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  1  PRINCIPI  Patrimonio, persona e nuove tec niche di Governo L’ottica rimediale si libera sia dalle maglie della produzione del diritto, sia dalla produzione dell’azione. Autorino ha scelto il termine rimedio non di sanzione perché dal suo punto di vista il rimedio ingloba la sanzione. Neanche la sanzione è da intendersi entro gli angusti confini della sanzione. Nel terreno del diritto di famiglia e delle persone i margini dell’applicazione della sanzione negativa sono assai limitati. Basti pensare alle “incursioni” del diritto penale nel diritto di famiglia laddove la norma deve necessariamente rivestire carattere sanzionatorio. Gli esempi in questo caso possono essere svariati per esempio la legge del 2006 sui maltrattamenti in famiglia o nelle mutilazioni dei genitali. Ma volgendo uno sguardo al diritto anglosassone un esempio può essere lo  Stalking che recentemente è stato preso in considerazione anche dai giuristi italiani. Il compito dei comparatisti è quello di garantire gli interessi delle persone e di offrire un modello spesso cogente di comportamenti. Basti riflettere nell’evoluzione che hanno avuto gli istituti della separazione e del divorzio con l’abbandono del concetto

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 PRINCIPI 

 Patrimonio, persona e nuove tecniche di Governo

L’ottica rimediale si libera sia dalle maglie della produzione

del diritto, sia dalla produzione dell’azione. Autorino ha scelto il

termine rimedio non di sanzione perché dal suo punto di vista il

rimedio ingloba la sanzione. Neanche la sanzione è da intendersi

entro gli angusti confini della sanzione. Nel terreno del diritto di

famiglia e delle persone i margini dell’applicazione della sanzione

negativa sono assai limitati. Basti pensare alle “incursioni” del dirittopenale nel diritto di famiglia laddove la norma deve necessariamente

rivestire carattere sanzionatorio. Gli esempi in questo caso possono

essere svariati per esempio la legge del 2006 sui maltrattamenti in

famiglia o nelle mutilazioni dei genitali. Ma volgendo uno sguardo al

diritto anglosassone un esempio può essere lo  Stalking che

recentemente è stato preso in considerazione anche dai giuristi

italiani. Il compito dei comparatisti è quello di garantire gli interessi

delle persone e di offrire un modello spesso cogente di

comportamenti. Basti riflettere nell’evoluzione che hanno avuto gli

istituti della separazione e del divorzio con l’abbandono del concetto

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di colpa e il progressivo trasferirsi dell’antica disciplina delle cause-

effetti.

Nel nostro ordinamento sin dalla riforma del 1975 l’essenziale

gravità dei comportamenti che originano l’addebitabilità della

separazione è tale da ripercuotersi sull’esistenza di una residua

solidarietà familiare. Un caso emblematico è costituito

dall’ordinamento tedesco, dove, nell’attuale dimensione è pressoché

irrilevante il concetto di colpa sostituito quasi per intero dal

principio di autoregolamentazioni della crisi matrimoniale. Anche

quando si consente di sciogliere il matrimonio per l’esistenza di

cause che risiedono nella persona dell’altro coniuge, non è il concetto

di compatibilità che viene in conto bensì quello dell’inesigibilità dellaprosecuzione della convivenza. Caso emblematico l’adulterio. Le

corti tedesche evitano il sillogismo adulterio <-> impossibilità di

proseguire la vita coniugale. Limitano la rottura del vincolo

matrimoniale ad alcuni casi particolarmente gravi quali, quello delle

mogli prostitute oppure il marito che decide di convivere con la

nuova compagna nella casa familiare. Lo stesso si intravede nell’are

del Common Law inglese dove già il   Matrimonial Acts del 1937

ammetteva una causa di divorzio che prescindesse dalla colpa.

La prospettiva dell’abbandono dell’elemento sanzionatorio

non può e non deve comportare l’abdicazione da parte

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dell’ordinamento al potere di intervento. La tesi del non intervento

non può trovare accoglimento nel diritto di famiglia. Ormai sono

superate le tesi di un intervento mite o non intervento addirittura

che sarebbero dettate dalla necessità di rispettare la compresenza

delle diversità nell’unità di luogo o di tempo. Il multiculturalismo

non può significare critica attenzione dell’altro ma al contrario deve

tradursi alla ricerca di posizioni condivise che si muovano all’interno

di una gamma di valori e di tutele costituzionali. Vanno in tal senso

le posizioni più recenti della Corte di Cassazione Francese, quando

negano applicazione ad alcune decisioni dei tribunali algerini

sull’ammissibilità del ripudio in nome del principio di eguaglianza e

parità dei coniugi riconoscendo all’ordinamento nazionale di porre  vincoli all’introduzione di disposizioni capace di sovvertire il

complesso valoriale garantito a livello costituzionale. Lo stesso vale

in Inghilterra dove si è ribadito il principio di monogamia.

Occorre operare una bipartizione tra i rimedi tipici

dell’ordinamento distinguendo tra volontari e coercitivi. Nel primo

caso il rimedio è determinato dalle parti e, quindi rimesso alla loro

autonomia, ma comunque il diritto non abdica ma poi la natura degli

interessi in gioco fa un passo indietro. Un esempio nel diritto di

famiglia può essere rappresentato nel nostro ordinamento

nell’articolo 145 2c.c. che ammette che i coniugi in disaccordo

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rimettono al giudice delle decisioni come la fissazione della residenza

o determinati affari essenziali. Questo punto è discusso in dottrina,

secondo alcuni l’intervento del giudice è di carattere giurisdizionale e

quindi di ricollegarsi al 316 c.c. in materia di richiesta di intervento

del giudice concernenti la potestà dei genitori. Per l’Autorino è un

atto a valenza negoziale. A prescindere dall’indirizzo al quale si vuole

aderire che nella fattispecie in questione, l’intervento del giudice sia

solo eventuale o comunque dipenda dall’accordo tra coniugi. Così si

comprende che il rimedio in questione abbia natura mista tra

autonomia dei coniugi e intervento del giudice. Una scelta che pare

essere imitata dall’articolo 171 del codice civile svizzero che consente

ai coniugi di rivolgersi alla mediazione del giudice in caso didisaccordo su affari importanti del governo della famiglia.

La scelta italiana che lascia ampia autonomia ai privati si

contrappone ad esempio dell’articolo 70 del codice civile spagnolo

come riformato nel 1981 consente un intervento autoritativo del

giudice in caso di disaccordo sulla scelta della residenza familiare.

Ma questo sembra un caso sporadico rispetto alla scelta effettuata

dagli altri Stati in questa vicenda. Invece i rimedi di tipo coercitivi

sono in realtà di varia natura e rispondono ad interessi tra loro

contrastanti. I rimedi coercitivi seppure più numerosi di quelli

  volontari hanno natura sussidiaria, cioè trovano spazio laddove

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l’autonomia privata non trova la possibilità di dirimere situazioni

configgenti all’interno della famiglia e non vi sia concordia in ordine

alle scelte d’assumere. I rimedi coercitivi non possono distaccarsi

dagli altri rimedi tipici. Basti pensare all’articolo 333 c.c. che

autorizza il giudice a prendere dei provvedimenti convenienti.

Questo fa capire che i rimedi nel diritto di famiglia hanno un altro

grado di elasticità, cioè significa che molto spesso il legislatore si

rimette alla sensibilità del giudice e che la scelta del rimedio non è

aprioristicamente determinata dal legislatore ma si preferisce una

soluzione aperta.

È noto che, per quanto riguarda il diritto di famiglia, il modello

italiano ha subito una forte influenza soprattutto dall’ordinamentostatunitense, nel quale la legislazione riconosce fino ai primi anni ’70

i protection orders. In tale processo fondamentale è l’abbandono del

modello colposo e la necessità di provvedere a soluzioni nuove che

consentono al giudice ampia discrezionalità. In questo senso si

spiega la scelta di qualificazione in maniera molto generica il

concetto di   family offense o di abuso familiare come nella

legislazione degli Stati di New York e della California. Il diritto degli

Stati Uniti (soprattutto quello Californiano) in materia di diritto di

famiglia se è pur vero che si inquadra in una gamma di ordini di

protezione legislativamente predeterminato hanno un alto grado di

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duttilità e elasticità che consentono al giudice il miglior rimedio per

ogni caso specifico.

Un analogo diritto, simile a quello statunitense, lo troviamo

anche in quello tedesco in cui ritroviamo dei presupposti “mobili”

per l’applicazione della disciplina che troverà spazio non solo nei casi

di azioni violente o di minacce ma anche in presenza di limitazione

delle funzioni esistenziali ossia ogni disturbo alle funzioni fisiche,

spirituali e psicologiche. La disciplina negli ordini di protezione è

quindi chiara espressione della necessità che il diritto entri, in taluni

casi, tra le mura domestiche, riaffermando la tutela del singolo

all’interno del proprio nucleo familiare.

In tutti i principali sistemi giuridici europei, si assiste ad unaprogressiva accettazione das parte della corte di risarcire un membro

della famiglia del danno causato da un altro membro della famiglia.

Si tratta ancora di un cammino in action atteso sia dai sistemi

di Common e Civil Law.

Gli itinerari percorsi dalla giurisprudenza, sono molteplici.

Tanto nell’ordinamento francese che in quello italiano si è ammessa

la cumulabilità dei rimedi prospettata per il divorce aux torts

exclusifs ex art. 256 code civil con il risarcimento dei danni per tutte

le violazioni non connaturate al momento del divorzio ma

conseguente ad esso. L’ordinamento non può riconoscere una sorta

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di immunità ai comparenti della famiglia per gli illeciti da loro

commessi.

Non bisogna confondere il principio di solidarietà con

l’inammissibile avallo di una zona franca nella quale il diritto non

potrebbe entrare. Però è importante ricordare che non sembra che la

mera violazione di un dovere familiare possa dar luogo al

risarcimento in caso di adulterio. Secondo l’Autorino in caso di

adulterio già vi è previsto un rimedio tipico quale la separazione

invece secondo l’autrice il risarcimento del danno dovrebbe essere

pronunciato solo nel caso in cui vi sia violazione di un altro interesse

meritevole di tutela come il diritto all’onore e alla reputazione ovvero

quando il tradimento ingeneri un danno ulteriore di natura biologicao esistenziale.

Concludendo, un aspetto emerge prepotente nel settore del

diritto di famiglia, la sanzione repressiva del comportamento pur

non perdendo tutte le sue funzioni si accompagna sempre un aspetto

restitutivo, di conservazione e del recupero del rapporto di crisi e ciò

  vale anche per l’aspetto patrimoniale. In questo settore il profilo

sanzionatorio si mortifica e il decorso in questo campo si collega alla

prevenzione e alla promozione del rimedio.

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 I fondamenti costituzionali dell’unione europea

Le norme giuridiche vivono sempre una singolare parabola,

nascono con determinate finalità ma poi possono subire

accelerazioni evolutive improvvise anche per opera della dottrina e

giurisprudenza. Nessuno, infatti, avrebbe mai potuto pensare che

una piccola cellula istituzionale, dall’impatto circoscritto al settore

dell’energia (la CECA) avrebbe generato un processo istituzionale di

cui il Trattato costituzionale è una rilevantissima, sebbene non

definitiva, tappa finale.

La costituzione, in primo luogo abolisce la distinzione tra

Comunità Europea e Unione Europea, attribuendo a quest’ultimapersonalità giuridica. L’Unione Europea, dunque, sarà  pleno jure il

soggetto operante sulla scena internazionale. Tutto ciò trova

concretizzazione nell’articolo I-1 che istituisce l’Unione Europea

ispirata alla volontà dei cittadini e degli Stati d’Europa di Costruire

un futuro comune. La formula prescelta per la Costituzione Europea

ad istituire l’unione Europea non è di poco conto, non è più come per

gli attuali trattati le altre parti contraenti.

Il cambiamento non è solo linguistico ma soprattutto

sostanziale. Seppur racchiuso in poche parole vi è riportato il

risultato di una secolare, variegata e contraddittoria tradizione

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costituzionalistica Europea. È il caso di ricordare come il “progetto

europeo”  post-bellico nella spinta contrapposta della visione

prospettica degli “Stati Uniti d’Europa”  e delle ragioni di  Real 

 politik, finì per privilegiare il modello gradualista e l’angolo di

 visuale del processo di integrazione economica.

Nell’evoluzione della CECA al MEC e quindi alla CEE, gli Stati

europei non rinunciarono a dotarsi di un ordinamento giuridico con

caratteristiche analoghe ad uno stato propriamente detto. Un

apporto decisivo a questo processo di formazione è venuto dalla

giurisprudenza comunitaria, che si è incarnata in una serie di norme

tra le quali la superiorità del diritto comunitario nei confronti degli

Stati medesimi e l’applicabilità diretta del diritto comunitario daparte dei giudici statali. Dottrina e giurisprudenza portano alla

ribalta il diritto costituzionale europeo, un diritto condiviso e

applicabile in tutti gli Stati aderenti che vada al di là del diritto

internazionale. È possibile affermare che l’interazione tra il

legislatore europeo, secondo il progresso dei trattati, con il giudice

europeo e con gli autori della Western Legal Tradition ha prodotto

l’humus nel quale il trattato-Costituzione del 2004 ha avuto modo di

svilupparsi.

Un passo verso l’Unione Sostanziale è ormai irreversibilmente

compiuto. La scelta dei valori dell’Unione Europea oggi formalizzati

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nell’Art. I-2 è stata tutt’altro che la disputa su più o meno “norme

manifesto”. L’art. I-2 rappresenta comprensibilmente la difficile

composizione di evoluzione del continente europeo. In quest’ottica il

quesito sull’oggetto della Costituzione si ridimensiona, è evidente che

la costituzione ha optato per un modello di carta fondamentale quale

“progetto integrale”. Di qui l’elencazione né neutra né neutrale dei

“valori dell’Unione” quelli della dignità umana, della libertà, della

democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani

compresi quelli delle minoranze.

Questi sono valori che accomunano ogni Stato membro, se

dovessimo fare un’ermeneutica al contrario va semmai segnalata

l’assenza delle radici cristiane. Sembra però corretto sostenere che ildiritto, nel suo significato di opera di razionalizzazione

sistematizzante ha fatto la sua parte, allorché si è ritenuto che i valori

di cui alla norma in questione costituiscono il parametro per

misurare il rispetto di valori condivisi da parte degli aderenti. Infatti

l’articolo II-70 consacra espressamente la libertà di religione, e l’art.

II-52 prevede il rispetto dello Status previsto nelle legislazioni

nazionali quanto alle chiese e alle associazioni o comunità religiose

degli stati membri.

 Venendo al contenuto positivo dell’art. I-2 dove va a collocarsi

come primo, al vertice la dignità umana. Vuol dire che sotto la

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“cenere” di un processo di integrazione europea nato come processo

di integrazione economica covava il “fuoco” della dignità della

persona umana, oggi valore fondante della neonata Unione Europea.

La rubrica dell’art. I-2 “Valori dell’Unione Europea” induce a

ritenere che tutti i valori della norma partecipino ad un medesimo

disegno costituzionale rappresentata dalla dignità della persona

umana, criterio ordinatore degli altri valori.

 A metà strada tra i valori e i principi si collocano gli “Obiettivi

dell’Unione”, che il Trattato individua nella pace e nel benessere dei

suoi popoli. L’Unione si prefigge di offrire ai suoi cittadini uno spazio

di libertà, sicurezza e giustizia nonché un mercato unico nel quale la

concorrenza sia libera e non distorta. Sempre tra gli obiettivi sicolloca il perseguimento di uno sviluppo estensibile, frutto di una

crescita economica equilibrata, di una stabilità dei prezzi, in

un’economia sociale competitiva, di alto livello di tutela ambientale.

Del pari “obiettivi – valori – principi” sono la lotta alle

esclusioni ed alle discriminazioni, il progresso tecnico scientifico, la

giustizia e la promozione sociale, la tutela dei diritti dei minori ed

infine la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra

gli Stati membri.

L’attuale “assetto” del capitolo “dei principi e dei valori” è

soltanto l’ultima, ma non definitiva, tappa di un processo iniziato con

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il Trattato di Roma, che ha visto sciogliersi il progresso dei diritti

civili e sociali della “Comunità Europea” e dei suoi cittadini tramite

l’unificazione economica.

Trascorrendo all’esame dei principi intesi strettamente in

senso organizzativo-costituzionale, è bene sottolineare che la

descrizione non si ricava soltanto da una singola disposizione del

Trattato, bensì emerge dal complesso del testo del 2004 a sua volta

erede di una pluriennale tradizione del costituzionalismo europeo. È

il caso del principio di attribuzione, consolidata regola alla cui

stregua l’unione può assumere iniziative entro i limiti delle

competenze ad essa attribuite dai Trattati e più in generale, dalle basi

giuridiche della propria azione.Il riferimento è all’articolo 308 del Trattato CE che ha abilitato

la Comunità Europea ad adottare atti giuridici, pure in assenza di

un’attribuzione specifica, se necessari per il conseguimento di uno

degli scopi prescritti dal trattato. È chiaro che una simile

disposizione ha favorito un esteso   judge made in law e che ha

portato addirittura problemi inerenti alla certezza del diritto. Nel

circuito virtuoso delle relazioni tra diritto interno e quello europeo,

nell’ordinamento italiano, a titolo esemplificativo si collocano la

storica sentenza 170/84 della Corte Costituzionale, con il suo assunto

circa l’obbligo del giudice comune di applicare la norma comunitaria

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disapplicando ogni contrastante norma nazionale, anteriore e

necessaria che sia.

E al culmine della segnalata evoluzione, la riformulazione

dell’articolo 117.1 con la legge costituzionale 3/2001. I fattori di

incertezza sia pure in questa nuova impostazione permangono,

principalmente connessi alla sindacabilità da parte della corte

costituzionale degli atti comunitari lesivi di principi costituzionali

fondamentali. Il modo è rilevantissimo e si perviene al termine

dell’iter sin qui assecondato.

1) l’Unione opera nell’ambito delle competenze ad esse attribuite;

2) il catalogo delle competenze è esplicito ma si alimenta, per via

pretorienne, di competenze implicite o indirette;3) il principio di certezza del diritto è posto in discussione

dall’ampliamento descritto e dal concorrente controllo di

costituzionalità interno dei singoli ordinamenti degli Stati

membri, che né può dirsi superato dal Trattato del 2004, né va

ritenuto non operante per il judge made law. 

Tutto lascia presagire, in realtà che la “dilatazione” del

principio di attribuzione non subirà rallentamenti e che sarà sempre

più la sola sede europea a garantire della certezza del diritto. Nella

stessa dinamica interpretativa ed esplicativa si inseriscono i principi

di sussidiarietà e di proporzionalità. La Costituzione rende più

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efficace l’applicazione di questi due principi, innestandoli, nel corpo

del meccanismo istituzionale, ed infatti, nel presentare una proposta

la Commissione deve tener conto di questi due principi. Elemento

innovativo è che ciascun Parlamento nazionale potrà esprimere le

proposte, rendendo, se lo ritiene, un parere motivato circa la

 violazione del principio di sussidiarietà. Quando almeno un terzo dei

parlamentari nazionali emetta un simile parere, la Commissione è

tenuta a riesaminare la proposta.

Una riflessione conclusiva, sempre per quanto riguarda i

principi, va riservata ai fondamenti democratici dell’Unione

Europea. Non si può sottacere che sulle istituzioni europee ha pesato

spesso l’accusa di deficit democratico. È risaputo che ad una crescitaesponenziale delle prerogative dell’Unione, sempre più penetranti

nella vita dei singoli ordinamenti nazionali non ha fatto riscontro

l’adozione di strumenti istituzionali atti a garantire l’idoneo controllo

democratico delle politiche e delle normative comunitarie. La

Costituzione fornisce una risposta convincente non definitiva alla

segnalata domanda di democrazia.

La partecipazione democratica viene, in concreto, assicurata

dalla fissazione di nuovi obblighi a carico delle istituzioni in tema di

meccanismi di consultazione della società civile, trasparenza, eccesso

di documenti e protezione dei dati di carattere personale. La

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Costituzione, poi, consacra il ruolo delle parti sociali e l’Unione

favorisce relazioni dialogiche con le Chiese e le organizzazioni non

confessionali. Nuova è altresì la previsione di leggi su iniziativa dei

cittadini in numero di almeno un milione, provenienti da un numero

rilevante di Stati membri.

 Anche i Parlamentari nazionali rafforzano il proprio ruolo, non

soltanto attraverso l’early warning system (il meccanismo di

allarme preventivo nel rispetto del principio di sussidiarietà) ma

anche attraverso lìincremento della trasparenza dei lavori in sede di

Consiglio. Tuttavia il discorso sulla democrazia è sostanziale. Una

delle grandi tematiche che restano sullo sfondo della Costituzione è il

diritto europeo. Civil  Law e Common Law rischiano di restareformule descrittive o magari di ricostruzione storica di fronte allos

  viluppo inarrestabile di un nuovo  jus commune europeo,

specialmente di rilevanza privatistica.

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 Ricerca scientifica, consenso, tutela della persona

La questione delle tecniche di regolamentazione si colora

sempre più di travaglio man mano che si prende atto delle continue,

profonde e inarrestabili innovazioni della scienza e delle relative

tecniche le quali sembrano porre in grave crisi le categorie

dogmatiche elaborate dal diritto civile. Il giurista in approssimazione

al nuovo è per sua natura indotto a tentare di inglobare l’innovazione

nel rassicurante universo delle regole vigenti, garantendo in questo

modo continuità alle stesse. Sembra possibile individuare almeno tre

modelli, tra loro contrapposti.

Il primo modello è quello del  Diniego. Il diritto vietaaprioristicamente tutto ciò che non può essere assoluto nelle

categorie vigenti. Il diritto, però si sostiene, non potrebbe imparare

un’etica se etica condivisa non v’è. Può essere promozionale o

espressiva di taluni comportamenti ma non può spingersi ad imporre

un modello giuridico delegittimando gli altri. Ciò nonostante è

possibile individuare delle ipotesi operazionali in cui trova

attuazione questo modello di diritto. Modello nel quale sembra

essere escluso un attivo intervento dell’autonomia privata. Il

paradigma è offerto dalle tecniche di cassazione riproduttiva. Nella

  visione comunitaria vi è stato subito il rifiuto da parte del diritto

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della fecondazione assistita che è stato il primo passo verso la ricerca

della clonazione, perché andava contro il principio etico e contro

quello che era la libera combinazione dei geni. È ovvio che quanto

accade a livello comunitario non è altro che il riflesso speculare delle

generiche previsioni nei singoli ordinamenti Statali, tra i quali molti

già conoscevano espliciti divieti. Basti pensare all’articolo 6 della

legge tedesca del 1990, all’articolo 20.2 della legge spagnola del 1988

oppure all0’articolo 3.3 della legge inglese del 1990. Importanza

fondamentale in questa questione va attribuita al protocollo

addizionale alla convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina.

Quest’ultimo documento proibisce in maniera specifica qualsiasi

intervento che abbia lo scopo di creare un essere umanogeneticamente identico ad un altro, vivo o morto.

La Carta europea dei diritti fondamentali (approvata dal

Parlamento Europeo il 14.11.2000 e proclamata ufficialmente dal

Consiglio Europeo di Nizza il 7.12.2000 prevede nel settore dedicato

alla biologia ed alla medicina, accanto al diritto al consenso

informato nonché al divieto di commercializzazione del corpo umano

e delle sue parti, la proibizione alla clonazione riproduttiva e di

pratiche genetiche (Art. 3).

Il secondo modello di diritto è quello del  Diritto che attende. 

L’accusa che viene certe volte mossa al diritto è quella di dare giudizi

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e di appurare questioni che non comprende appieno. Si afferma che

la necessità di uno spazio che sia svincolato dal diritto, nel quale il

legislatore potrebbe entrare in casi marginali se non addirittura

eccezionali. Emblema di questa seconda prospettiva è la ricerca sulla

clonazione così detta terapeutica.

La Carta di Nizza vieta procedimenti clonativi finalizzati alla

produzione di individui con caratteristiche genetiche identiche e

sottace sugli altri interventi destinati esclusivamente alla ricerca o

all’attuazione di nuove terapie. È il diritto che attende, che lascia

spazi, zone franche dove la scienza è libera di esprimersi. Analoghe

considerazioni possono essere fatte per le esperienze giuridiche

nazionali che seguono la medesima strada. Ne sono autorevoliesempi la legislazione francese ed inglese. In Francia, sin dal 1994 il

legislatore vieta la clonazione riproduttiva, ma si esprime in favore

tanto dell’uso degli embrioni sovranumerari per fini di ricerca

quanto dell’impiego della clonazione per finalità terapeutiche. Allo

stesso modo in Gran Bretagna, nel 2000, si approva il rapporto

Donaldson e si chiude definitivamente la porta alla clonazione di

embrioni umani per scopi scientifici.

Una soluzione di compromesso tra le due opzioni analizzate

potrebbe essere definito dall’  Autonomia amministrativa. Un

esempio in questo senso è offerto dalle tecniche di fecondazione

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assistita e di maternità surrogata. Il diffondersi delle tecnologie

contraccettive e la legislazione sull’interruzione della gravidanza

hanno educato la coscienza sociale all’idea di una sensualità senza

riproduzione, alla cessione di questo binomio. Con l’analisi

comparativa è possibile distinguere, in argomento, tre tipi di indirizzi

di politica legislativa, che segnano e circoscrivono il ruolo

dell’autonomia privata nella vicenda procreativa. Il primo modello si

racchiude nella soluzione adottata negli Stati Uniti: esso riconosce

un vero e proprio right to autonomy in procreative decisions, per di

più ricondotto in ambito costituzionale. Il sistema si caratterizza per

una disciplina “aperta” delle tecniche di fecondazione artificiale

ponendosi in alternativa (o meglio, in antitesi) rispetto a quelloclassico fondato sulla famiglia nucleare, si dovrebbe così riconoscere

ad ogni individuo, senza distinzione di sesso, la più ampia libertà

possibile nell’auto-determinazione delle scelte, anche giuridiche, in

tema di paternità e maternità con compunta attuazione del right of 

 privacy. 

Il secondo indirizzo di politica legislativa costituisce uno

schema “chiuso” incentrato sul ruolo preminente della

configurazione classica del modello familiare. Esso è caratteristico

dell’Europa continentale in particolar modo della Francia dove trova

la sua prima chiara definizione nell’  Avant project de Loi sur les

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sciences de la vie et les droîts de l’homme: Rapport de présentation

del 1989 (cosiddetto  Rapport Braibant), in due importanti leggi del

1994: la 94-653 in tema di bioetica e di atti a disposizione del corpo

umano e la numero 94-654 concernenti l’assistenza medica alla

procreazione. La normativa dispone che l’accesso alla procreazione

artificiale sia esclusivamente riservato alle coppie formate da uomo e

donna, entrambi viventi e in età fertile, sposati o che siano in grado

di fornire prova di convivenza da almeno 2 anni. Ai requisiti

essenziali la legge del 1994 aggiunge l’attribuzione all’assistenza

medica in campo procreativo di una finalità esclusiva: quella di

rimediare all’infertilità, il cui carattere patologico sia stato accertato

da uno specialista della materia. Unica eccezione, l’obiettivo dievitare la trasmissione al bambino di una malattia particolarmente

grave.

Nella materia, dunque, l’ordinamento statunitense si presenta

flessibile ed estremamente liberale, mentre quello francese è più

rigido e legato ad un’idea classica del modello familiare e della

procreazione in genere.

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 PARTE TERZA: LA FAMIGLIA

 Attribuzione del cognome. Profili comparatistici 

Il cognome è il principale segno distintivo di una persona e per

questo motivo rientra nella schiera dei diritti costituzionalmente

garantiti.

Tale garanzia costituzionale dovrebbe essere data sia al

cognome della madre che a quello del padre. Ma in mancanza di una

precisa normativa si usa tradizionalmente solo il cognome paterno.

Soccorre tale tradizione la norma n. 237 del Codice Civile che,annoverando tra gli elementi costitutivi del possesso di Stato la

circostanza che “la persona abbia portato il cognome del padre che

essa pretende di avere” avvalora con il tempo l’uso del patronimico.

  A livello europeo si sta cercando in maniera pressoché

uniforme qualsiasi discriminazione in campo sessuale e non solo tra

moglie e marito. Fonte ispiratrice di questa nuova tendenza sono la

Convenzione di New York del 18.09.1979, ratificata in Italia con la

legge n. 132/85 sia sul versante europeo attraverso la risoluzione del

Consiglio d’Europa n° 37/78 e le raccomandazioni del  Parlamento

europeo n. 1271/95 e n. 1362/98 in cui si afferma che il mantenere di

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previsioni discriminatorie tra uomo e donna riguardo al nome della

famiglia viola il principio di eguaglianza.

In Francia la nuova normativa in vigore dal 01/01/05 consente

ai genitori di attribuire al proprio figlio «sia il cognome paterno che

quello materno, sia i loro due cognomi posti nell’ordine scelto da loro

nel limite di un cognome per ciascuno». In caso di disaccordo, il

figlio assume il cognome del genitore nei cui riguardi la filiazione sia

stata stabilita per prima ed il cognome di entrambi se la filiazione sia

stata stabilita simultaneamente nei loro riguardi.

Qualora i genitori portino un doppio cognome, essi possono,

con dichiarazione scritta congiunta, trasmetterne uno soltanto. In

caso di nascita all’estero di un figlio di cui almeno un genitore siafrancese, i genitori che non abbiano usufruito della facoltà di scelta

del cognome alle condizioni di cui sopra possono effettuare la

dichiarazione al momento della trascrizione dell’atto, entro i tre anni

dalla nascita del figlio.

Il cognome attribuito al primo figlio con le suddette modalità

(ex art. 311-21 code civil) si estende obbligatoriamente a tutti i figli

comuni.

Dal tenore delle predette disposizioni, si evince che, rispetto

alla questione del cognome la completa parificazione tra figli

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legittimi e figli naturali è stata pienamente realizzata almeno per

coloro che siano riconosciuti da entrambi i genitori.

Diversa è, infatti, la situazione in caso di riconoscimento

tardivo da parte di uno dei genitori. Per l’art. 311-22 code civil – nella

sua attuale formulazione (l. 4 marzo 2002, n. 304 e ord. 4 luglio

2005, n. 759) – nel caso in cui «la filiazione al momento della

dichiarazione di nascita sia stabilita nei confronti di un solo

genitore», il bambino prende il cognome di questi soltanto. Tuttavia

se il legame di filiazione viene accertato nei confronti dell’altro

durante la minore età del figlio, i genitori possono chiedere, con

dichiarazione congiunta all’ufficiale di stato civile, di sostituire o di

aggiungere (nell’ordine scelto dai medesimi e nel limite di un solonome ciascuno) il cognome del secondo genitore.

Per i nati prima dell’entrata in vigore delle indicate riforme,

l’art. 334-1 prevedeva che il cambiamento del cognome al figlio

naturale potesse essere richiesto all’ufficiale di stato civile per

domanda congiunta dei genitori, oppure al giudice degli affari

familiari (JAF) su domanda di uno dei due genitori.

Se invece vi è accordo tra i genitori, a garanzia dell’interesse

del minore, l’art. 311-23 code civil prevede attualmente che qualora il

figlio abbia compiuto tredici anni, per il cambiamento del cognome è

sempre necessario il suo consenso.

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Resta ancora applicabile ai figli nati prima dell’entrata in

 vigore delle leggi citate, la disposizione dell’art. 334-3 che consentiva

al figlio naturale, entro due anni dal compimento della maggiore età,

di chiedere la sostituzione del cognome di uno dei genitori con quello

dell’altro attribuitogli secondo l’ordine del riconoscimento.

Ciò che desta maggiore interesse è, tuttavia, la disposizione

secondo cui il cambiamento del cognome ha pieno effetto nei

confronti dei figli del beneficiario che abbiano meno di tredici anni.

Diversamente, l’art. 61-3 code civil  stabilisce che «per qualsiasi

cambiamento del cognome del minore ultratredicenne, è necessario

il suo consenso qualora tale cambiamento non risulti dalla

statuizione o dal mutamento del rapporto di filiazione». D’altrocanto, però, queste stesse circostanze, non comportano il mutamento

del cognome dei figli maggiori, salvo il loro consenso. Sembrerebbe,

dunque, che il cambiamento del cognome, in seguito ad un’azione di

contestazione di stato, sia automatica, salvo che per i maggiorenni.

Se la filiazione è adottiva, l’art. 363 code civil, nell’attuale

formulazione, per l’adozione semplice conferisce il cognome che

dell’adottante all’adottato, in aggiunta al cognome di quest’ultimo;

nel caso in cui adottante ed adottato, o uno soltanto dei due, abbiano

doppio cognome, il cognome da attribuire all’adottato risulta

dall’aggiunta del nome dell’adottante al suo proprio cognome,nei

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limiti di un solo cognome per ciascuno dei due. La scelta appartiene

all’adottante, che tuttavia dovrà ottenere il consenso dell’adottato

qualora questi abbia compiuto i tredici anni; in caso di disaccordo o

in mancanza di scelta, il primo cognome dell’adottante si aggiunge al

primo cognome dell’adottato.

Se adottano entrambi i coniugi, per l’art. 363 code civil , il

cognome da aggiungere a quello dell’adottato può essere sia quello

del marito che quello della moglie, nel limite di un cognome soltanto;

in difetto di accordo prevale il primo cognome del marito.

Il ritorno alla tradizionale prevalenza del patronimico si

giustifica, per i redattori della riforma, nell’esigenza di certezza delle

situazioni giuridiche e di stabilità del nome.La disciplina più recente abroga altresì l’art. 334-5, introdotto

dalla legge del 2002: la norma rendeva possibile attribuire il

cognome del marito al figlio nato da un precedente matrimonio –

ovviamente, con persona diversa – sciolto o annullato. Una simile

disposizione è apparsa pregiudizievole sia per il rischio di un

successivo, ulteriore divorzio; sia per il timore di agevolare pratiche

illecite di sostituzione della maternità.

Infine, per il coniuge il cui cognome non è stato scelto come

nom de famille, il legislatore francese predispone une petite

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solution: egli potrà aggiungere o anteporre al proprio il cognome

dell’altro, ma solamente à titre d’usage. 

In Germania, già dalla  EhereformG  del 1976, il § 1355 BGB

imponeva ai coniugi di scegliere tra i loro cognomi – indicandolo al

momento della celebrazione all’ufficiale di stato civile – quello

destinato ad essere il nome familiare comune. In mancanza di

accordo, era prevista la prevalenza del cognome paterno per i figli

comuni, mentre ai coniugi veniva lasciata la possibilità di aggiungere

o di posporre al cognome comune quello proprio di nascita.

In Spagna, l’art. 109 c.c., nella sua attuale formulazione,

stabilisce che i genitori possono decidere, di comune accordo,

l’ordine dei cognomi dei figli (tra i rispettivi primi cognomi) inassoluta equiparazione dei sessi. In mancanza di esercizio di tale

opzione si applica la disciplina della legge generale.

L’articolo 108 del Código Civil pone, inoltre, l’equiparazione a

tutti gli effetti della «filiazione matrimoniale» alla filiazione fuori dal

matrimonio e all’adozione.

Infine relativamente all’area di Common Law, in Gran

Bretagna, vige la regola dell’attribuzione di un solo cognome scelto

fra quello materno e paterno. Tuttavia, in generale, nei Paesi

  Anglosassoni, il problema della scelta del cognome viene affrontato

con estrema elasticità sia in sede giudiziale che in sede

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amministrativa ed è riconosciuta un’ampia libertà a ciascun

individuo di modificare il proprio cognome, una volta raggiunta la

maggiore età, purché non si rechi pregiudizio a terzi.

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 Forma, autonomia privata e negozio giuridico

L’approccio all’art. 1350 c.c. può avvenire almeno in due modi

distinti. Da un lato, infatti, non si può ignorare che la disposizione

apre e, in un certo senso “segna” la sezione IV del capo II del titolo

III, “Dei contratti in generale”, dedicata alla forma del contratto. In

altre parole, è difficile sottrarsi alla tentazione, che, in realtà,

corrisponde ad un percorso obbligato, di ricollegare l’esegesi della

norma a ciò che è “dietro” di essa, sul piano della visione storica dello

strumento contrattuale, del dibattito dottrinale sulla “forma della

manifestazione di volontà” e, in ultima analisi, sul ruolo stesso

dell’autonomia privata in sé considerata.  Apertis verbis, si tratta di prendere in considerazione la

disciplina degli “atti che devono farsi per iscritto”, avendo, altresì,

l’attenzione rivolta ai quesiti di fondo sulla forma del contratto, sulla

natura della norma, sulla sua portata e sull’eventuale sua estensione

a fattispecie “affini”.

Sotto questo profilo occorre muovere dalla valenza sistematica

dell’art. 1350 all’interno dell’elaborazione più risalente e complessiva

sul c.d. principio di libertà della forma.

Dal punto di vista storico il termine “forma” ha assunto via via

significati diversi.

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È appena il caso di ricordare che gli ordinamenti più risalenti

erano contraddistinti da un accentuato formalismo, laddove la

formula veniva a coincidere con l’elevazione del factum al rango del

giuridico e, di poi, garantiva la realizzazione degli effetti stabiliti per

legge. al rango del giuridico e, di poi, garantiva la realizzazione degli

effetti stabiliti per legge.

È soltanto con la Pandettistica che si consumò il “divorzio” tra

la forma e la volontà, nel senso che la prima venne relegata al ruolo

di veicolo della seconda, vero elemento fondante della teorica del

negozio giuridico.

D’altro canto, è sempre alla Scuola delle Pandette e nel

medesimo clima culturale, prima ancora che giuridico, che si devel’atteggiamento di diffidenza verso l’elemento formale, considerato in

termini strumentali rispetto alla voluntas e, pertanto, da guardare

con sospetto tutte le volte che il legislatore oppure gli altri formanti

del diritto vi attribuissero uno spazio eccessivo o di limitazione della

  volontà. Per questa strada, il legame tra la c.d. teoria volontaristica

del negozio giuridico ed una dimensione quasi “ancillare” della

forma puà dirsi saldato; ma l’aver strettamente legato i destini di

forma e volontà determina il successivo ripensamento dell’elemento

formale in coincidenza con la crisi del principio, se è lecito dire, sola

voluntas obligat. 

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Nella prospettiva volontaristica ritorna la concezione

funzionale dello “strumento-forma”, mentre la volontà, espressione

della signoria dell’individuo dotato di auto-nomia, è le gibus soluta 

anche in ordine alla scelta della modalità considerata più idonea a

manifestarsi all’esterno.

Per la teoria dichiarazionista, invece, l’intimo valore diventa

produttivo di effetti giuridici soltanto divenendo “dichiarazione”,

cioè volontà che si manifesta e “si dirige” ad extra; non esiste,

secondo tale logica, un contenuto disgiunto da una forma, laddove la

seconda non può mai mancare, potendo, al più, differentemente

atteggiarsi in relazione alle opzioni che le parti e, in primis, la legge

compiono sull’efficienza del requisito formale richiesto.Nella “Relazione al codice civile” si legge espressamente che

con riguardo «all’argomento della categoria degli atti soggetti a

trascrizione, è stato accresciuto il numero di quelli soggetti alla

solennità della forma scritta» e che «[…] vi è parallelismo, riguardo

ai contratti, tra l’art. 2643 e l’art. 1350».

In altre parole, emerge una visione principalmente

“funzionale” dell’elemento formale, non nel solo senso, innanzi

segnalato, della forma come “strumento” di emersione della volontà,

 bensì in una dimensione tecnica, nella quale la scelta del legislatore

del più o meno accentuato rigore formale risponde ad uno “scopo”

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pratico, piuttosto che ad un’opzione di base in tema di prerogative

dei privati.

Per oltre un trentennio l’argomento in oggetto è parso vivere di

certezze consolidate, quasi “intercluso”, se è lecito dire, nei

confiniPer oltre un trentennio l’argomento in oggetto è parso vivere

di certezze consolidate, quasi “intercluso”, se è lecito dire, nei confini

del dogma della forma libera e dell’intervento eccezionale

dell’ordinamento, sia con le previsioni codicistiche, sia tramite le

ipotesi (spesso incoerenti) dettate dal legislatore speciale.

La forma, dunque, non è un requisito in sé indispensabile; al

contrario, essa è, sul piano extragiuridico, una necessità “logica”

dell’esprimersie; al contrario, essa è, sul piano extragiuridico, unanecessità “logica” dell’esprimersi, mentre assurge al rango del diritto

soltanto se prescritta in maniera vincolata.

Ma, in questo caso – il n. 4 dell’art. 1325 – la relativa norma

non esprime un principio generale, anzi, «il principio di libertà delle

forme esprime soltanto l’assenza di una norma, e serve a designare le

fattispecie o “strutture deboli”», non a fissare uno schema generale

di “regola-eccezione”.

Nello stesso alveo di lettura “di fondo” della tematica in

oggetto si colloca la posizione di chi accosta, non senza critiche, la

riflessione sulla demolizione della libertà della forma a quella su le

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droit sans l’etat; ciò nel senso che il rifiuto dell’alternativa “regola-

eccezione” in materia di forma e l’esaltazione del mero momento

strutturale nella ricostruzione sistematica della previsione dell’art.

1325, n. 4, corrispondono all’idea di “perdita di centro”, cioè di un

diritto che ricerca sempre di più in sé la giuridicità, abbandonando il

postulato 4, corrispondono all’idea di “perdita di centro”, cioè di un

diritto che ricerca sempre di più in sé la giuridicità, abbandonando il

postulato della necessaria «associazione di idee tra “diritto” e

“ordinamento giuridico dello Stato”».

Ma è sotto il profilo degli interessi in gioco che si registrano gli

esiti più significativi in ordine alla disputa sulla forma e sulla sua

pretesa libertà.Ciò si evince a partire dal ripensamento della derogabilità e

inderogabilità delle norme.

Infatti, la vexata quaestio sulla forma imposta come regola o

eccezione è alimentata anche dall’aspetto pratico-applicativo della

portata da attribuire alle disposizioni in tema di procura legale, della

loro derogabilità, della possibilità di estenderle in via analogica.

Ecco perché v’è chi correttamente prende le mosse dall’aggiramento

dell’altro (e consolidato) idolum, secondo cui le norme sulla forma

sono necessariamente di ordine pubblico e di natura inderogabile.

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Se la stessa derogabilità o inderogabilità è soltanto una

tecnica legislativa, che «non risponde ad esigenze e a simmetrie

dommatiche ma a scelte di politica legislativa in coerenza con le

esigenze e gli interessi protetti nelle singole fattispecie, il problema

esce fortemente ridimensionato nella sua ipotetica valenza

“sistematica”.

Il primo risultato di una siffatta impostazione è il passaggio

“dal formalismo ai formalismi”; ogni disposizione in materia di

forma ha una sua logica propria, risponde a finalità differenti e,

spesso, sul piano strutturale esprime una stratificazione di diverse

legislazioni frutto di varie epoche storiche.

Il secondo è che il fenomeno della derogabilità-inderogabilitànon è sempre uguale a se stesso, bensì va visto secondo graduazioni

ed intensità molteplici, alla stregua dei più disparati fondamenti: ora

  vi è l’inderogabilità “espressa”, di solito contrassegnata dal marchio

sanzionatorio della nullità: ora, invece, grava sull’interprete, in

relazione al dato testuale ed al contesto ove è collocata la norma,

esprimere il carattere di inderogabilità.

No è credibile che la difesa dell’inderogabilità, id est  della

tassatività, preclusiva dell’applicazione analogica delle relative

disposizioni, nasconda una prospettiva lato sensu ideologica

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dell’autonomia privata,non sufficientemente permeata dai valori

costituzionalmente rilevanti.

In altre parole, l’intero dibattito pare segnato dalla visione

della forma quale “lacciuolo” dell’autonomia, quest’ultima ancora in

prevalenza coincidente con lo spazio – possibilmente ampio ed in

suscettibile di regolazione – nel quale i privati disciplinano i propri

interessi, non condizionati da ciò che interest rei. 

 Viceversa, il programma costituzionale dell’autonomia privata,

a mente dell’art. 41, commi 2° e 3° Cost., non postula alcuna

«assoluta libertà delle forme negoziali», si tratterà di appurare, case

by case, gli interessi sui quali si fondano le prescrizioni formali,

senza cedimenti né a simpatie verso forme legali emanazione di unapotestà “selettiva” statualistica, né a crociate antiformalistiche,

pronte a bollare ogni regola di forma come mero rigorismo.

Così vi saranno le forme legali poste a presidio diretto di valori

costituzionalmente rilevanti, in suscettibili di deroga e la cui

 violazione comporta automaticamente nullità.

In altre ipotesi, pur postulata l’inderogabilità delle norme sulla

forma, non è detto che ne discenda la nullità dell’atto: in queste

prospettive va ripensato il ruolo dell’art. 1423 c.c., che mentre

afferma il principio – questa volta sì – dell’inammissibilità della

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convalida del negozio nullo, lascia aperta la strada dell’intervento

legislativo («se la legge non dispone diversamente»).

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 Responsabilità civile e dovere di mitigare il danno

In generale, la norma giuridica e la stessa sanzione

contengono, o dovrebbero contenere, in re ipsa questa

predisposizione di disincentivo, costituita dalla minaccia di

conseguenze negative – che possono incidere sul patrimonio, ma

anche sulla persona – in caso di violazione del precetto.

In un organismo complesso e flessibile come quello della

responsabilità civile, abituato a profondi mutamenti di prospettiva

nel tempo, tuttavia, il paradigma degli incentivi/disincentivi non è

immutabile e segue anch’esso una sua parabola o addirittura più

parabole.Le due funzioni incentivanti per eccellenza della responsabilità

civile, sanzionatoria e preventiva, attraversano, da tempo, una

profonda crisi.

In tale prospettiva, la minaccia dell’obbligazione risarcitorio

dovrebbe indurre l’autore di condotte potenzialmente dannose ad

astenervisi oppure a realizzare le massime misure di sicurezza atte ad

evitare incidenti, internalizzandone, in questo modo, i costi. In

realtà, l’impossibilità di controllare capillarmente le fonti dei rischi e

la difficoltà di accollare esattamente il prezzo per le conseguenze

dannose agli effettivi responsabili finisce per agevolare la diffusione

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di comportamenti dannosi, segnando un’insufficienza della finalità

preventiva.

Così, mentre in Europa si moltiplicano nuove tipologie di

danni risarcibili e di diritti ed interessi da proteggere con la

responsabilità civile, negli Stati Uniti si discorre di damage lotteries 

e spinte di overdeterrence ed overcompensation, che

compromettono il funzionamento equilibrato della regola dei torts. 

Questi fenomeni indicano che i “nuovi” danni finiscono sovente per

essere liquidati abdicando a qualsiasi compito di prevenzione e

trascurando il profilo dell’autoresponsabilità della vittima, a volte in

modo arbitrariamente penalizzante per il responsabile.

Tali derive creano precedenti giurisdizionali, rischiando, inconcreto, di condizionare negativamente l’impianto della

responsabilità civile.

Una delle possibili direzioni di indagine potrebbe riguardare il

dovere di mitigare il danno da parte della vittima, con particolare

riferimento alla responsabilità extracontrattuale. In questo senso, un

originale effetto preventivo, non del tutto sondato, si gioca sul

territorio del trattamento giuridico dei comportamenti della vittima

diretti a evitare o diminuire il pregiudizio.

Il dovere di mitigare il danno (Duty to mitigate demages –

Obgliegenheit zur Schadensminderung) consiste, infatti, nel

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considerare giuridicamente tenuta la vittima a mettere in atto tutti i

comportamenti utili, nei limiti dell’ordinaria diligenza, per attutire il

danno. L’eventuale passività od inerzia rilevano ai fini di

un’eventuale esclusione o decurtazione, in parte qua, del

risarcimento del danno, mentre le spese, affrontate per adempiere

all’obbligo suddetto, dovrebbero essere pienamente ristorate da

parte del danneggiante.

Nella recezione italiana del principio si possono segnalare

essenzialmente tre diversi approcci.

Originariamente – nei primi decenni successivi all’entrata in

 vigore del codice civile – il problema del dovere di mitigare il danno

era pressoché ignorato- Si discuteva invece circa il dovere di nonaggravare il danno già avvenuto – c.d. obbligo di non aggravare il

danno – che è cosa ben distinta, in quanto si richiede che la vittima si

limiti a tenere un comportamento passivo, di non compromissione.

Nel sistema della responsabilità civile, la norma positiva, cui la

funzione descritta è stata progressivamente ricondotta, è l’art. 1227,

2° co., c.c., richiamato in materia di responsabilità extracontrattuale

dall’art. 2056 c.c.. Sulla scorta di tale disposizione “il risarcimento

non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare

usando l’ordinaria diligenza”. Nulla naturalmente si rinviene nella

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lettera della norma sull’eventuale rifusione al danneggiato delle

spese eventualmente anticipate per temperare il danno.

La norma, a ben vedere, è formulata in chiave negativa (“il

risarcimento non è dovuto”), trattando di danni che la vittima

“avrebbe potuto evitare” e non di danno già subito che debba

preoccuparsi di attenuare, non considerando alcuna cesura tra una

fase anteriore al danno ed una posteriore e, soprattutto, trattando di

un danno integralmente da evitare.

Per questo motivo, il comma in questione è stato naturalmente

trattato come una species del genus “concorso di colpa”, previsto

invece, dal primo comma dell’art. 1227 c.c., riguardante il fatto

concorrente della vittima, talmente grave da tradursi in unamonopolizzazione del nesso causale in capo a quest’ultima. Perché si

potesse configurare una violazione dell’obbligo in discorso occorreva

dimostrare che la vittima era intervenuta nella sequenza causale,

aggravando il danno con un suo comportamento gravemente

colposo.

La conseguenza estrema di questa lettura era quella

dell’esclusione in toto del risarcimento, a patto che tale

aggravamento fosse stato debitamente provato dal convenuto con

apposita eccezione in senso stretto, non proponibile per la prima

 volta in appello.

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Il principio vero e proprio, della mitigazione, invece, era

relegato tradizionalmente al settore assicurativo, dove prende le

sembianze degli obblighi di avviso e di salvataggio di cui agli artt.

1913-1915 c.c.. Annoverabile tra i correttivi degli effetti di

“deresponsabilizzazione” tipici dello strumento assicurativo,

l’obbligo di salvataggio vincola il danneggiato, nel quadro di un più

generale dovere di correttezza contrattuale, a fare quanto

ragionevolmente possibile per evitare e minimizzare il danno di cui

dovrà rispondere l’assicuratore.

Una delle più recenti tesi della dottrina italiana postula che,

una volta verificatosi il danno, si potrebbe definitivamente archiviare

il problema della causalità e della colpa di cui all’art. 1227, 1° co., c.c.,giocando interamente la questione del duty to mitigate sul terreno

dell’art. 1227 capoverso. Quest’ultima norma, espressione di un

principio di equità, prefigura sostanzialmente la necessità di operare

una selezione, interna alle conseguenze casualmente riconducibili

alla condotta del danneggiante e perciò risarcibili, tra quelle che

siano risarcibili in quanto inevitabili e quelle che non lo siano, in

quanto avrebbero potuto essere elise e neutralizzate dal danneggiato

mediante il contegno di attiva e  fattiva salvaguardia. Ma, a parte la

contraddictio in terminis che potrebbe essere giustificabile in

termini di coordinamento sistematico con la previsione – ormai

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assurta a vera e propria clausola generale – del anno ingiusto di cui

all’art. 2043 c.c., una rilettura basata sulla esclusiva rilevanza del

comportamento della vittima   post dannum non sembra, alla prova

dei fatti, apportare sostanziali trasformazioni in chiave propositiva

all’originaria funzione del non aggravamento del danno.

La scarsa attenzione al principio della mitigazione del danno,

soprattutto in chiave di obbligo positivo a carico della vittima e sue

conseguenze patrimoniali, sembra avere radici ben precise. La regola

della riparazione integrale ha posto, infatti, in primo piano la

preoccupazione di accollare la responsabilità per il danno all’autore

dell’illecito (favor creditoris), concentrandosi innanzitutto sul

problema della sanzionabilità della sua colpa, nel tempo divenuta, inmolti casi, sostanzialmente presunta.

Il nuovo principio veicolabile nel corpus della responsabilità

civile potrebbe consistere, insomma, nella mitigazione del danno,

quale limite al concetto di riparazione integrale.

L’obbligo di attenuare i danni trae la sua più profonda

ispirazione da considerazioni di carattere economico, ampiamente

recepite dai sistemi giuridici anglosassoni, sotto il profilo

dell’interesse generale ad incentivare comportamenti importanti a

criteri di diligenza.

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È qui che la figura del duty to mitigate damages or losses ha

ricevuto anche le sue applicazioni più avanzate, dovute senza dubbio

anche ad una casistica di giurisprudenza commerciale ed industriale

molto sviluppata e complessa, meno frenata da talune elaborazioni

concettuali presenti negli ordinamenti di civil law. 

  Anche nel common law possono evidenziarsi due fasi

temporali nell’evoluzione del duty to mitigate. Nella prima fase, di

emersione della nuova figura, l’accento è posto sul disincentivo verso

atteggiamenti di passività della vittima, soprattutto in contesti

commerciali, dove l’interesse è quello all’efficienza degli scambi. Uno

dei primi interventi in tal senso, è riscontrabile nel XIX secolo,

quando la regola del duty to mitigate damages è enunciata nellasentenza   Staniford v. Lyall (1830), mentre la sua recezione in un

testo di legge si deve al   Sale of Goods Act del 1979 in materia di

 vendite di beni mobili.

Negli Stati Uniti, il principio del duty to mitigate origina dal

Case Law. Se da un lato il danneggiante può eccepire che la parte

danneggiata non ha sofferto integralmente i danni per cui chiede il

risarcimento, parallelamente è pacifico che essa non debba essere

risarcita per quei danni che avrebbe potuto non soffrire (avoidable

consequences), esercitando il reasonable care per ridurre le

conseguenze derivanti dall’illecito. La prova di questo elemento deve

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essere fornita a cura del danneggiante come sua difesa in senso

stretto.

Nel contesto del civil law europeo, il principio esaminato

stenta a trovare quell’autonomia attribuita nel common law, 

consolidandone l’applicazione in specifici settori. In Germania il §

254 BGB cpv. sul  Mitverschulden, di contenuto sostanzialmente

analogo al nostro art. 1227 c.c., riguarda, in prevalenza, casi di

inadempimento contrattuale e la   fictio iuris del dovere di cercarsi

un’occupazione lavorativa –   Erwerbsobliegenheit – per arginare i

danni derivanti dalla perdita di una fonte di reddito.

Paradigmatica dei contrasti che suscita l’idea di una recezione

nel civil law del principio in discorso, risulta l’esperienza francese,nella quale, nonostante l’impulso della dottrina, né il code civil né la

giurisprudenza hanno riconosciuto espressamente diritto di

cittadinanza ad un’autonoma obligation de limiter le dammages, 

ammettendola a certi fini solo con un’interpretazione estensiva del

concorso di colpa del danneggiato.

La possibilità di limitare la regola della reparation integrale di

cui all’art. 1382 code civil attraverso l’istituto di origine anglosassone

è, di recente, al centro di un intenso dibattito, incontrando ulteriori

critiche ed ostracismi da parte della giurisprudenza. Si ricorda che,

in base alla clausola generale dell’art. 1382 code civil: “Tout fait 

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quelconque de l’homme qui cause è altrui un dommage, oblie celui 

 par la faute duquel il est arrivé è le réparer”.