da prima parte la metamorfosi -...
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DA: PRIMA PARTE: LA METAMORFOSI
Il vasto tema della metamorfosi che attraversa la nostra letteratura prendendo le mosse da
Omero, Ovidio e Apuleio verrà riletto nel corso di questo lavoro seguendo alcune piste
particolari: almeno tre, infatti, sono le caratteristiche del fenomeno metamorfosi emerse
nell’introduzione, caratteristiche deducibili non solamente dagli studi di antropologia, ma prima
ancora – vedremo – da alcuni episodi della letteratura. Le abbiamo così sintetizzate per indicare le
direzioni in cui verrà condotta l’analisi:
- il legame fra metamorfosi, mito e magia (e metafora);
- la serialità infinita e ciclica a cui è aperto il fenomeno metamorfosi;
- il realizzarsi della metamorfosi in contesti in cui vige la legge dei correlativi simmetrici, o,
più in generale, quella dell’opposizione di contrari.
Lo stretto legame fra metamorfosi e mito appare evidente in Dante e d’Annunzio; la
trasformazione come risultato della magia è meglio rappresentata da Tasso, mentre in Marino
troviamo una compresenza di entrambe le relazioni. Sulla scorta del modello ovidiano,
interpretato tuttavia in modi differenti dai diversi autori e affiancato, in alcune opere, al modello
di metamorfosi ‘pedagogica’ di Apuleio, troviamo presente, nei racconti esaminati, anche il
motivo della possibile ripetizione ciclica delle trasformazioni. Infine vedremo che quella che la
semiotica contemporanea chiama «dinamica dei correlativi simmetrici» e che troviamo nella sua
formulazione originaria negli Analitici di Aristotele con valore puramente logico, troverà proficue
applicazioni nell’ambito formale della costruzione dei testi a livello sia di episodi circoscritti, sia
della macrostruttura di un’intera opera e ci consentirà di mettere in luce il particolare rapporto
che si crea di volta in volta tra contenuto e forma.
Seguiremo ora queste tre direzioni soltanto accennate, passando in rassegna i luoghi
letterari in cui si manifestano con maggior chiarezza, partendo dalla Commedia per arrivare
all’Alcyone dannunziana.
(Dal cap. 2: Serialità infinita e ciclica)
Metamorfosi e metafora
Se ipotizziamo che la metamorfosi abbia un particolare valore sul piano ontologico,1
dovremo verificare se esso esiste e qual è il suo corrispondente sul piano logico-retorico. In
questo ci vengono in aiuto i trattatisti del Seicento, primi fra tutti Tesauro e Gracián.
Nell’Acutezza e l’arte dell’ingegno quest’ultimo dedica un’ampia sezione al genere di concetti che
chiama «trasposizioni», sezione nella quale, se ho ben inteso, egli istituisce un legame privilegiato
fra la trasposizione, la trasformazione e quella che noi chiamiamo metafora. Aprendo il discorso
sulle ingegnose trasposizioni afferma: «Esta Especie de Conceptos es una de las mas agradables,
que se observan. Consiste su Artificio en transformar el objecto, y convertirlo in lo contrario de lo
que parece».2 Le trasposizioni sono dunque delle specie di trasformazioni che interessano, mi par
di capire, il dominio dell’intenzionalità, in quanto la metafora provocherebbe un mutamento nel
modo con cui il fruitore guarda, percepisce e giudica il contenuto che gli viene comunicato. E
questo cambiamento di prospettiva per cui ad una immagine se ne sovrappone un’altra e a una
cosa se ne sostituisce un’altra «se requiere algun fundamento de alguna conformodidad, o como
aparencia co aquel otio extremo, en que se trasforma»,3 richiede qualche fondamento di un’affinità
qualsiasi, almeno una parvenza di affinità, fra l’assunto e l’estremo in cui si trasforma. I possibili
fondamenti di affinità sono diversi e vengono indicati nella polisemia delle parole, nella
paranomasia e, in particolare, nell’analogia che sta alla base della similitudine fra due enti. Mette
conto ripercorrere, almeno nelle loro linee essenziali, le pagine di Gracián per vedere se nella
casistica che espone è possibile ritrovare alcuni meccanismi retorici messi in atto da Marino
nell’Adone:
Aunque en este linage de conceptos campea mas la sutileza, que la verdad; con todo esso se requiere algun fundamento de alguna conformodidad, o como aparencia co aquel otio extremo, en que se trasforma. […] Es mas fundada la transmutacion, quando el termino transformado tiene algo de equivocacion con el otro, en que se transforma, y està como a dos luzes, dos vertientes […]. Si ay alguna circunstancia especial, que de ocasion para la transposicion, haze la Agudeza mas fundada, y assi mas plausible: porque con la conformidad, que dize con el termino, en que se convierte, da verdadero fundamento al concepto. […] La Paranomasia, y cadencia del nombre, basta para una artificio sa transposicion […]. La semejanza tercia mucho para la Transposicion, y lo que otro exprimiera por un simile, el Ingegnoso lo pondera por esta sutil transformacion. El juyzioso Alciato dize, que el palacio no lo es, aunque lo parece, sino verdadera carcel […].
1 Mi sembrano, infatti, quantomeno anomali l’insistenza e lo spazio che Marino dedica alle trasformazioni se esse non fossero portatrici di un significato che vada il di là di quello ornamentale. 2 BALTASAR GRACIÁN, Argudeza y arte de ingegno, Huesca, Juan Nogués, 1648, p. 111, corsivo mio: «questa specie di concetti è una delle più gradevoli che sia dato d’osservare. La sua tecnica consiste nel trasformare l’assunto convertendolo nel contrario di ciò che appare». Per la traduzione si è fatto riferimento a GRACIÁN, L’acutezza e l’arte dell’ingegno, introduzione di M. Perniola, trad. di G. Poggi, Palermo, Aesthetica, 1986, pp. 136-139. 3 Ibidem. In termini analoghi, ma con minore insistenza circa le trasformazioni, si esprime Emanuele Tesauro nell’analisi della metafora che occupa gran parte del suo Cannocchiale aristotelico.
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Algunas vezes no se transforma el mismo sucesso, sino sus cirsunstancias; como sus causas, prohijandole a otras de lasque se piensan […]. Conviertense otras vezes los efectos en los contrarios; y en otro muy diferente el fin, que se pretendia. […] Convertir el objecto en su contrario, es gran sutileza.4
L’esordio mi pare significativo: l’autore per prima cosa colloca questo genere di figure retoriche
sotto il marchio di una sottigliezza che ha spesso la meglio sulla verità, fornendoci un’esplicita
chiave di lettura circa la libertà - rispetto al piano delle res e del loro essere - con cui le
trasposizioni vengono realizzate. Nonostante questa libertà della parola rispetto alla res, però,
affinché avvenga la trasposizione ci vuole anche solo una parvenza di affinità tra la cosa, la parola
che comunemente la indica e la parola che viene chiamata in causa per sostituire quest’ultima. La
somiglianza viene ricercata sia a livello di contenuto - e parliamo di «equivoco», per creare il quale
è necessaria qualche somiglianza fra due cose; sia a livello formale – e parliamo di «veste fonica» e
di «paranomasia». Ma ciò che «gioca molto a favore» della trasposizione, e dunque ne costituisce
una solida base, è l’analogia, termine che Aristotele e, con lui, Tesauro, colloca alla base della
generazione della metafora. Aristotele, infatti, nella Poetica definisce la metafora come
«imposizione di un altro nome: o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o dalla specie a
una specie, o secondo analogia»5 e uno studioso come Virgilio Melchiorre afferma che nella
Retorica si vede emergere la priorità del rapporto di analogia rispetto agli altri tre elencati dallo
Stagirita.6 Tesauro, da parte sua, definisce la metafora come «il più ingegnoso et acuto: il più pellegrino
e mirabile: il più gioviale e giovevole: il più facondo e fecondo parto dell’humano intelletto» in quanto essa
«traendo la mente, e non men la parola, da un genere all’altro, esprime un concetto per mezzo di
un altro molto diverso, trovando in cose dissimiglianti la somiglianza»:7 la somiglianza sta
dunque, per entrambi gli autori, alla base della costruzione (e della comprensione) della metafora.
Gracián non parla esplicitamente di metafora, ma che dietro la sua «analogia» si nasconda
proprio la regina delle figure retoriche appare chiaro se rileggiamo l’esempio dell’ “assennato
Alciato”: «e ciò che un altro esprimerebbe attraverso una similitudine («por un simile»), l’ingegnoso
lo valuta attraverso questa sottile trasformazione («trasformacion»). Dice l’assennato Alciato che la
4 GRACIÁN, Argudeza, cit., pp. 111-113, corsivi miei: «Quantunque in questa specie di concetti spicchi più la sottigliezza che la verità, […] si richiede qualche fondamento di un’affinità qualsiasi […] fra l’assunto e l’estremo in cui si trasforma […]. La trasposizione è più fondata quanto il termine di partenza può generare un certo equivoco rispetto all’altro in cui si trasforma, ed è come bifronte, a doppio taglio […]. Se c’è, a dar vita alla trasposizione, una qualche peculiare circostanza, essa rende più fondata e di conseguenza più riuscita l’acutezza perché, attraverso l’affinità che la rende comunicante con il termine in cui si trasforma, fornisce al concetto una solida base […]. La paranomasia e la veste fonica sono sufficienti a creare un’artificiosa trasposizione […]. L’analogia gioca molto a favore della trasposizione e ciò che un altro esprimerebbe attraverso una similitudine, l’ingegnoso lo valuta attraverso questa sottile trasformazione. Dice l’assennato Alciato che la corte non è corte […], ma vero e proprio carcere […]. A volte non è l’evento a subire trasformazione, bensì le sue circostanze, o le sue cause, nel senso che lo si attribuisce ad altre, diverse da quelle supposte […]. Altre volte sono le passioni a trasmutarsi nel loro contrario e il loro scopo in uno assai diverso dal presunto […]. Indice di grande arguzia è ad esempio convertire un oggetto nel suo contrario». 5 ARISTOTELE, Poetica, a cura di M. Zavatta, in Id., Opere, Torino, U.T.E.T., 2004, 1457b 8-11. 6 Cfr. VIRGILIO MELCHIORRE, La via analogica, Milano, Vita e Pensiero, 1996, pp. 54 e sgg. 7 EMANUELE TESAURO, Il Cannocchiale aristotelico, Torino, Bartolomeo Zavatta, 1670, p. 266.
3
corte non è corte […], ma vero e proprio carcere» (p. 137 della traduzione). La sottile
trasformazione non è dunque una similitudine: sembra essere qualcosa di più, come l’esempio
dovrebbe indicare. Ma l’esempio di Alciato non esibisce altro che una metafora: «la corte è un
carcere». La trasposizione trova dunque il suo massimo grado di acutezza e insieme di solidità in
quella che Aristotele e Tesauro chiamano metafora.8 La trasposizione, che è una trasformazione,
è dunque strettamente legata alla metafora. Il nesso fra trasformazione-metamorfosi e metafora si
sta dunque chiarendo. E anche se la trasformazione di cui parla Gracián rimane interna al
soggetto, in quanto coincide con un cambio di prospettiva, non è forse pur questa una
metamorfosi? Se, passando attraverso i vari tipi di trasposizione, potessimo legare il processo di
trasformazione alla metafora, la metamorfosi (in quanto trasformazione) sarebbe proprio l’anello
che, nell’Adone, lega piano ontologico e piano logico-retorico perché presente a entrambi i livelli,
talvolta contemporaneamente, talvolta no.
Certamente nell’Adone, quando si tratta di metamorfosi, non incontriamo personaggi
trasformati nel loro contrario (se stessimo alla lettera della definizione di Gracián) ma non
possiamo negare che la metamorfosi serva a produrre nel lettore una nuova prospettiva sulle
cose: quando un uomo è trasformato in albero, apparentemente non siamo di fronte ad un
contrario che subentra all’altro, tuttavia, si tratta di vita che sembra diventare morte, e morte che
invece si rivela vita, sia sul piano dell’essere degli enti in questione, sia sul piano dell’intenzionalità
del lettore. In questo senso le trasformazioni dei racconti secondi, così come anche quella di
Aurilla e di Adone conducono il lettore a vedere la vita anche dietro il suo contrario (e viceversa).
Alle metamorfosi sul piano dell’essere sembrano corrispondere, sul piano retorico, le
trasposizioni di cui parla Gracián, cioè delle similitudini in cui un membro si identifica e si
trasforma nell’altro, vale a dire metafore. In alcuni casi la corrispondenza fra metamorfosi e
metafora è particolarmente evidente, per esempio nell’esperienza di Narciso:
«fatto è strale e bersaglio, arco ed arciero» (V, 26)
«Depose […] / la vita e, morto in carne, in fior rinacque»
«L’onda che già l’uccise, or gli è nutrice» (27)
8 Sulla scorta delle precisazioni di Frare, ricordo che la definizione di metafora fornita dal Tesauro comprende un orizzonte ben più ampio rispetto a quello cui facciamo riferimento oggi: Tesauro fa coincidere, infatti, i confini della metafora con quelli delle figure ingegnose e Frare spiega: «Così la metafora […] comprende in realtà tutte le figure dianoeas […], cioè quelle che consistono “nella significazione ingegnosa” […]. Esse comprendono otto specie, cui l’applicazione del genere metafora può essere ora da noi accettata solo a prezzo di una notevole dilatazione del significato attualmente attribuito al termine, come risulta con chiarezza già dal semplice elenco: metafora di proporzione, di attribuzione, di equivoco, di ipotiposi, di iperbole, di laconismo, di opposizione, di decezione». Lo studioso continua precisando che il significato contemporaneo di metafora coincide solamente con ciò che Tesauro intende per ‘metafora di proporzione’: il che comunque ci basta per stabilire un legame fra la trasformazione di cui parla Gracián, la metafora del Tesauro e la metafora come la intendiamo noi oggi (Cfr. PIERANTONIO FRARE, Contro la metafora. Antitesi e metafora nella prassi e nella teoria letteraria del Seicento, «Studi secenteschi», XXXIII (1992), pp. 3-20: 4-5).
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Possiamo facilmente osservare come in ognuno dei tre versi un membro si trasformi nell’altro
intorno al centro della metamorfosi del giovane in fiore. Nel primo verso metamorfosi e metafora
sono strettamente legate: all’immagine di Narciso infatti si sostituiscono via via le successive, in
un alternarsi di contrari. Egli non solo è come un bersaglio, ma è un bersaglio e tuttavia è ancora
Narciso: la metafora provoca nella mente del fruitore la metamorfosi di un’immagine nell’altra,
prima ancora che venga descritta la vera e propria trasformazione (stavolta davvero anche sul
piano dell’essere) del giovane in fiore. Nel secondo verso si consuma la metamorfosi e Marino
rovescia nel chiasmo la prospettiva appena introdotta: se Narciso muore relativamente alla
dimensione umana, rinasce immediatamente nel fiore. Allo stesso modo si rovescia la funzione
dell’onda, da assassina a nutrice: l’agire dell’acqua è sempre il medesimo, ma sulla base di questa
identità si genera la duplicità di prospettiva. E così Narciso e onda vengono trasformati, nella
mente del fruitore, nel contrario di ciò che appaiono.
Lo stesso fenomeno si rintraccia, con maggiore difficoltà, anche nel caso di Ciparisso, in cui è il
valore della metamorfosi stessa che sembra ad un certo punto trasformarsi da negativo in
positivo: «e, quant’uom desiava, arbore ottiene»: da punizione per il suo attaccamento alle cose
terrene a concessione accordata dalla divinità quasi come consolazione per la mutata forma.
Un altro esempio in cui metafora e metamorfosi sono intrecciate, anche se non
sovrapposte, è quello di Pavone. Nei versi a lui dedicati una carrellata di metafore precede il
racconto della metamorfosi: l’animale è «occhiuto augel», «di fiori incorrottibili gemmato» e «si
tira» dietro «un più vago giardin»; le sue penne sono «un gemmaio», la sua coda una «stellata
sfera» di «tant’occhi» (VI, 79). Le stelle rubate al cielo dal giovane amante di Colomba diventano
in successione fiori incorruttibili, gemme e infine occhi che ricollegano la catena all’«occhiuto
augel», mentre il suo manto diventa giardino, gemmaio, corona e infine sfera stellata. Anche in
questo caso la catena di trasformazioni è possibile sulla base di una caratteristica comune che lega
il membro precedente al successivo e in questo sostituirsi di un’immagine all’altra il lettore ha
continuamente presenti nella mente le due forme di Pavone: quella umana grazie ai richiami
all’evento che ha determinato la trasformazione (lembo, stelle, sfera stellata) e quella animale
espressamente ricordata. La metamorfosi dell’uomo in uccello avviene anche questa volta prima
sul piano retorico e poi su quello ontologico: prima abbiamo un animale il cui corpo è descritto
con una serie di metafore collegate, poi il racconto della trasformazione. Le metafore
introducono dunque la metamorfosi e si strutturano – in anticipo – sulla base degli elementi
fondamentali dell’episodio. Le modalità della trasformazione sembrano essere condizioni di
possibilità della costruzione delle metafore, come anche le metafore che nascono
dall’osservazione dell’animale pavone possono essere condizione di possibilità dell’invenzione
dell’episodio. Ancora una volta vediamo confermato lo stretto nesso tra metamorfosi e metafora
5
che sembra costituire la legge ‘cosmica’ che regola l’Adone sia nei contenuti, sia nelle forme della
narrazione.
E’ l’episodio di Pampino quello in cui meglio emergono il valore della trasposizione di cui
parla Gracián e il legame che c’è fra metamorfosi e possibilità di cambiamento di prospettiva:
dopo la morte di Pampino, Atropo grida a Bacco: «Ti diè […] / morendo, aspra cagion di pianto
amaro, / per dar al mondo tutto, or ch’egli è morto / cagion poi di letizia e di conforto» (XIX,
105). La trasformazione è doppia: da una parte, quella di Pampino in altra sostanza; dall’altra
quella dell’effetto della sua morte.9 Con una trasposizione, anche se senza arguzia, Atropo mostra
a Bacco il lato a lui nascosto della faccenda: la morte di Pampino è tale solo in apparenza, in
realtà essa è vita. Il fenomeno è ancora più significativo due ottave sotto: «Mutasi […] / quella
spoglia, ch’insensata e priva / era intutto di vita, in vite viva» (107). E’ un evidente caso di
ingegnosa trasposizione fondata sulla veste fonica del nome, «sufficiente», secondo Gracián, «a
creare un’artificiosa trasposizione»:10 l’equivoco poliptoto vita, vite, viva – in cui «vite» non è il
plurale di «vita», ma il nome della pianta - è la somiglianza sulla base della quale si manifesta la
possibilità del passaggio della vita da Pampino-uomo alla vite in cui è trasformato. Qui non si
tratta di metafora, ma ad essere legata alla metamorfosi è comunque una dinamica che Gracián
considera affine alla metafora stessa: una trasposizione, appunto, fondata sull’equivoco e
sull’analogia tra le parole che sembra quasi fondare la possibile analogia tra gli atti propria della
metafora. Poche ottave dopo, infatti, Bacco esclama: «fatto il bel corpo tuo frondoso e verde / le
sue prime dolcezze ancor non perde»: come Pampino-uomo procurava dolcezza a Bacco, così
succede per Pampino-vite, in una analogia di atti.
Altri esempi del legame che intercorre fra metamorfosi e ingegnosa trasposizione si
trovano nelle parole di Galatea a Polifemo appena prima di trasformare Aci in fiume, e nelle
parole di Venere al momento di trasformare il cuore di Adone in fiore. «D’uccider ti credesti
Acide mio / e t’avedrai che d’uom l’hai fatto dio» (147), esclama la ninfa con improvviso
rovesciamento di prospettiva; mentre per Adone-fiore si tratta, come per Pavone, di una catena di
metafore in cui il primo membro della similitudine si trasforma nel secondo e così di seguito. Il
fondamento dell’analogia Adone-fiore è espresso con una serie di metafore nelle ottave 416-7,
quindi una nuova carrellata sempre di metafore fa rivivere Adone sul cuore della dea (e trasforma
quindi la morte in vita):
E poich’ei fu d’ogni bellezza il fiore e di fiori ebbe adorno il seno e’l viso e mi fu tolto insu l’età fiorita, vo’ che, cangiato in fior, ritorni in vita. 9 «Altre volte sono le passioni a tramutarsi nel loro contrario e il loro scopo in uno assai diverso dal presunto», GRACIÁN, p. 138: nel caso di Pampino il «pianto amaro» diventa «letizia» e «conforto». 10 Ibi, p. 137.
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Tra i fiori, o fiore, il primo pregio avrai, torrai lo scettro ala mia rosa ancora; vinti saran da te quanti giamai Clori in terra ne sparse, in ciel l’Aurora; ornamento immortal de’ miei rosai, perpetuo onor dela vezzosa Flora, nova pompa del prato e del terreno, novo fregio al mio crine ed al mio seno. (XIX, 416-417, c.vi e spaziati miei)
Tutte le volte che compare la parola «fiore» in questi versi si tratta di metafora: alla fine dell’ottava
416, fiore significa sempre bellezza o splendore, ed è nel passaggio fra le due ottave che si
consuma la metamorfosi logica prima ancora che reale: prima Adone-fiore era una metafora;
all’inizio dell’ottava 417 Adone-fiore è l’anticipazione di una realtà che sta per manifestarsi. Il
Pozzi segnala, però, che in questo caso Marino rifiuta le similitudini che troviamo in Ovidio e
nell’Anguillara e rifiuta perciò anche la metamorfosi come struttura fondamentale.11 Eppure
quella metafora Adone-fiore mi sembra - ben più di una similitudine - già anticipo della
metamorfosi stessa, proprio perché nella metafora un membro della proporzione non è solo come
l’altro, ma è già l’altro, come Adone è fiore prima ancora che il suo cuore lo diventi
materialmente. Il fatto che solo il cuore del giovane venga trasformato non toglie nulla allo stretto
rapporto tra metamorfosi e metafora.
Gli episodi finora esaminati alla luce della classificazione di Gracián, che annovera una
certa specie di metamorfosi anche tra le figure retoriche, servono a dimostrare lo stretto legame
che intercorre tra piano retorico e piano ontologico, anche in un autore come Marino che sembra
piuttosto impegnato a sganciare i due ambiti per sbilanciare tutto il peso dalla parte della retorica.
La metamorfosi degli enti uno nell’altro è spesso anticipata da una carrellata di metafore (si sono
presi in considerazione i casi più evidenti, che poi sono anche quelli più significativi, in quanto
Narciso e Pampino sono i personaggi che più si avvicinano ad Adone), cioè da metamorfosi di
immagini una nell’altra, tanto che a volte sembra essere la metafora a generare l’idea della
metamorfosi e non viceversa. Questa però non credo sia un’argomentazione a favore della
marginalità del tema: in un poema in cui la metafora ha così ampio spazio tanto da ricorrere
continuamente, soprattutto nelle descrizioni, è possibile che la sua analoga sul piano ontologico, 11 POZZI, Commento al c. XIX , p. 693. Sottolineano invece il legame tra metamorfosi e metafora nella scrittura dell’Adone il Guardiani (La meravigliosa retorica dell’Adone...cit.) e la Cabani, che insiste: «Nella memoria del lettore domina incontrastata una sola voce: quella di un narratore che della parola e delle sue meravigliose metamorfosi si compiace […]. Similitudine, metafora e metamorfosi sono le figure che, oltre a dare vita al gioco di interscambio, al continuo traslocare delle forme e al trasmigrare degli attributi, rappresentano la ‘vera essenza’ del lungo discorso mariniano. La similitudine equipara mondi distinti cogliendo le intime analogie che li legano», la metafora li sostituisce uno all’altro, la metamorfosi «è la dinamica trasformativa che dall’uno conduce all’altro». Secondo l’autrice similitudine e metamorfosi contribuiscono proprio alla costruzione di un universo metamorfico nel quale il grande assente è l’uomo, un universo in cui «lo scambio delle forme è la regola». CABANI, Le parole del cinghiale, cit., p. 76.
7
la metamorfosi, cui non solo sono riservati molti versi, ma che risulta decisiva anche sul piano
narrativo,12 abbia funzione solo ornamentale? Inoltre, il fatto che la metafora si trovi
preferibilmente nelle descrizioni (basti pensare a quelle di Amore, Circe, Adone e Gelosia)
piuttosto che nelle narrazioni provoca un’ulteriore riflessione: nell’universo mariniano (e in
generale barocco) tutto è sempre così incline a cambiare forma che, anche quando si tratta di
‘fermare’ le caratteristiche di un ente tramite una descrizione, viene introdotta la metafora che
muove le immagini mutandole una nell’altra. La metafora sembra addirittura sostituire la
metamorfosi quando quest’ultima non può aver luogo perché il contesto in cui ci troviamo è
statico.
Abbiamo già detto della metamorfosi come legge generale dei fenomeni naturali nel
mondo dell’Adone: ora possiamo aggiungere che essa sembra avere nel poema un preciso
corrispettivo retorico, la metafora, ma non solo per il fatto che abbiamo rilevato nei racconti di
metamorfosi la presenza di numerose metafore, quanto piuttosto perché, in generale, ciò che
l’una fa accadere sul piano ontologico, l’altra provoca sul piano retorico-formale. La
metamorfosi, infatti, è apparsa, nell’Adone, come legge capace di attribuire agli enti forme prima
mai possedute; come sappiamo da Aristotele e come ribadiscono i teorici del Barocco, in primis
Tesauro, nell’ambito delle figure retoriche la metafora è considerata come attribuzione di un
nome ad un ente cui tale nome propriamente non appartiene. Si tratta dunque in ogni caso di uno
spostamento di forma verso qualcosa cui tale forma è estranea e su cui presto si modella
adeguatamente. Vediamo come nei versi del Marino venga alla luce in modo particolare questo
rapporto fra metamorfosi e metafora.
Sempre uguale a se stessa nella dinamica – e quindi ripetitiva – la metamorfosi è legge
sempre passibile di variazioni solo a livello degli accidenti, nel senso che vale per tutti allo stesso
modo, ma può essere prodotta da cause differenti e può produrre effetti differenti fra loro.
Ripetitiva a livello fenomenico, essa è contemporaneamente feconda e sterile. E’ feconda rispetto
alla conservazione della specie e sterile rispetto al singolo individuo per almeno due motivi:
l’uomo trasformato in fiore non vive comunque più mentre vive il fiore; il personaggio cui
vengono presentate le vicende esemplari di metamorfosi non ne sa trarre alcun vantaggio.
Marino, infatti, conserva per la metamorfosi l’aspetto punitivo attribuitole da Ovidio e da Dante,
ma le toglie l’efficacia dell’ammaestramento, quindi la funzione, per così dire, performativa.
Questa decurtazione aggrava ulteriormente la sterilità di un processo chiuso su di sé, che compie
sempre gli stessi movimenti e dal quale l’uomo non sembra poter uscire se non attraverso una
inversione del desiderio, come abbiamo ipotizzato considerando le parole di Teti. Vedremo che
questo avverrà nell’esperienza del pellegrino della Commedia e nella vicenda di Rinaldo nella 12 Si veda per questo CHERCHI, Le metamorfosi, cit.
8
Gerualemme liberata, ma non succede nella storia di Adone. Il motivo di questo è da ricercare, a mio
avviso, nell’identificazione della realtà con la sfera del percepibile, che è in continuo divenire e in
cui il rimando da una somiglianza all’altra finisce e ricomincia in ogni punto di contatto fra due
enti analoghi.
(Dal cap. 3: La correlazione simmetrica)
Simmetria e Reciprocità nei duelli della Gerusalemme Liberata
La situazione del duello si presta in modo particolare alla ricerca delle simmetrie e delle
specularità sul piano dei contenuti, ma quello che ci interessa far emergere è la corrispondenza tra
contenuto e forma e, soprattutto, la differenza tra una serie di duelli che coinvolgono un
guerriero pagano e uno cristiano e il duello Tancredi-Clorinda, scontro di sessi e di religioni che
presenta alla fine un’apertura assente negli altri episodi e dovuta al passaggio di Clorinda dal
paganesimo alla fede cristiana. Il confronto tra queste due tipologie di duello ci permetterà, lo
anticipiamo, di mettere a fuoco la diferenza tra correlazione simmetrica e asimmetrica e di
introdurre la dinamica che riconosceremo propria alla coversione.
Nelle due parti del duello Tancredi-Argante – che fa quasi da cornice al cuore della
vicenda –, così come negli scontri fra Argante e Raimondo e Tancredi e Rambaldo, vedremo
come i guerrieri ricalcano le loro mosse su quelle dell’avversario e come le forze (fisiche e verbali)
dell’uno si moltiplichino a misura che aumentano quelle del nemico. Un particolare interessante è
che la maggior parte di questi combattimenti non si conclude grazie alle mosse dei cavalieri, bensì
grazie ad un intervento esterno che pone fine al continuo ricalcarsi dei gesti dei personaggi: segno
forse della sterilità della dinamica speculare, di cui abbiamo già detto nel capitolo precedente e
che ritroviamo anche nella schermaglia amorosa che si consuma fra Armida e Rinaldo, guerra di
sguardi e di parole che ricadono continuamente su se stessi fino al momento determinante della
conversione dell’eroe con tutte le conseguenze che essa provoca.
Il primo duello significativo che il lettore incontra è quello fra Tancredi e Argante, che
dovrà interrompersi per il sopraggiungere delle tenebre: Tasso dedica la prima ottava agli insulti
di Tancredi verso Argante e la seconda, specularmente, ai ruggiti del circasso contro Tancredi.
Seguono quattro ottave che descrivono la prima fase del duello, in cui i cavalieri assumono i
medesimi atteggiamenti:
9
Ma poi ch'in ambo13 il minacciar feroce a vicenda irritò l'orgoglio e l'ira, l'un come l'altro rapido e veloce, spazio al corso prendendo, il destrier gira. (VI, 39) Posero in resta e dirizzaro in alto i duo guerrier le noderose antenne; […] quinci Tancredi e quindi Argante venne. (40) L'uno e l'altro cavallo in guisa urtosse che non fur poi cadendo a sorger pronti.(41) Cautamente ciascuno a i colpi move la destra, a i guardi l'occhio, a i passi il piede. (42)
Vediamo che l’autore sottolinea quasi sempre in apertura di ottava la corrispondenza fra i due:
«ambo»; «l’un come l’altro»; «i duo»; «quinci» e «quindi»; «l’uno e l’altro»; «ciascuno». Dopo
l’azione/reazione iniziale i due intraprendono una specie di gioco dello specchio, compiendo gli
stessi gesti. Seguono altre due ottave, dedicate, ancora, la prima a Tancredi, la seconda ad
Argante, quasi a ripetere lo schema iniziale, schema ampliato dalla descrizione di un ulteriore
scambio di colpi simmetrici: Argante «corre […] per ferirlo», allora Tancredi «ribatte, e lui fere anco»
(43); quindi il circasso «torna per ferire» (44) e infine Tancredi «poi che non s'allenta il fer pagano, /
è forza al fin che trasportar si lassi, /e cruccioso egli ancor con quanta pote / violenza maggior la
spada rote» (47). Entrambi reagiscono sempre alla provocazione dell’altro, e quando i gesti non
sono i medesimi, sono almeno corrispondenti (come abbiamo visto per la trasformazione
serpente-ladro in Dante): quando Tancredi «si raccoglie e si restringe in guarda» (43), il pagano va
all’attacco e «con la voce la spada insieme estolle» (44). Seguono due ottave dedicate ad Argante e
una a Tancredi, con inversione dell’ordine osservato sopra:14 la scena si conclude con l’incertezza
dei due popoli che osservano il duello e con l’interruzione per l’arrivo della notte.
Accumulazione, chiasmo e parallelismo15 sembrano essere le figure privilegiate a
sostenere la costruzione retorica della scena, figure, non a caso, della moltiplicazione e della
circolarità. Troviamo una serie di accumulazioni all’inizio del duello:
or gira intorno, or cresce inanzi, or cede, or qui ferire accenna e poscia altrove, dove non minacciò, ferir si vede, or di sé discoprire alcuna parte. (42)
giunta or piaga a la piaga, ed onta a l'onta, (45) 13 Segnalo in corsivo le parole che indicano l’analogia di intenti e il paralllelismo di azioni che caratterizzano i due protagonisti del duelllo. 14 Si ottiene così la sequenza Tancredi-Argante; Tancredi-Argante; Argante-Argante-Tancredi. Se osserviamo di seguito il secondo e il terzo elemento della serie vediamo che essi formano una specie di chiasmo imperniato sul pagano, che vale anche se avviciniamo primo e terzo elemento. La sequenza, passibile di ripetizione identica, si chiude così su se stessa, ma senza arrivare ad una conclusione del duello. 15 Sempre segnalati in corsivo.
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seguiti da una serie quasi alternata di chiasmi e parallelismi
e la vendetta far tanto desia che sprezza i rischi e le difese oblia. (45) (chiasmo)
E congiungendo a temerario ardire estrema forza e infaticabil lena, (parallelismo) vien che sí impetuoso il ferro gire che ne trema la terra e 'l ciel balena; (chiasmo) né tempo ha l'altro ond'un sol colpo tire, onde si copra, onde respiri a pena, (parallelismo) né schermo v'è ch'assecurar il possa da la fretta d'Argante e da la possa. (46) (parallelismo nella rima)
fino alla concitata ottava 48 in cui è descritta l’ultima scena visibile del duello:
Vinta da l'ira è la ragione e l'arte, e le forze il furor ministra e cresce. Sempre che scende, il ferro o fòra o parte o piastra o maglia, e colpo in van non esce. Sparsa è d'arme la terra, e l'arme sparte di sangue, e 'l sangue co 'l sudor si mesce. Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono, fulmini nel ferir le spade sono.
I secondi emistichi dei primi due versi si ricalcano nella struttura a duplicatio; segue una
accumulazione imperniata sul polisindeto della disgiunzione («il ferro o fòra o parte // o piastra o
maglia»); poi un chiasmo che sovrappone armi e terra («Sparsa è d'arme la terra, e l'arme sparte»)
e le confonde col sangue nella reduplicatio scandita dal polisindeto. La scena si chiude con un
chiasmo («Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono») e un parallelismo fra due emistichi
(«Lampo nel fiammeggiar» / «fulmini nel ferir»).
Opposizioni analoghe ritroviamo all’inizio del duello fra Tancredi e Rambaldo, cavaliere
di Armida: in questo caso le prime tre ottave sono egualmente distribuite fra pagano e cristiano
che si provocano a vicenda:
"O tu, che (siasi tua fortuna o voglia) al paese fatal d'Armida arrive, pensi indarno al fuggir; or l’arme spoglia, e porgi a i lacci suoi le man cattive, ed entra pur ne la guardata soglia con queste leggi ch’ella altrui prescrive, né piú sperar di riveder il cielo per volger d'anni o per cangiar di pelo, (VII, 32)
se non giuri d'andar con gli altri sui contra ciascun che da Giesú s’appella." (33) […].
Di santo sdegno il pio guerrier si tinse nel volto, e gli rispose: "Empio fellone,
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quel Tancredi son io che ’l ferro cinse per Cristo sempre, e fui di lui campione; e in sua virtute i suoi rubelli vinse, come vuo' che tu vegga al paragone, ché da l'ira del Ciel ministra eletta è questa destra a far in te vendetta." (34)
Rambaldo invita Tancredi a deporre le armi e a lasciarsi irretire dai lacci di Armida obbedendo
alle sue leggi e rinnegando la sequela di Gesù. Tancredi risponde quasi punto per punto alle
parole dell’avversario: a «or l’arme spoglia» si contrappone «son io che ’l ferro cinse / per Cristo
sempre»; a «e porgi ai lacci suoi le man cattive» si oppone «questa destra», «ministra eletta» del
Cielo. Rambaldo ribatte ancora alle parole del principe, ma Tancredi risponde preparandosi al
combattimento e scendendo da cavallo per farsi uguale, per esigenze di cavalleria – e per legge di
simmetria -, al proprio nemico che è a piedi. Comincia il confronto in cui ad ogni passo avanti
dell’uno corrisponde un equivalente passo indietro dell’altro: diversa struttura rispetto al duello
Tancredi-Argante, ma analoga dinamica dei correlativi. Dove Rambaldo indietreggia, Tancredi
avanza («e là donde Rambaldo a dietro fassi / velocissimamente egli si spinge, /e s'avanza e
l'incalza», 39); dove uno si difende, l’altro attacca («ma veloce a lo schermo ei non è tanto /che piú
l'altro non sia pronto a l'offese», 40); dove uno scappa, l’altro insegue (onde al ponte rifugge, e sol
nel corso / de la salute sua pone ogni speme. / Ma 'l seguita Tancredi, e già su 'l dorso / la man gli
stende e 'l piè co 'l piè gli preme», 44). Anche in questo caso il buio pone fine allo scontro, un
buio provocato dalla magia di Armida che salva così il suo cavaliere.
Ludovico e Padre Cristoforo
Se sostanziali sono le differenze fra le due eroine della Gerusalemme Liberata, pur nelle numerose
caratteristiche che le accomunano, possiamo riscontrare una significativa analogia fra una di esse,
Clorinda, e uno dei personaggi dei Promessi sposi, fra Cristoforo, apparentemente molto distante
dalla guerriera musulmana, ma come lei protagonista di un cambiamento che lo porta a passare
dalla logica dei correlativi simmetrici alla logica del perdono.
Dei celeberrimi luoghi della conversione di Ludovico voglio mettere in luce soltanto due
aspetti strettamente collegati: la costruzione dei dialoghi e i rapporti che si creano fra i personaggi.
Lo farò considerando due particolari scene che troviamo nel capitolo IV, quella del duello fra
Ludovico e il nobile, e quella della pubblica richiesta di perdono al fratello dell’ucciso.
Focalizzando l’attenzione su questi spazi ristretti riconosceremo chiaramente nella scena del
duello la dinamica dei correlativi simmetrici e vedremo come nella scena del perdono, ferme
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restando le due parti - da un lato Lodovico, dall’altro un nobile - questa dinamica venga interrotta
e superata.
Quando introduce la scena del duello, Manzoni parla chiaramente in termini di
opposizione e precisa che sia Lodovico, sia il nobile pretendono di arrogarsi il medesimo diritto,
sulla base di motivazioni entrambe legittime, e quindi di ugual valore anche se di contenuto
diverso. Il lettore è dunque introdotto nella logica in cui va inscritto l’episodio, logica che si
formalizza poi nel dialogo fra i due contendenti. Spiega Manzoni:
Tutt’e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; […]. L’altro pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse di andar nel mezzo; e ciò in forza di un’altra consuetudine. Perocché, in questo, come accade in molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso quale delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s’abbattesse in un’altra della stessa tempra.
(PS, IV, corsivi miei)
L’autore costruisce l’episodio nei termini di una chiara e doppia opposizione: in primo luogo
abbiamo «due consuetudini contrarie», entrambe in vigore; in secondo luogo – a peggiorare la
situazione – a sostenere le due consuetudini troviamo due teste «della stessa tempra», e cioè
ugualmente dure.16 Manzoni non esita a concludere che questi tipi di opposizioni fra medesime
pretese e medesime teste sfociano nella necessità di una guerra. Fin qui la premessa, per così dire,
metodologica. Vediamo ora come l’autore dà forma a questa opposizione. Riporto per comodità
del lettore il dialogo fra Lodovico e «un signor tale» nel momento in cui si incontrano sul lato
della strada ed ognuno dei due reclama per sé il diritto di stare sulla destra:
Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono corrispondente di voce: «fate luogo». «Fate luogo voi,» rispose Lodovico. «La dritta è mia». «Co’ vostri pari, è sempre mia.» «Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pari miei.» […] «Nel mezzo, vile meccanico; o ch’io t’insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini.» «Voi mentite ch’io sia vile.» «Tu menti ch’io abbia mentito.» […] «E se tu fossi cavaliere, come son io,» […] «ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu.» «E’ un buon pretesto per dispensarvi di sostener co’ fatti l’insolenza delle vostre parole.» «Gettate nel fango questo ribaldo»
La scena si apre con i due protagonisti «viso a viso», in perfetta simmetria, dunque. La prima
battuta è del «signor tale»: «fate luogo», battuta alla quale Lodovico risponde rilanciando
all’interlocutore la medesima richiesta con le stesse parole, e aggiungendo: «la dritta è mia». Il
nobile reagisce riprendendo anch’egli le stesse parole di Lodovico, ma premettendo «Co’ vostri
16 Dove gli uguali diventano per forza contrari uno all’altro.
13
pari». Allora il giovane risponde riprendendo il tema dei «pari» e contrapponendo ai «vostri pari» i
«pari miei». C’è dunque sempre un elemento della frase dell’uno che viene ripetuto e ‘arricchito’
nella frase dell’altro, il quale a sua volta risponde riprendendo il tema nuovo e aggiungendo un
ulteriore particolare. Il nobile tenta una prima interruzione del duello verbale invitando Lodovico
a un duello con le armi, e ancora Lodovico riprende il tema enunciato dal nemico per negarlo: il
nobile lo definisce «vile» e lui reagisce: «voi mentite che io sia vile». L’interlocutore allora nega la
negazione di Lodovico, prima moltiplicandola su se stessa: «tu menti ch’io abbia mentito»; poi
facendola rimbalzare direttamente sull’avversario: «il mentitore sei tu». A questo punto il duello
verbale finisce in scontro fisico, in quella «guerra» di cui aveva detto l’autore poche righe sopra, e
la guerra si chiude quando – quasi contemporaneamente - muoiono sia Cristoforo, per mano del
nobile, sia il nobile stesso, per mano di Lodovico, nell’ennesima ripetizione dello schema già
evidenziato nel dialogo, per cui ognuno dei contendenti dà all’altro una risposta equivalente alla
provocazione:
Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d’un bravo, e una sgraffiatura leggera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell’estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sé, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch’era finita, si diedero alla fuga […]; quelli di Lodovico, […] scantonarono dall’altra parte.
Cristoforo si lancia sul nobile per difendere Lodovico, mettendosi, così, nello stesso
atteggiamento violento del nemico. Questi, a propria volta, reagisce con uguale gesto e uguale
impeto andando però a colpire davvero Cristoforo. Cosa che provoca la terza reazione mimetica:
anche Lodovico fa come loro e a spada risponde con spada. Dal punto di vista formale notiamo
che alla «pugnalata» del bravo a Lodovico, Cristoforo reagisce col «pugnale» e quando il signore si
lancia «addosso» a Lodovico per finirlo, Cristoforo va «addosso al signore»; dai pugnali poi si
passa alle spade finché la morte non interrompe la catena delle azioni-reazioni.17 Si tratta dunque
di una serie di reazioni a catena, sempre più pesanti una sull’altra, reazioni che di per sé
potrebbero andare avanti chissà per quanto tempo. E’ lo stesso schema che abbiamo riscontrato
nei duelli fra Tancredi e Argante, Tancredi e Rambaldo, Argante e Raimondo, e, infine, anche
nella prima parte dello scontro fra Tancredi e Clorinda.
Come abbiamo anticipato nell’introduzione a questo lavoro, secondo Girard ogni tipo di
conflitto nasce dal fatto che ogni individuo ha gli stessi desideri di un altro, e in questi casi il
desiderio comune ai duellanti è la vittoria della propria parte, che coincide con il possesso della
17 Frare fa notare come la «guerra» delle due «teste dure» non possa che «concludersi con l’esito già vaticinato da Carlo: “quando alle prese / son due di lor, forza è che l’un, piangendo, / esca del campo” (Adelchi V, 152-155)». Cfr. FRARE, La scrittura dell’inquietudine, Olschki, Firenze, 2006, p. 189.
14
città di Gerusalemme e con l’affermazione della superiorità del proprio credo, oppure, nel caso di
Lodovico, nell’affermazione del proprio diritto. Spiega Girard:
Il desiderio mimetico non è sempre conflittuale, ma lo diventa spesso […]. L’oggetto che desidero sull’esempio del mio vicino, egli, il vicino, ha tutte le intenzioni di conservarlo, di tenerlo in serbo per sé, e non se lo lascerà strappare senza combattere. Il mio desiderio verrà contrastato ma, anziché rassegnarsi […] recalcitra e diventa più forte, imitando più che mai il desiderio del suo modello. L’opposizione esaspera il desiderio […] dal momento che se l’imitazione del desiderio […] causa la rivalità, la rivalità, a sua volta, causa l’imitazione.18
Il recalcitrare del desiderio e la sua esasperazione nella rivalità emergono soprattutto nei dialoghi,
dove i duellanti si imitano reciprocamente le battute, costruendo climax che vanno dalla sfida, alla
minaccia, all’insulto e che sfociano inevitabilmente nello scontro fisico.
Cosa succede nei casi di Clorinda e di Lodovico? Cosa li avvicina? Si diceva prima,
l’esperienza di un mutamento che pone fine alla logica della violenza. Per Clorinda il mutamento
avviene nel corso del duello, quando sente l’approssimarsi della morte e, per grazia di un «novo
spirto» può chiamare Tancredi «amico» e chiudere il duello dicendogli: «hai vinto: io ti
perdon...Perdona». Lodovico comincia a sentire il mutamento quando vede il nobile e Cristoforo
morti ai suoi piedi: «l’impressione ch’egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto
da lui, fu nuova e indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. […] fu una vista che
cambiò, in un punto, l’animo dell’uccisore» (PS, IV, corsivi miei). Ma non possiamo dimenticare che
a risvegliare quei «sentimenti ch’eran confusi e affollati nel suo animo» arriva, inatteso, il perdono
del nemico: quando il frate che era corso dai moribondi, raggiunge Lodovico in infermeria gli
dice: «consolatevi […], almeno è morto bene, e m’ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di
portarvi il suo».
Clorinda si «sente» morire e un «novo» spirito la fa parlare in un modo nuovo; Lodovico
ha un’«impressione nuova», una «rivelazione di sentimenti» mai provati, sentimenti che bastano a
cambiare «in un sol punto» il suo animo. Anche Clorinda cambia in modo apparentemente
improvviso, ma sappiamo che dietro la sua richiesta di Battesimo ci sono tutta la fede della madre
e la protezione di San Giorgio. Dietro il cambiamento dell’animo di Lodovico c’è invece un
desiderio che più volte gli si è manifestato nella giovinezza: una volta riparato in convento,
«riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate,
che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla
strada […] facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura».19 In entrambi i casi l’origine
18 GIRARD, Vedo Satana, cit., p. 29.
15
del mutamento è la capacità di vedere il nemico in un modo nuovo, appunto da perdonato, da
amico, come si vede nella scena in cui fra Cristoforo incontra il fratello dell’ucciso.
Non mi sembra si possa identificare il mutamento di Lodovico con la sola decisione di
farsi frate cappuccino: il vero cambiamento, la vera conversione si manifesta concretamente nel
primo gesto pubblico che egli compie da frate, ed è lì, nella richiesta di perdono ai parenti
dell’uomo ucciso da lui che dobbiamo cercare i segni della conversione, le dinamiche che ci
permettono di affermare che qualcosa è cambiato nell’atteggiamento del personaggio, e come è
cambiato.
E’ necessario ora rileggere l’episodio, estrapolando per brevità soltanto i passi più
interessanti:
A mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori d’ogni età e d’ogni sesso […]. Il padron di casa […] stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il pomo della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto. […] Quando vide l’offeso, [fra Cristoforo] affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: «io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio.» […] Il gentiluomo che stava in atto di degnazione forzata, e d’ira compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l’inginocchiato, «alzatevi» disse […]. E presolo, per le braccia, lo sollevò. […] Il volto del frate s’aprì a una gioia riconoscente […]. Il gentiluomo, vinto da quell’aspetto […], gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace.
L’atteggiamento del padrone di casa in attesa di fra Cristoforo assomiglia a quello tenuto dal suo
defunto fratello nel momento dell’incontro con Lodovico per strada: al «capo alto, col cipiglio
imperioso» del defunto corrispondono «lo sguardo a terra, e il mento in aria» del fratello vivo.
Non appena lo vede, fra Cristoforo compie un gesto che non aveva trovato spazio nel contesto
del duello: gli si getta ai piedi e gli chiede perdono. L’atteggiamento e le parole del frate turbano –
lo dice il narratore – l’offeso, che scioglie la sua ira non accusando ulteriormente il proprio
interlocutore, non ripetendo le sue parole per ribadire il concetto che la vita del fratello non può
essere restituita, ma chiedendogli di alzarsi, perché non sopporta di vederlo «stare in codesta
positura». Toccato da Cristoforo, il nobile non cerca più vendetta per sé attraverso l’umiliazione
di quello che credeva un avversario, ma addirittura gli getta le braccia al collo, gesto che rovescia
gli avvolgimenti tipici dei duelli descritti dal Tasso, perché analogo nella forma, diverso
nell’intenzione che contiene. E, infatti, l’abbraccio fra i due è suggellato dal bacio di pace,
espressamente risolutore della «guerra» scoppiata con il duello.
Riprendendo alcune osservazioni di Bottiroli, Frare spiega a proposito:
La conversione di Lodovico spezza la logica simmetrica che provocherebbe una infinita (e narrativamente meccanica) catena di vendette e permette a padre Cristoforo di dar vita ad una di quelle «contese asimmetriche» che, al contrario di quelle «simmetriche», «non si limitano a capovolgere una gerarchia, ma tendono a disfare e a riformulare completamente la vecchia relazione. E se, nel primo caso, si finisce sempre col somigliare al proprio nemico (Borges), nel secondo si crea un nuovo territorio i cui
16
abitanti non saranno condizionati inesorabilmente dal passato». […] Così Cristoforo può mutare il desiderio di vendetta che i parenti dell’ucciso nutrono verso di lui in stima e ammirazione e, quel che più gli importa, in perdono.20
In questa scena abbiamo dunque l’esempio di come si rompa la logica dei correlativi
simmetrici, rottura che, vedremo, ci apparirà particolarmente feconda. Osserviamo come viene
superata la dinamica tipica del duello: nell’episodio del perdono, Cristoforo non cede alla
tentazione di imitare il contegno accigliato del padrone di casa, ma si mette al di sotto di lui ed
entra necessariamente nel suo campo visivo, cosa che gli consente di instaurare un dialogo e
realizzare la sua intenzione di chiedergli perdono. D’altra parte – lo abbiamo appena visto – alle
parole del frate il nobile non intraprende un discorso ‘polemico’, nel senso letterale di ‘bellicoso’,
come era stato il discorso precedente al duello, ma balbetta alcune frasi e poi rialza e abbraccia il
suo interlocutore, che da nemico diventa amico. La rottura della relazione simmetrica sembra
dunque dovuta alla decisione di non imitare i gesti e l’atteggiamento di chi ci si trova di fronte, o,
meglio, di instaurare una mimesi di altro tipo. Circa la fecondità della rottura dello schema noto
soltanto che la logica del duello non è trasformata solo da parte di Lodovico-Cristoforo, che la
supera – ci par di capire – un po’ alla maniera di Clorinda, per una novità di animo data dalla
Grazia, ma è superata anche dal fratello dell’ucciso, che, pur non facendo esperienza interiore di
una Grazia (almeno, Manzoni non lo dice esplicitamente), si lascia affascinare dall’esempio di fra
Cristoforo e innesca nei suoi confronti un processo mimetico, per così dire, positivo.
Per capire cosa si intende per mimetismo ‘positivo’ è necessario ricorrere nuovamente alle
riflessioni di Girard, che guidano gran parte della nostra analisi. Dopo aver mostrato che i divieti
delle società arcaiche hanno come scopo di evitare i conflitti interni alle società stesse e dopo aver
spiegato che, per lo stesso scopo, il decimo comandamento dato ad Israele proibisce non tanto
azioni, quanto piuttosto desideri, Girard afferma che la novità portata dal decimo comandamento
trova compimento nei Vangeli:
Se Gesù non parla mai in termini di divieti, ma costantemente in termini di imitazione di modelli, è perché sviluppa fino alle ultime conseguenze la lezione del decimo comandamento. Egli non ci raccomanda di imitare lui stesso perché afflitto da narcisismo, bensì per distoglierci dalle rivalità mimetiche. […] Ciò che Gesù ci invita a imitare è il suo desiderio [non le sue abitudini]: assomigliare il più possibile al Padre. […] Gesù ci invita a fare ciò che fa lui medesimo, a diventare tutti degli imitatori del Padre non diversamente da lui. Perché mai Gesù considera il Padre e sé stesso come i migliori modelli per tutti gli uomini? Perché né il Padre, né il Figlio desiderano in modo egoistico, avido.21
Diversamente dal mimetismo, che ci porta a volere ciò che l’altro vuole e a possedere ciò
che l’altro ha e trasforma così questo altro in un rivale, l’imitazione di sé che ci propone Cristo
non ci fa desiderare cose che lui possiede e che vorremmo sottrargli, ma ci invita a imitarlo nel
20 FRARE, La scrittura dell’inquietudine, cit., p. 189. 21 GIRARD, Vedo Satana, cit., p. 33.
17
suo desiderio di assomigliare al Padre, e cioè nella sua volontà di dare se stesso per gli altri e di
non tenere nulla per sé. E’ in questo desiderio non «avido» che troviamo, a mio avviso, la chiave
di lettura del cambiamento che avviene nel nobile cui fra Cristoforo chiede perdono: di fronte al
frate che umilia se stesso e che «non si era fatto frate, né veniva a quella umiliazione per timore
umano», come tutti gli astanti avevano compreso dal contegno del suo volto, il nobile non può
desiderare ciò che il frate possiede, perché il frate non ha più nulla, soprattutto non ha più
l’orgoglio al quale il nobile avrebbe voluto tener testa. In queste condizioni Cristoforo non può
più essere visto come un rivale, anzi, diventa per il nobile l’incontro che gli fa deporre l’orgoglio e
gli fa venire voglia, addirittura, di chiedergli perdono a propria volta, in un perfetto esempio di
mimetismo positivo:
Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sé, con maraviglia, ciò che aveva inteso, ciò ch’egli medesimo aveva detto: e borbottava tra i denti: - diavolo d’un frate! […] se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello.
Abbiamo ritrovato nel duello fra Lodovico e il nobile i meccanismi già riscontrati nei
duelli della Gerusalemme liberata e abbiamo visto come questi meccanismi si inceppino quando, nel
mezzo della violenza, uno dei contendenti offre o chiede perdono grazie ad un aiuto
soprannaturale, come ci lasciano intendere più o meno esplicitamente i nostri autori. Il perdono –
che è, sì, rinuncia all’imitazione della violenza dell’altro, ma soprattutto l’aggiunta di un plus che
vedremo - è certamente in grado di rompere la catena della correlazione simmetrica, ma il
perdono è reso possibile, a propria volta, da un mutamento di prospettiva che consiste nel
chiamare «amico» quello che era il nemico e di instaurare con lui un nuovo rapporto.
Identifichiamo questo cambiamento di prospettiva con la conversione, dal momento che gli
episodi che abbiamo preso in esame raccontano il passaggio di Clorinda dalla fede musulmana al
cristianesimo e quella che viene descritta come la conversione di Lodovico. Non dimentichiamo,
inoltre, che il perdono costituisce anche il primo passo della conversione di Rinaldo, conversione
che prende forma prima di tutto nel «girare i passi» dal giardino di Armida al campo crociato, cosa
che volgerà le sorti della guerra a favore dei cristiani; così come il perdono è centrale nella
conversione dell’Innominato, che forse non avrebbe mai compiuto il passo decisivo se non
avesse sentito da Lucia quella frase: «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia». E il
perdono è il punto di partenza dell’ascesa di Dante verso il Paradiso: il viaggio attraverso
l’Inferno – che inizia con quel «Miserere di me» - è il momento della presa di coscienza dei propri
peccati e del loro superamento, quello attraverso il Purgatorio è il momento della confessione,
dell’umiliazione, della penitenza e della reintegrazione. Senza richiesta di perdono e purificazione
non è possibile salire al Paradiso. Se consideriamo le opere finora prese in esame, vediamo che
18
non troviamo tracce di perdono nell’Adone di Marino, né nell’Alcyone di d’Annunzio: possiamo
allora anticipare che, se valgono le nostre osservazioni sulla struttura ciclica, ripetitiva, simmetrica,
vendicativa e chiusa delle metamorfosi e, più in generale, del mondo pagano che fa loro da
sfondo, per superare questa logica dell’eterno ritorno del medesimo è necessario che si attui una
particolare dinamica che caratterizza il mondo cristiano, quella del perdono, che - come vedremo
meglio - è sempre legato alla conversione.
DA: SECONDA PARTE: LA CONVERSIONE
(Dal cap. 4: La conversione nella Commedia )
Le relazioni degli sguardi nella Commedia
Ci siamo già occupati di come Dante nella Commedia rappresenti quello che deve diventare
esemplare itinerario di conversione e di come la critica ne abbia messe in evidenza le ascendenze
platoniche, agostiniane e tomiste. Torniamo ora brevemente sull’argomento per sottolineare la
presenza, nella Commedia, dei quattro elementi sopra indicati e la relazione fra conversione e
rottura delle correlazioni simmetriche. La prima parola che il pellegrino pronuncia pochi versi
dopo l’inizio del viaggio – siamo in Inferno I – è quel «Miserere» rivolto a Virgilio col quale Dante si
dichiara bisognoso d’aiuto, e se non si tratta di una richiesta di perdono per un particolare torto
commesso dal pellegrino nei confronti del suo interlocutore, si tratta certamente del desiderio che
qualcuno abbia pietà della sua situazione di erranza, e quindi dei suoi peccati in generale. Tutto il
Purgatorio – lo abbiamo visto – è un percorso di allontanamento dai peccati, a partire dal passaggio
della porta dopo l’incontro con l’angelo, fino all’immersione nel Lete e nell’Eunoé. Mi pare
addirittura si possa intendere la dimensione del perdono come la condizione di possibilità
dell’intero viaggio, in quanto, se il viaggio è compiuto per Grazia di Dio è perché Dio ha avuto
misericordia di Dante. E mi pare altresì di poter asserire che al perdono, anche nella Commedia, si
accompagnano la rottura delle simmetrie, l’avvento di qualcosa di inaspettato e la morte. L’evento
che sopraggiunge e che fa sì che Dante cambi il proprio atteggiamento è l’incipit stesso del viaggio
che lo vede perso nella selva e sul punto di precipitare in basso loco: è questa la situazione che lo
mette in crisi come uomo e che, sulla base dell’equivalenza fra peccato e morte, si può identificare
con la morte stessa. L’evento inaspettato non è tanto la comparsa di Virgilio – che da sola non
basta a far muovere il pellegrino – quanto l’aiuto che «le tre donne benedette» gli offrono
19
attraverso questa comparsa: l’evento inaspettato è dunque una grazia,22 la stessa per cui Clorinda
morente pronuncia parole di perdono. A misura che il pellegrino passa dalla morte che è il peccato
(Inferno) alla morte al peccato (Purgatorio), numerose sono le morti che attraversa, rappresentate
sia dagli svenimenti infernali, sia dall’incisione e dalla progressiva espunzione delle P del
Purgatorio, fino al definitivo oblio della vita precedente nel Lete.
Mentre seguiamo Dante nel suo viaggio, possiamo osservare anche come la rottura della
correlazione simmetrica si realizzi in modo speciale in un ambito ben definito, che è poi il filo
rosso conduttore del percorso: quello della vista, dello sguardo, degli occhi, strumento
privilegiato per alimentare sia la conoscenza sia il desiderio. Se consideriamo il rapporto che,
attraverso gli sguardi, si crea progressivamente fra Dante e le sue guide, vediamo che, in generale,
avviene un significativo passaggio tra la reciprocità chiusa degli sguardi fra Dante e Virgilio fino al
loro commiato alle porte dell’Eden e l’invito che Beatrice muove al pellegrino affinché superi
questa reciprocità per guardare oltre, verso Dio, invito che verrà rinnovato anche da San
Bernardo. Dalla dipendenza rispetto alla sua guida poetica, il pellegrino passa all’autonomia dello
sguardo che si dirige verso il cielo superiore e verso Dio, e in questo riesce solo nel Paradiso,
dopo che si è lasciato alle spalle i propri peccati e dopo averli confessati davanti a Beatrice, in una
scena che segna il culmine del cammino di penitenza e l’inizio del cammino del rinnovamento.23
Nella caligine infernale Dante menziona raramente i movimenti dei propri occhi, tranne
quando vuole descrivere la fatica che durano a distinguere le figure nel buio. Mai, nella prima
cantica, ci viene descritto esplicitamente uno scambio di sguardi tra il pellegrino e la sua guida,
cosa che invece accade spesso negli altri due regni. Dunque nell’Inferno non emerge in prima
battuta quella reciprocità di sguardi che ci aiuterebbe a mettere in evidenza i progressi che Dante
compie rispetto alle proprie guide; tuttavia a livello formale sono presenti reiterate spie lessicali
che permettono di intuire la simmetria del rapporto fra i due poeti. 24 Certamente il rapporto di
dipendenza del discepolo rispetto al maestro è chiaro sin dal primo canto e si riconferma a più
riprese fino alla performance finale con cui Virgilio porta sulle spalle Dante mentre attraversa il
corpo di Lucifero. Ma questo è solo un lato del problema: per dimostrare che questa dipendenza
si inscrive in realtà in un rapporto circolare, appunto simmetrico, dal quale nessuno dei due si
può svincolare finché Dante non abbia compiuto il percorso stabilito, basta fare attenzione alla
struttura dei dialoghi che i due intrattengono nell’Inferno. Il più delle volte lo scambio di battute è
scandito dalle didascalie: «egli mi disse»; «e io»; «indi rispose»; «io cominciai»; «ed elli a me»; «e io a
22 Quella che «duro giudicio là su frange» (If II, v. 96). 23 Non a caso la Bargetto ha riscontrato nell’episodio della confessione i segni e i significati della liturgia battesimale così come si compiva per i neofiti battezzati durante la notte di Pasqua. Rimando sempre a Memorie liturgiche, cit. 24 Per la natura del rapporto fra Dante e Virgilio si veda LUIGI DERLA, L’altro Virgilio dantesco, «Testo», XVI, 29-30, gen-dic 1995, p. 40 e sgg., in cui tale rapporto è definito nei termini della dialettica e della complementarietà.
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lui» con una insistenza e una precisione che fanno pensare alla determinata intenzione di
sottolineare il dramma dell’esclusività di questa relazione. E’ vero che entrambi interloquiscono
con i dannati che incontrano, ma è anche vero che è nel dialogo fra loro che si rivela la dottrina
che il viaggio rappresentato vuole veicolare.
Anche durante l’ascesi purgatoriale il rapporto fra maestro e discepolo resta, per così dire,
bisognoso di simmetria, almeno fino all’incontro con Stazio, a due terzi del cammino. Virgilio
resta il punto di riferimento per il discepolo, e se nell’Inferno lo confortava con il potere della sua
parola, in Purgatorio lo sostiene con i cenni dello sguardo. Dopo il dialogo con Catone, infatti,
Dante registra:
io sù mi levai sanza parlare, e tutto mi ritrassi al duca mio, e li occhi a lui drizzai. El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi: (Pg I, vv. 109-112).
In questo modo il discepolo manifesta il proprio smarrimento, la necessità di ricorrere a Virgilio e
la pronta risposta della guida che colma il suo bisogno e gli restituisce, esplicita, la sua silenziosa
richiesta. Ancora, nella cornice dei superbi, lo sguardo di Dante passa attraverso Virgilio per
osservare le novità che il maestro annuncia:
«Ecco di qua, ma fanno i passi radi», mormorava il poeta, «molte genti: questi ne 'nvïeranno a li alti gradi».
Li occhi miei, ch'a mirare eran contenti per veder novitadi ond' e' son vaghi, volgendosi ver' lui non furon lenti. (X, 100-105)
Nella cornice degli iracondi, dove il «fummo» impedisce a Dante la visione, il rapporto fra
discepolo e guida si manifesta attraverso i gesti: in mancanza di sguardi, la simmetria fra i due
rimane nella manifestazione di un’esigenza e nella risposta che subito ne viene: non appena il
fumo li copre, Virgilio si accosta a Dante per offrirgli aiuto e poi continua a guidarlo col suono
della voce, raccomandandogli di non separarsi da lui, come aveva già fatto più volte nell’Inferno,
davanti a Medusa, sulle spalle di Gerione, sulle anche di Lucifero:
Buio d'inferno e di notte privata d'ogne pianeto, sotto pover cielo, quant' esser può di nuvol tenebrata,
non fece al viso mio sì grosso velo come quel fummo ch'ivi ci coperse, né a sentir di così aspro pelo,
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che l'occhio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e fida mi s'accostò e l'omero m'offerse.
Sì come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che 'l molesti, o forse ancida,
m'andava io per l'aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che diceva pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo». (XVI, 1-15)
Chiaro esempio della simmetria che si crea fra lo sguardo di Dante e quello del maestro è un
breve passaggio del girone degli avari, in un momento in cui Dante esprime il tacito desiderio di
interrogare un’anima e Virgilio risponde in un rimando circolare di sguardi introdotto e
sottolineato dalla ripetizione iniziale «li occhi a li occhi»:
e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: ond' elli m'assentì con lieto cenno ciò che chiedea la vista del disio.(XIX, 85-87)
Infine, al momento del congedo, Dante sottolinea la forza dello sguardo del maestro, che penetra
il suo: «Come la scala tutta sotto noi / fu corsa e fummo in su 'l grado superno, / in me ficcò
Virgilio li occhi suoi » (XXVII, vv. 124-126). Con questo ultimo scambio di sguardi si scioglie il
legame che li aveva vincolati uno all’altro e Dante viene affidato ad altri occhi, quegli «occhi belli»
che «lagrimando» avevano mosso Virgilio in suo soccorso, gli occhi di Beatrice che, diversamente
da quelli del poeta latino, non instaureranno con quelli di Dante una relazione simmetrica. Pur
prevedendo i desideri del pellegrino, infatti, lo sproneranno a guardare sempre altro: gli occhi di
Beatrice si fanno superare, non devono essere il punto di riferimento e il termine della visione. Il
concetto è già chiaro nel rimprovero che le virtù teologali muovono a Dante rapito dalla visione
della donna amata nell’Eden:
Tant' eran li occhi miei fissi e attenti a disbramarsi la decenne sete, che li altri sensi m'eran tutti spenti.
Ed essi quinci e quindi avien parete di non caler - così lo santo riso a sé traéli con l'antica rete! -;
quando per forza mi fu vòlto il viso ver' la sinistra mia da quelle dee, perch' io udi' da loro un «Troppo fiso!»; (XXXII, 1-9)
22
E si svilupperà in tutto il Paradiso, regno in cui, quando Dante cerca gli occhi di Beatrice, non li
incontra mai in una chiusa reciprocità, ma li trova intenti a guardare altrove, come già nella
visione del Grifone:
Mille disiri più che fiamma caldi strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, che pur sopra 'l grifone stavan saldi. (XXXI, 118-120)
In apertura della terza cantica, l’atteggiamento di Beatrice sviluppa in Dante una sorta di
mimesi positiva analoga a quella di cui si parlava a proposito della rottura della correlazione
simmetrica:25 il pellegrino non desidera né ciò che Beatrice possiede, né Beatrice stessa, ma è
condotto a guardare dove guarda lei:
così de l'atto suo, per li occhi infuso ne l'imagine mia, il mio si fece, e fissi li occhi al sole oltre nostr' uso. (Pd I, 52-54)
e poco dopo:
Beatrice tutta ne l'etterne rote fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là sù rimote. Nel suo aspetto tal dentro mi fei...(vv. 64-67)
Quando poi gli spiega la dottrina della Redenzione, la guida esorta Dante a rimanere attento alle
sue parole, che non valgono per se stesse, ma per chiarirgli i misteri del disegno di Dio:
Ficca mo l'occhio per entro l'abisso de l'etterno consiglio, quanto puoi al mio parlar distrettamente fisso. (VII, 94-96).
Nonostante i richiami di Beatrice, Dante è vinto talvolta dalla sua bellezza, aumentata dalla
gloria del Paradiso e confessa:
ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo de la mia gloria e del mio paradiso (XV, 34-36),
e anche in questo caso, la donna non ricambia lo sguardo del poeta, tutta intenta a guardare
il lume di Cacciaguida. E anche quando Dante contempla non tanto gli occhi della donna, quanto
25 Cfr. cap. III, p. 34 e sgg di questo lavoro. La virtù di Beatrice, e in particolare quella della sua vista che non genera desiderio di possesso, ma desiderio di Dio, è confermata anche dal fatto che lo sguardo di Beatrice non vuole possedere nessuno, non vuole sedurre nessuno, al contrario di quello di Armida, per citare solo l’esempio più eclatante. La vista di Beatrice, infatti, non chiede, ma offre: «perché la donna che per questa dia / region ti conduce, ha ne lo sguardo / la virtù ch’ebbe la man d’Anania» (XXVI, vv. 10-12).
23
la bellezza divina che in essi si riflette, riceve esplicito invito a volgere lo sguardo altrove.
Introducendo la comparsa delle anime dei combattenti per la fede, Dante scrive:
Tanto poss' io di quel punto ridire, che, rimirando lei, lo mio affetto libero fu da ogne altro disire,
fin che 'l piacere etterno, che diretto raggiava in Bëatrice, dal bel viso mi contentava col secondo aspetto.
Vincendo me col lume d'un sorriso, ella mi disse: «Volgiti e ascolta; ché non pur ne' miei occhi è paradiso». (XVIII, 13-21)
Anche nell’ultima occasione in cui i loro sguardi possono incontrarsi, quando Dante vede
Beatrice nella rosa dei beati, la donna ribadisce il proprio compito e la missione del poeta: gli
sguardi di entrambi devono rimanere fissi in Dio, non nella loro mutua contemplazione:
Così orai; e quella, sì lontana come parea, sorrise e riguardommi; poi si tornò a l'etterna fontana. (XXXI, 91-93)
Se il commiato da Virgilio era stato suggellato da un intenso scambio di sguardi, il saluto di
Beatrice è una breve occhiata perché l’attenzione della donna torna rapidamente alla
contemplazione di Dio, ad un amore più grande di quello che ha per l’uomo Dante. Mi sembra
che la differenza fra questi due congedi sia significativa, tanto più che nel saluto a Beatrice Dante
supera l’attaccamento alle creature e anche, credo, alla poesia per se stessa: quando, infatti, in Pg
XXX, Dante avverte il vuoto lasciato da Virgilio, piange, tanto che nemmeno le bellezze
dell’Eden possono consolarlo. Ma questo pianto è inopportuno, come Beatrice non manca di
fargli notare:
«Dante, perché Virgilio se ne vada, non pianger anco, non pianger ancora; ché pianger ti convien per altra spada» (vv. 55-57)
Quando, invece, vede per l’ultima volta Beatrice, non lamenta la propria condizione di
abbandono, ma loda la donna e la prega di mantenerlo in grazia: se, dunque si duole per la
partenza del «dolcissimo patre» a cui si era affidato per conquistare la salvezza, al termine del
percorso Dante prende coscienza del necessario distacco dagli amori umani, che non sono altro
che vie per arrivare a quello divino. A segnare la differenza fra i due commiati sono il tono delle
parole di Dante e la dinamica degli sguardi: nel primo caso Dante e Virgilio si guardano a vicenda;
24
nel secondo Dante guarda Beatrice e Beatrice guarda Dio.26 E’ a questo punto, al termine del
poema, che Dante riconosce esplicitamente il proprio passaggio dalla servitù alla libertà,
passaggio reso possibile da Beatrice: «tu m’hai di servo tratto a libertate» (Pd XXXI, 85), le dice
nella sua orazione di saluto. Mi sembra che il corrispettivo formale di questa rottura con il
peccato si trovi proprio nell’insistenza sul percorso dello sguardo, sulla conquistata capacità del
poeta di guardare da solo verso Dio e di non fermarsi più all’amore per la creatura. Apice di
questa pedagogia che mira alla piena autonomia del pellegrino nel costruire un autentico e diretto
rapporto con Dio è, infine, il passaggio da Beatrice a San Bernardo, davanti al quale Dante
compie finalmente quello che Beatrice voleva fin dall’inizio: guarda, cioè, direttamente Maria, e
non gli occhi del santo:
Bernardo, come vide li occhi miei nel caldo suo caler fissi e attenti, li suoi con tanto affetto volse a lei,
che ' miei di rimirar fé più ardenti. (XXXI, vv. 139-141)
A proposito del progressivo distacco che il pellegrino deve maturare rispetto alle creature, fra le
quali la più amata è Beatrice, Lino Pertile ha parlato della necessità di «dimenticare Beatrice», di
comprendere che il vero amore è al di là della donna prediletta e di correggere, così,
definitivamente la nozione stilnovista dell’amore. E’ per questo che Beatrice sparisce dall’azione
al canto XXXI ed è per questo che già nel c. X Dante anticipa alcuni segni del superamento: «e sì
tutto il mio amore in lui [in Dio] si mise / che Bëatrice eclissò ne l’oblio» (X, 59-60). Pertile
ritiene l’episodio molto importante in quanto correggerebbe la ‘distrazione’ di Dante narrata nella
Vita Nova e condannata nell’Eden: «dimenticare Beatrice è ammesso e può anzi essere un fatto
positivo e necessario, purché avvenga in suso, […] non in giuso» (p. 241) come invece era capitato a
Dante dopo la morte della donna. In Paradiso Dante comprende che l’amore deve essere rivolto
prima di tutto a Dio, e poi alle creature, tanto che non fa più accenni alla storia d’amore terrena
con la propria amata e, anzi, la sostituisce con San Bernardo, uomo e senex, mentre ci
aspetteremmo che fosse sostituita da Santa Lucia, dalla quale ci attendiamo il terzo intervento
risolutivo dopo quello dell’Inferno e quello del Purgatorio. L’apparizione di San Bernardo
sancisce il definitivo superamento dell’ «Amor ch’a nullo amato amar perdona» dell’Inferno e di
quello che si ‘raddrizza’ in Purgatorio e segna quella che Pertile indica come l’ulteriore
conversione di Dante, «questa volta da Beatrice a Dio».27
26 Significativa anche la differenza rispetto alle trasformazioni fronte a fronte di If XXV, di cui si è parlato proprio a proposito della correlazione simmetrica. In quel caso gli sguardi dei due protagonisti rimanevano fissi uno nell’altro per tutta la durata del fenomeno metamorfico. 27 PERTILE, Dimenticare Beatrice, cit., p. 240.
25
Non dobbiamo dimenticare un ultimo particolare che può rivelarsi a suo modo
significativo: quando abbiamo trattato delle metamorfosi dei ladri di Malebolge, ci siamo accorti
che, nel caso più originale, quello delle «due nature a fronte a fronte» (If XXV), gli sguardi dei due
protagonisti rimanevano fissi uno nell’altro per tutta la durata di una trasformazione che era
scandita con ritmo binario e costruita sulle corrispondenze simmetriche di pieni e vuoti fra corpo
mutante del dannato e corpo mutante del serpente. La mutualità degli sguardi che creavano un
cerchio chiuso all’interno del quale si consumava la trasformazione era dunque legata al motivo
della relazione simmetrica, che nell’Inferno era strutturata appositamente per ripetersi all’infinito,
come all’infinito si ripetevano le metamorfosi in Malebolge. Sembra che, in linea generale, il
motivo della simmetria e della circolarità chiusa sia caratteristico dell’Inferno, mentre la rottura di
questo schema si verifichi col passaggio al Purgatorio, ma soprattutto con l’arrivo del pellegrino
in Paradiso. Se ricordiamo anche che l’Inferno è la cantica in cui troviamo relegato il maggior
numero di anime di personaggi provenienti dalla mitologia e dall’epos e, in particolare, dalle
Metamorfosi di Ovidio, abbiamo un’ulteriore conferma del fatto che per superare la logica –
metamorfica, ripetitiva e sacrificale - del mondo pagano, Dante propone la via della conversione
intesa come l’assunzione della prospettiva di Dio, assunzione che implica come origine e come
effetto il perdono, quindi un capovolgimento del modo sterile di intendere i rapporti nel segno
del binomio azione/reazione.
(Dal cap. 6: Frenesia mimetica e sacrificio cristiano nei Promessi sposi)
La conversione dell’Innominato
Il cambiamento irreversibile provocato dal sacrificio che Lucia fa di sé riguarda, tra le altre
cose, prima di tutto la coscienza dell’Innominato, per il quale l’incontro con la giovane contadina
si rivela decisivo all’interno di un itinerario di ripensamento sulla propria vita con cui egli è già alle
prese nel momento in cui don Rodrigo si reca da lui per incaricarlo del rapimento. Vediamo ora
in quali termini si svolge la conversione dell’Innominato: se consideriamo solo l’aspetto materiale
del racconto non sarà difficile ritrovare in esso i topoi che abbiamo già riscontrato nella Commedia e
nella Gerusalemme liberata, nonché nella conversione di Lodovico. Riscontreremo, invece,
significative differenze fra le conversioni del romanzo e quelle descritte nelle tragedie: ci
sposteremo, allora, nel prossimo capitolo, sul piano delle forme per vedere se esiste una
corrispondenza tra genere letterario e possibilità di rappresentare il fenomeno della conversione
così come lo intende Manzoni.
26
Prima di procedere all’analisi dobbiamo ricordare che, secondo Manzoni, non è possibile
che la conversione avvenga in modo repentino, né per disposizione naturale dell’uomo: quando
avviene, essa è il culmine e il risultato di un lungo percorso in cui è entrata in azione prima di
tutto la Grazia divina: «il ritorno a Dio è dono singolare della sua misericordia» (Osservazioni sulla
Morale Cattolica, 1855, VIII, 20).28 Non bisogna credere, infatti, che sia facile e naturale pentirsi, e
senza pentimento non è possibile conversione:29 anzi, quanto più l’uomo procrastina il momento
del ritorno a Dio, tanto più il suo cuore si indurisce e diventa più difficile ricondurlo alla via del
bene. Il pentimento e il ritorno a Dio, inoltre, comportano una serie di atteggiamenti che
indicano una forte rottura rispetto alla vita passata, sintetizzati nell’ ‘amore della giustizia’:
«Secondo la Chiesa il primo passo, il passo indispensabile ad ogni grado di santificazione è il
ritorno a Dio, l’amore della giustizia, l’avversione al male» (OMC 1819, VIII, 20), avversione che si
concretizza nel restituire ciò che è stato rubato e nel riparare – per quanto è possibile - alle offese
provocate.30 Già in queste brevi considerazioni che leggiamo nelle Osservazioni sulla morale cattolica
ritroviamo, dietro il pentimento, due elementi che abbiamo già messo in evidenza: quello della
rottura con la vecchia logica di cui appunto ci si pente (un ritorno, una a-versio dalla strada
erroneamente intrapresa, una epistrofé, dunque) e quello del perdono ottenuto, esito del
pentimento e della penitenza-riparazione (siamo qui più vicini alla conversio, a quella metanoia che
abbiamo detto caratterizzata proprio dal pentimento). A questi si aggiunge poi la Grazia divina di
cui Manzoni parla esplicitamente e la cui azione abbiamo riscontrato sia in tutto il percorso della
Commedia, sia negli episodi della morte di Clorinda e della conversione di Rinaldo.
Abbiamo già detto della conversione di Lodovico-padre Cristoforo, degli elementi che la
caratterizzano e della logica nuova che essa inaugura non solo nella vita del protagonista, ma
anche di coloro che in modi diversi vengono a contatto con lui. Esamineremo, quindi, in questo
capitolo, gli episodi in cui prendono forma letteraria le conversioni dell’Innominato e di Renzo,
28 In questo Manzoni sembra riprendere una riflessione di San Tommaso, secondo cui il primo passo verso la conversione è sempre un’iniziativa di Dio e quindi l’elargizione di una particolare grazia: «Quod autem ad hoc indigeamus auxilio Dei moventis, manifestum est […]. Sic igitur, cum Deus sit primum movens simpliciter, ex eius motione est quod omnia in ipsum convertantur secundum communem intentionem boni […]. Et ideo quod homo convertatur ad Deum, hoc non potest esse nisi Deo ipsum convertente. (Summa Theologica, I-II, q. 109, art. 6). E anche: «Sed si loquamur de gratia secundum quod significat auxilium Dei moventis ad bonum, sic nulla praeparatio requiritur ex parte hominis quasi praeveniens divinum auxilium: sed potius quaecumque praeparatio in homine esse potest, est ex auxilium Dei moventis animam ad bonum (Sum. Theol., I-II, q. 112, art. 2). 29 MANZONI, Osservazioni sulla morale cattolica, cit., p. 200 e sgg. 30 Nel capitolo IX, 1 della versione del 1819 viene elencata una serie di atteggiamenti che sembra ritrarre proprio la storia dell’Innominato: citando Ezechiele XXXIII, 12, 14, 15, 16, Manzoni sembra già pensare al personaggio del romanzo: «La giustizia del giusto non lo libererà in qualunque giorno pecchi; e l'empietà dell'empio non gli nocerà più in qualunque giorno si converta […] Se avrò detto all'empio: tu morrai; ed egli farà penitenza del suo peccato, e farà opere rette e giuste; se restituirà il pegno, e renderà quello che ha rapito, e camminerà ne' comandamenti di vita, e nulla farà d'ingiusto; viverà e non morrà. Tutti i peccati che ha commessi, non gli saranno imputati: ha fatto opere rette e giuste, viverà».
27
per ricercare anche in esse una rottura con le logiche del passato, una morte almeno metaforica e
il sentimento del perdono che rende possibile vedere nel nemico un amico.
A proposito della conversione di Lodovico abbiamo evidenziato le differenze di
sentimenti tra il giovane che duella contro il nobile incontrato per strada e lo stesso giovane che si
trova fra un uomo morto «per lui» e un uomo morto «da lui». Dall’analisi è risultata evidente la
rottura della logica della correlazione simmetrica nel momento in cui Lodovico abbandona le
armi della violenza per assumere quelle della misericordia. Evento che fa scattare la decisione è, si
era detto, la morte dei due uomini, che coincide con la morte del vecchio Lodovico e la nascita
del nuovo; l’atteggiamento che caratterizza la nuova situazione è il perdono, quello chiesto e
offerto dal nobile morente, quello chiesto da Lodovico, quello conces so dal fratello dell’ucciso.
In questo episodio è stato semplice ritrovare gli elementi che abbiamo legato alla conversione e
identificare la capacità di perdono con l’avvenuto cambiamento di prospettiva: come Clorinda –
e, in senso lato – come Rinaldo, anche Lodovico vive l’esperienza di vedere nel nemico un amico.
Si è detto anche della fecondità che ha in sé l’atteggiamento del perdono: l’umiltà di Lodovico
davanti al fratello dell’ucciso muta l’animo di quest’ultimo e di tutti i presenti, così come il
perdono chiesto e offerto da Clorinda fa mutare in carità la violenza di Tancredi e così come il
perdono chiesto da Dante nella Commedia vuole suscitare anche nel lettore implicito il desiderio di
compiere un gesto analogo al suo.
Analizziamo ora il percorso che compie l’Innominato dalla vita sanguinaria alla carità
verso chi ha bisogno. Manzoni lo introduce nel romanzo come un «uomo terribile» che, secondo
le testimonianze del Ripamonti, «teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la
sovranità». Fra le sue «principali passioni» Manzoni ne cita una che ci interessa in modo
particolare: «fare ciò che era vietato dalle leggi, o impedito da una forza comune» e poi aggiunge:
Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d’invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi n’andava in cerca, d’aver che dire co’ più famosi di quella professione, d’attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua amicizia. […] ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, […] molti ne ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati […]. Nel fatto però, veniva anche lui ad essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere ne’ loro impegni l’opera d’un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato […] mancare al suo assunto.
(PS, XIX)
L’Innominato è prima di tutto un uomo che ama contrapporsi alla legge e fare per principio
quello che la legge o «una forza comune» vieta: al divieto dunque reagisce con la sfida, si pone di
fronte alla legge per entrare nell’ambito che la legge dichiara proibito. Inoltre è invidioso degli
altri potenti della sua stessa città, e questa invidia lo porta a sfidare anche loro per ridurli poi a
28
nemici o ad amici. Amici che non sono mai alla pari, ma subordinati, perché anche il dominio
rientra fra le sue passioni. Infine Manzoni precisa che, nonostante, o forse a causa di quest’ansia
di dominio sui propri amici e nemici, l’Innominato finisce per asservirsi a loro, per diventare loro
strumento: nel momento in cui avesse negato un aiuto (e lasciato invendicato un torto) egli
avrebbe infatti perso la propria reputazione. Il primo ritratto che abbiamo dell’Innominato ci
spinge a riconoscere in lui i segni della logica dei correlativi: il segno più evidente è l’invidia, che,
ci ricorda Girard, deriva dall’imitazione del desiderio e si colloca già nella logica della
correlazione. L’innominato desidera il potere degli altri nobili suoi concittadini, questi ultimi
sentono crescere il desiderio di mantenere questo potere proprio in virtù dell’invidia di lui, e così
fino all’esplodere della contesa: Manzoni ci dice che nella maggior parte dei casi ha la meglio lui,
ma racconta anche che «tante ne fece che […] dovette […] uscir dallo stato». La sua esistenza,
sembra di capire, si conduce fra attacchi, difese, vendette, creazione di rapporti dai quali poi è
difficile uscire: quando compare nel romanzo, quindi, l’Innominato è immerso nella logica della
correlazione simmetrica. Vuole quello che possiedono gli altri, per ottenerlo usa la violenza, ama
comandare, ma per mantenere la propria signoria deve di fatto subordinarsi ai propri subordinati.
In questi atteggiamenti ritroviamo in parte la dinamica del mimetismo di cui parla Girard, il gusto
per il dominio che abbiamo dovuto attribuire anche ad Armida e la tendenza all’opposizione
frontale, caratteristica della logica correlativa. Dal racconto di Manzoni appare chiaro che, una
volta invischiato in una serie di relazioni, l’Innominato, anche se potente, non se ne può più
liberare, ne diventa prigioniero, come Rinaldo negli incanti di Armida. A tal punto che, se
Rinaldo quasi si identifica con la maga, guardando, insieme, lei e se stesso nei suoi occhi,
l’Innominato quasi si identifica con i suoi amici e nemici, non potendosi liberare né degli uni, né
degli altri e servendoli entrambi con un legame a doppio filo.
Il primo indizio del fatto che sta avvenendo un cambiamento nelle abitudini
dell’Innominato ci è offerto proprio dall’incrinarsi dei rapporti con i suoi ‘amici’: una volta data la
parola a don Rodrigo, infatti, il terribile signore prova una sensazione per lui nuova: «Ma appena
rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indispettito d’averla data. Già da qualche tempo
cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze», scelleratezze che,
se in gioventù non gli pesavano, al momento dell’accordo con don Rodrigo costituiscono «il
crescere di un peso già incomodo». Manzoni racconta che è il pensiero della vecchiaia, del tempo
che rimane da vivere a fargli sentire tutto il peso dei delitti commessi in passato:
Ma in que’ primi tempi, l’immagine d’un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d’una vitalità vigorosa, riempivano l’animo d’una fiducia spensierata: ora all’opposto, i pensieri dell’avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato. - Invecchiare! Morire! E poi? – E, cosa notabile! l’immagine della morte, che, in un pericolo vicino, […] soleva raddoppiar gli spiriti di quell’uomo […], quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una
29
costernazione repentina. (PS, XX)
Il pensiero di invecchiare e di avere dunque ancora poco tempo davanti a sé provoca in lui un
mutamento di prospettiva nel modo di concepire sia la vita, sia la morte: se in passato l’esistenza
gli si era profilata come una trionfale collezione di delitti, ora ha perso di senso («e poi?»); l’idea
della morte, che prima gli raddoppiava il vigore, ora lo abbatte, perché gli si presenta associata al
giudizio di Dio.
Quando lo vediamo entrare in azione, dunque, l’Innominato è già diverso dal personaggio
che l’autore ha appena finito di introdurre raccontandone la storia attraverso le inclinazioni del
carattere: lo vediamo già attraversato dal dubbio, dalla preoccupazione; sta già, in qualche modo,
avviandosi verso un capovolgimento di prospettiva, una nuova visione della vita, alla quale, però,
inizialmente, cerca di opporre tutta la propria resistenza. Prova fastidio all’idea di mettere le mani
addosso a Lucia e vuole spedirla direttamente a don Rodrigo, ma ubbidisce poi all’imperioso no
della coscienza che gli suggerisce – pare di intuire - la possibilità di dare un finale inatteso alla
vicenda della giovane vittima. Nonostante cerchi di non pensare a questa prigioniera che ha fatto
compassione al Nibbio, alla fine non resiste al desiderio di vederla, salvo poi stizzirsi quando
Lucia chiama in causa Dio come salvezza dalle sue tribolazioni. E, dopo averla vista, continua per
un buon lasso di tempo a ripensare alle sue parole e a tentare di coprirle con il ricordo di vecchie
imprese scellerate. Ma l’atteggiamento di Lucia lo manda in crisi: se prima «cominciava a sentire
una cert’uggia delle sue scelleratezze», dopo l’incontro con la giovane l’Innominato si sente un
tutt’uno con esse («eran tutte sue, eran lui») e non riesce a dimenticare quella frase: «Dio perdona
tante cose per un’opera di misericordia».
Il percorso di mutamento dell’Innominato è già avviato quando la sua storia si intreccia
con quella dei protagonisti del romanzo: la Grazia ha dunque già cominciato ad agire, come
succede a Clorinda che ha alle spalle una lunga – e a lei sconosciuta – storia di fede; come
succede a Dante che, prima di sapere dell’aiuto delle tre donne benedette, riconosce da sé che «la
diritta via era smarrita», pur non sapendo come fare a ritrovarla.31 L’Innominato è già sulla strada
che lo porta a mutare vita, come ci mostra il mutare dei suoi desideri («ciò che altre volte
stimolava più fortemente i suoi desideri, ora non aveva più nulla di desiderabile»), ma sarà Lucia
lo strumento che la Grazia impiegherà per portare a compimento il cammino, Lucia che con la
sua presenza e le sue parole lo conduce a mettere in discussione la promessa fatta a don Rodrigo
e, con essa, l’uomo vecchio che l’aveva pronunciata:
31 Anche in questi casi viene confermata la posizione di San Tommaso: è impossibile rivolgersi a Dio se non è Dio stesso a prendere l’iniziativa.
30
Pensando all’imprese avviate e non finite, invece d’animarsi al compimento, invece d’irritarsi degli ostacoli […] sentiva una tristezza, quasi uno spavento dei passi già fatti. Il tempo gli s’affacciò davanti vuoto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere […]. E se volle trovare un’occupazione per l’indomani […] dovette pensare che all’indomani poteva lasciare in libertà quella poverina. – La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei e le dirò: andate, andate […] E la promessa? E l’impegno? E don Rodrigo?... Chi è don Rodrigo? (PS, XXI)
E’ con questa domanda che l’Innominato comincia a chiedersi come abbia potuto promettere
quel servizio, e qui Manzoni precisa che a farsi la domanda è «questo nuovo lui cresciuto a
giudicare l’antico»: per la prima volta, infatti, dopo l’uggia iniziale che era diventata già tristezza e
spavento delle passate imprese, l’Innominato comprende di aver agito «per un movimento
istantaneo dell’animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti
antecedenti», e questa scoperta lo guida «indietro, indietro» in un esame di tutto il suo passato.
Ritroviamo in questi luoghi il topos dell’esame di coscienza che abbiamo trovato sia nel cammino
purgatoriale di Dante, sia, più concisamente, nell’avventura di Rinaldo. A questo esame seguirà
una maggiore presa di coscienza della propria condizione e una confessione che l’Innominato
pronuncerà davanti al Cardinal Federigo, che ricopre un ruolo analogo a quello di Beatrice e di
Pietro l’Eremita.
Dopo una prolungata lotta con l’io antico che tenta di riprendere il sopravvento,
l’Innominato decide di andare a parlare col Cardinale, ma non senza vergogna, non senza stizza:
Manzoni ci descrive il suo stato d’animo come contraddittorio sino all’ultimo. Nonostante
l’angoscia provata durante la famosa notte, l’ammissione delle colpe non è immediata, non è
senza tentazioni di tornare indietro, non è, per così dire, così pacifica come l’abbiamo trovata
nell’esperienza di Rinaldo.32 Racconta Manzoni:
L’innominato, ch’era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa. (PS, XXIII) Non è dunque del tutto chiara in lui la necessità della confessione: l’uomo antico sta ancora
lottando con quello nuovo per non essere giudicato. Il tempo compreso fra il rapimento di Lucia
e il dialogo col Cardinale sembra quindi coincidere per l’Innominato con quello dell’esame di
coscienza, un esame di coscienza che si sviluppa nella forma del duello fra il vecchio io, che tenta
di rimanere ancorato senza rimpianti alla solita vita, e l’io nuovo – forse ancora più antico 32 Non possiamo dimenticare con quanta facilità Rinaldo venga convinto prima dalla propria immagine, poi dalla genealogia, poi dall’Eremita a compiere tutta quella serie di azioni che lo portano fuori dalla «torta confusione» del labirinto. Non troviamo in lui né resistenza, né travaglio interiore: la sua coscienza viene – direi – ingenuamente rappresentata come uno specchio che, ricevuta l’illuminazione, la riflette automaticamente a propria volta.
31
dell’altro, perché legato agli insegnamenti ricevuti durante l’infanzia - che gli si contrappone in
atteggiamento di giudice.33 Sergio Zatti, in un saggio dedicato alla presenza del Tasso nell’opera di
Manzoni, mette in relazione questa psicomachia interiore del singolo personaggio romanzesco
con il duello del poema epico, del quale la psicomachia non sarebbe altro che la forma nuova:
Proprio il motivo della conversione fornisce lo spunto per segnalare altre possibili sopravvivenze e trasformazioni di modelli arcaici, dove risulta talora operante la mediazione tassiana, ma che in generale risalgono a più remoti paradigmi […] di cui anche Tasso è interprete. […] L’istanza conflittuale che oppone all’interno della coscienza dell’Innominato un uomo antico e un uomo nuovo attualizza le forme allegoriche di una “psicomachia”. […] La psicomachia non è che il simulacro di un duello, ovvero di quella forma dualistica di conflitto celebrata dalla letteratura epica e cavalleresca e ripresa in qualche luogo del romanzo secondo intenti e modalità specifiche. […]. Nei Promessi Sposi il duello ottiene singolari trasformazioni di modi e di esiti, sempre conservando tuttavia il suo carattere di strumento occasionale di conversione.34
Prendendo in esame per ora solamente le prime fasi di questa psicomachia vediamo come il
duello fra i due io che si manifestano nell’Innominato trovi, come già in altri casi esaminati, il
proprio corrispettivo formale nella sintassi costruita dall’autore. Anche in questo caso, come in
quelli dei duelli fra pagani e cristiani e del duello fra Lodovico e il nobile, la figura retorica su cui
si costruisce l’intero edificio è quella dell’antitesi: l’unica differenza è che, se nei casi già esaminati
abbiamo rilevato il crearsi della logica dei correlativi simmetrici fra due individui opposti e ben
distinti fra loro, nel caso dell’Innominato le due parti opposte sono due facce dello stesso intero,
del medesimo individuo. Questa differenza, però, è importante: è in essa che dobbiamo ricercare
la nuova forma che il duello assume quando diventa psicomachia: i due io, infatti, non possono
essere considerati alla stregua di due cavalieri duellanti, in quanto il loro rapporto, lungi dall’essere
paritario, è già in partenza sbilanciato verso l’io nuovo. L’esito del conflitto è dunque praticamente
deciso fin dal momento in cui l’io nuovo sorge a giudicare l’antico: il primo avrà il sopravvento
sul secondo, diversamente da quanto accade nei duelli ‘tradizionali’ che si chiudono con la
sconfitta di entrambi i contendenti (sconfitta che va intesa in senso lato e a seconda della
situazione, ma basti pensare a Tancredi e Clorinda, Tancredi e Argante, Lodovico e il nobile). E’
sant’Agostino a chiarire una volta per tutte la soluzione dell’apparente dissidio fra due volontà
che appartengono al medesimo individuo: la volontà è una sola, e uno solo è l’io che vuole o non
vuole (che è diverso dal dire vuole e non vuole!). Spiega Roberta De Monticelli:
33 Anche Dante sia nel primo canto dell’Inferno, sia ripetutamente lungo tutta la prima cantica, ha la tentazione di tornare indietro, di rinunciare al rinnovamento della propria vita. Il motivo è sempre la paura, che comprende, da un lato, la poca fiducia nella guida e, dall’altro, l’implicito eccessivo affidamento alle sole capacità umane. In questi casi assistiamo ad una specie di duello fra Dante e Virgilio, ma possiamo ammettere che proprio attraverso Virgilio il Dante poeta giudica il Dante pellegrino, quindi è come se il duello si consumasse dentro il medesimo individuo. 34 SERGIO ZATTI, I Promessi sposi e il modello epico tassiano, in ID., L’ombra del Tasso, Milano, Bruno Mondadori, 1996, pp. 231-292: 287, 289, 290.
32
Il punto forte della teoria agostiniana è allora precisamente la tesi che il conflitto della volontà non spezza la volontà in due parti, non produce due volontà: ma sussiste, semplicemente, quando ciò che effettivamente vogliamo e facciamo non lo vogliamo con tutta la nostra persona. La volontà efficace può essere una volontà parziale.35
Se fino al rapimento di Lucia l’Innominato provava solo uggia delle proprie violenze, dopo aver
ascoltato il resoconto del Nibbio ed aver parlato con la ragazza, è la sua volontà efficace a
prendere finalmente il sopravvento su quella puramente virtuale e a condurlo a fare ciò che ha
deciso. Il duello interiore è solo apparente, dunque, perché i due contendenti sono in realtà uno
solo: tuttavia è importante riprendere la conclusione del discorso di Zatti, secondo cui «Nei
Promessi Sposi il duello ottiene singolari trasformazioni di modi e di esiti, sempre conservando
tuttavia il suo carattere di strumento occasionale di conversione».36 Anche quando non siamo di
fronte ad una lotta fra due nemici, dunque, possiamo trovarci nel mezzo di uno scontro fra due
aspetti della volontà di un singolo: anche questo tipo di combattimento ha a che vedere con la
dinamica del duello vero e proprio. Se l’esito del duello mortale fra Lodovico e il nobile è la
conversione di Lodovico in seguito all’esperienza di sentimenti nuovi dentro di sé e della
maturazione di alcune prese di posizione più vecchie, l’esito del conflitto fra volontà efficace e
volontà virtuale nell’Innominato corrisponde – per usare sempre un termine agostiniano - alla
formatio di questa stessa volontà nei termini di volontà efficace rivolta al bene. E’ in questo senso
che possiamo accettare l’osservazione di Zatti sul fatto che, nel romanzo, il duello è strumento di
conversione.
Tenendo presente queste differenze, rileggiamo per intero il travaglio interiore
dell’Innominato, travaglio che, per il lettore, comincia dopo il congedo di don Rodrigo con la
promessa di risolvere al più presto il caso di Lucia, anzi più precisamente, comincia già mentre
don Rodrigo sta illustrando i termini del problema:
Don Rodrigo, sapendo con chi parlava, si mise poi a esagerare le difficoltà dell’impresa; la distanza del luogo, un monastero, la signora!... A questo, l’Innominato, come se un demonio nascosto nel suo cuore gliel’avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che prendeva l’impresa sopra di sé. […] Ma appena rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indispettito d’averla data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all’animo brutte e troppe. […] Una certa ripugnanza provata ne’ primi delitti […] tornava ora a farsi sentire. Ma in que’ primi tempi, l’immagine d’un avvenire lungo […] riempiva l’animo di una fiducia spensierata: ora, all’opposto, i pensieri dell’avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato […]. L’immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d’un nemico, soleva […] infondergli un’ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina. […] e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava. Ne’ primi tempi, gli esempi così frequenti […] della violenza […], ispirandogli un’emulazione feroce, gli avevano anche servito come d’una
35 ROBERTA DE MONTICELLI, L’allegria della mente. Dialogando con Agostino, Milano, Paravia-Bruno Mondadori, 2004, p. 143. 36 ZATTI, I Promessi sposi cit., p. 290.
33
specie d’autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto nell’animo, l’idea confusa, ma terribile, d’un giudizio individuale, d’una ragione indipendente dall’esempio. […] Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere […], ora […] gli pareva di sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però. […] Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con l’apparenze d’una più cupa ferocia; e con questo mezzo cercava anche di nasconderla a sé stesso, o di soffogarla. […] Faceva ogni sforzo per […] riafferrare quell’antica volontà, pronta, superba, imperturbata per convincer se stesso ch’era ancor quello. Così in quest’occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo, per chiudersi l’adito a ogni esitazione. Ma appena partito costui, sentendo scemare quella fermezza che s’era comandata […], sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola […]; per troncare ad un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio... (PS, XX)
Numerosi e disposti su diversi livelli sono i contrasti che ritroviamo in questa pagina dalla sintassi
complessa e ipotattica che mima in un certo senso ‘l’andare e venire’ del pensiero
dell’Innominato. Quando comincia a delinearne il paesaggio interiore, l’autore procede attraverso
la figura retorica della correctio, che consiste nella sostituzione di un’espressione con un’altra che
appare più adeguata e che solitamente è antitetica a quella sostituita o ne mostra un aspetto che
non appare immediatamente.37 La spia formale di questa figura è costituita dal ricorrere dei vari
«non tanto», «ma almeno» che, in questo caso specifico, se non sostituiscono completamente un
concetto con il suo opposto, servono a chiarire progressivamente, per via di approssimazione, lo
stato d’animo dell’Innominato: il personaggio non è pentito, ma almeno indispettito; prova, se
non rimorso, almeno uggia delle sue scelleratezze; se per lui non si può parlare di coscienza, si
può parlare almeno di memoria. L’andirivieni del pensiero dell’Innominato si colloca, prima di
tutto, fra il passato e il presente: il lettore lo coglie immediatamente attraverso l’insistente
ripetizione della coppia di opposti «ne’ primi tempi»-«ora», ripresa, con alcune varianti che non ne
intaccano il significato, per cinque volte, in un crescendo della profondità dello scavo interiore.
Manzoni comincia con il contrapporre la ripugnanza e la spavalderia nel compiere i delitti; poi
contrappone gli effetti che seguono al pensiero dell’avvenire: un tempo esso dava speranza, ora
rende noioso il passato; in seguito confronta gli effetti del pensiero della morte; poi gli esempi
passati della violenza e le esigenze presenti della coscienza; infine arriva al pensiero più profondo,
a Dio, dapprima ignorato e ora sentito come ‘caparbiamente’ – se così si può dire – presente in
lui. La prima antitesi è dunque quella fra passato e presente: c’è un uomo nuovo che sta
prendendo forma e si sta a poco a poco scindendo da quello vecchio. L’Innominato ne prende
coscienza esaminando gli effetti che i propri pensieri hanno su di lui. E si va dal ricordo dei delitti
all’immagine più alta, quella di Dio. Dobbiamo sottolineare che la contrapposizione fra i
sentimenti che nascono come effetto dei pensieri è a propria volta ulteriormente segnalata
dall’autore: non c’è solo differenza fra il «prima» e l’«ora»: quando l’Innominato proietta la sua
mente nel futuro, Manzoni contrappone la «fiducia spensierata» di un tempo alla noia che il 37 Si veda HEINRICH LAUSBERG, Elementi di retorica, traduzione e cura di LEA RITTER SANTINI, Bologna, Il mulino, 1969, § 384, pp. 206-208.
34
personaggio prova ora nel ripensare al passato; quando viene presentata l’immagine della morte,
possiamo riscontrare nel testo un perfetto parallelismo ritmico fra due periodi segnati da una
forte antitesi a livello di contenuto:
L’immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d’un nemico, soleva […] infondergli un’ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina.
In questo periodo troviamo contemporaneamente un parallelismo - «in un pericolo vicino, a
fronte d’un nemico» e «nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello» delineano i luoghi
dove si manifesta l’immagine della morte -; tre contrapposizioni («pericolo vicino»/«sicurezza del
castello»; «a fronte d’un nemico»/«nel silenzio della notte»; «coraggio»/«costernazione repentina»)
e una struttura a chiasmo che interessa le due proposizioni costruite in parallelo: «in un pericolo
vicino, a fronte d’un nemico» è infatti simmetrica, sempre sul piano dei contenuti, a «nel silenzio
della notte, nella sicurezza del suo castello». Gli emistichi estremi veicolano l’idea di
pericolo/assenza di pericolo; quelli centrali l’idea di presenza/assenza di persone.
All’interno della macrostruttura che oppone tempo passato e tempo presente, Manzoni
accosta termini uguali e contrari per mettere in evidenza il rovesciamento di prospettiva di cui fa
esperienza il personaggio: «Ne’ primi tempi» l’Innominato aveva avuto davanti a sé numerosi
«esempi» di violenza, che gli erano serviti anche per tacitare la propria coscienza; «ora», ai tempi
dell’accordo con don Rodrigo, gli sorge l’idea confusa «d’un giudizio individuale, d’una ragione
indipendente dall’esempio», dove il concetto di esemplarità viene cambiato di segno nelle poche
righe che separano apertura e chiusura del periodo: all’inizio si tratta di esempi di violenza che
generano feroce emulazione; alla fine si parla di una ragione che nulla ha più a che vedere con
l’esempio. Da ultimo, emerge dal passato la voce di un Dio dimenticato ma non sconfitto, che,
nonostante l’indifferenza dell’Innominato, dice: «Io sono però», con quel «però» conclusivo che si
colloca come all’apice di un crescendo di avversative tutte tese ad evidenziare i ripensamenti
dell’animo del personaggio, a rimettere in discussione quelle che fino a quel momento erano state
le sue (presunte) certezze. Il brano si apre appunto con un «ma»,38 ripetuto quasi ad ogni periodo:
«Ma appena rimase solo...»; «non pentito, ma indispettito»; «Ma in que’ primi tempi»; «Quel Dio
di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere»; «Io
sono però». […] Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi
profondamente»; «Ma appena partito costui...». A proposito della sintassi di questo brano, Marino
Boaglio parla di un «periodare continuamente corretto, aggiustato, segnato dalle forme
avversative», attraverso cui Manzoni segue il suo personaggio «nel suo andirivieni, con una serie
38 Come anche l’ottava in cui Tasso racconta la conversione e morte di Clorinda.
35
di variazioni stilistiche»,39 che «non prima affermano le realtà spirituali, e subito le attenuano o
negano; lasciando intravedere in tal modo […] la crisi in atto nell’uomo».40 La «cifra dominante»
in questo, per così dire, monologo in terza persona, sarebbe allora quella «della divergenza e del
contrasto», uno stile che, «mentre fornisce un dato, lo contesta subito col suo doppio».41
Si delinea in questo modo il sorgere, nell’Innominato, di due io, che, pur non ancora ben
delineati, sono già in lotta fra loro e che assumono via via una sempre più chiara autonomia a
partire da quel «no imperioso» che risuona nella sua mente all’idea di mandare Lucia direttamente
da don Rodrigo, al «uno non è più uomo» pronunciato in merito alla compassione, al secondo «no
interno più imperioso del primo» che gli impedisce di mandare il Nibbio a dar notizia a don
Rodrigo dell’avvenuto rapimento, al «Voglio vederla...Eh! no...Sì, voglio vederla», ai tormentati
«Io?...Io non son più uomo, io? […] che c’è di nuovo?» e «io domandar perdono? a una donna?
io...?», fino a quel «nuovo lui che, cresciuto terribilmente ad un tratto, sorge come a giudicare
l’antico» con tutte le sue scelleratezze (che «Eran tutte sue, eran lui»), i suoi cattivi desideri che ora
vengono meno e le sue passioni, che non vogliono più «andare avanti», «come un cavallo
divenuto tutt’a un tratto restio per un’ombra».42 Due io, dunque, che nascono dal travaglio
dell’interrogazione che mette in dubbio l’antico io degli anni della maturità. Due io che
sopravvivono e lottano anche poco prima che l’Innominato si presenti al Cardinale e la cui
dialettica si stempera dopo la risoluzione – molto pratica, e per questo molto efficace – di
cominciare subito a cambiare vita liberando Lucia. Come si affretta a dare la sua parola a don
Rodrigo per evitare la tentazione di non dargliela, così, ma in direzione opposta, l’Innominato si
affretta a realizzare il consiglio di Federigo, forse per evitare la tentazione di rimandare ancora
l’inizio della nuova vita.43
39 MARINO BOAGLIO, Manzoni: il romanzo dell’Innominato come modello di conversione, in «Critica letteraria», 2000 (2) pp. 263-295: 272. 40 EURIALO DE MICHELIS, La vergine e il drago, Padova, Marsilio, 1968, p. 183, citato dallo stesso Boaglio. 41 BOAGLIO, Manzoni, cit., p. 274. Per la legge del contrasto si veda anche BARBERI SQUAROTTI, Teorie e prove dello stile del Manzoni, Milano, Silva, 1965. 42 Si noti come in questo caso Manzoni impieghi una similitudine già dantesca per rovesciarne il significato: Virgilio, infatti, rivolgendosi ad un Dante ancora incerto sulla possibilità e necessità del viaggio, lo rimprovera: «S’i’ ho ben la tua parola intesa […] l’anima tua è da viltade offesa; / la qual molte fiate l’omo ingombra / sì che d’onorata impresa lo rivolve, come falso veder bestia quand’ombra» (If, II, 43-48, corsivo mio). Nel caso di Dante la similitudine ha, per così dire, valore negativo: l’anima paurosa del pellegrino è paragonata ad un animale che retrocede per paura di qualcosa che in realtà non c’è, ma è solo il frutto del venir meno della luce (almeno nell’interpretazione di alcuni critici). Nel caso dell’Innominato sono le passioni di un tempo che recalcitrano come cavallo restio per un’ombra: spostando il termine di paragone dallanima dell’uomo alla sua passione, Manzoni cambia di segno alla similitudine e le attribuisce – nel contesto - un significato positivo. L’effetto per il lettore è straniante: la memoria che corre al Dante infernale, pellegrino che ha la forte tentazione di voltarsi indietro, lo deve accostare qui all’Innominato in cui è la ‘parte’ negativa ad autocensurarsi. In ogni caso è importante sottolineare il richiamo – non credo casuale – alla similitudine dantesca: Manzoni forse sta collocando il suo personaggio sulla medesima strada di conversione percorsa da Dante nel suo viaggio. 43 Manzoni annota nelle Osservazioni sulla morale cattolica che «L’uomo che trasgredisce i comandamenti di Dio, gli diviene nemico, e si rende ingiusto. Ma quando riconosce i suoi falli, ne è dolente, li detesta e, ciò che viene di conseguenza, propone di non commetterne più; quando propone di ritornare a Dio per que’ mezzi che, nella sua misericordia, Dio ha istituiti a ciò; quando propone di soddisfare alla giustizia divina, di rimediare, per quanto può, al mal fatto, allora non è più, per dir così, lo stesso uomo, non è più ingiusto» (VIII, 14, c.vi miei).
36
Abbiamo già osservato come anche nel caso di Lodovico il duello sia occasione di
conversione: se là si trattava di un duello vero e proprio, rispondente alla medesima logica che
ritroviamo in quelli della Gerusalemme liberata, sappiamo che, anche dopo aver rivestito il saio, in
padre Cristoforo si manifestano i segni di una lotta interiore,44 dei quali il duello di gioventù forse
non era altro che una figura. Con l’Innominato ci troviamo immediatamente di fronte al
combattimento interiore che si manifesta attraverso quei no imperiosi della sua coscienza, divieti
che vanno nella direzione opposta rispetto al suo abituale modo di agire, e in quel suo continuo
ripensare alla vita precedente, nel tentativo di sopprimere il desiderio di cambiamento. Le parole
di Lucia costituiscono per lui una cesura fra la vita di prima e l’ipotesi di una nuova vita;
l’incontro col Cardinale fa, per così dire, precipitare la situazione, accelerando il processo per cui
l’ipotesi si vede subito concretizzata in una decisione che cambia la vita dell’Innominato e la
situazione di Lucia, con tutte le conseguenze che ne derivano. Come Pietro ricorda a Rinaldo la
necessità della sua presenza al campo, come Beatrice ricorda a Dante le buone qualità che ha
guastato, così Federigo spiega all’Innominato tutto il bene che può fare Dio servendosi di lui, una
volta che anche lui voglia volgere al bene le sue risorse. Quando il Cardinale tace, finalmente
l’Innominato si scioglie in lacrime:
i suoi occhi, che dall’infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l’ultima e più chiara risposta. (PS, XXIII) Lacrime che si accostano facilmente a quelle di Dante e che corrispondono ad una maggiore
comprensione di sé, alla presa di coscienza delle proprie colpe: dopo aver pianto, infatti,
l’Innominato parla di una consolazione mai provata in tutta la vita. Nell’incontro tra l’Innominato
e il Cardinale non possiamo non riconoscere l’eco delle parole del Salmo 50 (51), ma anche il topos
già incontrato del ‘faccia a faccia’, per così dire, con se stessi: per Dante e Rinaldo il
riconoscimento della colpa è suggellato dal fenomeno della riflessione, rispettivamente nell’acqua
e nello scudo, che restituisce al peccatore la propria immagine, con quanto di simbolico il
Con quella sorta di ‘confessione’ davanti al Cardinale, l’Innominato riconosce i suoi errori (e cita il Salmo L!) e comincia la sua strada del ritorno verso Dio attraverso quei mezzi che Dio ha istituito; con la decisione di liberare Lucia soddisfa alla giustizia divina riparando, per quanto è possibile, il male compiuto: giusta la Morale cattolica l’Innominato ha le carte in regola perché in lui si riconosca il passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo. E’ da notare che la trasformazione si lega all’esercizio della giustizia, uno dei fili rossi fondamentali del romanzo, che riguarderà molto da vicino anche la conversione di Renzo, come vedremo. 44 «Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso». E ancora: «Tutto il suo contegno, come l’aspetto, annunziava una lunga guerra, tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all’erta e diretta da motivi e ispirazioni superiori.» (PS, IV).
37
fenomeno porta con sé; per l’Innominato è il Cardinale a fungere, per contrario, da specchio e a
disarmare il suo interlocutore con l’accoglienza misericordiosa che gli riserva.
E’ nel sentirsi accolto con misericordia che l’Innominato stempera quanto in lui era
rimasto dell’antico orgoglio e della vecchia stizza e si sente mosso a chiedere a propria volta
perdono a Lucia. Il perdono ricevuto e la misericordia di cui è richiesto da parte di lei sono il
motore che lo spinge all’azione. Il perdono è quindi, ancora una volta, il discrimine passando per
il quale il protagonista rompe con la vita precedente e abbandona la strada percorsa fino a quel
momento. Se riandiamo ai significati della parola «conversione» illustrati in apertura di questo
lavoro, possiamo notare che, prima di tutto, questa dell’Innominato è un’epistrofé, cioè un ritorno
dalla strada sbagliata a quella giusta, che – par di capire – gli era stata additata almeno ai tempi
dell’infanzia.45 Solo in un secondo momento la sua esperienza diventa anche metanoia perché si
arricchisce dell’elemento della penitenza che lo conduce ad un cambiamento di mentalità,
tangibile e radicale, rispetto alla logica della violenza, che più di tutto aveva caratterizzato la sua
vita precedente.46 Il primo movimento che l’Innominato deve compiere, infatti, è quello di «girare
i passi», come fa Rinaldo, dalla già dantesca «via non vera» verso la «retta via»; il successivo –
raccontato nei particolari più curiosi nel Fermo e Lucia – sarà quello di restare fedele a questo
cambiamento di direzione ed estenderlo a tutti gli aspetti della propria vita attraverso la
riparazione del male compiuto e il compimento di ulteriore bene. Il Conte, infatti, resta tale, resta
nobile e continua ad abitare nel suo castello, ma cambia dall’interno il modo di stare nella propria
condizione: è il rovesciamento della prospettiva interiore – segnato esteriormente prima di tutto
dal definitivo abbandono delle armi47 – a consentirgli di mettere i propri mezzi a servizio di chi
cerca protezione dalle invasioni dei soldati stranieri. A proposito dell’esperienza di conversione
dell’Innominato, Girardi osserva come essa assomigli a quella dell’autore Manzoni (e, a ben
guardare, anche a quella di Dante, e se non del Dante autore, almeno del Dante poeta
rappresentato nella Commedia):
45 A un passo dal suicidio, infatti, gli viene in mente «quell’altra vita di cui gli hanno parlato quand’era ragazzo, di cui parlano sempre» (cap. XXI) e, per chiudere la giornata segnata dall’incontro col Cardinale e dalla liberazione di Lucia, si inginocchia vicino al letto «con l’intenzione di pregare. Trovò infatti in un cantuccio riposto e profondo della mente, le preghiere ch’era stato ammaestrato a recitar da bambino; cominciò a recitarle; e quelle parole, rimaste lì tanto tempo ravvolte insieme, venivano l’una dopo l’altra come sgomitolandosi». (PS, XXIV) 46 Ritroviamo nella Morale Cattolica entrambi gli aspetti, quello del ritorno a Dio dopo aver abbandonato a via del male (epistrofé) e quello dei modi con cui si ritorna a Dio (la contrizione e la riparazione, compimento della metanoia). 47 In questo abbandono delle armi Carlo Annoni individua «la via d’uscita attiva dal “vangelo di superbia e d’odio del mondo”»: secondo il critico Manzoni traccia, attraverso l’esperienza dell’Innominato, «una parabola memorabile […] che il narratore riassume conclusivamente mediante l’insistita visibilità del passaggio dell’uomo dallo status di eroe armato alla dimensione di santo inerme, secondo un iter di spoliazione e di rivestimento empirico che riflette quello dell’uomo interiore» (La citazione è tratta dall’Introduzione all’Adelchi curata da CARLO ANNONI, ancora in corso di stampa. Ringrazio vivamente l’autore che, con grande disponibilità, mi ha permesso di prendere visione delle bozze e di trarne spunto per questo lavoro).
38
Quella dell’Innominato […] è la storia di un «superuomo». Il cui caso si presenta, nel cap. XIX, come un caso di individualismo spinto e di inadattabilità sociale affine a quello del padre Cristoforo; che si risolve però in un modo del tutto opposto. […] La sua conversione [di padre Cristoforo] si definisce quindi essenzialmente come fatto interiore e finalizzato alla vita religiosa. Per l’Innominato […] la conversione si configura piuttosto come rettifica di un errore nel modo di impiegare un dono che lo ha fatto umanamente grande, elevandolo al di sopra del pensare e del sentire comune. Conversione, dunque, che un po’ riflette quella stessa del suo creatore...48
Si vede, infatti, nella seconda parte del romanzo, che l’Innominato non cambia stato di vita – cosa
che invece caratterizza la conversione di Lodovico – ma ri-orienta lo stato precedente. Questa era
stata anche l’indicazione del Cardinale, che riconosce in lui una «volontà impetuosa» e una
«imperturbata costanza» che devono essere mantenute, ma cambiate di direzione, dal servizio al
male al servizio al bene. Non è molto diversa l’esperienza che Dante ci consegna attraverso la
Commedia: se rileggiamo i versi del suo incontro con Beatrice nel Paradiso terrestre, ricordiamo
che a lui viene rimproverato di esser caduto in giuso e di aver volto i passi per via non vera,
quando, alla morte di Beatrice, si è dedicato a «le presenti cose» (Pg XXXI, 34). Il fatto che egli
scriva poi la Commedia è segno del suo impegno a riorientare le proprie capacità di poeta dalla
poesia d’amore cortese e poi stilnovista, ad una poesia che parli dell’amore nei confronti di Dio.
Anche per l’Innominato la conversione comporta quindi un cambiamento di prospettiva
che lo porta a reinterpretare le proprie capacità e risorse per volgerle al bene, una novità rispetto
al passato che coincide con la rinuncia alla violenza, e, di conseguenza, la rottura con la logica dei
correlativi simmetrici in cui lo abbiamo visto invischiato dalla giovinezza fino a pochi istanti
prima di parlare con Federigo. Per i suoi costumi, che Manzoni illustra prima di farlo entrare
concretamente in azione, l’Innominato risponde, dapprima senza incrinature, ai caratteri del
mimetico, che si lega a doppio filo col proprio avversario imitandone il desiderio. In seguito,
dopo le prime ‘ugge’ lo vediamo ancora duellante, stavolta contro se stesso, ma sempre fedele alla
legge dell’azione/reazione: dopo il dialogo con don Rodrigo ad ogni buona ispirazione ne
risponde sempre una cattiva, alla quale se ne oppone un’altra buona che lui tenta di scacciare, e
così via, fino alla risoluzione di liberare Lucia, decisione che, invece di rispondere al bene col
male, trasforma il male in bene e risponde al bene (le promesse di preghiera fatte da Lucia) col
bene. A far rompere la catena delle correlazioni è la misericordia promessa per bocca di Lucia:
«Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia» è infatti la frase che riecheggia
maggiormente nei pensieri dell’Innominato e che lo turba perché così lontana dalla logica con cui
egli ha sempre condotto la propria vita e capace di suscitare in lui desideri che gli sono del tutto
nuovi.
48 GIRARDI, Struttura e personaggi...cit., p. 119.
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