto di lui.

«Mi ringrazierai per questo», mormorò Morik, senza esserneperaltro troppo sicuro, poi serrò il pugno e lo calò su una tempia delbarbaro.

Il suo gesto ebbe l'effetto di indurre Wulfgar a lasciar andare ilbandito, che si accasciò contro l'albero privo di sensi, ma al tempostesso il barbaro reagì al pugno con un manrovescio che fecebarcollare Morik all'indietro di qualche passo e si mosse poi come perproseguire l'attacco. Sollevata la spada, Morik si tenne pronto a

difendersi, anche a costo di trapassare il cuore dell'amico, maall'ultimo momento Wulfgar si arrestò, sbattendo ripetutamente lepalpebre come se si fosse appena svegliato, e Morik comprese che lasua mente era appena tornata al presente dal luogo dov'era andata,quale che esso fosse.

«Adesso ci condurrà al suo campo», disse il furfante. Wulfgar annuì passivamente, con lo sguardo ancora annebbiato,

poi guardò con indifferenza l'asta di freccia spezzata che gli sporgevadalla spalla, sbiancò in volto, fissò Morik con espressione interrogativae infine crollò prono nella polvere.

Wulfgar si svegliò sdraiato sul retro del carro al limitare di uncampo cinto da alti pini. Sollevata la testa con una certa fatica, perpoco non si sentì assalire dal panico nel veder passare poco lontanouna donna che riconobbe come uno dei banditi che li avevano assaliti.Cosa era successo? Erano stati sconfitti? Prima però di cedereeffettivamente al panico sentì Morik parlare in tono allegro e rilassatoe il suono della sua voce lo indusse a sollevarsi maggiormente, pur

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sussultando di dolore nel gravare in parte il proprio peso sulla spallaferita, che era stata pulita e fasciata dopo che qualcuno ne avevaestratto la freccia.

Seduto poco lontano, Morik stava chiacchierando amabilmente edividendo una bottiglia con un altro degli arcieri gnoll come se fossestato un suo vecchio amico. Scivolato verso il fondo del carro, Wulfgarcalò giù le gambe e si alzò in piedi barcollando, con la testa che gligirava e punti neri che gli danzavano davanti agli occhi. Quellasensazione di disagio però passò presto e di lì a poco lui fu in grado didirigersi verso il punto in cui Morik era seduto, sia pure con passolento e cauto.

«Ah, ti sei svegliato. Vuoi qualcosa da bere, amico mio?» chiese ilfurfante, offrendogli la bottiglia.Accigliandosi, Wulfgar scosse il capo.«Avanti, bevi qualcosa», commentò lo gnoll che sedeva accanto a

Morik, strascicando le parole, poi si portò alla bocca una cucchiaiata didenso stufato, metà del quale gli cadde per terra o sul davanti dellatunica.

Invece di rispondere, Wulfgar si limitò a fissare con occhi roventi losquallido nuovo compagno di Morik.«Sta' tranquillo, amico mio», intervenne Morik, riconoscendo

l'espressione pericolosa apparsa sul volto del barbaro. «Mickers è unamico e ci si può fidare di lui, ora che Togo è morto.»

«Mandalo via», ingiunse Wulfgar, facendo rimanere lo gnoll abocca aperta per lo stupore.

Alzatosi di scatto, Morik trasse il barbaro in disparte prendendoloper il braccio sano.«Sono alleati, tutti quanti», spiegò. «Obbedivano a Togo e adesso

obbediranno a me, e a te.»«Mandali via», ripeté in tono deciso Wulfgar.«Ora siamo sulla strada», obiettò Morik. «Ci servono occhi che

esplorino il potenziale territorio e spade che ci aiutino a mantenerne ilcontrollo.»

«No», ribatté Wulfgar, in tono piatto.

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«Non capisci i pericoli, amico mio», insistette il furfante, in tonoragionevole, sperando di convincere pacificamente il suo grossoamico.

«Mandali via!» urlò improvvisamente Wulfgar. Vedendo che non riusciva a ottenere risultati di sorta, Morik si

diresse con passo rabbioso verso Mickers.«Andate via di qui e da questa foresta!» ordinò.Mickers guardò in direzione di Wulfgar e quando Morik si limitò a

scrollare le spalle si alzò infine in piedi per fronteggiare il barbaro.«Io resto con lui», disse, indicando Morik.

Wulfgar gli fece cadere la ciotola di stufato dalle mani e lo afferròper il davanti della camicia, sollevandolo fino a fargli sfiorare appenail terreno con i piedi.

«Hai un'ultima possibilità di andartene di tua iniziativa», ringhiò,spingendolo indietro di parecchi passi.

«Mastro Morik», gemette Mickers, in tono di protesta.«Oh, vattene e piantala», ingiunse Morik, sia pure in tono

contrariato.«Lo stesso vale anche per il resto di noi?» domandò uno degli umani

che facevano parte della banda, alzandosi in piedi fra un mucchio dirocce al limitare del campo con un arco in mano.

«Loro o io, Morik», scandì Wulfgar, in un tono che non ammettevaalternative.

Nel guardare verso il bandito con l'arco, lui e Morik videro poi chequesti aveva incoccato una freccia.

Con gli occhi che ardevano d'ira, Wulfgar prese ad avanzare versodi lui.

«Un tiro», disse con calma. «È tutto quello che hai a disposizione.Riuscirai a colpirmi?»

L'arciere sollevò l'arco.

«Non credo che mi colpirai», sorrise Wulfgar. «No, mi mancherai diproposito perché lo sai.»

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«Che cosa so?» si azzardò a chiedere l'uomo.«Sai che la tua freccia non mi ucciderebbe anche se dovesse

colpirmi», spiegò Wulfgar, continuando ad avanzare con passo calmoe deciso. «Quanto meno, non mi ucciderebbe prima che io avessi iltempo di chiuderti le mani intorno alla gola.»

L'uomo tese l'arco, ma Wulfgar si limitò a sorridere con crescentesicurezza e riprese ad avanzare. Guardandosi nervosamente intornoalla ricerca di supporto, l'arciere si rese conto che era solo e che si erascelto un nemico troppo forte per lui. Allentata la tensione dell'arco sigirò e si diede alla fuga, e nel volgergli le spalle Wulfgar constatò chenel frattempo Mickers era fuggito a sua volta.

«Adesso dovremo guardarci da loro», borbottò Morik, quando ilbarbaro tornò a raggiungerlo. «Ci sei costato alcuni alleati.»«Non intendo allearmi con questi ladri assassini», dichiarò Wulfgar.«Ed io cosa sono, se non un ladro?» gli ricordò Morik,

indietreggiando di scatto.«Ecco, magari solo con uno», si corresse Wulfgar con una risatina,

addolcendosi in viso.Morik scoppiò a ridere a sua volta, sia pure con un certo disagio.«Prendi, mio grosso e non troppo furbo amico», disse, allungando

la mano verso un'altra bottiglia. «Beviamo a noi due. Banditi distrada!»

«Incontreremo la stessa sorte dei nostri predecessori?» si chiese adalta voce Wulfgar.

«I nostri predecessori non erano molto furbi», spiegò Morik.«Sapevo dove trovarli perché erano troppo prevedibili. Un buonbandito da strada colpisce e si sposta in una diversa zona, in modo dadare l'impressione che si tratti dell'operato di dieci diverse bande e datenersi sempre un passo più avanti rispetto alle guardie cittadine e acoloro che arrivano in città disponendo di informazioni sufficienti afarli trovare e sconfiggere.»

«Da come parli sembra che tu conosca bene questo tipo di vita.»«È una cosa che ho già fatto, di tanto in tanto», ammise Morik.

«Soltanto perché siamo sulla strada non vuol dire che dobbiamo vivere

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Ho rubato il tuo seme , gli sussurrò nella mente la voce dellacreatura, e lui non poté confutare le sue parole perché quella era unacosa che gli avevano fatto più volte nel corso dei suoi anni ditormento, avevano preso il suo seme e generato con esso alu-demoni,

sua progenie. Questa era per lui la prima volta che riusciva a rievocarecoscientemente quel ricordo da quando era tornato alla superficie, laprima volta che l'orrore indotto dalla vista della sua progeniedemoniaca riusciva a superare le barriere che aveva eretto aprotezione della propria mente.

Adesso però stava rivivendo ogni cosa. Con l'occhio della mentevide Errtu presentargli uno di quei bambini, un neonato urlante, con ilsuccubo che l'aveva generato fermo in piedi dietro il demone, lo videlevare in alto il neonato e poi, sotto gli occhi dello stesso attonito

Wulfgar e quelli dell'ululante madre demoniaca, staccargli la testa conun morso. Un fiotto di sangue si riversò su Wulfgar che si trovò a nonriuscire a respirare, incapace di comprendere che Errtu aveva trovatoun altro modo, il peggiore di tutti, per riuscire a farlo soffrire.

Quasi cadendo di peso, Wulfgar scese dall'albero atterrando conviolenza sulla spalla lesionata con l'effetto di riaprire la ferita.

Ignorando il dolore, corse attraverso il campo e raggiunse Morik, cheriposava accanto al carro, ma ignorò anche lui e si lanciò verso le casseper aprirne una con mosse frenetiche.

I suoi figli! La progenie del suo seme rubato!potente liquore gli scivolò rovente lungo la gola, generando un

crescente calore che ben presto attutì i suoi sensi e offuscò quelleorribili immagini.

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CAPITOLO XVNON PIU' BAMBINA

«Mio signore, devi dare all'amore il tempo di sbocciare», sussurròTemigast a Lord Feringal, dopo aver tratto il giovane nobile dal latoopposto del giardino rispetto a Meralda, che stava guardando al di làdel muro che si affacciava sul mare.

Il siniscalco aveva appena sorpreso il giovane innamorato nell'attodi fare pressioni su Meralda perché lo sposasse quella stessa settimana,

con la giovane donna che, sgomenta, accampava una cortese scusadopo l'altra solo per vederle smontare dal cocciuto Feringal.«Tempo di sbocciare?» ripeté Feringal, in tono incredulo. «Io sto

impazzendo per il desiderio e non riesco a pensare a nulla tranne aMeralda.»

Quelle parole vennero pronunciate a voce un po' troppo alta e nelsollevare lo sguardo entrambi gli uomini videro che Meralda li stava

fissando con espressione accigliata.«È giusto che sia così», sussurrò il Siniscalco Temigast, «però vediamodi scoprire se è un sentimento che resiste nel tempo, mio signore,perché la misura dell'amore è proprio il perdurare».

«Dubiti ancora di me?» domandò in tono inorridito Lord Feringal.«No, mio signore, non io», replicò il siniscalco, «ma gli abitanti del

villaggio devono aver modo di vedere che la tua unione con una

donna della condizione sociale di Meralda è frutto di vero amore enon una mera infatuazione. Devi proteggere la sua reputazione».Quell'ultima affermazione indusse infine Lord Feringal a riflettere,

rivolgendo un'occhiata in direzione della donna per poi tornare afissare Temigast con espressione palesemente confusa.

«Ma quale danno potrebbe soffrire la sua reputazione una volta chesarà sposata con me?»

«Se si dovesse arrivare troppo in fretta al matrimonio, la gente delvillaggio penserà che lei abbia usato le sue arti femminili per irretirti»,

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spiegò Temigast. «È di gran lunga molto meglio che tu investa dellesettimane nel dimostrare il tuo onesto amore per lei. Mio signore, tienipresente che molti proveranno comunque un geloso risentimento neiconfronti di Meralda. Adesso devi proteggerla, e il modo migliore per

farlo è non avere fretta a concludere il periodo di fidanzamento.»«Quanto tempo dovrò aspettare?» chiese il giovane nobile, in tonoimpaziente.

«Fino all'equinozio di primavera», suggerì Temigast, attirandosiun'altra occhiata inorridita da parte di Feringal. «È quello che dettanole convenienze.»

«Morirò di certo», gemette Feringal.

«Se il tuo bisogno dovesse diventare intollerabile possiamo sempreorganizzare un incontro con un'altra donna», osservò Temigast,accigliandosi.

«Non posso pensare di trovare la passione con un'altra donna»,dichiarò Lord Feringal, scrollando il capo.

«Questa è la risposta giusta per un uomo veramente innamorato»,approvò Temigast, battendogli un colpetto sulla spalla con un caldosorriso. «Forse riusciremo ad anticipare le nozze alla fine dell'anno.»

Lord Feringal s'illuminò in viso, ma poi tornò subito a incupirsi.«Cinque mesi», borbottò.«Ma pensa alla tua felicità quando quei mesi saranno passati»,

suggerì Temigast.«Di cosa stavate parlando?» chiese Meralda, quando Feringal tornò

a raggiungerla vicino al muro, dopo che Temigast si fu congedato.«Del matrimonio, naturalmente», rispose il nobile. «Il SiniscalcoTemigast ritiene che si debba aspettare fino alla fine dell'anno.Secondo lui l'amore è un fiore che deve sbocciare e crescere», aggiunse,con una sfumatura di dubbio nella voce.

«È vero», convenne Meralda, piena di sollievo e di gratitudine neiconfronti del siniscalco.

D'un tratto Feringal l'afferrò e la trasse a sé.

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«Non riesco a credere che l'amore che provo per te possa crescerepiù di così», disse, baciandola.

Meralda ricambiò il bacio, lieta che per una volta lui non cercasse dispingersi oltre, com'era in genere sua abitudine.

Invece, un momento più tardi Feringal la spinse indietro per poterlaguardare in volto.

«Temigast mi ha avvertito che devo mostrarti rispetto», ammise.«Devo dimostrare alla gente del villaggio che il nostro amore è unacosa vera e duratura, e lo farò aspettando. Inoltre questo darà aPriscilla il tempo di cui ha bisogno per preparare ogni cosa. Mi hapromesso un matrimonio di cui ad Auckney... e in tutto il nord... non

si è mai visto l'uguale.»Il sorriso con cui Meralda accolse quelle parole fu sincero perché era

lieta del ritardo, lieta di avere il tempo per porre ordine nei sentimentiche provava per Lord Feringal e per Jaka, per venire a patti con le sueresponsabilità, anche se ormai era certa di poter andare fino in fondosenza troppe sofferenze. Poteva sposare Lord Feringal e imparare acomportarsi da vera signora di Auckney per amore di sua madre edella sua famiglia, e forse non sarebbe poi stata una cosa tantoterribile.

D'impulso, con un accenno di affetto negli occhi, si girò a guardareFeringal che stava osservando le sottostanti onde scure, e sempred'impulso gli cinse la vita con un braccio per poi appoggiargli la testasu una spalla, e fu ricompensata da un casto sorriso pieno digratitudine. Feringal non disse nulla e non cercò neppure di renderepiù intimo quell'abbraccio, e fra sé Meralda dovette ammettere chestargli vicino era... piacevole.

***

«Oh, dimmi tutto!» sussurrò Tori, sistemandosi sul letto di Meraldauna volta che lei fu tornata a casa, quella notte. «Ti ha toccata?»

«Abbiamo parlato e contemplato le onde», replicò con fare vagoMeralda.

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«Cominci ad amarlo?»Meralda fissò sua sorella senza rispondere. Amava Lord Feringal?

No, in tutta onestà non poteva dire di amarlo, almeno non conl'intensità con cui desiderava Jaka, ma forse questo non era unproblema e con il tempo avrebbe imparato ad amare il generososignore di Auckney. Indubbiamente Lord Feringal era tutt'altro chebrutto e, a mano a mano che il rapporto fra di loro cresceva al di làdella disperata passione che il giovane nutriva nei suoi confronti, leistava cominciando a vedere molte sue buone qualità che in effettiavrebbe potuto imparare ad amare.

«Ami ancora Jaka?» insistette Tori.

Il sorriso soddisfatto di Meralda si dissipò immediatamente difronte a quella domanda che toccava un tasto così doloroso, e quandolei non rispose, girandosi e raggomitolandosi su se stessa nel tentativodisperato di non piangere, Tori ebbe il buon senso di lasciar caderel'argomento.

La notte fu caratterizzata da un susseguirsi di sogni agitati che lafecero dibattere nel letto, ma il mattino dopo lei si svegliò comunquedi buon umore e il suo stato d'animo migliorò ulteriormente quandonell'entrare nella stanza comune sentì sua madre parlare con MamGardner, una delle loro vicine più curiose (una piccola femmina dignomo con un naso aguzzo che sembrava il becco di un avvoltoio) eraccontarle della sua passeggiata nel giardino del castello.

«Mam Gardner ci ha portato qualche uovo», annunciò poi Biaste,indicando una padella di uova strapazzate. «Serviti da sola perché nonme la sento di alzarmi ancora in piedi.»

Sorridendo alla generosa visitatrice, Meralda si avvicinò alla padellae inaspettatamente sentì lo stomaco che le si contraeva violentementealla vista e all'odore delle uova, tanto che fu costretta a correre fuoriper vomitare in un piccolo cespuglio accanto alla casa.

Mam Gardner le fu accanto immediatamente.«Ti senti bene, ragazza?» le chiese.

Più sorpresa che malata, Meralda si raddrizzò e si girò a guardarla.

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«È colpa del cibo troppo ricco che mangio al castello», spiegò.«Temo mi stiano dando troppo da mangiare.»

«Oh, senza dubbio ti abituerai!» scoppiò a ridere Mam Gardner.«Diventerai grassa e florida, vivendo comodamente e nutrendoticome si deve.»

Meralda ricambiò il sorriso e rientrò in casa.«Non hai ancora mangiato», osservò Mam Gardner, guidandola

verso le uova, ma la loro sola vista fu sufficiente a far riaffiorare in leila nausea.

«Credo di aver bisogno di andare a sdraiarmi», si scusò,allontanandosi verso la sua stanza.

Da lì sentì le due donne discutere del suo malessere e Mam chediceva a Biaste come fosse colpa del cibo troppo ricco che sua figliamangiava al castello; avendo fin troppa familiarità con le malattie,Biaste dal canto suo si augurò che non si trattasse di niente altro.

Personalmente, Meralda non ne era affatto certa e soltanto alloracominciò a calcolare il tempo trascorso dal suo incontro con Jaka, tresettimane prima e a pensare al fatto che non aveva avuto il suo ciclomensile, cosa a cui finora non aveva badato perché esso comunquenon era mai stato regolare...

Sopraffatta dalla gioia e dalla paura, si serrò le mani sul ventrechiedendosi se i suoi sospetti fossero fondati.

La nausea si presentò di nuovo la mattina successiva e anche quelladopo, ma lei riuscì a nascondere il proprio stato evitando diavvicinarsi alle uova o di annusarne l'aroma, e nel constatare che sisentiva meglio dopo aver vomitato e che per tutto il giorno non avevaaltri malesseri finì per avere la certezza di essere effettivamente incinta.

Nelle sue fantasie, il pensiero di generare il figlio di Jaka Sculi nonera poi così terribile, perché poteva immaginare di essere sposata conlui, di vivere in un castello e di passeggiare nei suoi giardini insieme alui, ma l'aspetto reale della sua situazione era tale da terrorizzarla.

Aveva tradito il signore di Auckney e, cosa peggiore, aveva tradito

la sua famiglia. Rubando quell'unica notte per se stessa avevaprobabilmente condannato a morte sua madre e oltre a questo tutto il

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villaggio l'avrebbe considerata una sgualdrina. Nel formulare quelleriflessioni si chiese poi se si sarebbe arrivati a questo o se suo padre nonl'avrebbe uccisa nell'apprendere la verità, considerato che l'avevapicchiata per molto meno. O forse Lord Feringal l'avrebbe fatta

scortare per le strade, esposta a pubblica vergogna, in modo che lagente potesse deriderla, scagliarle contro frutti marci e sputarleaddosso, o magari in un accesso d'ira l'avrebbe uccisa lui stesso e poiavrebbe inviato dei soldati ad assassinare Jaka.

E che ne sarebbe stato del bambino? Cosa avrebbero potuto fare inobili di Auckney a un bambino che era il risultato del suo tradimentoa spese del legittimo signore del luogo? Meralda aveva sentito storierelative a cosa succedeva in questi casi in altri regni, storie cheparlavano dell'assassinio di neonati che potevano costituire unapotenziale minaccia al trono.

Una notte, mentre giaceva a letto, tutte quelle possibilità presero avorticarle nella testa, eventi troppo orribili perché potesse immaginarlio avere il coraggio di affrontarli, e alla fine lei si alzò, si vestì in silenzioe andò a vedere sua madre che dormiva serena, raggomitolata fra lebraccia di suo padre.

Rivolta a entrambi una silenziosa quanto sentita supplica diperdonarla, uscì quindi di nascosto dalla casa e si allontanò nella nottepiovosa e ventosa. Con suo sgomento non trovò Jaka al solito postonei campi sovrastanti le abitazioni e fu quindi costretta ad andare finoa casa sua, dove prese a scagliare ciottoli contro la sua finestra copertasoltanto da una tenda, cercando di non svegliare i parenti del giovane.

Finalmente la tenda venne tratta bruscamente di lato e il volto

avvenente di Jaka fece capolino dalla finestra.«Sono io, Meralda», sussurrò lei.Illuminandosi in volto per la sorpresa, il giovane protese la mano

verso di lei e quando Meralda la strinse se la portò vicino al viso,sfoggiando un sorriso che gli andava da un orecchio all'altro.

«Ti devo parlare», aggiunse Meralda. «Per favore, vieni fuori.»«Dentro fa più caldo», replicò lui, nel suo consueto tono lascivo.Consapevole che non era una cosa saggia, ma sentendosi d'altro

canto gelata fino alle ossa, Meralda accennò con la testa alla porta e si

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afferrandolo per costringerlo a fermarsi. «Adesso però le cose sonocambiate perché non posso introdurre nel Castello di Auck il figlio diun altro uomo», aggiunse, guardandolo negli occhi.

«E allora cosa vuoi fare?» domandò Jaka, in un tono che rasentavala disperazione.

«Hai detto che mi volevi», gli ricordò Meralda, con voce sommessae piena di speranza. «Ebbene, grazie a ciò che ho nel ventre adessosono tua, e con tutto il cuore.»

«Lord Feringal mi ucciderà.»«In tal caso non rimarremo qui», replicò Meralda. «Volevi fuggire

con me sulla Costa delle Spade, a Luskan e a Waterdeep, ed è quelloche faremo.»

Jaka non parve però trovare la proposta molto di suo gradimento.«Ma...» balbettò, scuotendo il capo ripetutamente.Alla fine Meralda fu costretta a scrollarlo per indurlo a riprendersi e

quando lo vide ritrovare il controllo lo strinse a sé.«In fin dei conti, è la cosa migliore», disse. «Tu sei il mio amore,

come io sono il tuo, e adesso il fato è intervenuto per ricongiungerci.»«È una pazzia», protestò Jaka, allontanandosi da lei. «Non possiamofuggire perché non abbiamo denaro, non abbiamo nulla. Moriremmosulla strada senza neppure arrivare a Luskan.»

«Non abbiamo nulla?» ripeté Meralda in tono incredulo,cominciando a rendersi conto che Jaka non stava parlando cosìsoltanto per lo shock della notizia ricevuta. «Ognuno di noi ha l'altro,

abbiamo il nostro amore e il bambino che deve nascere.»«E credi che questo basti?» ribatté Jaka, nello stesso tono incredulo.«Che genere di vita potremmo sperare di trovare in simili circostanze?Una vita di povertà, mangiando fango e allevando nostro figlio nelfango?»

«Che scelta abbiamo?»«Abbiamo?» cominciò Jaka, poi si morse le labbra nel rendersi conto

troppo tardi che non era stata una cosa saggia lasciarsi sfuggire quellaparola ad alta voce.

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«Stai dicendo che mi hai mentito per convincermi a darmi a te?»chiese Meralda, lottando per trattenere il pianto. «Stai dicendo chenon mi ami?»

«Non sto dicendo questo», la rassicurò Jaka, avvicinandosi eposandole una mano sulla spalla, «ma che possibilità avremo disopravvivere? Non crederai sul serio che l'amore di per sé siasufficiente, vero? Non avremo né cibo né denaro e le bocche danutrire saranno tre. E cosa succederà quando tu diventerai grossa ebrutta e non avremo neppure l'amore a darci un po' di gioia?».Sbiancando in volto, Meralda si ritrasse da lui e respinse con violenzail suo tentativo di toccarla ancora.

«Hai detto che mi amavi», mormorò.«Ed è così», insistette Jaka. «Io ti amo.»Meralda scosse lentamente il capo e lo fissò con freddezza,

cominciando infine a vedere le cose con chiarezza.«Mi desideravi, ma non mi hai mai amata», affermò. La voce le si

incrinò, ma lei si costrinse a mantenerla salda mentre aggiungeva:«Stolto, non capisci neppure quale sia la differenza».

Poi si volse e lasciò di corsa la casa senza che Jaka accennasse atrattenerla.

Per tutta la notte Meralda rimase a piangere sulla collina, sotto lapioggia, e tornò a casa soltanto nelle primissime ore del mattino.Qualsiasi cosa le riservasse il futuro, adesso aveva la verità chiaradavanti a sé e si sentiva terribilmente stupida per essersi donata a JakaSculi. Per il resto della sua vita, quando si fosse guardata indietro per

ripensare al momento in cui era diventata una donna, al momento incui si era lasciata alle spalle l'innocenza della fanciullezza, non avrebbepensato alla notte in cui aveva perso la verginità ma a questa notte,quella in cui si era resa infine conto di aver regalato la parte più segretadi se stessa a un uomo insensibile ed egoista... no, non a un uomo maa un ragazzo. Che stupida era stata.

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CAPITOLO XVICASA DOLCE CASA

I due amici sedevano raggomitolati sotto il carro per ripararsi dallapioggia che martellava tutt'intorno a loro, ma neppure quel rifugioimprovvisato poteva proteggerli dai rivoli d'acqua che scorrevano sulterreno e lo trasformavano ovunque in un mare di fango.

«Questa non è precisamente la vita che avevo immaginato»,commentò in tono cupo Morik. «Quanto siamo caduti in basso.»

Wulfgar si limitò a sorridere e a scuotere il capo. Personalmente luinon era turbato dai disagi fisici quanto lo era Morik, e la pioggia quasinon gli causava fastidio perché dopo tutto era cresciuto nella Valle del

Vento Ghiacciato dove il clima era decisamente più aspro di quantopotesse mai esserlo sulle pendici collinari del versante meridionaledella Spina Dorsale del Mondo.

«Adesso ho rovinato i miei calzoni migliori», continuò Morik,

girandosi per cercare di ripulire l'indumento in questione dal fango.«I contadini ci avrebbero offerto riparo», gli ricordò Wulfgar.Alcune ore prima i due erano infatti passati vicino ad alcune

fattorie, e Wulfgar aveva sottolineato più volte che la gente che viabitava non avrebbe avuto difficoltà a offrire loro del cibo e un postocaldo dove dormire.

«Se ci fossimo fermati i contadini sarebbero venuti a sapere della

nostra presenza», ribatté Morik, a titolo di spiegazione, ripetendo lastessa risposta che continuava a fornire ogni volta che Wulfgaraccennava alla cosa. «E questo avrebbe reso più facile rintracciarci, se oquando avremo qualcuno che verrà a cercare le nostre tracce.»

In quel momento un fulmine si abbatté su un albero distante uncentinaio di metri, strappandogli un grido di sorpresa.

«Ti comporti come se ti aspettassi che di qui a breve tempo metà

delle milizie della regione cominci a darci la caccia», osservò Wulfgar.

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vino che aveva messo a raffreddare nell'acqua; dopo aver bevuto unlungo sorso porse la bottiglia a Wulfgar, che sia pure con esitazionel'accettò.

Poco tempo dopo, con indosso gli abiti ancora umidi ed entrambiun po' alticci a causa del vino, i due si accinsero a riprendere ilcammino lungo la pista montana; non potendo portare con loro ilcarro, lo sistemarono sotto alcuni cespugli, lasciando i cavalli liberi dipascolare, e Morik non seppe trattenersi dal sottolineare quantosarebbe stato ironico se qualcuno li avesse derubati in loro assenza.

«In tal caso, dovremo recuperare le nostre cose rubandole dinuovo», ribatté Wulfgar, e Morik scoppiò a ridere senza rendersi

conto del sarcasmo del suo commento.La risata però gli si spense quasi subito sulle labbra quando lui notòl'espressione d'un tratto seria che era apparsa sul volto del suo grossoamico. Nel seguire la direzione dello sguardo di Wulfgar verso la pistache si snodava davanti a loro non tardò a capire cosa l'avesseprovocata: un giovane albero che di recente era stato spezzato allabase del tronco. Avvicinatosi al tronco, Wulfgar si accoccolò al suoloper studiare il terreno intorno a esso.

«Cosa pensi che abbia spezzato quest'albero?» domandò Morik,raggiungendolo.

Wulfgar gli segnalò con un cenno di avvicinarsi maggiormente e gliindicò l'impronta del tacco di uno stivale molto, molto grande.

«Giganti?» chiese Morik, in un tono che indusse Wulfgar a sollevaresu di lui lo sguardo con espressione incuriosita, notando subito che ilfurfante cominciava a mostrare segni di panico, come aveva fatto allavista del ratto nella gabbia, alla Gogna dei Prigionieri.

«Non ti piacciono neppure i giganti?» gli chiese.«Non ne ho mai visto uno», ammise Morik, scrollando le spalle,

«ma credo che non piacciano a nessuno». Wulfgar lo fissò con aria incredula perché una porzione significativa

del suo personale addestramento come guerriero era stata a spese dei

giganti, e lo sorprendeva l'idea che un veterano come Morik, ladro ecombattente di estrema abilità, non ne avesse mai visto uno.

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«Una volta ho visto un ogre», aggiunse intanto Morik. «Enaturalmente il nostro amico carceriere aveva una buona dose disangue di ogre nelle vene.»

«Più grossi», dichiarò Wulfgar, con brusca franchezza. «I gigantisono molto più grossi.»

«Torniamo da dove siamo venuti», suggerì Morik, sbiancando involto.

«Se nei dintorni ci sono dei giganti è molto probabile che abbianoun covo», affermò però Wulfgar. «I giganti non sono tipi dasopportare la pioggia e il sole rovente quando nella zona ci sonocomode grotte. Inoltre preferiscono cucinare il cibo e cercano di non

segnalare la loro presenza accendendo fuochi all'aperto.»«Amano cucinare il cibo», ripeté Morik. «Barbari e ladri figurano nei

loro menu preferiti?»«Sono una prelibatezza», dichiarò con assoluta serietà Wulfgar,

annuendo.«Torniamo indietro a parlare con quei contadini», decise Morik,

girandosi.«Vigliacco», commentò Wulfgar in tono sommesso, e quando

quella parola ebbe l'effetto di indurre Morik a voltarsi di scattoproseguì: «La pista è facile da seguire e non sappiamo neppure inquanti sono. Non mi sarei mai aspettato di vedere Morik il Furfantefuggire davanti alla prospettiva di dover combattere».

«Morik il Furfante combatte con questo», ribatté Morik, battendosiun dito contro una tempia.

«Un gigante se lo mangerebbe in un boccone.»«In tal caso Morik il Furfante usa le gambe per tagliare la corda»,

dichiarò il ladro.«Un gigante riuscirebbe a raggiungerti», garantì Wulfgar, «oppure ti

scaglierebbe contro un masso e ti schiaccerebbe da lontano».«Piacevoli alternative», ribatté Morik, in tono cinico. «Andiamo a

parlare con quei contadini.»

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Accoccolato sui talloni, Wulfgar si limitò a fissarlo in volto senzaaccennare a muoversi e suo malgrado in quel momento non poté farea meno di porre a confronto Morik e Drizzt, di notare come il furfantesi stesse girando per andarsene mentre in una situazione del genere il

drow sarebbe stato il primo a lanciarsi a testa bassa verso una simileavventura. Sulla scia di quelle riflessioni, ricordò poi un'occasione incui lui e Drizzt avevano sterminato un intero covo di verbeeg nel corsodi uno scontro lungo e brutale a cui peraltro Drizzt era andatoincontro ridendo, e ripensò anche all'ultimo combattimentoingaggiato al fianco di quel suo amico dalla pelle del coloredell'ebano, contro un'altra banda di giganti che avevano inseguito frale montagne dopo aver appreso che quei bruti costituivano unaminaccia per la strada che portava alle Ten Towns.

Gli sembrava che Morik e Drizzt fossero molto simili sotto numerosipunti di vista, ma che fossero estremamente diversi sotto gli aspetti chepiù avevano importanza, un contrasto che non cessava di tormentarloperché aveva l'effetto di ricordargli quanto fosse incredibilmentediversa la sua vita attuale da quella di un tempo, quanto differisse ilmondo a nord della Spina Dorsale del Mondo rispetto a questo

mondo a sud di essa.«È possibile che i giganti siano soltanto un paio», suggerì. «Di rado siraccolgono in gruppi numerosi.»

«Cento colpi per abbatterne uno?» ribatté Morik, estraendo laspada e la daga. «O magari duecento? E per tutto il tempo cheimpiegherò a trafiggere duecento volte quel colosso mi sentiròconfortare dal pensiero che a lui basterebbe un solo colpo perschiacciarmi.»

«Il divertimento consiste proprio in questo», dichiarò Wulfgar, conun sorriso sempre più ampio, poi si issò in spalla l'ascia che eraappartenuta al boia di Luskan e si avviò lungo la pista lasciata dalgigante, seguendola senza nessuna difficoltà.

Verso metà pomeriggio Wulfgar e Morik si arrestarono al riparo diun grosso masso, ormai in vista dei giganti e del loro covo. PerfinoMorik fu costretto ad ammettere che quella posizione era perfetta,una grotta isolata e annidata fra creste rocciose ma situata a meno dimezza giornata di marcia dal più orientale dei due principali passi

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***

Il primo tratto del passaggio che dava accesso alla grotta non eramolto largo o molto alto, almeno per dei giganti, e Wulfgar trasse unacerta misura di conforto dal pensiero che i suoi avversari avrebberodovuto chinarsi notevolmente e forse addirittura strisciare per riuscirea passare sotto un particolare masso sporgente, cosa che non avrebbepermesso loro un rapido inseguimento qualora lui fosse stato costrettoa battere in ritirata.

Una volta oltrepassato quel primo tratto di una quindicina di metri,il passaggio si allargò e la volta si fece più alta, poi la galleria sbucò inun'ampia camera dove un enorme falò rifletteva la propria lucearancione lungo il tunnel, evitando a Wulfgar di avanzare nell'oscuritàpiù assoluta.

Soffermandosi ad analizzare l'ambiente, il barbaro notò che lepareti della camera erano fatte di roccia irregolare e creavano unaquantità di punti d'ombra, e il suo sguardo si posò in particolare su una

promettente sporgenza posta a circa un metro da terra. Con cautela, sispinse quindi un po' più avanti per riuscire a vedere tutti gli occupantidella grotta perché voleva accertarsi che i giganti fossero davverosoltanto in tre e che non avessero con loro qualche pericoloso animaledomestico del genere che i loro simili erano soliti ospitare, come unorso delle caverne o qualche grosso lupo. Subito dopo fu peròcostretto a indietreggiare prima ancora di essersi avvicinato alla sogliadella grotta perché sentì uno dei giganti avvicinarsi, ruttando a ognipasso echeggiante; addossatosi alla parete di roccia sulla sporgenzaprescelta, Wulfgar si fuse con le ombre circostanti e attese.

II gigante avanzò verso di lui massaggiandosi il ventre econtinuando a ruttare, e si chinò per prepararsi ad affrontare il trattopiù stretto del passaggio di accesso. La prudenza avrebbe voluto che

Wulfgar aspettasse ad attaccare e portasse prima a termine la suaesplorazione per valutare con esattezza le forze del nemico, ma in quel

momento il barbaro non si sentiva particolarmente prudente e silanciò quindi all'attacco con un possente ruggito e un tremendo colpo

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d'ascia, intensificato dalle sue notevoli forze e dall'impeto del suobalzo.

Per quanto stupito, il gigante riuscì a schivare quanto bastava perimpedire che l'ascia gli attraversasse il collo, un peccato perché con uncolpo preciso la forza incredibile di Wulfgar gli avrebbe permesso didecapitarlo nonostante la sua mole. L'ascia invece fendette la spalla delcolosso, attraversandone la carne e i muscoli e frantumandone l'ossocon un effetto comunque devastante che fece barcollare il gigante e lofece crollare su un ginocchio, ululante per il dolore.

L'impatto ebbe però anche la spiacevole conseguenza di spezzare ametà l'impugnatura dell'arma di Wulfgar. Sempre abile

nell'improvvisare, il barbaro atterrò rotolando e si rialzò prontamentein piedi per lanciarsi di corsa verso il gigante ferito e ancorainginocchiato e trafiggergli la gola con l'estremità appuntitadell'impugnatura dell'ascia. Mentre il colosso protendeva le manienormi e tremanti per cercare di afferrarlo, Wulfgar estrasse l'armaimprovvisata dalla nuova ferita, l'afferrò saldamente con entrambe lemani e la calò sulla faccia del gigante per poi lasciarlo lì a terrainginocchiato e affrettarsi ad allontanarsi perché sapeva che gli altri

due colossi sarebbero presto venuti a cercare il compagno. Nelguardarsi intorno alla ricerca di una posizione difendibile notò che imovimenti fatti nell'attaccare, e forse l'atterraggio da dove si eraappostato, avevano riaperto la ferita alla spalla, inzuppandogli latunica di sangue.

In quel momento non ebbe però tempo di preoccuparsi della cosae dovette affrettarsi a tornare sulla sporgenza rocciosa perché gli altridue giganti si stavano già addentrando nel passaggio ed erano quasisotto di lui. Procuratasi un'altra arma sotto forma di un grosso masso,la levò in alto sopra la testa con un grugnito soffocato e si dispose adattendere.

L'ultimo gigante della fila, il più piccolo dei tre, sentì quel suono eguardò verso l'alto proprio nel momento in cui Wulfgar scagliava conforza il masso, il cui impatto gli strappò un sonoro ululato.

Raccolto il randello costituito dai resti dell'impugnatura dell'ascia, Wulfgar spiccò un altro balzo nel vuoto, sfruttando di nuovo ilproprio impeto per dare maggior forza al suo attacco nel calare il

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pezzo di legno sulla faccia del gigante. Atterrato al suolo, il barbarotornò poi a lanciarsi verso il colosso, passandogli accanto alle gambe ecolpendolo alle rotule per poi modificare la presa sul randello e usarloper trafiggergli i polpacci e tranciargli i tendini, come Bruenor gli

aveva insegnato.Continuando a stringersi fra le mani la faccia rovinata e ululando didolore, il gigante rotolò al suolo alle spalle di Wulfgar, intralciandocosì il passo all'ultimo membro del gruppo, il solo che ancora nonavesse subito i dolorosi attacchi del barbaro.

***

Fuori dalla grotta Morik sussultò nel sentire le urla e i gemiti, gliululati e il suono inconfondibile di un masso che frantumava delleossa.

Incuriosito suo malgrado, il furfante si avvicinò alloramaggiormente all'entrata per cercare di dare un'occhiata all'interno,anche se era onestamente convinto che, purtroppo, il suo compagnofosse morto.

«Faresti meglio a metterti in cammino alla volta di Luskan», sirimproverò fra sé. «Così almeno stanotte avresti un letto caldo in cuidormire.»

***

In entrambi gli attacchi aveva colpito i giganti con la massima forzadi cui era capace e tuttavia non ne aveva ucciso neppure uno eprobabilmente non era neanche riuscito a mettere fuori gioco a lungonessuno di essi. E adesso era stato scoperto ed era in fuga verso lacamera principale della grotta senza neppure sapere se quel postoaveva un'altra uscita.

In quel momento però i ricordi relativi a Errtu non lo stavanotormentando, era temporaneamente libero da quella schiavitù

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emotiva, in una situazione quasi disperata, e ne stava godendoimmensamente.

Per una volta la fortuna gli si mostrò favorevole perché all'internodel covo dei giganti trovò le spoglie della loro ultima scorreria, inclusoquanto restava di tre nani, uno dei quali aveva posseduto un martellopiccolo ma solido, mentre un altro aveva avuto con sé numeroseaccette appese a una bandoliera.

Ruggendo, il solo gigante ancora integro gli si scagliò contro e Wulfgar reagì lanciando tre accette in rapida successione, due dellequali strapparono al colosso gemiti gorgoglianti. Il bruto peròcontinuò ad avanzare ed era ormai a un solo passo di distanza quando

Wulfgar, in preda alla disperazione e convinto di essere ormaiprossimo a finire schiacciato contro la parete, lo raggiunse alla cosciacon un colpo di martello.

Subito dopo il barbaro si tuffò disperatamente di lato per evitare ilgigante, che a causa del suo slancio non fu in grado di frenare ilproprio attacco e andò a sbattere con la testa contro la parete diroccia, facendo precipitare una notevole quantità di polvere e di sassidalla volta. Quella mossa evitò a Wulfgar di finire schiacciato ma locostrinse anche ad allontanarsi dalle nuove armi tanto da rendersiconto di non poter tornare vicino a esse in tempo, quando videentrare zoppicando nella grotta il gigante che aveva colpito alla testa.

Optando di nuovo per il pezzo di impugnatura dell'ascia, loraccolse e si lanciò di lato rotolando su se stesso quando il colosso calòal suolo un piede massiccio per cercare di calpestarlo. Sfruttando lavelocità acquisita, Wulfgar ne approfittò per colpire ancora le

vulnerabili ginocchia dell'avversario, calando su una di esse parecchierandellate prima di ruotare intorno alla gamba massiccia del gigante edi allontanarsi dalle sue mani; nell'effettuare quella manovra modificòla presa sul pezzo di legno e trafisse di nuovo il polpaccio giàinsanguinato del colosso. In quel momento però l'altro gigante chegiaceva addossato alla parete scalciò con forza, raggiungendolo allaspalla ferita e scagliandolo con violenza contro la parete opposta.

Adesso però Wulfgar era in preda alla furia del combattimento e siriprese dall'impatto con un ruggito, caricando di nuovo il colossozoppicante con una velocità tale da impedirgli di distinguere i suoi

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movimenti. Spietato, il suo randello calò ancora sulle ginocchia eanche se il gigante riuscì a spingerlo lontano da sé Wulfgar si sentìrincuorare nell'udire finalmente il rumore dell'osso che si fratturava.Poi il colosso crollò al suolo serrandosi fra le mani il ginocchio offeso e

urlando con tale intensità da far tremare l'intera grotta. Scrollandosiper superare il doloroso impatto della mano del gigante, Wulfgarscoppiò in una risata provocatoria.

Nel frattempo l'avversario accasciato contro la parete cercò dirialzarsi ma lui gli fu addosso in un istante, saltandogli sulla schiena etempestandogli di colpi la nuca; nel mandare a segno quella gragnuoladi randellate che costrinse il colosso ad appiattirsi al suolo e a cercaredi proteggersi la testa, Wulfgar osò sperare di essere finalmenteprossimo a eliminare del tutto almeno uno dei tre avversari.

Poi la mano enorme dell'altro gigante lo afferrò per una gamba.

***

Incapace di credere a quello che stava facendo, Morik ebbe quasil'impressione che i suoi piedi lo stessero tradendo e trascinando avantisuo malgrado, quando si portò con cautela fino all'ingresso dellagrotta e si protese a sbirciare all'interno.

Ciò che vide fu il primo gigante ferito da Wulfgar che, piegato su sestesso all'altezza della vita, si teneva appoggiato con un braccio allaparete di roccia mentre tossiva per cercare di liberare la bocca dalsangue.

Prima che il buon senso potesse avere la meglio su di lui, Morikprese ad avanzare con mosse furtive e silenziose, strisciando nel buiodella grotta e tenendosi addossato alla parete. Oltrepassato il gigantesenza il minimo suono e approfittando del fatto che il suo ansimarerauco avrebbe coperto qualsiasi rumore da lui prodotto, si arrampicòquindi su una sporgenza a qualche metro dal suolo.

Dalla camera interna giungevano intanto ancora i suoni dello

scontro in corso e lui poté soltanto sperare che Wulfgar se la stessecavando bene, nell'interesse del suo amico e perché era consapevole

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che se gli altri giganti fossero sopraggiunti in quel momento si sarebbevenuto a trovare in una situazione decisamente difficile.

Mantenendo la calma, si costrinse ad attendere con la daga inpugno, pronto a colpire, e in un primo momento valutò l'opzione ditrafiggere la schiena del colosso, ricorrendo alla tattica che sapevaessere più efficace negli scontri con esseri umani; poi però abbassò losguardo sulla propria daga, minuscola in rapporto al gigante, e si sentìassalire dai dubbi.

In quel momento il colosso cominciò a girarsi e Morik non ebbe piùtempo per riflettere. Consapevole che l'attacco avrebbe dovuto essereperfetto e che probabilmente avrebbe causato anche a lui non pochi

danni, e pur continuando a chiedersi per quale assurdo motivo si fosseaddentrato in quel buco per seguire quel pazzo di Wulfgar, il piccololadro si affidò all'istinto e si lanciò contro la gola già lacerata delcolosso.

La sua daga saettò in avanti e il gigante si raddrizzò di scatto con unululato... andando a sbattere con la testa contro la roccia sporgente.Gemendo, cercò di raddrizzarsi agitando le braccia e Morik si trovò aessere scagliato lontano da una manata che quasi gli tolse il respiro. Inparte rotolando, in parte correndo e di certo urlando, Morik saettòfuori dalla grotta con l'annaspante colosso che lo tallonava da vicinocercando di afferrarlo.

Il furfante sentì il gigante farsi più vicino a ogni passo e all'ultimomomento si gettò di lato, guardando il colosso oltrepassarlo con passoincespicante e con una mano serrata intorno alla gola, bluastro involto e con gli occhi che sporgevano dalle orbite a ogni respiro

rantolante.Per maggior precauzione Morik spiccò la corsa per mettere fra lorouna maggiore distanza ma il gigante non cercò neppure d'inseguirlo edi lì a poco crollò in ginocchio con il respiro sempre più affaticato.

«Devo proprio tornare a casa a Luskan», riprese a borbottare Morik,ma nel parlare tornò a dirigersi verso l'ingresso della grotta.

***

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Giratosi di scatto, Wulfgar colpì con tutte le sue forze e continuò aesercitare pressione, tirando e torcendo la gamba del gigante che,sollevato su un ginocchio e con l'arto spezzato proteso davanti a sé,stava lottando per mantenere un certo equilibrio, puntellandosi con

una mano e protendendo l'altra per cercare di afferrarlo. Wulfgarriuscì però a sgusciare da sotto la sua stretta e infine si liberò con unviolento strattone, balzandogli sulla spalla.

Arrampicatosi fin dietro la testa del colosso, serrò entrambe le maniintorno al pezzo di impugnatura dell'ascia, allineandone la punta conun occhio della creatura e calando con forza verso di esso l'armaimprovvisata. Le grosse mani del gigante lo afferrarono per fermarloma con un ringhio lui continuò a spingere verso il basso.

Terrorizzato, il colosso tentò di spostarsi e protese verso l'alto lemani con tanta forza da arrestare qualsiasi umano.

Wulfgar era però in posizione più favorevole ed era dotato di unapotenza muscolare che andava al di là di quella di quasi qualsiasi altroessere umano. Con la coda dell'occhio vide l'altro gigante rialzarsi inpiedi ma ricordò a se stesso di affrontare un problema per volta eproprio in quel momento sentì la punta di legno che affondavanell'occhio del suo più immediato avversario, che si fece d'un trattofrenetico e arrivò addirittura ad alzarsi in piedi nonostante il ginocchiofratturato. Wulfgar però tenne duro e continuò a spingere.

In preda alla disperazione, il colosso si lanciò verso la parete eall'ultimo momento si girò in modo da sbattere contro di essa con laschiena e schiacciare l'uomo che lo stava torturando. Soffocando ildolore in un ringhio sordo, Wulfgar continuò però a esercitare

pressione con tutte le sue forze e infine la punta di legno della suaarma penetrò in profondità nel cervello del colosso.In quel momento il terzo gigante attaccò. Lasciandosi cadere a

terra, Wulfgar sfruttò gli spasimi di agonia dell'avversario morente percoprire la propria ritirata anche se questo lo costrinse ad abbandonarela sua unica arma, quella lancia improvvisata che sporgeva soltanto inparte da sotto la palpebra chiusa della creatura. Wulfgar però nonebbe quasi il tempo di pensarci nel lanciarsi in avanti a testa bassa perrecuperare il martello e una delle accette insanguinate.

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Il gigante superstite gettò di lato il cadavere del compagno e presead avanzare con passo deciso, ma subito dopo indietreggiòbarcollando con l'accetta conficcata in profondità nella fronte.

Sfruttando il vantaggio acquisito, Wulfgar si fece avanti con unpossente colpo di martello che raggiunse il colosso in pieno petto, eriuscì a mandare a segno un altro paio di attacchi prima di esserecostretto a gettarsi a terra per schivare i pugni dell'avversario, cosa dicui comunque approfittò per vibrare un'ennesima martellata a unginocchio. Scattando oltre il colosso, spiccò quindi la corsa verso laparete e la risalì di due passi per poi effettuare un salto e colpirenuovamente dall'alto in basso il gigante che si stava voltando.

Diretta con forza incredibile, la testa del martello fracassò di netto ilcranio della creatura che si accasciò al suolo immobile.In quel momento Morik entrò nella caverna e per un momento

rimase paralizzato dallo sgomento nel vedere quanto Wulfgar fossemalconcio, con la spalla intrisa di sangue, una gamba disseminata dilividi dalla caviglia alla coscia e le ginocchia e le nocche coperte diescoriazioni.

«Hai visto?» gli domandò Wulfgar, con un sorriso trionfante. «Nonè stato per nulla difficile, e adesso abbiamo una casa.»

Spingendo lo sguardo oltre l'amico, Morik notò i macabri restisemidivorati dei nani e i due giganti morti che stavano spargendosangue sul pavimento.

«Se si può definire tale», ribatté in tono asciutto.

***

Morik e Wulfgar trascorsero la maggior parte dei tre giornisuccessivi impegnati a ripulire la grotta, a seppellire i nani, a fare apezzi e a distruggere i corpi dei giganti e a recuperare le scorte diprovviste. I due riuscirono perfino a portare il carro fino alla grottaseguendo un'altra pista meno scoscesa, ma dopo quello sforzo non

indifferente lasciarono liberi i cavalli perché era evidente che nonsarebbero mai valsi molto come pariglia da tiro.

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Muniti di zaino, i due amici cominciarono a esplorare le pistecircostanti e giunsero infine a un punto che dominava un ampio passomontano e l'unica vera pista che in quella regione attraversasse laSpina Dorsale del Mondo... la stessa pista che Wulfgar e i suoi amici di

un tempo avevano utilizzato ogni volta che si erano avventurati fuoridalla Valle del Vento Ghiacciato. Più a ovest c'era un altro passo cheattraversava Hundelstone, ma quella era la via più diretta oltre che lapiù pericolosa.

«Prima dell'inverno di qui passeranno molte carovane», osservòMorik. «Andranno al nord con un assortimento di merci diverse etorneranno al sud con le statuette intagliate nelle ossa di trota.»Avendo maggior familiarità con quella routine di quanto Morikpotesse immaginare, Wulfgar si limitò ad annuire.

«Dovremmo attaccarle all'andata e al ritorno», suggerì Morik, «inmodo da ottenere provviste dai mercanti che provengono dal sud edenaro per le necessità future da quelli che tornano dal nord».

Sedutosi su una lastra di roccia, Wulfgar indugiò a guardare versonord, lungo il passo e al di là di esso, verso la Valle del VentoGhiacciato, un panorama che ancora una volta gli ricordò lo stridentecontrasto fra la sua vita passata e quella attuale: sarebbe stato davveroironico se i suoi vecchi amici si fossero assunti l'incarico di dare la cacciaa questi nuovi banditi che minacciavano le carovane.

Per un momento immaginò Bruenor che si lanciava alla carica super il pendio roccioso e l'agile Drizzt che lo oltrepassava con lescimitarre in pugno, mentre la pantera Gwenhwyvar era già sopra edietro di loro, in modo da impedire qualsiasi ritirata; in una situazione

del genere Morik avrebbe probabilmente cercato di fuggire eCatti-brie l'avrebbe abbattuto con una delle sue frecce scintillanti.«A cosa stai pensando? Sembri lontano mille chilometri», osservò

Morik, che come sempre aveva in mano una bottiglia aperta di cuistava assaporando il contenuto.

«Penso che ho sete», ribatté Wulfgar, prendendo la bottiglia eportandosela alle labbra.

L'abbondante sorso di liquore ardente lo aiutò in certa misura acalmarsi, ma nonostante questo continuò a non riuscire a riconciliare

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se stesso con la sua posizione attuale. Forse i suoi amici sarebberovenuti a dargli la caccia, come in passato lui, Drizzt e Gwenhwyvar, epoi anche il resto del loro gruppo, avevano dato la caccia a quellabanda di giganti che sospettavano essere intenzionata ad attaccare i

mercanti della Valle del Vento Ghiacciato. Wulfgar bevve un altro lungo sorso, consapevole di quantosarebbero state scarse le sue probabilità di salvezza se loro si fosseromessi sulle sue tracce.

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CAPITOLO XVIICOERCIZIONE

«Temo proprio di non poter aspettare fino a primavera», disseMeralda a Lord Feringal in tono un po' malizioso, una sera dopo cena,mentre dietro richiesta della stessa Meralda stavano passeggiando sullaspiaggia invece di trattenersi come di consueto nei giardini del castello.

Il giovane nobile si arrestò di colpo con l'espressione più sorpresache Meralda gli avesse mai visto.

«Le onde fanno troppo rumore e temo di non averti sentita bene»,disse, avvicinandolesi maggiormente.

«Ho detto e ribadisco che non posso aspettare fino a primavera»,ripeté Meralda. «Per il matrimonio, intendo.»

Sul volto di Feringal apparve un sorriso che andava da un orecchioall'altro e lui parve sul punto di mettersi a ballare lì dove si trovava,poi le prese la mano e se la portò con gentilezza alle labbra,deponendo un bacio su di essa.

«Se tu me lo chiedessi sarei pronto ad aspettare anche fino alla finedei tempi», dichiarò in tono solenne.

Con sua grande sorpresa - ma del resto quell'uomo non era forsesempre pieno di sorprese? - Meralda si rese conto che gli credeva, maproblemi più pressanti la costrinsero ad accantonare quelle piacevoliriflessioni.

«No, mio signore, non dovrai aspettare tanto a lungo», replicò,liberando la mano e accarezzandogli una guancia. «Sono lieta che tusia disposto ad aspettare tutto il tempo di cui ho bisogno, ma sono ioche non posso più attendere la primavera per veder realizzati i mieidesideri.»

Nel parlare gli si fece più vicina per baciarlo e lo sentì stringersicontro di lei; poi però, stranamente, Feringal fu il primo a spezzare il

bacio.

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«Sai che non possiamo», disse, anche se era evidente che quelleparole gli costavano fatica e dolore. «Ho dato la mia parola aTemigast. Bisogna rispettare le convenienze, amore mio. Leconvenienze.»

«Allora fa' in modo che le convenienze richiedano che ci sposiamoal più presto», replicò Meralda, accarezzandogli ancora la guancia, equando Feringal reagì al suo tenero tocco dando l'impressione dipoter collassare da un momento all'altro tornò ad avvicinarglisi,sussurrando: «Semplicemente non posso più aspettare.»

Feringal perse tutta la sua determinazione e la strinse fra le braccia,baciandola con passione.

In realtà Meralda non desiderava ciò che stava provocando, masapeva di doverlo fare e temeva che fosse già passato troppo tempo.Accennò quindi a trascinare Feringal sulla sabbia accanto a sé, decisa asedurlo e a farla finita, ma in quel momento dalle mura del castellogiunse l'acuto richiamo dell'aspra voce di Priscilla.

«Feri!»«Detesto quando mi chiama in quel modo!» ringhiò il giovane

nobile mentre con uno sforzo enorme si ritraeva da Meraldacontinuando a imprecare fra sé contro la sorella. «Possibile che nonriesca mai a sfuggirle?»

«Feri, sei lì?» chiamò ancora Priscilla.«Sì, Priscilla», rispose Feringal, con irritazione a stento contenuta.«Torna al castello», disse la donna. «Comincia a fare buio e Temigast

dice che è stata riferita la presenza di ladri nei dintorni, per cui vi vuoleal sicuro in casa.»

Con il cuore infranto, Feringal si girò verso Meralda scuotendo ilcapo.

«Dobbiamo andare», annunciò in tono triste.«Non posso aspettare fino a primavera», insistette lei, in tono

deciso.«E non lo farai», replicò Lord Feringal, «però faremo ogni cosa nel

modo giusto e nel rispetto dell'etichetta. Anticiperemo il matrimonioal giorno del solstizio d'inverno».

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«Troppo lontano», dichiarò Meralda.«Allora all'equinozio d'autunno.»Meralda rifletté sui tempi, e quando calcolò che mancavano sei

settimane all'equinozio d'autunno e che lei era già incinta di oltre unmese sul volto le si dipinse un'espressione di sgomento.

«Non posso anticipare maggiormente la data», spiegò LordFeringal, accorgendosene. «Come sai, Priscilla si sta occupando deipreparativi e già così ululerà di rabbia quando verrà a sapere chedesidero affrettare i tempi. Quanto a Temigast, desidera cheaspettiamo almeno fino alla fine dell'anno, ma riuscirò a convincerlo.»

Consapevole che stava parlando più a se stesso che a lei, Meralda lolasciò fare e scivolò nei propri pensieri mentre tornavano insieme alcastello, consapevole che i timori che il giovane nutriva nei confrontidelle ire di sua sorella erano più che giustificati: Priscilla avrebbelottato in tutti i modi per impedire quell'anticipazione della dataperché, Meralda ne era convinta, sperava ancora che le cose fra loronon andassero in porto.

Enon sarebbero andate in porto se prima del matrimonio chiunque

avesse sospettato che lei era incinta di un altro uomo.«Dovresti avere abbastanza buon senso da non uscire di notte senza

una scorta di guardie», rimproverò Priscilla, non appena i dueentrarono nell'atrio. «Ci sono ladri in giro.»

Nel parlare fissò Meralda con occhi roventi, e lei comprese di esserela causa effettiva della sua ira. Priscilla non aveva paura che dei ladripotessero assalire suo fratello, ma temeva piuttosto quello che sarebbe

potuto succedere fra lui e Meralda, quello che per poco non erasuccesso sulla spiaggia.«Ladri?» ribatté Feringal, con una risata. «Non ci sono ladri ad

Auckney, è un problema che non si è più presentato da molti anni, daprima ancora che io diventassi il signore di queste terre.»

«Allora è una calma che dura da troppo tempo», dichiarò in tonoasciutto Priscilla. «Vorresti che il primo attacco sferrato contro

Auckney dopo tanti anni fosse a danno del signore di questi luoghi edella sua futura moglie? Non hai nessun senso di responsabilità neiconfronti della donna che dici di amare?»

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Quelle parole colsero Feringal in contropiede, cosa che Priscillasembrava sempre in grado di ottenere con appena poche parole, unasituazione a cui Meralda si ripropose di porre rimedio non appenaavesse avuto un po' più di potere d'azione.

«È stata colpa mia», intervenne quindi, interponendosi fra i due. «Iopasseggio spesso di notte, perché è il momento della giornata chepreferisco.»

«Non sei più una semplice contadina», la rimproverò in tono bruscoPriscilla. «Devi capire le responsabilità che si accompagnano al tuoingresso nella nostra famiglia.»

«Sì, Lady Priscilla», rispose Meralda, accennando a testa china un

cortese inchino.«Se desideri passeggiare di notte, fallo nel giardino», aggiunse

Priscilla, però in tono un po' meno aspro.Ancora a testa china, in modo che Priscilla non potesse vederla in

volto, Meralda si concesse un sorriso astuto perché stava cominciandoa capire come avere influenza su quella donna: a Priscilla piaceva unbersaglio che si ribellasse alle sue frecciate, non uno pronto a mostrarsi

umile.Priscilla intanto si girò per andarsene sbuffando con aria frustrata.«Abbiamo delle notizie», annunciò d'un tratto Lord Feringal,

inducendola ad arrestarsi di colpo.Meralda sollevò la testa di scatto, con il volto che esprimeva

sorpresa e non poca ira, e si sentì assalire dal desiderio di ricacciare aforza quelle parole in gola al suo fidanzato perché era consapevoleche quello non era il momento più adatto per un annuncio del genere.

«Abbiamo deciso di non poter aspettare fino a primavera persposarci», continuò Feringal, senza accorgersi di nulla. «Il matrimoniosi terrà nel giorno dell'equinozio di autunno.»

Com'era prevedibile, Priscilla si tinse in volto di un intenso rossore erisultò evidente che stava facendo appello a tutta la sua forza divolontà per non mettersi a tremare di rabbia.

«Ma certo», ringhiò a denti stretti. «Hai comunicato questa notizia alSiniscalco Temigast?»

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«Sei la prima a saperlo», replicò Lord Feringal. «Era una cortesiadovuta da parte nostra, dato che sei tu che ti stai occupando di tutti ipreparativi.»

«Ma certo», ripeté Priscilla, in tono gelido. «Va' a informarlo, Feri»,aggiunse quindi. «Lo troverai nella biblioteca. Provvederò io a fare inmodo che Meralda venga accompagnata a casa.»

Quelle parole indussero Lord Feringal a tornare a precipizioaccanto a Meralda.

«Adesso non ci vorrà più molto, amore mio», disse, baciandole lamano, poi si allontanò con passo impaziente per andare in cerca delsiniscalco.

«Cosa gli hai fatto là fuori?» scattò Priscilla, non appena lei eMeralda furono sole.

«Fatto?» replicò lei, con espressione perplessa.«Tu... tu hai usato le tue malizie femminili su di lui, vero?» Meralda

scoppiò a ridere per gli sforzi che Priscilla stava facendo per non usareun linguaggio grossolano, una reazione che l'imperiosa nobildonnanon si era di certo aspettata.

«Forse avrei dovuto fargli sfogare i suoi istinti, come diciamo noi»,rispose quindi, «ma non l'ho fatto. Io lo amo, ma mia madre non haallevato una sgualdrina e dato che tuo fratello intende sposarmi possoaspettare... fino all'equinozio d'autunno, come lui stesso ha deciso».

Priscilla socchiuse gli occhi in un'espressione minacciosa.«Tu mi odi per questo», aggiunse Meralda, con una brusca

franchezza a cui Priscilla non era preparata e che la colse allasprovvista, inducendola a indietreggiare di un passo. «Mi odi perchémi sto prendendo tuo fratello e sto scompaginando la vita che ti seicreata, ma trovo che il tuo sia un atteggiamento alquanto egoista, semi è permesso dirlo. Tuo fratello mi ama e io amo lui, quindi cisposeremo, con o senza la tua benedizione.»

«Come osi...»«Io oso dire la verità», la interruppe Meralda, sorpresa lei stessa per

quel discorso così diretto ma consapevole di non poter più battere inritirata. «Mia madre non sopravviverà per un altro inverno nella

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nostra casa gelida, e io non intendo lasciarla morire né per amore delleconvenienze né per rispettare le tue sensibilità. So che ti staioccupando dei preparativi e te ne sono grata, ma cerca di accelerare lecose.»

«Allora è di questo che si tratta?» chiese Priscilla, pensando di averfinalmente trovato in lei un punto debole. «Di tua madre?»«Si tratta di tuo fratello», precisò Meralda, ergendosi sulla persona e

alzando le spalle. «È una cosa che interessa a Feringal e non a Priscilla,ed è questo che ti irrita tanto.»

Priscilla era talmente infuriata e sorpresa che non riuscì neppure acontrobattere; a corto di parole, infine si girò e batté in ritirata,

lasciando Meralda sola nell'atrio.La giovane si soffermò per qualche momento a valutare ciò che

aveva detto, quasi incapace di credere di essere stata in grado di teneretesta a Priscilla, poi valutò la mossa successiva e ritenne più prudenteandarsene; dal momento che quando lei e Feringal erano rientratiaveva visto Liam fermo davanti alla porta principale con la carrozza,andò a cercarlo e gli chiese di riportarla a casa.

***

Jaka Sculi osservò la carrozza percorrere la strada del castello, comefaceva ogni volta che Meralda tornava da uno dei suoi incontri con ilsignore di Auckney, e nel guardarla non seppe interpretare quello chestava provando.

La cosa a cui continuava a pensare era il momento in cui Meralda gliaveva detto del bambino, del suo bambino, e lui l'aveva respintaabbassando la guardia al punto da lasciare che ciò che provavadavvero gli trasparisse dal viso; e adesso questa era la sua punizione,guardarla percorrere la strada sulla via del ritorno dal Castello di Aucke da lui.

Jaka si chiese quindi quale diverso comportamento avrebbe potuto

tenere. Di certo non voleva la vita che Meralda gli aveva proposto...no, questo mai! Il pensiero di sposarla e di vederla diventare grassa e

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brutta, di avere tra i piedi un bambino urlante, lo inorridiva, ma forsenon lo inorridiva quanto l'idea che Lord Feringal potesse farla sua.

Jaka si rese infine conto che si trattava di questo, anche se quellarazionalizzazione non contribuì in alcun modo a modificare ciò cheprovava nel suo intimo: non tollerava l'idea di Meralda che giaceva frale braccia di un altro uomo, e il pensiero di Lord Feringal che allevavasuo figlio credendolo il proprio gli dava l'impressione che quell'uomostesse commettendo un vero e proprio furto ai suoi danni, come ogninobile faceva in ogni città a danno dei popolani, sia pure in manierameno palese. Sì, i nobili derubavano sempre il popolo, la gente onestacome lui, vivevano fra le comodità e mille lussi mentre la gente onestacome Jaka era costretta a spezzarsi le unghie scavando la terra e amangiare cibo marcio, si prendevano le donne che preferivano senzaoffrire qualità personali ma soltanto la loro ricchezza, con cuicontadini come Jaka non potevano competere. Feringal gli avevapreso la sua donna e adesso si sarebbe preso anche suo figlio.

Tremando d'ira Jaka si mise a correre lungo la strada, agitando lebraccia per indurre la carrozza a fermarsi.

«Vattene!» ingiunse dall'alto Liam Woodgate, senza accennare arallentare.

«Devo parlare con Meralda!» gridò Jaka. «Si tratta di sua madre!»Questo indusse Liam a far rallentare la carrozza quanto bastava per

poter dare un'occhiata verso il basso e vedere cosa ne pensasseMeralda. Contemporaneamente la giovane donna si affacciò alfinestrino per vedere quale fosse la causa di tutta quella confusione enel vedere l'evidentemente agitato Jaka sbiancò in volto ma non siritrasse.

«Vuole che mi fermi per poterti parlare», spiegò Liam. «Qualcosache riguarda tua madre.»

«Gli parlerò», assentì Meralda, pur adocchiando Jaka con ariaguardinga. «Puoi fermarti e lasciarmi qui, Liam.»

«Manca ancora più di un chilometro a casa tua», obiettò lo gnomo,tutt'altro che contento di quanto stava succedendo. «Vi potrei portarefin là entrambi», suggerì quindi.

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Meralda lo ringraziò ma gli segnalò con un cenno di tornareindietro.

«Posso camminare senza problemi per un chilometro», garantì, poiaprì la portiera, scese a terra prima ancora che il veicolo si fossefermato e si venne a trovare sola con Jaka sulla strada buia.

«Sei stato uno stolto a venire qui», lo rimproverò, non appena Liamebbe fatto voltare la carrozza e si fu allontanato. «Che cosa vuoi?»

«Non avevo scelta», replicò Jaka, avvicinandosi per abbracciarla,ma Meralda lo respinse.

«Sai cosa porto in me, e presto lo saprà anche Lord Feringal», disse.«Se dovesse associarti al bambino ci ucciderà entrambi.»

«Non ho paura di lui», dichiarò Jaka, insistendo nell'avvicinarlesi.«So quello che provi, Meralda, e stanotte non ho potuto fare a menodi venire da te.»

«Hai espresso i tuoi sentimenti con chiarezza perfino eccessiva»,ribatté lei, con freddezza.

«Sono stato uno stupido», protestò Jaka. «Devi capire che la notiziaper me è stata uno shock, ma adesso l'ho superato. Perdonami,Meralda, non posso vivere senza di te».

Meralda chiuse gli occhi e barcollò leggermente, cercando diassimilare quello che stava sentendo.

«Che cosa vuoi, Jaka Sculi?» chiese di nuovo, con voce sommessa.«Dov'è il tuo cuore?»

«Con te», rispose lui con voce altrettanto sommessa, avvicinandosi.

«E?» lo incitò Meralda, riaprendo gli occhi e fissandolo con durezza,e quando Jaka non parve comprendere aggiunse: «Hai già dimenticatoil piccolo?».

«No», balbettò lui, illuminato tardivamente. «Naturalmente ameròanche il bambino.»

Meralda si rese conto che non gli credeva e la sua espressione lorivelò con chiarezza.

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«Meralda», insistette Jaka, prendendole la mano e scuotendo ilcapo. «Non posso tollerare il pensiero che Lord Feringal allevi mio...nostro figlio come se fosse suo.»

Risposta sbagliata. L'istinto di Meralda, risvegliato appieno dal suoprecedente incontro con questo ragazzo, le urlò quale fosse la verità, ecioè che Jaka non era spinto dall'amore per il bambino e neppure perlei. Ormai infatti si era resa conto che Jaka non era capace di provareemozioni del genere e che se adesso era qui a dichiararle il suo amorequesto dipendeva soltanto dal fatto che non poteva tollerare l'idea diessere sconfitto da Lord Feringal.

Meralda trasse un profondo respiro, cercando di calmarsi. Quello

che aveva davanti era l'uomo che un tempo aveva creduto di amare ele stava dicendo le cose che una volta aveva desiderato di sentire dalui. Se Jaka avesse scelto subito questa linea d'azione quando eraandata da lui adesso sarebbero già stati a metà strada da Luskan, manel tempo intercorso Meralda Ganderlay era diventata una donna piùsaggia, che pensava soprattutto al proprio benessere e a quello del suobambino, e adesso era consapevole che Jaka non avrebbe mai datoloro una buona vita, sapeva nel profondo del suo cuore che ben

presto lui avrebbe cominciato a provare risentimento verso di lei everso il bambino, quando la trappola della povertà li avesse serratinella sua morsa. Per Jaka era una competizione, non amore, eMeralda riteneva di meritare di meglio.

«Vattene», disse. «Vattene molto lontano e non tornare indietro.»«Ma...» balbettò lui, sgomento e incredulo.«Non c'è nulla che tu possa dire che suoni credibile ai miei orecchi»,

continuò Meralda. «Per noi non c'è una vita che possa renderti felice.»«Ti sbagli.»«No, non mi sbaglio, e lo sai anche tu», ribatté Meralda. «Abbiamo

avuto un periodo speciale che mi sarà caro per tutta la vita, ma unaltro momento ha rivelato come stessero veramente le cose: nella tuavita non c'è spazio per me o per il bambino e non ce ne sarà mai.»

Quello che avrebbe voluto veramente dirgli era di cercare dicrescere, ma non era cosa che Jaka dovesse sentire da lei.

«Ti aspetti che me ne resti zitto a guardare mentre Lord Feringal...»

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«Ogni parola che aggiungi cancella sempre più i miei ricordipiacevoli», lo interruppe Meralda, premendosi le mani sugli orecchi.«Mi hai mostrato fin troppo chiaramente cosa c'è nel tuo cuore.»

«Sono stato uno stupido», implorò Jaka.«E continui a esserlo», replicò in tono freddo Meralda, poi si volse e

si allontanò.Jaka la richiamò con grida strazianti che la trapassarono come

frecce, ma Meralda continuò a camminare senza guardarsi indietro,ricordando a se stessa a ogni passo la verità su quell'uomo, su quelbambino; poi d'un tratto si mise a correre e non si fermò fino aquando non fu arrivata a casa.

Nella stanza comune c'era ancora una candela accesa, ma con suosollievo constatò che i suoi genitori e Tori stavano dormendo, cosache fu per lei un sollievo perché in quel momento non se la sentiva diparlare con nessuno. Finalmente aveva chiarito i propri sentimentiriguardo a Jaka e poteva accettare il dolore di quella perdita. Perquanto si sforzasse in ogni modo di ricordare soltanto la loro unicanotte di passione e non le delusioni che l'avevano seguita, scoprì chequelle delusioni, le rivelazioni sull'effettiva natura di quel ragazzo,erano un'aspra realtà più forte delle fantasticherie di una ragazzainnamorata e si rese conto che ciò che voleva veramente era che luiscomparisse del tutto.

C'era poi un altro problema assai più pressante: l'equinoziod'autunno era troppo lontano, ma era evidente che non sarebbe mairiuscita a convincere Lord Feringal, e tanto meno Priscilla o Temigast,ad anticipare ulteriormente la data delle nozze.

Poi però si rese conto che forse c'era una soluzione alternativa. Lagente li avrebbe perdonati se si fossero sposati in autunno e poi si fossevenuto in qualche modo a sapere che si erano amati anche prima dellenozze; dopo tutto, Auckney era pieno di bambini «settimini».

Distesa al buio nella sua stanza, Meralda annuì fra sé, consapevoledi quello che doveva fare: avrebbe sedotto ancora Lord Feringal, alpiù presto possibile. Dopo tutto conosceva la portata del suo desiderio

e sapeva come farlo divampare con un semplice bacio o una lievecarezza.

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Il suo sorriso però si dissipò quasi immediatamente e lei si detestòper aver pensato una cosa del genere perché se avesse sedotto LordFeringal lui avrebbe creduto di essere il padre del bambino e quellasarebbe stata la peggiore delle menzogne, per Feringal e per il

bambino stesso.Per quanto detestasse se stessa e il piano che aveva elaborato, nelsentir giungere dall'altra stanza il suono di sua madre che tossivaMeralda seppe cosa doveva fare.

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CAPITOLO XVIIIIL CORAGGIO DI FARLO

«i nostri primi clienti», annunciò Morik. Lui e Wulfgar erano fermi suun alto costone roccioso che dominava il passo di accesso alla Valle del

Vento Ghiacciato e sulla pista sottostante erano apparsi due carridiretti verso di esso con andatura costante ma non troppo veloce.

«Viandanti o mercanti?» domandò Wulfgar, poco convinto.«Mercanti, e ben forniti di denaro», replicò il furfante. «Lo indica la

loro andatura, e la mancanza di guardie di scorta gioca a nostrofavore.»

Pur ritenendo stolto da parte dei mercanti affrontare un viaggiocosì pericoloso senza una scorta adeguata, Wulfgar non dubitò delleparole di Morik, ricordando come nel suo ultimo viaggio fuori dallavalle lui e i suoi amici si fossero imbattuti nel carro di un mercante cheviaggiava solo e vulnerabile.

«Sorpreso?» domandò Morik, notando la sua espressione.«Gli idioti mi sorprendono sempre», ribatté Wulfgar.«Non si possono permettere le guardie», spiegò Morik. «Pochi fra

coloro che si recano nella Valle del Vento Ghiacciato se le possonopermettere. Vedi, questi sono mercanti poco facoltosi checommerciano su scala ridotta e che fanno per lo più affidamento sullafortuna, sperando di incontrare abili guerrieri che abbiano bisogno di

un passaggio o una pista aperta che permetta loro di passare.»«Mi sembra troppo facile.»«È facile!» esclamò con entusiasmo Morik. «Naturalmente devi

capire che stiamo facendo un favore a questa carovana», dichiaròquindi, e quando Wulfgar non si mostrò convinto, proseguì: «Pensaci,se non avessimo ucciso quei giganti, probabilmente questi mercanti sisarebbero trovati sepolti sotto una pioggia di massi... non solo

sarebbero stati depredati dei loro averi, ma sarebbero anche finiti inpentola. Perciò non sentirti turbato, mio grosso amico», concluse con

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un sorriso. «Tutto quello che vogliamo è il loro denaro, un onestopagamento per il lavoro che abbiamo svolto per loro.»

Stranamente, Wulfgar trovò che il ragionamento era in certa misurasensato: sotto questo aspetto, il lavoro a cui Morik si riferiva non eradiverso da quello che lui aveva svolto per tanti anni con Drizzt e glialtri, quello di far rispettare la giustizia in una terra selvaggia. La soladifferenza era che prima di allora lui non aveva mai chiesto di esserepagato, come Morik aveva intenzione di fare adesso.

«La linea d'azione più semplice sarebbe quella di mostrare quantosiamo forti senza impegnare uno scontro effettivo», spiegò intanto ilfurfante. «Esigere un pagamento per i nostri sforzi, alcune provviste e

magari un po' d'oro, e lasciare che vadano per la loro strada. Dato chesono due soli carri e che non si vedono guardie, forse potremmoripulirli di tutto senza lasciare testimoni.»

Il suo sorriso però scomparve non appena vide Wulfgar accigliarsidi fronte a quella seconda alternativa.

«D'accordo, solo un pagamento», decise, optando per uncompromesso. «Un giusto pagamento per il lavoro svolto per renderesicura la strada.»

Anche se neppure questo gli andava molto a genio, Wulfgar silimitò ad annuire.

***

Morik scelse un tratto della pista cosparso di rocce, dove i carriavrebbero dovuto rallentare considerevolmente o rischiare di perdereuna ruota o un cavallo, e dove un singolo albero sul lato sinistro dellapista avrebbe fornito a Wulfgar lo strumento di cui aveva bisogno persvolgere la sua parte in un eventuale attacco, se si fosse giunti a questo.Poi si piazzò in attesa vicino alla pista quando i carri apparvero inlontananza.

«Salve!» esclamò, portandosi nel centro della pista con le braccia

sollevate; subito dopo sussultò leggermente nel vedere l'uomo sedutoaccanto al conducente puntare nella sua direzione una grossa balestra

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ma non osò indietreggiare perché doveva far fermare il carro nelpunto prescelto.

«Togliti dalla strada se non vuoi finire ammazzato!» gridò l'uomocon la balestra.

Per tutta risposta Morik abbassò una mano e tornò a sollevarlastringendo per i capelli la testa di uno dei giganti che lui e Wulfgaravevano ucciso.

«Ammazzarmi sarebbe sconsigliabile», replicò, «sia dal punto di vistamorale che da quello fisico».

Il carro si arrestò con un sussulto, costringendo quello che loseguiva a fare altrettanto, e Morik si servì di un piede per far rotolareuna seconda testa fuori da dietro una roccia, slogandosi quasil'articolazione del ginocchio per lo sforzo.

«Sono lieto di informarvi che adesso la pista davanti a voi è liberada pericoli», annunciò.

«Allora togliti di mezzo, se non vuoi che ti ammazzi e poi ti passisopra», ordinò il conducente del carro.

Ridacchiando, Morik spostò di lato lo zaino che aveva posato sullapista, rivelando la testa del terzo gigante, e vide che per quantocercassero di mostrarsi spavaldi gli uomini sui carri erano non pocoimpressionati... e spaventati... dallo spettacolo offerto dalle tre teste.Del resto, qualsiasi uomo in grado di sconfiggere tre giganti non eraavversario da affrontare alla leggera.

«I miei amici e io abbiamo lavorato duramente per tutta lasettimana per ripulire la pista dai pericoli», spiegò quindi.

«Amici?»«Credi che abbia fatto tutto questo da solo?» esclamò Morik, con

una risata. «Tu mi aduli. No, ho avuto l'aiuto di molti amici», proseguì,guardando in direzione delle sporgenze rocciose che dominavano ilpasso come se stesse verificando la presenza di quei molti «amici».«Dovete perdonarli se non si fanno vedere, ma sono un po' timidi.»

«Avvia il carro!» gridò una voce proveniente dall'interno delveicolo, inducendo i due uomini sul sedile di guida a scambiarsi unarapida occhiata.

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«I tuoi amici si nascondono come ladri!» esclamò quindi ilconducente. «Togliti di mezzo!»

«Ladri?» ripeté il furfante, in tono incredulo. «Sareste già morti,schiacciati sotto i massi scagliati da questi giganti, se non fosse stato pernoi.»

La porta del carro si aprì scricchiolando e un uomo anziano siaffacciò, con un piede all'interno del carro e l'altro sul predellino.

«Intendi esigere un pagamento per le tue azioni», commentò,mostrando di conoscere fin troppo bene quella routine, come delresto tutti i mercanti del Faeriìn.

«Esigere è una parola eccessiva», ribatté Morik.«Quanto lo è il tuo giochetto, piccolo ladro», affermò il mercante.Morik socchiuse gli occhi con espressione minacciosa e lanciò

un'occhiata significativa alle teste dei giganti.«Benissimo», si arrese il mercante. «Qual è il prezzo del tuo

eroismo?»«Abbiamo bisogno di provviste per continuare a vegliare sulla

sicurezza del passo», spiegò Morik in tono ragionevole, «e magari di unpo' di oro come ricompensa per i nostri sforzi... e per risarcire levedove di coloro che non sono sopravvissuti all'attacco contro il clandi giganti», improvvisò quindi, vedendo il mercante che si accigliava.

«Tre non mi sembrano esattamente un clan», obiettò il mercante intono asciutto, «ma non voglio sminuire i vostri sforzi. Sono disposto aoffrire a te e ai tuoi amici un buon pasto, e se acconsentirete a scortarcifino a Luskan come guardie pagherò a ciascuno di voi una monetad'oro al giorno», aggiunse, mostrandosi orgoglioso della propriagenerosità e compiaciuto per essere riuscito a volgere la situazione aproprio vantaggio.

«Attualmente non desideriamo tornare a Luskan», affermò peròMorik, accogliendo con poco entusiasmo la misera offerta.

«Allora accontentatevi di un pasto e facciamola finita», fu la seccarisposta.

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«Idiota», borbottò fra sé Morik, poi controbatté ad alta voce: «Nonsiamo disposti ad accettare meno di cinquanta monete d'oro e cibosufficiente per tre buoni pasti per sette uomini».

«Accetterai la nostra disponibilità a permetterti di andare via di quivivo e vegeto», rise il mercante, poi fece schioccare le dita e un paio diuomini balzarono giù dal secondo carro con la spada in pugno, imitatidal conducente.

«Ora vattene!» concluse il mercante, scomparendo all'interno delveicolo. «Passagli sopra!» ordinò poi al conducente.

«Idioti!» gridò Morik, dando così a Wulfgar il segnale convenuto.Il conducente del carro ebbe un momento di esitazione e questo gli

costò caro. Tenendosi appeso all'estremità di una robusta corda Wulfgar si lanciò giù dal proprio nascondiglio lungo la parete rocciosadi sinistra e con un urlo agghiacciante descrisse un arco nell'aria mentreil balestriere si girava di scatto e lasciava partire un dardo che peròmancò ampiamente il bersaglio. Un momento più tardi Wulfgarconcluse il suo arco a grande velocità e lasciò andare la corda,allargando le braccia possenti in modo da spazzare dal sedile di guidaconducente e balestriere, cadendo a terra sopra di loro dal latoopposto del veicolo. Una gomitata in piena faccia mise fuori gioco ilconducente, poi un colpo di rovescio raggiunse il balestriere allamascella, fratturandola e facendo scaturire un fiotto di sangue.

Nel frattempo i tre uomini armati di spada scesi dal secondo carrovennero avanti, due a sinistra del primo veicolo e il terzo sulla destra,e Morik si spostò per fronteggiare quell'avversario isolato con la spadanella destra e la daga nella sinistra, intercettandolo prima che potesseraggiungere Wulfgar.

L'uomo gli si scagliò contro senza esitazioni e Morik si servì dellaspada per parare il suo fendente iniziale, liberando però subito la lamaper intercettare e intrappolare la spada dell'avversario con la dagamentre protendeva a sua volta la spada in un affondo imparabilediretto alla gola. L'uomo era da considerarsi ormai morto, o permeglio dire sarebbe sicuramente morto se il braccio di Morik non fosse

stato bloccato in maniera inamovibile, quasi lui stesse cercando ditrapassare con la spada un muro di solida pietra.

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«Cosa stai facendo?» chiese a Wulfgar, quando questi lo oltrepassò esferrò un pugno alla guardia, rischiando quasi di rimetterci un orecchioa causa della spada e della daga incrociate che si agitavano nell'ariaaccanto a lui. L'uomo sollevò la mano libera per cercare di bloccare il

colpo ma il pesante pugno di Wulfgar oltrepassò le sue difese e schivòil suo avambraccio, raggiungendolo in pieno volto e scagliandololontano.

Quella vittoria risultò peraltro essere di breve durata perché nelfrattempo il conducente del primo carro, per quanto ancora storditodalla gomitata ricevuta, si rialzò in piedi con la spada in mano; la cosapeggiore, però, fu il fatto che intanto gli altri due uomini armati dispada si erano attestati saldamente uno a cassetta e l'altro davanti alcarro. Come se questo non fosse già stato di per sé sufficiente, ilmercante in quel momento tornò a uscire dal carro brandendo unbastone magico.

«Adesso siamonoi gli idioti!» urlò Morik a Wulfgar, imprecando eruotando su se stesso per evitare un attacco dello spadaccino salito acassetta, che a giudicare dal modo in cui manovrava la spada non eracerto un principiante.

Wulfgar intanto si lanciò verso il mercante ma l'istante successivovenne scagliato all'indietro con i capelli ritti sul capo e il cuore chesussultava selvaggiamente.

«Allora è a questo che serve il bastone», commentò Morik, notandoil bagliore luminoso che aveva accompagnato la scena. «Odio imaghi.»

Poi si spostò per affrontare lo spadaccino a terra, che sventò il suotentativo di risolvere in fretta lo scontro con una parata circolare cheper poco non gli fece perdere l'equilibrio.

«Indietro!» gridò allora a Wulfgar, schivando un fendente esferrando un frenetico affondo in direzione dello spadaccino che si erapiazzato a cassetta e che nel frattempo era balzato su uno dei cavalliper cercare di trafiggerlo alla testa.

Intanto il conducente si lanciò contro Wulfgar insieme alla guardia

che lui aveva atterrato con un pugno, e il barbaro si affrettò aimpugnare il martello che teneva assicurato alla schiena. In un primo

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tempo si mosse come per intercettare il conducente lanciato allacarica, ma poi si arrestò e modificò la presa sull'arma per scagliareinvece il martello in direzione del mercante, in quanto non desideravaessere investito da un'altra scarica di energia.

Il martello colpì in pieno il bersaglio, che non era il mercante stessoma la porta della carrozza, sbattendola contro il braccio protesodell'uomo nel momento in cui questi stava per lanciare una nuovascarica, che partì ugualmente e mancò di stretta misura la guardia chestava attaccando Wulfgar.

«Tutti alla carica!» gridò Morik, guardando verso l'altura rocciosasulla sinistra.

Il suo inganno funzionò alla perfezione, distogliendo lo sguardo deisuoi assalitori per l'istante di cui lui aveva bisogno; quando tornaronoa girarsi, gli spadaccini scoprirono che il furfante si era dato alla fuga edera già lontano, visto che Morik era molto veloce nella corsa quandone andava della sua vita.

Nutrendo un salutare rispetto per la forza fisica di Wulfgar, ilconducente venne avanti con cautela mentre l'altro uomo tentòinvece di caricare a testa bassa fino a quando il barbaro non si giròverso di lui con un balzo accompagnato da un grido possente. L'istantesuccessivo Wulfgar invertì però la propria direzione e attaccò invece ilconducente, cogliendolo alla sprovvista con la propria incredibileagilità e accettando una ferita superficiale all'avambraccio pur diriuscire ad afferrargli il polso destro. Traendolo a sé con un possentestrattone, Wulfgar quindi si chinò, lo prese per la cintura con la manolibera e se lo issò sopra la testa per poi girarsi e scagliarlo contro il

compagno che persisteva a venire avanti.Arrestandosi per un momento, Wulfgar notò infine che Morik si eradato alla fuga, una scelta ragionevole considerata la piega presa dalloscontro; ormai preda dell'eccitazione della battaglia, il barbaro si giròperò verso i carri e gli altri due spadaccini, giusto in tempo per esserecentrato in pieno da una nuova scarica di energia. Grazie alle suelunghe gambe, Wulfgar oltrepassò Morik di una cinquantina di metrinel risalire in piena fuga il pendio roccioso.

Mentre correvano un'altra scarica si abbatté vicino a loro,frantumando le rocce, seguita ben presto da un quadrello di balestra e

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da un coro di beffe e di minacce, senza però che nessuno cercasse diinseguirli. Ben presto i due si trovarono a correre lungo le alture equando infine osarono fermarsi per riprendere fiato Wulfgar abbassòlo sguardo sulle due lacerazioni presenti nella sua tunica, scuotendo il

capo.«Avremmo vinto se tu avessi attaccato subito il mercante dopo averabbattuto conducente e guardia, come avevamo pianificato di fare»,lo rimproverò Morik.

«Così tu avresti tagliato la gola a quell'uomo», lo accusò Wulfgar.«E allora?» ribatté Morik, accigliandosi maggiormente. «Se non hai il

coraggio di fare questa vita, perché siamo qui?»

«Perché a Luskan tu hai scelto di trattare con degli assassini», gliricordò Wulfgar.

Per un momento i due si scambiarono un'occhiata gelida e Morikarrivò a posare una mano sulla spada, convinto che il grosso barbarostesse per attaccarlo.

E Wulfgar pensò di fare esattamente questo.I due tornarono alla grotta per vie separate; arrivato per primo,

Morik entrò subito mentre Wulfgar cambiò idea e preferì rimanerefuori, avvicinandosi a un piccolo ruscello che scorreva nelle vicinanzeper lavarsi le ferite. Constatò così che il petto non era moltodanneggiato e che soltanto i peli apparivano strinati come per lascarica di un fulmine; no, il vero problema era invece la ferita allaspalla che si era riaperta ancora una volta in maniera grave, e soltantodopo che si fu tolto la tunica si rese conto di quanto sangue avesse

effettivamente perso.Morik lo trovò ancora là parecchie ore più tardi, steso privo di sensisu una roccia, e lo spintonò per riscuoterlo.

«Non ce la siamo cavata bene ma siamo vivi», commentò,protendendo un paio di bottiglie, «e questo è un motivo perfesteggiare».

«Ci serve un motivo?» ribatté Wulfgar senza sorridere, volgendogli

le spalle.

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«I primi attacchi sono sempre disastrosi», spiegò in tono ragionevoleMorik. «Ciascuno di noi si deve abituare allo stile di combattimentodell'altro, ecco tutto.»

Wulfgar rifletté su quelle parole alla luce della propria esperienza,alla luce della prima vera battaglia che lui e Drizzt avevano affrontatoinsieme. Certo, era vero che a un certo punto per poco lui non avevaabbattuto il drow con un tiro troppo basso di Aegis-fang, ma findall'inizio con Drizzt c'era stata una sorta di simbiosi, una comunionedel cuore che aveva portato a un fondersi delle loro abitudini dicombattimento. Poteva però dire lo stesso di Morik? Avrebbe maipotuto dirlo in futuro?

Lentamente, Wulfgar riportò lo sguardo sul furfante, che con unsorriso gli stava porgendo le bottiglie di liquore, e si disse che sarebbevenuto a patti con Morik, che avrebbero finito per trovare quellastessa simbiosi. E questa fu la cosa che forse più di ogni altra ebbe ilpotere di turbarlo.

«Il passato non esiste più e il futuro non esiste ancora», affermòMorik, «quindi vivi nel presente e goditelo, amico mio, godine ognimomento».

Wulfgar meditò per un momento su quelle parole, che erano unmantra comune per coloro che vivevano alla giornata sulla strada, poiaccettò la bottiglia che gli veniva offerta.

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CAPITOLO XIXL'OCCASIONE PROPIZIA

«Non abbiamo molto tempo! Che cosa indosserò?» gemette BiasteGanderlay, quando Meralda la informò che il matrimonio era statoanticipato all'equinozio d'autunno. «Se dovremo indossare qualcosa didiverso da ciò che già abbiamo sarà Lord Feringal a fornircelo»,intervenne Dohni Ganderlay, battendole un colpetto sulla spalla, e nelparlare lanciò a Meralda un'occhiata piena di orgoglio e soprattutto di

apprezzamento da cui lei capì che suo padre comprendeva bene qualesacrificio stesse facendo.Poi però lei si chiese quanto sarebbe cambiata l'espressione di suo

padre se lui avesse saputo del bambino che portava in grembo e riuscìa stento a rispondere con un debole sorriso prima di andare nella suastanza a vestirsi, perché non molto tempo prima Liam Woodgate eravenuto a informarla che Lord Feringal le aveva preso appuntamentoper quello stesso giorno, nel pomeriggio, con una cucitrice che vivevavicino al confine occidentale di Auckney, a circa due ore di viaggio dalì.

«Niente abiti prestati per il gran giorno!» aveva proclamato Liam.«Biaste, se mi è concesso dirlo, senza dubbio tua figlia sarà la sposa piùbella che si sia mai vista ad Auckney.»

Quelle parole fecero illuminare in viso Biaste e le accesero unoscintillio nello sguardo, ma stranamente esse ebbero anche l'effetto diaddolorare Meralda, perché pur sapendo che stava facendo la cosagiusta per la sua famiglia lei non riusciva a perdonarsi la propriastupidità con Jaka, a causa della quale adesso avrebbe dovuto sedurreal più presto Lord Feringal, magari quella stessa notte. Ora che lenozze erano state anticipate il più possibile, non poteva fare altro cheagire in questo modo e sperare che gli altri - soprattutto Priscilla eTemigast - la perdonassero per aver concepito un figlio prima dellacerimonia ufficiale; la cosa peggiore, però, era che avrebbe dovutotenere nascosta per sempre, fino alla tomba, la verità su quel bambino.

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In quel momento si sentiva davvero la creatura più spregevole delmondo. Madama Prinkle, una cucitrice di notevole fama, le avrebbesenza dubbio confezionato uno splendido abito con stoffe eleganti egemme preziose, ma lei dubitava che il giorno delle nozze avrebbe

avuto un'espressione abbastanza luminosa da intonarsi al vestito.Dopo essersi lavata e vestita, mangiò qualche cosa e si fece trovarepronta e sorridente quando Liam Woodgate venne a prenderla el'aiutò a salire in carrozza, dove lei si sistemò con il gomito appoggiatoal finestrino e passò il tempo osservando le campagne dove uomini egnomi lavoravano nei campi, anche se non cercò né avvistò Jaka Sculiin mezzo a loro. Poi le case divennero sempre più rare e soltantoqualche capanna rimase a punteggiare qua e là il panorama quando lacarrozza si addentrò in una piccola foresta dove Liam si fermòbrevemente per far riposare e bere i cavalli.

Di lì a poco ripresero il cammino, lasciandosi alle spalle il bosco perproseguire di nuovo su un terreno roccioso. Sulla destra di Meraldac'era il mare, sulla sinistra del sentiero si levavano erte e dritte alture diroccia, alcune così a strapiombo e così vicine all'acqua da indurla achiedersi come avrebbe fatto Liam a far passare la carrozza, così come

non poté fare a meno di domandarsi come facesse qualsiasi donna avivere là da sola, cosa di cui si ripropose di parlare a Liam più tardi.Dopo un po' avvistò quindi un avamposto, una fortezza di pietra sucui sventolava la bandiera di Lord Feringal, e soltanto allora cominciòad apprezzare a fondo il potere del signore di Auckney. La lentacarrozza aveva percorso appena una quindicina di chilometri, etuttavia a lei sembrava di aver fatto per metà il giro del mondo e perqualche strana ragione la vista della bandiera di Feringal in quella zonaremota stava avendo l'effetto di farla sentire meglio, quasi a darleconferma che il potente signore di Auckney l'avrebbe protetta.

Il sorriso però le morì sulle labbra quando si rese conto che Feringall'avrebbe protetta soltanto se gli avesse mentito e lei si accasciòall'indietro contro lo schienale del sedile con un sospiro, tastandosi ilventre ancora piatto come se si fosse aspettata che il bambinoprendesse a scalciare da un momento all'altro.

***

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«La bandiera è alzata, quindi all'interno ci sono dei soldati», osservò

Wulfgar.«E là resteranno», replicò Morik. «Capita di rado che i soldati lascino

il riparo della loro fortezza, anche se ne viene richiesto l'intervento, ela loro vedetta, sempre che ne abbiano una, sarà più preoccupata diavvistare eventuali attacchi contro la fortezza stessa che non diosservare cosa accade sulla strada. Inoltre i soldati non possono esserepiù di una dozzina, così lontano da qualsiasi città dove si possanorifornire, e personalmente credo che siano addirittura la metà.»

Dopo il disastro verificatosi al passo, Morik aveva suggerito di

lasciare la regione, nel caso che il mercante avesse dato l'allarme alleguardie di Luskan e soprattutto perché era sua convinzione che unbuon bandito da strada non rimanesse mai a lungo in uno stessoposto, soprattutto dopo un attacco fallito. In un primo tempo Morikaveva espresso l'intenzione di spingersi a nord, nella Valle del VentoGhiacciato, ma Wulfgar aveva opposto un secco rifiuto.

«Allora andremo a ovest», aveva proposto il furfante. «Là c'è unpiccolo feudo incastrato fra le montagne e il mare a sudovest del passodi Hundelstone. Pochi ci vanno perché non è neppure segnato sullemappe, ma i mercanti che percorrono le strade settentrionali neconoscono l'esistenza e a volte lo attraversano nell'andare e veniredalle Ten Towns. Magari potremmo addirittura imbatterci di nuovonel nostro amico dal bastone che scaglia fulmini.»

Quella prospettiva non aveva molto entusiasmato Wulfgar, ma luiera stato consapevole che il suo rifiuto di andare nella Valle del VentoGhiacciato aveva lasciato loro soltanto due alternative: se fosseroandati a est si sarebbero addentrati maggiormente nella Spina Dorsaledel Mondo e si sarebbero venuti a trovare nel regno dei goblin, deigiganti e di altri sgradevoli mostri fonte non di profitto ma di pericolo,quindi non restavano che il sud e l'ovest, e alla luce dei loro rapporticon le autorità di Luskan, che si trovava nel sud, l'ovest sembravacomunque l'alternativa migliore.

Adesso pareva che quella scelta fosse stata davvero la più giusta,perché da dove si trovavano i due potevano vedere un'elegante

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carrozza, del genere che poteva appartenere a un nobile, procederesenza scorta lungo la strada.

«Potrebbe essere un mago», osservò Wulfgar, ricordando ledolorose scariche di energia con cui era stato bersagliato.

«Non conosco nessun mago di grande fama in questa regione»,replicò Morik.

«Sono anni che non vieni più da queste parti», gli ricordò Wulfgar.«Chi altri se non un mago oserebbe viaggiare senza scorta a bordo diuna carrozza così elegante?»

«E perché chiunque non dovrebbe farlo?» ribatté Morik.«Quest'area a sud delle montagne è piuttosto tranquilla e dopo tuttolungo la strada ci sono degli avamposti», aggiunse, accennando con ungesto della mano alla lontana fortezza. «Qui le persone non sonointrappolate in casa dalla paura dei goblin.»

Wulfgar annuì, ma la cosa continuò a sembrargli troppo facile e luisuppose che quanto meno il conducente dovesse essere uncombattente veterano, sempre che all'interno della carrozza non cifossero altri combattenti o qualcuno munito di un bastone magico o di

qualche altro potente strumento di magia; d'altro canto gli bastò dareuna sola occhiata a Morik per rendersi conto che non sarebbe mairiuscito a dissuadere il suo amico, che era ancora umiliato dal disastrodell'attacco al passo e aveva bisogno di un successo per risollevarsi lospirito.

Approfittando del fatto che la strada descriveva un'ampia curvaintorno a uno sperone montuoso, Wulfgar e Morik tagliarono lungoun sentiero più diretto che permise loro di tornare sulla strada moltopiù avanti rispetto alla carrozza e in un punto da cui non potevanoessere avvistati dall'avamposto. Subito Wulfgar prese la corda di cuiera munito e si mise alla ricerca di un punto dove assicurarla, ma lasola cosa che riuscì a trovare fu un giovane albero dall'aria non tropporesistente.

«Dovrai limitarti a saltare», osservò Morik, indicando unasporgenza della roccia, poi si allontanò in fretta lungo la strada

impugnando al tempo stesso una frusta e dirigendosi verso la carrozzache stava oltrepassando lentamente l'estremità della curva.

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Dall'interno scaturì un altro urlo di terrore.Avvicinatosi al conducente, Wulfgar gli sollevò con delicatezza la

testa e tornò ad adagiarla al suolo dopo essersi accertato che fosseprivo di sensi, pur augurandosi al tempo stesso che non fosse feritotroppo gravemente.

«Vieni un po' a vedere!» chiamò in quel momento Morik, poi siprotese nella carrozza e offrì la propria mano a una splendida giovanedonna che si trovava all'interno, aggiungendo in tono diammonizione: «Vieni fuori, se non vuoi che ti raggiunga io lì dentro».

Ancora spaventata, però, la donna si ritrasse e si raggomitolò in unangolo.

«Questo è il modo in cui i veri banditi conseguono i loro piaceri»,annunciò Morik a Wulfgar, che nel frattempo lo aveva raggiunto. «Eparlando di piaceri...»

Lasciando in sospeso la frase, il furfante saltò nella carrozza.La donna urlò e cercò di colpirlo con i pugni ma non riuscì a tenergli

testa e ben presto lui la bloccò contro il soffitto del veicolo, che adessoera trasformato in una parete, bloccandole le braccia e impedendolecon un ginocchio di raggiungerlo all'inguine con un calcio mentreaccostava le labbra a quelle di lei.

«Un bacio per il vincitore?» commentò.D'un tratto si sentì sollevare in aria, issato per il colletto della

camicia, e si trovò a essere trascinato fuori dalla carrozza dal furente Wulfgar.

«Adesso stai esagerando», ammonì questi, scaricandolo rudementea terra.

«È una preda legittima», ribatté il furfante, incapace di comprenderequale fosse il problema del suo amico. «Approfittiamo di lei e lalasciamo andare... che male c'è?»

«Va' a occuparti delle ferite del conducente», ordinò Wulfgar,fissandolo con occhi roventi, «poi perquisisci la carrozza alla ricerca divalori».

«La ragazza...»

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«Non puoi farlo, perché lei andrà al vicino avamposto e ci scatenerài soldati alle calcagna entro un'ora», protestò Morik.

Wulfgar però non lo stava ascoltando. Trovate alcune grosse rocce,le posizionò accanto al tetto della carrozza rovesciata e con unpossente strattone riuscì a sollevare il veicolo da terra; accorgendosipoi che Morik non aveva nessuna intenzione di aiutarlo, si puntellò eriuscì a liberare una mano per spingere una roccia in posizione sotto ilbordo del tetto.

A quel punto i cavalli sbuffarono e diedero qualche strattone cheper poco non mandò in fumo tutto il suo lavoro.

«Almeno va' a calmarli», ordinò a Morik, e quando questi non

accennò a muoversi lanciò un'occhiata alla donna, che raggiunse dicorsa i cavalli e procedette a tranquillizzarli.«Non posso farcela da solo», disse ancora il barbaro a Morik, in

tono sempre più iroso.Sbuffando con aria di estrema sopportazione, il furfante si avvicinò

e studiò brevemente la situazione, poi andò a recuperare il tratto dicorda dove Wulfgar lo aveva lasciato cadere e lo passò intorno a un

albero, legandone un'estremità al bordo della carrozza. Morik siavvicinò quindi ai cavalli, inducendo la donna a ritrarsi da lui con unbalzo (cosa di cui peraltro neppure si accorse), e li fece spostare conattenzione e lentezza in modo da trascinare la carrozza fino a porretutte le sue ruote a uguale distanza dall'albero.

«Tu sollevi e io tendo la corda per reggere il peso», spiegò quindi a Wulfgar, «poi ti puntelli e sollevi ancora, e così via. Vedrai che laraddrizzeremo in un momento».

Suo malgrado, Wulfgar fu costretto ad ammettere l'ingegnosità diMorik; non appena questi ebbe preso di nuovo posizione vicino allacorda, lasciando la donna a tenere sotto controllo i cavalli, il barbarosi chinò e impresse al veicolo una decisa spinta verso l'alto.

Vicino all'albero, Morik fu pronto a tendere la corda intorno altronco, permettendo a Wulfgar di modificare la propria posizione; unmomento più tardi il barbaro spinse ancora e Morik tornò a puntellarela carrozza, con il risultato che la terza spinta impressa da Wulfgar fusufficiente a riportare il veicolo sulle quattro ruote.

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Innervositi da quelle manovre, i cavalli nitrirono e batterono ilterreno con lo zoccolo, agitandosi a tal punto che la donna non riuscìpiù a trattenerli, ma Wulfgar le fu accanto in un istante e le tolse lebriglie di mano, imprimendo un deciso strattone che calmò

immediatamente le bestie. Servendosi ancora della corda, legò quindila pariglia all'albero e si diresse verso il conducente ancora svenuto.«Come si chiama?» chiese alla donna, e quando la vide esitare

aggiunse: «Non posso certo farvi di peggio di quello che ho già fattosemplicemente conoscendo i vostri nomi. È solo che mi sembra stranoaiutarlo senza neppure sapere il suo nome».

«Si chiama Liam», rispose la donna, rasserenandosi un poco, poi

parve trovare un po' di coraggio e si avvicinò per accoccolarsi accantoal conducente con un'espressione preoccupata sul volto. «Sirimetterà?» chiese.

«Non lo so ancora.»Per quanto svenuto, il povero Liam era ancora vivo, e dopo aver

esaminato meglio le sue ferite e aver constatato che non erano troppogravi, Wulfgar lo sollevò con delicatezza e lo trasportò fino allacarrozza, adagiandolo sul sedile interno, poi tornò verso la donna e laprese per un braccio, accennando a trascinarla con sé.

«Hai detto che non mi avresti fatto del male!» protestò lei, tentandodi opporre resistenza, anche se probabilmente avrebbe avuto menodifficoltà a cercare di trattenere i due cavalli.

Morik dal canto suo sfoggiò un ampio sorriso nel vedere Wulfgarafferrare la ragazza.

«Hai cambiato idea?» domandò.«Verrà con noi per un po'», spiegò Wulfgar.«No!» protestò la giovane donna, poi serrò il pugno e scattò in

avanti, colpendo Wulfgar alla nuca.Lui si fermò e si girò a guardarla con aria divertita e con una certa

ammirazione per il coraggio da lei dimostrato.«Sì», ribatté, bloccandole il braccio quando lei cercò di colpirlo

ancora. «Verrai con noi per un chilometro o due, poi ti lascerò libera e

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ti permetterò di tornare alla carrozza e al conducente, e di andaredove vorrai.»

«E non mi farai del male?»«Non io», garantì Wulfgar, e fissando Morik con occhi roventi

aggiunse: «E neppure lui».Rendendosi conto di non avere scelta, la giovane donna li seguì

senza opporre resistenza; fedele alla parola data, quando furono a unpaio di chilometri dalla carrozza Wulfgar le permise di andarsene, poilui, Morik e il sacchetto d'oro svanirono fra le montagne.

***

Meralda corse per tutta la strada per tornare dal povero Liam; alsuo arrivo, con il fianco che le doleva per la corsa, constatò che lognomo aveva ripreso conoscenza ma non era certo in grado discendere dalla carrozza e tanto meno di guidarla.

«Resta dentro», gli ordinò. «Io girerò i cavalli e riporterò entrambi al

Castello di Auck.»Ignorando le proteste dello gnomo chiuse quindi la portiera e simise all'opera, e ben preso il veicolo si rimise in marcia verso ovest, siapure tra sobbalzi e scossoni perché lei non era esperta nel guidare icavalli e la strada era piena di sassi e di buche. Mentre le ore e ichilometri si accumulavano dietro di lei, Meralda fu poi assalita daun'idea che le parve la soluzione più semplice di tutti i suoi problemi.

Il tramonto era ormai passato da parecchio quando arrivarono alvillaggio di Auckney e si arrestarono davanti alle porte del Castello diAuck. Lord Feringal e Priscilla si affrettarono a uscire per venire adaccoglierli e rimasero a bocca aperta nel vedere la ragazza scompostae arruffata e il malconcio conducente adagiato nella carrozza.

«Ladri sulla strada», spiegò Meralda. Mostrando un'insolitapreoccupazione, Priscilla si affrettò a salire a cassetta accanto a lei, econ voce che era poco più che un sussurro Meralda aggiunse: «Lui miha fatto del male».

Poi scoppiò in singhiozzi fra le braccia dell'attonita Priscilla.

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***

Il vento gemeva intorno a lui con una triste voce che cantava ditutto quello che era stato e che non sarebbe più potuto essere, di untempo e di un'innocenza perduti, di amici di cui sentiva terribilmentela mancanza ma che non poteva andare a cercare.

Ancora una volta, Wulfgar si era seduto sull'alto costoneall'estremità settentrionale del passo che attraversava la Spina Dorsaledel Mondo e dominava la Valle del Vento Ghiacciato, e come semprestava guardando verso nordest. D'un tratto gli parve di vedere unbagliore scintillante in lontananza, forse un gioco di luci o magari ilriflettersi dei raggi del sole del tardo pomeriggio sulle acque del MaerDualdon, il più grande dei tre laghi della regione delle Ten Towns;inoltre, da dove si trovava poteva vedere anche il Picco di Kelvin,l'unica montagna a nord della catena della Spina Dorsale del Mondo.

Probabilmente anche quello era un effetto ottico della luce deltardo pomeriggio, o magari della sua immaginazione, perché quella

montagna era molto lontana da lui, a una distanza che gli sembravaincolmabile.«Si sono accampati fuori dall'estremità meridionale del passo e non

sono in molti», annunciò Morik, avvicinandoglisi. «Dovrebbe essere unlavoretto facile e pulito.»

Wulfgar annuì. Dopo il successo conseguito sulla strada costieraoccidentale, i due erano tornati al sud, nella regione fra Luskan e il

passo, e avevano perfino comprato alcune merci da un mercante dipassaggio con l'oro che avevano rubato, poi erano tornati al passo eavevano assalito un'altra carovana, questa volta senza incontrareproblemi in quanto il mercante era stato pronto a pagare un pedaggiosenza versamenti di sangue. Adesso Morik aveva avvistato un terzogruppo di vittime, una carovana di tre carri diretta a nord verso la

Valle del Vento Ghiacciato e proveniente da Luskan.«Guardi sempre verso nord», commentò poi il furfante, sedendosi

accanto a Wulfgar, «e tuttavia non vuoi andare là. Hai dei nemici nelleTen Towns?».

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Di nuovo il barbaro si limitò ad annuire.«Allora sei davvero molto più stupido di quanto credessi»,

sentenziò Morik. Wulfgar riportò lo sguardo sulla tundra, ascoltando di nuovo il

triste canto del vento. Non poteva confutare la valutazione data daMorik ma non aveva neppure il potere di cambiare le cose. Alleproprie spalle sentì il piccolo furfante allungare la mano verso lozaino, poi udì il familiare tintinnio delle bottiglie.

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PARTE QUARTANASCITA

Noi crediamo di comprendere quanti ci circondano. Le persone che abbiamo imparato a conoscere rivelano schemi di comportamento e via via che le nostre aspettative al riguardo trovano ripetutamente conferma noi cominciamo a pensare di conoscere il cuore e l'anima di quella persona.

Io ritengo che questa sia una convinzione arrogante perché nessuno

può effettivamente comprendere il cuore e l'anima di un altro essere vivente, né può valutare davvero le percezioni che un altro può avere di esperienze simili, vissute o riferite. Noi tutti cerchiamo la verità,soprattutto nella nostra sfera esistenziale, nella casa che ci siamo creati e negli amici con cui scegliamo di condividerla, ma temo che la verità non sia sempre evidente quando si ha a che fare con individui tanto complessi e mutevoli.

Ogni volta che ho la tentazione di credere che le fondamenta del mio mondo siano radicate nella pietra, penso a Jarlaxle e ne sono umiliato, perché sono sempre stato consapevole che in lui c'è molto più del semplice mercenario teso alla ricerca del guadagno personale...dopo tutto, ha permesso a me e a Catti-brie di lasciare Menzoberranzan, e per di più in un momento in cui la nostra consegna gli avrebbe fruttato una taglia sostanziosa; e quando Catti-brie era sua prigioniera e completamente in suo potere non ha

approfittato di lei, anche se ha ammesso con le parole e non con le azioni di trovarla molto attraente. Di conseguenza io ho sempre visto un altro livello del suo carattere al di sotto della maschera del freddo mercenario, ma nonostante questa consapevolezza il mio più recente incontro con Jarlaxle mi ha dimostrato che è molto più complesso e senza dubbio più misericordioso di quanto avrei mai potuto supporre.Inoltre, lui si è definito un amico di Zaknafein, e anche se in un primo momento mi sono ribellato all'idea, a pensarci sopra devo ora

ammettere che non è soltanto credibile ma anche probabile.

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Questo significa però forse che adesso conosco la vera natura di Jarlaxle? E la mia verità è la stessa che viene percepita da coloro che lo circondano, come Bregan D'aerthe? Senza dubbio la risposta è no, e anche se sono convinto che la mia attuale valutazione sia esatta, non

sono tanto arrogante da dichiararlo con assoluta certezza e neppure da cominciare a credere di conoscerlo più di quanto possa indicare questo mio superficiale ragionamento.

Che dire allora di Wulfgar? Quale Wulfgar è quello vero? L'uomo orgoglioso e onorevole che Bruenor ha allevato, l'uomo che ha combattuto al mio fianco contro Biggrin e in tante successive battaglie? L'uomo che ha salvato le tribù barbare dallo sterminio e le Ten Towns da futuri disastri creando fra loro un'unione diplomatica? L'uomo che ha attraversato tutto il Faerun nell'interesse di un amico imprigionato? Che ha aiutato Bruenor a riconquistare il suo regno perduto?

Oppure è l'uomo che ha percosso Catti-brie, l'uomo tormentato che alla fine sembra essere destinato al fallimento più totale?

Io ritengo che lui sia entrambe le cose, un insieme delle sue esperienze, dei suoi sentimenti e delle sue percezioni, come del resto lo siamo tutti quanti. Adesso sono i suoi sentimenti a controllarlo,sentimenti generati da esperienze con cui non è in grado di venire a patti, fonte di crude emozioni che alterano al negativo le sue percezioni. Considerata questa realtà, chi è Wulfgar adesso e, cosa ancor più importante, chi diventerà in futuro, sempre che sopravviva a questo periodo di turbamento ?

Quanto desidero saperlo, quando desidero poter effettuare al suo fianco questo pericoloso viaggio, potergli parlare e magari

influenzarlo, ma purtroppo anch'io, come chiunque altro, non posso influenzare quel cuore e quell'anima più di quanto possa influenzare il sole stesso.

Stranamente, è proprio dal quotidiano sorgere di quell'astro diurno che adesso traggo conforto nel pensare a Wulfgar. Perché osservare l'aurora? Perché proprio questo particolare momento invece di qualsiasi altra ora del giorno ?

Perché all'alba il sole è di gran lunga più scintillante, perché all'alba vediamo il riaffermarsi della luce dopo l'oscurità. Quella è la mia speranza, perché ciò che accade al sole può succedere anche alle

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persone, coloro che cadono si possono rialzare per poi risplendere ancora più luminosi agli occhi di quanti li circondano.

Io contemplo l'alba, penso all'uomo che credevo di conoscere, e prego che le mie percezioni siano giuste.

DRIZZT DO’URDEN

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CAPITOLO XXL'ULTIMO GRANDE ATTO DI

EGOISMOJaka sferrò un calcio al terreno, sollevando uno schizzo di fango e

andando a sbattere con un dito contro una roccia interrata chelasciava vedere soltanto la centesima parte delle sue effettivedimensioni, ma non sentì neppure il dolore al piede perché la feritainfetta al suo cuore - , non al suo cuore ma al suo orgoglio - era di granlunga peggiore, mille volte più dolorosa.

Il matrimonio avrebbe avuto luogo alla fine della stagione, cioè allafine di quella settimana, e così Lord Feringal avrebbe avuto Meralda, econ lei il bambino di Jaka.

«Che giustizia è questa?» esclamò il giovane, poi si chinò araccogliere il sasso contro cui aveva sbattuto, e quando capì quantofosse effettivamente grosso ne afferrò un altro per poi rialzarsi discatto e scagliarlo lontano, mancando di poco un paio di contadini piùanziani chini sulle loro zappe.

I due, fra cui il vecchio nano dal naso lungo, si diressero verso di luicon aria infuriata e imprecando sonoramente ma Jaka, troppoimmerso nei propri problemi, non si rese conto di essersi creato unaltro problema più immediato e non si accorse neppure di loro fino aquando nel girarsi di scatto li trovò fermi dietro di lui.

Spiccando un salto deciso, il nano gli sferrò un pugno in pienafaccia, scagliandolo a terra.

«Dannato stupido ragazzo», borbottò poi, girandosi per andarsene.Umiliato, Jaka non si soffermò neppure a riflettere e gli sferrò un

calcio alle caviglie, facendolo inciampare, e l'istante successivo si sentìsollevare in piedi di peso dall'altro contadino.

«Allora stai cercando di morire?» chiese questi, assestandogli unadecisa scrollata.

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«Forse sì», ribatté Jaka, con un profondo sospiro drammatico. «Sì,ogni gioia ha abbandonato questo involucro.»

«Questo ragazzo è matto», dichiarò il contadino che lo avevarisollevato da terra, rivolto al compagno, che stava tornando indietrocon i pugni serrati e la mascella contratta in un'espressione decisa sottola folta barba.

Nel parlare, l'uomo fece girare di scatto Jaka e lo spinse verso ilnano, che però non lo afferrò e si limitò invece a spingerlo di nuovonella direzione opposta facendo leva sulla parte alta della schiena inmodo da mandare il giovane a cadere prono nella polvere, poi gli salìsulla schiena esercitando pressione su di essa con i duri stivali.

«La prossima volta guarda dove tiri i sassi», ingiunse, accentuandoimprovvisamente la pressione per un istante in modo da togliergli ilrespiro.

«Questo ragazzo è matto», ripeté l'altro contadino mentre lui e ilnano si allontanavano.

Jaka rimase disteso al suolo a piangere.

***

«Tutto quel buon cibo al castello», commentò Madama Prinkle, unadonna vecchia e grigia dal volto sorridente, con la pelle che sembravatroppo larga per la sua figura e le ricadeva sulle ossa in pieghe rugose,assestando un pizzicotto alla vita di Meralda. «Se cambi taglia ognisettimana, come farà il mio vestito ad andarti bene? Ragazza mia, ti seiallargata di altre tre dita.»

Meralda arrossì e distolse lo sguardo, rifiutandosi di incontrarequello di Priscilla che, ferma da un lato, stava ascoltando e osservandoattentamente.

«A essere sincera ultimamente ho molta fame», replicò poi. «Mangiotutto quello su cui riesco a mettere le mani, ma forse è solo perchésono nervosa», aggiunse, guardando ora con fare ansioso versoPriscilla, che stava lavorando duramente per portarla a perdere il suoaccento contadino.

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Priscilla annuì, senza però mostrarsi troppo convinta.«Sarà meglio che trovi un modo diverso per calmarti i nervi»,

replicò intanto Madama Prinkle, «altrimenti strapperai il vestito nelcamminare al fianco di Lord Feringal».

E scoppiò a ridere di gusto, una grossa palla sussultante di pelletroppo larga. Meralda e Priscilla si unirono entrambe alla risata con uncerto imbarazzo, anche se nessuna delle due sembrava effettivamentedivertita.

«Puoi modificarlo adeguatamente?» chiese Priscilla.«Oh, non dubitare», replicò Madama Prinkle. «Farò in modo che

questa ragazza sia bellissima il giorno delle nozze.»La cucitrice procedette quindi a raccogliere il filo e gli strumenti da

cucito e Priscilla si mise ad aiutarla, mentre Meralda si sfilavarapidamente il vestito, raccoglieva le sue cose e usciva a precipiziodalla stanza.

Una volta lontana dalle altre due donne si posò una mano sulventre, innegabilmente più ampio. Erano ormai passati due mesi emezzo dalla sua notte con Jaka nel campo illuminato dalle stelle, eanche se dubitava che il bambino potesse essere già abbastanza grossoda gonfiarle tanto il ventre era comunque vero che ultimamente stavamangiando in maniera incredibile. Forse si trattava della tensionenervosa, o forse del fatto che stava mangiando per due, ma quale chefosse il motivo era evidente che avrebbe dovuto stare molto attentaper il resto della settimana in modo da non attirare maggiormentel'attenzione su se stessa.

«Ci riporterà il vestito domani», disse alle sue spalle la voce diPriscilla, facendola sussultare così violentemente che la nobildonna lesi avvicinò e le posò una mano sulla spalla, domandando: «C'èqualcosa che non va, Meralda?».

«Tu non saresti spaventata se stessi per sposare un nobile?»«Non sarei spaventata perché non mi verrei a trovare in una

situazione del genere», replicò Priscilla, inarcando un sopracciglio.

«Ma se... se ti ci trovassi?» insistette Meralda. «Se fossi una contadinaper nascita e un nobile...»

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«È assurdo», la interruppe Priscilla. «Se fossi una contadina pernascita non sarei quella che sono, quindi l'intero problema non hasenso.»

Meralda la fissò con espressione confusa.«Non sono una contadina perché non ho l'anima e il sangue di una

contadina», spiegò Priscilla. «La tua gente pensa che sia per un caso setu sei nata nella tua famiglia e noi nobili nella nostra ma non è così,mia cara: la condizione sociale è una cosa che viene dall'interno e nondall'esterno.»

«E quindi tu saresti migliore?» domandò in tono brusco Meralda.«Non migliore, cara, diversa», sorrise Priscilla. «Ognuno di noi ha il

suo posto.»«E il mio non è con tuo fratello», concluse per lei la giovane donna.«Io non approvo questa mescolanza di sangue», dichiarò Priscilla.Per un lungo momento pieno di disagio, le due donne si fissarono a

vicenda in silenzio.Allora dovresti sposarlo tu stessa, pensò Meralda, ma si trattenne

dal dirlo.«In ogni caso intendo onorare la scelta di mio fratello», proseguì poiPriscilla, nello stesso tono denigratorio. «È la sua vita e la può rovinarecome preferisce. Quanto a me, farò tutto ciò che posso per portarti ilpiù vicino possibile al suo livello. Dopo tutto, tu mi piaci, mia cara»,aggiunse, protendendosi a battere un colpetto sulla spalla di Meralda.

Tanto che mi permetteresti di pulire il tuo pitale, ribollì

silenziosamente Meralda. Avrebbe voluto controbattere al ragionamento di Priscilla, ma inquel momento non si sentiva particolarmente coraggiosa, con quelbambino - il figlio di Jaka - che cresceva nel suo ventre; no,

si sentiva invece vulnerabile e tutt'altro che all'altezza della perfidaPriscilla Auck.

***

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Quando Meralda si svegliò era ormai tarda mattinata, cosa di cui leisi rese conto a causa dell'altezza del sole che splendeva attraverso lafinestra. Preoccupata, si alzò in fretta e furia dal letto chiedendosi perquale motivo suo padre non l'avesse svegliata prima perché sbrigasse

le sue faccende quotidiane e dove fosse sua madre.Quando però oltrepassò la tenda di accesso alla stanza comune sicalmò immediatamente nel vedere la sua famiglia seduta al tavolo; lasedia di sua madre era tirata leggermente indietro per permetterle disedere con la faccia rivolta al soffitto mentre accanto a lei uno stranouomo abbigliato con quelli che sembravano indumenti religiosi,cantilenava sommessamente nel massaggiarle la fronte con un olioprofumato.

«Pà?» accennò a chiedere, ma Dohni sollevò una mano persegnalarle di tacere e le fece cenno di avvicinarglisi.

«Il Guardiano Beribold, del Tempio di Helm a Luskan», spiegò.«Lord Feringal lo ha mandato qui perché aiuti tua madre a rimettersi inforze per le nozze.»

«Allora la puoi guarire?» chiese Meralda, a bocca aperta per lostupore.

«È una malattia difficile», replicò il Guardiano Beribold. «Tua madreè una donna forte per essere riuscita a combatterla con tantaresistenza.»

Meralda accennò a insistere, ma lui la prevenne con un sorrisorassicurante.

«Prima che io e il Sommo Guardiano Risten lasciamo Auckney tua

madre sarà in via di guarigione e libera dalla tisi.»Tori lanciò uno strillo deliziato e Meralda sentì il cuore che le davaun balzo nel petto per la gioia e al tempo stesso avvertì il bracciorobusto di suo padre che le cingeva la vita, traendola più vicina a lui.Quella era una notizia così bella che lei stentava quasi a crederci.Aveva sempre saputo che Lord Feringal avrebbe provveduto a farrisanare sua madre ma non aveva mai supposto che lo avrebbe fattoprima del matrimonio: la malattia di sua madre era una grande spadache Feringal teneva sospesa sul suo capo, e tuttavia adesso lui la stavarimuovendo.

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Le sue parole riempirono il volto e il cuore di Feringal di gioia.Quando lei cercò di baciarlo ancora su una guancia, il giovane si giròin modo da intercettare le sue labbra con le proprie e Meraldaricambiò il bacio con passione, certa che la sua vita con quell'uomo

gentile e meraviglioso sarebbe stata più che tollerabile, molto di più.Nel riflettere su quella scena mentre tornava a casa, Meralda si sentìpoi assalire dalla depressione quando i suoi pensieri si spostarono dinuovo sul bambino e su come avrebbe dovuto mentire al suo riguardoper il resto dei suoi giorni. Quanto le apparivano ora ancor più terribilile sue azioni! Dal suo punto di vista lei si considerava colpevolesoltanto di poco buon senso, ma nella vita reale la cosa sarebbe stataingigantita e il suo errato desiderio per una singola notte d'amoresarebbe stato elevato al rango di un atto di tradimento.

Fu quindi in uno stato d'animo che era un insieme di paura, disperanza e di gioia che la mattina successiva Meralda uscì nel giardino,dove tutti i nobili di Auckney e i testimoni più importanti, inclusi la suafamiglia, la sorella di Lord Feringal e il Siniscalco Temigast,attendevano sorridenti; c'era anche Liam Woodgate che, vestito con isuoi abiti migliori, le teneva aperta la porta con un sorriso che gli

andava da un orecchio all'altro, e all'estremità opposta del giardinorispetto a lei, abbigliato con una lucente armatura e un elmo piumatosenza visiera, c'era il Sommo Guardiano Kalorc Risten, un preteanziano di Helm, il dio a cui andava la devozione di Feringal.

Che giornata, e che sfondo perfetto per un simile evento! Priscillaaveva sostituito i suoi fiori estivi con piante che fiorivano in autunno,come crisantemi, margherite e tageti, e anche se i loro colori nonerano altrettanto brillanti aveva ovviato a quell'inconveniente conbandiere multicolori. Prima dell'alba aveva piovuto ma adesso le nubisi erano allontanate lasciando nell'aria un profumo di pulito e unamiriade di pozzanghere e di gocce che sui petali e sul basso murointercettavano la luce del sole e creavano un gioco di riflessi. Quelgiorno perfino il vento che soffiava dall'oceano aveva un sentore dipulito e di fresco.

L'umore di Meralda migliorò considerevolmente a quella vista:prossima a sposarsi, presto non sarebbe più stata tanto vulnerabile, eadesso la sola cosa di cui aveva ancora paura era di poter inciampare

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nel dirigersi verso la piccola piattaforma cerimoniale decorata conun'arcata da cui pendeva un arazzo su cui era raffigurato un occhioazzurro.

La sua ritrovata sicurezza andò poi aumentando quando il suosguardo si posò sul volto raggiante di sua madre, perché in effetti ilgiovane assistente di Kalorc Risten aveva compiuto un vero e propriomiracolo su di lei; fino all'ultimo momento Meralda aveva temuto chesua madre non stesse abbastanza bene da poter presenziare allacerimonia e invece adesso era lì, con il volto e gli occhi cherisplendevano di salute come non era più accaduto da anni.

Raggiante a sua volta, Meralda accantonò infine tutte le paure

relative al suo segreto e cominciò a camminare verso il podio senzainciampare e senza incertezze... anzi, agli occhi di quanti la stavanoosservando lei parve quasi fluttuare lungo il sentiero del giardino,incarnazione della sposa perfetta, e se pure notarono che la sua cinturasi era un po' allargata pensarono che fosse solo indice del fatto che direcente aveva mangiato di più e meglio che in passato.

Arrivata accanto al prefetto, Meralda si arrestò e si girò per assistereall'entrata di Lord Feringal, che si presentò abbigliato con l'uniforme diComandante della Guardia del Castello di Auckney, lucente cotta dimaglia e broccato dorato, il tutto completato da un elmo piumato eda una grande spada affibbiata al fianco. Fra la folla molti sussultaronoe qua e là qualche donna si lasciò sfuggire un risolino ammirato, e dinuovo Meralda pensò che dopo tutto la sua unione con quell'uomonon sarebbe stata una brutta cosa; Feringal le appariva moltoavvenente in quel momento, soprattutto perché conosceva la naturagentile del suo cuore, ma pur sapendo che quell'abbigliamentomarziale così imponente era solo per figura o poco più, dovetteammettere che gli donava davvero molto.

Sorridente, Feringal la raggiunse accanto al Sommo Guardiano chediede inizio alla cerimonia, nominando in tono solenne tutti i presenticome testimoni di quella sacra unione. Mentre il religioso parlava,Meralda concentrò il proprio sguardo non su Lord Feringal ma sui suoigenitori e quasi non sentì la predica di Kalorc Risten, riscuotendosi perun momento quando le venne dato un calice di vino perché nebevesse un sorso e lo passasse a Feringal.

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Intorno a loro gli uccelli cantavano fra lo sfondo meraviglioso deifiori che incorniciavano quella giovane coppia avvenente e felice... unmatrimonio che stava destando l'invidia di tutte le donne di Auckney.

Quanti non facevano parte della cerchia ristretta che assisteva allacerimonia erano comunque stati invitati ugualmente a fare i loroauguri alla coppia dopo il matrimonio fuori dai cancelli principali delcastello, e stavano ora traendo da quello spettacolo una certa misuradi felicità indiretta. Tutti meno una persona.

«Meralda!»

Quel grido lacerò l'aria limpida del mattino e indusse alcunigabbiani a levarsi precipitosamente in volo dalle alture a est del

castello, così come spinse tutti gli sguardi a volgersi nella direzionedell'erta altura da cui era giunta la voce, sulla quale era possibilevedere una figura isolata... Jaka Sculi, riconoscibile dall'inconfondibilesagoma dalle spalle cadenti.

«Meralda!» gridò ancora lo stolto giovane, come se quel nome glifosse stato strappato dal cuore.

Meralda guardò verso i suoi genitori, e soprattutto verso suo padre

che aveva cominciato ad agitarsi, poi spostò lo sguardo sul futuromarito.«Quello chi è?» chiese Lord Feringal, mostrando un'evidente

agitazione.Meralda farfugliò qualche parola indistinta e scosse il capo con

un'espressione di sincero disgusto dipinta sul volto.«Un idiota», riuscì infine a rispondere.«Non puoi sposare Lord Feringal! Fuggi con me, Meralda, ti

supplico!» urlò Jaka, avanzando di un passo fino ad avvicinarsipericolosamente all'orlo del precipizio.

Lord Feringal si girò a fissare Meralda con espressione d'un trattodura, imitato all'apparenza da tutti i presenti.

«E un amico d'infanzia», spiego affrettatamente lei. «E uno stupido,ti dico, un ragazzino di cui non vale la pena di preoccuparsi.»

Accorgendosi che le sue parole stavano avendo poco effetto, posòpoi una mano sul braccio di Feringal e gli si fece più vicina.

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«Sono qui per sposare te perché ho trovato l'amore dove non avreimai creduto possibile trovarlo», dichiarò, sforzandosi disperatamentedi rassicurarlo.

«Meralda!» gemette Jaka.«Qualcuno faccia tacere quell'idiota», ordinò Lord Feringal, fissando

l'altura con espressione accigliata, poi spostò lo sguardo sul SommoGuardiano Risten e aggiunse: «Cala un globo di silenzio sulla suastupida testa».

«È troppo lontano», replicò Risten, scuotendo il capo, anche se laverità era che non aveva neppure preparato un incantesimo delgenere.

Temendo ciò a cui poteva portare quell'interruzione, all'estremitàopposta del giardino il Siniscalco Temigast si affrettò intanto amandare alcune guardie a far tacere quel giovane facinoroso.

Come Temigast, anche Meralda stava cominciando ad averedavvero paura e si stava chiedendo fino a che punto potesse rivelarsigrande la stupidità di Jaka. Quell'idiota avrebbe finito per direqualcosa che sarebbe potuto costare a Meralda le nozze e costare a

entrambi la loro reputazione e magari anche la vita?«Fuggi con me, Meralda!» urlò Jaka. «Sono io il tuo vero amore.»«Chi è quel bastardo?» domandò di nuovo Lord Feringal, sempre

più agitato.«Un contadino che crede di essere innamorato di me», gli sussurrò

Meralda, consapevole che la folla li stava osservando e conscia delpericolo che stava correndo nel vedere il fuoco che ardeva sempre piùacceso nello sguardo di Lord Feringal, poi si girò a fissarlo negli occhi eaggiunse in un tono secco che non lasciava spazio a obiezioni: «Se puretu e io non dovessimo sposarci, se non avessimo scoperto di amarci,comunque non vorrei mai avere nulla a che fare con quell'idiota».

Lord Feringal continuò a scrutarla in volto ancora per un momento,ma non riuscì a continuare a restare irato con lei dopo aver sentito lasua onesta dichiarazione.

«Posso continuare, mio signore?» domandò intanto il SommoGuardiano Risten.

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«Dopo che quello stolto sarà stato portato via», replicò LordFeringal, sollevando una mano.

«Meralda! Se non verrai con me mi getterò sulle rocce qui sotto!»urlò d'un tratto Jaka, muovendo un altro passo verso l'orlo dell'abisso.

Nel giardino parecchie persone sussultarono, ma non Meralda, checontinuò a guardare verso Jaka con espressione fredda, talmenteinfuriata da non curarsi neppure dell'eventualità che quel folle potessemettere in atto la sua minaccia, cosa a cui peraltro non credevaminimamente. Jaka non avrebbe mai avuto il coraggio di uccidersi,voleva soltanto torturarla e umiliarla pubblicamente per far sfigurareLord Feringal. La sua era una meschina vendetta e non un gesto

d'amore.«Fermo!» gridò una guardia, avvicinandosi di corsa a Jaka,sull'altura.

Nel sentire il suo richiamo imperioso il giovane si girò di scatto, maun piede gli scivolò a causa del gesto precipitoso e lui cadde prono atesta in avanti e per quanto artigliasse con le mani per cercare difrenarsi continuò a scivolare fino a pendere nel vuoto dal torace in giù,sospeso sulle rocce aguzze che sporgevano sulla riva trenta metri più inbasso.

La guardia si lanciò verso di lui per afferrarlo, ma arrivò troppotardi.

«Meralda!» ululò disperatamente Jaka, il suo ultimo grido che sitrasformò in un prolungato lamento mentre precipitava,scomparendo alla vista.

Per quanto stordita dalla piega drammatica che gli eventi avevanoimprovvisamente preso, Meralda si sentì combattuta fra un incredulodolore per la morte di Jaka e la consapevolezza che lo sguardo attentodi Feringal era appuntato su di lei e stava osservando e valutando ognisua reazione, e si rese immediatamente conto che qualsiasi errore daparte sua adesso avrebbe giocato a suo sfavore quando la verità sulsuo stato fosse risultata evidente.

«Per gli dei!» esclamò, portandosi una mano alla bocca in un gestoincredulo. «Oh, povero stolto!»

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Poi si girò verso Feringal e scosse il capo con perplessità, mostrandosoltanto un grande sconcerto.

E in effetti era soprattutto sconcertata, perché il suo cuore in quelmomento era sconvolto da un insieme di odio, orrore e passionericordata. Odiava Jaka - oh, quanto lo odiava - per il modo in cuiaveva reagito nell'apprendere che lei era incinta, e lo odiava ancora dipiù per la stupidità che aveva dimostrato quel giorno, ma d'altro cantonon poteva dimenticare il ricordo dei sentimenti che aveva provatoper lui, come appena pochi mesi prima il semplice pensare a Jakaavesse reso il suo passo più leggero e scattante, e sapeva chequell'ultimo grido da lui lanciato nel precipitare l'avrebbe perseguitataper il resto della sua vita.

In quel momento però si costrinse a nascondere tutti queisentimenti e reagì al macabro spettacolo come tutti coloro che lacircondavano... con sorpresa e orrore.

L'incidente fece rinviare il matrimonio, che venne celebrato tregiorni più tardi in una mattina grigia e nuvolosa che ben siarmonizzava con l'atmosfera generale.

***

Per tutto il resto della giornata, nel corso dei grandi festeggiamentiestesi a tutta Auckney, Meralda avvertì una certa esitazione neimovimenti di suo marito, ma quando cercò di parlarne lui si rifiutò difarlo e Meralda comprese allora che aveva paura. Del resto, era

semplicemente normale che ne avesse, considerato che Jaka era mortourlando il nome della donna che lui stava per sposare.A mano a mano che il vino scorreva e che la festa continuava,

Feringal riuscì comunque a sfoggiare qualche sorriso, e quei sorrisi sifecero più spontanei e frequenti quando Meralda gli sussurròall'orecchio di aspettare con impazienza la loro prima notte insieme,quella in cui avrebbero consumato finalmente il loro amore.

In effetti lei era eccitata alla prospettiva, ma anche un po'spaventata. Naturalmente Feringal si sarebbe accorto che non eravergine ma quella non era una cosa infrequente fra le donne che

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vivevano nell'aspro ambiente contadino, lavorando duramente espesso cavalcando, e poteva essere spiegata in qualsiasi modo; d'altrocanto Meralda si chiese se non sarebbe stato meglio rivelare subito ilsuo stato effettivo e fornire come spiegazione la menzogna che aveva

elaborato.Poi però, mentre lei e suo marito salivano la scala che portava alleloro stanze private, decise che era meglio aspettare perché negli ultimigiorni Feringal aveva già subito anche troppi shock emotivi e per luiquella doveva essere una notte di piacere e non di angoscia.

E avrebbe provveduto lei a renderla il più piacevole possibile.

***

La prima settimana di matrimonio fu meravigliosa, piena di amoree di sorrisi, soprattutto quelli di Biaste che più di tutti commosseroMeralda. La sua famiglia non si era trasferita a vivere con lei al Castellodi Auck e per il momento Meralda non osava ancora avanzare unsuggerimento del genere a Priscilla, ma il Sommo Guardiano Ristenaveva lavorato instancabilmente su sua madre e l'aveva dichiarata deltutto guarita, una verità che Meralda poteva leggere con chiarezza sulvolto raggiante di Biaste.

Nello stesso modo, poteva vedere che per quanto fosse ancorascosso dal gesto che Jaka aveva compiuto sull'altura, Feringal sarebberiuscito a superare la cosa perché l'amava davvero, di questo era certa,e la portava costantemente in palmo di mano.

In quella settimana Meralda era anche venuta a patti con i suoisentimenti nei confronti di Jaka. Le dispiaceva per quello che erasuccesso, ma non si sentiva colpevole per la sua morte: quella era unacosa che Jaka aveva fatto a se stesso e per se stesso, certo non per lei.Adesso Meralda vedeva con chiarezza come Jaka avesse sempre fattotutto per se stesso, e anche se nel suo cuore ci sarebbe stato sempre unangolo minuscolo per quel giovane e per le fantasie che non sisarebbero mai realizzate, d'altro canto questo era più che compensatodalla consapevolezza che la sua famiglia si sarebbe presto trovata avivere in condizioni migliori di quanto chiunque di loro avesse mai

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osato sperare. Prima o poi sarebbe riuscita a far trasferire Biaste eDohni al castello o in un'adeguata tenuta di loro proprietà e quandoTori avesse avuto l'età per sposarsi l'avrebbe aiutata a trovare unmarito adatto, magari un ricco mercante.

Adesso rimaneva soltanto un problema. Infatti Meralda cominciavaa temere che Priscilla si fosse resa conto del suo stato perché, purrimanendo esteriormente cortese, lei continuava a lanciarle occhiateinconfondibili e sospettose, come quelle del Siniscalco Temigast. Queidue conoscevano il suo stato, o lo sospettavano, e in ogni caso prestose ne sarebbero accorti tutti, cosa che stava tingendo di disperazionequella che per lei sarebbe altrimenti stata un'esistenza perfetta.

Meralda aveva perfino pensato di rivolgersi al Sommo GuardianoRisten e chiedergli se ci fosse qualche magia che potesse liberarla delbambino, ma aveva scartato quell'idea quasi immediatamente non pertimore che Risten potesse tradirla ma perché pur non avendo nessunrimpianto di Jaka Sculi non se la sentiva di indursi a distruggere la vitache stava crescendo dentro di lei.

Entro la fine della prima settimana di matrimonio Meralda giunse adeterminare quale fosse la sola linea d'azione che le rimaneva daseguire, ed entro la fine della seconda settimana riuscì a raccogliere ilcoraggio necessario a dare avvio al suo piano. Una mattina chiese allacuoca di preparare delle uova per la colazione e attese a tavola conFeringal, Priscilla e Temigast, avendo deciso che era meglio affrontarlitutti contemporaneamente.

Prima ancora che la cuoca arrivasse con le uova il loro profumofluttuò fino a lei e le causò la consueta sensazione di nausea che la

indusse a piegarsi su se stessa con la mano serrata sul ventre.«Meralda?» esclamò Feringal, in tono preoccupato.«Stai bene, bambina?» aggiunse Temigast.Meralda guardò verso Priscilla, che le sedeva di fronte, e nel leggere

il sospetto nei suoi occhi si alzò di scatto con un lamento, scoppiandoa piangere, cosa che nel suo stato di tensione non le riuscì difficile.

«No, non sto bene!» gemette.«Cos'hai, mia cara?» domandò Feringal, balzando in piedi a sua

volta e correndole accanto.

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«Sulla strada, quando andavamo da Madama Prinkle...» cominciò aspiegare Meralda, fra i singhiozzi.

«Quando siete stati attaccati?» precisò in tono gentile Temigast, peraiutarla.

«Quell'uomo, quello grosso, mi ha posseduta!» gemette Meralda.Lord Feringal si ritrasse di scatto come se fosse stato schiaffeggiato.«Perché non ce lo hai detto?» domandò Temigast, dopo

un'esitazione che parve colpire tutti e tre; nello stesso momento lacuoca, che stava entrando con il piatto della colazione di Meralda, silasciò sfuggire tutto di mano per lo shock.

«Avevo paura», singhiozzò Meralda, girandosi verso suo marito.«Temevo che mi avresti odiata.»«Questo mai!» esclamò Feringal, ma era evidente che era

profondamente scosso e non accennò a tornare accanto a sua moglie.«E ce lo stai dicendo adesso perché...» la incitò Priscilla, e il suo

tono, come l'espressione ferita di Temigast, rivelò a Meralda cheentrambi conoscevano già la risposta.

«Perché temo di essere incinta», confessò Meralda.Sopraffatta da quell'ammissione e dall'odore di quelle dannateuova, si piegò quindi da un lato e vomitò; fra un conato e l'altro nonpoté però evitare di sentire il grido di disperazione di Feringal e provòun intenso dolore all'idea di averlo ferito in quel modo.

Poi sulla stanza scese il silenzio.Pur avendo finito di vomitare, Meralda esitò a risollevarsi, timorosa

di fronteggiare quei tre perché non sapeva che cosa le avrebbero fatto,anche se aveva sentito parlare di una donna del villaggio che erarimasta incinta perché era stata violentata e che non era stata ritenutacolpevole di nulla.

Poi una mano le strinse la spalla in un gesto di conforto e l'aiutò adalzarsi dalla sedia, e Priscilla l'abbracciò sussurrandole all'orecchio chesarebbe andato tutto bene.

«Cosa devo fare?» balbettò Feringal, quasi incapace di parlare acausa della bile che gli soffocava la gola, e il suo tono indusse Meralda

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comprensivo che non cambiò neppure quando furono fuori dallaportata d'udito di Feringal e di Temigast.

«Non posso immaginare quanto devi aver sofferto», commentòPriscilla.

«Mi dispiace di non averne parlato prima.»«Deve essere stato troppo doloroso», suppose Priscilla,

accarezzandole una guancia, «ma non hai fatto nulla di male. Miofratello è stato il tuo primo amante, il primo uomo a cui ti sei dataspontaneamente, e un marito non può chiedere più di questo».

Meralda si costrinse a soffocare il proprio senso di colpa e arespingerlo, adducendo come giustificazione il fatto che Feringal erastato davvero il suo primo vero amante, il primo uomo con cui avessegiaciuto che l'avesse amata davvero.

«Forse quando il bambino sarà nato riusciremo a trovare unaccordo al riguardo», osservò inaspettatamente Priscilla.

Meralda la guardò in modo strano, non riuscendo a capire cosaavesse in mente.

«Stavo pensando che forse sarebbe meglio se mi trovassi un altroposto dove vivere», spiegò Priscilla, «o magari che prendessi per mesola un'ala del castello».

Meralda assunse un'espressione sempre più perplessa, poi capì dovel'altra donna volesse andare a parare e la sua sorpresa fu tale che lafece ricadere a esprimersi nel suo vecchio dialetto contadino.

«Pensi di tenerti tu il bambino!» esclamò.

«Forse, se troveremo un accordo», ammise Priscilla, con esitazione.Meralda non seppe cosa rispondere perché aveva il sospetto chenon avrebbe saputo quali fossero i suoi sentimenti effettivi se nondopo che il bambino fosse nato. Avrebbe potuto tollerare di saperloda qualche parte nelle vicinanze senza poterlo vedere, oppureavrebbe scoperto di non essere in grado di separarsi da un figlio che infin dei conti era anche suo?

Poi però decise che questo era impossibile: non avrebbe potuto névoluto tenere con sé il bambino, indipendentemente dai sentimentiche avrebbe provato alla sua nascita.

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«Ci stiamo spingendo troppo avanti con i progetti», osservò intantoPriscilla, quasi le avesse letto nella mente. «Per ora dobbiamoaccertarci che tu mangi bene. Adesso sei la moglie di mio fratello e glidarai degli eredi al trono di Auckney, quindi dobbiamo mantenerti in

salute in previsione di questo.»Meralda stentò a credere a quelle parole e alla sincerapreoccupazione che esse esprimevano perché non si sarebbe maiaspettata che il suo piano avesse successo fino a questo punto... cosache peraltro accentuò il suo senso di colpa.

La situazione si protrasse in questo modo per parecchi giorni, tantoda indurla a credere che le cose si fossero stabilizzate. Naturalmente

c'erano ancora dei momenti di tensione, soprattutto nell'intimità delletto, dove doveva costantemente placare l'orgoglio ferito di suomarito insistendo che il barbaro che l'aveva violentata non le avevadato assolutamente piacere, arrivando al punto di sostenere di esserestata quasi priva di sensi quando la cosa era successa e di non esserestata neppure sicura che fosse accaduta davvero fino a quando non siera resa conto di essere incinta.

Un giorno però Meralda constatò l'insorgere di un problemaimprevisto.

«I banditi di strada non si spostano molto», sentì dire a Feringal,rivolto a Temigast, nel raggiungerli nel salotto.

«Senza dubbio quei due furfanti non sono più nelle vicinanze diAuckney», obiettò il siniscalco.

«Ma devono essere ancora abbastanza vicini», insistette Feringal. «Ilmercante Galway assolda i servigi di un potente mago.»

«Perfino i maghi devono sapere cosa cercare», gli fece notareTemigast.

«Io non ricordo il suo volto», intervenne Meralda, raggiungendoli.«Ma Liam Woodgate sì», ribatté Feringal, con il sorriso compiaciuto

di chi è deciso a ottenere la sua vendetta.Meralda dovette fare un notevole sforzo per non lasciar trasparire il

proprio sgomento.

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CAPITOLO XXILA ROVINA DI OGNI LADRO

La piccola creatura si diede alla fuga lungo l'erto pendio rocciosocorrendo come se la morte stessa le fosse stata alle calcagna, ma delresto essendo inseguito da presso dall'infuriato Wulfgar, che ruggivaper il dolore causato dalla ferita alla spalla che si era riaperta,probabilmente il goblin avrebbe avuto migliori probabilità dicavarsela affrontando la morte in persona.

La pista terminò bruscamente con un balzo di quasi cinque metri mail goblin non cercò di fermarsi e spiccò il salto senza la minimaesitazione, atterrando con un tonfo e un misero tentativo di attutirel'urto rotolando su se stesso per poi rialzarsi e riprendere la fuga,ammaccato e sanguinante ma ancora vivo.

Wulfgar non cercò di seguirlo perché non poteva permettersi diallontanarsi troppo dall'ingresso della grotta dove Morik era ancoraimpegnato a combattere; arrestata bruscamente la corsa, si guardòquindi intorno alla ricerca di un masso adatto, lo sollevò e lo scagliòcontro il goblin in fuga. Naturalmente il tiro andò a vuoto perché lacreatura era già troppo lontana, ma essendo ormai certo che essa nonsarebbe tornata indietro Wulfgar si girò e si lanciò in direzione dellagrotta.

Molto prima di raggiungerla si accorse però che la battaglia eraormai finita e al suo arrivo trovò Morik appollaiato su un masso allabase di un irregolare sperone roccioso, affannato e ansimante.

«Quei piccoli ratti corrono in fretta», commentò il furfante. Wulfgar annuì e si lasciò cadere seduto per terra. Poco tempo prima

lui e Morik erano andati a esplorare il passo e al loro ritorno avevanoscoperto che una dozzina di goblin si erano insediati nella grotta,decisi a farne la propria abitazione. In dodici contro due, i goblin nonavevano avuto la minima possibilità di farcela.

Uno soltanto di essi era morto, quello che Wulfgar avevainizialmente afferrato per la gola, soffocandolo, gli altri erano stati

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messi in fuga in tutte le direzioni ed entrambi gli uomini sapevano chequelle vigliacche creature non sarebbero tornate a infastidirli permolto, molto tempo.

«Ho ottenuto la sua borsa, anche se non la sua vita», commentòMorik, mostrando una piccola sacca di cuoio; dopo aver soffiato sullamano vuota per buon augurio (e anche perché quel giorno il ventomontano era veramente gelido) svuotò su di essa il contenuto dellasacca, gli occhi dilatati per l'impazienza di vedere di cosa si trattava.

Anche Wulfgar si protese in avanti con avida curiosità, ma le lorosperanze andarono deluse quando dalla sacca caddero soltanto unpaio di monete d'argento, parecchie di rame e tre pietre luccicanti...

non pietre preziose ma semplici sassi.«Siamo stati fortunati a non incontrare un mercante lungo lastrada», commentò in tono sarcastico Wulfgar, «perché questo è unbottino di gran lunga più ricco».

«Abbiamo ancora oro in abbondanza dall'attacco a quella carrozza,nell'ovest», gli ricordò Morik, scagliando al suolo il misero bottino.

«Davvero cortese da parte vostra ammetterlo», commentò

inaspettatamente una voce che proveniva dall'alto, e nel sollevare losguardo verso lo sperone roccioso i due videro un uomo dalle ampievesti azzurre che brandiva un lungo bastone di quercia e stavaguardando verso di loro. «Dopo tutto, mi sarebbe seccato scoprire diaver trovato i ladri sbagliati.»

«Un mago», borbottò Morik in tono disgustato. «Io odio i maghi.»Intanto l'uomo sollevò il bastone e prese a cantilenare qualcosa, ma

Wulfgar fu più veloce di lui e si abbassò di scatto, raccogliendo unapietra di rispettabili dimensioni che nel raddrizzarsi scagliò con mirasicura, mandandola a centrare in pieno il petto del mago che però nonparve neppure rilevare l'impatto del proiettile improvvisato, cherimbalzò su di lui senza recare danni.

«Odio i maghi!» urlò ancora Morik, gettandosi da un lato.Anche Wulfgar accennò a fare altrettanto ma ormai era troppo

tardi e la scarica di energia che partì dal bastone lo centrò in pienoscagliandolo all'indietro.

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Lui però fu pronto a rotolare su se stesso e a rialzarsi imprecando,un sasso in ciascuna mano.

«Quanti colpi puoi incassare?» gridò al mago, scagliando una pietrache mancò il bersaglio di stretta misura; il secondo proiettile andòinvece a sbattere contro il braccio sollevato dal mago, che apparivamanifestamente divertito, e rimbalzò lontano come se avesse colpitouna statua di pietra.

«Possibile che nel Faerun tutti possano avere a disposizione deimaghi?» stridette Morik, passando di roccia in roccia per tenersi alcoperto mentre cercava di risalire lo sperone roccioso. Il piccolofurfante era convinto di poter evitare, battere in astuzia o sconfiggere

in combattimento (soprattutto con Wulfgar al suo fianco) qualsiasicacciatore di taglie o nobile guerriero della zona, ma i maghicostituivano un problema del tutto diverso, come lui aveva avutomodo di scoprire a sue spese in molte dolorose occasioni, fra cui la suarecente cattura nelle strade di Luskan.

«Allora, quanti ne puoi prendere?» gridò ancora Wulfgar,scagliando invano un'altra pietra.

«Uno», rispose il mago. «Ne posso prendere soltanto uno.»«Allora colpiscilo!» gridò Morik a Wulfgar, fraintendendo le parole

del mago, che non stava parlando di impatti contro la sua magica pelledi pietra ma di prigionieri.

Mentre ancora Morik stava parlando, il mago indicò infatti Wulfgarcon la mano libera e subito un filamento nero scaturì dalle sue ditaprotese per saettare giù dallo sperone di roccia a una velocitàspaventosa e avvilupparsi intorno a Wulfgar, che si trovò legato eassicurato al mago.

«Però non lascerò l'altro illeso!» esclamò questi, anche se non c'eranessun altro presente, poi serrò il pugno, facendo scintillare l'anelloche portava al dito, e batté con forza il bastone sulla pietra: un lampoaccecante e uno sbuffo di fumo accompagnarono la scomparsa di

Wulfgar e del mago, insieme a un rombo assordante lungo lo speronedi roccia.

«Maghi», ringhiò Morik, con assoluto disprezzo, appena prima chelo sperone che stava scalando crollasse intorno e sopra di lui.

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***

Wulfgar si trovava nella sala delle udienze di un castello, ancoraavvolto nei filamenti neri che lo intrappolavano nelle loro spirepassandogli parecchie volte intorno al torso e cercando di bloccargli lebraccia possenti. Quando cercò di percuotere i filamenti con i pugniessi si mostrarono flessibili e si limitarono a incurvarsi sotto i colpi,assorbendone l'energia, poi provò a torcerli e a tirarli, ma mentre luilavorava in un'area la lunga estremità del filamento che scaturiva dallamano del mago gli si avvolse intorno alle gambe e lo fece inciampare,

mandandolo a cadere fragorosamente sul duro pavimento. Senzadarsi per vinto, Wulfgar prese a rotolare e a contorcersi, ma tuttorisultò inutile: era prigioniero.

Wulfgar si servì infine delle braccia per impedire a quella sostanza diserrargli il collo e quando infine fu certo che essa non poteva fargli delmale concentrò la propria attenzione su quanto lo circondava. Il magoera fermo davanti a un paio di seggi occupati da un uomo intorno aiventicinque anni e da una donna più giovane e innegabilmente moltobella... una donna che riconobbe fin troppo facilmente.

Accanto a loro, in piedi, c'era un uomo anziano, mentre una donnagrassoccia di circa quarantanni sedeva in disparte su un'altra sedia;guardandosi intorno Wulfgar notò inoltre che lungo le pareti dellastanza erano schierati parecchi soldati, bene armati e cupi in volto.

«Ho mantenuto la mia promessa», affermò il mago, inchinandosidavanti all'uomo che occupava il seggio centrale. «Ora, se non tidispiace, ci sarebbe la piccola questione del mio pagamento.»

«Troverai l'oro ad attenderti nell'alloggio che ti ho fornito», replicòl'uomo. «Non ho mai dubitato di te, buon signore, perché il mercanteGalway, tuo mentore, ti ha caldamente raccomandato.»

«I miei servigi sono ulteriormente necessari?» domandò il mago,inchinandosi.

«Per quanto tempo durerà?» domandò l'uomo, indicando ilfilamento che avvolgeva Wulfgar.

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«Per parecchio tempo», promise il mago. «Senza dubbio abbastanzaa lungo da permetterti di interrogarlo e di condannarlo per poitrascinarlo nelle tue segrete o ucciderlo dove si trova.»

«In tal caso puoi andare. Gradiresti cenare con noi stasera?»«Temo di avere affari pressanti che mi attendono alla Torre

Arcana», replicò il mago. «Conoscerti è stato un piacere, LordFeringal», aggiunse con un altro inchino, poi si avviò per uscire e siconcesse una risatina nel passare accanto al prostrato barbaro.

Ringhiando, fra la sorpresa generale, Wulfgar tese il filamento e Iolacerò, riuscendo ad alzarsi in piedi fra una cacofonia di voci cheurlavano intorno a lui, prima che una dozzina di soldati gli piombasse

addosso, tempestandolo di pugni e di randellate. Ancora impegnato alottare contro il filamento, Wulfgar riuscì a liberare una mano e asferrare un pugno che scagliò lontano un soldato, poi afferrò un altrouomo per il collo e lo sbatté a faccia in avanti contro il pavimento.Stordito e percosso, venne quindi gettato nuovamente al suolo e ilmago disperse magicamente il filamento quando i soldati glibloccarono le mani dietro la schiena con pesanti catene.

«Se fossimo soltanto tu e io, mago, ti rimarrebbe qualcosa con cuifermarmi?» ringhiò il cocciuto barbaro.

«Se fosse dipeso da me ti avrei ucciso sulle montagne», ribatté ilmago, palesemente seccato per il fallimento della sua magia.

Wulfgar lo colpì in piena faccia con uno sputo.«Quanti ne puoi prendere?» domandò.Furente, il mago cominciò ad agitare le dita ma prima che potesse

completare l'incantesimo Wulfgar si aprì un varco nel cerchio di soldatie gli sferrò una spallata, scagliandolo lontano. Naturalmente vennesottomesso di nuovo quasi subito, ma lo sconvolto mago si alzò inpiedi e lasciò a precipizio la stanza.

«Un'esibizione impressionante», commentò in tono sarcastico LordFeringal, accigliandosi. «Devo dunque applaudirti, prima di castrarti?»

Quelle strane parole attrassero l'attenzione di Wulfgar, ma quando

lui cercò di rispondere una guardia lo colpì per ingiungergli di tacere.

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Lord Feringal si girò intanto verso la giovane donna che gli sedevaaccanto.

«È questo l'uomo?» chiese, con voce che grondava veleno. Wulfgar fissò intensamente quella donna, la stessa che lui aveva

difeso dalle indesiderate attenzioni di Morik e che aveva lasciatoandare illesa, e nei suoi occhi di un verde intenso lesse un'emozioneche non riuscì del tutto a decifrare ma che non era di certo ira... forserammarico.

«Io... io non credo», replicò la donna, distogliendo lo sguardo.Lord Feringal sgranò gli occhi con incredulità e il vecchio che era in

piedi accanto a lui si lasciò sfuggire un sussulto, come fece anche l'altradonna.

«Guardalo ancora, Meralda», ingiunse poi Feringal, con vocetagliente. «È lui?»

La donna non rispose, e Wulfgar scorse nei suoi occhi un'evidenteangoscia.

«Rispondimi!» gridò il signore di Auckney.

«No!» gridò la donna, rifiutando di incontrare lo sguardo dichiunque.«Chiamate Liam!» urlò Feringal.Uno dei soldati assiepati alle spalle di Wulfgar si allontanò di corsa

e tornò poco dopo insieme a un vecchio gnomo.«Oh, certo che è lui», dichiarò questi, dopo aver aggirato Wulfgar in

modo da poterlo fissare bene negli occhi. «Credevi che non ti avrei

riconosciuto? Mi avete ingannato per bene, tu e quel piccolo ratto deltuo amico che mi ha distratto mentre tu mi piombavi addosso, ma tiriconosco, lurido ladro, perché ho fatto in tempo a vederti prima chemi colpissi.» Poi si girò verso Lord Feringal e aggiunse: «Sì, è propriolui».

Feringal si volse di nuovo verso la donna che gli sedeva accanto e lafissò per un lungo, lungo momento.

«Ne sei certo?» chiese quindi, senza distogliere lo sguardo da lei.

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«Non capita spesso che io venga sconfitto, mio signore», risposeLiam. «Mi hai nominato il miglior combattente di Auckney ed è statoper questo che mi hai affidato la tua signora. Io ti sono venuto menoed è una cosa che non prendo alla leggera. Ti dico che è proprio lui, e

non sai quanto pagherei per poterlo affrontare in un duello leale.»Nel parlare tornò a guardare verso Wulfgar con occhi roventi e ilbarbaro sostenne il suo sguardo e anche se sapeva che avrebbe potutospezzare in due quello gnomo senza la minima fatica si trattenne dalribattere perché era consapevole di aver fatto un grave torto aquell'ometto.

«Non hai nulla da dire in tua difesa?» domandò poi Lord Feringal a

Wulfgar, ma prima che lui potesse anche solo accennare a risponderescattò in avanti e spinse di lato Liam per piantarsi davanti al barbaro, ilvolto molto vicino al suo. «Ho una segreta pronta ad accoglierti»,sussurrò con voce aspra, «un posto buio pieno di rifiuti e delle ossa deiprecedenti occupanti, popolato di ratti e di ragni. Sì, stolto, ho unposto dove rinchiuderti a marcire fino a quando non avrò deciso che ègiunto per te il momento di morire nella maniera più orribile».

Dal momento che ormai conosceva fin troppo bene quellaprocedura, Wulfgar si limitò a sospirare profondamente e si lasciòtrascinare via senza opporre resistenza.

***

Dal suo angolo della sala delle udienze, il Siniscalco Temigast

osservò ogni cosa con estrema attenzione, spostando lo sguardo da Wulfgar a Meralda e viceversa, e notando come anche Priscilla, chesedeva in assoluto silenzio, non mostrasse di trovare di suogradimento la piega presa dagli eventi.

Al siniscalco non sfuggì l'espressione velenosa che si dipinse sulvolto di Priscilla mentre lei guardava verso Meralda, e nel notarla sirese conto che lei pensava che alla ragazza fosse piaciuto essereposseduta dal barbaro e che forse non si fosse neppure trattato di unaviolenza.

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Considerate le dimensioni dell'uomo in questione, però, Temigastnon se la sentì di condividere quel sospetto.

***

La cella era esattamente come Lord Feringal aveva promesso chesarebbe stata, un posto buio e umido pervaso dall'orribile fetore dellamorte e immerso in una tale oscurità che Wulfgar non era neppure ingrado di vedere la propria mano sollevata a un centimetro dalla

faccia, mentre si aggirava a tentoni fra il fango e sostanze anchepeggiori, spingendo di lato frammenti di ossa appuntite nel vanotentativo di trovare un tratto di terreno asciutto dove sedersi,costretto al tempo stesso ad allontanare di continuo ragni e altrecreature striscianti che stavano accorrendo a verificare che genere dinuovo pasto fosse stato consegnato loro.

Ai più quella segreta sarebbe apparsa peggiore dellecaverne-prigione di Luskan, soprattutto a causa del senso di vuoto e disolitudine che la caratterizzava, ma Wulfgar non aveva paura né deiratti né dei ragni perché i suoi terrori erano radicati molto più inprofondità, e lì solo nel buio stava scoprendo di essere in qualchemodo in grado di tenerli a bada.

La giornata trascorse priva di eventi; poi, in un momentoimprecisato del giorno successivo, il barbaro venne svegliato dalla lucedi una torcia e dal rumore fatto da una guardia nell'infilare un piatto di

cibo marcio attraverso una piccola fessura nella porta in parte a sbarree in parte di metallo compatto che isolava la cella dalle umide galleriecircostanti. Affamato, Wulfgar provò ad assaggiare un boccone masubito lo sputò, pensando che avrebbe mangiato meglio se fosseriuscito a catturare e a scuoiare un ratto.

In quella seconda giornata di prigionia il suo animo cominciò poi ascivolare in un tumulto di emozioni, pervaso soprattutto da un sensodi rabbia nei confronti del mondo intero. Forse meritava di esserepunito per le azioni compiute come bandito da strada - delle quali erapronto ad addossarsi la responsabilità - ma quanto stava subendo

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andava al di là del semplice fare giustizia in relazione alle azioni da luicompiute sulla strada a danno della carrozza di Lord Feringal.

Inoltre, era infuriato con se stesso e stava cominciando a pensareche forse Morik aveva avuto ragione fin dall'inizio, che forse lui nonaveva la stoffa per quel genere di vita, dato che un vero bandito dastrada avrebbe lasciato morire lo gnomo o almeno gli avrebbe datouna morte rapida; un vero bandito da strada avrebbe approfittatodella donna e poi l'avrebbe trascinata con sé per venderla comeschiava o per tenerla come propria schiava personale.

Scoppiando in un'improvvisa risata, Wulfgar si disse che in effettiMorikaveva avuto ragione, perché lui non aveva il coraggio di fare

nessuna di quelle cose e questo lo aveva ora ridotto al più infimo degliinfimi, un fallimento anche al più basso livello di una societàcivilizzata, uno stolto troppo incompetente perfino per essere un verobandito da strada.

Il barbaro trascorse poi l'ora successiva non nella sua cella ma dinuovo sulla Spina Dorsale del Mondo, quella grande barriera naturaleche si ergeva fra ciò che lui era stato un tempo e ciò che era diventato,una barriera fisica che sembrava un simbolo appropriato per labarriera mentale che lui aveva eretto dentro di sé, per il muro cheaveva innalzato, simile a una catena montuosa emotiva, per tenere abada i dolorosi ricordi connessi a Errtu.

E con l'occhio della mente adesso lui era là, seduto sulla SpinaDorsale del Mondo e intento a contemplare la Valle del VentoGhiacciato e la vita che aveva un tempo conosciuto, per poi girarsi aguardare verso sud e verso la miserabile esistenza che stava

conducendo adesso. Immerso in quelle fantasticherie, con gli occhichiusi dato che al buio com'era non avrebbe comunque visto nulla, Wulfgar ignorò a lungo le innumerevoli creature striscianti che lostavano assalendo, e quella sua distrazione gli costò più di un dolorosomorso di ragno.

Più tardi quello stesso giorno un rumore improvviso lo strappòdallo stato di trance in cui era scivolato e nell'aprire gli occhi lui scorsela luce tremolante di un'altra torcia nella galleria al di là della porta.

«Ancora vivo?» domandò la voce di un vecchio.

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Sollevatosi in ginocchio, Wulfgar strisciò fino alla porta sbattendoripetutamente le palpebre mentre i suoi occhi si abituavano alla luce, edopo qualche momento riconobbe nel vecchio che reggeva la torcia ilconsigliere che aveva visto nella sala delle udienze, un uomo che

fisicamente gli ricordava il Magistrato Jharkheld di Luskan.Sbuffando con disprezzo, protese una mano in mezzo alle sbarre.«Avanti, bruciala con la tua torcia», suggerì. «Trai i tuoi perversi

piaceri dove riesci a trovarli.»«Suppongo tu sia infuriato per essere stato catturato», commentò

l'uomo chiamato Temigast.«È la seconda volta che mi imprigionano ingiustamente», replicò

Wulfgar.«A sentire loro, tutti i prigionieri non sono forse incarcerati

ingiustamente?» ribatté il siniscalco.«La donna ha detto che non si trattava di me.»«Quella donna ha molto sofferto», affermò in tono secco Temigast.

«Forse non ha il coraggio di affrontare la verità.»

«Ho forse ha detto il vero.»«No», dichiarò immediatamente Temigast, scuotendo il capo. «Liamti ha riconosciuto subito e non si è certo sbagliato... o forse vorrestinegare di essere tu il ladro che ha rovesciato la carrozza?» aggiunse,quando Wulfgar sbuffò di nuovo.

Wulfgar si limitò a fissarlo senza battere ciglio, ma la sua espressionefu più eloquente della mancanza di un effettivo diniego.

«Questo già di per sé ti costerebbe le mani e molti anni di prigione,in base alla decisione di Lord Feringal», spiegò Temigast, «oppurepotrebbe costarti anche la vita, a sua discrezione».

«Il conducente, Liam, è rimasto ferito... accidentalmente», replicò Wulfgar, con voce ringhiarne. «Avrei potuto lasciarlo morire sullastrada ma l'ho soccorso, e alla ragazza non è stato fatto alcun male.»

«Perché mai lei dovrebbe allora affermare il contrario?» domandò

con calma Temigast.

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«Ha detto questo?» esclamò Wulfgar, cominciando finalmente acapire il perché della feroce indignazione del giovane nobile. In unprimo tempo lui aveva supposto che si trattasse soltanto di orgoglioferito per il fatto di non essere riuscito a proteggere adeguatamente

sua moglie, ma adesso, in retrospettiva, stava cominciando asospettare che sotto ci fosse qualcosa di più primitivo e profondo.Sull'onda di quelle riflessioni ricordò poi improvvisamente le primeparole che Lord Feringal gli aveva rivolto, minacciando di castrarlo.

«Ti garantisco che Lord Feringal ha deciso per te una morte quantomai spiacevole, barbaro», commentò Temigast. «Non hai ideadell'angoscia e del dolore che hai causato a lui, a Lady Meralda e allabrava gente di Auckney. Sei un cane e un furfante e la tua morte saràun atto di giustizia, sia che avvenga mediante pubblica esecuzione oquaggiù in mezzo alla sporcizia.»

«Sei venuto soltanto per darmi questa notizia?» chiese Wulfgar, intono sarcastico.

Senza ribattere, Temigast lo colpì alla mano con la torcia accesa,costringendolo a ritrarre in fretta il braccio, poi si volse e si allontanò agrandi passi, lasciando Wulfgar solo al buio a riflettere su una quantitàdi idee molto strane che gli ronzavano per la testa.

***

Nonostante il suo sfogo finale e la sua effettiva ira, Temigast siallontanò dalla cella senza avere ancora le idee chiare sulla situazione.

Era andato a parlare con il barbaro a causa della reazione di Meraldaalla vista di quell'uomo nella sala delle udienze e perché volevascoprire la verità, ma adesso gli sembrava che le cose si fossero fatteancor più oscure. Perché Meralda non aveva voluto identificare

Wulfgar se lo aveva davvero riconosciuto? E come poteva non averloriconosciuto dal momento che dopo tutto si trattava di un uomonotevole, alto quasi due metri e con spalle larghe quanto quelle di ungiovane gigante?

Se non altro, Temigast sapeva che Priscilla si sbagliava nel ritenereche Meralda avesse goduto nell'essere posseduta dal barbaro.

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«Ridicolo», borbottò fra sé il siniscalco, esprimendo ad alta voce ipropri pensieri nella speranza di fare in essi un po' di chiarezza.«Assolutamente e totalmente ridicolo. Ma perché mai Meraldadovrebbe voler proteggere l'uomo che l'ha violentata?» si chiese

quindi.E la risposta lo assalì con assoluta chiarezza, nitida come l'immaginedi un giovane idiota che precipitava giù da un'altura.

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CAPITOLO XXIIIL BUON LORD BRANDEBURG

«Odio i maghi», borbottò Morik, strisciando fuori da sottol'ammasso di detriti della frana con il corpo decorato da una dozzinadi escoriazioni e di lividi. «Con loro la lotta non è leale. Devo proprioimparare anch'io a usare incantesimi.»

Il furfante dedicò quindi parecchio tempo all'esplorazione dell'areacircostante, ma naturalmente non riuscì a trovare Wulfgar da nessuna

parte e la scelta fatta dal mago nel decidere di catturare proprio ilbarbaro gli parve un po' strana. Probabilmente aveva pensato che Wulfgar fosse il più pericoloso fra loro due, il capo effettivo dellapiccola banda, ma in realtà era stato Morik ad attentare alla virtù delladama nella carrozza e Wulfgar quello che aveva insistito per lasciarlaandare illesa e in tempi abbastanza brevi perché potesse soccorrere ilconducente. Era chiaro che il mago non era stato ben informato deglieventi.

Morik rifletté poi sul da farsi e per prima cosa tornò alla grotta,dove si medicò le ferite e raccolse le provviste di cui avrebbe avutobisogno in viaggio, perché non aveva nessuna intenzione di restare lìcon una banda di goblin infuriati nei dintorni e senza più Wulfgar alsuo fianco. Rimaneva però da decidere dove andare.

Dopo un momento di seria riflessione la scelta gli parve quanto maiovvia... sarebbe tornato a Luskan dove, lo aveva sempre saputo, nonavrebbe avuto molte difficoltà a reinsediarsi nelle strade checonosceva tanto bene. Si sarebbe creato una nuova identità damostrare ai più ma agli occhi di coloro che gli servivano come alleatisarebbe rimasto quello di sempre, il pericoloso Morik il Furfante. Finoa ora l'unico intoppo nei suoi piani era stato Wulfgar, perché lui nonavrebbe certo potuto rientrare a Luskan con il grosso barbaro al fiancoe sperare di rimanere a lungo in incognito.

Naturalmente, c'era sempre il non indifferente problema costituitodagli elfi scuri, ma neppure questo servì a lungo come deterrente aisuoi piani perché era consapevole di aver fatto del suo meglio per

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rimanere con Wulfgar e obbedire alle istruzioni ricevute. Adesso però Wulfgar era scomparso e per lui si era finalmente aperta la via delritorno. Sulla scia di quelle riflessioni, Morik mosse il primo passo perlasciare la Spina Dorsale del Mondo e tornare nella città che conosceva

tanto bene.Poi però successe qualcosa di strano nel suo intimo e lui si ritrovò amuovere due passi verso ovest per ogni passo che faceva verso sud:quello non era però il trucco di qualche mago ma un incantesimoproveniente dalla sua stessa coscienza, fatto di ricordi che glisussurravano all'orecchio come alla Gogna dei Prigionieri Wulfgaravesse praticamente imposto al Capitano Deudermont di lasciarelibero anche lui. Vincolato dall'amicizia per la prima volta nella suamiserabile vita, Morik il Furfante s'incamminò a passo deciso versoovest, elaborando i propri piani lungo la strada.

Quella notte si accampò su un pendio montano e da lassù avvistò ilfuoco da campo di un gruppo di carri disposti in cerchio. Il punto in cuisi trovava non era lontano dal passo settentrionale principale e queicarri dovevano senza dubbio essere provenienti dalle Ten Towns ediretti al sud, per cui non sarebbero passati nelle vicinanze di quel

piccolo feudo posto a ovest, di cui quasi certamente non avevano maineppure sentito parlare.Quella notte sul tardi Morik si avvicinò all'accampamento.«Salve!» gridò, rivolto all'unica sentinella.«Fermo dove sei», ingiunse l'uomo, di rimando, mentre altri

sopraggiungevano alle sue spalle.«Non sono un nemico», spiegò Morik. «Sono un avventuriero

girovago che è rimasto separato dal suo gruppo ed è leggermenteferito, anche se è più la rabbia che il danno fisico.»

Dopo una breve discussione che lui non riuscì a sentire, un'altravoce gli annunciò che poteva avvicinarsi, ma lo avvertì che c'era unadozzina di frecce puntate contro il suo cuore e che sarebbe stato saggioa venire avanti con le mani vuote e aperte.

Non avendo nessuna intenzione di scatenare uno scontro, Morikfece esattamente come gli era stato detto e si addentrò fra due file diuomini armati fino a raggiungere il cerchio di luce del fuoco e ad

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«Si è trattato più che altro di uno scherzo», rispose Morik. «Mi erounito a loro molti chilometri più a sud, e nella mia ignoranza forsesono stato un po' troppo audace con Catti-brie... niente di serio, viassicuro», si affrettò a proseguire, nel vedere entrambi i mercanti che si

accigliavano. «Non sapevo che il suo cuore appartenesse a un altroamico, ora lontano, e neppure che l'irascibile Bruenor fosse suo padre.Ho solo cercato di farle la corte in maniera del tutto civile, ma temoche questo sia stato sufficiente a destare le ire di Bruenor.»

Mercanti e guardie scoppiarono in una risata divertita perché ancheloro, come tutti quelli che visitavano di frequente la Valle del VentoGhiacciato, avevano sentito parlare del carattere irascibile eiperprotettivo di Bruenor Battlehammer.

«Temo inoltre di essermi vantato della mia abilità nel seguire letracce, paragonandola a quella di un ranger», continuò Morik, «quindiBruenor ha deciso di mettermi alla prova. Hanno preso il mio cavalloe i miei bei vestiti e hanno lasciato la strada, e Drizzt li ha guidati cosìbene in mezzo ai cespugli che chiunque non conoscesse il suo talentosarebbe stato indotto a pensare che avessero avuto l'ausilio dellamagia».

I mercanti annuirono e continuarono a ridere.«Così adesso li devo ritrovare, anche se so che devono essere già

vicini alla Valle del Vento Ghiacciato», aggiunse Morik, unendosi aquella risata a sue spese. «Sono certo che rideranno di me nel vedermiarrivare a piedi e con gli abiti sporchi e laceri.»

«A guardarti sembra che tu abbia sostenuto un combattimento»,commentò Dawinkle, notando i segni lasciati su Morik dalla frana edallo scontro con i goblin.

«Soltanto una scaramuccia con alcuni goblin e un ogre, nulla diserio», replicò con noncuranza il furfante, inducendo i suoi ascoltatoria inarcare le sopracciglia... in segno di apprezzamento e non didubbio, perché non avrebbero mai dubitato delle affermazioni diqualcuno che aveva viaggiato con compagni così audaci. Il fascino e iltalento naturale di Morik nell'intessere storie dentro le storie erano tali

che le premesse di base venivano rapidamente accettate come un datodi fatto.

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solito ai condannati veniva concesso di esprimere un ultimo desiderioe decise che il suo sarebbe stato una bottiglia di potente liquore che glicancellasse per l'ultima volta quei ricordi dalla mente.

Infine la luce si arrestò davanti alla cella e il volto di Lord Feringal lofissò attraverso le sbarre.

«Sei pronto ad ammettere il tuo crimine, cane?» chiese il nobile. Wulfgar si limitò a fissarlo in silenzio.«Molto bene», riprese il nobile dopo un lungo momento,

imperturbato. «Sei stato identificato dal mio fidato conducente equindi secondo la legge devo soltanto decretare il tuo crimine e lapunizione da infliggerti.»

Di nuovo non ci fu nessuna risposta.«Per il furto sulla strada ti farò amputare le mani», annunciò in tono

asciutto Lord Feringal, «una alla volta e lentamente. Per il tuo criminepeggiore», continuò, poi esitò improvvisamente e alla luce incertadella torcia Wulfgar ebbe l'impressione di cogliere sul suo voltoun'espressione angosciata.

«Mio signore», incitò Temigast, alle spalle del nobile.«Per il tuo crimine peggiore», riprese Feringal, con voce ora più

decisa, «per la violenza usata a Lady Meralda, sarai castratopubblicamente e poi incatenato al cospetto di tutti per un giorno altermine del quale sarai bruciato sul rogo».

Wulfgar assunse un'espressione incredula nel sentir menzionarequell'ultimo crimine, considerato che lui aveva salvato la donnaproprio dal subire quella sorte! Avrebbe voluto urlare quella verità infaccia a Lord Feringal e strappare la porta dai cardini, ma non fecenulla di tutto questo e rimase seduto in silenzio, accettandoquell'ingiustizia.

Ma era davvero un'ingiustizia? O forse meritava una simile sorte? Eaveva importanza che la meritasse o meno?

Alla fine giunse alla conclusione che si trattava proprio di questo,del fatto che non gli importava e che avrebbe finalmente trovato lalibertà nella morte. Che Lord Feringal lo uccidesse una volta per tutte,facendo un favore a entrambi. Quella donna lo aveva accusato

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falsamente, e anche se non riusciva a capire perché lo avesse fatto, lacosa non gli importava.

«Non hai nulla da dire?» chiese Lord Feringal.«Mi concedi un ultimo desiderio?»Il giovane nobile fu assalito da un tremito evidente di fronte a

quell'idea assurda.«Io non ti concederònulla!» urlò poi. «Nulla se non una notte da

passare affamato e infelice a riflettere sul tuo orribile destino.»«Mio signore», intervenne ancora Temigast, per calmarlo. «Guardia,

accompagna Lord Feringal nelle sue camere.»

Il giovane nobile fissò un'ultima volta Wulfgar con aria furenteattraverso le sbarre, poi si lasciò condurre via.Temigast però rimase davanti alla cella e dopo aver preso una delle

torce segnalò alle guardie rimanenti di andarsene, sostando quindi alungo in silenzio a osservare Wulfgar.

«Vattene, vecchio», ingiunse infine il barbaro.«Non hai negato l'ultima accusa», osservò Temigast, «anche se con

me ti sei dichiarato innocente». Wulfgar scrollò le spalle senza incontrare il suo sguardo.«A cosa sarebbe servito ripetermi?» domandò. «Mi avete già

condannato.»«Non hai negato la violenza», insistette Temigast.«Né tu hai parlato in mia difesa», scattò Wulfgar, sollevando infine

la testa per guardarlo negli occhi.«Né lo farò», ribatté il siniscalco, guardandolo come se lui lo avesseappena schiaffeggiato.

«Quindi lasceresti morire un uomo innocente.»«Innocente?» sbuffò Temigast. «Sei un ladro e un cane e io non

intendo andare contro Lady Meralda e neppure contro Lord Feringalper un miserabile tuo pari.»

Wulfgar scoppiò a ridere, trovando ridicola l'intera situazione.

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«Però ti offro questo», continuò Temigast. «Non dire una solaparola contro Lady Meralda e farò in modo che tu abbia una morterapida... è il massimo che ti posso offrire.»

Wulfgar smise di ridere e fissò il vecchio siniscalco dalla mente tantocontorta.

«Altrimenti», ammonì ancora Temigast, «prometto di trascinare lospettacolo della tua tortura per un'intera giornata e anche di più,inducendoti a implorare mille volte la morte prima di liberarti dallatua agonia».

«Agonia?» ripeté Wulfgar, con voce atona. «Vecchio, tu non sai cosasia l'agonia.»

«Lo vedremo», ringhiò Temigast, poi si allontanò e lo lasciò solo nelbuio... fino a quando Errtu non tornò a tormentarlo, come facevasempre.

***

Cavalcando alla massima velocità possibile al suo cavallo esfruttando il più a lungo possibile la resistenza della povera bestia,Morik percorse la stessa strada lungo la quale lui e Wulfgar avevanoincontrato la carrozza e oltrepassò il punto in cui Wulfgar l'aveva fattarovesciare, entrando infine ad Auckney nel tardo pomeriggio, fra glisguardi incuriositi dei contadini.

«Per favore, buonuomo, puoi dirmi il nome del tuo signore?» chiesea uno di essi, sottolineando la richiesta con una moneta d'oro gettataal suolo con noncuranza.

«Lord Feringal Auck», si affrettò a rispondere l'interpellato. «Vivecon la sua nuova sposa nel Castello di Auck, laggiù», aggiunse,indicando la costa con un dito nodoso.

«Molte grazie!» rispose Morik, con un cenno del capo, poi gettò unaltro paio di monete, questa volta d'argento, e spronò il cavallo,percorrendo al trotto le ultime centinaia di metri fino al piccolo ponte

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che portava al Castello di Auck. Là trovò le porte aperte sorvegliate daun paio di guardie dall'aria annoiata.

«Sono Lord Brandeburg di Waterdeep», annunciò, arrestando ilcavallo. «Vi prego di annunciarmi al vostro signore perché ho unalunga strada alle mie spalle e una ancora più lunga davanti a me.»

Poi smontò di sella e si pulì dalla polvere gli eleganti pantaloni,arrivando al punto di estrarre la spada e di pulire anche la sua lama perpoi lanciarsi in una breve quanto notevole esibizione di abilità nel suouso prima di riporla nel fodero. Le due guardie parvero debitamenteimpressionate da quello spettacolo e una di esse si lanciò di corsa versoil castello mentre l'altra veniva avanti per prendersi cura del suo

cavallo.Nell'arco di pochi minuti Morik, Lord Brandeburg, si venne atrovare al cospetto di Lord Feringal nella sala delle udienze delCastello di Auck. Esordendo con un profondo inchino, si presentòcome un viandante che aveva perso i compagni a causa di una bandadi giganti in cui si erano imbattuti sulla Spina Dorsale del Mondo, edall'espressione di Feringal si rese conto che quel piccolo nobilotto eraeccitato all'idea di ricevere la visita di un lord della grande città di

Waterdeep e che avrebbe sicuramente abbassato la guardia nel suosforzo di compiacerlo.

«Credo che un paio dei miei amici si siano salvati», concluse Morik,«anche se hai la mia parola che neppure un gigante può affermare lastessa cosa».

«Dove è successo tutto questo?» domandò Lord Feringal che, purapparendo evidentemente turbato per qualcosa, sembrava ora ancheallarmato dalla storia che aveva appena sentito.

«A molti chilometri da qui, mio signore», rispose Morik. «Il tuotranquillo regno non corre pericoli anche perché, come ti ho detto, igiganti sono tutti morti. In effetti», aggiunse, guardandosi intorno conun sorriso, «sarebbe un peccato che simili mostri calassero su un postocosì pacifico e sicuro».

«Non è poi tanto pacifico e sicuro», ringhiò a denti stretti Feringal,

abboccando all'amo.

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«Lo farò certamente», garantì Morik. «Cos'hai in programma perquel furfante?»

«Per prima cosa la castrazione», spiegò Lord Feringal. «Il barbaroverrà giustiziato nel modo più adeguato fra due mattine.»

«Un barbaro, hai detto?» chiese Morik, assumendo unatteggiamento pensoso.

«Sì, un grosso barbaro del nord», confermò Feringal.«Ha le braccia robuste?»«È l'uomo più forte che abbia mai visto», replicò il signore di

Auckney. «Ci è voluto un potente mago per assicurarlo alla giustizia e

lui avrebbe abbattuto perfino quel mago e i suoi sortilegi se i mieiuomini non lo avessero circondato e sottomesso a forza di percosse.»Nel sentir menzionare il mago per poco Morik non si strozzò per la

tensione ma si costrinse a mantenere la calma.«Uccidere un bandito è senza dubbio una forma di giustizia

appropriata», osservò quindi, «ma forse si potrebbe trovare unasoluzione migliore».

Poi attese, mantenendo uno stretto autocontrollo sotto l'attentoesame di Lord Feringal.«Forse potrei acquistare quell'uomo», proseguì quindi. «Ti

garantisco che i fondi non mi mancano e mi potrebbe servire avereaccanto uno schiavo robusto nel corso delle ricerche dei mieicompagni dispersi.»

«Neppure per idea», dichiarò Feringal, in tono tagliente.

«Ma se ha familiarità con queste regioni...» cominciò a discutereMorik, in tono ragionevole.«Morirà in modo orribile per il male che ha fatto a mia moglie», lo

interruppe Lord Feringal.«Ah, sì, mio signore», annuì Morik. «Di certo l'incidente l'ha

turbata.»«L'incidente l'ha lasciata incinta!» urlò Feringal, serrando i braccioli

del suo seggio con tanta forza da far sbiancare le nocche.

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«Mio signore!» esclamò in tono di rimprovero il siniscalco, di frontea quell'uscita incontrollata, e Meralda sussultò.

Morik, dal canto suo, fu lieto di quella confusione perché servì amascherare il proprio sgomento.

Calmatosi in fretta, Lord Feringal si costrinse ad appoggiarsi alloschienale del seggio e a mormorare qualche parola di scusa a Meralda.

«Chiedo perdono, Lord Brandeburg, ma di certo capirai la mia ira»,si scusò quindi.

«Castrerò personalmente quel cane per te», dichiarò Morik,estraendo la spada. «Ti assicuro che sono abile in simili arti.»

Il suo comportamento infranse in certa misura la tensione e alla fineLord Feringal riuscì addirittura a sorridere.«Penseremo noi all'aspetto spiacevole di tutta questa faccenda»,

garantì, «ma in effetti gradirei la tua compagnia nel corsodell'esecuzione della sentenza. Sei disposto a restare mio ospite perdue giorni?».

«Sono al tuo servizio, mio signore», garantì Morik, con un profondoinchino.

Di lì a poco venne accompagnato a una locanda appena oltre ilponte del castello e la scoperta che Lord Feringal alloggiava i suoiospiti fuori dalle proprie mura lo contrariò non poco perché questo gliavrebbe reso ancora più difficile arrivare fino a Wulfgar che, stando aquanto aveva appreso dalle guardie della sua scorta, era rinchiusonelle segrete sotterranee.

Morik sapeva di dover liberare al più presto il suo amico, perchéalla luce della falsa accusa mossa contro di lui Feringal lo avrebbesenza dubbio fatto uccidere in modo orribile, ma d'altro canto unsalvataggio basato sull'audacia non era mai rientrato nei suoi piani.Capitava spesso che qualche ladro venisse venduto come schiavo a unnobile in cerca di avventure e lui aveva sperato che Feringal fossedisposto a cedere il suo prigioniero in cambio di una sommasostanziosa - costituita del resto dal suo stesso oro - ma adesso quel

piano era sfumato perché i violentatori, e soprattutto quelli cheaggredivano una nobildonna, potevano andare incontro a una sola,orribile sorte.

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Nel guardare fuori dalla finestra della sua piccola camera, con losguardo fisso sul Castello di Auck e sulle acque scure che locircondavano, Morik decise che avrebbe cercato di trovare il modo diliberare Wulfgar, ma dentro di sé sentì crescere il timore che sarebbe

tornato a Luskan da solo.

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CAPITOLO XXIIIIL SECONDO TENTATIVO DI

GIUSTIZIA«Ecco il tuo ultimo pasto, cane», disse una delle due guardie ferme

davanti alla porta di Wulfgar, poi sputò sul cibo e infilò il vassoioattraverso la feritoia. Wulfgar ignorò i due uomini e non accennò adavvicinarsi al cibo, incapace di credere di essere sfuggito all'esecuzionecapitale a Luskan soltanto per essere ucciso in un piccolo feudo ignoto.Poi però fu assalito dall'idea di essersi forse meritato quella sorte.Naturalmente non aveva fatto del male a quella nobildonna, ma lesue azioni degli ultimi mesi, da quando si era separato da Drizzt e daglialtri nella Valle del Vento Ghiacciato, da quando aveva colpitoCatti-brie, erano state quelle di un uomo che meritava una sorte delgenere. Lui e Drizzt non avevano forse ucciso tanti mostri per gli stessicrimini che ora lo stesso Wulfgar aveva commesso? Non si erano forse

addentrati insieme nella Spina Dorsale del Mondo per inseguire unabanda di giganti che aveva esplorato la pista della valle con l'evidenteintenzione di assalire future carovane di mercanti? Che misericordiaavevano avuto loro per quei giganti? E quale misericordia meritavadunque lui adesso?

Nonostante tutti questi ragionamenti, il fatto che sia a Luskan chead Auckney lui fosse stato condannato per crimini di cui era innocentecontinuava però a turbarlo non poco e a minare la poca fiducia cheancora gli rimaneva nella giustizia umana. La cosa infatti non avevasenso ai suoi occhi: se davvero desideravano tanto ucciderlo, perchénon lo facevano semplicemente per i crimini che aveva effettivamentecommesso? Dopo tutto, ce n'era una quantità fra cui scegliere.

Poi però gli arrivarono all'orecchio le ultime frasi dellaconversazione delle guardie mentre esse si allontanavano lungo lagalleria.

«Sarà un bambino davvero grosso, provenendo da simili lombi»,commentò una di esse.

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«Con un padre così enorme farà certo a pezzi la povera LadyMeralda.»

Quelle parole indussero Wulfgar a riflettere e lui rimase a lungoseduto al buio immobile, a bocca aperta ma con una nuovacomprensione che cominciava ad affiorargli nella mente a mano amano che metteva insieme tutti i pezzi di quel rompicapo. Sulla basedelle precedenti conversazioni delle guardie sapeva che Lord Feringale Lady Meralda si erano sposati soltanto di recente, e adesso avevascoperto che lei aspettava un bambino, che evidentemente non era diLord Feringal.

D'un tratto per poco non scoppiò a ridere di fronte all'assurdità di

quella situazione: era diventato una comoda scusa per unanobildonna adultera, una panacea per il tradito Lord Feringal.«Sono proprio sfortunato», borbottò fra sé, ma al tempo stesso

comprese che non era stata soltanto la sfortuna a portarlo allasituazione attuale.

No, era stata una serie di scelte sbagliate da parte sua a farlo finire inquella segreta buia, insieme ai ragni, al fetore e alle visite del demone.

Quindi a conti fatti meritava questa fine, non per i crimini di cui eraaccusato ma per quelli che aveva effettivamente commesso.

***

Meralda non riusciva a prendere sonno e neppure a chiudere anchesoltanto gli occhi. Feringal se n'era andato presto per tornare nella suastanza perché lei aveva accusato disagi inesistenti e lo aveva imploratodi concederle una notte di pausa dalle sue costanti attenzioni amorose,anche se in effetti l'amore con Feringal era senza dubbio una cosapiacevole e avrebbe potuto essere più che piacevole se non fosse statoper il bambino che aveva in grembo e per il pensiero dell'uomo chiusonelle segrete.

Meralda aveva ormai la certezza che il cambiamento dei suoi

sentimenti nei confronti di Feringal fosse ben motivato perché lui eradavvero un uomo gentile e buono, e questo le permetteva di guardare

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a lui con occhi nuovi, notando i suoi lineamenti avvenenti e il suofascino, anche se quest'ultimo era stato in certa misura sepolto daglianni vissuti sotto l'influenza della sua perfida sorella. Lei però sapevadi poterlo far riaffiorare, di poter portare a galla il meglio di Feringal e

vivere beatamente al fianco di quel brav'uomo.Chi però non riusciva più a tollerare era se stessa. Quanto la suastoltezza era adesso tornata a tormentarla sotto forma del bambinoche aveva concepito e dell'ira che sempre ribolliva, a stento contenuta,in suo marito; per lei però il colpo più duro era forse l'imminenteesecuzione di un uomo innocente, dell'uomo che l'aveva salvataproprio dal crimine per cui ora sarebbe morto in maniera orribile.

Dopo che Wulfgar era stato trascinato via, lei aveva cercato di darsiuna giustificazione razionale per quella sentenza, di ricordare a sestessa che in effetti quell'uomo era un bandito di strada, arrivando alpunto di dirsi che quel barbaro doveva di certo aver mietuto altrevittime e forse anche violentato altre donne.

Quelle argomentazioni non erano però riuscite ad attecchire dentrodi lei perché sapeva che non avevano fondamenta valide. Certo,

Wulfgar aveva depredato la carrozza, ma lei era riuscita a farsi un'ideadel suo carattere e sapeva che quanto stava accadendo era soltantofrutto della sua menzogna, che per causa sua una brutale esecuzionesarebbe stata inflitta a un uomo che non la meritava.

Meralda rimase sveglia fino a tarda notte, vedendosi come lapersona più orribile del mondo, e alla fine quasi senza renderseneconto si trovò a muoversi in silenzio, percorrendo scalza il freddopavimento di pietra del castello con una sola candela a farle luce. Per

prima cosa si avvicinò alla porta di Temigast e si soffermò ad ascoltarefino a quando non le giunse all'orecchio il suono rassicurante delrussare del vecchio, poi sgusciò all'interno per impadronirsi dellechiavi di tutte le porte del castello, che Temigast custodiva appese a ungrosso anello di ferro.

Trovato l'anello appeso a un gancio sopra la cassettiera delsiniscalco, Meralda lo prese senza far rumore e continuando a scoccarefurtive occhiate in direzione del dormiente a ogni minimo scricchiolio;in qualche modo riuscì a uscire dalla stanza senza svegliare il siniscalcoe scese nella sala delle udienze, oltrepassando gli alloggi dei servi per

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entrare nelle cucine. Là trovò la botola che dava accesso ai livellisottostanti, chiusa e sbarrata in maniera tale che nessun uomo eneppure un gigante avrebbe mai potuto sperare di aprirla... a meno diavere la chiave.

Annaspando, provò ciascuna chiave fino ad aprire tutte le serraturee a far scorrere ogni sbarra, poi si arrestò per ritrovare il controllo ecercare di elaborare un piano più completo; poco lontano sentì subitole guardie che ridevano in una stanza laterale e quando si avvicinò concautela per sbirciare all'interno vide che stavano giocando a dadi.

Oltrepassata la stanza raggiunse la porta della dispensa, più chealtro un cancello che permetteva di sbucare fuori dalle mura del

castello: all'esterno non c'era molto spazio fra le rocce, soprattutto sela marea era alta, ma quella via di fuga sarebbe dovuta bastare: apertaanche quella porta, Meralda si diresse alla botola delle segrete e lasollevò con delicatezza, lasciandosi scivolare nelle gallerie sporche chepercorse procedendo scalza nella melma e tenendo alta la camicia danotte per evitare che si formassero su di essa macchie rivelatrici.

Wulfgar fu svegliato dal rumore di una chiave che s'insinuava nellaserratura della sua porta e da una fievole luce che tremolava nelcorridoio; avendo perso la nozione del tempo, pensò che fosse giuntala mattina della sua esecuzione, quindi rimase estremamente sorpresonel vedere Lady Meralda che lo fissava attraverso le sbarre della porta.

«Puoi perdonarmi?» sussurrò lei, guardandosi nervosamente allespalle.

Wulfgar si limitò a fissarla con espressione interdetta.«Non sapevo che ti avrebbe dato la caccia», spiegò la donna.

«Credevo che avrebbe lasciato perdere e che sarei stata...»«Al sicuro», concluse per lei il barbaro. «Pensavi che il tuo bambino

sarebbe stato al sicuro», precisò, attirandosi un'occhiata incredula diMeralda, poi chiese: «Perché sei qui?».

«Avresti potuto ucciderci», rispose Meralda. «Mi riferisco a me e aLiam, sulla strada. O avresti potuto fare quello di cui ti hannoaccusato.»

«Di cui mihai accusato», le ricordò Wulfgar.

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«Avresti potuto permettere al tuo amico di abusare di me o lasciareche Liam morisse», continuò Meralda. «Ti devo almeno questo.»

Con stupore di Wulfgar girò quindi la chiave nella serratura,aprendogli la porta.

«Sali la scala, gira a sinistra e attraversa la dispensa», spiegò. «La viaè libera.»

Poi accese un'altra candela, gliela porse e si allontanò di corsa. Wulfgar le lasciò un certo vantaggio, non volendo rischiare di

raggiungerla o di finire per coinvolgerla se fosse stato sorpreso.Uscito dalla cella sfilò dalla parete un sostegno per torce in metallo

e se ne servì per forzare la serratura facendo il minimo rumorepossibile, in modo da dare l'impressione di essere evaso con i proprimezzi, poi si avviò lungo il corridoio e salì la scala, sbucando in cucina.

Da lì anche lui sentì le guardie che discutevano e giocavano a dadinella stanza vicina e questo gli impedì di forzare le serrature dellabotola. Alla fine scelse di richiudere e sbarrare la botola in modo da farpensare che avesse avuto un aiuto magico nella fuga, poi attraversò ladispensa secondo le istruzioni di Meralda e dopo aver varcato a faticala stretta porta si venne a trovare precariamente appollaiato sugliscogli umidi alla base del castello. Le pietre delle mura erano lisce econsumate, quindi non poteva sperare di scalarle, così come nonpareva che ci fosse modo di procedere lungo gli scogli a causa dellamarea sempre più alta.

Dopo un momento d'esitazione, si tuffò quindi nelle acque gelide.

***

Nascosta in cucina, Meralda annuì con approvazione nel vedere Wulfgar che richiudeva la botola per confondere le acque, poi fecealtrettanto con la porta della dispensa, si lavò i piedi per cancellareogni traccia della sua avventura nei sotterranei e con passo furtivo esilenzioso andò a rimettere le chiavi nella camera del SiniscalcoTemigast senza che ci fossero incidenti. Di lì a poco era di nuovo nella

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sua stanza e nel suo letto, finalmente libera dai demoni dei sensi dicolpa, o almeno da alcuni di essi.

***

Nonostante la brezza che soffiava dal mare Morik stava sudandosotto le pesanti pieghe del suo più recente travestimento, quello davecchia lavandaia, mentre sostava dietro un muro di pietra vicinoall'accesso al breve ponte che portava al Castello di Auck.

«Perché hanno costruito quel dannato castello su un'isola?»

borbottò con disgusto il furfante, peraltro consapevole che la rispostaconsisteva in ciò che attualmente gli stava causando problemi, unasingola guardia appoggiata al muro sopra le porte del castello. Moltoprobabilmente quell'uomo era semiaddormentato, ma Morik nonvedeva modo di riuscire ad avvicinarglisi senza essere visto perché ilponte era ben illuminato da torce che, a quanto gli era stato detto,rimanevano accese per tutta la notte e non offriva nascondigli di sorta.Per raggiungere il castello avrebbe dovuto nuotare.

Nel formulare quella riflessione il furfante spostò lo sguardo sulleacque scure con espressione dubbiosa, pensando che una voltaattraversato quel braccio di mare non sarebbe più rimasto molto delsuo travestimento, sempre che fosse riuscito ad arrivare dall'altraparte, considerato che non era mai stato un buon nuotatore e che nonconosceva il mare né sapeva quali mostri potessero essere in agguatosotto le sue onde.

In quel preciso momento si rese conto che per Wulfgar era arrivatala fine della corsa. L'indomani mattina si sarebbe recato sul luogodell'esecuzione, ma probabilmente soltanto per un addio, perché eraimpensabile che riuscisse a salvare l'amico senza mettere a repentagliola propria vita.

Alla fine, però, decise che non si sarebbe neppure presentato.«A cosa potrebbe servire?» borbottò, consapevole che la situazione

si sarebbe potuta fare disastrosa anche per lui se il mago che avevacatturato Wulfgar fosse stato presente e lo avesse riconosciuto.«Meglio conservare di Wulfgar il ricordo dei nostri momenti vissuti in

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libertà. Addio, mio grosso amico», aggiunse poi ad alta voce. «Oratornerò a Luskan, e...»

D'un tratto s'interruppe quando l'acqua si agitò alla base del muro euna grossa forma scura emerse strisciando dalle onde, inducendolo aportare la mano alla spada.

«Morik?» chiamò Wulfgar, con i denti che battevano perl'immersione nell'acqua gelida. «Cosa ci fai qui?»

«Potrei chiederti la stessa cosa!» esclamò il furfante, deliziato estupefatto allo stesso tempo. «Naturalmente sono venuto per salvarti»,aggiunse poi con la consueta sfacciataggine, chinandosi ad afferrare

Wulfgar per un braccio per aiutarlo a issarsi accanto a lui. «Mi devi una

quantità di spiegazioni, ma per prima cosa è meglio andare via di quialla svelta.» Wulfgar non trovò certo di che obiettare.

***

«Farò giustiziare ogni guardia del castello!» infuriò Lord Feringal,quando venne informato della fuga, il mattino stesso in cui avevaprogrammato di ottenere la propria vendetta sul barbaro.

La guardia indietreggiò, temendo che il suo signore l'attaccasse sulmomento, perché in effetti il giovane nobile pareva sul punto dilanciarsi in avanti dal suo seggio.

«Calmati, mio signore», intervenne però Meralda, afferrando il

marito per un braccio.«Calmarmi!» ribatté Feringal. «Chi mi è venuto meno?» urlò, rivoltoalla guardia. «Chi pagherà al posto di Wulfgar?»

«Nessuno», rispose Meralda, prima che la guardia sconvolta potesseaprire bocca, e quando Feringal si girò a guardarla con espressioneincredula proseguì: «Non farai del male a nessuno per causa mia. Nonvoglio avere del sangue sulle mani, questo renderebbe solo peggiori lecose».

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Calmandosi in certa misura, il giovane nobile indugiò a fissare suamoglie, la donna che desiderava proteggere più di ogni altra cosa, edopo aver contemplato per un momento il suo bel volto innocentefinì per annuire.

«Setacciate le mie terre e perquisite di nuovo il castello dalle segreteai merli», ordinò. «Riportatemelo vivo.»Con la fronte imperlata di sudore, la guardia s'inchinò e uscì di corsa

dalla stanza.«Non temere, amore mio», disse allora Feringal a Meralda.

«Convocherò di nuovo il mago e lo farò cercare ancora. Quel barbaronon mi sfuggirà!»

«Per favore, mio signore», implorò Meralda, «non convocare dinuovo il mago o chiunque altro».

Quelle parole suscitarono interdette espressioni didisapprovazione, soprattutto da parte di Temigast e di Priscilla.

«Voglio farla finita con questa storia», spiegò però lei. «Farla finita evolgerle le spalle senza più guardarmi indietro. Lascia che quell'uomovada a morire fra le montagne e noi due guardiamo alla nostra vitafutura e ai figli, i tuoi figli, che alleveremo un giorno.»

Feringal continuò a fissarla in silenzio per un lungo momento, poiannuì molto lentamente e infine Meralda si concesse di rilassarsi.

***

Il Siniscalco Temigast assistette a tutta la scena con una certezza checresceva dentro di lui. Quel vecchio saggio sapeva senza ombra didubbio che era stata Meralda a liberare il prigioniero e non avevadifficoltà a comprenderne il motivo, dato che i suoi sospetti avevanocominciato a destarsi fin da quando aveva notato come lei avevareagito alla vista del barbaro trascinato al suo cospetto, ma decise dinon dire nulla perché non spettava a lui infliggere un inutile dolore alsuo signore. Dopo tutto, quel bambino sarebbe stato tolto di mezzo enon sarebbe entrato nella linea dinastica.

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Temigast però si sentiva tutt'altro che rilassato, soprattutto quandoguardava verso Priscilla e leggeva sul suo volto un'espressione similealla sua. Considerato che Priscilla era sospettosa per natura, infatti, ilsiniscalco temeva che lei stesse cominciando a nutrire i suoi stessi dubbi

sulla paternità di quel bambino, e se per quanto lo riguardavaTemigast non amava infliggere dolori inutili, Priscilla Auck sembravainvece crogiolarsi proprio in quel genere di cose e ciò lasciavapresagire che la vita futura a cui Meralda aveva fatto riferimentosarebbe stata tutt'altro che serena.

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CAPITOLO XXIVINTERVALLO INVERNALE

«Questa è la nostra occasione», spiegò Wulfgar a Morik, mentreentrambi si tenevano accoccolati al riparo della parete di pietra di unpendio montano sovrastante uno dei molti piccoli villaggi sul latomeridionale della Spina Dorsale del Mondo.

Morik si giro a guardare verso l'amico e si limitò a scuotere il capocon un sospiro tutt'altro che entusiasta. Nelle tre settimane trascorse

dal loro ritorno da Auckney, Wulfgar non solo si era trattenutocompletamente dal bere ma aveva anche proibito a entrambi diportare avanti la loro carriera di banditi da strada, proprio adesso chela stagione era ormai avanzata e questo significava un flusso costantedi carovane degli ultimi mercanti di ritorno dalla Valle del VentoGhiacciato; quello era anche il periodo della partenza degli abitantistagionali della valle, uomini e donne che si recavano nelle Ten Townsper la pesca estiva e che poi tornavano a Luskan con i loro carri allafine della stagione.

Wulfgar aveva però messo bene in chiaro con Morik il fatto che iloro giorni come ladri erano finiti e per questo adesso erano fermi lì asorvegliare un piccolo villaggio incredibilmente noioso che avevanoscoperto essere in attesa di una scorreria da parte di orchi o goblin.

«Non attaccheranno dal basso», osservò Wulfgar, indicando unampio campo a est del villaggio posto allo stesso livello degli edificipiù alti. «No, arriveranno da lì», aggiunse quindi.

«È dove quella gente ha eretto un muro e disposto le sue difesemigliori», obiettò Morik, come se questo tagliasse la testa al toro.Erano infatti giunti a convincersi che la banda in avvicinamento nonfosse composta da più di una ventina di mostri, e anche se icombattenti validi del villaggio ammontavano a meno della metà diquel numero Morik non riteneva che ci fossero rischi effettivi.

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curva della pista e sgusciarono fra due massi in modo da portarsi allesue spalle.

L'accetta di Wulfgar gli si andò a piantare nel braccio, inducendoloa lasciarsi sfuggire il masso che gli cadde sulla testa. Con un ruggito dirabbia e di dolore, il colosso si girò di scatto verso il punto doveadesso era visibile soltanto Morik, con la spada in pugno, e avanzòverso di lui con un solo, lungo passo. Lanciando uno strillospaventato, Morik si girò per fuggire fra le rocce e il gigante si lanciò alsuo inseguimento, ma quando arrivò alla strettoia Wulfgar balzò suuno dei massi e gli calò con forza il comune martello di cui era munitocontro una tempia, facendolo barcollare. Mentre lo stordito gigante siaccingeva a girarsi a guardare verso il masso, Wulfgar aveva giàabbandonato quella posizione ed era di nuovo a terra, dove scattòverso il gigante per colpirgli con violenza una rotula prima di saettaredi nuovo fra i massi.

Serrandosi ora la testa ammaccata ora il ginocchio dolorante, ilgigante accennò a inseguirlo, poi però abbassò lo sguardo sull'asciaconficcata in profondità nel suo avambraccio e cambiòimprovvisamente direzione perché ne aveva avuto abbastanza di quel

combattimento, risalendo il pendio montano per tornare nelle areeselvagge della Spina Dorsale del Mondo.Sbucando da dietro i massi, Morik porse la mano a Wulfgar.«Un lavoro eccellente», si congratulò.«Un lavoro che è appena cominciato», replicò però il barbaro,

ignorando la mano, e corse giù per il pendio muovendosi in direzionedel villaggio e della battaglia in corso vicino alla barricata orientale.

«Adori combattere», commentò in tono asciutto Morik, avviandosicon un sospiro per seguirlo.

In basso la battaglia era giunta praticamente a una situazione distallo, in cui gli orchi non erano in grado di sfondare il muro di scudi,ma gli umani non erano in condizione di infliggere loro danni effettivi,costretti com'erano sulla difensiva. Quello stato di cose cambiòimprovvisamente quando Wulfgar arrivò dall'alto correndo a tutta

velocità attraverso il campo e ululando con quanto fiato aveva incorpo. Spiccando un grande balzo con le braccia allargate, il barbaro

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andò ad abbattersi su quattro di quelle creature e le trascinò al suolocon sé, poi si scatenò una mischia frenetica senza esclusione di colpi, eanche se un numero crescente di orchi vi rimase coinvolto alla fine ilmalconcio e insanguinato Wulfgar fu il solo a emergerne vivo.

Rincuorati da quello stupefacente attacco e dal sopraggiungere diMorik, che con la sua spada aveva abbattuto un altro orco neldiscendere il pendio, gli uomini del villaggio si riversarono sugliavversari superstiti e misero in rotta quelli ancora in grado di correre,costringendoli a tornare da dove erano venuti.

Quando infine Morik lo raggiunse, il barbaro era circondato dagente del villaggio che gli batteva pacche sulle spalle, lo applaudiva e

gli prometteva eterna amicizia, offrendogli un posto dove vivere nelcorso dell'inverno imminente.«Hai visto?» commentò Wulfgar, rivolgendo al furfante un sorriso

felice. «Più facile di qualsiasi lavoro che abbiamo fatto al passo.»Nel ripulire la spada dal sangue il furfante guardò scettico l'amico,

anche se doveva ammettere che il combattimento si era rivelatoancora più facile di quanto avesse previsto l'ottimista Wulfgar. Poianche lui venne circondato da gente che voleva ringraziarlo, compreseun paio di giovani donne attraenti, e si disse che un inverno tranquillopassato a rilassarsi accanto a un focolare acceso non sarebbe poi statouna cosa tanto brutta e che forse valeva la pena di rinviare i piani delsuo ritorno a Luskan.

***

I primi tre mesi di vita coniugale di Meralda erano stati splendidi...non meravigliosi ma comunque splendidi perché lei aveva visto suamadre farsi forte e sana come non era più stata da anni, e anche la vitaal castello non si era rivelata sgradevole come aveva inizialmentetemuto. Naturalmente c'era sempre Priscilla, che non manifestava maipiù di una superficiale amicizia nei suoi confronti e che spesso la fissavainvece con astio, ma a parte questo la donna non aveva cercato innessun modo di renderle la vita difficile... e del resto come avrebbe

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potuto, considerato che suo fratello era così palesemente innamoratodi lei?

Anche Meralda aveva finito per amare suo marito e questo, unitoalla vista della madre tornata in salute, le aveva permesso di vivere unautunno sereno e piacevole che era stato un momento dirinnovamento, di conforto e di speranza.

Poi però l'inverno era calato su Auckney e con esso erano giunti glispettri del passato che si erano progressivamente insinuati nel castello.

Il figlio di Jaka, che si andava facendo sempre più grosso e checominciava a scalciare, ricordava di continuo a Meralda senza mezzitermini la sua terribile menzogna e lei si trovò a pensare sempre più

spesso a Jaka Sculi, alle stupidaggini che aveva commesso con e per lui,che erano state molte, e soprattutto a quegli ultimi momenti della vitadi Jaka, quando lui aveva urlato il suo nome e rischiato tutto per lei. Aquel tempo Meralda si era convinta che il suo fosse stato un atto digelosia nei confronti di Lord Feringal e non di amore per lei, maadesso che il figlio di Jaka le scalciava in grembo e che su quegli eventiera calato l'inevitabile velo di nebbia portato dal trascorrere deltempo non era più certa che fosse così. Forse Jaka l'aveva amatadavvero, alla fine, forse quella vibrazione che tutti e due avevanoavvertito nella loro notte di passione aveva piantato in lui il seme dipiù profonde emozioni che aveva avuto bisogno soltanto di tempoper trovare il modo di germogliare attraverso l'aspra realtà della vitadi un contadino.

Più probabilmente il suo umore era soltanto la conseguenza dellatetraggine invernale che influenzava i suoi pensieri e quelli di suo

marito, e il fatto che i loro momenti d'amore fossero diventati semprepiù radi a mano a mano che le dimensioni del suo ventre crescevanonon serviva certo a migliorare la situazione. Una mattina in cui la neveavvolgeva il castello in uno spesso manto e il vento ululava attraversole crepe della pietra lui venne nella sua stanza ma nel momento stessoin cui accennava a baciarla si bloccò e la fissò con espressione d'untratto dura per poi porle una domanda assurda quanto incredibile.

Com'era stato con il barbaro?Se le avesse sferrato un calcio alla testa Feringal non avrebbe potuto

farle altrettanto male, e tuttavia Meralda non riuscì a provare ira nei

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questo ebbe l'effetto di zittire momentaneamente Priscilla risultòevidente che quella era soltanto una tregua momentanea e che leisarebbe tornata alla carica con le domande.

E in effetti a mano a mano che l'inverno passava e che il ventre diMeralda si gonfiava sempre di più i sussurri in merito alla data in cuisarebbe dovuto nascere il bambino presero a circolare per tuttaAuckney, sussurri relativi all'incidente verificatosi sulla strada e allatragica morte di Jaka Sculi. Essendo tutt'altro che stupida, Meralda nonfaticò ad accorgersi che molta gente cominciava a contareattentamente i mesi e a notare la crescente tensione sul volto di suamadre, anche se lei non le chiese mai apertamente quale fosse laverità.

Poi accadde l'inevitabile, e com'era prevedibile Priscilla risultòesserne la causa.

«Partorirai il bambino nel mese di Ches», osservò in tono taglientein un freddo pomeriggio in cui lei e Meralda stavano cenando insiemeal Siniscalco Temigast.

L'equinozio di primavera si stava avvicinando rapidamente mal'inverno non aveva ancora attenuato la sua morsa e una bufera dineve ululava intorno alle mura del castello.

Meralda si limitò a fissarla con aria scettica.«A metà di Ches», ribadì Priscilla, «o forse alla fine del mese o magari

all'inizio del Mese delle Tempeste».«Vedi qualche problema connesso alla gravidanza?» intervenne il

siniscalco.

Ancora una volta Meralda si rese conto che quell'uomo era suoalleato. Anche lui sapeva, o almeno sospettava, proprio come Priscilla,e tuttavia non aveva mostrato la minima ostilità nei suoi confronti e leistava cominciando a vederlo come una sorta di figura paterna,paragone che le sembrava più che mai appropriato soprattutto seripensava alla mattina successiva alla sua notte con Jaka, quandoDohni Ganderlay aveva sospettato la verità ma l'aveva perdonata allaluce del grande sacrificio che stava facendo per il bene comune.

«Certo che vedo un problema», ribatté Priscilla, in tono sempre piùtagliente, riuscendo in qualche modo a far capire dall'inflessione della

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Wulfgar invece affrontava il lavoro con piacere e se ne serviva pertenere il proprio corpo tanto occupato da non avere il tempo perpensare o per sognare, ma nonostante questo Errtu riuscì a trovarloanche in quel villaggio, come aveva fatto in ogni altro luogo in cui lui

fosse andato e come avrebbe continuato a fare dovunque. Adessoperò, invece di nascondersi nel contenuto di una bottiglia, il barbaroaffrontò quei ricordi a testa bassa, rivivendo ogni evento per quantopotesse essere orribile, e si costrinse ad ammettere che quelle coseerano successe, tutte quante, affrontando i propri momenti didebolezza e di fallimento. Molte volte si trovò seduto da solo in unangolo buio della stanza che gli era stata assegnata, tremante, fradiciodi sudore freddo e con il volto rigato da lacrime che non poteva piùtrattenere; molte volte desiderò correre a cercare l'inesauribile scortadi liquore di Morik, ma non lo fece.

Invece ringhiò e urlò, ma si attenne saldamente alla sua decisione diaccettare il passato per quello che era e di lasciarselo in qualche modoalle spalle. Non sapeva dove avesse trovato di colpo tanta forza edeterminazione, ma aveva il sospetto che esse fossero state latentidentro di lui e che fosse stato il coraggio dimostrato da Meralda nel

liberarlo a farle affiorare: lei aveva avuto molto di più da perdere etuttavia correndo quel rischio aveva rinnovato la sua fiducia nelmondo. Adesso sapeva che la sua lotta con Errtu sarebbe continuatafino a quando lui non avesse vinto onestamente, che non potevacontinuare in eterno a nascondersi dietro a una bottiglia.

Verso la fine dell'anno ci fu poi un altro scontro di poco contocontro una banda di orchi. Essendosi accorti in anticipo della minaccia,gli abitanti del villaggio prepararono il terreno dello scontro versandoneve sciolta sul suolo nel tratto in cui sarebbero passati gli orchi, che alloro arrivo si vennero a trovare su una scivolosa lastra di ghiaccio cheostacolò loro i movimenti e li lasciò esposti al tiro degli arcieri.

Poi l'inattesa apparizione di un gruppo di soldati di Luskan che sierano persi mentre erano fuori di pattuglia venne a turbare l'idilliacatranquillità dell'esistenza di Wulfgar e di Morik più di quanto avessefatto lo scontro con gli orchi. Wulfgar infatti si sentì certo che almeno

uno di quei soldati li avesse riconosciuti come i due che si eranosottratti alla Gogna dei Prigionieri, ma evidentemente i soldati nonfecero parola della cosa con la gente del villaggio o essa non diede

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peso alle loro affermazioni perché l'atteggiamento di generalecordialità nei confronti dei due rimase invariato anche dopo lapartenza dei soldati.

Nel complesso, quello fu l'inverno più tranquillo che Wulfgar eMorik avessero mai conosciuto, una necessaria pausa di riposo; poiperò la primavera cominciò ad avvicinarsi e sebbene la neve fosseancora alta i due iniziarono a formulare piani per il futuro.

«Basta fare i banditi da strada», ricordò Wulfgar a Morik, in unatranquilla notte a metà del mese di Ches.

«Basta», convenne il furfante. «È una vita di cui non sento lamancanza.»

«Che alternative ci sono allora per Morik?»«Tornare a Luskan, temo», rispose il furfante. «Quella è e sarà

sempre la mia casa.»«Pensi che i tuoi travestimenti ti terranno al sicuro?» domandò

Wulfgar preoccupato.«La gente ha la memoria corta, amico mio», spiegò Morik con un

sorriso, augurandosi silenziosamente che anche i drow avessero lamemoria corta, considerato che tornare a Luskan significavaabbandonare la sua missione di sorvegliare Wulfgar. «Nel tempotrascorso da quando noi siamo stati... espulsi, senza dubbio lapopolazione ha saziato la sua sete di sangue a spese di cento altriinfelici condotti alla Gogna dei Prigionieri. Il mio travestimento miproteggerà dalle autorità e la mia vera identità mi garantirà di nuovoil rispetto di cui ho bisogno sulle strade.»

Wulfgar annuì, non dubitando minimamente del suo talento. Là inquelle terre selvagge il furfante era senza dubbio molto menopericoloso di quanto lo fosse sulle strade di Luskan, dove pochipotevano tenere testa alla sua astuzia.

«E cosa mi dici di Wulfgar?» chiese poi Morik, sorpreso lui stessodalla sincera preoccupazione che gli traspariva dalla voce. «Torneraialla Valle del Vento Ghiacciato e ai tuoi vecchi amici?»

Il barbaro scosse il capo, ma soltanto perché non sapeva ancoraquale strada avrebbe imboccato. Appena poco tempo prima avrebbe

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scartato quella possibilità senza neppure riflettere, ma adesso sisoffermò a pensarci sopra, chiedendosi se era pronto a tornare alfianco di compagni come Drizzt, Bruenor, Catti-brie, Gwenhwyvar eRegis. Era davvero sfuggito al demone e all'influenza diabolica della

bottiglia? Era venuto a patti con Errtu e con la verità della suaprigionia?«No», rispose infine, senza aggiungere altro, chiedendosi se avrebbe

mai incontrato di nuovo lo sguardo dei suoi amici di un tempo.Morik annuì, pur sentendosi vagamente sgomento per motivi del

tutto personali. Infatti non voleva che Wulfgar tornasse a Luskan conlui perché trovare un travestimento per un uomo della sua taglia

sarebbe stato già di per sé difficile, ma soprattutto perché non volevache Wulfgar venisse preso dagli elfi scuri.

***

«Ti sta facendo fare la figura dello stupido, Feri, e tutta Auckney losa!» stridette Priscilla, rivolta la fratello.

«Non mi chiamare in quel modo!» scattò lui, oltrepassandola discatto e cercando di cambiare argomento. «Sai che detesto queldiminutivo.»

«Puoi negare lo stadio avanzato della sua gravidanza?» insistettePriscilla, rifiutandosi di lasciar cadere l'argomento. «Partorirà fra duesettimane.»

«Il barbaro era un uomo massiccio», ringhiò Feringal. «Il bambinosarà grosso ed è questo che ti sta traendo in inganno.»

«Il bambino sarà nella media», ribatté Priscilla, «come scoprirainell'arco di questo mese. Scommetto che sarà una creatura graziosa,con i ricciuti capelli castani di suo padre», aggiunse, mentre suo fratelloaccennava ad allontanarsi, inducendolo ad arrestarsi di colpo e agirarsi di scatto verso di lei. «I capelli del suo defunto padre», concluse,senza lasciarsi intimidire.

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Feringal attraversò lo spazio che li separava con un singolo passo ela schiaffeggiò con forza in pieno volto; subito dopo però si ritrasse,inorridito dalla propria azione, e si nascose il volto fra le mani.

«Mio povero fratello tradito», commentò Priscilla, fissandolo conocchi roventi al di sopra della mano che si era portata alla guanciaillividita. «Presto scoprirai che ho ragione.»

E uscì a grandi passi dalla stanza.Lord Feringal rimase a lungo immobile dove si trovava, lottando in

ogni modo per calmare il proprio respiro.

***

Tre giorni dopo la loro conversazione il clima si fece abbastanzamite da generare un principio di disgelo e da permettere a Morik e a

Wulfgar di lasciare il villaggio fra il disappunto degli abitanti, inquanto quello era un periodo in cui i mostri rinnovavano i loroattacchi. I due però, e soprattutto l'impaziente Morik, non diederoascolto alle loro suppliche.

«Io forse tornerò qui da voi», promise Wulfgar, pensando che forseavrebbe potuto davvero farlo, una volta che lui e Morik si fosseroseparati davanti alle porte di Luskan. Del resto, dove altro sarebbepotuto andare?

La strada che scendeva dalle pendici montane era così coperta difango e pericolosa che i due furono costretti a procedere lentamente espesso a piedi, conducendo con cautela i cavalli per la briglia, ma unavolta emersi dalle montagne sulla pianura a nord di Luskan scoprironoche lì il terreno era nettamente migliore.

«Hai ancora il carro e le provviste che abbiamo lasciato alla grotta»,commentò Morik.

«Sono certo che quella grotta non è rimasta vuota nel corsodell'inverno», replicò Wulfgar, consapevole che Morik cominciava asentirsi colpevole all'idea di lasciarlo solo, «e scommetto che dellenostre provviste non resta più molto».

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«Allora prenditi gli averi degli attuali occupanti», suggerì Morik,ammiccando. «Magari sono giganti, nulla che Wulfgar debba temere.»

Quelle parole fecero affiorare sul volto di entrambi un sorriso cheperò non durò a lungo.

«Saresti dovuto rimanere al villaggio», osservò Morik. «Dalmomento che non puoi tornare a Luskan con me, quello è un postobuono come qualsiasi altro per vivere mentre decidi in merito al tuofuturo.»

Mentre parlavano, i due erano intanto giunti a un bivio, dove unsentiero portava a sud verso Luskan e l'altro deviava verso ovest, equando si girò a guardare verso il barbaro Morik scoprì che questi

stava fissando la seconda pista, che portava al piccolo feudo dove luiera stato imprigionato e dove Morik (a sentire la sua versione dei fatti)lo aveva salvato dalla morte sotto tortura.

«Progetti una vendetta?» chiese il furfante. Wulfgar lo fissò con espressione perplessa, poi comprese cosa

avesse inteso dire.«Tutt'altro», replicò. «Mi sto chiedendo che ne sia stato della signora

del castello.»«Quella che ti ha ingiustamente accusato di averla violentata?»

domandò Morik. Wulfgar scrollò le spalle, come se non volesse ammettere quel

particolare.«Era incinta, e molto spaventata», spiegò.

«Credi che abbia tradito il marito?» Wulfgar contrasse le labbra in una smorfia e annuì.«E quindi ha offerto la tua testa per proteggere la propria

reputazione», commentò in tono di derisione Morik. «Tipico di unanobildonna.»

Wulfgar non rispose perché lui non vedeva le cose sottoquell'aspetto e comprendeva che nelle intenzioni della donna lui non

avrebbe mai dovuto essere catturato, ma piuttosto rimanere una

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remota e misteriosa soluzione dei suoi problemi personali. Era unacosa comprensibile, anche se non onorevole.

«Ormai deve aver avuto il bambino», borbottò fra sé. «Mi chiedocome se la sia cavata quando gli altri lo hanno visto e si sono resi contoche non poteva essere mio.»

Morik riconobbe il tono particolare della sua voce e cominciò apreoccuparsi.

«Io invece non dovrò chiedermi quale sia stata la tua sorte setornerai indietro per informarti della sua», commentò in tono asciutto.«Non puoi entrare in quella città senza essere riconosciuto.»

Wulfgar annuì, perché quella era una cosa di cui era consapevole,ma al tempo stesso continuò a sorridere con una particolareespressione che non sfuggì a Morik.

«Però tu potresti farlo», osservò.«Se non fossi diretto a Luskan», ribatté Morik, dopo averlo fissato a

lungo in volto.«È una tua decisione e non hai appuntamenti che richiedano

immediata attenzione», gli fece notare Wulfgar.«L'inverno non è ancora finito. Abbiamo corso un rischio a scendere

adesso dalle montagne e un'altra tempesta potrebbe sopraggiungere inqualsiasi momento, seppellendoci nella neve», protestò Morik, ma dalsuo tono Wulfgar comprese che stava prendendo in esame al suaproposta.

«Le tempeste non sono così violente a sud delle montagne», ribatté.

Morik si limitò a sbuffare con sarcasmo.«Un ultimo favore?» insistette Wulfgar.«Perché ti importa?» obiettò Morik. «Per poco quella donna non ti

ha fatto uccidere in maniera abbastanza orribile da soddisfare la follache frequenta la Gogna dei Prigionieri.»

Wulfgar si limitò a scrollare le spalle perché in tutta onestà non eralui stesso certo di quale fosse la risposta ma al tempo stesso non

intendeva cedere.

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«Un ultimo atto di amicizia fra noi due», insistette, «in modo che cisi possa separare in armonia con la speranza di poterci rivedere».

«Tutto quello che stai cercando è un ultimo combattimento con meal tuo fianco», commentò Morik, con una sfumatura di umorismonella voce. «Ammettilo, senza di me in uno scontro non sei nessuno.»

Suo malgrado Wulfgar fu costretto a ridere della sua ironia, masubito dopo tornò ad assumere un'espressione supplichevole.

«Oh, d'accordo», borbottò Morik, cedendo come Wulfgar sapevache avrebbe fatto. «Reciterò di nuovo la parte di Lord Brandeburg,nella speranza che Brandeburg non sia stato collegato alla tua fuga eche Feringal abbia visto solo come una coincidenza il fatto che noi due

siamo spariti contemporaneamente.»«Se dovessero catturarmi dirò a Lord Feringal in tutta onestà che tu

non hai avuto parte alcuna nella mia fuga», dichiarò Wulfgar,sfoggiando un sorriso sarcastico sotto la folta barba invernale.

«Non sai quanto questa tua promessa mi sia di conforto», ribatté intono asciutto Morik, spingendo l'amico davanti a sé verso ovest everso Auckney.

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CAPITOLO XXVEPIFANIA

La tempesta prevista da Morik si scatenò due giorni più tardi, ma lasua furia fu in certa misura temperata dalla stagione avanzata e lastrada rimase percorribile. Pur avanzando con cautela e badando arimanere sulla pista, i due cavalieri mantennero un'andatura sostenutanonostante il clima avverso perché Wulfgar continuò a insistere perfare in fretta e ben presto arrivarono in un'area disseminata di fattorie

e di case di pietra, dove la neve si dimostrò per loro una preziosaalleata perché furono ben poche le facce curiose che si affacciaronoalle finestre coperte da spesse tende e il vorticare della bufera unitoalle pelli in cui erano avvolti servì a rendere i due irriconoscibili.

Poco tempo dopo Wulfgar si fermò ad aspettare sulle colline sottoil riparo creato da una sporgenza di roccia mentre Morik, di nuovo neipanni di Lord Brandeburg di Waterdeep, proseguì fino al villaggio.Quando la giornata si avviò al termine fra il perdurare della tempestasenza che Morik facesse ritorno, Wulfgar lasciò il suo rifugio perportarsi in un punto sopraelevato da cui poteva vedere il Castello diAuck, chiedendosi se l'amico fosse stato smascherato e se dovevarecarsi al villaggio per cercare il modo di aiutarlo.

Poi però accantonò quei timori con una risatina, dicendosi che conogni probabilità Morik si era fermato al castello per concedersi unpasto abbondante e che in quel momento si stava senza dubbio

scaldando davanti a un camino acceso, e si ritirò di nuovo al riparodella sporgenza, dove si mise a strigliare il cavallo ingiungendosi diessere paziente.

Finalmente Morik tornò indietro, con un'espressione decisamentecupa sul volto.

«Non sono stato accolto con cordialità», disse.«Il tuo travestimento non ha retto?»

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«Senti, lei ha detto a tutti che tu l'avevi violentata, mentre pareprobabile che stesse nascondendo una relazione con qualcuno», gliricordò. «Ha mentito, condannandoti, per celare il fatto che lei avevatradito quel giovane nobile.»

Wulfgar si limitò ad annuire, perché per lui quella non era unanovità, e Morik indugiò per un momento a fissarlo con stupore,sorpreso che il barbaro non fosse in qualche modo scosso dal brutaleresoconto di quanto era accaduto, che non mostrasse traccia d'iranonostante il fatto che a causa di quella donna fosse stato percosso,imprigionato e quasi giustiziato brutalmente.

«Ebbene, adesso pare che ci siano dei dubbi in merito alla paternità

del neonato», spiegò quindi. «La nascita è avvenuta troppo prestorispetto al nostro incontro con la ragazza sulla strada e nel villaggio enel castello c'è chi non crede alla sua storia.»

«Sospettavo che sarebbe successo», sospirò Wulfgar.«Ho sentito parlare di un giovane che si sarebbe ucciso gettandosi

nel vuoto il giorno delle nozze di Lord Feringal con Meralda, ungiovane che è morto urlando il nome di lei.»

«Lord Feringal crede che sia con lui che Meralda lo ha tradito?»domandò Wulfgar.«Non in modo specifico», rispose Morik. «Non è precisamente un

tradimento perché il bambino è comunque stato concepito primadelle nozze, il che sarebbe valso anche se fosse stato tuo, manaturalmente lui sa che sua moglie ha giaciuto con un altro e ora forsesta cominciando a pensare che lo abbia fatto di sua volontà e non peruna violenza subita sulla strada.»

«Una donna violentata non ha colpa», interloquì Wulfgar,trovando sensata la cosa.

«Mentre una donna infedele...» aggiunse Morik, in tono cupo.Sospirando ancora, Wulfgar uscì da sotto la sporgenza per guardare

in direzione del castello.«Cosa le succederà?» domandò a Morik.

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«Senza dubbio il matrimonio sarà annullato», spiegò il furfante, cheaveva vissuto nelle città umane abbastanza a lungo da acquistareesperienza in quel genere di cose.

«E Lady Meralda verrà allontanata dal castello», suggerì in tonosperanzoso Wulfgar.

«Se sarà fortunata, sarà bandita dal dominio di Feringal Auck senzadenaro né titolo», annuì Morik.

«E senon sarà fortunata?»«Ci sono mogli di nobili che sono state messe a morte per una colpa

del genere», rispose Morik, sussultando.

«E che ne sarà della bambina?» incalzò Wulfgar, sempre più agitato,mentre immagini delle sue orribili esperienze passate cominciavano adaffacciarsi alla soglia della sua sfera cosciente.

«Se sarà fortunata sarà bandita, anche se temo che una cosa delgenere richieda più fortuna che per la madre», ammise Morik. «È unacosa molto complicata. Quel neonato è una minaccia non solo per ildominio di Auck ma anche per il suo orgoglio.»

«Ucciderebbero un bambino, un neonato impotente?» ringhiò Wulfgar a denti stretti, mentre quegli orribili ricordi si facevanosempre più vicini e incalzanti.

«Non si deve sottovalutare l'ira di un nobile tradito», spiegò in tonocupo Morik. «Lord Feringal non può mostrare debolezze se non vuolerischiare di perdere il rispetto della sua gente e le sue stesse terre. È unafaccenda complicata e spiacevole. Ora andiamo via di qui.»

In effetti Wulfgar se n'era già andato, uscendo nella tempesta eavviandosi a grandi passi lungo la pista, e Morik dovette correre perraggiungerlo.

«Cosa vuoi fare?» domandò, accorgendosi della suadeterminazione.

«Non lo so, ma devo fare qualcosa», rispose il barbaro, accelerandol'andatura a mano a mano che la sua agitazione cresceva, costringendoMorik a faticare per non restare indietro.

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Quando entrarono nel villaggio di Auckney di nuovo la tempestagiocò a loro favore perché in giro non c'era nessuno, e Wulfgar sidiresse senza esitare verso il ponte di accesso al Castello di Auck.

***

«Da' la bambina in adozione come avevi progettato», suggerì ilSiniscalco Temigast all'agitato Lord Feringal.

«Adesso la cosa è diversa», balbettò il giovane, agitando conimpotenza i pugni lungo i fianchi, e lanciò un'occhiata in direzione di

Priscilla, che sedeva comoda e tranquilla, sfoggiando un sorrisocompiaciuto inteso a ricordargli come lei lo avesse messo in guardia findall'inizio dallo sposare una contadina.

«Non sappiamo per certo che sia cambiato qualcosa», insistetteTemigast, che come sempre fra quei tre era la voce della ragione.

«Non sai contare?» sbuffò Priscilla.«La bambina potrebbe essere nata in anticipo», protestò Temigast.

«È il neonato più ben formato che abbia mai visto», ribatté Priscilla.«Non è nata in anticipo, Temigast, e lo sai anche tu.»Priscilla appuntò quindi lo sguardo sul fratello, ripetendo il

ritornello che era echeggiato per tutto il giorno in sussurri sommessi intutto il Castello di Auck.

«Quella bambina è stata concepita a metà dell'estate, prima delsupposto attacco sulla strada.»

«Come puoi dirlo con certezza?» gemette Lord Feringal,tormentandosi i lati dei pantaloni con gesti disperati che riflettevano ilsuo tormento interiore.

«E tu come fai a non rendertene conto?» ribatté Priscilla. «Hai fattola figura dello stupido per il divertimento di tutto il villaggio. Adessovuoi aggravare la situazione mostrandoti debole?»

«Tu l'ami ancora», intervenne Temigast.«Davvero?» replicò Feringal, palesemente lacerato e confuso. «Non

lo so più.»

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«Allora allontanala», suggerì il siniscalco. «Bandisci lei e la bambina.»«Questo farebbe ridere ancora di più la gente del villaggio», osservò

in tono acido Priscilla. «Vuoi che fra una ventina d'anni quella bambinatorni e ti tolga il tuo regno? Quante volte abbiamo sentito narrarestorie del genere?»

Temigast la incenerì con un'occhiata: certo, cose del generesuccedevano, ma erano tutt'altro che frequenti.

«Allora cosa devo fare?» domandò Feringal alla sorella.«Un processo per tradimento per quella sgualdrina», rispose in tono

secco Priscilla, «e una rapida e giusta rimozione del risultato deltradimento stesso».

«Rimozione?» ripeté in tono scettico Feringal.«Vuole che tu uccida la bambina», spiegò in tono secco Temigast.«Gettala alle onde», suggerì Priscilla con fervore febbrile, alzandosi

dalla sedia. «Se adesso non mostrerai debolezze il popolo continuerà arispettarti.»

«Ti odieranno ancora di più se ucciderai una bambina innocente»,

intervenne Temigast, la cui rabbia era diretta più a Priscilla che a LordFeringal.«Innocente?» esclamò Priscilla, come se quell'idea fosse assurda, poi

tornò a rivolgersi al fratello, protendendo il volto verso il suo econtinuò: «Lascia che ti odino. Meglio questo che farli ridere di te.Sopporteresti di permettere a quella bastarda di vivere e di ricordarticosì di chi ha giaciuto con Meralda prima di te?»

«Chiudi quella bocca!» ingiunse Feringal, spingendola indietro.Priscilla però non si lasciò intimidire.«Oh, quanto deve aver goduto fra le braccia di Jaka Sculi»,

proseguì, approfittando del fatto che suo fratello stava tremando a talpunto da non riuscire a parlare neppure serrando i denti. «Scommettoche per lui ha inarcato quella sua graziosa schiena.»

Farfugliando suoni indistinti, Feringal l'afferrò per le spalle e la

spinse di lato, ma Priscilla non cessò di sorridere soddisfatta mentre lui

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oltrepassava Temigast con un altro spintone e si lanciava di corsa versole scale che portavano alla camera di Meralda e della sua bastarda.

***

«È sorvegliato, lo sai», gli ricordò Morik, urlando invano per farsisentire al di sopra dell'ululato del vento.

Se pure lo avesse sentito, Wulfgar non avrebbe comunque datoretta all'avvertimento: i suoi occhi erano fissi sul Castello di Auck e isuoi passi puntavano dritti al ponte, senza esitazioni. Mentre

procedeva lui immaginò che i cumuli di neve fossero la Spina Dorsaledel Mondo, quella barriera fra l'uomo che era stato e la vittima che eradiventato. Adesso che la sua mente era infine libera dall'influenza delliquore e che la sua forza di volontà lo proteggeva contro le orribiliimmagini della prigionia inflittagli da Errtu, lui vedeva con chiarezzaquali fossero le sue alternative: poteva tornare indietro alla vita cheaveva trovato oppure poteva andare avanti, attraversare quellabarriera emotiva e aprirsi combattendo un varco per tornare a essere

l'uomo di un tempo.Ringhiando, continuò ad avanzare nella tempesta e nonostante la

furia del vento accelerò addirittura l'andatura nell'arrivare al ponte,passando dal camminare al trottare e poi al correre a piena velocitànello scegliere la propria traiettoria che lo portò a deviare versodestra, in un punto in cui la neve si era accumulata a ridosso del murodel castello. Senza perdere lo slancio acquisito risalì quel cumulo dineve sprofondando fino alle ginocchia senza lasciare che questo lorallentasse, poi spiccò un balzo dalla sua sommità e protese il braccioad agganciare il martello oltre il muro. La testa del martello battésonoramente contro la pietra e provocò dall'alto un grido sorpreso,ma di nuovo Wulfgar non accennò a rallentare il proprio assalto econtrasse i muscoli possenti, issandosi verso l'alto per poi rotolarelateralmente oltre i merli e atterrare agilmente in piedi sul parapettointerno, andando a finire fra due sconcertate guardie, entrambe

disarmate perché stavano cercando di tenere le mani riparate e calde.

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alla sua spada? E come aveva fatto a completare la mossa in manieracosì perfetta da insinuare il grosso braccio sotto il suo? Liam conoscevala propria abilità e questo gli rese ancor più difficile comprendere perquale motivo il suo attacco perfetto gli fosse stato rivolto contro in

maniera così assoluta, tanto che prima ancora di rendersene conto luisi venne a trovare schiacciato contro la parete di pietra con le bracciabloccate dietro la schiena e il respiro del barbaro ringhiarne che glialitava sul collo.

«Lady Meralda e il bambino... dove sono?» domandò Wulfgar.«Morirò prima di dirtelo!» dichiarò Liam.

Wulfgar accentuò la pressione e il povero Liam pensò che sarebbe

davvero morto ma continuò a rifiutarsi di rispondere nonostante ildolore.Fattolo girare su se stesso, Wulfgar lo sbatté contro la parete una

prima volta e poi una seconda quando lui riuscì chissà come arimanere in piedi, scagliandolo quindi al suolo in modo così repentinoche per poco non fece inciampare Morik; superato l'ostacolo con unagile salto, il furfante continuò però la corsa e oltrepassò l'altra porta,addentrandosi nel castello con Wulfgar che lo seguiva da presso.

Sentendo delle voci, Morik si diresse da quella parte e ben presto idue fecero irruzione in un comodo salotto fracassandone l'eleganteporta doppia.

«Lord Brandeburg?» stridette Priscilla, in tono interrogativo, poilanciò un urlo di terrore e ricadde sulla sedia quando Wulfgar seguìl'amico nella stanza.

«Dove sono Lady Meralda e il bambino?» ruggì il barbaro.«Non hai già causato abbastanza danno?» domandò il SiniscalcoTemigast, parandosi con coraggio davanti a lui.

«Troppo», ammise Wulfgar, guardandolo negli occhi, «ma non qui».Quella risposta colse Temigast in contropiede, ammutolendolo.«Dove sono?» ripeté Wulfgar, lanciandosi verso Priscilla.«Ladri! Assassini!» stridette lei, prossima a svenire.

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Wulfgar sollevò allora lo sguardo su Temigast, che con sua sorpresaannuì e indicò con la testa in direzione della scala.

In quel momento, cogliendo tutti alla sprovvista, Priscilla Auck silanciò di corsa su per i gradini.

***

«Hai idea di quello che mi hai fatto?» chiese Feringal a Meralda,fermandosi accanto al letto dove lei giaceva con la bambina sistemataal caldo al suo fianco. «A noi? Ad Auckney?»

«Ti supplico di comprendere, mio signore», implorò la donna.Sussultando, Feringal si premette i pugni sugli occhi, poi s'irrigidì in

volto e protese le mani di scatto, afferrando la bambina.«Cosa vuoi fare?» gridò Meralda, sollevandosi verso di lui soltanto

per ricadere nel letto quando le forze le vennero meno.Feringal si diresse verso la finestra e aprì le tende.«Mia sorella dice che dovrei gettarla alle onde, sulle rocce», spiegò a

denti stretti, con il volto contratto in una smorfia, «per liberarmi dellaprova del tuo tradimento».

«Per favore, Feringal, non...» cominciò Meralda.«È quello che dicono tutti, sai», continuò Feringal, come se lei non

avesse parlato, sbattendo le palpebre e asciugandosi il naso su unamanica. «La figlia di Jaka Sculi.»

«Mio signore!» gridò Meralda, con il panico negli occhi arrossati dalpianto.«Come hai potuto?» urlò Feringal, spostando lo sguardo dalla

bambina che aveva in mano alla finestra aperta.Meralda scoppiò in pianto.«Prima marito tradito e adesso assassino», borbottò fra sé Feringal

nell'avvicinarsi maggiormente alla finestra. «Tu mi hai condannato,

Meralda!» imprecò.

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Protendendo le braccia, mosse la bambina piangente versol'apertura, poi abbassò Io sguardo su quella creatura innocente e latrasse di nuovo a sé, mescolando le proprie lacrime alle sue.

«Sono dannato, ti dico!» gemette, con il respiro affannoso e forzato.All'improvviso la porta si spalancò e Lady Priscilla fece irruzione

nella stanza, richiudendo e sprangando il battente alle proprie spalle,poi si guardò rapidamente attorno e corse in direzione del fratello.

«Dalla a me!» ingiunse con voce stridula.Lord Feringal interpose una spalla fra la bambina e le mani protese

della sorella.

«Dammela!» stridette ancora la donna, e i due presero a lottare peril possesso della neonata.

***

Wulfgar si lanciò prontamente all'inseguimento, salendo quattroper volta i gradini della scala ricurva fino ad arrivare in un lungocorridoio rivestito di ricchi arazzi, dove s'imbatté in un'altraincompetente guardia che mise fuori combattimento senza fatica,disarmandola della spada per poi afferrarla per la gola e sollevarla inaria.

Morik intanto lo oltrepassò e prese a spostarsi di porta in porta conl'orecchio teso, fino a fermarsi di colpo davanti a una delle soglie.

«Sono qui dentro», annunciò, poi afferrò la maniglia ma scoprì che

la porta era sprangata.«Dov'è la chiave?» ringhiò Wulfgar, scrollando con forza la guardia.«Niente chiave», annaspò l'uomo, quasi senza fiato, aggrappandosi

al suo braccio ferreo. Wulfgar parve sul punto di strangolarlo, ma Morik si affrettò a

intervenire.«Lascia perdere, forzerò la serratura», disse, abbassando la mano

alla sacca che portava alla cintura.

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«Non importa, ho io una chiave», esclamò Wulfgar.Sollevando lo sguardo, Morik lo vide dirigersi verso di lui con la

guardia ancora appesa all'estremità di un braccio, e nel comprenderequali fossero le sue intenzioni si affrettò a spostarsi di lato appenaprima che Wulfgar scagliasse l'impotente soldato attraverso la porta dilegno.

«Una chiave», spiegò poi il barbaro, con calma.«Un buon lancio», commentò Morik.«Ho fatto molta pratica», rispose Wulfgar, che poi oltrepassò la

guardia stordita e irruppe nella stanza.

Meralda sedeva sul letto, singhiozzante, mentre Lord Feringal e suasorella erano in piedi accanto alla finestra aperta, Feringal con laneonata fra le braccia e proteso verso l'apertura come se avesse avutointenzione di gettare la piccola nel vuoto. Al suo ingresso entrambi ifratelli e Meralda si girarono verso di lui con un'espressione stupefattache si accentuò ancora di più quando Morik venne a raggiungere ilbarbaro.

«Lord Brandeburg!» esclamò Feringal.«Fallo adesso», gli gridò Priscilla, «prima che loro rovinino ogni...».«La bambina è mia!» dichiarò Wulfgar.Priscilla lasciò la frase a metà per la sorpresa e Feringal

s'immobilizzò come se fosse stato tramutato in pietra.«Cosa?» sussultò.«Cosa?» annaspò Lady Priscilla.

«Cosa?» esclamò contemporaneamente Morik.«Cosa?» mormorò Meralda, affrettandosi poi a tossire per

nascondere la propria sorpresa.«La bambina è mia», ripeté con fermezza Wulfgar, «e se la getti dalla

finestra la seguirai tanto in fretta che la oltrepasserai e il tuo corpoinfranto le attutirà la caduta».

«Sei davvero eloquente nelle emergenze», commentò Morik, poi sirivolse a Lord Feringal e aggiunse: «La finestra è piccola, certo, ma

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scommetto che il mio amico non avrà difficoltà a fattici passareattraverso, tu e la tua grassa sorella».

«Tu non puoi essere il padre», dichiarò Feringal, tremando cosìtanto da dare l'impressione che le gambe stessero per cedergli, poiguardò verso Priscilla in cerca di una risposta da parte di quella donnache gli aleggiava sempre intorno pronta a dare una risposta a tutto, edesclamò: «Che trucco è questo?».

«Dammela!» ingiunse Priscilla.Approfittando della confusione che aveva paralizzato suo fratello

scattò rapida in avanti e gli strappò di mano la bambina. Meralda urlò,la neonata riprese a piangere e Wulfgar si mosse in avanti pur sapendo

che non sarebbe riuscito ad arrivare in tempo, che quell'innocente eradi certo condannata.Nel momento in cui Priscilla si girava verso la finestra, però, suo

fratello le si parò dinanzi e le sferrò un pugno in piena faccia. Stordita,la donna barcollò all’indietro di un passo e Feringal fu pronto asottrarle la piccola e a spingere la sorella facendola cadere al suolo.

Per un lungo momento Wulfgar fissò intensamente il giovane

nobile, giungendo infine ad acquisire l'assoluta certezza chenonostante la sua ira e il suo disgusto lui non avrebbe mai fatto delmale alla piccola; certo della validità della sua osservazione e che ilnobile non avrebbe recato danno alla bambina, avanzò quindi versodi lui con passo deciso.

«La bambina è mia», ripeté con un ringhio, protendendosi congentilezza a togliere la neonata urlante dalla presa sempre più deboledi Feringal, poi si girò verso Meralda e aggiunse, a titolo dispiegazione: «Volevo aspettare ancora un mese prima di tornare, ma èun bene che tu abbia partorito in anticipo perché un mio figlio nato altermine ti avrebbe uccisa durante il parto».

«Wulfgar!» gridò in quel momento Morik.Lord Feringal, che a quanto pareva aveva ritrovato un po' di

coraggio e tutta la sua ira, aveva estratto una daga dalla cintura e sistava lanciando contro il barbaro. La preoccupazione di Morik risultòperò superflua, perché Wulfgar aveva sentito il movimento e nelsollevare con una mano la bambina per tenerla al sicuro ruotò su se

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stesso e spinse di lato la daga con la mano libera; quando poi Feringalgli fu più vicino gli sferrò una ginocchiata all'inguine che lo fececrollare sul pavimento raggomitolato su se stesso e gemente.

«Credo che il mio grosso amico intenda fare in modo che tu nonabbia mai figli suoi», commentò Morik, strizzando l'occhio a Meralda.

Lei però non lo sentì neppure perché stava fissando con espressioneinterdetta Wulfgar e la bambina che lui aveva riconosciuto come sua.

«Mi scuso sinceramente per ciò che ho fatto sulla strada, LadyMeralda», dichiarò il barbaro, che stava ora recitando per un foltopubblico dato che Liam Woodgate, il Siniscalco Temigast e larimanente mezza dozzina di guardie erano accalcati sulla porta e

stavano fissando la scena con occhi sgranati per l'incredulità.Stesa ancora al suolo davanti al barbaro, Lady Priscilla sollevò lo

sguardo su di lui con occhi pieni di confusione e d'ira ribollente eincontrollata.

«Sono stati il liquore e la tua bellezza a tradirmi», spiegò Wulfgar,poi rivolse la propria attenzione alla bambina e la sollevò in aria conun ampio sorriso e con uno scintillio negli occhi azzurri. «Però non mi

scuserò mai per il risultato del mio crimine», aggiunse.«Ti ucciderò», ringhiò Lord Feringal, sollevandosi a fatica in

ginocchio.Protendendo una mano, Wulfgar lo afferrò per il colletto e lo issò

in piedi con un possente strattone per poi trarlo a sé accentuando lastretta fin quasi a soffocarlo.

«Tu ti dimenticherai di me e della bambina», gli sussurròall'orecchio, «altrimenti tutte le tribù congiunte della Valle del VentoGhiacciato caleranno su di te e sul tuo miserabile villaggio».

Detto questo, spinse l'aristocratico lontano da sé e fra le mani inattesa di Morik, che non perse tempo a puntargli un'affilata daga allagola a titolo di precauzione contro Liam e le altre pericolose guardie.

«Assicurati una scorta di provviste per il viaggio», gli ordinò Wulfgar. «Ci servono anche coperte e cibo per la piccola.»

Nella stanza tutti, tranne lui e la neonata, assunsero un'espressioneincredula.

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«Fallo!» ruggì il barbaro.Accigliandosi in volto, Morik si avviò alla porta con Lord Feringal,

segnalando a Priscilla di precederlo.«Avanti, andate a prendere il necessario», ingiunse a Liam e a

Priscilla, poi si guardò alle spalle e nel vedere che Wulfgar si stavadirigendo verso Meralda sospinse gli indesiderati spettatori più oltrelungo il corridoio.

«Cosa ti ha indotto a fare una cosa del genere?» domandò Meralda,quando fu sola con Wulfgar e la bambina.

«Non era difficile capire la natura del tuo problema», replicò ilbarbaro.

«Ti ho accusato falsamente.»«Una cosa comprensibile», ribatté Wulfgar. «Eri intrappolata e

spaventata, ma alla fine hai rischiato tutto per liberarmi dalla prigione,un atto che non potevo non ripagare.»

Meralda scosse il capo, sopraffatta, incapace di riuscire anche solo acominciare a capire perché troppi pensieri e troppe emozioni levorticavano nella mente. Quando aveva visto l'espressione disperatadi Feringal aveva creduto che avrebbe davvero scagliato la bambinasulle rocce, e tuttavia alla fine non era stato capace di farlo e non loaveva permesso neppure alla sorella. Lei amava quell'uomo - e comeavrebbe potuto non amarlo? - ma al tempo stesso non poteva negaregli imprevedibili sentimenti che provava per sua figlia, anche se sapevache non l'avrebbe mai potuta tenere presso di sé.

«Porterò via di qui la bambina», disse con decisione Wulfgar, comese le avesse letto nella mente. «Se vuoi venire con noi sei labenvenuta».

Meralda scoppiò in una sommessa risata priva di umorismo eincrinata dal pianto imminente.

«Non posso», rispose con voce che era poco più che un sussurro.«Ho dei doveri verso mio marito, se mi vorrà ancora, e verso la miafamiglia, che verrebbe bandita se venissi con te.»

«Dovere? È il solo motivo per cui rimani?» domandò Wulfgar,dando l'impressione di percepire qualcosa di più.

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Meralda scoppiò in singhiozzi, con le lacrime che le solcavano ilvolto; dopo aver lanciato un'occhiata in direzione della porta peraccertarsi che nessuno lo vedesse, Wulfgar si chinò a baciarla su unaguancia.

«Credo che sia la cosa migliore», aggiunse in tono sommesso. «Nonsei d'accordo?»Meralda indugiò per un momento a fissare quell'uomo che aveva

rischiato tutto per salvare lei e la sua bambina anche se non avevanofatto nulla per meritare il suo eroismo e annuì, continuando apiangere.

Comprendendo la profondità del suo dolore e la portata del

sacrificio che stava facendo, Wulfgar si chinò per permetterle diaccarezzare e baciare la piccola ancora una volta, ma quando lei simosse per prenderla fu pronto a trarsi indietro e Meralda gli rivolse untriste sorriso per indicare che aveva capito.

«Addio, piccola», disse fra i singhiozzi, poi distolse lo sguardo edopo averle rivolto un ultimo inchino Wulfgar lasciò la stanza con laneonata annidata fra le grosse braccia.

Nel corridoio trovò Morik impegnato a impartire secchi ordiniperché gli procurassero cibo e vestiario in abbondanza... e dell'oroperché ne avrebbero avuto bisogno per alloggiare adeguatamente labambina in locande calde e accoglienti. Quando infine il barbaro, laneonata e il ladro si avviarono attraverso il castello nessuno accennò afermarli, quasi che Lord Feringal avesse sgombrato loro la strada per ildesiderio di vedere quei due ladri e la piccola bastarda lasciare il suocastello e uscire dalla sua vita il più in fretta possibile.

Priscilla però era fatta di stoffa diversa dal fratello e quando laincrociarono sul pianerottolo del primo piano lei puntò dritta verso

Wulfgar e cercò ancora di prendere la neonata continuando a fissarlocon occhi roventi. Il barbaro però la tenne a distanza e ricambiò il suosguardo con un'espressione in cui si leggeva chiaramente che l'avrebbespezzata in due se avesse cercato di fare del male alla piccola.Sbuffando con disgusto, Priscilla infine gli scagliò contro una spessa

coperta di lana e con un ultimo ringhio di protesta girò sui tacchi.«Stupida oca», borbottò Morik.

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Ridacchiando, Wulfgar avvolse teneramente la bambina nella caldacoperta, quietando finalmente il suo pianto. Fuori la giornata volgevaal tramonto ma la tempesta si era placata e le ultime nubi si stavanosfaldando sotto la spinta di un vento teso; il cancello del castello era

aperto e dall'altra parte del ponte il Siniscalco Temigast e Lord Feringalli stavano aspettando con un paio di cavalli pronti per loro.Per un lungo momento Feringal indugiò a fissare Wulfgar e la

neonata.«Se mai dovessi tornare...» cominciò a dire.«Perché dovrei farlo?» lo interruppe il barbaro. «Adesso ho mia

figlia, che crescerà per diventare una regina nella Valle del Vento

Ghiacciato. Non pensare neppure di venire a darmi la caccia, LordFeringal, perché sarebbe la rovina del tuo mondo.»«Perché dovrei farlo?» ribatté Feringal, nello stesso tono cupo,

fronteggiandolo con coraggio. «Ho mia moglie, la mia bellissimamoglie, che si dona a me spontaneamente, senza che debba impormi alei.»

Quell'ultima affermazione, che indicava il ritrovamento di una

certa misura di orgoglio maschile, rivelò a Wulfgar che Feringal avevaperdonato Meralda o comunque lo avrebbe fatto presto: in qualchemodo, miracolosamente, il piano disperato, sconsiderato eimprovvisato che lui aveva messo in piedi aveva funzionato.Costringendosi a reprimere la risata che l'assurdità ridicola di quellasituazione gli faceva salire in gola, Wulfgar concesse al signore diAuckney quel momento di necessaria rivincita e rimase impassibilementre lui si ricomponeva, alzava le spalle e riattraversava il ponte pertornare alla sua casa e da sua moglie.

«Lei non è tua», dichiarò inaspettatamente il Siniscalco Temigast, nelconsegnare ai due le redini dei cavalli. Wulfgar, che si stavaaccingendo a montare in sella con la bambina, finse di non averlosentito.

«Non temere, non ho intenzione di dirlo e non lo farà neppureMeralda, a cui oggi hai davvero salvato la vita», continuò il siniscalco.

«Sei un uomo notevole, Wulfgar figlio di Beornegar, della Tribùdell'Alce della Valle del Vento Ghiacciato.»

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Wulfgar lo fissò con stupore, sia per il complimento sia per il fattoche quell'uomo sapeva tante cose di lui.

«Glielo ha detto il mago che ti ha catturato», intuì Morik. «Odio imaghi.»

«Non ci saranno inseguimenti», garantì Temigast. «Hai la miaparola.»

La parola del siniscalco risultò essere valida, dato che i duetornarono senza incidenti fino al riparo, dove recuperarono i lorocavalli e proseguirono la marcia sulla strada orientale, lasciandosidefinitivamente alle spalle Auckney.

«Cosa c'è?» chiese Wulfgar a Morik più tardi quella notte, nel notarel'espressione divertita dell'amico mentre sedevano raggomitolatiaccanto a un grande fuoco acceso per tenere al caldo la piccola.

Sorridendo, Morik gli porse un paio di bottiglie, una di latte dicapra caldo per la bambina e l'altra piena del suo liquore favorito;

Wulfgar prese soltanto quella con il latte.«Non ti capirò mai, amico mio», commentò Morik.

Wulfgar sorrise ma non rispose, consapevole che Morik nonavrebbe mai potuto conoscere a fondo il suo passato, i bei tempi conDrizzt e con gli altri e i tempi più cupi, con Errtu e la progenie del suoseme rubato.

«Ci sono modi più facili per ottenere dell'oro», osservò poi Morik,attirandosi un'occhiata gelida di Wulfgar. «Naturalmente haiintenzione di vendere la bambina», opinò poi.

Wulfgar sbuffò con disprezzo all'idea.«Frutterebbe un buon prezzo», obiettò Morik, bevendo un lungo

sorso di liquore.«Nessun prezzo sarebbe abbastanza buono», ribatté Wulfgar,

concentrandosi poi sulla piccola che si agitava e gorgogliava.«Non avrai intenzione di tenerla!» esclamò Morik. «Che posto può

avere lei con noi? Con te, dovunque tu abbia intenzione di andare?Hai perso il senno?»

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Accigliandosi, Wulfgar si girò di scatto e gli fece cadere la bottigliadalle mani, spingendolo poi al suolo accanto a essa... la risposta piùdecisa e chiara che Morik il Furfante avesse mai ricevuto.

«Non è neppure tua!» insistette Morik.Ma non avrebbe potuto sbagliarsi maggiormente.

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EPILOGO

Morilc esaminò un'ultima volta il travestimento di Wulfgar e silasciò sfuggire un sospiro impotente, perché non si poteva fare più ditanto per modificare l'aspetto di un biondo barbaro alto quasi duemetri che pesava centocinquanta chili.

Adesso Wulfgar era nuovamente rasato per la prima volta daquando era tornato dall'Abisso, e Morik gli aveva insegnato acamminare in modo da diminuire la sua altezza, con le spalle curve e lebraccia piegate perché non gli pendessero fino alle ginocchia; oltre a

questo il furfante gli aveva procurato un'ampia veste marrone comequella che avrebbe potuto indossare un religioso, dotata di un collettoalto e largo che permetteva a Wulfgar di tenere incassato il collo senzache questo risultasse evidente.

Nonostante tutto, però, il furfante non era ancora contento di queltravestimento, non quando la posta che dipendeva da esso era tantoalta.

«Dovresti aspettare qui», suggerì per la decima volta da quando Wulfgar gli aveva esposto le sue intenzioni.«No», replicò in tono piatto il barbaro. «Non verrebbero sulla sola

base della tua parola. È una cosa che devo fare io.»«Farci ammazzare entrambi?» ribatté con sarcasmo il furfante.«Fammi strada», ordinò Wulfgar, ignorando il suo commento.Quando Morik cercò di protestare ancora, gli calò poi una grossa

mano sulla bocca e lo fece girare in direzione delle lontane portecittadine.

Scuotendo il capo con un ennesimo sospiro, Morik lo precedetteattraverso le porte di Luskan e con estremo sollievo di entrambi -perché Wulfgar non desiderava certo essere scoperto con la bambinain braccio - non vennero riconosciuti né trattenuti e si poteronoaddentrare senza problemi nella città, dove la festa di primavera era al

suo apice.

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Di proposito erano arrivati a Luskan verso il tramonto e Wulfgar sidiresse subito alla Strada della Mezzaluna, entrando alla Scimitarracome uno dei primi clienti della serata e andando a prendere posto albancone accanto a Josi Puddles.

«Cosa bevi?» domandò Arumn Gardpeck, ma la domanda gli morìin gola e gli occhi gli si dilatarono quando guardò con maggioreattenzione il grosso avventore che aveva davanti. «Wulfgar?» sussultòquindi.

Alle spalle del barbaro un vassoio cadde rumorosamente al suolo enel girarsi Wulfgar vide Delly Curtie ferma alle sue spalle conespressione stupefatta; accanto a lui Josi Puddles stridette di terrore e

cercò di allontanarsi.«Lieto di vederti, Arumn», disse poi il barbaro al taverniere. «Bevosolo acqua.»

«Cosa ci fai qui?» annaspò Arumn, sospettoso e non pocospaventato.

Josi intanto saltò giù dal suo sgabello e si diresse verso la porta, ma Wulfgar lo afferrò per un braccio e lo trattenne dov'era.

«Sono venuto per scusarmi», disse. «Con te e con te», aggiunse,rivolto a Josi.

«Hai cercato di uccidermi», farfugliò questi.«Ero accecato dall'ira e probabilmente dal liquore», rispose Wulfgar.«Ha preso il tuo martello», gli ricordò Arumn.«In base al legittimo timore che potessi usarlo contro di te», affermò

il barbaro. «Ha agito da amico, il che è più di quanto possa dire di mestesso.»Arumn scosse il capo, quasi incapace di credere a quello che stava

sentendo. Intanto Wulfgar lasciò andare Josi, ma questi rimase dove sitrovava con aria interdetta, senza accennare più a raggiungere laporta.

«Mi hai accolto, mi hai nutrito e mi hai dato un lavoro e la tuaamicizia quando più ne avevo bisogno», continuò Wulfgar, rivolto oraal solo Arumn. «Io ti ho fatto torti terribili e posso soltanto sperare chetu trovi nel tuo cuore il desiderio di perdonarmi.»

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«Intendi vivere di nuovo qui?» domandò Arumn. Wulfgar scosse il capo con un triste sorriso.«Sto rischiando la vita anche solo per essere entrato in città»,

replicò. «Me ne andrò entro un'ora, ma dovevo venire per scusarmicon voi due e soprattutto con te», aggiunse, girandosi verso Delly.

Delly Curtie sbiancò in volto quando lui le si avvicinò, non sapendocome reagire alle sue parole o anche solo alla sua presenza.

«Mi scuso umilmente per il dolore che ti ho causato, Delly»,proseguì Wulfgar. «Eri l'amica più sincera che un uomo potessedesiderare... più di un'amica», si affrettò ad aggiungere, vedendolaaccigliarsi.

«Hai una bambina», osservò lei, con voce ispessita dall'emozione,notando il fagotto che lui teneva fra le braccia.

«Mia per caso e non per sangue», spiegò Wulfgar, porgendole lapiccola.

Delly la prese con un tenero sorriso, giocando con le sue dita efacendo apparire un sorriso su quel volto innocente.

«Vorrei che potessi fermarti», suggerì Arumn, in tono che sembravasincero, anche se Josi sgranò gli occhi con espressione dubbiosa all'ideadi una cosa del genere.

«Non posso», replicò Wulfgar, poi sorrise a Delly e la baciò sullafronte nel protendersi a recuperare la bambina. «Ti auguro di trovarela felicità che meriti, Delly Curtie», mormorò, quindi rivolse unosguardo e un cenno di saluto ad Arumn e a Josi e si avviò verso laporta.

Anche Delly fissò intensamente Arumn, che per lei era come unpadre. Comprendendo, lui annuì e Delly si affrettò a raggiungere

Wulfgar prima che arrivasse alla porta.«Prendimi con te», gli disse, con gli occhi che scintillavano di

speranza, una cosa che pochi avevano visto in lei da molto, moltotempo.

«Non sono tornato per salvarti», obiettò Wulfgar, con ariaperplessa.

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«Salvarmi?» ripeté Delly in tono incredulo. «Io non ho bisogno diessere salvata, grazie tante, ma tu hai bisogno di aiuto con quellapiccolina. Io sono brava con i bambini... ho passato la maggior partedella vita ad allevare i miei fratelli e le mie sorelle... e sto cominciando

ad annoiarmi della vita che faccio qui.»«Non so dove mi porterà la mia strada», le fece notare Wulfgar.«Immagino che andrai in luoghi sicuri», ribatté Delly, «considerato

che hai la piccola di cui curarti, intendo».«Forse a Waterdeep», affermò lui.«Un posto che ho sempre desiderato vedere», dichiarò Delly, il cui

sorriso si andava accentuando a ogni parola perché era chiaro che Wulfgar era sempre più interessato dalla sua offerta.

Il barbaro guardò poi verso Arumn, che annuì nuovamente, eanche da quella distanza Wulfgar non faticò a notare che aveva gliocchi umidi di pianto.

Consegnata di nuovo la bambina a Delly le chiese di aspettare sullaporta e tornò a raggiungere Arumn e Josi al bancone.

«Non le farò mai più del male», promise ad Arumn.«Se lo farai ti darò la caccia e ti ucciderò», minacciò Josi.

Wulfgar e Arumn si girarono entrambi a fissarlo, il taverniere conespressione dubbiosa e Wulfgar sforzandosi in ogni modo di rimanereserio.

«Lo so, Josi Puddles», replicò infine Wulfgar, senza sarcasmo, «e latua ira è una cosa che temo davvero».

Josi impiegò un momento a superare la sorpresa, poi gonfiò il pettocon orgoglio, inducendo Wulfgar e Arumn a scambiarsi unasignificativa occhiata.

«Niente liquore?» domandò quindi Arumn. Wulfgar scosse il capo.«La bottiglia mi serviva per nascondermi», ammise in tutta onestà,

«ma ho scoperto che è peggio delle cose che mi tormentano».«E se dovessi stancarti della ragazza?»

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«Non sono venuto qui per Delly Curtie ma solo per scusarmi»,affermò Wulfgar. «Non pensavo che lei avrebbe accettato le mie scusein maniera così completa, ma sono lieto che lo abbia fatto. Troveremouna buona strada da percorrere e io farò del mio meglio per

proteggerla, soprattutto da me stesso.»«Bada che sia così», avvertì Arumn. «Mi aspetto di rivedervi.» Wulfgar gli strinse la mano, batté una pacca sulla spalla di Josi e

tornò a raggiungere Delly, prendendola per un braccio e uscendo conlei dalla Scimitarra e da una parte significativa della loro vita.

***

Mano nella mano, Lord Feringal e Meralda stavano passeggiandoin giardino e godendo delle sue fragranze primaverili. Il piano di

Wulfgar aveva funzionato alla perfezione e adesso Feringal e tutto ilfeudo erano convinti di nuovo che Meralda fosse soltanto una vittima,cosa che aveva esonerato lei da ogni colpa e il giovane nobile dalridicolo.

A dire il vero la donna soffriva ancora per la perdita della bambinama anche questa ferita, come il suo matrimonio, sembrava essere sullavia della guarigione, e lei continuava a ripetersi che la piccola era conun uomo forte e buono, un padre migliore di quello che Jaka avrebbemai potuto essere. Capitava spesso che lei piangesse per la bambinaperduta, ma ogni volta si ripeteva quella logica litania e ricordava a sestessa che la sua vita, considerate le sue origini e gli errori commessi,

era decisamente migliore di come avrebbe mai potuto sperare: suamadre e suo padre erano in salute, e Tori veniva a trovarla ognigiorno, correndo allegramente fra i fiori e rivelandosi per Priscilla untormento maggiore di quanto lei fosse mai stata.

Adesso la coppia stava semplicemente godendo dello splendoreprimaverile e Meralda si stava adeguando alla sua nuova vita. D'untratto Feringal schioccò le dita all'improvviso, allontanandosi da lei, eMeralda lo fissò con espressione incuriosita.

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«Ho dimenticato una cosa», spiegò lui, poi le segnalò di aspettare etornò di corsa nel castello, quasi travolgendo Priscilla che usciva inquel momento dalla porta del giardino.

Naturalmente Priscilla continuava a non credere minimamente allastoria di Wulfgar e come sempre fissò Meralda con astio; lei però laignorò e le volse le spalle, avvicinandosi al muro per lasciar vagare losguardo sulle onde.

«Guardi se arriva il tuo prossimo amante?» borbottò Priscilla nelpassarle accanto.

Capitava spesso che le scoccasse simili frecciate, e altrettanto spessoMeralda fingeva di non averle neppure sentite.

Però non questa volta.«Non hai mai provato un'emozione onesta in tutta la tua miserabile

vita, Priscilla Auck, ed è per questo che sei così acida», dichiarò,sbarrando il passo alla cognata con le mani sui fianchi. «Non provare agiudicarmi.»

Priscilla sgranò gli occhi per la sorpresa e si mise a tremare di rabbia,non essendo abituata a essere apostrofata in quel modo.

«Tu chiedi...»«Non te lo sto chiedendo, te lo sto dicendo», la interruppe Meralda.Priscilla si erse sulla persona con una smorfia e la schiaffeggiò.Con la guancia che bruciava, Meralda restituì lo schiaffo con forza

maggiore.«Non provare a giudicarmi, altrimenti sussurrerò all'orecchio di tuo

fratello tutta la verità sulla tua meschinità», avvertì, in tono tantocalmo e calcolatore che le sue parole furono già di per sé sufficienti afar salire un intenso rossore al volto di Priscilla. «Sai che ho la suaattenzione. Hai pensato a quanto ti potrebbe piacere andare a vivereal villaggio in mezzo ai contadini?» concluse quindi.

Mentre finiva di parlare, suo marito arrivò di corsa tenendo inmano un enorme mazzo di fiori per la sua cara Meralda e a Priscillabastò dare una sola occhiata alla sua espressione adorante per lanciareun grido di sconfitta e rientrare di corsa nel castello.

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Feringal la osservò allontanarsi con aria confusa, ma ultimamentegli importava così poco di quello che Priscilla pensava o provava chenon si prese neppure il disturbo di chiedere a Meralda cosa fossesuccesso.

Anche Meralda osservò l'allontanarsi di quella miserabile donna e ilsorriso che le apparve sulle labbra dipese da molto più del semplicepiacere per il gentile dono del marito. Da molto di più.

***

Congedatosi da Wulfgar e da Delly, Morik procedette a insediarsidi nuovo nelle strade di Luskan. Per prima cosa affittò una stanza inuna locanda della Strada della Mezzaluna, ma vi trascorse ben pocotempo perché era sempre fuori impegnato a rivelare la sua veraidentità a coloro che dovevano conoscerla e a crearsi una reputazionecome un uomo del tutto diverso, il Ladro Brandeburg, presso coloroche era meglio ignorassero la verità.

Entro la fine della settimana erano già molti quelli che glirivolgevano un deferente cenno del capo nel vederlo per strada edentro la fine del mese lui smise di temere rappresaglie delle autorità:era di nuovo a casa e presto le cose sarebbero tornate a esserecom'erano prima dell'arrivo di Wulfgar a Luskan.

Una notte stava lasciando la sua stanza pensando proprio a questoquando nell'oltrepassarne la soglia non sbucò nel corridoio del primopiano della locanda ma si trovò invece a scivolare in un tunnel

vertiginoso per poi arrestarsi in una stanza cristallina le cui pareticircolari facevano pensare che si trattasse di un livello di una torre.Stordito, accennò a portare la mano alla daga ma poi scorse delle

sagome dalla pelle del colore dell'ebano e cambiò idea, perché eraabbastanza saggio da non cercare di opporre resistenza agli elfi scuri.

«Tu mi conosci, Morik», affermò Kimmuriel Oblodra,avvicinandoglisi.

Morik in effetti aveva riconosciuto il messaggero drow che gliaveva fatto visita un anno prima, chiedendogli di sorvegliare Wulfgar.

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«Ti presento un mio amico, Rai'gy», proseguì cortesementeKimmuriel, indicando l'altro elfo scuro presente nella stanza, cheaveva un'espressione alquanto sinistra. «Non ti avevamo chiesto disorvegliare l'uomo chiamato Wulfgar?» domandò quindi.

Morik farfugliò qualcosa d'inarticolato, non sapendo cosa dire.«E tu non ci sei forse venuto meno?» continuò Kimmuriel.«Ma... ma è stato un anno fa», protestò Morik, «e da allora non ho

più avuto vostre notizie».«E adesso ti stai nascondendo, ti travesti perché sei consapevole del

crimine che hai commesso contro di noi», aggiunse Kimmuriel.

«I miei supposti crimini sono un'altra cosa», balbettò Morik,oppresso dalla sensazione che le pareti stesse gli si stessero serrandointorno. «Mi sto nascondendo dalle autorità di Luskan, non da voi.»

«Da loro ti nascondi?» intervenne l'altro drow. «Aiutare ti posso!»E avanzò verso Morik con le mani protese.

Veli di fiamma gli scaturirono dalle dita e bruciarono il volto e icapelli di Morik, che cadde al suolo ululando e percuotendosi la pelle

strinata.«Adesso appari diverso», commentò Kimmuriel, ed entrambi gli elfiscuri scoppiarono in una risata maligna mentre lo trascinavano su peri gradini della torre e in un'altra stanza, dove un drow calvo cheteneva in mano un grande cappello dalla piuma purpurea sedeva suuna comoda sedia.

«Chiedo scusa, Morik», disse questi. «I miei luogotenenti sono un

po' eccitabili.»«Sono stato con Wulfgar per mesi», dichiarò Morik, palesementesull'orlo dell'isteria. «Poi le circostanze ci hanno costretti a separarci ehanno imposto a lui di lasciare Luskan. Io però posso rintracciarlo pervoi...»

«Non ce n'è bisogno», garantì il drow seduto, sollevando una manoper calmare lo sconvolto furfante. «Io sono Jarlaxle diMenzoberranzan e ti perdono completamente.»

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Morik si passò una mano su quello che restava dei suoi capelli, quasia indicare che avrebbe preferito che Jarlaxle sfoggiasse prima la suamagnanimità.

«Avevo progettato che Wulfgar diventasse il mio principalerappresentante commerciale a Luskan», spiegò questi. «Adesso che luise n'è andato ti chiedo di assumere il suo posto.»

Morik sbatté le palpebre e il suo cuore ebbe un sussulto.«Ti renderemo ricco e potente al di là dei tuoi sogni», spiegò quindi

il capomercenario, e Morik gli credette. «Non dovrai nasconderti dalleautorità e in effetti molte di esse ti inviteranno a casa loro quasiquotidianamente perché vorranno disperatamente rimanere nelle tue

buone grazie. Se poi c'è qualcuno che desideri sia... eliminato, è unacosa che si può organizzare senza rischi.»Morik si umettò quello che restava delle sue labbra.«Ti sembra una posizione che Morik il Furfante può essere

interessato a conseguire?» chiese ancora Jarlaxle, e Morik ricambiò ilsuo sguardo con intensità molto maggiore.

«Però ti avverto», aggiunse Jarlaxle, alzandosi dalla sedia con unbagliore nello sguardo. «Se mai mi verrai meno il mio amico Rai'gyavrà il piacere di alterare nuovamente il tuo aspetto.»

«E poi ancora», fu lieto di precisare il mago.«Odio i maghi», borbottò fra sé Morik.

Wulfgar e Delly abbassarono lo sguardo su Waterdeep, la Cittàdegli Splendori, la più potente e meravigliosa città della Costa delleSpade, luogo di grandi sogni e di grande potere.

«Dove pensi di alloggiare?» domandò allegramente la donna, senzasmettere di cullare dolcemente la bambina.

Wulfgar scosse il capo, incerto.«Ho del denaro», replicò, «ma non so quanto a lungo rimarremo a

Waterdeep».«Non hai intenzione di stabilirti qui?»

Il barbaro scrollò le spalle perché quella era una cosa a cui nonaveva pensato molto in quanto era venuto a Waterdeep per un altro

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scopo. Sperava infatti di trovare in porto il Capitano Deudermont e il Folletto del Mare, o almeno si augurava che tornassero presto lì, comefacevano spesso.

«Sei mai stata sul mare?» domandò con un ampio sorriso a Delly,che adesso era la sua socia e la sua migliore amica.

Per lui era arrivato il momento di recuperare Aegis-fang.