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DA: PRIMA PARTE: LA METAMORFOSI Il vasto tema della metamorfosi che attraversa la nostra letteratura prendendo le mosse da Omero, Ovidio e Apuleio verrà riletto nel corso di questo lavoro seguendo alcune piste particolari: almeno tre, infatti, sono le caratteristiche del fenomeno metamorfosi emerse nell’introduzione, caratteristiche deducibili non solamente dagli studi di antropologia, ma prima ancora – vedremo – da alcuni episodi della letteratura. Le abbiamo così sintetizzate per indicare le direzioni in cui verrà condotta l’analisi: - il legame fra metamorfosi, mito e magia (e metafora); - la serialità infinita e ciclica a cui è aperto il fenomeno metamorfosi; - il realizzarsi della metamorfosi in contesti in cui vige la legge dei correlativi simmetrici, o, più in generale, quella dell’opposizione di contrari. Lo stretto legame fra metamorfosi e mito appare evidente in Dante e d’Annunzio; la trasformazione come risultato della magia è meglio rappresentata da Tasso, mentre in Marino troviamo una compresenza di entrambe le relazioni. Sulla scorta del modello ovidiano, interpretato tuttavia in modi differenti dai diversi autori e affiancato, in alcune opere, al modello di metamorfosi ‘pedagogica’ di Apuleio, troviamo presente, nei racconti esaminati, anche il motivo della possibile ripetizione ciclica delle trasformazioni. Infine vedremo che quella che la semiotica contemporanea chiama «dinamica dei correlativi simmetrici» e che troviamo nella sua formulazione originaria negli Analitici di Aristotele con valore puramente logico, troverà proficue applicazioni nell’ambito formale della costruzione dei testi a livello sia di episodi circoscritti, sia della macrostruttura di un’intera opera e ci consentirà di mettere in luce il particolare rapporto che si crea di volta in volta tra contenuto e forma. Seguiremo ora queste tre direzioni soltanto accennate, passando in rassegna i luoghi letterari in cui si manifestano con maggior chiarezza, partendo dalla Commedia per arrivare all’Alcyone dannunziana.

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Page 1: DA PRIMA PARTE LA METAMORFOSI - tesionline.unicatt.ittesionline.unicatt.it/bitstream/10280/381/4/03provetestuali.pdf · di metamorfosi ‘pedagogica’ di Apuleio, troviamo presente,

DA: PRIMA PARTE: LA METAMORFOSI

Il vasto tema della metamorfosi che attraversa la nostra letteratura prendendo le mosse da

Omero, Ovidio e Apuleio verrà riletto nel corso di questo lavoro seguendo alcune piste

particolari: almeno tre, infatti, sono le caratteristiche del fenomeno metamorfosi emerse

nell’introduzione, caratteristiche deducibili non solamente dagli studi di antropologia, ma prima

ancora – vedremo – da alcuni episodi della letteratura. Le abbiamo così sintetizzate per indicare le

direzioni in cui verrà condotta l’analisi:

- il legame fra metamorfosi, mito e magia (e metafora);

- la serialità infinita e ciclica a cui è aperto il fenomeno metamorfosi;

- il realizzarsi della metamorfosi in contesti in cui vige la legge dei correlativi simmetrici, o,

più in generale, quella dell’opposizione di contrari.

Lo stretto legame fra metamorfosi e mito appare evidente in Dante e d’Annunzio; la

trasformazione come risultato della magia è meglio rappresentata da Tasso, mentre in Marino

troviamo una compresenza di entrambe le relazioni. Sulla scorta del modello ovidiano,

interpretato tuttavia in modi differenti dai diversi autori e affiancato, in alcune opere, al modello

di metamorfosi ‘pedagogica’ di Apuleio, troviamo presente, nei racconti esaminati, anche il

motivo della possibile ripetizione ciclica delle trasformazioni. Infine vedremo che quella che la

semiotica contemporanea chiama «dinamica dei correlativi simmetrici» e che troviamo nella sua

formulazione originaria negli Analitici di Aristotele con valore puramente logico, troverà proficue

applicazioni nell’ambito formale della costruzione dei testi a livello sia di episodi circoscritti, sia

della macrostruttura di un’intera opera e ci consentirà di mettere in luce il particolare rapporto

che si crea di volta in volta tra contenuto e forma.

Seguiremo ora queste tre direzioni soltanto accennate, passando in rassegna i luoghi

letterari in cui si manifestano con maggior chiarezza, partendo dalla Commedia per arrivare

all’Alcyone dannunziana.

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(Dal cap. 2: Serialità infinita e ciclica)

Metamorfosi e metafora

Se ipotizziamo che la metamorfosi abbia un particolare valore sul piano ontologico,1

dovremo verificare se esso esiste e qual è il suo corrispondente sul piano logico-retorico. In

questo ci vengono in aiuto i trattatisti del Seicento, primi fra tutti Tesauro e Gracián.

Nell’Acutezza e l’arte dell’ingegno quest’ultimo dedica un’ampia sezione al genere di concetti che

chiama «trasposizioni», sezione nella quale, se ho ben inteso, egli istituisce un legame privilegiato

fra la trasposizione, la trasformazione e quella che noi chiamiamo metafora. Aprendo il discorso

sulle ingegnose trasposizioni afferma: «Esta Especie de Conceptos es una de las mas agradables,

que se observan. Consiste su Artificio en transformar el objecto, y convertirlo in lo contrario de lo

que parece».2 Le trasposizioni sono dunque delle specie di trasformazioni che interessano, mi par

di capire, il dominio dell’intenzionalità, in quanto la metafora provocherebbe un mutamento nel

modo con cui il fruitore guarda, percepisce e giudica il contenuto che gli viene comunicato. E

questo cambiamento di prospettiva per cui ad una immagine se ne sovrappone un’altra e a una

cosa se ne sostituisce un’altra «se requiere algun fundamento de alguna conformodidad, o como

aparencia co aquel otio extremo, en que se trasforma»,3 richiede qualche fondamento di un’affinità

qualsiasi, almeno una parvenza di affinità, fra l’assunto e l’estremo in cui si trasforma. I possibili

fondamenti di affinità sono diversi e vengono indicati nella polisemia delle parole, nella

paranomasia e, in particolare, nell’analogia che sta alla base della similitudine fra due enti. Mette

conto ripercorrere, almeno nelle loro linee essenziali, le pagine di Gracián per vedere se nella

casistica che espone è possibile ritrovare alcuni meccanismi retorici messi in atto da Marino

nell’Adone:

Aunque en este linage de conceptos campea mas la sutileza, que la verdad; con todo esso se requiere algun fundamento de alguna conformodidad, o como aparencia co aquel otio extremo, en que se trasforma. […] Es mas fundada la transmutacion, quando el termino transformado tiene algo de equivocacion con el otro, en que se transforma, y està como a dos luzes, dos vertientes […]. Si ay alguna circunstancia especial, que de ocasion para la transposicion, haze la Agudeza mas fundada, y assi mas plausible: porque con la conformidad, que dize con el termino, en que se convierte, da verdadero fundamento al concepto. […] La Paranomasia, y cadencia del nombre, basta para una artificio sa transposicion […]. La semejanza tercia mucho para la Transposicion, y lo que otro exprimiera por un simile, el Ingegnoso lo pondera por esta sutil transformacion. El juyzioso Alciato dize, que el palacio no lo es, aunque lo parece, sino verdadera carcel […].

1 Mi sembrano, infatti, quantomeno anomali l’insistenza e lo spazio che Marino dedica alle trasformazioni se esse non fossero portatrici di un significato che vada il di là di quello ornamentale. 2 BALTASAR GRACIÁN, Argudeza y arte de ingegno, Huesca, Juan Nogués, 1648, p. 111, corsivo mio: «questa specie di concetti è una delle più gradevoli che sia dato d’osservare. La sua tecnica consiste nel trasformare l’assunto convertendolo nel contrario di ciò che appare». Per la traduzione si è fatto riferimento a GRACIÁN, L’acutezza e l’arte dell’ingegno, introduzione di M. Perniola, trad. di G. Poggi, Palermo, Aesthetica, 1986, pp. 136-139. 3 Ibidem. In termini analoghi, ma con minore insistenza circa le trasformazioni, si esprime Emanuele Tesauro nell’analisi della metafora che occupa gran parte del suo Cannocchiale aristotelico.

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Algunas vezes no se transforma el mismo sucesso, sino sus cirsunstancias; como sus causas, prohijandole a otras de lasque se piensan […]. Conviertense otras vezes los efectos en los contrarios; y en otro muy diferente el fin, que se pretendia. […] Convertir el objecto en su contrario, es gran sutileza.4

L’esordio mi pare significativo: l’autore per prima cosa colloca questo genere di figure retoriche

sotto il marchio di una sottigliezza che ha spesso la meglio sulla verità, fornendoci un’esplicita

chiave di lettura circa la libertà - rispetto al piano delle res e del loro essere - con cui le

trasposizioni vengono realizzate. Nonostante questa libertà della parola rispetto alla res, però,

affinché avvenga la trasposizione ci vuole anche solo una parvenza di affinità tra la cosa, la parola

che comunemente la indica e la parola che viene chiamata in causa per sostituire quest’ultima. La

somiglianza viene ricercata sia a livello di contenuto - e parliamo di «equivoco», per creare il quale

è necessaria qualche somiglianza fra due cose; sia a livello formale – e parliamo di «veste fonica» e

di «paranomasia». Ma ciò che «gioca molto a favore» della trasposizione, e dunque ne costituisce

una solida base, è l’analogia, termine che Aristotele e, con lui, Tesauro, colloca alla base della

generazione della metafora. Aristotele, infatti, nella Poetica definisce la metafora come

«imposizione di un altro nome: o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o dalla specie a

una specie, o secondo analogia»5 e uno studioso come Virgilio Melchiorre afferma che nella

Retorica si vede emergere la priorità del rapporto di analogia rispetto agli altri tre elencati dallo

Stagirita.6 Tesauro, da parte sua, definisce la metafora come «il più ingegnoso et acuto: il più pellegrino

e mirabile: il più gioviale e giovevole: il più facondo e fecondo parto dell’humano intelletto» in quanto essa

«traendo la mente, e non men la parola, da un genere all’altro, esprime un concetto per mezzo di

un altro molto diverso, trovando in cose dissimiglianti la somiglianza»:7 la somiglianza sta

dunque, per entrambi gli autori, alla base della costruzione (e della comprensione) della metafora.

Gracián non parla esplicitamente di metafora, ma che dietro la sua «analogia» si nasconda

proprio la regina delle figure retoriche appare chiaro se rileggiamo l’esempio dell’ “assennato

Alciato”: «e ciò che un altro esprimerebbe attraverso una similitudine («por un simile»), l’ingegnoso

lo valuta attraverso questa sottile trasformazione («trasformacion»). Dice l’assennato Alciato che la

4 GRACIÁN, Argudeza, cit., pp. 111-113, corsivi miei: «Quantunque in questa specie di concetti spicchi più la sottigliezza che la verità, […] si richiede qualche fondamento di un’affinità qualsiasi […] fra l’assunto e l’estremo in cui si trasforma […]. La trasposizione è più fondata quanto il termine di partenza può generare un certo equivoco rispetto all’altro in cui si trasforma, ed è come bifronte, a doppio taglio […]. Se c’è, a dar vita alla trasposizione, una qualche peculiare circostanza, essa rende più fondata e di conseguenza più riuscita l’acutezza perché, attraverso l’affinità che la rende comunicante con il termine in cui si trasforma, fornisce al concetto una solida base […]. La paranomasia e la veste fonica sono sufficienti a creare un’artificiosa trasposizione […]. L’analogia gioca molto a favore della trasposizione e ciò che un altro esprimerebbe attraverso una similitudine, l’ingegnoso lo valuta attraverso questa sottile trasformazione. Dice l’assennato Alciato che la corte non è corte […], ma vero e proprio carcere […]. A volte non è l’evento a subire trasformazione, bensì le sue circostanze, o le sue cause, nel senso che lo si attribuisce ad altre, diverse da quelle supposte […]. Altre volte sono le passioni a trasmutarsi nel loro contrario e il loro scopo in uno assai diverso dal presunto […]. Indice di grande arguzia è ad esempio convertire un oggetto nel suo contrario». 5 ARISTOTELE, Poetica, a cura di M. Zavatta, in Id., Opere, Torino, U.T.E.T., 2004, 1457b 8-11. 6 Cfr. VIRGILIO MELCHIORRE, La via analogica, Milano, Vita e Pensiero, 1996, pp. 54 e sgg. 7 EMANUELE TESAURO, Il Cannocchiale aristotelico, Torino, Bartolomeo Zavatta, 1670, p. 266.

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corte non è corte […], ma vero e proprio carcere» (p. 137 della traduzione). La sottile

trasformazione non è dunque una similitudine: sembra essere qualcosa di più, come l’esempio

dovrebbe indicare. Ma l’esempio di Alciato non esibisce altro che una metafora: «la corte è un

carcere». La trasposizione trova dunque il suo massimo grado di acutezza e insieme di solidità in

quella che Aristotele e Tesauro chiamano metafora.8 La trasposizione, che è una trasformazione,

è dunque strettamente legata alla metafora. Il nesso fra trasformazione-metamorfosi e metafora si

sta dunque chiarendo. E anche se la trasformazione di cui parla Gracián rimane interna al

soggetto, in quanto coincide con un cambio di prospettiva, non è forse pur questa una

metamorfosi? Se, passando attraverso i vari tipi di trasposizione, potessimo legare il processo di

trasformazione alla metafora, la metamorfosi (in quanto trasformazione) sarebbe proprio l’anello

che, nell’Adone, lega piano ontologico e piano logico-retorico perché presente a entrambi i livelli,

talvolta contemporaneamente, talvolta no.

Certamente nell’Adone, quando si tratta di metamorfosi, non incontriamo personaggi

trasformati nel loro contrario (se stessimo alla lettera della definizione di Gracián) ma non

possiamo negare che la metamorfosi serva a produrre nel lettore una nuova prospettiva sulle

cose: quando un uomo è trasformato in albero, apparentemente non siamo di fronte ad un

contrario che subentra all’altro, tuttavia, si tratta di vita che sembra diventare morte, e morte che

invece si rivela vita, sia sul piano dell’essere degli enti in questione, sia sul piano dell’intenzionalità

del lettore. In questo senso le trasformazioni dei racconti secondi, così come anche quella di

Aurilla e di Adone conducono il lettore a vedere la vita anche dietro il suo contrario (e viceversa).

Alle metamorfosi sul piano dell’essere sembrano corrispondere, sul piano retorico, le

trasposizioni di cui parla Gracián, cioè delle similitudini in cui un membro si identifica e si

trasforma nell’altro, vale a dire metafore. In alcuni casi la corrispondenza fra metamorfosi e

metafora è particolarmente evidente, per esempio nell’esperienza di Narciso:

«fatto è strale e bersaglio, arco ed arciero» (V, 26)

«Depose […] / la vita e, morto in carne, in fior rinacque»

«L’onda che già l’uccise, or gli è nutrice» (27)

8 Sulla scorta delle precisazioni di Frare, ricordo che la definizione di metafora fornita dal Tesauro comprende un orizzonte ben più ampio rispetto a quello cui facciamo riferimento oggi: Tesauro fa coincidere, infatti, i confini della metafora con quelli delle figure ingegnose e Frare spiega: «Così la metafora […] comprende in realtà tutte le figure dianoeas […], cioè quelle che consistono “nella significazione ingegnosa” […]. Esse comprendono otto specie, cui l’applicazione del genere metafora può essere ora da noi accettata solo a prezzo di una notevole dilatazione del significato attualmente attribuito al termine, come risulta con chiarezza già dal semplice elenco: metafora di proporzione, di attribuzione, di equivoco, di ipotiposi, di iperbole, di laconismo, di opposizione, di decezione». Lo studioso continua precisando che il significato contemporaneo di metafora coincide solamente con ciò che Tesauro intende per ‘metafora di proporzione’: il che comunque ci basta per stabilire un legame fra la trasformazione di cui parla Gracián, la metafora del Tesauro e la metafora come la intendiamo noi oggi (Cfr. PIERANTONIO FRARE, Contro la metafora. Antitesi e metafora nella prassi e nella teoria letteraria del Seicento, «Studi secenteschi», XXXIII (1992), pp. 3-20: 4-5).

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Possiamo facilmente osservare come in ognuno dei tre versi un membro si trasformi nell’altro

intorno al centro della metamorfosi del giovane in fiore. Nel primo verso metamorfosi e metafora

sono strettamente legate: all’immagine di Narciso infatti si sostituiscono via via le successive, in

un alternarsi di contrari. Egli non solo è come un bersaglio, ma è un bersaglio e tuttavia è ancora

Narciso: la metafora provoca nella mente del fruitore la metamorfosi di un’immagine nell’altra,

prima ancora che venga descritta la vera e propria trasformazione (stavolta davvero anche sul

piano dell’essere) del giovane in fiore. Nel secondo verso si consuma la metamorfosi e Marino

rovescia nel chiasmo la prospettiva appena introdotta: se Narciso muore relativamente alla

dimensione umana, rinasce immediatamente nel fiore. Allo stesso modo si rovescia la funzione

dell’onda, da assassina a nutrice: l’agire dell’acqua è sempre il medesimo, ma sulla base di questa

identità si genera la duplicità di prospettiva. E così Narciso e onda vengono trasformati, nella

mente del fruitore, nel contrario di ciò che appaiono.

Lo stesso fenomeno si rintraccia, con maggiore difficoltà, anche nel caso di Ciparisso, in cui è il

valore della metamorfosi stessa che sembra ad un certo punto trasformarsi da negativo in

positivo: «e, quant’uom desiava, arbore ottiene»: da punizione per il suo attaccamento alle cose

terrene a concessione accordata dalla divinità quasi come consolazione per la mutata forma.

Un altro esempio in cui metafora e metamorfosi sono intrecciate, anche se non

sovrapposte, è quello di Pavone. Nei versi a lui dedicati una carrellata di metafore precede il

racconto della metamorfosi: l’animale è «occhiuto augel», «di fiori incorrottibili gemmato» e «si

tira» dietro «un più vago giardin»; le sue penne sono «un gemmaio», la sua coda una «stellata

sfera» di «tant’occhi» (VI, 79). Le stelle rubate al cielo dal giovane amante di Colomba diventano

in successione fiori incorruttibili, gemme e infine occhi che ricollegano la catena all’«occhiuto

augel», mentre il suo manto diventa giardino, gemmaio, corona e infine sfera stellata. Anche in

questo caso la catena di trasformazioni è possibile sulla base di una caratteristica comune che lega

il membro precedente al successivo e in questo sostituirsi di un’immagine all’altra il lettore ha

continuamente presenti nella mente le due forme di Pavone: quella umana grazie ai richiami

all’evento che ha determinato la trasformazione (lembo, stelle, sfera stellata) e quella animale

espressamente ricordata. La metamorfosi dell’uomo in uccello avviene anche questa volta prima

sul piano retorico e poi su quello ontologico: prima abbiamo un animale il cui corpo è descritto

con una serie di metafore collegate, poi il racconto della trasformazione. Le metafore

introducono dunque la metamorfosi e si strutturano – in anticipo – sulla base degli elementi

fondamentali dell’episodio. Le modalità della trasformazione sembrano essere condizioni di

possibilità della costruzione delle metafore, come anche le metafore che nascono

dall’osservazione dell’animale pavone possono essere condizione di possibilità dell’invenzione

dell’episodio. Ancora una volta vediamo confermato lo stretto nesso tra metamorfosi e metafora

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che sembra costituire la legge ‘cosmica’ che regola l’Adone sia nei contenuti, sia nelle forme della

narrazione.

E’ l’episodio di Pampino quello in cui meglio emergono il valore della trasposizione di cui

parla Gracián e il legame che c’è fra metamorfosi e possibilità di cambiamento di prospettiva:

dopo la morte di Pampino, Atropo grida a Bacco: «Ti diè […] / morendo, aspra cagion di pianto

amaro, / per dar al mondo tutto, or ch’egli è morto / cagion poi di letizia e di conforto» (XIX,

105). La trasformazione è doppia: da una parte, quella di Pampino in altra sostanza; dall’altra

quella dell’effetto della sua morte.9 Con una trasposizione, anche se senza arguzia, Atropo mostra

a Bacco il lato a lui nascosto della faccenda: la morte di Pampino è tale solo in apparenza, in

realtà essa è vita. Il fenomeno è ancora più significativo due ottave sotto: «Mutasi […] / quella

spoglia, ch’insensata e priva / era intutto di vita, in vite viva» (107). E’ un evidente caso di

ingegnosa trasposizione fondata sulla veste fonica del nome, «sufficiente», secondo Gracián, «a

creare un’artificiosa trasposizione»:10 l’equivoco poliptoto vita, vite, viva – in cui «vite» non è il

plurale di «vita», ma il nome della pianta - è la somiglianza sulla base della quale si manifesta la

possibilità del passaggio della vita da Pampino-uomo alla vite in cui è trasformato. Qui non si

tratta di metafora, ma ad essere legata alla metamorfosi è comunque una dinamica che Gracián

considera affine alla metafora stessa: una trasposizione, appunto, fondata sull’equivoco e

sull’analogia tra le parole che sembra quasi fondare la possibile analogia tra gli atti propria della

metafora. Poche ottave dopo, infatti, Bacco esclama: «fatto il bel corpo tuo frondoso e verde / le

sue prime dolcezze ancor non perde»: come Pampino-uomo procurava dolcezza a Bacco, così

succede per Pampino-vite, in una analogia di atti.

Altri esempi del legame che intercorre fra metamorfosi e ingegnosa trasposizione si

trovano nelle parole di Galatea a Polifemo appena prima di trasformare Aci in fiume, e nelle

parole di Venere al momento di trasformare il cuore di Adone in fiore. «D’uccider ti credesti

Acide mio / e t’avedrai che d’uom l’hai fatto dio» (147), esclama la ninfa con improvviso

rovesciamento di prospettiva; mentre per Adone-fiore si tratta, come per Pavone, di una catena di

metafore in cui il primo membro della similitudine si trasforma nel secondo e così di seguito. Il

fondamento dell’analogia Adone-fiore è espresso con una serie di metafore nelle ottave 416-7,

quindi una nuova carrellata sempre di metafore fa rivivere Adone sul cuore della dea (e trasforma

quindi la morte in vita):

E poich’ei fu d’ogni bellezza il fiore e di fiori ebbe adorno il seno e’l viso e mi fu tolto insu l’età fiorita, vo’ che, cangiato in fior, ritorni in vita. 9 «Altre volte sono le passioni a tramutarsi nel loro contrario e il loro scopo in uno assai diverso dal presunto», GRACIÁN, p. 138: nel caso di Pampino il «pianto amaro» diventa «letizia» e «conforto». 10 Ibi, p. 137.

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Tra i fiori, o fiore, il primo pregio avrai, torrai lo scettro ala mia rosa ancora; vinti saran da te quanti giamai Clori in terra ne sparse, in ciel l’Aurora; ornamento immortal de’ miei rosai, perpetuo onor dela vezzosa Flora, nova pompa del prato e del terreno, novo fregio al mio crine ed al mio seno. (XIX, 416-417, c.vi e spaziati miei)

Tutte le volte che compare la parola «fiore» in questi versi si tratta di metafora: alla fine dell’ottava

416, fiore significa sempre bellezza o splendore, ed è nel passaggio fra le due ottave che si

consuma la metamorfosi logica prima ancora che reale: prima Adone-fiore era una metafora;

all’inizio dell’ottava 417 Adone-fiore è l’anticipazione di una realtà che sta per manifestarsi. Il

Pozzi segnala, però, che in questo caso Marino rifiuta le similitudini che troviamo in Ovidio e

nell’Anguillara e rifiuta perciò anche la metamorfosi come struttura fondamentale.11 Eppure

quella metafora Adone-fiore mi sembra - ben più di una similitudine - già anticipo della

metamorfosi stessa, proprio perché nella metafora un membro della proporzione non è solo come

l’altro, ma è già l’altro, come Adone è fiore prima ancora che il suo cuore lo diventi

materialmente. Il fatto che solo il cuore del giovane venga trasformato non toglie nulla allo stretto

rapporto tra metamorfosi e metafora.

Gli episodi finora esaminati alla luce della classificazione di Gracián, che annovera una

certa specie di metamorfosi anche tra le figure retoriche, servono a dimostrare lo stretto legame

che intercorre tra piano retorico e piano ontologico, anche in un autore come Marino che sembra

piuttosto impegnato a sganciare i due ambiti per sbilanciare tutto il peso dalla parte della retorica.

La metamorfosi degli enti uno nell’altro è spesso anticipata da una carrellata di metafore (si sono

presi in considerazione i casi più evidenti, che poi sono anche quelli più significativi, in quanto

Narciso e Pampino sono i personaggi che più si avvicinano ad Adone), cioè da metamorfosi di

immagini una nell’altra, tanto che a volte sembra essere la metafora a generare l’idea della

metamorfosi e non viceversa. Questa però non credo sia un’argomentazione a favore della

marginalità del tema: in un poema in cui la metafora ha così ampio spazio tanto da ricorrere

continuamente, soprattutto nelle descrizioni, è possibile che la sua analoga sul piano ontologico, 11 POZZI, Commento al c. XIX , p. 693. Sottolineano invece il legame tra metamorfosi e metafora nella scrittura dell’Adone il Guardiani (La meravigliosa retorica dell’Adone...cit.) e la Cabani, che insiste: «Nella memoria del lettore domina incontrastata una sola voce: quella di un narratore che della parola e delle sue meravigliose metamorfosi si compiace […]. Similitudine, metafora e metamorfosi sono le figure che, oltre a dare vita al gioco di interscambio, al continuo traslocare delle forme e al trasmigrare degli attributi, rappresentano la ‘vera essenza’ del lungo discorso mariniano. La similitudine equipara mondi distinti cogliendo le intime analogie che li legano», la metafora li sostituisce uno all’altro, la metamorfosi «è la dinamica trasformativa che dall’uno conduce all’altro». Secondo l’autrice similitudine e metamorfosi contribuiscono proprio alla costruzione di un universo metamorfico nel quale il grande assente è l’uomo, un universo in cui «lo scambio delle forme è la regola». CABANI, Le parole del cinghiale, cit., p. 76.

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la metamorfosi, cui non solo sono riservati molti versi, ma che risulta decisiva anche sul piano

narrativo,12 abbia funzione solo ornamentale? Inoltre, il fatto che la metafora si trovi

preferibilmente nelle descrizioni (basti pensare a quelle di Amore, Circe, Adone e Gelosia)

piuttosto che nelle narrazioni provoca un’ulteriore riflessione: nell’universo mariniano (e in

generale barocco) tutto è sempre così incline a cambiare forma che, anche quando si tratta di

‘fermare’ le caratteristiche di un ente tramite una descrizione, viene introdotta la metafora che

muove le immagini mutandole una nell’altra. La metafora sembra addirittura sostituire la

metamorfosi quando quest’ultima non può aver luogo perché il contesto in cui ci troviamo è

statico.

Abbiamo già detto della metamorfosi come legge generale dei fenomeni naturali nel

mondo dell’Adone: ora possiamo aggiungere che essa sembra avere nel poema un preciso

corrispettivo retorico, la metafora, ma non solo per il fatto che abbiamo rilevato nei racconti di

metamorfosi la presenza di numerose metafore, quanto piuttosto perché, in generale, ciò che

l’una fa accadere sul piano ontologico, l’altra provoca sul piano retorico-formale. La

metamorfosi, infatti, è apparsa, nell’Adone, come legge capace di attribuire agli enti forme prima

mai possedute; come sappiamo da Aristotele e come ribadiscono i teorici del Barocco, in primis

Tesauro, nell’ambito delle figure retoriche la metafora è considerata come attribuzione di un

nome ad un ente cui tale nome propriamente non appartiene. Si tratta dunque in ogni caso di uno

spostamento di forma verso qualcosa cui tale forma è estranea e su cui presto si modella

adeguatamente. Vediamo come nei versi del Marino venga alla luce in modo particolare questo

rapporto fra metamorfosi e metafora.

Sempre uguale a se stessa nella dinamica – e quindi ripetitiva – la metamorfosi è legge

sempre passibile di variazioni solo a livello degli accidenti, nel senso che vale per tutti allo stesso

modo, ma può essere prodotta da cause differenti e può produrre effetti differenti fra loro.

Ripetitiva a livello fenomenico, essa è contemporaneamente feconda e sterile. E’ feconda rispetto

alla conservazione della specie e sterile rispetto al singolo individuo per almeno due motivi:

l’uomo trasformato in fiore non vive comunque più mentre vive il fiore; il personaggio cui

vengono presentate le vicende esemplari di metamorfosi non ne sa trarre alcun vantaggio.

Marino, infatti, conserva per la metamorfosi l’aspetto punitivo attribuitole da Ovidio e da Dante,

ma le toglie l’efficacia dell’ammaestramento, quindi la funzione, per così dire, performativa.

Questa decurtazione aggrava ulteriormente la sterilità di un processo chiuso su di sé, che compie

sempre gli stessi movimenti e dal quale l’uomo non sembra poter uscire se non attraverso una

inversione del desiderio, come abbiamo ipotizzato considerando le parole di Teti. Vedremo che

questo avverrà nell’esperienza del pellegrino della Commedia e nella vicenda di Rinaldo nella 12 Si veda per questo CHERCHI, Le metamorfosi, cit.

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Gerualemme liberata, ma non succede nella storia di Adone. Il motivo di questo è da ricercare, a mio

avviso, nell’identificazione della realtà con la sfera del percepibile, che è in continuo divenire e in

cui il rimando da una somiglianza all’altra finisce e ricomincia in ogni punto di contatto fra due

enti analoghi.

(Dal cap. 3: La correlazione simmetrica)

Simmetria e Reciprocità nei duelli della Gerusalemme Liberata

La situazione del duello si presta in modo particolare alla ricerca delle simmetrie e delle

specularità sul piano dei contenuti, ma quello che ci interessa far emergere è la corrispondenza tra

contenuto e forma e, soprattutto, la differenza tra una serie di duelli che coinvolgono un

guerriero pagano e uno cristiano e il duello Tancredi-Clorinda, scontro di sessi e di religioni che

presenta alla fine un’apertura assente negli altri episodi e dovuta al passaggio di Clorinda dal

paganesimo alla fede cristiana. Il confronto tra queste due tipologie di duello ci permetterà, lo

anticipiamo, di mettere a fuoco la diferenza tra correlazione simmetrica e asimmetrica e di

introdurre la dinamica che riconosceremo propria alla coversione.

Nelle due parti del duello Tancredi-Argante – che fa quasi da cornice al cuore della

vicenda –, così come negli scontri fra Argante e Raimondo e Tancredi e Rambaldo, vedremo

come i guerrieri ricalcano le loro mosse su quelle dell’avversario e come le forze (fisiche e verbali)

dell’uno si moltiplichino a misura che aumentano quelle del nemico. Un particolare interessante è

che la maggior parte di questi combattimenti non si conclude grazie alle mosse dei cavalieri, bensì

grazie ad un intervento esterno che pone fine al continuo ricalcarsi dei gesti dei personaggi: segno

forse della sterilità della dinamica speculare, di cui abbiamo già detto nel capitolo precedente e

che ritroviamo anche nella schermaglia amorosa che si consuma fra Armida e Rinaldo, guerra di

sguardi e di parole che ricadono continuamente su se stessi fino al momento determinante della

conversione dell’eroe con tutte le conseguenze che essa provoca.

Il primo duello significativo che il lettore incontra è quello fra Tancredi e Argante, che

dovrà interrompersi per il sopraggiungere delle tenebre: Tasso dedica la prima ottava agli insulti

di Tancredi verso Argante e la seconda, specularmente, ai ruggiti del circasso contro Tancredi.

Seguono quattro ottave che descrivono la prima fase del duello, in cui i cavalieri assumono i

medesimi atteggiamenti:

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Ma poi ch'in ambo13 il minacciar feroce a vicenda irritò l'orgoglio e l'ira, l'un come l'altro rapido e veloce, spazio al corso prendendo, il destrier gira. (VI, 39) Posero in resta e dirizzaro in alto i duo guerrier le noderose antenne; […] quinci Tancredi e quindi Argante venne. (40) L'uno e l'altro cavallo in guisa urtosse che non fur poi cadendo a sorger pronti.(41) Cautamente ciascuno a i colpi move la destra, a i guardi l'occhio, a i passi il piede. (42)

Vediamo che l’autore sottolinea quasi sempre in apertura di ottava la corrispondenza fra i due:

«ambo»; «l’un come l’altro»; «i duo»; «quinci» e «quindi»; «l’uno e l’altro»; «ciascuno». Dopo

l’azione/reazione iniziale i due intraprendono una specie di gioco dello specchio, compiendo gli

stessi gesti. Seguono altre due ottave, dedicate, ancora, la prima a Tancredi, la seconda ad

Argante, quasi a ripetere lo schema iniziale, schema ampliato dalla descrizione di un ulteriore

scambio di colpi simmetrici: Argante «corre […] per ferirlo», allora Tancredi «ribatte, e lui fere anco»

(43); quindi il circasso «torna per ferire» (44) e infine Tancredi «poi che non s'allenta il fer pagano, /

è forza al fin che trasportar si lassi, /e cruccioso egli ancor con quanta pote / violenza maggior la

spada rote» (47). Entrambi reagiscono sempre alla provocazione dell’altro, e quando i gesti non

sono i medesimi, sono almeno corrispondenti (come abbiamo visto per la trasformazione

serpente-ladro in Dante): quando Tancredi «si raccoglie e si restringe in guarda» (43), il pagano va

all’attacco e «con la voce la spada insieme estolle» (44). Seguono due ottave dedicate ad Argante e

una a Tancredi, con inversione dell’ordine osservato sopra:14 la scena si conclude con l’incertezza

dei due popoli che osservano il duello e con l’interruzione per l’arrivo della notte.

Accumulazione, chiasmo e parallelismo15 sembrano essere le figure privilegiate a

sostenere la costruzione retorica della scena, figure, non a caso, della moltiplicazione e della

circolarità. Troviamo una serie di accumulazioni all’inizio del duello:

or gira intorno, or cresce inanzi, or cede, or qui ferire accenna e poscia altrove, dove non minacciò, ferir si vede, or di sé discoprire alcuna parte. (42)

giunta or piaga a la piaga, ed onta a l'onta, (45) 13 Segnalo in corsivo le parole che indicano l’analogia di intenti e il paralllelismo di azioni che caratterizzano i due protagonisti del duelllo. 14 Si ottiene così la sequenza Tancredi-Argante; Tancredi-Argante; Argante-Argante-Tancredi. Se osserviamo di seguito il secondo e il terzo elemento della serie vediamo che essi formano una specie di chiasmo imperniato sul pagano, che vale anche se avviciniamo primo e terzo elemento. La sequenza, passibile di ripetizione identica, si chiude così su se stessa, ma senza arrivare ad una conclusione del duello. 15 Sempre segnalati in corsivo.

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seguiti da una serie quasi alternata di chiasmi e parallelismi

e la vendetta far tanto desia che sprezza i rischi e le difese oblia. (45) (chiasmo)

E congiungendo a temerario ardire estrema forza e infaticabil lena, (parallelismo) vien che sí impetuoso il ferro gire che ne trema la terra e 'l ciel balena; (chiasmo) né tempo ha l'altro ond'un sol colpo tire, onde si copra, onde respiri a pena, (parallelismo) né schermo v'è ch'assecurar il possa da la fretta d'Argante e da la possa. (46) (parallelismo nella rima)

fino alla concitata ottava 48 in cui è descritta l’ultima scena visibile del duello:

Vinta da l'ira è la ragione e l'arte, e le forze il furor ministra e cresce. Sempre che scende, il ferro o fòra o parte o piastra o maglia, e colpo in van non esce. Sparsa è d'arme la terra, e l'arme sparte di sangue, e 'l sangue co 'l sudor si mesce. Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono, fulmini nel ferir le spade sono.

I secondi emistichi dei primi due versi si ricalcano nella struttura a duplicatio; segue una

accumulazione imperniata sul polisindeto della disgiunzione («il ferro o fòra o parte // o piastra o

maglia»); poi un chiasmo che sovrappone armi e terra («Sparsa è d'arme la terra, e l'arme sparte»)

e le confonde col sangue nella reduplicatio scandita dal polisindeto. La scena si chiude con un

chiasmo («Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono») e un parallelismo fra due emistichi

(«Lampo nel fiammeggiar» / «fulmini nel ferir»).

Opposizioni analoghe ritroviamo all’inizio del duello fra Tancredi e Rambaldo, cavaliere

di Armida: in questo caso le prime tre ottave sono egualmente distribuite fra pagano e cristiano

che si provocano a vicenda:

"O tu, che (siasi tua fortuna o voglia) al paese fatal d'Armida arrive, pensi indarno al fuggir; or l’arme spoglia, e porgi a i lacci suoi le man cattive, ed entra pur ne la guardata soglia con queste leggi ch’ella altrui prescrive, né piú sperar di riveder il cielo per volger d'anni o per cangiar di pelo, (VII, 32)

se non giuri d'andar con gli altri sui contra ciascun che da Giesú s’appella." (33) […].

Di santo sdegno il pio guerrier si tinse nel volto, e gli rispose: "Empio fellone,

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quel Tancredi son io che ’l ferro cinse per Cristo sempre, e fui di lui campione; e in sua virtute i suoi rubelli vinse, come vuo' che tu vegga al paragone, ché da l'ira del Ciel ministra eletta è questa destra a far in te vendetta." (34)

Rambaldo invita Tancredi a deporre le armi e a lasciarsi irretire dai lacci di Armida obbedendo

alle sue leggi e rinnegando la sequela di Gesù. Tancredi risponde quasi punto per punto alle

parole dell’avversario: a «or l’arme spoglia» si contrappone «son io che ’l ferro cinse / per Cristo

sempre»; a «e porgi ai lacci suoi le man cattive» si oppone «questa destra», «ministra eletta» del

Cielo. Rambaldo ribatte ancora alle parole del principe, ma Tancredi risponde preparandosi al

combattimento e scendendo da cavallo per farsi uguale, per esigenze di cavalleria – e per legge di

simmetria -, al proprio nemico che è a piedi. Comincia il confronto in cui ad ogni passo avanti

dell’uno corrisponde un equivalente passo indietro dell’altro: diversa struttura rispetto al duello

Tancredi-Argante, ma analoga dinamica dei correlativi. Dove Rambaldo indietreggia, Tancredi

avanza («e là donde Rambaldo a dietro fassi / velocissimamente egli si spinge, /e s'avanza e

l'incalza», 39); dove uno si difende, l’altro attacca («ma veloce a lo schermo ei non è tanto /che piú

l'altro non sia pronto a l'offese», 40); dove uno scappa, l’altro insegue (onde al ponte rifugge, e sol

nel corso / de la salute sua pone ogni speme. / Ma 'l seguita Tancredi, e già su 'l dorso / la man gli

stende e 'l piè co 'l piè gli preme», 44). Anche in questo caso il buio pone fine allo scontro, un

buio provocato dalla magia di Armida che salva così il suo cavaliere.

Ludovico e Padre Cristoforo

Se sostanziali sono le differenze fra le due eroine della Gerusalemme Liberata, pur nelle numerose

caratteristiche che le accomunano, possiamo riscontrare una significativa analogia fra una di esse,

Clorinda, e uno dei personaggi dei Promessi sposi, fra Cristoforo, apparentemente molto distante

dalla guerriera musulmana, ma come lei protagonista di un cambiamento che lo porta a passare

dalla logica dei correlativi simmetrici alla logica del perdono.

Dei celeberrimi luoghi della conversione di Ludovico voglio mettere in luce soltanto due

aspetti strettamente collegati: la costruzione dei dialoghi e i rapporti che si creano fra i personaggi.

Lo farò considerando due particolari scene che troviamo nel capitolo IV, quella del duello fra

Ludovico e il nobile, e quella della pubblica richiesta di perdono al fratello dell’ucciso.

Focalizzando l’attenzione su questi spazi ristretti riconosceremo chiaramente nella scena del

duello la dinamica dei correlativi simmetrici e vedremo come nella scena del perdono, ferme

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restando le due parti - da un lato Lodovico, dall’altro un nobile - questa dinamica venga interrotta

e superata.

Quando introduce la scena del duello, Manzoni parla chiaramente in termini di

opposizione e precisa che sia Lodovico, sia il nobile pretendono di arrogarsi il medesimo diritto,

sulla base di motivazioni entrambe legittime, e quindi di ugual valore anche se di contenuto

diverso. Il lettore è dunque introdotto nella logica in cui va inscritto l’episodio, logica che si

formalizza poi nel dialogo fra i due contendenti. Spiega Manzoni:

Tutt’e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; […]. L’altro pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse di andar nel mezzo; e ciò in forza di un’altra consuetudine. Perocché, in questo, come accade in molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso quale delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s’abbattesse in un’altra della stessa tempra.

(PS, IV, corsivi miei)

L’autore costruisce l’episodio nei termini di una chiara e doppia opposizione: in primo luogo

abbiamo «due consuetudini contrarie», entrambe in vigore; in secondo luogo – a peggiorare la

situazione – a sostenere le due consuetudini troviamo due teste «della stessa tempra», e cioè

ugualmente dure.16 Manzoni non esita a concludere che questi tipi di opposizioni fra medesime

pretese e medesime teste sfociano nella necessità di una guerra. Fin qui la premessa, per così dire,

metodologica. Vediamo ora come l’autore dà forma a questa opposizione. Riporto per comodità

del lettore il dialogo fra Lodovico e «un signor tale» nel momento in cui si incontrano sul lato

della strada ed ognuno dei due reclama per sé il diritto di stare sulla destra:

Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono corrispondente di voce: «fate luogo». «Fate luogo voi,» rispose Lodovico. «La dritta è mia». «Co’ vostri pari, è sempre mia.» «Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pari miei.» […] «Nel mezzo, vile meccanico; o ch’io t’insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini.» «Voi mentite ch’io sia vile.» «Tu menti ch’io abbia mentito.» […] «E se tu fossi cavaliere, come son io,» […] «ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu.» «E’ un buon pretesto per dispensarvi di sostener co’ fatti l’insolenza delle vostre parole.» «Gettate nel fango questo ribaldo»

La scena si apre con i due protagonisti «viso a viso», in perfetta simmetria, dunque. La prima

battuta è del «signor tale»: «fate luogo», battuta alla quale Lodovico risponde rilanciando

all’interlocutore la medesima richiesta con le stesse parole, e aggiungendo: «la dritta è mia». Il

nobile reagisce riprendendo anch’egli le stesse parole di Lodovico, ma premettendo «Co’ vostri

16 Dove gli uguali diventano per forza contrari uno all’altro.

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pari». Allora il giovane risponde riprendendo il tema dei «pari» e contrapponendo ai «vostri pari» i

«pari miei». C’è dunque sempre un elemento della frase dell’uno che viene ripetuto e ‘arricchito’

nella frase dell’altro, il quale a sua volta risponde riprendendo il tema nuovo e aggiungendo un

ulteriore particolare. Il nobile tenta una prima interruzione del duello verbale invitando Lodovico

a un duello con le armi, e ancora Lodovico riprende il tema enunciato dal nemico per negarlo: il

nobile lo definisce «vile» e lui reagisce: «voi mentite che io sia vile». L’interlocutore allora nega la

negazione di Lodovico, prima moltiplicandola su se stessa: «tu menti ch’io abbia mentito»; poi

facendola rimbalzare direttamente sull’avversario: «il mentitore sei tu». A questo punto il duello

verbale finisce in scontro fisico, in quella «guerra» di cui aveva detto l’autore poche righe sopra, e

la guerra si chiude quando – quasi contemporaneamente - muoiono sia Cristoforo, per mano del

nobile, sia il nobile stesso, per mano di Lodovico, nell’ennesima ripetizione dello schema già

evidenziato nel dialogo, per cui ognuno dei contendenti dà all’altro una risposta equivalente alla

provocazione:

Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d’un bravo, e una sgraffiatura leggera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell’estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sé, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch’era finita, si diedero alla fuga […]; quelli di Lodovico, […] scantonarono dall’altra parte.

Cristoforo si lancia sul nobile per difendere Lodovico, mettendosi, così, nello stesso

atteggiamento violento del nemico. Questi, a propria volta, reagisce con uguale gesto e uguale

impeto andando però a colpire davvero Cristoforo. Cosa che provoca la terza reazione mimetica:

anche Lodovico fa come loro e a spada risponde con spada. Dal punto di vista formale notiamo

che alla «pugnalata» del bravo a Lodovico, Cristoforo reagisce col «pugnale» e quando il signore si

lancia «addosso» a Lodovico per finirlo, Cristoforo va «addosso al signore»; dai pugnali poi si

passa alle spade finché la morte non interrompe la catena delle azioni-reazioni.17 Si tratta dunque

di una serie di reazioni a catena, sempre più pesanti una sull’altra, reazioni che di per sé

potrebbero andare avanti chissà per quanto tempo. E’ lo stesso schema che abbiamo riscontrato

nei duelli fra Tancredi e Argante, Tancredi e Rambaldo, Argante e Raimondo, e, infine, anche

nella prima parte dello scontro fra Tancredi e Clorinda.

Come abbiamo anticipato nell’introduzione a questo lavoro, secondo Girard ogni tipo di

conflitto nasce dal fatto che ogni individuo ha gli stessi desideri di un altro, e in questi casi il

desiderio comune ai duellanti è la vittoria della propria parte, che coincide con il possesso della

17 Frare fa notare come la «guerra» delle due «teste dure» non possa che «concludersi con l’esito già vaticinato da Carlo: “quando alle prese / son due di lor, forza è che l’un, piangendo, / esca del campo” (Adelchi V, 152-155)». Cfr. FRARE, La scrittura dell’inquietudine, Olschki, Firenze, 2006, p. 189.

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città di Gerusalemme e con l’affermazione della superiorità del proprio credo, oppure, nel caso di

Lodovico, nell’affermazione del proprio diritto. Spiega Girard:

Il desiderio mimetico non è sempre conflittuale, ma lo diventa spesso […]. L’oggetto che desidero sull’esempio del mio vicino, egli, il vicino, ha tutte le intenzioni di conservarlo, di tenerlo in serbo per sé, e non se lo lascerà strappare senza combattere. Il mio desiderio verrà contrastato ma, anziché rassegnarsi […] recalcitra e diventa più forte, imitando più che mai il desiderio del suo modello. L’opposizione esaspera il desiderio […] dal momento che se l’imitazione del desiderio […] causa la rivalità, la rivalità, a sua volta, causa l’imitazione.18

Il recalcitrare del desiderio e la sua esasperazione nella rivalità emergono soprattutto nei dialoghi,

dove i duellanti si imitano reciprocamente le battute, costruendo climax che vanno dalla sfida, alla

minaccia, all’insulto e che sfociano inevitabilmente nello scontro fisico.

Cosa succede nei casi di Clorinda e di Lodovico? Cosa li avvicina? Si diceva prima,

l’esperienza di un mutamento che pone fine alla logica della violenza. Per Clorinda il mutamento

avviene nel corso del duello, quando sente l’approssimarsi della morte e, per grazia di un «novo

spirto» può chiamare Tancredi «amico» e chiudere il duello dicendogli: «hai vinto: io ti

perdon...Perdona». Lodovico comincia a sentire il mutamento quando vede il nobile e Cristoforo

morti ai suoi piedi: «l’impressione ch’egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto

da lui, fu nuova e indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. […] fu una vista che

cambiò, in un punto, l’animo dell’uccisore» (PS, IV, corsivi miei). Ma non possiamo dimenticare che

a risvegliare quei «sentimenti ch’eran confusi e affollati nel suo animo» arriva, inatteso, il perdono

del nemico: quando il frate che era corso dai moribondi, raggiunge Lodovico in infermeria gli

dice: «consolatevi […], almeno è morto bene, e m’ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di

portarvi il suo».

Clorinda si «sente» morire e un «novo» spirito la fa parlare in un modo nuovo; Lodovico

ha un’«impressione nuova», una «rivelazione di sentimenti» mai provati, sentimenti che bastano a

cambiare «in un sol punto» il suo animo. Anche Clorinda cambia in modo apparentemente

improvviso, ma sappiamo che dietro la sua richiesta di Battesimo ci sono tutta la fede della madre

e la protezione di San Giorgio. Dietro il cambiamento dell’animo di Lodovico c’è invece un

desiderio che più volte gli si è manifestato nella giovinezza: una volta riparato in convento,

«riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate,

che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla

strada […] facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura».19 In entrambi i casi l’origine

18 GIRARD, Vedo Satana, cit., p. 29.

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del mutamento è la capacità di vedere il nemico in un modo nuovo, appunto da perdonato, da

amico, come si vede nella scena in cui fra Cristoforo incontra il fratello dell’ucciso.

Non mi sembra si possa identificare il mutamento di Lodovico con la sola decisione di

farsi frate cappuccino: il vero cambiamento, la vera conversione si manifesta concretamente nel

primo gesto pubblico che egli compie da frate, ed è lì, nella richiesta di perdono ai parenti

dell’uomo ucciso da lui che dobbiamo cercare i segni della conversione, le dinamiche che ci

permettono di affermare che qualcosa è cambiato nell’atteggiamento del personaggio, e come è

cambiato.

E’ necessario ora rileggere l’episodio, estrapolando per brevità soltanto i passi più

interessanti:

A mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori d’ogni età e d’ogni sesso […]. Il padron di casa […] stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il pomo della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto. […] Quando vide l’offeso, [fra Cristoforo] affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: «io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio.» […] Il gentiluomo che stava in atto di degnazione forzata, e d’ira compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l’inginocchiato, «alzatevi» disse […]. E presolo, per le braccia, lo sollevò. […] Il volto del frate s’aprì a una gioia riconoscente […]. Il gentiluomo, vinto da quell’aspetto […], gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace.

L’atteggiamento del padrone di casa in attesa di fra Cristoforo assomiglia a quello tenuto dal suo

defunto fratello nel momento dell’incontro con Lodovico per strada: al «capo alto, col cipiglio

imperioso» del defunto corrispondono «lo sguardo a terra, e il mento in aria» del fratello vivo.

Non appena lo vede, fra Cristoforo compie un gesto che non aveva trovato spazio nel contesto

del duello: gli si getta ai piedi e gli chiede perdono. L’atteggiamento e le parole del frate turbano –

lo dice il narratore – l’offeso, che scioglie la sua ira non accusando ulteriormente il proprio

interlocutore, non ripetendo le sue parole per ribadire il concetto che la vita del fratello non può

essere restituita, ma chiedendogli di alzarsi, perché non sopporta di vederlo «stare in codesta

positura». Toccato da Cristoforo, il nobile non cerca più vendetta per sé attraverso l’umiliazione

di quello che credeva un avversario, ma addirittura gli getta le braccia al collo, gesto che rovescia

gli avvolgimenti tipici dei duelli descritti dal Tasso, perché analogo nella forma, diverso

nell’intenzione che contiene. E, infatti, l’abbraccio fra i due è suggellato dal bacio di pace,

espressamente risolutore della «guerra» scoppiata con il duello.

Riprendendo alcune osservazioni di Bottiroli, Frare spiega a proposito:

La conversione di Lodovico spezza la logica simmetrica che provocherebbe una infinita (e narrativamente meccanica) catena di vendette e permette a padre Cristoforo di dar vita ad una di quelle «contese asimmetriche» che, al contrario di quelle «simmetriche», «non si limitano a capovolgere una gerarchia, ma tendono a disfare e a riformulare completamente la vecchia relazione. E se, nel primo caso, si finisce sempre col somigliare al proprio nemico (Borges), nel secondo si crea un nuovo territorio i cui

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abitanti non saranno condizionati inesorabilmente dal passato». […] Così Cristoforo può mutare il desiderio di vendetta che i parenti dell’ucciso nutrono verso di lui in stima e ammirazione e, quel che più gli importa, in perdono.20

In questa scena abbiamo dunque l’esempio di come si rompa la logica dei correlativi

simmetrici, rottura che, vedremo, ci apparirà particolarmente feconda. Osserviamo come viene

superata la dinamica tipica del duello: nell’episodio del perdono, Cristoforo non cede alla

tentazione di imitare il contegno accigliato del padrone di casa, ma si mette al di sotto di lui ed

entra necessariamente nel suo campo visivo, cosa che gli consente di instaurare un dialogo e

realizzare la sua intenzione di chiedergli perdono. D’altra parte – lo abbiamo appena visto – alle

parole del frate il nobile non intraprende un discorso ‘polemico’, nel senso letterale di ‘bellicoso’,

come era stato il discorso precedente al duello, ma balbetta alcune frasi e poi rialza e abbraccia il

suo interlocutore, che da nemico diventa amico. La rottura della relazione simmetrica sembra

dunque dovuta alla decisione di non imitare i gesti e l’atteggiamento di chi ci si trova di fronte, o,

meglio, di instaurare una mimesi di altro tipo. Circa la fecondità della rottura dello schema noto

soltanto che la logica del duello non è trasformata solo da parte di Lodovico-Cristoforo, che la

supera – ci par di capire – un po’ alla maniera di Clorinda, per una novità di animo data dalla

Grazia, ma è superata anche dal fratello dell’ucciso, che, pur non facendo esperienza interiore di

una Grazia (almeno, Manzoni non lo dice esplicitamente), si lascia affascinare dall’esempio di fra

Cristoforo e innesca nei suoi confronti un processo mimetico, per così dire, positivo.

Per capire cosa si intende per mimetismo ‘positivo’ è necessario ricorrere nuovamente alle

riflessioni di Girard, che guidano gran parte della nostra analisi. Dopo aver mostrato che i divieti

delle società arcaiche hanno come scopo di evitare i conflitti interni alle società stesse e dopo aver

spiegato che, per lo stesso scopo, il decimo comandamento dato ad Israele proibisce non tanto

azioni, quanto piuttosto desideri, Girard afferma che la novità portata dal decimo comandamento

trova compimento nei Vangeli:

Se Gesù non parla mai in termini di divieti, ma costantemente in termini di imitazione di modelli, è perché sviluppa fino alle ultime conseguenze la lezione del decimo comandamento. Egli non ci raccomanda di imitare lui stesso perché afflitto da narcisismo, bensì per distoglierci dalle rivalità mimetiche. […] Ciò che Gesù ci invita a imitare è il suo desiderio [non le sue abitudini]: assomigliare il più possibile al Padre. […] Gesù ci invita a fare ciò che fa lui medesimo, a diventare tutti degli imitatori del Padre non diversamente da lui. Perché mai Gesù considera il Padre e sé stesso come i migliori modelli per tutti gli uomini? Perché né il Padre, né il Figlio desiderano in modo egoistico, avido.21

Diversamente dal mimetismo, che ci porta a volere ciò che l’altro vuole e a possedere ciò

che l’altro ha e trasforma così questo altro in un rivale, l’imitazione di sé che ci propone Cristo

non ci fa desiderare cose che lui possiede e che vorremmo sottrargli, ma ci invita a imitarlo nel

20 FRARE, La scrittura dell’inquietudine, cit., p. 189. 21 GIRARD, Vedo Satana, cit., p. 33.

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suo desiderio di assomigliare al Padre, e cioè nella sua volontà di dare se stesso per gli altri e di

non tenere nulla per sé. E’ in questo desiderio non «avido» che troviamo, a mio avviso, la chiave

di lettura del cambiamento che avviene nel nobile cui fra Cristoforo chiede perdono: di fronte al

frate che umilia se stesso e che «non si era fatto frate, né veniva a quella umiliazione per timore

umano», come tutti gli astanti avevano compreso dal contegno del suo volto, il nobile non può

desiderare ciò che il frate possiede, perché il frate non ha più nulla, soprattutto non ha più

l’orgoglio al quale il nobile avrebbe voluto tener testa. In queste condizioni Cristoforo non può

più essere visto come un rivale, anzi, diventa per il nobile l’incontro che gli fa deporre l’orgoglio e

gli fa venire voglia, addirittura, di chiedergli perdono a propria volta, in un perfetto esempio di

mimetismo positivo:

Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sé, con maraviglia, ciò che aveva inteso, ciò ch’egli medesimo aveva detto: e borbottava tra i denti: - diavolo d’un frate! […] se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello.

Abbiamo ritrovato nel duello fra Lodovico e il nobile i meccanismi già riscontrati nei

duelli della Gerusalemme liberata e abbiamo visto come questi meccanismi si inceppino quando, nel

mezzo della violenza, uno dei contendenti offre o chiede perdono grazie ad un aiuto

soprannaturale, come ci lasciano intendere più o meno esplicitamente i nostri autori. Il perdono –

che è, sì, rinuncia all’imitazione della violenza dell’altro, ma soprattutto l’aggiunta di un plus che

vedremo - è certamente in grado di rompere la catena della correlazione simmetrica, ma il

perdono è reso possibile, a propria volta, da un mutamento di prospettiva che consiste nel

chiamare «amico» quello che era il nemico e di instaurare con lui un nuovo rapporto.

Identifichiamo questo cambiamento di prospettiva con la conversione, dal momento che gli

episodi che abbiamo preso in esame raccontano il passaggio di Clorinda dalla fede musulmana al

cristianesimo e quella che viene descritta come la conversione di Lodovico. Non dimentichiamo,

inoltre, che il perdono costituisce anche il primo passo della conversione di Rinaldo, conversione

che prende forma prima di tutto nel «girare i passi» dal giardino di Armida al campo crociato, cosa

che volgerà le sorti della guerra a favore dei cristiani; così come il perdono è centrale nella

conversione dell’Innominato, che forse non avrebbe mai compiuto il passo decisivo se non

avesse sentito da Lucia quella frase: «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia». E il

perdono è il punto di partenza dell’ascesa di Dante verso il Paradiso: il viaggio attraverso

l’Inferno – che inizia con quel «Miserere di me» - è il momento della presa di coscienza dei propri

peccati e del loro superamento, quello attraverso il Purgatorio è il momento della confessione,

dell’umiliazione, della penitenza e della reintegrazione. Senza richiesta di perdono e purificazione

non è possibile salire al Paradiso. Se consideriamo le opere finora prese in esame, vediamo che

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non troviamo tracce di perdono nell’Adone di Marino, né nell’Alcyone di d’Annunzio: possiamo

allora anticipare che, se valgono le nostre osservazioni sulla struttura ciclica, ripetitiva, simmetrica,

vendicativa e chiusa delle metamorfosi e, più in generale, del mondo pagano che fa loro da

sfondo, per superare questa logica dell’eterno ritorno del medesimo è necessario che si attui una

particolare dinamica che caratterizza il mondo cristiano, quella del perdono, che - come vedremo

meglio - è sempre legato alla conversione.

DA: SECONDA PARTE: LA CONVERSIONE

(Dal cap. 4: La conversione nella Commedia )

Le relazioni degli sguardi nella Commedia

Ci siamo già occupati di come Dante nella Commedia rappresenti quello che deve diventare

esemplare itinerario di conversione e di come la critica ne abbia messe in evidenza le ascendenze

platoniche, agostiniane e tomiste. Torniamo ora brevemente sull’argomento per sottolineare la

presenza, nella Commedia, dei quattro elementi sopra indicati e la relazione fra conversione e

rottura delle correlazioni simmetriche. La prima parola che il pellegrino pronuncia pochi versi

dopo l’inizio del viaggio – siamo in Inferno I – è quel «Miserere» rivolto a Virgilio col quale Dante si

dichiara bisognoso d’aiuto, e se non si tratta di una richiesta di perdono per un particolare torto

commesso dal pellegrino nei confronti del suo interlocutore, si tratta certamente del desiderio che

qualcuno abbia pietà della sua situazione di erranza, e quindi dei suoi peccati in generale. Tutto il

Purgatorio – lo abbiamo visto – è un percorso di allontanamento dai peccati, a partire dal passaggio

della porta dopo l’incontro con l’angelo, fino all’immersione nel Lete e nell’Eunoé. Mi pare

addirittura si possa intendere la dimensione del perdono come la condizione di possibilità

dell’intero viaggio, in quanto, se il viaggio è compiuto per Grazia di Dio è perché Dio ha avuto

misericordia di Dante. E mi pare altresì di poter asserire che al perdono, anche nella Commedia, si

accompagnano la rottura delle simmetrie, l’avvento di qualcosa di inaspettato e la morte. L’evento

che sopraggiunge e che fa sì che Dante cambi il proprio atteggiamento è l’incipit stesso del viaggio

che lo vede perso nella selva e sul punto di precipitare in basso loco: è questa la situazione che lo

mette in crisi come uomo e che, sulla base dell’equivalenza fra peccato e morte, si può identificare

con la morte stessa. L’evento inaspettato non è tanto la comparsa di Virgilio – che da sola non

basta a far muovere il pellegrino – quanto l’aiuto che «le tre donne benedette» gli offrono

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attraverso questa comparsa: l’evento inaspettato è dunque una grazia,22 la stessa per cui Clorinda

morente pronuncia parole di perdono. A misura che il pellegrino passa dalla morte che è il peccato

(Inferno) alla morte al peccato (Purgatorio), numerose sono le morti che attraversa, rappresentate

sia dagli svenimenti infernali, sia dall’incisione e dalla progressiva espunzione delle P del

Purgatorio, fino al definitivo oblio della vita precedente nel Lete.

Mentre seguiamo Dante nel suo viaggio, possiamo osservare anche come la rottura della

correlazione simmetrica si realizzi in modo speciale in un ambito ben definito, che è poi il filo

rosso conduttore del percorso: quello della vista, dello sguardo, degli occhi, strumento

privilegiato per alimentare sia la conoscenza sia il desiderio. Se consideriamo il rapporto che,

attraverso gli sguardi, si crea progressivamente fra Dante e le sue guide, vediamo che, in generale,

avviene un significativo passaggio tra la reciprocità chiusa degli sguardi fra Dante e Virgilio fino al

loro commiato alle porte dell’Eden e l’invito che Beatrice muove al pellegrino affinché superi

questa reciprocità per guardare oltre, verso Dio, invito che verrà rinnovato anche da San

Bernardo. Dalla dipendenza rispetto alla sua guida poetica, il pellegrino passa all’autonomia dello

sguardo che si dirige verso il cielo superiore e verso Dio, e in questo riesce solo nel Paradiso,

dopo che si è lasciato alle spalle i propri peccati e dopo averli confessati davanti a Beatrice, in una

scena che segna il culmine del cammino di penitenza e l’inizio del cammino del rinnovamento.23

Nella caligine infernale Dante menziona raramente i movimenti dei propri occhi, tranne

quando vuole descrivere la fatica che durano a distinguere le figure nel buio. Mai, nella prima

cantica, ci viene descritto esplicitamente uno scambio di sguardi tra il pellegrino e la sua guida,

cosa che invece accade spesso negli altri due regni. Dunque nell’Inferno non emerge in prima

battuta quella reciprocità di sguardi che ci aiuterebbe a mettere in evidenza i progressi che Dante

compie rispetto alle proprie guide; tuttavia a livello formale sono presenti reiterate spie lessicali

che permettono di intuire la simmetria del rapporto fra i due poeti. 24 Certamente il rapporto di

dipendenza del discepolo rispetto al maestro è chiaro sin dal primo canto e si riconferma a più

riprese fino alla performance finale con cui Virgilio porta sulle spalle Dante mentre attraversa il

corpo di Lucifero. Ma questo è solo un lato del problema: per dimostrare che questa dipendenza

si inscrive in realtà in un rapporto circolare, appunto simmetrico, dal quale nessuno dei due si

può svincolare finché Dante non abbia compiuto il percorso stabilito, basta fare attenzione alla

struttura dei dialoghi che i due intrattengono nell’Inferno. Il più delle volte lo scambio di battute è

scandito dalle didascalie: «egli mi disse»; «e io»; «indi rispose»; «io cominciai»; «ed elli a me»; «e io a

22 Quella che «duro giudicio là su frange» (If II, v. 96). 23 Non a caso la Bargetto ha riscontrato nell’episodio della confessione i segni e i significati della liturgia battesimale così come si compiva per i neofiti battezzati durante la notte di Pasqua. Rimando sempre a Memorie liturgiche, cit. 24 Per la natura del rapporto fra Dante e Virgilio si veda LUIGI DERLA, L’altro Virgilio dantesco, «Testo», XVI, 29-30, gen-dic 1995, p. 40 e sgg., in cui tale rapporto è definito nei termini della dialettica e della complementarietà.

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lui» con una insistenza e una precisione che fanno pensare alla determinata intenzione di

sottolineare il dramma dell’esclusività di questa relazione. E’ vero che entrambi interloquiscono

con i dannati che incontrano, ma è anche vero che è nel dialogo fra loro che si rivela la dottrina

che il viaggio rappresentato vuole veicolare.

Anche durante l’ascesi purgatoriale il rapporto fra maestro e discepolo resta, per così dire,

bisognoso di simmetria, almeno fino all’incontro con Stazio, a due terzi del cammino. Virgilio

resta il punto di riferimento per il discepolo, e se nell’Inferno lo confortava con il potere della sua

parola, in Purgatorio lo sostiene con i cenni dello sguardo. Dopo il dialogo con Catone, infatti,

Dante registra:

io sù mi levai sanza parlare, e tutto mi ritrassi al duca mio, e li occhi a lui drizzai. El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi: (Pg I, vv. 109-112).

In questo modo il discepolo manifesta il proprio smarrimento, la necessità di ricorrere a Virgilio e

la pronta risposta della guida che colma il suo bisogno e gli restituisce, esplicita, la sua silenziosa

richiesta. Ancora, nella cornice dei superbi, lo sguardo di Dante passa attraverso Virgilio per

osservare le novità che il maestro annuncia:

«Ecco di qua, ma fanno i passi radi», mormorava il poeta, «molte genti: questi ne 'nvïeranno a li alti gradi».

Li occhi miei, ch'a mirare eran contenti per veder novitadi ond' e' son vaghi, volgendosi ver' lui non furon lenti. (X, 100-105)

Nella cornice degli iracondi, dove il «fummo» impedisce a Dante la visione, il rapporto fra

discepolo e guida si manifesta attraverso i gesti: in mancanza di sguardi, la simmetria fra i due

rimane nella manifestazione di un’esigenza e nella risposta che subito ne viene: non appena il

fumo li copre, Virgilio si accosta a Dante per offrirgli aiuto e poi continua a guidarlo col suono

della voce, raccomandandogli di non separarsi da lui, come aveva già fatto più volte nell’Inferno,

davanti a Medusa, sulle spalle di Gerione, sulle anche di Lucifero:

Buio d'inferno e di notte privata d'ogne pianeto, sotto pover cielo, quant' esser può di nuvol tenebrata,

non fece al viso mio sì grosso velo come quel fummo ch'ivi ci coperse, né a sentir di così aspro pelo,

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che l'occhio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e fida mi s'accostò e l'omero m'offerse.

Sì come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che 'l molesti, o forse ancida,

m'andava io per l'aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che diceva pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo». (XVI, 1-15)

Chiaro esempio della simmetria che si crea fra lo sguardo di Dante e quello del maestro è un

breve passaggio del girone degli avari, in un momento in cui Dante esprime il tacito desiderio di

interrogare un’anima e Virgilio risponde in un rimando circolare di sguardi introdotto e

sottolineato dalla ripetizione iniziale «li occhi a li occhi»:

e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: ond' elli m'assentì con lieto cenno ciò che chiedea la vista del disio.(XIX, 85-87)

Infine, al momento del congedo, Dante sottolinea la forza dello sguardo del maestro, che penetra

il suo: «Come la scala tutta sotto noi / fu corsa e fummo in su 'l grado superno, / in me ficcò

Virgilio li occhi suoi » (XXVII, vv. 124-126). Con questo ultimo scambio di sguardi si scioglie il

legame che li aveva vincolati uno all’altro e Dante viene affidato ad altri occhi, quegli «occhi belli»

che «lagrimando» avevano mosso Virgilio in suo soccorso, gli occhi di Beatrice che, diversamente

da quelli del poeta latino, non instaureranno con quelli di Dante una relazione simmetrica. Pur

prevedendo i desideri del pellegrino, infatti, lo sproneranno a guardare sempre altro: gli occhi di

Beatrice si fanno superare, non devono essere il punto di riferimento e il termine della visione. Il

concetto è già chiaro nel rimprovero che le virtù teologali muovono a Dante rapito dalla visione

della donna amata nell’Eden:

Tant' eran li occhi miei fissi e attenti a disbramarsi la decenne sete, che li altri sensi m'eran tutti spenti.

Ed essi quinci e quindi avien parete di non caler - così lo santo riso a sé traéli con l'antica rete! -;

quando per forza mi fu vòlto il viso ver' la sinistra mia da quelle dee, perch' io udi' da loro un «Troppo fiso!»; (XXXII, 1-9)

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E si svilupperà in tutto il Paradiso, regno in cui, quando Dante cerca gli occhi di Beatrice, non li

incontra mai in una chiusa reciprocità, ma li trova intenti a guardare altrove, come già nella

visione del Grifone:

Mille disiri più che fiamma caldi strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, che pur sopra 'l grifone stavan saldi. (XXXI, 118-120)

In apertura della terza cantica, l’atteggiamento di Beatrice sviluppa in Dante una sorta di

mimesi positiva analoga a quella di cui si parlava a proposito della rottura della correlazione

simmetrica:25 il pellegrino non desidera né ciò che Beatrice possiede, né Beatrice stessa, ma è

condotto a guardare dove guarda lei:

così de l'atto suo, per li occhi infuso ne l'imagine mia, il mio si fece, e fissi li occhi al sole oltre nostr' uso. (Pd I, 52-54)

e poco dopo:

Beatrice tutta ne l'etterne rote fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là sù rimote. Nel suo aspetto tal dentro mi fei...(vv. 64-67)

Quando poi gli spiega la dottrina della Redenzione, la guida esorta Dante a rimanere attento alle

sue parole, che non valgono per se stesse, ma per chiarirgli i misteri del disegno di Dio:

Ficca mo l'occhio per entro l'abisso de l'etterno consiglio, quanto puoi al mio parlar distrettamente fisso. (VII, 94-96).

Nonostante i richiami di Beatrice, Dante è vinto talvolta dalla sua bellezza, aumentata dalla

gloria del Paradiso e confessa:

ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo de la mia gloria e del mio paradiso (XV, 34-36),

e anche in questo caso, la donna non ricambia lo sguardo del poeta, tutta intenta a guardare

il lume di Cacciaguida. E anche quando Dante contempla non tanto gli occhi della donna, quanto

25 Cfr. cap. III, p. 34 e sgg di questo lavoro. La virtù di Beatrice, e in particolare quella della sua vista che non genera desiderio di possesso, ma desiderio di Dio, è confermata anche dal fatto che lo sguardo di Beatrice non vuole possedere nessuno, non vuole sedurre nessuno, al contrario di quello di Armida, per citare solo l’esempio più eclatante. La vista di Beatrice, infatti, non chiede, ma offre: «perché la donna che per questa dia / region ti conduce, ha ne lo sguardo / la virtù ch’ebbe la man d’Anania» (XXVI, vv. 10-12).

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la bellezza divina che in essi si riflette, riceve esplicito invito a volgere lo sguardo altrove.

Introducendo la comparsa delle anime dei combattenti per la fede, Dante scrive:

Tanto poss' io di quel punto ridire, che, rimirando lei, lo mio affetto libero fu da ogne altro disire,

fin che 'l piacere etterno, che diretto raggiava in Bëatrice, dal bel viso mi contentava col secondo aspetto.

Vincendo me col lume d'un sorriso, ella mi disse: «Volgiti e ascolta; ché non pur ne' miei occhi è paradiso». (XVIII, 13-21)

Anche nell’ultima occasione in cui i loro sguardi possono incontrarsi, quando Dante vede

Beatrice nella rosa dei beati, la donna ribadisce il proprio compito e la missione del poeta: gli

sguardi di entrambi devono rimanere fissi in Dio, non nella loro mutua contemplazione:

Così orai; e quella, sì lontana come parea, sorrise e riguardommi; poi si tornò a l'etterna fontana. (XXXI, 91-93)

Se il commiato da Virgilio era stato suggellato da un intenso scambio di sguardi, il saluto di

Beatrice è una breve occhiata perché l’attenzione della donna torna rapidamente alla

contemplazione di Dio, ad un amore più grande di quello che ha per l’uomo Dante. Mi sembra

che la differenza fra questi due congedi sia significativa, tanto più che nel saluto a Beatrice Dante

supera l’attaccamento alle creature e anche, credo, alla poesia per se stessa: quando, infatti, in Pg

XXX, Dante avverte il vuoto lasciato da Virgilio, piange, tanto che nemmeno le bellezze

dell’Eden possono consolarlo. Ma questo pianto è inopportuno, come Beatrice non manca di

fargli notare:

«Dante, perché Virgilio se ne vada, non pianger anco, non pianger ancora; ché pianger ti convien per altra spada» (vv. 55-57)

Quando, invece, vede per l’ultima volta Beatrice, non lamenta la propria condizione di

abbandono, ma loda la donna e la prega di mantenerlo in grazia: se, dunque si duole per la

partenza del «dolcissimo patre» a cui si era affidato per conquistare la salvezza, al termine del

percorso Dante prende coscienza del necessario distacco dagli amori umani, che non sono altro

che vie per arrivare a quello divino. A segnare la differenza fra i due commiati sono il tono delle

parole di Dante e la dinamica degli sguardi: nel primo caso Dante e Virgilio si guardano a vicenda;

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nel secondo Dante guarda Beatrice e Beatrice guarda Dio.26 E’ a questo punto, al termine del

poema, che Dante riconosce esplicitamente il proprio passaggio dalla servitù alla libertà,

passaggio reso possibile da Beatrice: «tu m’hai di servo tratto a libertate» (Pd XXXI, 85), le dice

nella sua orazione di saluto. Mi sembra che il corrispettivo formale di questa rottura con il

peccato si trovi proprio nell’insistenza sul percorso dello sguardo, sulla conquistata capacità del

poeta di guardare da solo verso Dio e di non fermarsi più all’amore per la creatura. Apice di

questa pedagogia che mira alla piena autonomia del pellegrino nel costruire un autentico e diretto

rapporto con Dio è, infine, il passaggio da Beatrice a San Bernardo, davanti al quale Dante

compie finalmente quello che Beatrice voleva fin dall’inizio: guarda, cioè, direttamente Maria, e

non gli occhi del santo:

Bernardo, come vide li occhi miei nel caldo suo caler fissi e attenti, li suoi con tanto affetto volse a lei,

che ' miei di rimirar fé più ardenti. (XXXI, vv. 139-141)

A proposito del progressivo distacco che il pellegrino deve maturare rispetto alle creature, fra le

quali la più amata è Beatrice, Lino Pertile ha parlato della necessità di «dimenticare Beatrice», di

comprendere che il vero amore è al di là della donna prediletta e di correggere, così,

definitivamente la nozione stilnovista dell’amore. E’ per questo che Beatrice sparisce dall’azione

al canto XXXI ed è per questo che già nel c. X Dante anticipa alcuni segni del superamento: «e sì

tutto il mio amore in lui [in Dio] si mise / che Bëatrice eclissò ne l’oblio» (X, 59-60). Pertile

ritiene l’episodio molto importante in quanto correggerebbe la ‘distrazione’ di Dante narrata nella

Vita Nova e condannata nell’Eden: «dimenticare Beatrice è ammesso e può anzi essere un fatto

positivo e necessario, purché avvenga in suso, […] non in giuso» (p. 241) come invece era capitato a

Dante dopo la morte della donna. In Paradiso Dante comprende che l’amore deve essere rivolto

prima di tutto a Dio, e poi alle creature, tanto che non fa più accenni alla storia d’amore terrena

con la propria amata e, anzi, la sostituisce con San Bernardo, uomo e senex, mentre ci

aspetteremmo che fosse sostituita da Santa Lucia, dalla quale ci attendiamo il terzo intervento

risolutivo dopo quello dell’Inferno e quello del Purgatorio. L’apparizione di San Bernardo

sancisce il definitivo superamento dell’ «Amor ch’a nullo amato amar perdona» dell’Inferno e di

quello che si ‘raddrizza’ in Purgatorio e segna quella che Pertile indica come l’ulteriore

conversione di Dante, «questa volta da Beatrice a Dio».27

26 Significativa anche la differenza rispetto alle trasformazioni fronte a fronte di If XXV, di cui si è parlato proprio a proposito della correlazione simmetrica. In quel caso gli sguardi dei due protagonisti rimanevano fissi uno nell’altro per tutta la durata del fenomeno metamorfico. 27 PERTILE, Dimenticare Beatrice, cit., p. 240.

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Non dobbiamo dimenticare un ultimo particolare che può rivelarsi a suo modo

significativo: quando abbiamo trattato delle metamorfosi dei ladri di Malebolge, ci siamo accorti

che, nel caso più originale, quello delle «due nature a fronte a fronte» (If XXV), gli sguardi dei due

protagonisti rimanevano fissi uno nell’altro per tutta la durata di una trasformazione che era

scandita con ritmo binario e costruita sulle corrispondenze simmetriche di pieni e vuoti fra corpo

mutante del dannato e corpo mutante del serpente. La mutualità degli sguardi che creavano un

cerchio chiuso all’interno del quale si consumava la trasformazione era dunque legata al motivo

della relazione simmetrica, che nell’Inferno era strutturata appositamente per ripetersi all’infinito,

come all’infinito si ripetevano le metamorfosi in Malebolge. Sembra che, in linea generale, il

motivo della simmetria e della circolarità chiusa sia caratteristico dell’Inferno, mentre la rottura di

questo schema si verifichi col passaggio al Purgatorio, ma soprattutto con l’arrivo del pellegrino

in Paradiso. Se ricordiamo anche che l’Inferno è la cantica in cui troviamo relegato il maggior

numero di anime di personaggi provenienti dalla mitologia e dall’epos e, in particolare, dalle

Metamorfosi di Ovidio, abbiamo un’ulteriore conferma del fatto che per superare la logica –

metamorfica, ripetitiva e sacrificale - del mondo pagano, Dante propone la via della conversione

intesa come l’assunzione della prospettiva di Dio, assunzione che implica come origine e come

effetto il perdono, quindi un capovolgimento del modo sterile di intendere i rapporti nel segno

del binomio azione/reazione.

(Dal cap. 6: Frenesia mimetica e sacrificio cristiano nei Promessi sposi)

La conversione dell’Innominato

Il cambiamento irreversibile provocato dal sacrificio che Lucia fa di sé riguarda, tra le altre

cose, prima di tutto la coscienza dell’Innominato, per il quale l’incontro con la giovane contadina

si rivela decisivo all’interno di un itinerario di ripensamento sulla propria vita con cui egli è già alle

prese nel momento in cui don Rodrigo si reca da lui per incaricarlo del rapimento. Vediamo ora

in quali termini si svolge la conversione dell’Innominato: se consideriamo solo l’aspetto materiale

del racconto non sarà difficile ritrovare in esso i topoi che abbiamo già riscontrato nella Commedia e

nella Gerusalemme liberata, nonché nella conversione di Lodovico. Riscontreremo, invece,

significative differenze fra le conversioni del romanzo e quelle descritte nelle tragedie: ci

sposteremo, allora, nel prossimo capitolo, sul piano delle forme per vedere se esiste una

corrispondenza tra genere letterario e possibilità di rappresentare il fenomeno della conversione

così come lo intende Manzoni.

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Prima di procedere all’analisi dobbiamo ricordare che, secondo Manzoni, non è possibile

che la conversione avvenga in modo repentino, né per disposizione naturale dell’uomo: quando

avviene, essa è il culmine e il risultato di un lungo percorso in cui è entrata in azione prima di

tutto la Grazia divina: «il ritorno a Dio è dono singolare della sua misericordia» (Osservazioni sulla

Morale Cattolica, 1855, VIII, 20).28 Non bisogna credere, infatti, che sia facile e naturale pentirsi, e

senza pentimento non è possibile conversione:29 anzi, quanto più l’uomo procrastina il momento

del ritorno a Dio, tanto più il suo cuore si indurisce e diventa più difficile ricondurlo alla via del

bene. Il pentimento e il ritorno a Dio, inoltre, comportano una serie di atteggiamenti che

indicano una forte rottura rispetto alla vita passata, sintetizzati nell’ ‘amore della giustizia’:

«Secondo la Chiesa il primo passo, il passo indispensabile ad ogni grado di santificazione è il

ritorno a Dio, l’amore della giustizia, l’avversione al male» (OMC 1819, VIII, 20), avversione che si

concretizza nel restituire ciò che è stato rubato e nel riparare – per quanto è possibile - alle offese

provocate.30 Già in queste brevi considerazioni che leggiamo nelle Osservazioni sulla morale cattolica

ritroviamo, dietro il pentimento, due elementi che abbiamo già messo in evidenza: quello della

rottura con la vecchia logica di cui appunto ci si pente (un ritorno, una a-versio dalla strada

erroneamente intrapresa, una epistrofé, dunque) e quello del perdono ottenuto, esito del

pentimento e della penitenza-riparazione (siamo qui più vicini alla conversio, a quella metanoia che

abbiamo detto caratterizzata proprio dal pentimento). A questi si aggiunge poi la Grazia divina di

cui Manzoni parla esplicitamente e la cui azione abbiamo riscontrato sia in tutto il percorso della

Commedia, sia negli episodi della morte di Clorinda e della conversione di Rinaldo.

Abbiamo già detto della conversione di Lodovico-padre Cristoforo, degli elementi che la

caratterizzano e della logica nuova che essa inaugura non solo nella vita del protagonista, ma

anche di coloro che in modi diversi vengono a contatto con lui. Esamineremo, quindi, in questo

capitolo, gli episodi in cui prendono forma letteraria le conversioni dell’Innominato e di Renzo,

28 In questo Manzoni sembra riprendere una riflessione di San Tommaso, secondo cui il primo passo verso la conversione è sempre un’iniziativa di Dio e quindi l’elargizione di una particolare grazia: «Quod autem ad hoc indigeamus auxilio Dei moventis, manifestum est […]. Sic igitur, cum Deus sit primum movens simpliciter, ex eius motione est quod omnia in ipsum convertantur secundum communem intentionem boni […]. Et ideo quod homo convertatur ad Deum, hoc non potest esse nisi Deo ipsum convertente. (Summa Theologica, I-II, q. 109, art. 6). E anche: «Sed si loquamur de gratia secundum quod significat auxilium Dei moventis ad bonum, sic nulla praeparatio requiritur ex parte hominis quasi praeveniens divinum auxilium: sed potius quaecumque praeparatio in homine esse potest, est ex auxilium Dei moventis animam ad bonum (Sum. Theol., I-II, q. 112, art. 2). 29 MANZONI, Osservazioni sulla morale cattolica, cit., p. 200 e sgg. 30 Nel capitolo IX, 1 della versione del 1819 viene elencata una serie di atteggiamenti che sembra ritrarre proprio la storia dell’Innominato: citando Ezechiele XXXIII, 12, 14, 15, 16, Manzoni sembra già pensare al personaggio del romanzo: «La giustizia del giusto non lo libererà in qualunque giorno pecchi; e l'empietà dell'empio non gli nocerà più in qualunque giorno si converta […] Se avrò detto all'empio: tu morrai; ed egli farà penitenza del suo peccato, e farà opere rette e giuste; se restituirà il pegno, e renderà quello che ha rapito, e camminerà ne' comandamenti di vita, e nulla farà d'ingiusto; viverà e non morrà. Tutti i peccati che ha commessi, non gli saranno imputati: ha fatto opere rette e giuste, viverà».

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per ricercare anche in esse una rottura con le logiche del passato, una morte almeno metaforica e

il sentimento del perdono che rende possibile vedere nel nemico un amico.

A proposito della conversione di Lodovico abbiamo evidenziato le differenze di

sentimenti tra il giovane che duella contro il nobile incontrato per strada e lo stesso giovane che si

trova fra un uomo morto «per lui» e un uomo morto «da lui». Dall’analisi è risultata evidente la

rottura della logica della correlazione simmetrica nel momento in cui Lodovico abbandona le

armi della violenza per assumere quelle della misericordia. Evento che fa scattare la decisione è, si

era detto, la morte dei due uomini, che coincide con la morte del vecchio Lodovico e la nascita

del nuovo; l’atteggiamento che caratterizza la nuova situazione è il perdono, quello chiesto e

offerto dal nobile morente, quello chiesto da Lodovico, quello conces so dal fratello dell’ucciso.

In questo episodio è stato semplice ritrovare gli elementi che abbiamo legato alla conversione e

identificare la capacità di perdono con l’avvenuto cambiamento di prospettiva: come Clorinda –

e, in senso lato – come Rinaldo, anche Lodovico vive l’esperienza di vedere nel nemico un amico.

Si è detto anche della fecondità che ha in sé l’atteggiamento del perdono: l’umiltà di Lodovico

davanti al fratello dell’ucciso muta l’animo di quest’ultimo e di tutti i presenti, così come il

perdono chiesto e offerto da Clorinda fa mutare in carità la violenza di Tancredi e così come il

perdono chiesto da Dante nella Commedia vuole suscitare anche nel lettore implicito il desiderio di

compiere un gesto analogo al suo.

Analizziamo ora il percorso che compie l’Innominato dalla vita sanguinaria alla carità

verso chi ha bisogno. Manzoni lo introduce nel romanzo come un «uomo terribile» che, secondo

le testimonianze del Ripamonti, «teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la

sovranità». Fra le sue «principali passioni» Manzoni ne cita una che ci interessa in modo

particolare: «fare ciò che era vietato dalle leggi, o impedito da una forza comune» e poi aggiunge:

Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d’invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi n’andava in cerca, d’aver che dire co’ più famosi di quella professione, d’attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua amicizia. […] ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, […] molti ne ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati […]. Nel fatto però, veniva anche lui ad essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere ne’ loro impegni l’opera d’un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato […] mancare al suo assunto.

(PS, XIX)

L’Innominato è prima di tutto un uomo che ama contrapporsi alla legge e fare per principio

quello che la legge o «una forza comune» vieta: al divieto dunque reagisce con la sfida, si pone di

fronte alla legge per entrare nell’ambito che la legge dichiara proibito. Inoltre è invidioso degli

altri potenti della sua stessa città, e questa invidia lo porta a sfidare anche loro per ridurli poi a

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nemici o ad amici. Amici che non sono mai alla pari, ma subordinati, perché anche il dominio

rientra fra le sue passioni. Infine Manzoni precisa che, nonostante, o forse a causa di quest’ansia

di dominio sui propri amici e nemici, l’Innominato finisce per asservirsi a loro, per diventare loro

strumento: nel momento in cui avesse negato un aiuto (e lasciato invendicato un torto) egli

avrebbe infatti perso la propria reputazione. Il primo ritratto che abbiamo dell’Innominato ci

spinge a riconoscere in lui i segni della logica dei correlativi: il segno più evidente è l’invidia, che,

ci ricorda Girard, deriva dall’imitazione del desiderio e si colloca già nella logica della

correlazione. L’innominato desidera il potere degli altri nobili suoi concittadini, questi ultimi

sentono crescere il desiderio di mantenere questo potere proprio in virtù dell’invidia di lui, e così

fino all’esplodere della contesa: Manzoni ci dice che nella maggior parte dei casi ha la meglio lui,

ma racconta anche che «tante ne fece che […] dovette […] uscir dallo stato». La sua esistenza,

sembra di capire, si conduce fra attacchi, difese, vendette, creazione di rapporti dai quali poi è

difficile uscire: quando compare nel romanzo, quindi, l’Innominato è immerso nella logica della

correlazione simmetrica. Vuole quello che possiedono gli altri, per ottenerlo usa la violenza, ama

comandare, ma per mantenere la propria signoria deve di fatto subordinarsi ai propri subordinati.

In questi atteggiamenti ritroviamo in parte la dinamica del mimetismo di cui parla Girard, il gusto

per il dominio che abbiamo dovuto attribuire anche ad Armida e la tendenza all’opposizione

frontale, caratteristica della logica correlativa. Dal racconto di Manzoni appare chiaro che, una

volta invischiato in una serie di relazioni, l’Innominato, anche se potente, non se ne può più

liberare, ne diventa prigioniero, come Rinaldo negli incanti di Armida. A tal punto che, se

Rinaldo quasi si identifica con la maga, guardando, insieme, lei e se stesso nei suoi occhi,

l’Innominato quasi si identifica con i suoi amici e nemici, non potendosi liberare né degli uni, né

degli altri e servendoli entrambi con un legame a doppio filo.

Il primo indizio del fatto che sta avvenendo un cambiamento nelle abitudini

dell’Innominato ci è offerto proprio dall’incrinarsi dei rapporti con i suoi ‘amici’: una volta data la

parola a don Rodrigo, infatti, il terribile signore prova una sensazione per lui nuova: «Ma appena

rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indispettito d’averla data. Già da qualche tempo

cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze», scelleratezze che,

se in gioventù non gli pesavano, al momento dell’accordo con don Rodrigo costituiscono «il

crescere di un peso già incomodo». Manzoni racconta che è il pensiero della vecchiaia, del tempo

che rimane da vivere a fargli sentire tutto il peso dei delitti commessi in passato:

Ma in que’ primi tempi, l’immagine d’un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d’una vitalità vigorosa, riempivano l’animo d’una fiducia spensierata: ora all’opposto, i pensieri dell’avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato. - Invecchiare! Morire! E poi? – E, cosa notabile! l’immagine della morte, che, in un pericolo vicino, […] soleva raddoppiar gli spiriti di quell’uomo […], quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una

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costernazione repentina. (PS, XX)

Il pensiero di invecchiare e di avere dunque ancora poco tempo davanti a sé provoca in lui un

mutamento di prospettiva nel modo di concepire sia la vita, sia la morte: se in passato l’esistenza

gli si era profilata come una trionfale collezione di delitti, ora ha perso di senso («e poi?»); l’idea

della morte, che prima gli raddoppiava il vigore, ora lo abbatte, perché gli si presenta associata al

giudizio di Dio.

Quando lo vediamo entrare in azione, dunque, l’Innominato è già diverso dal personaggio

che l’autore ha appena finito di introdurre raccontandone la storia attraverso le inclinazioni del

carattere: lo vediamo già attraversato dal dubbio, dalla preoccupazione; sta già, in qualche modo,

avviandosi verso un capovolgimento di prospettiva, una nuova visione della vita, alla quale, però,

inizialmente, cerca di opporre tutta la propria resistenza. Prova fastidio all’idea di mettere le mani

addosso a Lucia e vuole spedirla direttamente a don Rodrigo, ma ubbidisce poi all’imperioso no

della coscienza che gli suggerisce – pare di intuire - la possibilità di dare un finale inatteso alla

vicenda della giovane vittima. Nonostante cerchi di non pensare a questa prigioniera che ha fatto

compassione al Nibbio, alla fine non resiste al desiderio di vederla, salvo poi stizzirsi quando

Lucia chiama in causa Dio come salvezza dalle sue tribolazioni. E, dopo averla vista, continua per

un buon lasso di tempo a ripensare alle sue parole e a tentare di coprirle con il ricordo di vecchie

imprese scellerate. Ma l’atteggiamento di Lucia lo manda in crisi: se prima «cominciava a sentire

una cert’uggia delle sue scelleratezze», dopo l’incontro con la giovane l’Innominato si sente un

tutt’uno con esse («eran tutte sue, eran lui») e non riesce a dimenticare quella frase: «Dio perdona

tante cose per un’opera di misericordia».

Il percorso di mutamento dell’Innominato è già avviato quando la sua storia si intreccia

con quella dei protagonisti del romanzo: la Grazia ha dunque già cominciato ad agire, come

succede a Clorinda che ha alle spalle una lunga – e a lei sconosciuta – storia di fede; come

succede a Dante che, prima di sapere dell’aiuto delle tre donne benedette, riconosce da sé che «la

diritta via era smarrita», pur non sapendo come fare a ritrovarla.31 L’Innominato è già sulla strada

che lo porta a mutare vita, come ci mostra il mutare dei suoi desideri («ciò che altre volte

stimolava più fortemente i suoi desideri, ora non aveva più nulla di desiderabile»), ma sarà Lucia

lo strumento che la Grazia impiegherà per portare a compimento il cammino, Lucia che con la

sua presenza e le sue parole lo conduce a mettere in discussione la promessa fatta a don Rodrigo

e, con essa, l’uomo vecchio che l’aveva pronunciata:

31 Anche in questi casi viene confermata la posizione di San Tommaso: è impossibile rivolgersi a Dio se non è Dio stesso a prendere l’iniziativa.

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Pensando all’imprese avviate e non finite, invece d’animarsi al compimento, invece d’irritarsi degli ostacoli […] sentiva una tristezza, quasi uno spavento dei passi già fatti. Il tempo gli s’affacciò davanti vuoto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere […]. E se volle trovare un’occupazione per l’indomani […] dovette pensare che all’indomani poteva lasciare in libertà quella poverina. – La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei e le dirò: andate, andate […] E la promessa? E l’impegno? E don Rodrigo?... Chi è don Rodrigo? (PS, XXI)

E’ con questa domanda che l’Innominato comincia a chiedersi come abbia potuto promettere

quel servizio, e qui Manzoni precisa che a farsi la domanda è «questo nuovo lui cresciuto a

giudicare l’antico»: per la prima volta, infatti, dopo l’uggia iniziale che era diventata già tristezza e

spavento delle passate imprese, l’Innominato comprende di aver agito «per un movimento

istantaneo dell’animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti

antecedenti», e questa scoperta lo guida «indietro, indietro» in un esame di tutto il suo passato.

Ritroviamo in questi luoghi il topos dell’esame di coscienza che abbiamo trovato sia nel cammino

purgatoriale di Dante, sia, più concisamente, nell’avventura di Rinaldo. A questo esame seguirà

una maggiore presa di coscienza della propria condizione e una confessione che l’Innominato

pronuncerà davanti al Cardinal Federigo, che ricopre un ruolo analogo a quello di Beatrice e di

Pietro l’Eremita.

Dopo una prolungata lotta con l’io antico che tenta di riprendere il sopravvento,

l’Innominato decide di andare a parlare col Cardinale, ma non senza vergogna, non senza stizza:

Manzoni ci descrive il suo stato d’animo come contraddittorio sino all’ultimo. Nonostante

l’angoscia provata durante la famosa notte, l’ammissione delle colpe non è immediata, non è

senza tentazioni di tornare indietro, non è, per così dire, così pacifica come l’abbiamo trovata

nell’esperienza di Rinaldo.32 Racconta Manzoni:

L’innominato, ch’era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa. (PS, XXIII) Non è dunque del tutto chiara in lui la necessità della confessione: l’uomo antico sta ancora

lottando con quello nuovo per non essere giudicato. Il tempo compreso fra il rapimento di Lucia

e il dialogo col Cardinale sembra quindi coincidere per l’Innominato con quello dell’esame di

coscienza, un esame di coscienza che si sviluppa nella forma del duello fra il vecchio io, che tenta

di rimanere ancorato senza rimpianti alla solita vita, e l’io nuovo – forse ancora più antico 32 Non possiamo dimenticare con quanta facilità Rinaldo venga convinto prima dalla propria immagine, poi dalla genealogia, poi dall’Eremita a compiere tutta quella serie di azioni che lo portano fuori dalla «torta confusione» del labirinto. Non troviamo in lui né resistenza, né travaglio interiore: la sua coscienza viene – direi – ingenuamente rappresentata come uno specchio che, ricevuta l’illuminazione, la riflette automaticamente a propria volta.

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dell’altro, perché legato agli insegnamenti ricevuti durante l’infanzia - che gli si contrappone in

atteggiamento di giudice.33 Sergio Zatti, in un saggio dedicato alla presenza del Tasso nell’opera di

Manzoni, mette in relazione questa psicomachia interiore del singolo personaggio romanzesco

con il duello del poema epico, del quale la psicomachia non sarebbe altro che la forma nuova:

Proprio il motivo della conversione fornisce lo spunto per segnalare altre possibili sopravvivenze e trasformazioni di modelli arcaici, dove risulta talora operante la mediazione tassiana, ma che in generale risalgono a più remoti paradigmi […] di cui anche Tasso è interprete. […] L’istanza conflittuale che oppone all’interno della coscienza dell’Innominato un uomo antico e un uomo nuovo attualizza le forme allegoriche di una “psicomachia”. […] La psicomachia non è che il simulacro di un duello, ovvero di quella forma dualistica di conflitto celebrata dalla letteratura epica e cavalleresca e ripresa in qualche luogo del romanzo secondo intenti e modalità specifiche. […]. Nei Promessi Sposi il duello ottiene singolari trasformazioni di modi e di esiti, sempre conservando tuttavia il suo carattere di strumento occasionale di conversione.34

Prendendo in esame per ora solamente le prime fasi di questa psicomachia vediamo come il

duello fra i due io che si manifestano nell’Innominato trovi, come già in altri casi esaminati, il

proprio corrispettivo formale nella sintassi costruita dall’autore. Anche in questo caso, come in

quelli dei duelli fra pagani e cristiani e del duello fra Lodovico e il nobile, la figura retorica su cui

si costruisce l’intero edificio è quella dell’antitesi: l’unica differenza è che, se nei casi già esaminati

abbiamo rilevato il crearsi della logica dei correlativi simmetrici fra due individui opposti e ben

distinti fra loro, nel caso dell’Innominato le due parti opposte sono due facce dello stesso intero,

del medesimo individuo. Questa differenza, però, è importante: è in essa che dobbiamo ricercare

la nuova forma che il duello assume quando diventa psicomachia: i due io, infatti, non possono

essere considerati alla stregua di due cavalieri duellanti, in quanto il loro rapporto, lungi dall’essere

paritario, è già in partenza sbilanciato verso l’io nuovo. L’esito del conflitto è dunque praticamente

deciso fin dal momento in cui l’io nuovo sorge a giudicare l’antico: il primo avrà il sopravvento

sul secondo, diversamente da quanto accade nei duelli ‘tradizionali’ che si chiudono con la

sconfitta di entrambi i contendenti (sconfitta che va intesa in senso lato e a seconda della

situazione, ma basti pensare a Tancredi e Clorinda, Tancredi e Argante, Lodovico e il nobile). E’

sant’Agostino a chiarire una volta per tutte la soluzione dell’apparente dissidio fra due volontà

che appartengono al medesimo individuo: la volontà è una sola, e uno solo è l’io che vuole o non

vuole (che è diverso dal dire vuole e non vuole!). Spiega Roberta De Monticelli:

33 Anche Dante sia nel primo canto dell’Inferno, sia ripetutamente lungo tutta la prima cantica, ha la tentazione di tornare indietro, di rinunciare al rinnovamento della propria vita. Il motivo è sempre la paura, che comprende, da un lato, la poca fiducia nella guida e, dall’altro, l’implicito eccessivo affidamento alle sole capacità umane. In questi casi assistiamo ad una specie di duello fra Dante e Virgilio, ma possiamo ammettere che proprio attraverso Virgilio il Dante poeta giudica il Dante pellegrino, quindi è come se il duello si consumasse dentro il medesimo individuo. 34 SERGIO ZATTI, I Promessi sposi e il modello epico tassiano, in ID., L’ombra del Tasso, Milano, Bruno Mondadori, 1996, pp. 231-292: 287, 289, 290.

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Il punto forte della teoria agostiniana è allora precisamente la tesi che il conflitto della volontà non spezza la volontà in due parti, non produce due volontà: ma sussiste, semplicemente, quando ciò che effettivamente vogliamo e facciamo non lo vogliamo con tutta la nostra persona. La volontà efficace può essere una volontà parziale.35

Se fino al rapimento di Lucia l’Innominato provava solo uggia delle proprie violenze, dopo aver

ascoltato il resoconto del Nibbio ed aver parlato con la ragazza, è la sua volontà efficace a

prendere finalmente il sopravvento su quella puramente virtuale e a condurlo a fare ciò che ha

deciso. Il duello interiore è solo apparente, dunque, perché i due contendenti sono in realtà uno

solo: tuttavia è importante riprendere la conclusione del discorso di Zatti, secondo cui «Nei

Promessi Sposi il duello ottiene singolari trasformazioni di modi e di esiti, sempre conservando

tuttavia il suo carattere di strumento occasionale di conversione».36 Anche quando non siamo di

fronte ad una lotta fra due nemici, dunque, possiamo trovarci nel mezzo di uno scontro fra due

aspetti della volontà di un singolo: anche questo tipo di combattimento ha a che vedere con la

dinamica del duello vero e proprio. Se l’esito del duello mortale fra Lodovico e il nobile è la

conversione di Lodovico in seguito all’esperienza di sentimenti nuovi dentro di sé e della

maturazione di alcune prese di posizione più vecchie, l’esito del conflitto fra volontà efficace e

volontà virtuale nell’Innominato corrisponde – per usare sempre un termine agostiniano - alla

formatio di questa stessa volontà nei termini di volontà efficace rivolta al bene. E’ in questo senso

che possiamo accettare l’osservazione di Zatti sul fatto che, nel romanzo, il duello è strumento di

conversione.

Tenendo presente queste differenze, rileggiamo per intero il travaglio interiore

dell’Innominato, travaglio che, per il lettore, comincia dopo il congedo di don Rodrigo con la

promessa di risolvere al più presto il caso di Lucia, anzi più precisamente, comincia già mentre

don Rodrigo sta illustrando i termini del problema:

Don Rodrigo, sapendo con chi parlava, si mise poi a esagerare le difficoltà dell’impresa; la distanza del luogo, un monastero, la signora!... A questo, l’Innominato, come se un demonio nascosto nel suo cuore gliel’avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che prendeva l’impresa sopra di sé. […] Ma appena rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indispettito d’averla data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all’animo brutte e troppe. […] Una certa ripugnanza provata ne’ primi delitti […] tornava ora a farsi sentire. Ma in que’ primi tempi, l’immagine d’un avvenire lungo […] riempiva l’animo di una fiducia spensierata: ora, all’opposto, i pensieri dell’avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato […]. L’immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d’un nemico, soleva […] infondergli un’ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina. […] e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava. Ne’ primi tempi, gli esempi così frequenti […] della violenza […], ispirandogli un’emulazione feroce, gli avevano anche servito come d’una

35 ROBERTA DE MONTICELLI, L’allegria della mente. Dialogando con Agostino, Milano, Paravia-Bruno Mondadori, 2004, p. 143. 36 ZATTI, I Promessi sposi cit., p. 290.

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specie d’autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto nell’animo, l’idea confusa, ma terribile, d’un giudizio individuale, d’una ragione indipendente dall’esempio. […] Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere […], ora […] gli pareva di sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però. […] Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con l’apparenze d’una più cupa ferocia; e con questo mezzo cercava anche di nasconderla a sé stesso, o di soffogarla. […] Faceva ogni sforzo per […] riafferrare quell’antica volontà, pronta, superba, imperturbata per convincer se stesso ch’era ancor quello. Così in quest’occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo, per chiudersi l’adito a ogni esitazione. Ma appena partito costui, sentendo scemare quella fermezza che s’era comandata […], sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola […]; per troncare ad un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio... (PS, XX)

Numerosi e disposti su diversi livelli sono i contrasti che ritroviamo in questa pagina dalla sintassi

complessa e ipotattica che mima in un certo senso ‘l’andare e venire’ del pensiero

dell’Innominato. Quando comincia a delinearne il paesaggio interiore, l’autore procede attraverso

la figura retorica della correctio, che consiste nella sostituzione di un’espressione con un’altra che

appare più adeguata e che solitamente è antitetica a quella sostituita o ne mostra un aspetto che

non appare immediatamente.37 La spia formale di questa figura è costituita dal ricorrere dei vari

«non tanto», «ma almeno» che, in questo caso specifico, se non sostituiscono completamente un

concetto con il suo opposto, servono a chiarire progressivamente, per via di approssimazione, lo

stato d’animo dell’Innominato: il personaggio non è pentito, ma almeno indispettito; prova, se

non rimorso, almeno uggia delle sue scelleratezze; se per lui non si può parlare di coscienza, si

può parlare almeno di memoria. L’andirivieni del pensiero dell’Innominato si colloca, prima di

tutto, fra il passato e il presente: il lettore lo coglie immediatamente attraverso l’insistente

ripetizione della coppia di opposti «ne’ primi tempi»-«ora», ripresa, con alcune varianti che non ne

intaccano il significato, per cinque volte, in un crescendo della profondità dello scavo interiore.

Manzoni comincia con il contrapporre la ripugnanza e la spavalderia nel compiere i delitti; poi

contrappone gli effetti che seguono al pensiero dell’avvenire: un tempo esso dava speranza, ora

rende noioso il passato; in seguito confronta gli effetti del pensiero della morte; poi gli esempi

passati della violenza e le esigenze presenti della coscienza; infine arriva al pensiero più profondo,

a Dio, dapprima ignorato e ora sentito come ‘caparbiamente’ – se così si può dire – presente in

lui. La prima antitesi è dunque quella fra passato e presente: c’è un uomo nuovo che sta

prendendo forma e si sta a poco a poco scindendo da quello vecchio. L’Innominato ne prende

coscienza esaminando gli effetti che i propri pensieri hanno su di lui. E si va dal ricordo dei delitti

all’immagine più alta, quella di Dio. Dobbiamo sottolineare che la contrapposizione fra i

sentimenti che nascono come effetto dei pensieri è a propria volta ulteriormente segnalata

dall’autore: non c’è solo differenza fra il «prima» e l’«ora»: quando l’Innominato proietta la sua

mente nel futuro, Manzoni contrappone la «fiducia spensierata» di un tempo alla noia che il 37 Si veda HEINRICH LAUSBERG, Elementi di retorica, traduzione e cura di LEA RITTER SANTINI, Bologna, Il mulino, 1969, § 384, pp. 206-208.

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personaggio prova ora nel ripensare al passato; quando viene presentata l’immagine della morte,

possiamo riscontrare nel testo un perfetto parallelismo ritmico fra due periodi segnati da una

forte antitesi a livello di contenuto:

L’immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d’un nemico, soleva […] infondergli un’ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina.

In questo periodo troviamo contemporaneamente un parallelismo - «in un pericolo vicino, a

fronte d’un nemico» e «nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello» delineano i luoghi

dove si manifesta l’immagine della morte -; tre contrapposizioni («pericolo vicino»/«sicurezza del

castello»; «a fronte d’un nemico»/«nel silenzio della notte»; «coraggio»/«costernazione repentina»)

e una struttura a chiasmo che interessa le due proposizioni costruite in parallelo: «in un pericolo

vicino, a fronte d’un nemico» è infatti simmetrica, sempre sul piano dei contenuti, a «nel silenzio

della notte, nella sicurezza del suo castello». Gli emistichi estremi veicolano l’idea di

pericolo/assenza di pericolo; quelli centrali l’idea di presenza/assenza di persone.

All’interno della macrostruttura che oppone tempo passato e tempo presente, Manzoni

accosta termini uguali e contrari per mettere in evidenza il rovesciamento di prospettiva di cui fa

esperienza il personaggio: «Ne’ primi tempi» l’Innominato aveva avuto davanti a sé numerosi

«esempi» di violenza, che gli erano serviti anche per tacitare la propria coscienza; «ora», ai tempi

dell’accordo con don Rodrigo, gli sorge l’idea confusa «d’un giudizio individuale, d’una ragione

indipendente dall’esempio», dove il concetto di esemplarità viene cambiato di segno nelle poche

righe che separano apertura e chiusura del periodo: all’inizio si tratta di esempi di violenza che

generano feroce emulazione; alla fine si parla di una ragione che nulla ha più a che vedere con

l’esempio. Da ultimo, emerge dal passato la voce di un Dio dimenticato ma non sconfitto, che,

nonostante l’indifferenza dell’Innominato, dice: «Io sono però», con quel «però» conclusivo che si

colloca come all’apice di un crescendo di avversative tutte tese ad evidenziare i ripensamenti

dell’animo del personaggio, a rimettere in discussione quelle che fino a quel momento erano state

le sue (presunte) certezze. Il brano si apre appunto con un «ma»,38 ripetuto quasi ad ogni periodo:

«Ma appena rimase solo...»; «non pentito, ma indispettito»; «Ma in que’ primi tempi»; «Quel Dio

di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere»; «Io

sono però». […] Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi

profondamente»; «Ma appena partito costui...». A proposito della sintassi di questo brano, Marino

Boaglio parla di un «periodare continuamente corretto, aggiustato, segnato dalle forme

avversative», attraverso cui Manzoni segue il suo personaggio «nel suo andirivieni, con una serie

38 Come anche l’ottava in cui Tasso racconta la conversione e morte di Clorinda.

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di variazioni stilistiche»,39 che «non prima affermano le realtà spirituali, e subito le attenuano o

negano; lasciando intravedere in tal modo […] la crisi in atto nell’uomo».40 La «cifra dominante»

in questo, per così dire, monologo in terza persona, sarebbe allora quella «della divergenza e del

contrasto», uno stile che, «mentre fornisce un dato, lo contesta subito col suo doppio».41

Si delinea in questo modo il sorgere, nell’Innominato, di due io, che, pur non ancora ben

delineati, sono già in lotta fra loro e che assumono via via una sempre più chiara autonomia a

partire da quel «no imperioso» che risuona nella sua mente all’idea di mandare Lucia direttamente

da don Rodrigo, al «uno non è più uomo» pronunciato in merito alla compassione, al secondo «no

interno più imperioso del primo» che gli impedisce di mandare il Nibbio a dar notizia a don

Rodrigo dell’avvenuto rapimento, al «Voglio vederla...Eh! no...Sì, voglio vederla», ai tormentati

«Io?...Io non son più uomo, io? […] che c’è di nuovo?» e «io domandar perdono? a una donna?

io...?», fino a quel «nuovo lui che, cresciuto terribilmente ad un tratto, sorge come a giudicare

l’antico» con tutte le sue scelleratezze (che «Eran tutte sue, eran lui»), i suoi cattivi desideri che ora

vengono meno e le sue passioni, che non vogliono più «andare avanti», «come un cavallo

divenuto tutt’a un tratto restio per un’ombra».42 Due io, dunque, che nascono dal travaglio

dell’interrogazione che mette in dubbio l’antico io degli anni della maturità. Due io che

sopravvivono e lottano anche poco prima che l’Innominato si presenti al Cardinale e la cui

dialettica si stempera dopo la risoluzione – molto pratica, e per questo molto efficace – di

cominciare subito a cambiare vita liberando Lucia. Come si affretta a dare la sua parola a don

Rodrigo per evitare la tentazione di non dargliela, così, ma in direzione opposta, l’Innominato si

affretta a realizzare il consiglio di Federigo, forse per evitare la tentazione di rimandare ancora

l’inizio della nuova vita.43

39 MARINO BOAGLIO, Manzoni: il romanzo dell’Innominato come modello di conversione, in «Critica letteraria», 2000 (2) pp. 263-295: 272. 40 EURIALO DE MICHELIS, La vergine e il drago, Padova, Marsilio, 1968, p. 183, citato dallo stesso Boaglio. 41 BOAGLIO, Manzoni, cit., p. 274. Per la legge del contrasto si veda anche BARBERI SQUAROTTI, Teorie e prove dello stile del Manzoni, Milano, Silva, 1965. 42 Si noti come in questo caso Manzoni impieghi una similitudine già dantesca per rovesciarne il significato: Virgilio, infatti, rivolgendosi ad un Dante ancora incerto sulla possibilità e necessità del viaggio, lo rimprovera: «S’i’ ho ben la tua parola intesa […] l’anima tua è da viltade offesa; / la qual molte fiate l’omo ingombra / sì che d’onorata impresa lo rivolve, come falso veder bestia quand’ombra» (If, II, 43-48, corsivo mio). Nel caso di Dante la similitudine ha, per così dire, valore negativo: l’anima paurosa del pellegrino è paragonata ad un animale che retrocede per paura di qualcosa che in realtà non c’è, ma è solo il frutto del venir meno della luce (almeno nell’interpretazione di alcuni critici). Nel caso dell’Innominato sono le passioni di un tempo che recalcitrano come cavallo restio per un’ombra: spostando il termine di paragone dallanima dell’uomo alla sua passione, Manzoni cambia di segno alla similitudine e le attribuisce – nel contesto - un significato positivo. L’effetto per il lettore è straniante: la memoria che corre al Dante infernale, pellegrino che ha la forte tentazione di voltarsi indietro, lo deve accostare qui all’Innominato in cui è la ‘parte’ negativa ad autocensurarsi. In ogni caso è importante sottolineare il richiamo – non credo casuale – alla similitudine dantesca: Manzoni forse sta collocando il suo personaggio sulla medesima strada di conversione percorsa da Dante nel suo viaggio. 43 Manzoni annota nelle Osservazioni sulla morale cattolica che «L’uomo che trasgredisce i comandamenti di Dio, gli diviene nemico, e si rende ingiusto. Ma quando riconosce i suoi falli, ne è dolente, li detesta e, ciò che viene di conseguenza, propone di non commetterne più; quando propone di ritornare a Dio per que’ mezzi che, nella sua misericordia, Dio ha istituiti a ciò; quando propone di soddisfare alla giustizia divina, di rimediare, per quanto può, al mal fatto, allora non è più, per dir così, lo stesso uomo, non è più ingiusto» (VIII, 14, c.vi miei).

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Abbiamo già osservato come anche nel caso di Lodovico il duello sia occasione di

conversione: se là si trattava di un duello vero e proprio, rispondente alla medesima logica che

ritroviamo in quelli della Gerusalemme liberata, sappiamo che, anche dopo aver rivestito il saio, in

padre Cristoforo si manifestano i segni di una lotta interiore,44 dei quali il duello di gioventù forse

non era altro che una figura. Con l’Innominato ci troviamo immediatamente di fronte al

combattimento interiore che si manifesta attraverso quei no imperiosi della sua coscienza, divieti

che vanno nella direzione opposta rispetto al suo abituale modo di agire, e in quel suo continuo

ripensare alla vita precedente, nel tentativo di sopprimere il desiderio di cambiamento. Le parole

di Lucia costituiscono per lui una cesura fra la vita di prima e l’ipotesi di una nuova vita;

l’incontro col Cardinale fa, per così dire, precipitare la situazione, accelerando il processo per cui

l’ipotesi si vede subito concretizzata in una decisione che cambia la vita dell’Innominato e la

situazione di Lucia, con tutte le conseguenze che ne derivano. Come Pietro ricorda a Rinaldo la

necessità della sua presenza al campo, come Beatrice ricorda a Dante le buone qualità che ha

guastato, così Federigo spiega all’Innominato tutto il bene che può fare Dio servendosi di lui, una

volta che anche lui voglia volgere al bene le sue risorse. Quando il Cardinale tace, finalmente

l’Innominato si scioglie in lacrime:

i suoi occhi, che dall’infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l’ultima e più chiara risposta. (PS, XXIII) Lacrime che si accostano facilmente a quelle di Dante e che corrispondono ad una maggiore

comprensione di sé, alla presa di coscienza delle proprie colpe: dopo aver pianto, infatti,

l’Innominato parla di una consolazione mai provata in tutta la vita. Nell’incontro tra l’Innominato

e il Cardinale non possiamo non riconoscere l’eco delle parole del Salmo 50 (51), ma anche il topos

già incontrato del ‘faccia a faccia’, per così dire, con se stessi: per Dante e Rinaldo il

riconoscimento della colpa è suggellato dal fenomeno della riflessione, rispettivamente nell’acqua

e nello scudo, che restituisce al peccatore la propria immagine, con quanto di simbolico il

Con quella sorta di ‘confessione’ davanti al Cardinale, l’Innominato riconosce i suoi errori (e cita il Salmo L!) e comincia la sua strada del ritorno verso Dio attraverso quei mezzi che Dio ha istituito; con la decisione di liberare Lucia soddisfa alla giustizia divina riparando, per quanto è possibile, il male compiuto: giusta la Morale cattolica l’Innominato ha le carte in regola perché in lui si riconosca il passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo. E’ da notare che la trasformazione si lega all’esercizio della giustizia, uno dei fili rossi fondamentali del romanzo, che riguarderà molto da vicino anche la conversione di Renzo, come vedremo. 44 «Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso». E ancora: «Tutto il suo contegno, come l’aspetto, annunziava una lunga guerra, tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all’erta e diretta da motivi e ispirazioni superiori.» (PS, IV).

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fenomeno porta con sé; per l’Innominato è il Cardinale a fungere, per contrario, da specchio e a

disarmare il suo interlocutore con l’accoglienza misericordiosa che gli riserva.

E’ nel sentirsi accolto con misericordia che l’Innominato stempera quanto in lui era

rimasto dell’antico orgoglio e della vecchia stizza e si sente mosso a chiedere a propria volta

perdono a Lucia. Il perdono ricevuto e la misericordia di cui è richiesto da parte di lei sono il

motore che lo spinge all’azione. Il perdono è quindi, ancora una volta, il discrimine passando per

il quale il protagonista rompe con la vita precedente e abbandona la strada percorsa fino a quel

momento. Se riandiamo ai significati della parola «conversione» illustrati in apertura di questo

lavoro, possiamo notare che, prima di tutto, questa dell’Innominato è un’epistrofé, cioè un ritorno

dalla strada sbagliata a quella giusta, che – par di capire – gli era stata additata almeno ai tempi

dell’infanzia.45 Solo in un secondo momento la sua esperienza diventa anche metanoia perché si

arricchisce dell’elemento della penitenza che lo conduce ad un cambiamento di mentalità,

tangibile e radicale, rispetto alla logica della violenza, che più di tutto aveva caratterizzato la sua

vita precedente.46 Il primo movimento che l’Innominato deve compiere, infatti, è quello di «girare

i passi», come fa Rinaldo, dalla già dantesca «via non vera» verso la «retta via»; il successivo –

raccontato nei particolari più curiosi nel Fermo e Lucia – sarà quello di restare fedele a questo

cambiamento di direzione ed estenderlo a tutti gli aspetti della propria vita attraverso la

riparazione del male compiuto e il compimento di ulteriore bene. Il Conte, infatti, resta tale, resta

nobile e continua ad abitare nel suo castello, ma cambia dall’interno il modo di stare nella propria

condizione: è il rovesciamento della prospettiva interiore – segnato esteriormente prima di tutto

dal definitivo abbandono delle armi47 – a consentirgli di mettere i propri mezzi a servizio di chi

cerca protezione dalle invasioni dei soldati stranieri. A proposito dell’esperienza di conversione

dell’Innominato, Girardi osserva come essa assomigli a quella dell’autore Manzoni (e, a ben

guardare, anche a quella di Dante, e se non del Dante autore, almeno del Dante poeta

rappresentato nella Commedia):

45 A un passo dal suicidio, infatti, gli viene in mente «quell’altra vita di cui gli hanno parlato quand’era ragazzo, di cui parlano sempre» (cap. XXI) e, per chiudere la giornata segnata dall’incontro col Cardinale e dalla liberazione di Lucia, si inginocchia vicino al letto «con l’intenzione di pregare. Trovò infatti in un cantuccio riposto e profondo della mente, le preghiere ch’era stato ammaestrato a recitar da bambino; cominciò a recitarle; e quelle parole, rimaste lì tanto tempo ravvolte insieme, venivano l’una dopo l’altra come sgomitolandosi». (PS, XXIV) 46 Ritroviamo nella Morale Cattolica entrambi gli aspetti, quello del ritorno a Dio dopo aver abbandonato a via del male (epistrofé) e quello dei modi con cui si ritorna a Dio (la contrizione e la riparazione, compimento della metanoia). 47 In questo abbandono delle armi Carlo Annoni individua «la via d’uscita attiva dal “vangelo di superbia e d’odio del mondo”»: secondo il critico Manzoni traccia, attraverso l’esperienza dell’Innominato, «una parabola memorabile […] che il narratore riassume conclusivamente mediante l’insistita visibilità del passaggio dell’uomo dallo status di eroe armato alla dimensione di santo inerme, secondo un iter di spoliazione e di rivestimento empirico che riflette quello dell’uomo interiore» (La citazione è tratta dall’Introduzione all’Adelchi curata da CARLO ANNONI, ancora in corso di stampa. Ringrazio vivamente l’autore che, con grande disponibilità, mi ha permesso di prendere visione delle bozze e di trarne spunto per questo lavoro).

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Quella dell’Innominato […] è la storia di un «superuomo». Il cui caso si presenta, nel cap. XIX, come un caso di individualismo spinto e di inadattabilità sociale affine a quello del padre Cristoforo; che si risolve però in un modo del tutto opposto. […] La sua conversione [di padre Cristoforo] si definisce quindi essenzialmente come fatto interiore e finalizzato alla vita religiosa. Per l’Innominato […] la conversione si configura piuttosto come rettifica di un errore nel modo di impiegare un dono che lo ha fatto umanamente grande, elevandolo al di sopra del pensare e del sentire comune. Conversione, dunque, che un po’ riflette quella stessa del suo creatore...48

Si vede, infatti, nella seconda parte del romanzo, che l’Innominato non cambia stato di vita – cosa

che invece caratterizza la conversione di Lodovico – ma ri-orienta lo stato precedente. Questa era

stata anche l’indicazione del Cardinale, che riconosce in lui una «volontà impetuosa» e una

«imperturbata costanza» che devono essere mantenute, ma cambiate di direzione, dal servizio al

male al servizio al bene. Non è molto diversa l’esperienza che Dante ci consegna attraverso la

Commedia: se rileggiamo i versi del suo incontro con Beatrice nel Paradiso terrestre, ricordiamo

che a lui viene rimproverato di esser caduto in giuso e di aver volto i passi per via non vera,

quando, alla morte di Beatrice, si è dedicato a «le presenti cose» (Pg XXXI, 34). Il fatto che egli

scriva poi la Commedia è segno del suo impegno a riorientare le proprie capacità di poeta dalla

poesia d’amore cortese e poi stilnovista, ad una poesia che parli dell’amore nei confronti di Dio.

Anche per l’Innominato la conversione comporta quindi un cambiamento di prospettiva

che lo porta a reinterpretare le proprie capacità e risorse per volgerle al bene, una novità rispetto

al passato che coincide con la rinuncia alla violenza, e, di conseguenza, la rottura con la logica dei

correlativi simmetrici in cui lo abbiamo visto invischiato dalla giovinezza fino a pochi istanti

prima di parlare con Federigo. Per i suoi costumi, che Manzoni illustra prima di farlo entrare

concretamente in azione, l’Innominato risponde, dapprima senza incrinature, ai caratteri del

mimetico, che si lega a doppio filo col proprio avversario imitandone il desiderio. In seguito,

dopo le prime ‘ugge’ lo vediamo ancora duellante, stavolta contro se stesso, ma sempre fedele alla

legge dell’azione/reazione: dopo il dialogo con don Rodrigo ad ogni buona ispirazione ne

risponde sempre una cattiva, alla quale se ne oppone un’altra buona che lui tenta di scacciare, e

così via, fino alla risoluzione di liberare Lucia, decisione che, invece di rispondere al bene col

male, trasforma il male in bene e risponde al bene (le promesse di preghiera fatte da Lucia) col

bene. A far rompere la catena delle correlazioni è la misericordia promessa per bocca di Lucia:

«Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia» è infatti la frase che riecheggia

maggiormente nei pensieri dell’Innominato e che lo turba perché così lontana dalla logica con cui

egli ha sempre condotto la propria vita e capace di suscitare in lui desideri che gli sono del tutto

nuovi.

48 GIRARDI, Struttura e personaggi...cit., p. 119.

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