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ISABELLA MORRA: VICENDE BIOGRAFICHE L’occasione di conoscere meglio e approfondire questa grande e poco conosciuta poetessa del ‘500 mi fu offerta nel 1996 dalla partecipazione ad un Convegno di studi a celebrazione del gemellaggio di Valsinni, l’antica Favale, con Recanati, alla presenza del Direttore del Centro Nazionale di studi leopardiani, il prof. Franco Foschi e di autorevoli studiosi come il prof. Giovanni Caserta. Affascinata dal personaggio, decisi di inserirne lo studio nella programmazione didattica della IV classe dell’ITIS dove insegnavo, motivando le ragioni di questa scelta in un articolo del periodico dell’Istituto che voglio qui riportare: “Arroccata su un costone roccioso, sulla strada che segue il corso del Sinni, a pochi chilometri dalla costa del Metapontino, sorge Valsinni, l’antica Favale, un paesino come tanti della nostra Basilicata che conta 3000 anime e che conserva ancora, pur con qualche modifica architettonica, il castello medioevale di Isabella Morra, certamente più nota per la sua tragica vicenda umana di amore e di morte che per i suoi meriti poetici. Il turista curioso che si inerpica per le vie che portano al Castello e trova sul suo percorso il Municipio, non può non fermare la sua attenzione - 1 -

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ISABELLA MORRA: VICENDE BIOGRAFICHE

L’occasione di conoscere meglio e approfondire questa grande e poco conosciuta poetessa del ‘500 mi fu offerta nel 1996 dalla partecipazione ad un Convegno di studi a celebrazione del gemellaggio di Valsinni, l’antica Favale, con Recanati, alla presenza del Direttore del Centro Nazionale di studi leopardiani, il prof. Franco Foschi e di autorevoli studiosi come il prof. Giovanni Caserta.

Affascinata dal personaggio, decisi di inserirne lo studio nella programmazione didattica della IV classe dell’ITIS dove insegnavo, motivando le ragioni di questa scelta in un articolo del periodico dell’Istituto che voglio qui riportare: “Arroccata su un costone roccioso, sulla strada che segue il corso del Sinni, a pochi chilometri dalla costa del Metapontino, sorge Valsinni, l’antica Favale, un paesino come tanti della nostra Basilicata che conta 3000 anime e che conserva ancora, pur con qualche modifica architettonica, il castello medioevale di Isabella Morra, certamente più nota per la sua tragica vicenda umana di amore e di morte che per i suoi meriti poetici.

Il turista curioso che si inerpica per le vie che portano al Castello e trova sul suo percorso il Municipio, non può non fermare la sua attenzione sulla lapide di marmo posta nel 1908 sulla facciata che riporta queste parole: ALLA MEMORIA DELLA CHIARA POETESSA ISABELLA MORRA, ARDENTE E PROFUMATO FIORE DELLA ORAZIANA BASILICATA, IN ETA’ SELVAGGIA, SULLE RIVE DEL SINNI BARBARAMENTE RECISO, QUESTO COMUNE DI VALSINNI ERETTO E CRESCIUTO SULLE ROVINE DELLA TETRA BARONIA DI FAVALE, PERCHE’ QUEL MARMO FUNEREO CHE ELLA SPERO’ INVANO DALLA PIETA’ DI UN RE DI FRANCIA ABBIA ALMENO DALLA PIETA’ DEI POSTERI,

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NELLA SUA TERRA NATALE, TRECENTO E CINQUANTA ANNI DOPO LA MORTE, COMPIANGENDO ED AMMIRANDO, POSE”.

Le più recenti proposte filologiche emerse dai convegni di studio (da ricordare quello del 1971 presieduto dal prof. Mario Sansone e il più recente sopra citato) hanno reso quanto mai interessante e doveroso l’approccio verso una grande poetessa ignorata dai più nella sua stessa terra.

I testi scolastici di storia della letteratura italiana dedicano alla Morra, come del resto ai Petrarchisti, poche righe, sottolineando più l’inconsueta presenza delle donne nella poesia, che il loro effettivo valore artistico .Certo il fenomeno sta all’interno dello stesso Rinascimento che, nel rivalutare l’individuo, guarda al di là delle classi e del sesso. Infatti Isabella Morra è con Gaspara Stampa, Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Tullia D’Aragona, il segno di quell’emancipazione femminile che è il riscatto da un’emarginazione sociale e culturale sia pure limitata alle donne dell’aristocrazia feudale e dell’alta borghesia o, nel caso dei ceti più umili, a chi poteva contare sulla protezione dei potenti con le prevedibili conseguenze. Perciò le poetesse del ‘500 furono per lo più donne di corte o cortigiane. Isabella tuttavia non fu né tra le une, né tra le altre.

La Morra fu un’esponente della lirica del ‘500, meglio nota come Petrarchismo, come ritorno alla poesia del Petrarca sia nella lingua che nei sentimenti e inaugurata dal Bembo.

Questo fenomeno trovò larga diffusione anche a Napoli che fino al primo ‘400 era rimasta fuori dal movimento culturale che aveva investito l’Italia centrale in tutto il Medioevo (si pensi alla Scuola siciliana, la Scuola toscana, il Dolce Stil Novo e ai grandi Trecentisti). Da Napoli il Petrarchismo fu portato nella periferia dei singoli feudi

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meridionali appartenenti alle famiglie nobili e questo fu il caso del padre di Isabella, Giovan Michele Morra che proveniva, dice il Croce, dai circoli umanistici di Napoli e” poetava egli stesso”. Fu proprio il Croce, come vedremo, a scoprire e valorizzare l’opera di Isabella.

Per inquadrare storicamente il personaggio, è opportuno ricordare che nei primi decenni del ‘500 si stava svolgendo la lunga e sanguinosa guerra tra gli Asburgo e la Francia che durò per circa un quarantennio (1521-1559) con alterne vicende, per concludersi definitivamente con la pace di Cateau Cambrèsis che affermerà il definitivo predominio degli Spagnoli in Italia.

Accennerò brevemente all’Impero di Carlo V e ai motivi della guerra. Protagonisti del conflitto furono Francesco I, re di Francia e Carlo V d’Asburgo che, in seguito alla morte prematura del padre e alla incapacità della madre, Giovanna la Pazza, aveva ereditato dai nonni paterni, Massimiliano I d’Asburgo e Maria di Borgogna, i vasti territori degli Asburgo e la Borgogna comprendenti gran parte dell’Europa centrale , e dai nonni materni, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, i possedimenti spagnoli comprese le colonie americane per cui egli poteva ben dire che nel suo impero non tramontava mai il sole.

Si profilava cosi’ il pericolo di una totale egemonia asburgica in Europa e ciò preoccupava non poco gli altri sovrani europei e in particolare Francesco I il cui regno si trovava stretto come in una morsa dai domini di Carlo V. La posta in gioco, nell’immediato, sarà il Ducato di Milano, già conquistato da Luigi XII, suo predecessore, che vi rivendicò i suoi diritti come erede di Valentina Visconti, la cui posizione geografica veniva oggi a costituire un diaframma tra i possedimenti spagnoli e quelli austriaci. Sarà proprio il

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tentativo di annessione del Ducato di Milano da parte di Carlo V che scatenerà le ostilità in cui, come si è detto, i Francesi avranno la peggio.

La fase che ci interessa si può fermare al 1529 (pace di Cambrai) quando, per un complicato gioco di alleanze e defezioni (i Doria) Carlo V, sconfiggendo il re di Francia, affermava il dominio degli Spagnoli nell’Italia meridionale.

Durante la guerra, com’era logico, si risvegliarono gli antichi odi e le antiche rivalità che negli anni precedenti avevano visto i baroni, e le genti a loro sottoposte, divise tra Spagnoli e Francesi. Frequenti furono perciò le lotte tra i signori come quelle tra i Morra, fautori dei Francesi e i Sanseverino, fautori degli Spagnoli. Alla guerra si aggiungevano spesso le pestilenze e le carestie. ”L’anno 1528”, scrive un cronista del tempo, Gregorio Rosso, “fu infelicissimo a tutta Italia, particolarmente allo nostro Regno di Napoli perché ci furono tre flagelli de Iddio: guerra, peste e fame”.

Con la vittoria di Carlo V nel 1529, il vicerè d’Orange procedette ad una crudele repressione di tutti i filofrancesi e, è sempre il cronista Rosso, “ si messe a castigar li ribelli, confiscar le robbe e da lor buscar denari per la guerra…..fece tagliar la testa allo duca di Boiano e allo conte di Morcone…..altri se ne andarono in Franza”.

Lo stesso Carlo V, che pure era intervenuto con un indulto a favore di alcuni, elencò tutti i sudditi che andavano esclusi da ogni clemenza e in questo elenco compariva anche il nome di Giovan Michele Morra, barone di Favale, che però era già fuggito in Francia, a Parigi, insieme al figlio Scipione, alla corte del suo sovrano. Pare che i profughi Morra conducessero una vita oziosa e galante tra feste e cenacoli letterari, poco curandosi dei loro parenti relegati nel castello di Favale, dove

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Isabella a causa della guerra era nata intorno al 1518-20, invece che nel palazzo baronale di Napoli, e dove rimase in una disperata solitudine che sarà il motivo conduttore delle sue liriche più che il vero o presunto amore per Diego Sandoval de Castro.

Ma prima di venire alla cronaca nera dell’assassinio di Isabella, (ai più nota solo per questo) bisogna sapere chi fosse Diego Sandoval de Castro.

“Di origine spagnola,” scrive il Caserta, “aveva sposato la principessa Antonia Caracciolo; apparteneva alla nobile famiglia De Castro che si era trasferita nell’Italia meridionale da diversi anni. Suo padre, uomo d’armi, aveva ricevuto da Ferdinando I il Cattolico, in cambio di servigi resigli, il feudo di Bollita ( Nova Siri) di cui don Diego era diventato l’erede. In questa terra, però, veniva saltuariamente, impegnato com’era nella reggenza del Castello di Cosenza. Vi risiedeva invece la moglie quasi stabilmente”. “Isabella si sarebbe innamorata di lui”, scrive sempre il Caserta “perché agli occhi della giovane donna rappresentava tutto quanto può affascinare una povera capinera di verghiana memoria: era la bellezza, il successo, la baldanza, la libertà, la vita, era un uomo di mondo brillante e sicuro di sé.” Diego Sandoval scrive anche lui versi, ma in essi non c’è traccia di una figura femminile in cui possa ravvisarsi Isabella. Il barone aveva fama di “bravaccio”, come rileva il Croce ed era spesso bandito dalle sue terre. Forse questo alone di clandestino e di poeta aveva affascinato Isabella che intanto aveva incominciato a frequentare la torre di Bollita, stringendo amicizia con Antonia Caracciolo. Iniziavano a circolare voci su queste visite troppo frequenti. I fratelli, che ne spiavano ogni mossa, un giorno sorpresero il precettore che stava per consegnarle una lettera che proveniva dal feudo di Bollita e pugnalarono prima lui ( un uomo anziano, forse un

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prete) e poi la sorella. Isabella aveva 27-28 anni. Don Diego seppe del delitto e vigliaccamente si tenne alla larga. Ma nell’autunno successivo anche a lui gli stessi fratelli di Isabella tesero un agguato a pochi chilometri dal suo feudo in località detta Noja ( S. Giorgio lucano.) Molto fu indagato sull’assassinio di don Diego, tanto che il rapporto sull’uccisione arrivò persino sul tavolo di Carlo V, anche se il fascicolo fu poi archiviato con la conclusione che il Sandoval aveva trovato la morte per “leggerezze a cui si lasciò andare con la hermana di un barone”. Sull’altro delitto, invece, l’assassinio di Isabella, le indagini furono vaghe e approssimate. I tre fratelli assassini ripararono in Francia e il padre si fece garante presso il re del loro “pentimento“, patto di omertà tra maschi, senza versare una lacrima, si scrisse, per quella figlia che gli aveva dedicato inutili e struggenti parole d’amore, come vedremo in seguito. L’alibi fu il fatto che Isabella aveva disonorato il nome dei Morra. L’unico merito che si può riconoscere agli inquirenti, che tanto poco inquisirono sulla morte dell’infelice, è quello di aver salvato, forse per puro atto burocratico, le carte della poetessa ritrovate nel Castello di Favale. “Acclusi agli atti“, come si dice nella formula di rito, i dieci sonetti e le tre canzoni che sarebbero andati certamente perduti in qualche archivio se un libraio napoletano, un tale Marcantonio Passero, non li avesse ritrovati e inviati al letterato veneziano Ludovico Dolce perché ne pubblicasse un saggio. Altre due pubblicazioni, del 1693 e del 1695, furono addirittura censurate per motivi religiosi. Ci furono altre pubblicazioni locali, ma la più importante risale al 1928-29 ad opera di Benedetto Croce che a Valsinni fruga, cerca, esplora e pubblica il suo primo saggio sull’argomento. Lo stesso Croce cercherà i resti mortali della poetessa, senza trovarli, nella piccola chiesa di S. Fabiano fuori le mura. “Ed io ho voluto

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recarmi nei luoghi, assai poco cangiati nell’aspetto”, annoterà il critico, “dove fu vissuta questa breve vita e cantata questa dolorosa poesia, in quell’estremo lembo della Basilicata.”

Ed è proprio grazie al Croce se la Morra, a lungo ignorata e riscoperta alle soglie del ‘900, è entrata a far parte della letteratura italiana e annoverata tra le voci più autentiche della poesia del ‘500 . A lei è dedicato il Parco letterario attivo a Valsinni dal 1993, istituito per conservarne la memoria.

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LA POESIA

Il privilegio di classe aveva permesso ad Isabella di condividere il gusto paterno per la letteratura e le arti, e quindi, ella aveva goduto di un’educazione raffinata affidata ad ottimi pedagoghi che venivano ospitati al Castello e che costituivano, per la mancanza di comunicazioni tra il centro e la periferia, uno dei pochi tramiti per la diffusione delle idee e della cultura. Non è affatto un caso che, insieme alla sorella, i fratelli Morra uccidessero anche il suo precettore, colpevole di aver insegnato ad una donna a leggere e a scrivere.

Con l’esilio del padre, Isabella aveva perduto la persona a lei più cara perché più vicina alla sua sensibilità e ai suoi interessi culturali. Nel Canzoniere affiora quasi una devozione verso il padre, che è una figura molto ricorrente, mentre pochi accenni fa alla madre che vive nel dolore, circondata dai figli ancora troppo piccoli:

“Bastone i figli de la fral vecchiezza esser dovean di mia misera madre”.

La situazione familiare pesò molto su Isabella che, essendo più grande dei fratelli, ne fu più consapevole. Fini’ perciò con l’idealizzare la figura paterna facendone, in cuor suo, un martire della politica e accumulò rancore nei riguardi di Carlo accusato come colui che “vieta al padre di giovar la figlia”. Francesco I, al contrario, è indicato come “ alto re”, “alto signor”, “sacro volto” e infine “ mio re”. Così, per amore di figlia, fu antispagnola e filofrancese e pianse la sconfitta di Francesco I, rivolgendosi alla fortuna come unica responsabile delle sorti umane :

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“ veggio il mio re da te vinto e prostrato sotto la ruota tua , pieno d’orrore lo qual, fra gli altri eroi era il maggiore che da Cesare in qua fosse mai stato.”

Aver perduto il padre nel periodo in cui si ha maggiormente bisogno di affetto è per Isabella la più grande sventura che possa capitare ad essere umano. Nel suo animo, consumato nella solitudine e nel rimpianto, si insinua l'amore per Diego Sandoval de Castro , conosciuto in una delle sue furtive apparizioni nel castello di Bollita. Tuttavia nel volume di versi pubblicato dal Sandoval nel 1542 a Roma ,non c’è alcun riferimento alla sua biografia, né ad Isabella Morra. Forse i due non si conoscevano ancora perché Isabella fu uccisa quattro anni dopo, forse l’amore era ancora agli inizi o forse era e rimase una semplice simpatia. Anche la caratteristica della lirica della Morra è che non vi si tratta di poesia d’amore in senso stretto, come in altri canzonieri femminili del ‘500, ma vi si avverte una tensione, un’aspirazione, un bisogno d’amore che si richiamano al Petrarca. La lirica di Isabella è essenzialmente un canto di solitudine.

Leggendone i versi, infatti, viene in mente tanta parte della poesia leopardiana, anche se, ovviamente, ciò non implica un accostamento sul piano dei risultati poetici, essendo impossibile paragonare la poesia della giovane poetessa alla vastità e alla grandezza della poesia del Leopardi.

Tuttavia non possiamo non considerare tante affinità che fanno della lirica della Morra da pre-testo alla più grande lirica leopardiana. Le affinità derivano dalle situazioni storico-politiche del loro tempo, dalle origini aristocratiche dei due, dalle caratteristiche ambientali, dal senso dell’isolamento e

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della solitudine, dal bisogno di evasione, dalla carenza affettiva, dalla lingua.

Cerchiamo di esaminare, sia pure brevemente, ciascuno di questi aspetti:

- Isabella vive il dramma della dominazione spagnola, il giovane Leopardi vede l’Italia avvilita e divisa dal Congresso di Vienna, sottomessa alla dominazione austriaca e la canzone all’Italia è un richiamo al passato glorioso, un fiero incitamento alla riscossa. Valsinni, nel Regno di Napoli e Recanati, nello Stato pontificio, sono due realtà che hanno in comune l’appartenenza a regimi conservatori.

- Entrambi hanno origini aristocratiche (il conte Monaldo e il barone Giovan Michele ) e, come tali, sensibili alla cultura e colti essi stessi.

- Identiche le caratteristiche ambientali per la relegazione in province poco accessibili alle innovazioni e al progresso. Cosi’ scrive Isabella:

…………”.fra questi dumi, fra questi aspri costumi , di gente irrazional, priva d’ingegno, ove senza sostegno son costretta a menare il viver mio, qui posta da ciascuno in cieco oblio…” e ancora: “ I fieri assalti di crudel Fortuna scrivo piangendo, e la mia verde etade; me che ‘n si’ vili ed orride contrade spendo il mio tempo senza loda alcuna.”

E Leopardi scrive nelle “Ricordanze“:

“ Né mi diceva il cor che l’età verde

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saria dannato a consumare in questo natio borgo selvaggio, intra una gente zotica, vil cui nomi strani, e spesso argomento di riso e di trastullo son dottrina e saper ………”

- Comune è il senso della solitudine : Leopardi amava ritirarsi sul colle Tabor, Isabella lo fa sul colle Coppola. Entrambi contemplavano il paesaggio circostante, ognuno proiettandovi le proprie meditazioni e le proprie speranze

- “ D’un alto monte onde si scorge il mare

miro sovente io, tua figlia Isabella “

oppure:

quella ch’è detta la fiorita etade , secca ed oscura, solitaria ed erma, tutta ho passato qui cieca ed inferma senza saper mai pregio di beltade….” Sembra sentire i versi leopardiani: “ quasi romito e strano al mio loco natio, passo del viver mio la primavera….”

oppure:

“…..e intanto vola il caro tempo giovanil ,più che la fama e l’allor .più che la pura

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luce del giorno e lo spirar: ti perdo senza un diletto, inutilmente, in questo soggiorno disumano, intra gli affanni, o dell’arida vita unico fiore…” - Entrambi, esclusi dal loro ambiente socio-culturale,

senza alcuna possibilità di dialogo con gli altri, si rifugiano nel colloquio con la natura che diventa confidente delle loro sofferenze.

Ricordiamo solo alcuni passi: “ O graziosa luna, io mi rammento…” oppure “ Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai silenziosa luna ?….” oppure: “ Vaghe stelle dell’Orsa…..” A volte l’interlocutore è una persona morta o lontana

come Silvia o Nerina. E in Isabella : “Quanto pregiar ti puoi Siri mio amato…” oppure: “Sacra Giunone…” Comune è il desiderio di evasione. Ad eccezione del

primo periodo della sua giovinezza, quando tenta la fuga da Recanati, Leopardi non credette più che la sua infelicità dipendesse dalle condizioni di vita nel suo paese, anzi, dopo la delusione a Roma, Recanati divento un rifugio e un sollievo e i Grandi Idilli sono tutti una rievocazione di angoli luminosi, di

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voci allegre, di luoghi dove fu vissuta l'infanzia e l'adolescenza. Isabella, invece, non si allontanò mai da Favale, per cui non ci fu mai il ricordo ad abbellirgliene l’aspetto. L’immagine del paese per lei è sempre quella di un luogo infernale, denigrato, orrido e vile.

“ Ed ho in odio il denigrato sito come sola cagion del mio tormento”.

Anche i suoi progetti di matrimonio con un uomo non identificato che si intravede nel sonetto dedicato a Giunone rappresenta l’ansia di lasciare il paese col sacrificio dei suoi “verginei fiori” come compenso alla libertà.

- Per quanto riguarda le affinità linguistiche, non si può negare una certa suggestione che si prova nel riscontare certe analogie tra i due in espressioni come “la verde etade” “ ermo “ “solitario”, ma è anche noto che il giovane Poeta attinge il suo vocabolario nel ’300 e soprattutto nel ‘500 petrarchista. Resta certo, tuttavia, che se l’incontro tra i due non si realizza pienamente nella letteratura, si realizza certo nella sofferenza.

Dicevamo all’inizio che le pubblicazioni del 1693 e del 1695 furono censurate per motivi religiosi. “La religiosità in lei”, scrive il Caserta, “non è uno stato di astratta beatitudine, ma si riveste di una caratteristica materiale e umana, quasi che nella religione debba concretizzarsi quello che le è mancato nella vita. La religione diventa così il riscatto delle sue frustrazioni”. “Nella figura di Cristo”, scrive sempre il Caserta, “si descrivono con trasparente voluttà la bellezza e il fulgore del figlio di Dio, tanto da vedersi una trasposizione di un represso sentimento d’amore quando gli chiede di essere “ fida amante”, consacrandogli il suo corpo. Ella stessa definirà folle questa canzone”.

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Nella canzone alla Vergine, invece, ella offre a Dio tutte le sue sofferenze e le sue insoddisfazioni.

Sembra di aver trovato finalmente il senso della sua esistenza dolorosa perché accetta il male di vivere e sembra avviarsi per i “floridi sentieri della speranza”.

Il Canzoniere - 10 Sonetti e 3 Canzoni -

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I FIERI ASSALTI Il componimento, che si presenta nella struttura classica

del sonetto, è considerato il prologo al breve Canzoniere della Morra, come dimostra il fatto che occupa sempre il primo posto nelle varie edizioni, anche se il contenuto rispecchia una riflessione piuttosto matura e sofferta sulla vita e sul destino della giovane poetessa.

Vi si avverte un agognato sogno di libertà che può realizzarsi solo come evasione dalle sue “vili ed orride contrade”, veri limiti che la costringono a vivere “senza loda alcuna”. Solo l’idea della morte può alimentare la speranza che ci si possa accorgere di lei

.I fieri assalti di crudel Fortunascrivo piangendo, e la mia verde etade:me che ‘n vili ed orride contrade spendo il mio tempo senza loda alcuna.Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,vo procacciando con le Muse amate,e spero ritrovar qualche pietademalgrado de la cieca aspra importuna:e col favor de le sacrate Dive,se non col corpo, almen con l’alma sciolta,essere in pregio a più felici rive.Questa spoglia, dov’or mi trovo involta,forse tale alto Re nel mondo viveche ‘n saldi marmi la terrà sepolta.

SACRA GIUNONE

Solo un matrimonio, non importa se non dettato dall’amore, avrebbe consentito alla Morra di uscire dal suo

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paese. Ella chiede perciò a Giunone, protettrice delle nozze, giorni e anni felici con i “suoi santi ben concessi ardori”. Vi si avverte il dramma intimo nel far dono dei suoi “verginei fiori” ad uno sposo certamente non amato, e forse anche mai conosciuto, come compenso alla libertà che le sarebbe stata finalmente concessa col matrimonio. Vi si coglie tuttavia la promessa della fedeltà coniugale sì che “ una sola alma regga ambedue i petti.”

Sacra Giunone, se i volgari amorison de l’alto tuo cor tanto nemici,i giorni e gli anni miei chiari felicifa’ con tuoi santi e ben concessi ardori.A voi consacro i miei verginei fiori,a te, o dea, e ai tuoi pensieri amici,o de le cose sola alme beatrici,che colmi il ciel dei tuoi soavi odori.Cingimi al collo un bello aurato lacciode’ tuo’ più cari ed umili soggetti, che di servir a te sola procaccio.Guida Imeneo con sì cortesi affettie fa’ sì caro il nodo ond’io mi allaccio,ch’una sola alma regga i nostri petti.

D’UN ALTO MONTE

E’ uno dei sonetti più noti in cui si avverte il senso tutto leopardiano del “natio borgo selvaggio” che si identifica nel “denigrato sito”, come sola causa del tormento della donna. E’ un canto di solitudine che si sprigiona dal fascino di un paesaggio stupendo come può esserlo, osservato dal monte Coppola, l’ampia vallata che scende verso il mare. A rendere

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più amara questa solitudine, l’inutile attesa del padre, esule in Francia, per lei promessa di affetto e di libertà

.D’un alto monte onde si scorge il maremiro sovente io , tua figlia Isabella,s’alcun legno spalmato in quello appare,che di te, padre, a me doni novella.Ma la mia adversa e dispietata stellanon vuol ch’alcun conforto possa entrarenel tristo cor, ma, di pietà rubellala calda speme in pianto fa mutare.Ch’io non veggo nel mar vela né remo(così deserto è l’infelice lito)che l’onde fenda o che la gonfi il vento.Contra Fortuna allor spargo querela,ed ho in odio il denigrato sito,come sola cagion del mio tormento.

QUANTO PREGIAR

Il sonetto si apre con un omaggio alla terra che prende nome dal Sinni, ma vi si riscontra anche l’omaggio, quasi doveroso, ad una donna non bene identificata nell’espressione “vermiglia Rosa”.

Benedetto Croce, che riconobbe in quella terra Senise, pensò, in un primo momento, che la donna fosse una Borgia, giungendo più tardi alla conclusione che si trattasse piuttosto di Emilia Orsini, moglie di un Sanseverino, signore del luogo, come testimonia anche lo stemma della Casa che raffigura un orso con una rosa in una zampa.

Anche la Orsini viveva triste e sola dopo la partenza del marito per la guerra franco-spagnola , quindi non si esclude una progettata partenza delle due amiche, forse a Napoli,

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sicchè quel che non aveva fatto il re di Francia con i suoi “ gigli d’oro” avrebbe potuto farlo la “vermiglia rosa” degli Orsini. A questo desiderio di evasione si aggiunge l’illusione della gloria poetica.

Quanto pregiar ti puoi , Siri mio amato,de la tua ricca e fortunata rivade la terra che da te derivail nome, ch’al mio cor oggi è sì grato;s’ivi alberga colei, che ‘l cielo iratopuò far tranquillo e la mia speme viva, malgrado de l’acerba e cruda Diva,ch’ogni or s’esalta del mio basso stato.Non men l’odor de la vermiglia Rosa Di dolce aura vital nodrisce l’almaChe soglion farsi i sacri Gigli d’oro.Sarà per lei la vita mia gioiosa,de’ grievi affanni deporrò la salma,e queste chiome cingerò d’alloro.

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NON SOLO IL CIEL

Il sonetto è dedicato a Luigi Alamanni, anche lui poeta petrarchista, nato a Firenze, ma costretto a fuggire in Francia per motivi politici. A Parigi era entrato nella corte di Francesco I, diventato suo protettore ed amico. Qui aveva incontrato i Morra e certo conosceva le vicende della famiglia e l’esistenza di Isabella con i suoi interessi letterari. Nonostante il tono confidenziale, non è pensabile una conoscenza diretta dei due, quanto piuttosto un’affinità letteraria. Forse Isabella aveva letto le opere dell’Alamanni a Senise, nella biblioteca degli Orsini o a Bollita, nel Castello di Diego Sandoval de Castro.

Isabella quasi invidia il poeta per il “raro stil”, ma soprattutto per l’attenzione del Re da lei continuamente e inutilmente implorato.

Non sol il ciel vi fu largo e cortese,caro Luigi, onor del secol nostro,del raro stil, del bel purgato inchiostro,ma del nobil soggetto onde s’accese.Alto Signor e non umane impreseornan d’eterna fronde il capo vostrocose più da pregiar che gemme od ostro,che dai tarli e dal tempo son offese.Il sacro volto aura soave inspiraal dotto petto, che lo tien fecondodi gloriosi, anzi divini carmi.Francesco è l’arco de la vostra lira,per lui sète oggi a null’altro secondo e potete col son rompere i marmi.

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FORTUNA CHE SOLLEVI

E’ un sonetto che mette ancora in luce la cieca onnipotenza della Fortuna, come lei donna, ma priva della sensibilità che è tutta femminile; essa, contro ogni buon senso, “solleva in alto ogni depresso ingegno, ogni vil core” e permette che “ n’lacrime e dolore” viva il suo cuore. E così, nella guerra contro Carlo V, si consuma il destino di Francesco I “ lo qual, fra gli altri eroi era il maggiore che da Cesare in qua fosse mai stato”.

Isabella fa affiorare nella conclusione una sorta di complesso di inferiorità, che è anche segno di emarginazione da parte di opera nella provincia, quando definisce “rozo inchiostro” il suo stile in contrasto col “bel purgato inchiostro” riferito, nel sonetto precedente, allo stile dell’Alamanni.

Fortuna che sollevi in alto statoogni depresso ingegno, ogni vil core, or fai che ‘l mio in lagrime e ‘n doloreviva più che altro afflitto e sconsolato.Veggio il mio Re da te vinto e prostratosotto la rota tua, pieno d’orrore,lo qual, fra gli altri eroi, era il maggioreche da Cesare in qua fusse mai stato.Son donna, e contra de le donne dicoche tu, Fortuna, avendo il nome nostro,ogni ben nato cor hai per nemico.E spesso grido col mio rozo inchiostro,che chi vuol esser tuo più caro amicosia degli uomini orrendo e raro mostro.

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ECCO CH’ UN’ ALTRA VOLTA

La poetessa chiama a raccolta gli aspetti più desolati della natura che mettono in evidenza l’isolamento in cui vive. Tutto è indifferente alla sua sofferenza e ciò accresce il senso doloroso della sua esistenza che la fa esplodere nel grido finale in cui invita gli elementi che la circondano a piangere con lei la sua misera sorte.

Ecco ch’un’altra volta, o valle inferna,o fiume alpestre, o ruinati sassi,o ignudi spirti di virtude e cassi, udrete il pianto e la mia doglia eterna.Ogni monte udirammi, ogni caverna,ovunqu’io arresti, ovunq’io mova i passi;chè Fortuna che mai salda non stassi,cresce ogn’or il mio male, ogn’or l’eterna.Deh, mentre ch’io mi lagno e giorno e notte,o fere, o sassi, o orride ruine,o selve incolte, o solitarie grotte,ulule, e voi del mal nostro indovine,piangete meco a voci alte interrotteil mio più d’altro miserando fine.

TORBIDO SIRI

Isabella, quasi presagendo la sua fine, si rivolge al Sinni, superbo delle sue acque e indifferente al suo dolore, come del

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resto tutta la natura, affidandogli il messaggio di riferire al padre, se mai tornerà dalla Francia, la sua disperata condizione.

E’ stato visto nel sonetto un proposito di suicidio quando parla della sua fine che serberà al fiume un nome infelice con “esempio miserando e raro”, ma, - dice il Caserta – l’espressione è da intendersi nel senso che, come sarebbe accaduto al Metauro del Tasso o al monte Tabor di Recanati, l’infelice sorte della poetessa avrebbe reso famoso il Sinni, nelle cui acque ella versava fiumi di lacrime. Ella attende, sì, la morte, ma come fatto naturale che ponga fine ad una vita “miseranda e rara”.

Torbido Siri, del mio mal superbo,or ch’io sento da presso il fine amaro,fa’ tu noto il mio duolo al Padre caro,se mai qui ‘l torna il suo destino acerbo.Dilli come, morendo, disacerbol’aspra Fortuna e lo mio fato avaro,e , con l’esempio miserando e raro,nome infelice a le tue onde serbo.Tosto ch’ei giunga a la sassosa(a che pensar m’adduci, o fiera stella,come d’ogni mio ben sia cassa e priva!)inqueta l’onde con crudel procella,dì:-Me accrebber sì, mentre fu viva,no gli occhi no, ma i fiumi d’Isabella.

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SE A LA PROPINQUA SPEME

C’è nel sonetto il vano desiderio di rompere, non si sa come, i “lacci” e liberarsi dalla prigione del natio borgo, ma mentre “arde e agghiaccia”, non mancano paure e speranze.

Questo componimento, insieme ai due precedenti, sembra concludere una triade in cui domina il comune motivo conduttore che è il presagio della morte.

Se a la propinqua speme nuovo impaccioo Fortuna crudele o l’empia Morte,com’han soluto, ahi lassa, non m’apporterotta avrò la prigione e sciolto il laccio.Ma, pensando a quel dì, ardo ed agghiaccio,che l ’timore e l’desio son le mie scorte;a questo or chiudo, or apro a quel le portee, in forse, di dolor mi struggo e sfaccio.Con ragione il desio dispiega i vannied al suo porto appressa il bel pensieroper trar quest’alma da perpetui affannima Fortuna al timor mostra il sentieroerto ed angusto e pien di tanti inganni,che nel più bel sperar poi mi dispero.

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POSCIA CHE AL BEL DESIR

E’ la prima delle tre canzoni che, insieme con i dieci sonetti, costituiscono il Canzoniere di Isabella Morra. Vi si legge, in toni autobiografici, il consuntivo di un’esistenza dolorosa che ci riporta, sin dai primi versi, alle “Ricordanze” del Leopardi. Certamente la canzone è frutto della maturità della donna per i riferimenti alla “fiorita etade”, alla caduta di tutte le sue illusioni “tra gente irrazional priva d’ingegno”, con la consapevolezza che si scioglierà come neve al sole se resterà ancora a Valsinni.

La rattrista anche lo stato di isolamento dei suoi fratelli in cui, in un breve arco di tempo, sarà spenta ogni gentilezza, ereditata dalla nobile stirpe. Un’ancora di salvezza, assai improbabile, potrebbe arrivare dal Re di Francia, a cui sono indirizzati i sospiri della donna che, solo in questo caso, sarebbe disposta a perdonare tutto alla Fortuna, sempre a lei nemica, a cui fa appello per l’ultima volta

Poscia che al bel desir troncate hai l’aleche nel mio cor sorgea, crudel Fortuna,sì che d’ogni tuo ben vivo digiuna, dirò con questo stil ruvido e fralealcuna parte de l’interno malecausato sol da te fra questi dumi,fra questi aspri costumidi gente irrazional, priva d’ingegno,ove senza sostegnoson costretta a menare il viver mio,qui posta da ciascuno in cieco oblio.Tu, crudel, de l’infanzia in quei pochi anni,del caro genitor mi festi priva,che, se non è già pur ne l’altra riva, per me sente di morte i grevi affanni,chè ‘l mio penar raddoppia gli suoi danni.Cesar gli vieta il poter darmi aita.O cosa non più udita, privare il padre di giovar la figlia!

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Così, a disciolta brigliaseguitata m’hai sempre, empia Fortuna,cominciando dal latte e da la cuna.Quella che è detta la fiorita etade,secca ed oscura, solitaria ed ermatutta ho passata qui cieca ed inferma,senza saper mai pregio di beltade.E’ stata per me morta in te pietade,e spenta l’hai in altrui, che potea sciorree in altra parte porredal carcer duro il vel de l’alma stanca,che, come neve biancadal sol, così da te si strugge ogni ora, e struggerassi infin che qui dimora.Qui non provo io di donna il proprio statoper te, che posta m’hai in sì ria sorteche dolce vita mi saria la morte.I cari pegni del mio padre amatopiangon d’intorno. Ahi, ahi, misero fato,mangiare il frutto, ch’altri colse, amaroquei che mai non peccaro,la cui semplicità faria clementeuna tigre, un serpente,ma non già te, ver noi più fera e reach’al figlio Progne, ed al fratel MedeaDei ben, che ingiustamente la tua manoDispensa, fatto m’hai tanto mendica,che mostri ben quanto mi sei nemica,in questo inferno solitario e stranoogni disegno mio facendo vano. S’io mi doglio di te sì giustamenteper isfogar la mente,da chi non son per ignoranza intesai’ son, lassa, ripresa;chè, se nodrita già fossi in cittade,avresti tu più biasmo, io più pietade.Baston i figli de la fral vecchiezzaesser dovean di mia misera madre;ma per le tue procelle inique ed adresono in estrema ed orrida fiacchezza;e spenta in lor sarà la gentilezzadagli antichi lasciata, a questi giorni,se dagli alti soggiornipietà non giunge al cor del Re di Francia,che, con giusta bilanciapesando il danno, agguaglie la mercedesecondo il merto di mia pura fede.Ogni mal ti perdono,

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né l’alma si dorrà di te giamaise questo sol farai(ahi, ahi, Fortuna, e perché far nol dèi?)che giungano al gran Re gli sospiri miei.

SCRISSI CON STILE AMARO

Si avverte nel sonetto, rivolto ad un ipotetico lettore che chiama “fratello” nell’ultimo verso, una rassegnata accettazione del male di vivere che è anche pentimento per le accuse, spesso eccessive, alla Fortuna crudele. Isabella sembra aver superato la condizione esistenziale della sua prima giovinezza nella rinuncia alla gloria e ai beni terreni, nell’attesa di una ricompensa celeste che non può togliere a nessuno né il tempo, né la morte.

Scrissi con stile amaro, aspro e dolenteun tempo, come sai, contra Fortuna,

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si che null’altra mai sotto la lunadi lei si dolse con voler più ardente.Or del suo cieco error l’alma si pente,che in tai doti non scorge gloria alcuna,e se dei beni suoi vive digiuna,spera arricchirsi in Dio chiara e lucente.Né tempo o morte il bel tesoro eterno,né predatrice e violenta manoce lo torrà davanti al Re del cielo.Ivi non nuoce già state né verno,chè non si sente mai caldo né gielo.Dunque, ogni altro sperar, fratello, è vano.

Signor che insino a qui

Fin dal primo verso della canzone, si coglie la condizione di una donna provata da esperienze dolorose e delusioni dagli amori di questa terra. Ella si abbandona perciò totalmente a Cristo, dichiarandosi sua amante e ne descrive in tutti i particolari la bellezza del corpo.

Questo atteggiamento è, per il Caserta, il frutto delle frustrazioni e dei desideri repressi della donna “di qui la fisicità con cui si descrivono la fronte, gli occhi, le chiome, la bocca, le guance, le mani e persino i bianchi piedi di Cristo”.

Significativo è anche il riferimento alla Maddalena peccatrice per amore che trova il suo riscatto ”scaricandosi de l’aspre some”, quando asciuga i piedi del suo Signore con le sue “aurate chiome”. E l’abbraccio ideale con Cristo rappresenta ora, anche per Isabella, il riscatto dei suoi errori.

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Signor, che insino a qui, tua gran mercede,con questa vista mia caduca e fralespregiar m’hai fatto ogni beltà mortale,fammi di tanto ben per grazia eredeche solo ami te sol con pura fedee spregie per innanzi ogni altro oggetto,con sì verace affetto,ch’ognun m’additi per tua fida amantein questo mondo errante,ch’altro non è, senza il tuo amor celeste,ch’un procelloso mar pien di tempeste.Signor, che di tua man fattura sei,ov’ogni ingegno s’affatica invano,ritrarre in versi il tuo bel volto umano,or sol per disfogare i desir miei,ad altri no, ma a me sola vorrei,ed iscolpirmi il tuo celeste velo,qual fu quando dal Cieloscendesti ad abitar la bassa terraed a tor l’uom di guerra.Questa grazia, Signor, mi sia concessach’io mostri col mio stil te a me stessa.Signor, nel piano spazio di tua frontela bellezza del Ciel tutta scolpitasi scorge, e con giustizia insieme unitade l’alta tua pietade il vivo fonte,e le pie voglie a perdonarci pronte.Ombre dei lumi venerandi e sacri,di Dio bei simulacri,ciglia, del cor fenestre, onde si mostral’alma salute nostra:occhi che date al sol la vera luce,che per voi soli a noi chiara riluce!Signor, cogli occhi tuoi pien di saluteconsoli i buoni ed ammonisci i reia darsi in colpa di lor falli rei;in lor s’impara che cosa è virtute.O mia e tutte l’altre lingue mute,perché non dite ancor dei suoi capelli,tanto del sol più belliquanto è più bello e chiaro egli del sole?O chiome uniche e sole,che, vibrando dal capo insino al collo,di nuova luce se ne adorna Apollo! Signor, da questa tua divina boccadi perle e di rubini, escon di foredolci parole ch’ogni afflitto coresgombran di duolo e sol piacer vi fiocca

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e di letizia eterna ognun trabocca.Guance di fior celesti adorne, e pianea le speranze umane;corpo in cui si rinchiuse il Cielo e Dio,a te consacro il mio:la mente mia qual fu la tua staturacon gli occhi interni già scorge e misura.Signor, le mani tue non dirò belleper non scemar col nome lor beltade;mani, che molto innanzi ad ogni etadeci fabricar la luna, il sol, le stelle:se queste chiare son, quai saran elle?Felice terra, in cui le sacre piantestampar tant’orme sante!A la vaghezza del tuo bianco piedeil Ciel s’inchina e cede.Felice lei, che con l’aurate chiomele cinse e si scarcò de l’aspre some!Canzon, quanto sei folle,poi che nel mar de la beltà di Diocon sì caldo desiocredesti entrare! Or ch’hai ‘l camin smarritorèstati fuor, chè non ne vedi il lito.

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QUEL CHE GLI GIORNI A DIETRO

Sono presenti in questa canzone alla Vergine che conclude il canzoniere della Morra, come già quello del Petrarca, elementi pagani e sensuali per cui in clima controriformistico il componimento subì modifiche che ne compromisero gli effetti poetici.

Ormai Isabella, libera dalle passioni terrene, è arrivata per grazia di Dio, all’accettazione della propria condizione di vita a Valsinni e, con la mente rivolta alla Vergine, si avvia verso la quiete dell’anima.

Quando ad oriente spunta l’aurora e la campana annuncia il nuovo giorno, il suo pensiero vola all’annuncio nell’umile casa di Nazareth che segna l’inizio della redenzione e, sulle orme della Maddalena, “colei che dal diserto accolta fu tra i Dei”, sente nel cuore il solo desiderio di servire la Madonna. Al sorgere del sole, Isabella volge il suo pensiero alla nascita di Gesù e alle tenerezze di Maria che lo nutre dolcemente e vede il Battista, che visse nel deserto, sotto povere vesti, disprezzando gli onori del volgo arrogante e apprezzando le aspre foreste, facendosi precursore di Cristo. Quando poi il sole, “il biondo Apollo”, dissolve le ombre nella valle del Sinni, le appare il Cristo adolescente tra i dottori nel tempio e la Vergine che piange “per letizia”.

I faggi del bosco vicino non concorrono più ad alimentare l’odio antico per la natura tutta, ma a favorire celesti visioni che sono di conforto alle sofferenze quotidiane e ad allontanare le tentazioni mondane. Ed ecco l’apparizione dell’Evangelista, il discepolo prediletto di Cristo, che ebbe la visione del Paradiso.

A mezzogiorno poi, quando il sole è così cocente da far chinare i fiori sullo stelo, vede il Cristo severo come un padre

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crucciato nei riguardi del figlio che ha sbagliato ed ammonisce i peccatori, invitandoli a fuggire il vizio. Poi si rivolge alla Vergine, immaginando quanto le fu gradito vedere, grazie al Figlio, ”gli error conversi in cenere”, alla stesso modo della Maddalena quando offrì a Dio il suo corpo, già dedicato agli amori terreni. Il calar della sera, infine, la riporta all’immagine del Cristo dolce e sereno che ricorda ai suoi discepoli l’eterna pace che ora finalmente Isabella prova nella solitudine dei suoi boschi e del suo fiume.

Quel che gli giorni a dietronoiava questa mia noiosa salma,di star tra queste selve erme de oscureor sol diletta l’alma;chè da Dio, sua mercè, tal grazia impetro,che scorger ben mi fa le vie securedi gire a lui fuor de le inique cure.Or, rivolta la mente a la Reinadel Ciel, con vera altissima umiltadeper le solinghe stradesenza intrico mortal l’alma caminagià verso il suo riposo,che ad altra parte il pensier non inchinafuggendo il tristo secol sì noioso,lieta e contenta in questo bosco ombroso.Quando da l’orientespunta l’Aurora col vermiglio raggioe ne s’annuncia da le squille il giorno,allora al gran messaggiode la nostra salute alzo la mentee lo contemplo d’alte glorie adornonel basso tetto, dove fea soggiornola gran Madre di Dio ch’or regna in Cielo. Così, godendo nel mio petto umile,a lei drizzo il mio stile,e ‘l fral mio vel di roze veste velo,e sol di servir lei,non d’altra cura, al cor mi giunge zelo,seguendo le vestigia di coleiche dal deserto accolta fu tra i Dei.Quando da poi fuor sorge Febo, che fa nel mar la strada d’oro,tutta m’interna e l’allegrezza immensa

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ch’ebbe del suo tesoroquella che tanta grazia ora a me porge;ch’io la riveggio con la mente intensamirare il Figlio in caritate accensa,nato fra gli animai, con pio sembiante;e del sangue che manda al petto il corenodrire il suo Signore;e scerno il duce de l’eterno amante sotto povere vestespregiar le pompe del vulgo arrogante,colui che sol pregiò l’aspre forestee fu fatto da Dio tromba celeste.Poi che ‘l suo chiaro voltoalzando, da le valli scaccia l’ombra il biondo Apollo col suo altero sguardo,un bel pensier m’ingombra;parmi veder Gesù nel tempio, involtofra Saggi, disputar con parlar tardo,e lei, perch’io d’amor m’infiammo ed ardo,versar dagli occhi, per letizia, piantoQuesti conforti in contra i duri oltraggim’apportan questi faggi,lungi schivando di sirene il canto;chè per solinghe vieil bel gioven, a Dio diletto tanto,con le sue caste voglie e sante e pievide il sentier de l’alte ierarchie.Alzato a mezzo il poloil gran pianeta co’ bollenti rai,ch’uccide i fiori in grembo a primavera,s’alcuno vide maicrucciato il padre contro il rio figliolo,così contemplo Cristo, in voce alterapredicando, ammonir la plebe ferae col cenno, del qual l’Inferno pave,romper le porte d’ogni duro core,cacciando il vizio fore.Quanto ti fu a vedere, o Dea, soavegli error conversi in ceneredel caro figlio in abito sì grave?Quanto beata fu chi le sue tenere membra a Dio consacrò, sacrate a Venere? E se l’eterno Focogiunge tant’alto ch’al calar rimira,ti scorgo, o Signor mio, fra i tuoi fratellisenza minacce od iradel tuo amore infiammargli a poco a poco,e co’ leggiadri detti e gravi e belli

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render beati e pien di grazia quelli,lor rammentando pur la santa pace.La gioia del mio cor, ch’amo ed adoro,contemplo fra coloroche i santi esempi tuoi raccoglie e tace.O via dolce e spedita,trovata già nel vil secol fallace;e chi ‘l primiero fu, dal Ciel m’additasol de l’erèmo la tranquilla vita!Per voi, grotta felice,boschi intricati e rovinati sassi,Sinno veloce, chiare fonti e rivi,erbe che d’altrui passisegnate a me vedere unqua non lice,compagna son di quelli spirti divi,c’or là su stanno in sempiterno vivi,e nel solare e glorioso lembode la madre, del padre e del suo Diospero vedermi anch’iosgombrata tutta dal terrestre nembo,e fra l’alme beateogni mio bel pensier riporle in grembo.O mie rimote e fortunate strate,donde adopra il Signor la sua pietade!Quanto discopre e scalda il chiaro sole,canzon, è nulla ad un guardo di lei,ch’è Reina del Ciel, Dea degli dei.

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BIBLIOGRAFIA

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Valsinni Arti grafiche - Lavello (PZ) - 1996

- G. Caserta - Isabella Morra e la società meridionale del ‘500

Meta - Matera - Appunti dal Convegno di studi a Valsinni del 1996

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