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SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO AUGUSTO CAPERLE CLASSE II C AVVENTURE DI CARTA ANNO SCOLASTICO 2014-2015

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SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO

AUGUSTO CAPERLE

CLASSE II C

AVVENTURE DI CARTA

ANNO SCOLASTICO 2014-2015

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INTRODUZIONE

Azione, sfida, pericolo, una vita al limite dell’ordinario e un eroe bravo, buono e

bello possibilmente, sempre pronto a sfidare il male e a vincerlo, perché i perdenti

non sono ammessi. Ecco gli ingredienti del romanzo d’avventura, che da sempre

affascina il pubblico. Del resto chi non ha mai provato il desiderio di vivere

un’impresa straordinaria? O di essere protagonista di un’avventura che ci porti

lontani in mondi sconosciuti e affascinanti? In ognuno di noi è insito il sogno di

vivere un’esperienza esaltante o inusuale.

E così anche noi della 2C ci siamo lasciati travolgere: abbiamo esplorato abissi

marini, lande desolate, i ghiacci del Polo e lo spazio stellare. Abbiamo combattuto

orsi a mani nude, aperto porte sospette, trovato buchi nel tetto. Siamo sopravvissuti

a valanghe, carcerati e ad assassini. Certo ogni tanto il sangue sgorgava a fiumi, ma

ce la siamo sempre egregiamente cavata, usando agilità e intelletto, ma soprattutto

intuizione, quella capacità di guardare le cose e capire come risolvere il problema,

arrivando alla faticosa soluzione anche quando altri non ne avrebbero avuto il

coraggio.

Insomma ogni ragazzo della 2C ha scelto di vivere la sua avventura (su carta

naturalmente). Sono stati offerti venti titoli e ogni alunno ha valutato quello che

fosse adatto a lui, alla sua persona. Ognuno in questo modo ha vissuto la sua

individuale avventura, perché fortunatamente non siamo tutti uguali ed ognuno di

noi ha le sue personali paure, sogni o desideri.

L’obiettivo? Sempre quello: scrivere con gioia e desiderio di divertirsi.

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Wanna Bianchi

ELISA ROSE ARCOSTI

IL PIANETA ROSSO

“Cara Laura, tu non ti ricorderai di me, ma tanto tempo fa mi hai fatto una promessa, ora arrivato il momento di mantenerla…” Tenevo tra le mani quella strana lettera, certamente uno scherzo. Che volevano da me? Mi voltai per prendere dal tavolo la busta che avevo posato e cercai il mittente: Rosalia Wellwrs – Johnson street 43 – London. Noooo, ora ricordavo…

Dovevo sbrigarmi. Dovevo sapere cosa voleva da me. Presi il primo volo diretto a

Londra e verso sera ero già arrivata. Poi un taxi che mi portò direttamente davanti a

casa sua.

Ero preoccupata e stringevo tra le mani la valigia. Non sapevo cosa volesse

esattamente da me, ma di sicuro non prometteva nulla di buono. Conoscendola era

qualcosa di strano, diverso dal normale, con un pizzico di cattiveria.

Suonai il campanello, mentre il taxi lentamente si allontanava. Osservai il piccolo

giardino grazioso, colmo di fiori. E la casetta fatta di mattoni rossi, tipica inglese.

Ad aprirmi arrivò lei, di persona.

-Guarda guarda chi si vede…la mia sorellina tanto cara. Entra pure. -. Conoscevo

fin troppo bene quel suo sorrisetto famelico e ironico, che non sopportava la mia

presenza neanche per un istante.

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-Qual buon vento ti porta qui? –

-La tua lettera. Ti sei già scordata? –chiesi io, sorridendo.

-Per niente. Volevo parlarti di nostro fratello…-. Il mio cuore si gelò. Era morto da

così tanto tempo… in realtà nessuno sapeva se fosse morto o se fosse vivo. Sapevamo

solo che era un astronauta, che adorava viaggiare e che durante la sua missione su

Marte qualcosa andò storto. E nessuno seppe mai niente di lui.

-Cosa vuoi? – dissi io scontrosa come se qualcuno mi avesse provocata.

-Ieri sono andata a casa sua per mettere via la sua roba negli scatoloni. Ho trovato

parecchi suoi strumenti. La scrivania era piena di fogli con calcoli e ragionamenti.

Su uno di essi aveva scritto la sua “teoria sulla vita” sulla quale avevate lavorato voi

due. E…beh. Era il suo sogno esplorare una landa desolata su cui uomo non avesse

mai messo piede. –

-A che punto vuoi arrivare? –dissi in fretta io, già irritata del fatto che avesse

toccato le cose di nostro fratello. Chi le aveva dato il permesso?

-Lui ci credeva in questo… E tu mi hai promesso che avresti fatto qualsiasi cosa per

nostro fratello. –

-E cosa dovrei fare? –.

Il suo volto disegnò un sorrisetto furbo e cattivo, che ricordavo da sempre come il

mio peggior incubo.

-Che ne dici di andare su Marte? -.

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Capii tutto: lei voleva la fama, io volevo trovare nostro fratello. Probabilmente nostra

madre l’aveva informata della mia “folle” idea di cercarlo. Non avrei dovuto

dirglielo, doveva rimanere un segreto.

Avevo seguito la pista di Marco, mio fratello, e entrambi eravamo astronauti. Io

lavoravo nella stazione e dovevo calcolare le condizioni di vivibilità sui vari pianeti.

Su Marte avevamo mandato una sonda ed essa segnalò delle forme viventi. Lui

aveva deciso di partire ad esplorare il terreno, ma non aveva fatto più ritorno.

Dopo aver appreso la notizia che l’astronave aveva avuto problemi e le

comunicazioni si erano interrotte, giurai che avrei fatto qualsiasi cosa pur di

trovarlo, anche andare su Marte. Quello è stato il mio progetto per anni, sul quale

ho lavorato in segreto. Avevo calcolato ogni singola possibilità che fosse ancora vivo

dalla più catastrofica alla più positiva.

-Te l’ha detto mamma, vero? – dissi stringendo i pugni.

-Sì. Stai tranquilla, ci facciamo la nostra passeggiato su Marte, torniamo a casa io

con una palata di soldi, tu con le tue nuove scoperte. –

-Non ti importa niente di nostro fratello! Tu vuoi solo la fama! Se è per questo che

vuoi partire con me, allora arrangiati. Io ci vado per Marco, non per i soldi. -.

Ripresi la mia roba e mi indirizzai verso la porta, quando lei mi prese il braccio.

-E va bene. Partiremo non appena la NASA ci lascerà e ti giuro che non lo farò per

la fama. Cercherò di cambiare. Lo giuro. -

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Non mi fidavo di lei, né della sua faccia da bambina che chiedeva scusa. Ma

qualcosa riusciva a tenermi in quel luogo. Forse era il semplice fatto che avrei fatto

qualsiasi cosa pur di ritrovare mio fratello.

-Resto qua. Ci metteremo all’opera da domani. E se tu non cambi in questi mesi di

viaggio, giuro che al ritorno da Marte ti infilo nella cassaforte con tutti le tue “palate

di soldi”. Che sia chiaro. – dissi io fiera di me stessa. Non ero mai riuscita a far

mettere la coda tra le gambe a Rosalia. È sempre stata lei la ragazza più grande della

famiglia, che aveva fatto fortuna nella sua vita.

I seguenti due giorni furono pieni di sorprese: Rosalia si dimostrò molto attenta nei

miei confronti, cosa cui non ero abituata.

Contattai anche la NASA per chiedere di finanziare la missione, erano anni, vista la

mia esperienza, mi offrivano “in prestito” un’astronave.

Ma stavolta mi negarono il consenso e mi sentii con le spalle al muro.

Chiamai Steven e gli chiesi di darmi una mano. Era un mio collega alla NASA ed

eravamo grandi amici, mi avrebbe aiutata di sicuro.

-E secondo te ti lasciano? - A sentir quelle parole non sapevo davvero cosa fare.

Forse aveva ragione e la mia idea era del tutto fuori luogo.

- Dovremmo rubare una navicella della NASA. Ma sai quanto costa? Hai la più

pallida idea dei soldi che dovremmo spendere? Comunque ho sentito che dopo la

tua chiamata vogliono fare una spedizione su Marte, ma non credo vogliano anche

te…-

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Dovevo riuscire ad infiltrarmi in quel gruppo. Avevo bisogno di andare su Marte.

Forse alla NASA non ero stata abbastanza chiara al riguardo. La richiamai e a

ricevere la mia telefonata fu Robert, il capo indiscusso di tutto.

-Signorina Laura, abbiamo già ricevuto la sua richiesta e abbiamo detto no. –

In quel momento mi sentii scoppiare a piangere.

-Ma la prego, partiremo io e Rosalia con qualcuno di competente che sceglierà lei.

Io voglio solo vedere se c’è mio fratello. Me lo dovete! Le assicuro che torneremo

vivi e lei avrà la gloria di avere una perfetta spedizione su Marte. –

-Sono rischi assurdi. Ma la capisco signorina. Per questo ritengo che sistemeremo la

navicella e tra due mesi partirà con Albert e Steven. Loro sono i migliori. E per

quanto riguarda lei meglio che inizi a pregare che andrà tutto bene, perché se

morirà noi perderemo dieci milioni di dollari. - Finì la frase scandendo lentamente

le ultime parole. Non riuscivo a crederci: li avevo convinti. Ce l’avevo fatta!

Passarono in fretta i successivi due mesi e i rapporti tra me e Rosalia migliorarono:

almeno riuscivamo a guardarci senza provare disgusto. Era cambiata e non pensava

soltanto ai soldi.

Ogni giorno tornavo alla NASA e svolgevo il mio lavoro con grande dedizione.

Durante la pausa pranzo mi recavo sempre dai ragazzi “aggiusta tutto” che

sistemavano la navicella e davo loro una mano. Ogni tanto passava Robert che mi

fissava lavorare con i ragazzi e al termine di ogni pausa pranzo mi fissava mentre

tornavo a sedermi davanti al computer.

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Quando mancarono meno di due settimane alla fine dei lavori, Robert mi convocò

nel suo studio.

-Laura, ti ho osservata in questi due mesi, mentre lavoravi sodo e aiutavi sempre i

ragazzi. Credo che ti meriti di salire su quell’astronave. Sei sempre stata fedele a noi

e una lavoratrice instancabile, che, anche dopo la scomparsa del fratello, non si è

mai arresa. Sono fiero di permetterti di partecipare alla missione. Rendimi

orgoglioso di te. -

Non credevo alle sue parole. Mi stava sorridendo. Non era possibile. Avrei voluto

buttarmi al suo collo e abbracciarlo forte, come se fosse un padre, dato che il mio

era morto quando io ero piccola. Mi limitai a stringergli forte la mano con un largo

sorriso sul volto e ringraziarlo mille volte.

-Un’ultima cosa, signore. Vorrei che non si sapesse…cioè vorrei non finire sui

giornali o finirci solo se torniamo vivi. -

Ben presto arrivò il giorno di partire. Ci preparammo nella navicella. Albert e Steven

erano ai comandi, io sedevo dietro e dovevo verificare che tutto fosse sottocontrollo.

Rosalia guardava dritto, spaventata.

-Non ci posso credere che tu sia qui sebbene i giornali abbiano taciuto questo

scoop! Adesso posso finalmente dire che sei la mia brava sorellona. -.

Mi squadrò per bene, poi capì che dicevo sul serio. Ricambiò il sorriso e scostò con

la mano tremante i capelli rossi dal volto.

-Ragazzi siete pronti? – chiese uno della stazione.

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-Prontissimi. – rispondemmo in coro.

-5…4…3…2…1…- Accendemmo i motori e partimmo lasciando nella stazione un

grande boato.

Le fiamme divamparono sotto di noi e una scia di fumo ci disse che eravamo già in

alto.

Non riuscii a trattenere un sorriso.

Eravamo finalmente partiti. Sapevo che ci sarebbero voluti mesi per arrivare su

Marte, ma ero ogni giorno sempre più eccitata del precedente.

I giorni passarono tutti uguali e ormai ne erano trascorsi dieci.

Il giorno non si differenziava dalla notte, era tutto uguale. Io e i due piloti ci davamo

il cambio per dormire. Andavamo d’accordo ed eravamo una bella squadra.

All’improvviso, sentimmo un enorme fragore e la navicella iniziò a roteare.

-Cosa diavolo sta succedendo? – gridò Rosalia ancora impastata dal sonno.

Non serviva una risposta: davanti a noi c’era un’enorme spirale viola che si

differenziava dal blu notte del resto dell’universo.

Massi enormi giravano in vortice e al centro stava un buco, nero.

-Verremo risucchiati! – gridò Albert.

-Ma dai! Pensavo ci volesse lavare! – ironizzò Steven.

-Rapporto! NASA! Ci sentite? – Cercai di chiamarli, ma non rispondevano.

Tentai di manovrare il veicolo e di farlo indietreggiare, ma il vortice ci portava

sempre di più nella sua spirale.

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All’improvviso i motori si spensero. Era tutto spento. Albert e Steven fissavano

impauriti la spirale rendersi sempre più vicina.

Mi fermai per un istante: non potevo far niente ormai, i controlli erano andati.

Fissai il vortice: era composto da piccole rocce, simili ad ametiste che roteavano in

cerchio e da meteoriti enormi che giravano e giravano senza fine.

-Ametiste…che belle…- disse Steven.

Erano davvero belle, ma la cosa che più mi sorprendeva era una specie di pianta

verde su un meteorite: era muschio.

-Aggrappatevi a qualcosa, entriamo nella spirale! – gridò Rosalia.

Entrammo in essa e potemmo osservare meglio i massi che galleggiavano e si

dirigevano velocemente verso il centro. Alcuni ci precipitarono addosso,

provocando botte nel MIT che ricopriva la navicella.

Pian piano un fischio iniziò a farsi sentire, poi più forte e sempre di più, mentre ci

avvicinavamo al buco.

-Moriremo! – gridò Albert in preda al panico.

Il suono si faceva assordante e ci coprimmo le orecchie con le mani. Poi il buio più

assoluto. Eravamo nel buco nero.

Infine arrivò il silenzio. Tutto buio. Ci guardammo intorno, ma ciò che vedevamo

ero solo oscurità.

-Accendiamo i comandi. - Ordinai.

-Accesi! – disse con un sospiro di sollievo Steven.

Un sorriso si fece strada sui nostri volti.

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Albert era ancora traumatizzato e dissi a Rosalia di prendersene cura. Io mi sedetti

ai comandi con Steven.

-Nessun rapporto dalla NASA. -

-Ok. Accendi le luci così vedremo qualcosa. –

-Cosa…- cercò di chiedere Steven.

C’era un essere in lontananza, una specie di serpente, lungo, snello, con ali verdi e

un muso affusolato senza occhi, solo con lunghi baffi rossi.

-Un Serpentu-Saras…- disse a bocca aperta Rosalia.

-Tu studi le specie estinte? – Chiesi io.

-Certo. E secondo te da dove prendo tutti quei soldi se non dai miei studi? - Si rese

conto che era tornata a pavoneggiarsi e si risedette a terra, consolando Albert.

Il serpente passò vicino alla navicella ed emise una specie di ruggito.

Poi in lontananza apparirono altri animali, simili a draghi. Altri sembravano elefanti

incrociati con pesci, altri giraffe incrociati con mosche. Era un posto dove solo la

fantasia umana avrebbe potuto creare simili creature.

Incontrammo anche alcune meteore, che straordinariamente emanavano luce

propria. Poi, vedemmo una specie di terra ferma, una landa desolata che galleggiava

nel vuoto.

-Le meteore illuminano quella zolla galleggiante…dev’essere come un sistema

solare diverso dal nostro…- Ipotizzai io.

-Le meteore risplendono. Ma non sono solo loro a risplendere…sono le ambre

sopra. – Osservò Albert.

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-Stai meglio? – Gli chiesi io. Lui annuì leggermente con la testa e sorrise.

Nelle ambre erano racchiusi degli animali. Esseri strani, diversi, come insetti

enormi, con occhi da gatto e corpo lungo e snello.

Erano animali straordinari. Mi accorsi che gli altri fissavano le ambre che

risplendevano e io ero l’unica a guardare gli animali, insieme a Rosalia.

Poco dopo ci accorgemmo che le meteore erano incastrate in anelli che luccicavano.

All’epoca di Dante pensavano che le stelle fossero infilate in anelli e girassero

producendo musica angelica. Sembrava quasi che tutte le creazioni della fantasia

umana si trovassero in quel buco nero.

-Controllo l’ossigeno sul pianeta, così atterriamo. Abbiamo bisogno di cibo. –

-Marte chiama Laura. Torna su Marte sorella. –

-Come ci vuoi uscire dal buco eh? Certo stare nella navicella non aiuta! – ribattei io.

Ordinai a Albert e Steven di andare ai comandi e cercare di atterrare sulla terra.

Sul pianeta vi erano forme viventi ed ero riuscita a capire che riusciva a riscaldarsi

autonomamente. Vi era il 50% di ossigeno e 23,5% di potassio. Il resto era azoto. Mi

sembrava molto strana la consistenza dell’aria…

-Ci vorranno due giorni di viaggio per atterrare. – disse Steven.

All’improvviso ci schiantammo contro qualcosa. Era il primo anello che avevamo

incontrato; era formato da acqua. Ma non riuscivamo a entrarci.

I serpenti iniziarono a girarci intorno e uno ci attaccò.

-Retromarcia! – gridai a squarciagola.

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Troppo tardi. Azzannò il retro della navicella, che si staccò. Pensai che fosse la fine.

Invece riuscivamo ancora a respirare.

Notai anche che vi era la forza di gravità. Cademmo rovinosamente dalla navicella

e, mentre i serpenti ci attaccarono, fummo assorbiti nel primo anello, che ci sputò

nel secondo, poi nel terzo e così via.

In ciascun anello vi erano meteore diverse: i più vicino avevamo meteore scure,

certe volte rosse. I più lontani erano lucenti.

Arrivati al settimo anello cademmo a terra, a poca distanza. Non era esattamente

terra, era come un impasto di argilla con pietre lunari.

Tutto il terreno era cosparso di piante con occhi, che camminavano

tranquillamente. Non avevano piedi, ma radici appuntite. Sul collo avevano spine,

grosse e rosse. Il muso era piatto con quattro buchi per respirare. Non vi erano

animali, sono quelle strane piante che non si accorgevano della nostra esistenza.

Alzai lo sguardo al cielo e vidi anelli d’acqua ovunque. Riuscii a toccare il primo

anello con un salto. Ne presi un campione e notai che non era acqua, ma una

composizione di calcare al 20%, sale al 10% e il resto era azoto liquido. Ma non era

fredda come dovrebbe essere l’azoto liquido. Era mite.

-Ci sono rubini qua! – gridò Rosalia.

-Qui invece ci sono ametiste! – disse Albert.

Non riuscivo a crederci: vidi un dinosauro, stegosauro, che venne dritto verso di noi.

Pensavo fosse erbivoro. Invece no; voleva noi.

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Iniziammo a correre verso l’interno della zolla, dove iniziavano a crescere piante

colorate con grandi aliane che le collegavano.

Ci rincorreva. Sentii una voce urlare: Rosalia. L’aveva presa. Allora raccolsi dal suolo

una liana secca e la lanciai a lei. Si aggrappò e tirai forte. Steven e Albert mi diedero

una mano. Uscì dalle fauci dell’animale con un profondo taglio nella pancia.

In tasca avevo un coltello. Lo lanciai dritto nel petto dell’animale che se la diede a

gambe.

La ferita, incredibilmente, si rimarginò. Forse era quel pianeta che si riproduceva in

continuazione.

-Hai avuto fortuna che non ti abbia caricato. Con un coltello non gli farai male. -.

Qualcosa mi diceva che non era un caso che avessero attaccato la navicella o che

con la lama del coltello lo stegosauro fosse scappato. Dovevano aver paura del ferro.

Mi venne un colpo di genio: Rosalia di sicuro aveva con se oggetti di metallo ed era

per quello che l’aveva attaccata, ma allo stesso tempo era scappato quando io

gliel’avevo lanciato contro. Dovevamo buttare via tutte le cose di ferro se non

volevamo essere mangiati.

Ci mettemmo in cammino per un paio di ore, ma la notte non sembrava calare e di

piante digeribili neanche l’ombra.

-Moriremo qua! – disse Rosalia.

Ad un tratto vidi in lontananza il buco nero, da dove eravamo venuti, farsi sempre

più piccolo fino a scomparire, mentre dalla parte opposta un nuovo buco nero si

stava formando ed era l’unica possibilità che avevamo per uscire.

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Ebbi un piano.

Legai a una liana un coltello di ferro e pensai a un modo per riuscire a respirare

nello spazio. Come per magia caddero dalla navicella quattro bombolette d’ossigeno

con le nostre tute spaziali.

Poi, però, tutta la navicella iniziò a precipitare. Presi le cose che mi servivano e

iniziai a scappare. Fui seguita dagli altri che non sapevano bene perché stessi

scappando.

Cadde a terra con un boato assordante e prese fuoco. Iniziò a esplodere in mille

pezzi che si infrangevano al suolo.

Trovai un grosso albero, enorme, con un buco al centro, e vi entrai.

Restammo lì un paio di giorni e io perfezionai la mia tattica per evadere.

Indossammo le tute con le bombolette e ci mettemmo in cammino alla ricerca di un

serpente gigante nei dintorni.

Racchiuso tra il primo anello e il secondo un maestoso serpente rosso stava bevendo.

Era incredibile come riuscisse a resistere alla gravità del pianeta.

Lanciai la mia liana e il coltello andò dritto nella sua schiena. Iniziò a lamentarsi

con grossi ruggiti.

-Tenetevi forte. – gridai ai miei compagni che non sapevano cosa mi passasse per la

mente.

Cercò di dimenarsi, ma noi stavamo salendo fino al suo dorso. Appena ci

aggrappammo, lui iniziò a compiere mille giravolte, ma noi non cademmo mai.

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Rassegnato, si decise di fare ciò che gli dicevamo.

Lo spronai verso il buco nero, ma le rocce che venivano assorbite da esso ci

piombarono addosso come pioggia. Continuai a spingerlo contro la corrente del

vortice e dopo una lunga fatica riuscimmo ad uscirne.

Ci trovammo nell’universo a noi noto, quello che conoscevamo. Circa due

chilometri avanti vedemmo un pianeta, rosso, e, anche se eravamo distanti,

sentivamo già il calore. Marte. Si, era Marte. Iniziammo a precipitare attratti dalla

sua gravità e atterrammo su un territorio brullo e sabbioso.

L’animale iniziò a ruggire. Il ferro delle nostre tute gli aveva lasciato grossi tagli

sulle squame e il coltello gli aveva squarciato la coscia.

Tolsi il pugnale e la ferita si rimarginò quasi subito. Ma l’animale ancora guaiva: era

il caldo. Probabilmente era abituato alle basse temperature del suo universo.

-Vai, vola via e torna nel tuo universo. - Gli sussurrai io. E lui partì senza guardarsi

dietro.

-Un animale in grado di auto curarsi. Magari anch’io potessi. –scherzò Steven.

Iniziammo a camminare sulla superficie, che sembrava un enorme deserto senza

fine. Camminammo per molto e iniziammo a essere stanchi. Non avevamo il senso

del tempo e non sapevamo se fosse giorno o notte. Sapevamo solo che faceva caldo e

qualsiasi cosa vedessimo, era rena rossa.

All’improvviso un uomo saltò fuori dalla sabbia con un fucile. Alzammo le mani,

spaventati.

-Chi diavolo sei? – chiese Albert.

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-Marco Welwrs. Siete umani? – Chiese l’essere.

-Certo. Marco! Sono io! Laura e lei è Rosalia. Siamo venuti a cercarti. -.

L’uomo lasciò cadere il fucile e si gettò al collo delle due ragazze. Tolse loro il casco

e riuscirono a respirare. Era contento di averle riviste.

-Ho modificato le sostanze nell’aria, così possiamo respirare. -.

-Perfetto. Uno scienziato pazzo…- disse Albert.

Steven si mise a ridere. Nel frattempo Marco ci accompagnò nella sua tana. Sul

pianeta aveva scoperto esseri viventi socievoli, che adoravano la compagnia. Si era

fatto degli amici in quei cinque anni. Gli portavano cibo e lui ringraziava, lo

trattavano come un re.

Ci presentò alcuni suoi animali che subito si mostrarono molto amichevoli. Erano

lucertoline viola con strisce azzurre, lingua lunga verde che penzolava da un lato,

zampe ricurve verso l’interno e un corpo ricoperto di peli.

-Pensavo fossi morto, dopo la spedizione fallita. –Disse ad un tratto Rosalia che

tratteneva le lacrime dalla felicità.

-Oh no. Gli altri sono morti, mangiati dai feroci animali neri che si trovano in

superficie. Io mi sono rifugiato qua e ho costruito i miei attrezzi e vestiti. Mi faccio

pure la barba. – Disse Marco e tutti si misero a ridere. Era una risata nervosa, di chi

è contento di aver trovato quel che cercava, ma sapeva di non poter tornare

indietro.

-Ho costruito anche una specie di navicella, per sei persone che può sopportare un

viaggio di un anno. Da cinque anni ci ho lavorato con i resti della vecchia navicella.

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Adesso tra pochi giorni sarà pronta. - Tutti aspettavano con ansia una buona notizia

e iniziarono a brindare.

Dopo due giorni sistemarono per bene i pochi possedimenti che Marco aveva nel

retro della navicella e disse addio ai suoi compagni. Poi salimmo a bordo e

partimmo verso casa, dopo la lunga avventura che avevamo fatto.

Dopo sei mesi eravamo quasi arrivati e tutti erano molto contenti. Ad un tratto,

però, qualcosa si abbatté contro la navicella: pioggia di meteoriti.

-Cosa si fa adesso? – chiese preoccupata Rosalia.

-Si schiva. Oh no? – Dissi io sorridendo.

Presi il comando e alzai il motore a velocità massima. Andammo incontro alla

pioggia, ma con bruschi movimenti scansammo tutto.

Ad un tratto, qualcosa attirò la nostra attenzione. Tra i meteoriti, vi era un uomo

morto, decomposto, il volto irriconoscibile, mezzo sbranato. Solo la tuta della NASA

ci diceva che era uno dei compagni di Marco nella vecchia spedizione.

Rimanemmo inorriditi e stupefatti dell’orrore che avevamo visto.

Iniziò lentamente la discesa sulla Terra, dove la gravità cominciò a incombere sui

comandi.

Non riuscivo più a pilotare e la cabina si stava surriscaldando.

-Il MIT? Te lo sei scordato? – Urlai a Marco.

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-Ai miei tempi non esisteva ancora un materiale che al sole si raffredda. Questo è

solo ferro. –aggiunse lui.

-Allora friggeremo! – Gridò spazientito Albert, che non sapeva come riprendere

controllo del veicolo.

La temperatura iniziò ad aumentare spaventosamente, fino a quasi fondere alcune

parti. Precipitammo a tutta velocità.

-Quello è l’oceano Atlantico. Dobbiamo atterrare lì! –Dissi io.

Iniziammo a cambiare la rotta del veicolo quando un luccichio iniziò a provenire

dall’esterno. Erano come brillantini.

-È rimasto tanto tempo su Marte. Per cui un po’ di sabbia avrà fatto strato e con il

calore fa scintille. –Disse Steven.

In brevi istanti ci catapultò fuori dalla navicella surriscaldata, che si tuffò nell’acqua

dell’oceano. Noi cademmo a pochi metri di distanza che ci bastarono per salvarci

dal fuoco e dal fumo.

Eravamo nel bel mezzo dell’acqua e nessuno ci avrebbe mai visti.

-Aumentiamo il fumo! –Ordinai.

Bagnammo le lastre di legno e le buttammo sulle fiamme e ben presto il fumo

diventò scuro, denso.

In lontananza scorsi una nave, piccola: il soccorso marino. Dopo un’ora arrivò e ci

portò in salvo.

La notizia della nostra avventura finì su tutti i giornali. La NASA si complimentò con

noi, ammettendo che pensavano fossimo morti tutti.

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Marco fornì notizie e scoperte sul nuovo pianeta e noi informazioni sui buchi neri.

Era di fondamentale importanza ciò rivelammo agli astronomi.

E così, da quel momento, Rosalia decise di regalare tutti i suoi soldi in ricerche

scientifiche, io mi dedicai alla perlustrazione di luoghi inesplorati, con mio fratello

che credevo di aver perso.

Albert e Steven donarono alcune pietre raccolte per la ricerca, altre le investirono in

progetti di solidarietà.

Non c’è più bel lieto fine!

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MATTEO BALLINI

TUTTO PER ANITA

Affrontare un orso a mani nude non era un’impresa da poco, ma se questa era l’ennesima prova che gli chiedevano per liberare Anita dalle mani di quegli assassini, l’avrebbe fatto. Per lei avrebbe fatto tutto! Sperava solo che ne valesse la pena…

Ah, la mia Anita! Da tre anni ostaggio: non era cosa da poco! Mi avevano chiesto di

compiere orribili azioni per lei, per poterla vedere libera un giorno.

Ormai ero diventato un killer come loro e potevo uccidere anche il mio migliore

amico per quegli assassini e ben altro. Ma un orso?! Proprio non avrei voluto, ma mi

ero rimangiato le parole di fronte alla sofferenza di Anita e quindi ero partito per

l’America alla ricerca dell’orso feroce a cui, i nemici di quei delinquenti, delinquenti

anche loro, avevano impiantato un microchip dorato del valore di 40.000 euro.

A me non interessa sapere a quale scopo glielo volessero rubare, ma avevo fatto

qualche ricerca per non andare incontro alla mia fine inconsapevolmente e avevo

scoperto che quel microchip era in grado di comandare a proprio piacimento

qualsiasi essere vivente e il famoso professor D’Egidio (gilda degli assassini) lo

voleva per clonarlo e dominare il mondo.

Arrivato nel parco di Yellowstone, mi misi in allerta e cercai la grotta dell’orso.

Quando vidi degli occhi rossi spuntare dal buio, corsi subito a nascondermi. Non

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avrei mai pensato che un buco fosse la mia unica via di salvezza. Il cuore emetteva

sempre più battiti e iniziavo a sudare. Con la mano tremolante staccai un piccolo

tronco e mi accucciai dietro un cespuglio.

In quell’istante una creatura a dir poco mostruosa mi travolse e io con tutta la forza

che avevo in corpo la colpii sul muso con il tronco che avevo in mano, ma riuscii

solo a stordirla per mezzo minuto. Mentre era a terra incisi la pelle e sfilai il

microchip, ma questo svegliò l’orso che si rialzò e, barcollante, si stava avvicinando

pian piano. Ricordandomi di avere in tasca un vecchio accendino, mi venne un’idea.

Il fuoco da sempre spaventa gli animali e così incendiai il piccolo cespuglio alle mie

spalle, sperando in questo modo di distrarre l’orso.

L’espediente servì e nel frattempo, dal cielo arrivò una corda. Era attaccata

all’elicottero di coloro che mi avevano ingaggiato. Non erano interessati a salvare

me, quanto piuttosto il microchip.

Visto l’esito della missione, finalmente ritornato alla base, mi riconsegnarono Anita.

Ci siamo abbracciati come se non ci fossimo mai lasciati, come se ci fossimo

innamorati di nuovo. Ora siamo sulla strada del ritorno a casa, ma nella mia mente

molte domande si susseguono. Ci avrebbero finalmente lasciato in pace? Avremo

potuto vivere una vita normale? Mi avrebbero contattato per nuove missioni? E

soprattutto, che ne avrebbe fatto la gilda degli assassini del microchip dorato?

Non volevo spaventare Anita, ma nel cuore avevo la certezza che non era ancora

finita…

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VIOLA BENATTI

L’ANNIVERSARIO

Non gli piaceva il suo volto. Erano ore che viaggiavano insieme nella stessa carrozza dello stesso treno e nemmeno si erano scambiati una parola. Non che volesse conversare, ma almeno un buongiorno o due frasi sul tempo! Invece quell’uomo tutto vestito di nero, pareva assorto nella lettura del suo giornale. Ogni tanto scostava le pagine per pettinarsi i baffi, poi ritornava a leggere. Non mangiava, non beveva, non si separava dalla sua valigetta. Robert si alzò per sgranchirsi le gambe – Vienna era ancora così lontana! – e lo sguardo gli scivolò involontariamente sui pantaloni del suo antipatico compagno di viaggio. L’orlo pareva proprio macchiato di sangue…

Robert strinse la mano ad Anne, sua moglie.

Erano in viaggio per Vienna per il loro anniversario di nozze.

Anne avrebbe avuto il desiderio di andare più lontano, ma Robert, che era una

persona molto tranquilla a tratti pigra, aveva deciso di portare la moglie a Vienna,

un posto vicino senza alcun pericolo. Avevano appena superato Salisburgo, quando

Robert vide il sangue sull’orlo dei pantaloni del vicino e cominciò a sudare.

Iniziò a pensare ai diversi motivi, i più semplici e banali, per cui l’uomo avesse quel

sangue sui pantaloni, inventandosi possibili storie, ma poi la paura prevalse.

Il treno arrivò ad una fermata e si fermò per la sosta. La polizia passeggiava vicino

ai binari e quello strano uomo, guardando fuori dal finestrino, fu preso dal panico, o

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almeno così sembrava a Robert, e in fretta e furia scese dal treno, dimenticandosi

però della sua valigetta nera.

Robert e Anne si guardarono e, senza dire nulla, decisero di prendere la valigetta e

la nascosero sotto le loro giacche.

Dopo poco arrivarono a Vienna, scesero dal treno e si incamminarono per il loro

hotel.

Entrati in camera, si sedettero sul letto con in mano la valigetta. Avevano paura, non

sapevano se fosse o meno il caso di aprirla. Era sicura? Magari avrebbe potuto

contenere una bomba e così se la avessero aperta sarebbe scoppiata!

Si fecero coraggio e la aprirono.

All’interno c’era una chiave vecchia e sporca. Anne la prese in mano e cominciò ad

esaminarla. Vide che sulla chiava c’era inciso un indirizzo: 23 ElisabethstraBe -

Vienna. Subito si chiesero che cosa ci fosse in quella abitazione.

Comunque Anne e Robert non diedero troppa importanza a quella chiave, la misero

in tasca e andarono a dormire, erano molto stanchi da quel pesante viaggio.

La mattina dopo pensarono di andare a consegnare la chiava a quella abitazione.

Si incamminarono e dopo poco arrivarono in una via stretta e malandata, nascosta

da diversi cestini dell’immondizia. L’unica cosa che fece capire loro che fosse il

posto giusto fu un piccolo cartello con scritta la via. Notarono subito il numero 23

perciò lo raggiunsero e suonarono il campanello. Rispose una voce acuta e stridula e

dopo poco dalla porta uscì un vecchietto che disse: “Oggi non c’è nessuno mi spiace,

io sono qui per pulire casa, tornate domani…” subito Anne gli chiese: “Scusi, ci può

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suggerire cosa visitare a Vienna, sa, non siamo di qui”. Il vecchietto consigliò loro di

andare a visitare il museo del tesoro imperiale, dove la coppia si avviò.

Dopo aver fatto il biglietto, entrarono fino ad arrivare alla stanza più nota dove era

custodito il tesoro degli Asburgo. All’interno c’era molta confusione, molti poliziotti

giravano per la sala pieni di agitazione, giornalisti e visitatori stavano intorno alla

teca vuota sbalorditi. Qualcuno aveva rubato il tesoro!

Subito si avvicinarono a dei poliziotti che raccontarono loro di un uomo, purtroppo

visto di striscio mentre scappava per strada con una sacca piena di gioielli.

Sapevano solo che il ladro si era ferito alla gamba con un pezzo di vetro della teca.

Anne e Robert si guardarono e uscirono correndo dal museo e si sedettero in un bar.

Tutti e due avevano intuito la situazione: l’uomo del treno era ferito ad una gamba,

leggeva il giornale con occhi sgranati e sembrava quasi impaurito…era forse

coinvolto nella questione?

L’uomo era il ladro e forse erano in pericolo, forse quella chiave era molto

importante e l’uomo avrebbe cercato di riprenderla. Dovevano trovare la polizia!

Erano spaventati, confusi e impauriti e ad un certo punto si accorsero di essere

seguiti. Cosi iniziarono a correre fino a quando arrivarono in un parco chiamato

Prater, dove cercarono di confondersi tra la gente, ma il ladro non li perdeva di

vista. Si avviarono per il lungo viale chiuso al traffico dove si ritrovavano i turisti,

ma niente, l’uomo aveva gli occhi puntati su di loro.

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Avevano male alle gambe, non avevano mai avuto così paura. Entrarono nel

planetario, pensando di averlo seminato e si nascosero dietro una famiglia senza

fare rumore.

Sospirarono, pensando di essere salvi ma poi videro che l’uomo era dietro di loro

così Robert si fece coraggio, staccò l’estintore dal muro e lo diede in testa all’uomo

che cadde a terra per la botta. La coppia riprese a correre, ma per loro sfortuna il

ladro si alzò di scatto e riprese l’inseguimento.

I due entrarono nel negozio più vicino, una pasticceria. Andarono subito dietro al

bancone, cercando di nascondersi dietro all’espositore delle sacher, ma non serviva

a molto, quindi aggirarono il bancone e ripresero a correre.

Erano sfiniti, corsero in strada e videro un taxi libero, così lo presero e dopo poco

videro che dietro di loro, su un altro taxi c’era l’uomo.

Chiamarono la polizia spiegando tutto. Fu detto loro di arrivare ad un bar del centro

dove sarebbero stati raggiunti da un gruppo armato, così scesero e corsero verso il

bar. Ovviamente anche l’uomo li rincorse fino a quando loro entrarono e la polizia

prese il ladro e gli mise le manette. La chiave apriva la cassaforte dove erano stati

nascosti i gioielli della casa imperiale.

Anne e Robert tornarono in albergo, ora il loro viaggio di anniversario poteva

iniziare.

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LUDOVICO BRESCIANI

LA BOMBA

Tutto ebbe inizio in uno dei più classici mattini d’inverno. Il caldo estivo era per lo più andato, ma il vero freddo ancora stentava ad arrivare. C’era un venticello fresco, piacevole, che sfiorava il mio giovane volto ed accompagnava il mio camminare verso una nuova scuola, verso una nuova esperienza…

"Come saranno i compagni? come saranno i professori? E come sarà il programma

scolastico? Difficile?" Continuavo a fare domande tra me e me senza alcuna risposta

e intanto il tempo passava e l’inferriata della scuola si avvicinava. La cartella

sembrava molto più pesante del solito e io stesso mi sentivo un blocco di cemento:

impacciato e paralizzato. Il freddo e la pioggia non aiutavano di certo a farmi

sentire sicuro. Eccomi: ero arrivato al grande cancello arrugginito della scuola. La

maggior parte dell'edificio era per lo più sciupato. Non conosceva nessuno e

nessuno conosceva me.

Quando i miei mi avevano detto che avrei dovuto cambiare scuola, ho subito

pensato che mi sarei fatto una nuova immagine, una nuova reputazione.

Mi guardavo attorno e facevo finta di sapere dove stessi andando, ma non avevo la

minima idea di dove fosse la mia classe e la mia nuova aula. Sapevo solo che ero

stato assegnato alla 2° I, quindi ho chiesto alla prima persona che mi era sembrata

affidabile dove fosse la mia aula e mi ha indicato la direzione. Ho così salito i

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quattro piani di scale prima di arrivare alla porta con scritto il nome della mia

classe. Ma dentro non c’era nessuno. Le pareti sembravano fatte di cartongesso e la

vernice profumava come se fosse stata appena stesa. Pensai: “Avrò sbagliato classe.

Ma sembrava questa...”. Percepivo un lungo senso di disorientamento, poi sono

ritornato in me. Ho lasciato lo zaino in quell'aula, dove non c'erano né carte

geografiche né cartelloni appesi alle pareti. Dovevano averla appena ristrutturata.

Sentivo un leggero brusio dal piano di sotto, così sono corso giù dalle scale per

vedere se ci fosse qualcuno… ma niente. Ho attraversato il lungo e unico corridoio.

Tutte le porte delle aule erano chiuse. Quanto avrei voluto sentire un rumore, anche

fastidioso!

Io sono un tipo tranquillo: volevo soltanto fare questa maledetta lezione e

tornarmene a casa. Non volevo perdermi il primo giorno di scuola, ma ormai il

guaio era fatto, dovevo cavarmela da solo. Il preside avrebbe dovuto accogliermi in

aula, ma non lo avrei visto.

Ecco! Che sollievo: un rumore! Continuavo a sentire un BIP-BIP... non avevo la

minima idea di cosa fosse. Seguendo il rumore, sono giunto ad uno stanzino. Ho

aperto la porta e trovato una scatoletta sotto dei panni. L’ho presa in mano e letto sul

display: 4,09 secondi. All'improvviso tutto mi era più chiaro, quella era una bomba,

e il preside era dentro la scuola. Dovevo trovarlo. “Signor preside!” ho urlato. Dopo

l'ennesimo tentativo una voce ha urlato: “Sono qui”. Appena l’ho visto, gli ho subito

detto tutto quello che avevo visto e alla fine lui mi ha risposto: “Ragazzino torna in

classe”. Non mi aspettavo che mi credesse, ma non potevo lasciarlo lì a morire.

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“Allora inseguimi, io me ne vado”. “Tu non vai da nessuna parte, resti qui, non puoi

uscire da quel cancello!” e con questa scusa l’ho portato all'uscita. Lì abbiamo ho

detto: “Mi scusi Signor Presidente, non succederà mai più. Ma nello sgabuzzino c'è

una bomba!” continuavo, ma lui rispondeva “Non sta a dire fesserie! E perché non

c'era nessuno? Eravamo tutti al corso della sicurezza!” Mi sono sentito un idiota.

“Hai trovato la bomba nello sgabuzzino vero?” “Sì” “Ahahaha! Quella era posta lì per

simulare un potenziale pericolo. Era una bomba giocattolo!”. Così mi ha

accompagnato in aula, dove al ritorno dal corso, tutti i miei nuovi compagni stavano

facendo lezioni. Che dire? Quella scuola era proprio una bomba!

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NICOLE COMERLATI

IL FIUTO DI LOLA

“Lola, che mi hai portato ora? Dovevi solo restituire il legnetto che ti avevo lanciato!” Ecco, non sarebbe mai riuscito ad addestrare quel cane e i suoi lo avrebbero di nuovo rimproverato di averlo portato a casa! Con quei suoi occhi liquidi e la coda scodinzolante, Lola depose ai piedi di John un sacchetto tutto sporco di fango…con al suo interno venti purissimi diamanti! John pensò subito…

…Che non fossero veri diamanti e che qualcuno li avesse persi. Era tentato a

lasciarli dove li aveva trovati, ma il colore di quelle gemme così belle gli piaceva così

tanto che decise di prenderle, unirle alla sua collezione che aveva a casa. John

amava le pietre preziose e gli piaceva in particolar modo studiare la loro

provenienza e la loro autenticità. Poteva definirsi un esperto insomma. Tornato a

casa, salì in camera di nascosto. Era solo. Era la casa di suo padre, i suoi erano

separati e lui al momento non c’era. Anzi a breve sarebbe partito per gli Stati Uniti

grazie al suo lavoro di rappresentante di cosmetici femminili. Un lavoro vergognoso

per John, sebbene lui andasse comunque fiero di suo padre. John diede da mangiare

a Lola, poi si stese sul letto, prese le pietre e con il suo kit iniziò ad osservarle.

Rattristato noto subito che tredici pietre erano false, semplice vetro. Ma rimase

stupito dalle altre sette che invece fossero vere come non mai e il loro valore sarebbe

stato molto alto. Il colore, il grado di purezza, il taglio erano perfetti. John decise di

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non dire nulla a nessuno e proprio in quell'istante sentì la porta di casa sbattersi.

Nascose in fretta le pietre fra i libri nello scaffale, scese le scale e sentì la voce del

padre dire: “Sono tornato dal supermercato! John ho una bellissima notizia per te!”

“Di che si tratta?” “Ho parlato con i miei capi e hanno detto che posso portarti con

me in viaggio di lavoro come apprendista e, se avrai la stoffa del venditore, ti

assumeranno!” John, diciannovenne disoccupato, felicissimo andò subito in camera

a preparare le valigie anche se sarebbero partiti dopo sette giorni. Ovviamente Lola

doveva andare con loro altrimenti non se ne sarebbe fatto nulla.

Avevano appena iniziato a preparare i bagagli, quando la porta di casa fu trivellata

di colpi. John capì subito che quei diamanti gli avrebbero portato solo guai.

Velocemente si rivolse al padre, dicendo: “Prometto che ti spiegherò tutto più tardi,

ora dobbiamo scappare! Non so che stia succedendo, so solo che dobbiamo fuggire!”

Prese le pietre, uscirono dalla porta sul retro, con Lola alle calcagna. E finirono dritti

nelle braccia di agenti in divisa! Un elicottero stava atterrando sul prato e una

donna, urlando, disse: “Venite sull'elicottero, quelli vi vogliono ammazzare, sanno

che avete i sette diamanti, come del resto noi, ma noi vogliamo salvarvi”. Rimasero

basiti. Ma dopo qualche istante si ripresero, John prese Lola in braccio e salirono

sull'elicottero. Stranamente il cane era obbediente e attento, forse era fatto per le

emergenze?

Il padre chiese: “Cos'è tutta questa storia?”, ma il figlio non riuscì a spiegare perché

in poco tempo scesero in un grande magazzino all’apparenza abbandonato, ma

all'interno completamente attrezzato. Si sedettero ad un tavolo e la donna disse:

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“Sono Lucy, un agente dell’interpol. Quelli che avete in mano sono i diamanti della

corona inglese. Stavamo inseguendo i ladri, ma li abbiamo persi e probabilmente

hanno pensato di diversi e nascondere la refurtiva. Abbiamo cercato ovunque, ma

non siamo riusciti a trovare i diamanti. Come ci siete riusciti voi? Dateli a noi. Ora

siete sotto la nostra protezione, non vi faranno mai del male fino a che sarete qui”.

John trasse un sospiro di sollievo. E brava Lola, un fiuto da vero segugio!

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GIULIA CORAZZA

L’EVASIONE

A forza di scavare, le sue unghie si erano tutte consumate, ma finalmente riusciva a scorgere una piccola apertura alla fine di quel tunnel. Anni di sofferenza forse avrebbero dato i frutti desiderati…

Quando riuscì ad uscire erano circa le 00.50 e ciò significava che doveva agire il

più in fretta possibile. All’una infatti ci sarebbe stato il cambio di guardia e lo

avrebbero scoperto subito.

Prese la moto del commissario e partì. Il tempo non era dei migliori: pioveva a

dirotto e ogni tanto qualche fulmine cadeva nei paraggi, ma questo lo rendeva meno

visibile e perciò la tempesta facilitò la sua fuga.

Dopo qualche decina di chilometri si fermò, la moto aveva terminato la benzina,

così la lasciò e continuò a piedi. Dopo poco si accorse che qualcuno lo stava

seguendo. Si fermò di colpo e l’inseguitore, che era un ragazzino vestito di stracci,

gli toccò la spalla. Si fissarono per qualche secondo e poi il ragazzino si presentò.

“Ciao, io sono Aron, ma puoi pure chiamarmi Ron. Tu chi sei?”

Prima di rispondere squadrò il ragazzo dalla testa ai piedi. Era alto poco più di un

metro e mezzo e aveva i capelli biondo scuro che gli cadevano sopra i grandi occhi

azzurri.

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“Io sono Jack e non voglio avere nulla a che fare con te. Piuttosto, cosa ci fa un

bambino così piccolo in giro per il bosco a quest’ora di notte?”

“Veramente ho quasi tredici anni e poi non ho nessuno. Tutti morti.”

“Mi dispiace per te ragazzo, ma ora io devo andare.” Disse l’uomo voltandosi.

“No! Aspetta! Portami con te. Sono abbastanza intelligente e poi nessuno penserà

che sei un pericoloso evaso se hai un bambino con te.”

“Cosa? Come fai a sapere che sono pericoloso? Beh, fa lo stesso. Muoviti, andiamo.”

Camminarono fino all’alba senza parlarsi verso Londra. Lì Jack avrebbe cambiato

nome e si sarebbe rifatto una vita nuova. A pochi chilometri dalla città si fermò

vicino ad un benzinaio. Il bar della stazione di rifornimento era aperto e loro

avevano fame. Sul tavolo c’era il quotidiano del giorno.

“FUGGITO DALLA PRIGIONE PERICOLOSO ASSASINO” era il titolo in prima pagina.

Appena lo lesse l’uomo si paralizzò. Sotto il titolo c’era un articolo che descriveva la

sua evasione e diceva pure che una guardia l’aveva visto dirigersi verso la capitale.

Prese Ron per il braccio e uscì di corsa dal distributore senza nemmeno pagare.

Trascorsero la giornata ad evitare la polizia e si fermarono davanti a un palazzo

abbandonato. Aron dovette rimanere fuori e lui entrò. Salì due rampe di scale e si

trovò davanti ad una porta. Bussò cinque volte con un ritmo ben scandito.

All’interno di quella stanza un uomo sulla sessantina lo aspettava con due bicchieri

di vino in mano. Si accomodarono e iniziarono a parlare del suo viaggio. Poi l’altro

prese una cartina di Londra e iniziò a spiegare all’amico che se avesse seguito il

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percorso blu sarebbe facilmente arrivato a un luogo sicuro doveva avrebbe potuto

nascondersi. Si salutarono e Jack se ne andò.

Scendendo le scale diede un’occhiata alla mappa e decise che avrebbe potuto fidarsi.

Appena lo vide, Ron gli fece mille domande come “Dove andiamo? Cosa c’era lì

dentro? Che è quella?”, ma non ricevette nessuna risposta. Era un tipo silenzioso.

D’altronde era stato rinchiuso in una cella per una decina di anni senza nemmeno

un compagno di stanza.

Stavano camminando da un’ora, quando un giovane poliziotto in divisa li fermò per

effettuare un controllo e gli chiese un documento di identità. Siccome lui ne era

sprovvisto il gendarme prese il cellulare per chiamare in centrale, ma non fece

nemmeno in tempo a prenderlo che Jack gli sferrò un pugno in faccia, seguito da un

calcio nello stomaco che fece cadere a terra il povero malcapitato. Poi partì in

quarta verso il rifugio suggeritogli che alla fine era una vecchia casa fatiscente.

Appena entrò però una pattuglia lo aspettava. Quel vecchio lo aveva imbrogliato!

Cercò allora di scappare, ma due uomini si misero davanti alla porta bloccando

l’uscita. Altri tre uomini invece lo tenevano fermo mentre il quarto lo ammanettava.

Jack cercò di lottare, ma in un batter d’occhio si trovò nell’auto della polizia. Venne

riportato in prigione e senza nemmeno un processo gli vennero assegnati altri

vent’anni di carcere. Ron invece fu portato in un orfanotrofio e dopo qualche

settimana fu adottato da una famiglia scozzese. In questo modo la sospirata libertà

per Jack svanì. Ma se il suo corpo era di nuovo prigioniero di quella piccola cella, la

sua mente era già libera di pensare a nuovi piani di evasione.

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IACOPO CORRADI

IL RELITTO

Era la prima volta che una donna italiana partecipava ad una missione così importante, prima era considerata solo “cosa da uomini”. Ora Rachele si sentiva un carico pesante da portare: se avesse fallito, avrebbero detto che il suo era veramente il “sesso debole”! Indossata muta, guanti, bombola di ossigeno, controllato l’erogatore, era pronta per immergersi: un relitto da tutto da esplorare la attendeva.

Si tuffò e cominciò ad esaminare le vicinanze, l’acqua era abbastanza calda e di

colore blu chiaro. Si ritrovò in mezzo ad una moltitudine di pesci di mille colori, di

tutte le dimensioni piccole, medie, grandi, giganti. Ricominciò a nuotare però vide

soltanto acqua, acqua e ancora acqua. Ad un certo punto notò spuntare un piccolo

corallo, dopo un altro e un altro ancora e infine capì che aveva di fronte la

meraviglia del mondo marino: la barriera corallina. Non avrebbe mai immaginato

di trovarsela davanti ai suoi occhi. Era meravigliosa con tutte le sfumature

dell’arcobaleno e anche di più, coralli spugnosi e duri, alti e bassi, colori caldi e

freddi e pesci magnifici, simili a quelli incontrati prima, le giravano attorno.

Ricominciò a nuotare e verso la fine della barriera, trovò il relitto di cui tutti

parlavano, il vascello del circumnavigatore del globo: Ferdinando Magellano. Si

avvicinò, ma c’era un piccolo problema una metà della nave poggiava sulla roccia,

l’altra metà su un abisso. Girò intorno alla nave cercando un’entrata e alla fine la

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trovò. Entrò e perlustrò un po’ la nave, ma ad un certo punto vide uno... squalo che

stava cercando cibo. Lei cercò di allontanarsi, ma appena mise il piede su un asse di

legno si ruppe, attirando l’attenzione del pesce.

Cominciò a nuotare all’impazzata, inseguita dallo squalo. Rachele vide un oblò

ancora intatto e pensò che sarebbe riuscita a passarci dentro. Lo squalo l’avrebbe

seguita e si sarebbe incastrato. Continuò a nuotare e infine si infilò nell’oblò. Lo

squalo si bloccò. Con il botto la nave venne spinta ancora più in là verso il

precipizio con all’interno lo squalo.

La ragazza vide che l’ossigeno stava per finire, cercò di sbrigarsi ad analizzare una

parte del relitto. Tornata in superficie raccontò tutto per filo e per segno ai suoi

compagni di viaggio.

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FRANCESCA D’ANGELO

NEW YORK -PARIGI

“Era sempre quello che aveva desiderato” pensò Eveline guardando dalla finestra le case grigie del suo sobborgo. Con la mano strinse nella tasca del grembiule il suo biglietto per New York, la libertà. Nessuno doveva saperlo, ma lei domani se ne sarebbe andata e sicuramente non si sarebbe guardata indietro.

Forse gli incubi che aveva ogni sera fin da quando era piccola sarebbero spariti.

Quella notte non dormì per la sensazione di libertà che le faceva credere che nella

città dei sogni sarebbe tutto finito. Adesso, cari lettori, vi farete una domanda

“Perché questo desiderio di scappare?” Ebbene i motivi sono molti.

All’età di sei anni sua madre stava per morire di cancro e le rivelò un segreto. Era

imparentata con la corona, nobile di nascita, ma illegittima. Il suo vero padre aveva

un’altra famiglia e la madre era morta quando l’aveva data alla luce. I suoi genitori

l’avevano accolta in casa appena nata e allevata come una figlia, proteggendola

perché molti cospiravano per vederla morta. I suoi fratellastri, soprattutto. Aveva

diritto ad una notevole eredità e i soldi attirano solo guai.

Era una cosa per cui Eveline ora era costretta a fuggire. La mattina dopo alle dieci si

imbarcò sull’aereo con il suo fidato cane Speedy, un piccolo batuffolo di pelo bianco

con due occhi che sembravano liquirizia. Seduta vicino al finestrino, guardava fuori

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finché una voce la distolse dal suo sogno di libertà: “Posso sedermi?” Eveline vide un

ragazzo con grandi occhi marroni e i capelli biondi. “Sì, ma certo!” Il ragazzo

appena seduto, si presentò: “Mi chiamo Darrell Gray e tu sei?” Eveline lo guardo per

un po’ e nella mente si ripeteva " Mi fido o no, cosa faccio?" Alla fine si decise e a

bassa voce disse: “Eveline... Eveline Stewart. Anche tu in volo per New York per…?”

Darrell raccontò che a New York suo zio gli aveva trovato un lavoro e una casa e

che in quella città si viveva meglio e le fece la stessa domanda. Lei secca rispose che

erano motivi personali. Non aveva il coraggio di dirlo, come il solo pronunciarlo

avrebbe portato a qualcosa di brutto. Non si parlarono più finché l’hostess disse

"Siamo arrivati a New York, grazie di aver viaggiato con noi".

Dopo mezzora Eveline si trovò davanti alla sua nuova casa, un grande palazzo e

stava per entrare quando: “Anche tu qui?” Sentì chiedersi. Era Darrell ed Eveline gli

sorrise. “Tu abiti qui?” “Sì, al decimo piano” “Il mio stesso piano”. Salirono insieme,

poi si salutarono e entrarono ognuno nel suo appartamento.

Il giorno dopo alle nove del mattino spaccate, sentì bussare alla suo porta,

velocemente si infilò un vestito tutto rosso e delle decolté nere e andò ad aprire.

Era Darrell che le chiese: “Vuoi venire a fare colazione con me?” Di nuovo quella

sensazione di potersi fidare di lui, anche se tutte quelle coincidenze suonavano

strane. “Certo! Un attimo che metto il collare al mio cane e arrivo subito”. Si

sedettero al tavolino di un bar, dove parlarono e parlarono. Ad un certo punto

Darrel le chiese: “Vuoi venire con me a visitare la Statua della Libertà?” Lei annui.

Mezzora dopo si trovarono in cima ad ammirare il panorama, quando lui disse: “Sai

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mantenere un segreto? Sono qui per lavoro, sono un investigatore e sto cercando

una ragazza che vale un mucchio di soldi”. Ad Eveline si spezzò il cuore, disse che

doveva andare via e incominciò a correre. Darrell era una persona da evitare. Dopo

una grande corsa si trovo contro il muro e Darrell davanti che le chiese: “Sei tu,

vero, la ragazza che dovrei cercare e consegnare?” Eveline piangeva. Si lasciò

prendere: era stanca di scappare.

Si diressero all’aeroporto, il guinzaglio di Speedy stretto in una mano.

Quando pensava fosse finita, all’ultimo momento Darrell le allungò un biglietto.

“Prendilo. È la tua salvezza: un aereo per Parigi. Dirò che ti ho cercato, ma che ho

fallito, che si riesce a trovarti. Fammi un favore, domani vai a visitare la Torre Eiffel.

Addio e vivi felice”

Eveline guardò dal basso all’alto la Torre Eiffel, quando si sentì dire: “Sei tu Eveline

Stewart? Io sono Ella Gray, la sorella maggiore di Darrell.” Non sapeva che fare, era

una nuova trappola? “Vieni con me, avrai fame”. Ella portò lei e Speedy in un buon

ristornante, dove palarono un po’. Eveline decise di stabilirsi in una pensioncina non

lontano dalla casa di Ella, in attesa di sapere cosa avrebbe fatto della sua vita.

Un mese dopo sentì qualcuno bussare alla sua porta. “Vuoi venire a fare colazione

con me?” era la voce di Darrell. Era tornato. “Non vedevo l’ora di rivederti, ma ho

impiegato più di un mese per seminare i miei capi e non destare sospetti”. Eveline

sorrise, forse dopo tanto girovagare e nascondersi avrebbe avuto anche lei una vita

felice.

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CATERINA DE’MANZONI

IL CECHIO

“Entro…no, non entro … anzi entro” Peter non era uno stupido, era ben consapevole che in pochi attimi tutta la sua vita sarebbe cambiata, così prese un lungo respiro, chiuse un attimo gli occhi, poi li aprì e con coraggio spalancò la porta…

Era stato convocato dal Capo, nessuno sapeva bene come si chiamasse, lì nel

Cerchio, ma tutti sapevano che se si era convocati non era per farsi lodare o ricevere

cibo extra. Peter nella Casa non era mai entrato, quindi non sapeva cosa aspettarsi.

Il Capo però lo aveva visto un paio di volte. Era alto e magro, la pelle olivastra e i

capelli unti che gli cadevano in fronte. Aveva un’aria minacciosa e, che Peter

sapesse, nessuno lo aveva mai visto sorridere. Poteva avere vent’anni, ma ne

dimostrava molti di più. Qui al Cerchio era il più vecchio.

Stava chino su una scrivania piena zeppa di carte. Nel locale regnava una puzza di

letame pestilenziale. Peter rimase in piedi per lunghi secondi, poi parlò: “Avete

chiesto di me, Capo?” La tensione era palpabile. Molto lentamente il Capo alzò la

testa e guardò dritto negli occhi Peter, che stava tremando dalla paura. “Sì” Peter

abbassò gli occhi: “Sta succedendo qualcosa di strano, lo hai notato anche tu, vero?”

In effetti Peter, anche se era nel Cerchio solo da due settimane, aveva notato che gli

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alberi intorno ad esso cominciavano a morire, lentamente. Il Cerchio era una

radura, circondata da una foresta fitta, da cui di notte provenivano rumori bestiali

inquietanti. Le regole erano severissime: ‘non si può uscire dal Cerchio, e se ci provi

verrai ucciso da noi stessi’. Il posto era grande e dentro vivevano più o meno una

cinquantina di persone. Esistevano vari incarichi: agricoltore, allevatore, scavatore e

beccamorto. Nessuno però tagliava gli alberi: non c’era mai tanto freddo da

accendere il fuoco e non vi erano creature pericolose, almeno finché gli alberi non

fossero caduti. “Ho visto come sei piccolo, agile, veloce...Insomma hai stoffa Ciccio!”

A Peter si dipinse sulla faccia un sorrisetto, ma poi aggrottò le sopracciglia: “Non è

per questo che mi avete convocato, vero Capo?” “No” il Capo sospirò: “È perché

qualcuno sta cercando di ucciderci e io credo che dovresti essere tu quello da

mandare in esplorazione.” Peter rise, credendo fosse uno scherzo, ma poi si rese

conto che il Capo non scherzava e sgranò gli occhi. “Partirai stasera stessa, non

voglio mettere in allarme il Cerchio” Quando si ritrovò spalla contro spalla con

Peter, gli passò un coltellino da dietro la schiena “Non si sa mai” e un sorrisetto si

dipinse sulla sua faccia. Peter aspettò un attimo prima che il Capo se ne andasse e

poi uscì anche lui.

Preparò subito le sue cose, anche se non erano molte, e partì appena gli ultimi raggi

arancioni del tramonto non calarono. Arrivò al limitare del cerchio, prese un bel

respiro, ma non si voltò. Sarebbe tornato indietro di sicuro. Cominciò così il suo

viaggio verso l’ignoto.

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Era buio il bosco e ogni tanto si sentivano latrati spaventosi o ruggiti lontani. Peter

camminò per tutta la notte, finché dalle fessure che creavano le foglie, non scorse

una pallida luce che illuminava il cielo. Si sedette su una roccia a mangiare ciò che

aveva portato con sé. Appena finito il pasto scorse un movimento appena

percettibile con la code dell’occhio. Credendo fosse solo un’innocua lucertola,

riprese il suo viaggio. Ma intravide un altro movimento, stavolta più rapido e dritto

davanti a lui. “Chi va là?!” Disse a voce piuttosto alta. Aveva paura, ma la paura non

gli offuscava la vista, anzi, lo rendeva più lucido. Si abbassò rapidamente, prese un

sasso e lo scagliò sul tronco dell’albero dove, secondo Peter, si sarebbe nascosto il

suo inseguitore. Infatti il ragazzo si mosse e si nascose dietro ad un altro albero che

Peter aveva memorizzato. Si avvicino cauto all’albero, cercando di non farsi

scoprire, ma ad un certo punto...CRAC! Un ramoscello spezzato, uno stupido

rumorino aveva rovinato tutto! In men che non si dica venne accerchiato da cinque

ragazzini che avranno avuto più o meno la sua età. Senza fare domande o fiatare lo

assalirono, lo bendarono e lo fecero continuare a camminare con delle pistole

puntate sulla schiena.

Peter non sapeva dove lo stessero portando, ma che fosse dritto in bocca ai nemici

ne era sicuro.

Appena arrivati a destinazione, o almeno così credeva Peter visto che si erano

fermati e un ragazzo stava confabulando con un altro in codice, lo misero in cella e

gli tolsero le bende. Peter non perse la calma, sapeva che sarebbe stato inutile, anzi,

probabilmente gli avrebbero iniettato qualcosa che lo avrebbe stordito e allora

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avrebbe perso le speranze. Gli portarono il cibo (se così si poteva chiamare).

Dopodiché vide arrivare un personaggio alto, magro, carnagione olivastra e capelli

a spazzola neri e luccicanti. A Peter ricordò subito il Capo. “Ciao Peter” come faceva

a saper il suo nome?! “Sono il Comandante, il fratello del Capo” Peter disse subito:

“Come fate a conoscere il mio nome?!” “Una cosa alla volta piccoletto” A Peter dava

sulle furie sentirsi chiamare “piccoletto” “Vedi, tanto tempo fa facevo parte anch’io

del Cerchio, solo che sono molto più intelligente di voi idioti” –Modesto- borbottò

tra sé Peter. “Cosa hai detto piccolo insolente?!” “Niente, continui pure la sua storia”

“Dicevo che ero così intelligente che volevo sapere cosa ci fosse al di fuori del

Cerchio, ma le stupide regole non me lo permettevano, così un giorno ci andai da

solo, ma mio fratello mi scoprì e decise di esiliarmi. Ero troppo caro per lui per

potermi uccidere. Così arrivai qua, fondai un mio cerchio e inventai un siero che fa

morire gli alberi, cosicché voi rimarrete senza difesa e morirete uccisi dalle bestie!”

Peter era senza parole, non poteva capire come quest’uomo provasse tanto odio

verso loro. “Non mi ha ancora detto come fai a conoscere il mio nome.” “Ho delle

spie al Cerchio e ho sentito la conversazione tra te e mio fratello” “Cosa mi volete

fare adesso?” domandò Peter “Vorremmo piegarti al nostro volere cosicché

diventerai dei nostri. Sei molto in gamba Peter” E se ne andò lentamente. Peter pensò

in fretta a un modo per scappare, ormai era pomeriggio inoltrato. Poi, come un

fulmine gli venne in mente il coltellino donatogli dal Capo. Lo estrasse dalla tasca e

si mise ad esplorare ogni minima imperfezione sui muri delle celle. Esaminatole a

lungo, scoprì una leggera sporgenza e con l’aiuto del coltellino, scavò un solco

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abbastanza grande, fece leva e aprì un varco tale da potersi infilare dentro le mani

per poter togliere la pietra dal muro e creare così un buco che portasse dritto sul

cortile. “Quanto sono scemi!” Pensò Peter, mentre passava attraverso il muro.

Purtroppo, appena toccò terra, scattò un allarme che fece correre tutti in cortile, ma

Peter stava già correndo verso il bosco. Il Comandante però fu abbastanza veloce da

raggiungerlo, era alle calcagna di Peter quando, d’un tratto, inciampò su una radice

che sembrava essere comparsa dal nulla. Si ritrovò così a gattonare verso un sasso,

ma il Comandante lo aveva raggiunto. Peter, ormai allo stremo delle forze, cadde a

faccia in giù e il terreno gli graffio le guance. Si girò a pancia in su e vide il

Comandante che lo guardava come fosse una preda. “Bene bene, guarda chi

abbiamo qui...” Ansimava e il suo alito puzzava di ratto morto. Poi però Peter scorse

una peluria folta e marrone dietro al Comandante. Un orso gigante si erse sulle

zampe e con un possente bramito saltò addosso al Comandante, che preso alla

sprovvista morì sbranato dall’orso. Peter però riuscì a scappare prima che la

mandibola dell’orso si serrasse su di lui. Si procurò solo un graffio. Torno al Cerchio.

E dichiarò a tutti che il pericolo era finalmente scampato e che potevano vivere

tranquilli e in armonia.

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FILIPPO FERRANTE

GUARDIA MEDICA

Orami lo avevo visto: steso per strada, immobile e freddo come un morto! Non potevo far finta di nulla, per cui mi ero avvicinato e gli avevo scostato i capelli dal volto. Dalle labbra blu era uscito un unico flebile suono: “aiutami”. Mi guardai intorno, nessuno. Sollevai la mano per estrarre il cellulare dalla tasca, ma le mie dita erano sporche di sangue…

E pensai che se avessi chiamato una pattuglia di

polizia o l'ambulanza, si sarebbero insospettiti di me, perché non

c'era nessuno che testimoniasse che non ero stato io ad ucciderlo.

Ad un certo punto avevo sentito scrosciare dell'acqua, per fortuna non

era un miraggio, quindi mi incamminai verso il ruscello.

Quando arrivai mi lavai subito faccia e mani impregnate di sangue, poi mi

incamminai alla ricerca di un ospedale o di un medico. In

lontananza avevo visto una specie di baita e corsi subito a cercare

aiuto. Arrivai ad un grande portone con scritto “Guardia medica": ero

felicissimo perché sapevo che avrei potuto salvare la vita ad una

persona. Bussai e ribussai per ben cinque volte, ma non mi rispose

nessuno. Dopo tre minuti mi aprì un vecchio signore anziano e io gli

dissi: “Per favore cerco aiuto, in fondo a questa strada c’è un ragazzo

di circa trent’anni che perde sangue dalla testa. Mi può aiutare?”

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Lui mi rispose: “Stia tranquillo io sono un medico e quindi l'aiuterò io”.

Allora gli indicai la strada, arrivati il paziente era peggiorato.

Il dottore mi disse: “Adesso si allontani che ora ci penso io, anzi nel frattempo

chiami un ambulanza il più presto possibile”. La chiamai e mi dissero

che sarebbero arrivati in un lampo. Dopo dieci minuti, che sembrarono

un’eternità, arrivarono e ci fecero i complimenti per il lavoro svolto

di primo intervento e il coraggio nell'assistere una persona in

pericolo di vita.

“Grazie anche a lei dottore complimenti per la sua

professionalità”.

Dopo due settimane il paziente mi venne a trovare a

casa mia. Era guarito da un grosso trauma alla testa e mi diede un

mazzo di fiori, continuandomi a ringraziare per avergli salvato la

vita. Prima di andare a letto ringraziai il Signore per avermi dato la

forza di aver salvato una persona.

Grazie al mio coraggio ero

diventato più disponibile verso gli altri.

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NICOLA GIAROLA

IL MALLOPPO

Ormai era finita! Erano giorni che lo stavano braccando e lui era stanco di scappare. Adesso voleva solo dormire in quel fienile sperduto in mezzo alla prateria. Domani avrebbe visto il da farsi…

Non poteva permettere che trovassero il sacco con il denaro che aveva rubato suo

fratello durante la sua ultima rapina. Gli aveva promesso che per nulla al mondo

avrebbe permesso che la banda di furfanti arrivasse al malloppo.

Quando fece per addormentarsi sentì un rumore provenire dall’esterno. Si alzò di

scatto, estrasse la pistola e uscì a vedere cosa succedeva. Non riuscì neanche a uscire

che un proiettile gli trafisse il braccio sinistro, subito tutto insanguinato. Corse con

le poche forze che gli rimanevano per sfuggire da quell’uomo che lo aveva ferito. Si

andò a nascondere dietro a un palo di legno con la fronte tutta sudata. Sparò

cercando di colpire almeno la gamba dell’uomo. Scaricò quasi tutti i proiettili. Ad

un certo punto guardò quanti proiettili avesse ancora a disposizione e a quella vista

si disperò. Aveva solo un colpo nell’arma. Si asciugò la fronte, mise fuori la testa e

sparò.

Colpì proprio l’uomo in fronte, che emise un profondo “Tupf”. Era morto. Era felice,

anche se sapeva che c’erano altri quattro uomini che non si sarebbero arresi per

alcun motivo. Per bloccare gli altri bracconieri decise di costruire una trappola.

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Legò il suo fucile ad una corda: al minimo tocco del filo, un proiettile avrebbe

colpito qualcuno. Il più giovane della banda dei furfanti con il cavallo spezzò il filo

erroneamente e un piombino lo colpì al petto. Visto il successo della prima trappola

decise di seminare trappole per tutto il tragitto. Per strada trovo una rete per uccelli:

uno era privo di vita al suo interno. Il ragazzo allora ne approfittò per prenderla e

per utilizzarla in un’altra delle sue trappole. Una la appese su un albero, così li

avrebbe ingannati colpendoli dall’alto.

Uno dei meschini cercando cibo da mangiare, sparò ad un uccello appollaiato

colpendo il ramo e facendo cadere la rete spinosa, che atterrò sul volto dell’uomo

catturandolo. Una spina gli si conficcò nel collo e rimase immobile pieno di sangue.

Dopo giorni di fatica giunse nella grotta in cui suo fratello aveva nascosto il bottino.

Prese pala e piccone e si mise a scavare. Proprio in quel momento sentì delle voci

provenire dall’ingresso. Allora si nascose dietro a una roccia con la pistola in mano,

carica, pronta a fare fuoco.

Erano rimasti solo in due contro uno che era veramente ben nascosto con il sudore

che gli colava da ogni lato della fronte. Sapeva che non poteva più scappare: era

arrivata la resa dei conti. Quando il nemico lo vide grazie alla sua ombra e sparò un

colpo, il ragazzo uscì e sparò colpendo la spalla di uno dei briganti, che morì perché

in realtà, cadendo, era stato colpito colpito da un sasso sulla nuca. Il ragazzo fece

per sparare al nemico, che a sua volta rispose e gli colpì l’arma spedendogliela a

terra. Il furfante allora uscì allo scoperto e puntò la pistola in fronte al giovane, che

prese un pugnale e lo conficcò nel ventre dell’avversari.

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Era finita! Così corse a prendere il malloppo e con quello riscattò il corpo del

fratello dallo sceriffo.

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CATERINA MENEGATTI

LA VALANGA

Come aveva fatto a questo punto della sua vita a ritrovarsi in questa situazione! Un uomo a trentacinque anni avrebbe dovuto starsene a casa sua con moglie e figli a badare agli affari suoi, invece ora era sperduto in quel bosco di notte e il bello era che non sapeva nemmeno come vi fosse entrato. E adesso? Era proprio dura! Dante prese il poco coraggio rimastogli e cercò una via d’uscita…

Era disteso sul suo sacco a pelo da viaggio blu, imbacuccato da una copertina rossa,

aveva i pantaloni da sci tagliuzzati, come lo erano le braccia della giacca.

La bocca era viola, la sua pelle era pallida come la neve che lo circondava, accanto a

lui c’era un grande zaino da montagna pieno zeppo e pezzi di legna per accendere

il fuoco. Stava tremando da capo a piedi. Non aveva idea di come potesse trovarsi in

una situazione del genere, rammentava solo che qualcuno aveva urlato “Papà” molto

forte e lui che rispondeva a sua volta chiamando “Ginny! Ginny! Non ti preoccupare

riuscirò a salvarti!” Doveva ricordare, sentiva che doveva fare qualcosa di urgente,

ma senza sapere che cosa fosse.

Decise di alzarsi e fare due passi, così magari gli si sarebbero schiarite le idee.

Si cacciò in bocca una delle tante barrette energetiche alla frutta che teneva nello

zaino, si infilò un altro paio di calzettoni pesanti, un maglione natalizio rosso e si

disinfettò le ferite; infilò tutti gli oggetti in eccesso nel suo zaino e se lo mise in

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spalla. C’era buio pesto e cercò di andare avanti, ma già dopo qualche metro

inciampò su una radice di un grande albero, scivolando sulla neve ghiacciata. Si

ritrovò con la faccia a terra che bruciava per via della neve, mentre la pancia era

appoggiata a uno strano oggetto solido, lungo. Non c’era bisogno di stare lì a

pensare, capì subito che quelli erano i suoi sci e improvvisamente si ricordò. Il

ricordo di come mai si trovasse lì, scorreva come un film dentro la sua mente.

Erano appena iniziate le vacanze natalizie e sua figlia Ginevra di diciassette anni lo

aspettava fuori dalla porta di casa. Sua figlia viveva con la sua ex moglie Anna, una

madre molto protettiva. Come tradizione Ginevra voleva passare le vacanze di

Natale con il papà, che prometteva sempre di portarla a sciare in un bellissimo

albergo.

E come deciso partirono subito.

Passavano le giornate e Dante e Ginevra le trascorrevano sulle piste; la loro era una

passione grandissima, tramandata da generazioni.

Ormai erano stufi di fare su e giù per la solita noiosa pista piena di persone che

cadevano, inciampavano o ti tagliavano la strada.

Era giunto il momento di provare qualcosa di diverso, una pista più pericolosa e più

adrenalinica per sfruttare al meglio le loro capacità di sciatori professionisti. Dopo

ore di cammino, si erano ritrovati su quella che si può definire una vera pista da sci,

sulla vetta più alta. Erano pronti con casco e mascherine per gli occhi, tutti

emozionati, tanto che non notarono neanche quel bastone di legno rovinato pochi

centimetri da loro dove sopra, coperto dalla neve fresca, si trovava un cartello

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“Attenzione: grave pericolo di frane” e non si preoccuparono di guardare se, da

qualche parte lì intorno, ci fosse un cartello di avvertimento.

Erano a un quarto del lungo, ripido percorso, l’aria fresca sbatteva sul viso e gli sci

scivolavano velocissimi, quando un boato fortissimo li distolse dal percorso. Non si

stavano immaginando niente, era tutto vero! Un enorme massa bianca scorreva

verso di loro e acquistava sempre più velocità: era una valanga.

Dante e Ginevra erano distanti l’uno dall’altro, perché di solito amavano svolgere

gare e non intralciarsi lungo il percorso a vicenda, Dante non sapeva cosa fare, non

riusciva a concentrarsi e la domanda “Perché non siamo andati sulle normali piste

da sci ?!” lo assillava, in fondo era tutta colpa sua se Ginevra e lui sarebbero!

Mentre pensava a tutto questo, una piccola speranza di salvezza si presentò.

Appena più avanti sul fianco di Dante si trovava una rientranza, una piccola grotta.

La valanga era a pochi metri da loro, cercò di afferrare la mano di Ginevra, ma lei

inciampò su un cespuglio spelacchiato e rotolò in avanti.

Per Ginevra non c’era più speranza, così Dante prese la spinta contro un masso,

spiccò un salto e si lanciò a capofitto dentro la grotta, atterrando di pancia su una

lastra di neve ghiacciata, senti un boato e – Papà … aiuto … PAPAAAAAA’! - e capì

che per Ginevra non c’era più alcuna speranza.

La rabbia e la tristezza lo pervasero, così piano, piano iniziò la discesa sulla pista che

gli aveva portato via la sua Ginny, ma non voleva darsi per vinto e decise di voler

trovare sua figlia ad ogni costo viva o morta che fosse.

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Così arrivò alla fine della pista, si inoltrò in un bosco, camminò per ore, chiamando

a squarciagola la figlia e poi si addormentò vicino a un albero.

E questo era quello che era caduto la sera prima e nonostante facesse fatica a

procedere, le sue braccia erano piene di tagli e le gambe cedevano, avrebbe

continuato a cercare sua figlia.

Si alzò da terra ed iniziò a camminare a passo svelto, come avrebbe fatto a trovare

qualche inizio per trovare sua figlia? Dove sarebbe andato? Un sonoro crik lo

distolse dai suoi pensieri e per poco non si ritrovò di nuovo per terra. Era su un

immensa lastra di ghiaccio, un grande laghetto e una piccola crepa si estendeva

dietro di lui; spostò un piede avanti e poi l’altro molto lentamente, ma molti altri

crik risuonavano nel silenzio, così iniziò a correre veloce. Una metà del laghetto si

spaccò in due e lui rimase sospeso su una gamba appena in tempo, così iniziò a

correre più veloce e, proprio mentre stava per mettere il piede sulla riva opposta,

una scossa lo tirò indietro e per poco non cadde nell’acqua gelida.

Un’altra lastra si era spaccata, questa volta proprio davanti a lui, quella che gli

serviva per arrivare a riva. Restava a fatica in equilibrio su un piccolissimo pezzo di

ghiaccio così indietreggiò di pochi millimetri, piegò le ginocchia e spiccò un salto

enorme che, per fortuna lo fece atterrare seduto su un cumulo di neve fresca

appena a pochi centimetri dalla riva, si rialzò e raccolse lo zaino che era volato

alcuni metri più in là e nel raccattare lo zaino lo notò: un maglioncino tutto

strappato rosa con quadretti bianchi.

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Il cuore gli era esploso in gola: quelle appartenevano a Ginevra. Lo raccolse e lo

esaminò come se da un momento all’altro sarebbe saltato fuori un biglietto o un

indizio che gli indicasse la strada giusta, ma non successe nulla.

Si mise il maglione nello zaino e iniziò a camminare in avanti. Dopo qualche passo

si accorse che c’erano delle impronte. Ai piedi indossava Moon-boot che aveva

cambiato quella mattina al posto degli scarponi da sci riposti nello zaino, li tirò fuori

e guardò la suola: coincideva perfettamente alle impronte che c’erano a terra e non

potevano che non essere di Ginevra, si ricordava che ce li avevano uguali.

Iniziò a seguire le impronte che ogni tanto erano più sbiadite. Era immerso nel

bosco e seguiva attentamente le tracce quando all’improvviso un vuoto d’aria gli

riempì i polmoni e il suo piede sentì il vuoto: stava per precipitare in un dirupo

immenso, il più grande che avesse mai visto.

Si aggrappò al muro spigoloso, ma scivolò ancora, quando per una sfacciata fortuna

atterrò in ginocchio su una superficie dura: era planato su un pezzo di roccia

sporgente.

Gli era bastato appena il tempo per respirare e pensare a quello che stava

accadendo, che una crepa si aprì sulla base su cui era appoggiato. Si aggrappò

appena in tempo ad un altro spigolo e iniziò a salire sempre più velocemente,

perché la parete sotto di lui si stava sbriciolando.

Arrivò in cima e si lanciò sulla neve fresca, che gli diede un po’ di sollievo dato che

stava grondando di sudore, solo allora notò il lungo ponte tibetano che collegava la

riva opposta dove si trovava, intatto tranne per qualche assicella mancante qua e là,

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ma con un grande squarcio al centro. Pensò subito a Ginevra che attraversava

impaurita il ponte e a metà del tragitto cadeva giù nel vuoto! Batté le palpebre per

dimenticare questo pensiero, raccolse un sassolino e lo lanciò sul ponte; non

successe nulla, così posò il piede sulla prima assicella, che dondolò un pochino, e

iniziò ad avanzare lentamente.

Arrivò a metà, dove mancano una decina di assicelle tutte di fila e non sapeva come

potesse saltare uno spazio così ampio, ma ci provò lo stesso. Indietreggiò un po’ e

spiccò un salto che lo fece rimanere con le gambe a penzoloni nel vuoto.

Si accorse che dietro di lui proprio la corda su cui stava appoggiando tutto il suo

peso stava cedendo e le assicelle erano attaccate a una fune sola a penzoloni nel

vuoto, così si rialzò velocemente, iniziò a correre e, proprio quando il tutto il ponte

cedette e cadde nel vuoto, saltò e atterrò di pancia sulla riva opposta con il naso

sanguinante schiacciato sopra a uno strano oggetto.

Quello era il telefonino di riserva di Ginevra, che portava sempre con sé sulle piste

da sci. Non era un grande indizio, ma almeno sapeva che sua figlia era passata da lì,

così continuò il percorso fino a quando arrivò sulla cima di una montagna molto

ripida e si spostò. Inciampò su un ramo lì vicino e scivolò sulla neve fresca per un

paio di metri, quando parecchie decine di metri più in basso, gli sembrò di notare

che in una piccola grotta si intravedevano delle scarpe o dei piedi, di un colore

scuro che poteva benissimo essere blu, il colore degli stivali di Ginevra… ma come

avrebbe fatto ad arrivare così in basso? E solo allora si ricordò di avere ancora i suoi

adorati doposci nello zaino, senza aspettare se li infilò e iniziò a scendere verso la

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grotta; era quasi arrivato quando una valanga lo travolse in pieno, ma si lanciò

verso la grotta e riuscì appena in tempo a salvarsi prima che l’entrata della grotta

venisse bloccata dalla neve.

Alzò lo sguardo e senza il tempo di respirare delle braccia si avvolsero sul suo collo:

una ragazza lo abbracciava disperata: -Papà! lo sapevo che saresti riuscito a

salvarmi, lo sapevo … - e il cuore di Dante si riempì di gioia, quella voce, quel

profumo, quei capelli appoggiati sul suo viso: era sua figlia, l’aveva trovata

finalmente! – Ginny, piccola mia, finalmente ti ho trovato! -

Dopo essersi abbracciati per bene Dante chiese a Ginevra: - Perché non sei rimasta

più vicino al punto dove eravamo stati trascinati dalla valanga? Avrei potuto

salvarti più velocemente. -

―Papà, perché volevo trovare qualcuno per poter chiedere aiuto o, se fossi stata

ancora più fortunata, avrei potuto trovare una piccola baita dove stare al caldo e al

sicuro … poi il mio telefonino si è rotto e … Credo di essermi rotta un gamba

quando un’altra valanga mi ha investito e proprio quando mi sono lanciata verso

questa grotta ho sbattuto la testa e sono svenuta per un paio di ore. Comunque …

potrei un attimino il tuo cellulare? –

-Ginevra non è il momento di mandare un messaggio alle tue amichette, forza

aiutami a togliere la neve dalla apertura della grotta e poi monta sulle mie spalle

che usciamo di qui … -

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Ginevra comunque gli strappò dallo zaino il cellulare ed esclamò: -Papà! Guarda c’è

campo! potremmo chiamare soccorso così noi non dobbiamo far altro che rimanere

qua e aspettare! -

- Oh … Sì forse hai ragione; anche perché il ponte è caduto, il ghiaccio che ricopriva

il lago si è sciolto e ormai è buio quindi … chiama pure. -

E così un elicottero di soccorso venne a prelevarli e li portò in ospedale, dove

curarono la gamba di Ginny e trascorsero l’ultima giornata di vacanza in camera al

caldo.

Il giorno dopo partirono per tornare a casa, comunque felici per aver vissuto una

avventura mozzafiato conclusa bene. Sicuramente l’anno seguente avrebbero

trascorso una tranquilla vacanza al mare. Di neve ne avevano avuto davvero

abbastanza.

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ANNA MORANDO

LA MISSIONE

“Chuck sei pronto?” “Giacca termica e scarponi, che altro mi serve?” Lester storse la bocca. “Avrebbe avuto freddo, anzi si sarebbe congelato” pensò. In fin dei conti stavano partendo per fondare una base scientifica al Polo Sud…

…per studiare gli esseri viventi di quel luogo. Lester e Chuck lasciarono le loro

abitazioni, misero le proprie valige nel bagagliaio del veicolo e salirono sul taxi.

Arrivati all'aeroporto di London-City, i due scienziati salirono sul jet privato

dell'azienda, per la quale lavoravano, che li avrebbe portati a destinazione. "Che ore

sono?" chiese Lester. "Le undici e mezzo" rispose Chuck. "Quanti gradi ci sono?"

domandò Lester. "Sedici" rispose Chuck. "Da quante ore siamo su questo jet, Chuck?"

"Da due ore e un minuto" rispose. "Ma che......." "Smettila Lester!" intervenne Chuck

"Vorrei passare un viaggio sereno e tranquillo!" e si girò dalla parte del finestrino.

Dopo quattordici ore di volo i due scienziati arrivarono al Polo Sud. Scesi nel piccolo

aeroporto, iniziarono a camminare fino alla macchina che li avrebbe portati all’area

che dovevano sondare e, dopo aver scalato una piccola montagna di ghiaccio,

Chuck e Lester si trovarono davanti una moltitudine di esseri bianchi e neri: ma

certo i pinguini!

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Erano arrivati a destinazione. Lester appoggiò lo zaino e per terra e insieme a Chuck

iniziò a montare una tenda-laboratorio, dove i due scienziati avrebbero passato la

notte perché il sole stava tramontando.

La mattina seguente i due si svegliarono all'interno di un igloo dove un'anziana

signora stava preparando una tisana con delle spezie molto profumate. "Dove ci

troviamo?" pronunciarono Lester e Chuck. "Ciao a tutti sono Adelaide" disse la

signora. "Benvenuti nella Terra della Regina Maud".

Stavano sicuramente ancora sognando o erano già morti assiderati! "Come mai ci

troviamo qui?" chiese Lester.

"Ieri sera io e mio marito Robert siamo andati a scalare il monte Thurston sotto le

stelle e abbiamo visto un uomo che aveva rubato una specie di lama e degli altri

oggetti all'interno di una tenda-laboratorio e poi è scappato via. Robert e io siamo

arrivati sulla vetta del monte e siamo entrati nella tenda. All'interno c'era molto

freddo, eravate entrambi ghiacciati e allora vi abbiamo portati nel nostro igloo con

una slitta".

Qualcuno bussò alla porta.

"Chi è?" chiese Adelaide. "Sono Robert!" rispose una voce maschile "Mi puoi aprire la

porta?" "Si si, eccomi Robert" rispose la signora.

Nell'igloo entrò un uomo alto e grosso che lanciò un sacchettino pieno di pesci su

uno sgabello.

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I due scienziati si alzarono dal letto e uscirono dall'abitazione di Robert e Adelaide

in cerca della loro tenda. Scalarono il monte Thurston e in cima trovarono la loro

tenda-laboratorio.

Chuck e Lester notarono che Adelaide aveva ragione: qualcuno aveva rubato i loro

oggetti di laboratorio.

Non avrebbero più continuare la loro missione: avevano fallito dopo il primo

giorno! Allora i due scienziati, dispiaciuti del tracollo del loro viaggio, smontarono

la loro tenda, prepararono le loro valige e arrivati su una delle coste dell'Antartide

chiesero un passaggio a un piccolo peschereccio che li portò al porto di Rio

Gallegos, in Argentina.

Chuck e Lester ringraziarono il capitano del peschereccio e presero un aereo diretto

a Londra dalla città di Santa Cruz.

Dopo undici ore di viaggio, i due scienziati arrivarono nella loro patria, Londra.

Infine, delusi del viaggio al Polo Sud, incominciarono a progettare un secondo

viaggio in Antartide, ma organizzato molto meglio del primo, con più di un anno di

anticipo.

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LORENZO OTTAVIANI

OSTRICHE E CHAMPAGNE

“Regista, inquadra bene la mia faccia da star! Per te sarò cattivo come Sean Penn…bang bang voglio sparare come John Wayne…”. Che cialtrone! Pensò Roger con un sogghigno. Quel buffone non sapeva cosa lo attendesse una volta tornato a caso. Altro che ostriche e champagne, il suo ruolo sarebbe stato decisamente un altro…

Altro che ostriche e champagne, il suo ruolo sarebbe stato decisamente un altro:

quello di sconfiggere i cinque migliori assassini d'America.

“Non posso credere di essere stato così cattivo!” pensò Roger. Dopo il sevizio mise

subito in funzione il suo piano: annientare Doug, la star.

Quando il buffone entro in casa, gli assassini gli piombarono addosso, Doug tirò

fuori la pistola e ne uccise due, ma fu catturato e portato da Roger.

“Toglietegli armi, coltelli e tutto il resto, non deve riuscire a scappare finché non

arriva il capo” disse uno degli assassini. Pochi minuti dopo arrivo Roger che disse:

''Bravi, Ma non ho soldi per pagarvi ''.

Tolse la pistola dalla fondina e li fece fuori tutti. Doug non sapeva quale fosse lo

scopo di tutto questo, ma lo scoprì appena vide Roger fuori dalla porta con un uomo

misterioso che sembrava voler dare molti soldi in cambio di una star.

Doug iniziò ad avere paura, ma era preparato. Tolse dalla scarpa un coltellino con

cui tagliò le corde e si liberò. Scappo fuori, ma non sapeva che era su una nave

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diretta chissà dove con lui, il suo regista, cinquanta tonnellate di esplosivo e venti

uomini armati.

Non aveva molto tempo prima che Roger se ne accorgesse, quindi cercò una

scialuppa per scappare, ma non fu facile dato che era circondata da due uomini con

una mitragliatrice e lui aveva in mano solo con un coltellino. Non si scoraggiò

perché sapeva di essere esperto con le armi, anni e anni di studi per i vari ruoli da

cattivo che gli avevano assegnato, quindi tirò il coltellino colpendo un uomo e poi

salto al collo di un altro, uccidendolo, gli sottrasse le armi e infine si lasciò cadere

nella scialuppa.

Passò un giorno in mare e aveva perso le speranze di vita quando vide un elicottero

n cielo. Allora si alzò e cominciò a urlare. Quella che aveva vissuto non era la

finzione dei film in cui recitava, ma una vera avventura con morti veri!

Si salvò, tornò a casa si sedette chiese al suo maggiordomo di preparargli un

cocktail, ma mentre glielo stava preparando, cadde a terra sporco di sangue. Doug

spaventato chiamò la polizia, ma chi rispose fu Roger.

Spense il telefono, si rifugiò in cantina e rimase ad ascoltare: al piano di sopra la

porta era stata sfondata e stavano sparando all’impazzata. Aveva il cuore in gola

quando si ricordò della frase che aveva detto: ‘Bang bang voglio sparare come John

Wayne''. Allora lo fece, salì e fece fuoco su tutti, uno per uno, fino a che non rimase

Roger e gli disse: ''Per te sarò cattivo come Sean Penn” .

Poi gli conficco una pallottola dritta in testa.

Si sedette con un cocktail in mano e guardò la TV

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MATTIA PASQUATO

IL LIBRO DI RICETTE

“Giorgia che hai in mano?” “Niente, è solo il vecchio libro di ricette di nonna…pensavo di cucinare il suo timballo di riso” “Mamma mia, ti prego stai attenta, tua nonna era molte cose, ma di certo non una cuoca!” Questo lo sapeva anche Giorgia: nonna era simpatica, creativa, estroversa, gentile, ma soprattutto…capace di nascondere una mappa di un tesoro tra una ricetta di torta di mele e una di lasagne al forno…

Ed era proprio così, Giorgia aveva trovato una mappa, ma mancante di un pezzo,

del grande tesoro misterioso di Leopoldo II di Toscana. Incuriosita, si era messa alla

ricerca su un atlante per capire dove potesse essere nascosto il tesoro. Dopo una

lunga ricerca scoprì che avrebbe dovuto andare dall’altra parte del mondo, cioè a

New York. “Mamma, mammaaaa, corri subito qua! Ho trovato nel libro delle ricette

di nonna questa mappa” disse Giorgia. “Hahaha che fortuna mamma, ho scoperto

grazie a questo atlante e alla mappa segreta, che dobbiamo andare a New York.

Adesso non hai più scuse per non portarmi in quel meraviglioso posto, quindi niente

indugi. Io vado a preparare i bagagli per noi due, tu intanto prenota online due

posti sul primo volo per New York” aggiunse.

Salirono sull’aereo alle 2:25, alle 2:34 e 45 secondi decollarono. A metà volo si

guastarono due motori su quattro per colpa di un airone aspirato nella turbina.

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Dovettero fare un brusco atterraggio d’emergenza in mare. Giorgia non trovava più

sua madre, era come scomparsa, la maggior parte dei passeggeri e dell’equipaggio

dell’aereo erano morti. Dall’acqua Giorgia riusciva a vedere terra e attorno a lei i

bagagli che galleggiavano.

Mise la testa sott’acqua per cercare la mamma, ma non trovò nulla. Iniziò a nuotare

verso riva, ma tutto d’un tratto vide avvicinarsi qualcosa. Incuriosita cercò di

scoprire cosa fosse quell’essere o cosa che affiorava dal mare. Era un ragazzo che

veniva in suo aiuto. E assieme nuotarono verso riva. Grazie all’inglese imparato a

scuola. Giorgia, spiegò al buon ragazzo, che era sull’aereo con sua madre che era

dispersa dopo l’ammaraggio e che avevano preso questo volo per andare alla ricerca

di un tesoro, la cui mappa era stata trovata nel vecchio libro di ricette della nonna.

Il ragazzo pensò che fosse un po’ svitata, ma visto il drammatico momento, pensò

fosse bene assecondarla ed esclamò “Che fortuna averti conosciuta! Io ho un pezzo

di mappa che potrebbe essere quello a te mancante”. Il ragazzo, che si chiamava

Wiz, fece credere a Giorgia che il tesoro si trovasse nel giardino della sua casa a

New York e la invitò ad andare a prenderlo. Per Giorgia iniziò così l’avventura alla

ricerca del tesoro. A forza di provare a scavare, trovarono una scatola di ferro tutta

arrugginita con all’interno monete antiche, pietre e oggetti che sembravano molto

preziosi. In realtà erano i soldi dei monopoli, piccoli oggetti di vetro e cianfrusaglie

che Wiz aveva nascosto da bambino nel suo giardino. Ma questo permise a Giorgia

di dimenticare la perdita della madre. A Wiz piaceva Giorgia, era matta, ma dolce e

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simpatica e sapeva cucinare lasagne e torte di mele seguendo le vecchie ricette della

nonna, così iniziarono una nuova vita insieme, una vita molto felice.

ALESSANDRO RANCAN

I LANCIERI

“Mare, altro che mare e ancora mare” penso Bartolomeo. Era arci stanco di mangiare frutta marcita e bere acqua putrida, ma gli avevano promesso che alla fine di quel viaggio sarebbe diventato ricco. Ora superato l’Atlantico, avrebbe dovuto attraversare il Pacifico. Un gioco da ragazzi, doveva solo ricordarsi di rimanere vivo…

Bartolomeo il 15 giugno si svegliò già stanco. Aveva un brutto carattere, non

parlava molto, se non per dare ordini ai suoi compagni di viaggio. Quel giorno il

tempo era molto terribile, pioggia e vento e Bartolomeo era così di malumore, che

non volle fermarsi in un isoletta lì vicino. Aveva fretta di arrivare e decise di

proseguire il cammino. Il mattino seguente iniziò la giornata scrivendo sul suo

diario personale, le rotte e i pericoli che avevano affrontato. Verso sera si sentirono

degli schiamazzi provenire da nord, Bartolomeo pensò qualche secondo e capì che

in quella direzione si trovava una piccola isola abitata. Scoprirono che la tribù si

faceva chiamare nella loro lingua “I Lancieri”. Ebbe qualche momento di panico,

dovuto alla fabbricazioni di lance lunghe, appuntite e letali. I Lancieri notarono la

presenza di una nave e decisero di fiancheggiarla, volevano riuscire a farla andare

fino a riva così avrebbero potuto controllarla. Nel frattempo Bartolomeo e i suoi

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compagni si erano nascosti all’interno della nave: avrebbero attaccato di sorpresa

alla “cavallo di troia”.

Quando la nave raggiunse l’isola, Bartolomeo e i suoi amici con tutte le armi che

avevano a bordo attaccarono gli abitanti dell’isola, sconfiggendoli facilmente.

Bartolomeo rinunciò ad uccidere tutti i suoi nemici, tenendone dieci come schiavi.

Pochi giorni dopo Bartolomeo fece una scelta coraggiosissima, rinunciò alla tappa

finale e prese possesso dell’isola dei Lancieri, dove governò come un sovrano.

Era diventò molto più ricco del previsto.

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ELISA RIGHETTI

IL NUOVO VICINO

Quella mattina la macchina, non voleva proprio partire e lei era già in ritardo per l’università. Provò ad aprire il cofano, ma sapeva già che sarebbe stato inutile: non ne sapeva nulla di motori. “Ti do un passaggio io, dai sali” disse Giulio, il figlio dei nuovi vicini. Poteva fidarsi di Giulio, no?

Si era trasferito a Liverpool da tre settimane perché i genitori dovevano accudire lo

zio ammalato che ora si trovava in ospedale. Giulio non trascorreva molto tempo in

casa perché, quando genitori dovevano lavorare, lui doveva restare con lo zio.

Ellison non lo conosceva, non si erano mai parlati prima, ma quelle poche volte che

uscivano di casa contemporaneamente, lui la guardava con grande interesse. Un

ragazzo acqua e sapone, occhi azzurri e capelli biondi. La prima volta che lei lo

vide, gli sembrò un ragazzo gentile, educato e simpatico. La famiglia di Giulio

quando era a casa litigava spesso, lo sentiva dalle urla che uscivano dalla casa e lui

si richiudeva nella sua camera, sbattendo la porta. La finestra della sua stanza si

affacciava su quella della camera di Ellison e, quando lei ammirava il paesaggio e

girava la testa verso la camera del ragazzo, lui girava il volto e si nascondeva forse

per la vergona. Non aveva il coraggio di suonare alla porta del nuovo arrivato per

fare amicizia, a causa del papà e della mamma di Giulio. Insomma questi nuovi

vicini le facevano paura. Anche Giulia era come bloccato nei suoi confronti e ogni

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volta che si avvicinava alla porta della casa di Ellison, veniva bloccato da quella sua

timidezza che gli impediva sempre di fare la cosa che più desiderava. Quel giorno

però, aveva trovato il coraggio di chiedere alla sua bella vicina se volesse un

passaggio.

Sul viso pallido di Ellison si potevano ammirare occhi azzurri come il cielo d'estate e

labbra carnose e chiare, infine i suoi lunghi capelli rossi raccolti in una coda la

rendevano ancora più fantastica per Giulio. Subito la ragazza pensò: “Posso anche

fidarmi di lui, mi sembra un bravo ragazzo." E accettò il passaggio. La sua casa si

trovava a cinque isolati dalla scuola, così i due ebbero il tempo per parlare insieme e

conoscersi meglio. Appena la ragazza salì in macchina, Giulio si rinchiuse dentro

un assordante mutismo. Ogni volta che Ellison gli faceva una domanda, il nuovo

arrivato stava zitto e non parla. Ad un certo punto la ragazza disse: “Non so con

quale coraggio riuscirò a dirti questa cosa...è da molto tempo che ti guardo, da

subito mi sei sembrato un bravo ragazzo, gentile ed educato. Mi sei piaciuto dalla

prima volta che ti ho visto, i tuoi occhi mi incantano e poi, il modo in cui parli, oh sì,

quello è veramente fantastico." Il ragazzo arrossì. Mancava poco alla scuola e Ellison

voleva una risposta dal ragazzo. Giulio disse soltanto: “Grazie." La ragazza non

comprendeva. Si vedeva che Giulio la guardava con grande interesse, non lo

capiva...forse era timido, era imbarazzato dalle sue parole, ma quando Ellison scese

dall'auto per entrare a scuola il ragazzo le disse soltanto una cosa: “Aspettami fuori

da scuola alle tre in punto, ti vengo a prendere io." Ellison provò un emozione da

non saper descrivere. Per tutta la mattina non fece che pensare al ragazzo che la

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aveva portata a scuola, ne parlò alle sue amiche e furono anche loro molto

emozionate per lei. La ragazza era bravissima a scuola, ma quella mattina aveva

l'interrogazione di biologia e biologia era il suo tallone d’Achille. Era nel panico più

assoluto. Quando il professore la chiamò alla lavagna, lei arrossì. Sapeva benissimo

che non sarebbe andata bene. Il suo voto fu un cinque spaccato. Ma a lei, per la

prima volta non importò del voto che prese. Era tutta concentrata su Giulio che di lì

a poco sarebbe venuto a prenderla. Ora come ora si interessava solo a ciò di cui

avrebbe parlato con il suo nuovo vicino fuori da scuola. Suonò la campanella

dell'ultima ora ed Ellison corse molto velocemente ai parcheggi. Riconobbe l'auto di

Giulio e salì. Per due isolati il ragazzo non parlò. Fermò la macchina in un campo.

Ellison gli chiese: “Ma cosa stai facendo? Non mi dovevi parlare?" Giulio le disse:

“Zitta e cammina!". La ragazza piangeva. Pensava che il nuovo vicino fosse un

ragazzo gentile, educato, un ragazzo di cui fidarsi. Ma non fu così. Prese Ellison per

mano e la portò in una boscaglia. A quel punto Giulio tirò fuori il suo coltello. La

ragazza gridava, chiedeva aiuto, per lei ora sembrava la fine. Il ragazzo le tappò la

bocca con un fazzoletto. Prese il suo coltello e lo infilzò nella pancia di Ellison, le

squarciò il ventre, le tirò fuori tutte le sue budella e lasciò lì esangue. Ma lei non

morì così, lei morì soffocata. Di Ellison non si sapeva più nulla, sembrava scomparsa

nel vuoto ed ovviamente Giulio faceva finta di non saperne niente. I genitori erano

disperati. Una settimana dopo la scomparsa della ragazza, la famiglia di Giulio

ritornò alla loro città poiché lo zio si era aggravato e morto. Dopo due mesi di

ricerche si scoprì che il colpevole era Giulio e che la sua famiglia era un insieme di

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assassini, avevano ucciso anche lo zio ammalato. Il ragazzo e la sua famiglia

vennero portati in prigione, ma questo non consolò la famiglia della vittima.

TOMMASO ZANOTTI

ROVER

Ma allora avevano ragione: dallo spazio la Terra era così bella, tutta verde e blu e l’unica opera umana visibile era davvero la Muraglia Cinese! E poi quel silenzio assordante! Non vedeva l’ora di iniziare la sua missione. Ultimo sguardo al pannello di controllo e ora tutto era pronto per lo sbarco sulla Luna…

Non erano i primi a farlo. Eccola là, una grande palla bianco latte, sembrava

formaggio, che si avvicinava, sempre di più. La nave era guidata da un computer,

ma l’ultima manovra spettava all’uomo. 3…2…1… Pum! Erano sbarcati sulla Luna,

ma non era finita, bisognava ancorala. Dai piedistalli della capsula uscirono dei

picchetti, che si infilarono ben saldi nel terreno. Adesso dovevano prelevare

campioni di ghiaccio rilevati dalla sonda RLO e analizzarli. Per muoversi sui lunghi

tratti si servivano del LER (Lunar Electric Rover): un rover lunare elettrico, con una

piccola stanza pressurizzata.

Cominciarono prima con il cratere Shackleton, al cui centro le temperature

scendono a -180o. Per prelevare campioni si servirono di un robot radiocomandato.

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Sul rover c’era spazio per due, mentre loro erano in quattro. Si misero d’accordo

che due sarebbero stati sul modulo lunare, mentre gli altri sarebbero andati a

prelevare campioni. Si diressero verso il cratere, che non era tanto distante.

Arrivati sul campo fecero uscire il robot dal rover e lo diressero giù nel cavità.

Ad un certo punto si bloccò! Allora provarono a collocare l’antenna sul bordo della

conca… ma niente! Si era ghiacciato. Provarono a muovere i bracci finché non si

liberò e poterono proseguire la missione.

Dopo un’ora arrivo una chiamata dalla base, che imponeva di cominciare a tornare,

perché stava calando il buio.

In quel momento recuperarono il robot e ritornarono al campo. Passarono due

giorni, ed era ora di ritornare sulla Terra.

Sfilarono i picchetti dal suolo, ci misero un po’ poiché erano ben ancorati, poi

accesero i motori e partirono.

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CARLO ZARATTINI

IL METEORITE

Era stato sicuramente un sogno. Non potevo essere andato a letto la sera prima con una casa tutta in ordine e soprattutto un tetto sulla testa e ora svegliarmi e vedere un enorme buco nel soffitto…che stava succedendo?

Mi chiamo Carlo ho dodici anni, i miei genitori sono al lavoro e ho il tetto

bucato…un grande sasso lo ha bucato ed è planato sul pavimento. Lo guardo un

po’, ha dei segni superficiali, avrà sicuramente tantissimi anni. Lo provo a toccare

con una penna e il tappino si fonde, provo a buttargli addosso un bicchiere d’acqua

ed evapora.

Ho capito che è un sasso di grandi dimensioni, è antico ed è rovente.

Alzo la cornetta digito il numero di mamma, le dico di venire velocemente era

un’urgenza. Con la sua macchina color bianco perlato arriva, la faccio accomodare

in camera mia dopo e le faccio vedere l’enorme ospite. Il papà torna dallo studio

chiamato dalla mamma e anche a lui faccio vedere lo splendore nella mia stanza, a

pranzo ne discutiamo e a mamma viene un’idea: chiamare degli scienziati. Dopo

mezz’ ora arrivano in casa mia degli anziani baffuti con occhiali rotondi stile Harry

Potter, con capelli disordinati, ma molto intelligenti. Arrivano con furgoni che

contengono telescopi di dimensioni molto grandi, pennellini per spolverare il

reperto e lenti di ingrandimento pesantissime. A seguito di queste persone arrivano

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anche i giornalisti che girano video che andranno in onda al telegiornale delle

tredici e scattano foto che saranno presenti nel giornale di domattina. Appena

chiudo la porta sento un “TOC TOC” gran parte dei cittadini di Miami erano venuti

a chiedere informazioni sull’ accaduto ed io chiudo loro la porta in faccia e li

ignoro. Nella mia stanza nel frattempo gli scienziati stanno prendendo una grossa

decisone, vogliono portare il reperto in uno studio per scoprire nuovi indizi. Il

grande mezzo è già in viaggio e, mentre l’ultimo scienziato sta chiudendo la porta,

io gli tiro la giacca in seta e gli chiedo: “Ma cosa è successo?” Lui mi risponde così:

“Ragazzino tu sei fortunato il tetto della tua camera è stato bucato da un meteorite

che avrà tre milioni di anni, piovuto proprio qui in casa tua”. Il ragazzino lo

contraddisse sul fatto di essere fortunato, esclamando “Ma se mi beccava?!” Ancora

l’anziano “Non bisogna porsi queste domande! Non ti ha beccato, ti ha solo

sfiorato”. Il ragazzo pensò: adesso so cosa scrivere nel primo tema che mi chiederà

in settembre la professoressa di lettere. “Carlo!! Carlo!!” la mamma mi sveglia “Ma

cosa sta succedendo?” Ti devi alzare per andare a scuola… uff, era solo un sogno!