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SCUOLA SUPERIORE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE VALORIZZAZIONE E FRUIZIONE DEI BENI CULTURALI TRA GESTIONE DIRETTA E INDIRETTA. MARCO LIPARI Le esternalizzazioni: oggetti, forme e modalità di scelta dei terzi. SOMMARIO 1. Introduzione. La gestione indiretta dei beni culturali. La esternalizzazione e la valorizzazione dei beni culturali. 2. Le diverse ipotesi di esternalizzazione conosciute dall’ordinamento. 3. I nodi critici delle forme di esternalizzazione. Il problema delle fonti. I valori concorrenziali del mercato e la specificità pubblica dei beni culturali. 4. La previsione dell’articolo 115 del codice. Le forme di gestione della valorizzazione. La collocazione sistematica dell’articolo 115: il quadro delle competenze e il rapporto con la valorizzazione. 5. La contrapposizione tra gestione diretta e indiretta. Il collegamento limitato con la sola valorizzazione. 6. La graduazione tra gestione indiretta e diretta. 7. Le forme di GESTIONE e il concetto di valorizzazione. 8. La valorizzazione come servizio pubblico: riflessi sulle modalità di esternalizzazione. 9. L’ambito soggettivo di applicazione della norma.

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SCUOLA SUPERIORE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

VALORIZZAZIONE E FRUIZIONE DEI BENI CULTURALI TRA GESTIONE DIRETTA E INDIRETTA.

MARCO LIPARI

Le esternalizzazioni: oggetti, forme e modalità di scelta dei terzi.

SOMMARIO

1. Introduzione. La gestione indiretta dei beni culturali. La esternalizzazione e la valorizzazione dei

beni culturali.

2. Le diverse ipotesi di esternalizzazione conosciute dall’ordinamento.

3. I nodi critici delle forme di esternalizzazione. Il problema delle fonti. I valori concorrenziali del

mercato e la specificità pubblica dei beni culturali.

4. La previsione dell’articolo 115 del codice. Le forme di gestione della valorizzazione. La

collocazione sistematica dell’articolo 115: il quadro delle competenze e il rapporto con la

valorizzazione.

5. La contrapposizione tra gestione diretta e indiretta. Il collegamento limitato con la sola

valorizzazione.

6. La graduazione tra gestione indiretta e diretta.

7. Le forme di GESTIONE e il concetto di valorizzazione.

8. La valorizzazione come servizio pubblico: riflessi sulle modalità di esternalizzazione.

9. L’ambito soggettivo di applicazione della norma.

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10. La possibile segmentazione delle diverse attività di valorizzazione: riflessi sulla gestione

indiretta.

11. Le regole essenziali riguardanti la gestione in forma diretta: i riflessi sui principi della

valorizzazione affidata all’esterno.

12. Il rispetto degli standard minimi dell’attività di valorizzazione.

13. I mezzi alternativi della gestione indiretta.

14. Il requisito della partecipazione prevalente pubblica.

15. Il problema dell’affidamento diretto della gestione senza gara.

16. Le modalità di scelta del partner privato.

17. La società o dell’ente interamente partecipato dall’amministrazione pubblica.

18. I presupposti generali per l’utilizzo dei moduli gestionali indiretti.

19. La scelta tra i moduli alternativi di gestione indiretta.

20. Le modalità di individuazione del concessionario.

21. Gli enti locali e il favore per la concessione a terzi

22. L’affidamento congiunto da parte di più amministrazioni titolari delle attività di valorizzazione.

23. La misura della partecipazione dell’ente pubblico.

24. Il rapporto tra il gestore e l’amministrazione titolare dell’attività.

25. La titolarità dell’attività, la concessione e la natura del contratto di servizio. I contenuti

necessari del contratto di servizio.

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26. La partecipazione mediante il conferimento in uso del bene.

27. La concessione in uso del bene culturale collegata all’affidamento della gestione.

28. La tutela dei beni conferiti o concessi in uso.

29. La disciplina dei servizi aggiuntivi. Analogie e differenze con le attività di valorizzazione.

30. La Sponsorizzazione di beni culturali.

31. La valorizzazione attuata atraverso gli accordi con le fondazioni bancarie.

32. La disciplina transitoria e gli affidamenti in atto.

33. Le esternalizzazioni e la riforma dei servizi pubblici locali.

34. I problemi giuridici dell’esternalizzazione attuata attraverso le società del Ministero dei beni

culturali: la SIBEC e l’ARCUS.

35. La esternalizzazione operata dal Ministero dei beni culturali: i limiti dell’intervento.

36. La esternalizzazione come misura di razionalizzazione generale nella finanziaria 2002.

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1. INTRODUZIONE. LA GESTIONE INDIRETTA DEI BENI CULTURALI. LA

ESTERNALIZZAZIONE E LA VALORIZZAZIONE DEI BENI CULTURALI.

Il tema della gestione indiretta (o esternalizzazione dei beni culturali) è da tempo al centro di

un complesso dibattito non solo giuridico, ma anche politico e sociale. Si tratta di stabilire se e

come operare la valorizzazione, attraverso quali strumenti e con quali finalità, assicurando al tempo

stesso la tutela, la conservazione e la promozione dei beni e delle attività culturali.

Ma si tratta anche di individuare quali soggetti debbano assumere la responsabilità e la

titolarità delle relative funzioni, attuando i nuovi principi costituzionali della sussidiarietà

orizzontale e verticale, anche tenendo conto della fortissima attenzione manifestata dalle istituzioni

comunitarie (non ancora tradotta in atti normativi) nei confronti del fenomeno del “partnerariato

pubblico – privato – PPP) nell’ambito dei servizi di interesse generale, a carattere economico e non.

Al riguardo, è utile svolgere le seguenti osservazioni, richiamando il recente libro verde

della Commissione (pubblicato il 30 aprile 2004).

Il termine partenariato pubblico-privato (“PPP”) non è definito a livello comunitario. Questo

termine si riferisce in generale a forme di cooperazione tra le autorità pubbliche ed il mondo delle

imprese che mirano a garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione o la

manutenzione di un’infrastruttura o la fornitura di un servizio.

Nel corso dell’ultimo decennio, il fenomeno dei PPP si è sviluppato in molti settori

rientranti nella sfera pubblica. L’aumento del ricorso a operazioni di PPP è riconducibile a vari

fattori. In presenza delle restrizioni di bilancio cui gli Stati membri devono fare fronte, esso

risponde alla necessità di assicurare il contributo di finanziamenti privati al settore pubblico. Inoltre,

il fenomeno è spiegabile anche con la volontà di beneficiare maggiormente del “know-how” e dei

metodi di funzionamento del settore privato nel quadro della vita pubblica. Lo sviluppo dei PPP va

d’altronde inquadrato nell’evoluzione più generale del ruolo dello Stato nella sfera economica, che

passa da un ruolo d’operatore diretto ad un ruolo d’organizzatore, di regolatore e di controllore.

Ai fini dell’analisi del libro verde, si propone di tracciare una distinzione tra:

i PPP di tipo puramente contrattuale, nei il partenariato tra settore pubblico e settore privato

si fonda su legami esclusivamente convenzionali, e

i PPP di tipo istituzionalizzato, che implicano una cooperazione tra il settore pubblico ed il

settore privato in seno ad un’entità distinta.

Questa distinzione è fondata sulla constatazione che la diversità delle pratiche in materia di

PPP che si incontrano negli Stati membri può essere ricollegata a due grandi modelli. Ognuno di

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essi solleva delle questioni particolari riguardo all’applicazione del diritto comunitario degli appalti

pubblici e delle concessioni e merita un esame distinto, che sarà oggetto dei capitoli seguenti

Proprio il piano della distribuzione dell’attività tra i vari livelli di governo ha costituito,

recentemente, il profilo di maggiore attenzione per il legislatore, nell’ottica complessiva del

conferimento delle funzioni alle Regioni e agli enti locali (federalismo amministrativo attuato

mediante gli interventi legislativi di fine anni novanta) e della revisione costituzionale del Titolo

Quinto.

Il piano giuridico delle competenze normative e amministrative, poi, si interseca con la

questione cruciale della appartenenza dei beni culturali (in particolare delle istituzioni �ussali, in

concreto maggiormante interessate dalle esperienze di esternalizzazione, quanto meno con

riferimento allo svolgimento dei servizi aggiuntivi di accoglienza e di ospitalità), sempre più spesso

attribuiti a soggetti privati o a enti pubblici non statali (territoriali e non) e con la disciplina, in

rapida evoluzione (e spesso contestata) della alienazione (dismissione) dei beni pubblici a

vocazione culturale.

Ancora, non si può trascurare la rilevanza di una decisa linea di politica legislativa generale

(situata nell’ambito degli indirizzi di armonizzazione e risanamento dei bilanci), che sottolinea la

necessità di individuare, in tutti gli ambiti di intervento (anche di rilievo sociale) efficienti strumenti

di contenimento della spesa pubblica complessiva. Tra questi mezzi il legislatore delle finanziarie

degli ultimi anni indica proprio i moduli degli affidamenti a terzi (privati) di servizi o di funzioni

strumentali al perseguimento delle finalità istituzionali dei soggetti pubblici.

Nello stesso ordine di idee si colloca la tendenza a creare apposite strutture (controllate però

dall’amministrazione stessa) deputate alla gestione dei beni pubblici. L’espressione più significativa

di questo indirizzo è rappresentata dalla costituzione della “Patrimonio s.p.a.”

L’esternalizzazione, quindi, autorizzata (o spesso incoraggiata) dalle norme legislative,

diventa strumento generale di svolgimento delle funzioni, ancorché il disegno normativo di

carattere complessivo risulti ancora incompleto e in fase di costruzione.

Parallelamente, sempre in una prospettiva di carattere generale, si comincia a sviluppare il

ricorso al modulo definito come in house providing: i soggetti pubblici, per rendere più snello e

semplice lo svolgimento di alcune attività, caratterizzate da profili di specificità tecnica od

economica provvedono alla costituzione di appositi soggetti, formalmente privati, ma comunque

sottoposti ad un penetrante controllo dell’amministrazione. Sul piano giuridico ed economico, il

fenomeno è ben diverso da quello della esternalizzazione in senso stretto, perché la nuova struttura

resta sempre strettamente collegata (anzi subordinata) all’amministrazione pubblica di riferimento.

Né si realizza alcuna forma di “partnerariato” tra pubblico e privato.

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Anche in questo modulo organizzativo, però, in mancanza di una regolamentazione

esauriente e articolata, restano aperti numerosi interrogativi di qualificazione, prevalentemente

riferiti ai limiti di ammissibilità del modulo e alla compatibilità con la disciplina comunitaria.

Il tema generale della gestione ottimale dei beni e dei servizi pubblici, tuttavia, presenta

aspetti particolari quando si tratta di analizzare il settore tipico dei beni culturali. Le esigenze di

asserita maggiore efficienza della gestione affidata a terzi, si contrappongono alla necessità di

assicurare, comunque, un adeguato livello di tutela dei beni stessi.

Sul piano strettamente giuridico, si tratta di definire un quadro sistematico e complesso dei

rapporti con l’attività di valorizzazione dei beni con il disegno generale dei servizi pubblici in

ambito locale e nazionale, nonché con il modello organizzativo (in costante evoluzione) delle

amministrazioni.

La complicazione deriva anche dalla problematica definizione dei diversi livelli di governo

dei beni culturali, tanto sul piano delle funzioni amministrative, quanto sul terreno della

determinazione della potestà normativa, statale o regionale o locale.

Le difficoltà sono poi accentuate dal carattere problematico della classificazione delle

diverse attività incidenti sui beni culturali, delle loro reciproche interferenze.

Il nuovo codice è destinato a fissare alcuni punti fermi in materia, sviluppando le idee

emerse nel corso degli anni, volte ad individuare particolari modalità di collaborazione tra

amministrazioni e soggetti privati, idonee ad assicurare i risultati più proficui per la gestione dei

beni e lo svolgimento delle attività culturali.

In questa prospettiva potrebbe essere utile muovere dalla formulazione delle nuove

disposizione del codice, che riguardano direttamente l’argomento in oggetto, riferendo, nel corso

della trattazione, i collegamenti con le disposizioni che ne rappresentano l’antecedente storico.

2. LE DIVERSE IPOTESI DI ESTERNALIZZAZIONE CONOSCIUTE DALL’ORDINAMENTO.

È opportuno precisare, peraltro che il concetto di esternalizzazione non è definito in termini

generali, ma costituisce il frutto di elaborazioni (oltretutto non uniformi) della dottrina. Peraltro,

secondo una impostazione largamente diffusa, la nozione comprende diverse ipotesi, caratterizzate

da elementi distintivi piuttosto marcati.

a) Da un lato si collocano le ipotesi in cui soggetti terzi svolgono vere e proprie funzioni o

servizi inerenti la gestione del bene.

b) Dall’altro si collocano i casi in cui, in stretta connessione con la gestione del bene

culturale e con le attività istituzionale di fruizione pubblica, sono affidati all’esterno alcuni servizi

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aggiuntivi destinati all’utenza, non necessari, in linea di principio, per assicurare la piena fruizione

dei beni.

c) Ancora, si possono considerare le ipotesi in cui all’esterno sono affidate alcune attività

meramente strumentali (pulizia, vigilanza, ecc.).

Ovviamente, poi, le tre diverse ipotesi possono variamente intrecciarsi e combinarsi.

Merita di essere sottolineato, poi, che la esternalizzazione, genericamente intesa, può

descrivere, a ben vedere, tre moduli organizzativi profondamente diversi l’uno dall’altro.

I) Nel primo modulo il servizio è affidato a un soggetto privato (qualche volta anche

pubblico) del tutto estraneo all’amministrazione (concessione o contratto);

II) Nel secondo modulo, l’attività è attribuita a un soggetto formalmente distinto

(dotato di una propria struttura organizzativa, di mezzi economici e di personale), ma costituito o

partecipato interamente dalla stessa amministrazione.

III) Infine, nel terzo modulo le attività sono conferite a un soggetto terzo

(formalmente privato) che rappresenta la combinazione della partecipazione di soggetti pubblici e

privati. Ed anche in questo caso si potrebbe ulteriormente distinguere in considerazione del carattere

minoritario e maggioritario della partecipazione attribuita all’amministrazione pubblica, alla

eventuale attribuzione di particolari poteri speciali, alla presenza di altre amministrazioni espressive

di altri interessi pubblici.

3. I NODI CRITICI DELLE FORME DI ESTERNALIZZAZIONE. IL PROBLEMA DELLE FONTI. I VALORI

CONCORRENZIALI DEL MERCATO E LA SPECIFICITÀ PUBBLICA DEI BENI CULTURALI.

Il quadro sistematico delineato dalla disposizione risulta molto puntuale, almeno nella sua

impostazione di fondo. La organicità e coerenza complessiva delle regole introdotte dal legislatore

risulta particolarmente significativa, se si considera la circostanza che la norma rappresenta il

risultato di un dibattito interpretativo e di un’evoluzione legislativa molto complessa e densa di note

problematiche.

Sin d’ora, si possono indicare alcuni dei nodi più critici del tema affrontato dalla norma.

a) L’individuazione dell’effettivo spazio applicativo delle regole

sull’esternalizzazione della gestione, tenuto conto dell’ampio dibattito in corso in ordine alla

definizione dei confini delle attività di gestione e di tutela dei beni culturali. In larga misura,

l’ampio dibattito sviluppato nel vigore del testo unico n. 490/1999 e nel decreto legislativo n.

112/1998 consente di definire meglio gli ambiti della valorizzazione e della tutela. Tutto il codice,

infatti, persegue lo scopo di semplificare la classificazione delle diverse funzioni

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Si tratta di individuare i limiti giuridici dell’esternalizzazione, ma anche gli eventuali confini

tecnici, legati alla oggettiva intrasferibilità di particolari fasi o segmenti dell’attività.

La nozione di valorizzazione prescelta dal codice fa pensare ad un’attività complessa,

riconducibile allo svolgimento di un vero e proprio servizio pubblico. Ma non è chiaro se la norma

imponga necessariamente un affidamento complessivo dell’attività relativa a un bene culturale o a

un insieme di beni unitariamente considerati per i loro collegamenti oggettivi.

Una volta ammessa la frazionabilità dell’attività di valorizzazione, considerata nei suoi

diversi segmenti, occorre stabilire quale sia la natura del rapporto instaurato con il soggetto gestore.

L’opzione interpretativa più immediata è quella ricollegabile allo schema dell’affidamento di un

servizio pubblico. Ma proprio la possibilità di articolazione differenziata delle diverse funzioni

potrebbe anche condurre a ritenere che, almeno in determinati casi, si sia in presenza

dell’affidamento di un contratto di servizio.

Il punto merita di essere segnalato, considerando la particolare e ricorrente attenzione con

cui la giurisprudenza si è sforzata di precisare la differenza strutturale fra le due fattispecie, che si

riflette necessariamente anche sul regime applicabile.

b) Di riflesso, la individuazione dei limiti della competenza assegnata,

rispettivamente, alla legislazione statale, a quella regionale e all’autonomia normativa dei singoli

enti locali: il quadro definito dall’articolo 117 della Costituzione pone proprio l’accento

sull’affermata contrapposizione tra la tutela dei beni culturali e la funzione di valorizzazione, che

pure non è specificata, nei suoi precisi contenuti, nella norma costituzionale.

È probabile che la legge costituzionale n. 3/2001 abbia considerato quale punto di

riferimento della nozione la valorizzazione descritta dal decreto n. 112/1998. Peraltro, la formula

del decreto si riferiva all’assegnazione delle funzioni amministrative e, quindi, non rappresenta una

necessaria cristallizzazione del contenuto della competenza legislativa concorrente.

c) In ambito locale, il rapporto tra le regole stabilite dal codice e la disciplina dei

servizi pubblici locali, anch’essa soggetta a un processo di rapida evoluzione, manifestato dalle

successive riforme del settore.

d) Occorre verificare, allora, anche l’effettiva rilevanza di vincoli correlati al

rispetto della normativa comunitaria in materia di affidamento dei servizi e dei contratti.

L’affidamento all’esterno potrebbe essere ricollegato correttamente al tema specifico

dell’attribuzione di un appalto di servizi, oppure manifesta caratteri distintivi che giustificano una

disciplina diversa, derogatoria rispetto a quella stabilita a livello comunitario?

Indubbiamente, l’interrogativo concerne il problema di carattere orizzontale riguardante lo

spazio attribuito alle deroghe al sistema concorrenziale, giustificato dall’inerenza a particolari

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interessi pubblici. Il settore dei beni culturali rappresenta, in linea di massima, un settore nel quale

le esigenze di tipo pubblicistico potrebbero ammettere una attenuazione delle regole comunitarie.

Per altro verso, però, la logica della valorizzazione dei beni culturali, nelle forme

dell’esternalizzazione e della cooperazione pubblico-privato, spinge decisamente verso le regole del

mercato, la tutela della concorrenza e, quindi, verso l’applicazione di quei fondamentali principi

elaborati in sede comunitaria in relazione all’affidamento dei pubblici servizi.

In questa complessa cornice di riferimento, quindi, si situa la disposizione contenuta

nell’articolo 115 del codice, che pure presenta l’indubbio pregio di svilupparsi secondo una

sistematica di fondo piuttosto lineare e comprensibile.

4. LA PREVISIONE DELL’ARTICOLO 115 DEL CODICE. LE FORME DI GESTIONE DELLA

VALORIZZAZIONE. LA COLLOCAZIONE SISTEMATICA DELL’ARTICOLO 115: IL QUADRO DELLE

COMPETENZE E IL RAPPORTO CON LA VALORIZZAZIONE.

L’articolo 115 del codice dei beni culturali disciplina, in modo specifico, le forme di

gestione (secondo l’espressa formula contenuta nella rubrica), definendo, in termini generali, i

presupposti e le modalità per il ricorso alle tecniche dell’esternalizzazione.

L’indicazione normativa riguarda essenzialmente l’elencazione dei moduli offerti alle

amministrazioni per realizzare le finalità proprie della valorizzazione e della gestione efficace dei

beni culturali stessi. Dunque, il riferimento alle forme organizzative utilizzabili per l’attuazione

della valorizzazione segna una precisa distinzione dell’oggetto specifico della regolamentazione,

rispetto ai contenuti dell’attività e alle finalità perseguite. Questi aspetti sono disciplinati (con

riguardo alla enunciazione di principi regolatori del settore) in altre disposizioni.

Peraltro, i punti di contatto tra le modalità formali e i contenuti sostanziali delle funzioni

sono insopprimibili e logicamente necessari, come risulta, in fondo, dai numerosi richiami incrociati

che sono contenuti nell’uno e nell’altro gruppo di disposizioni.

Piuttosto, la distinzione concettuale tra forme e contenuti della gestione della valorizzazione

potrebbe essere estremamente utile per chiarire la portata della legislazione statale nella materia, cui

è riservata soltanto la determinazione dei principi fondamentali della disciplina.

Appare convincente l’opinione secondo cui l’indicazione delle forme generali di

svolgimento dell’attività costituisce corretta espressione di un principio, riservato, quindi, alla

legislazione statale, secondo la previsione dell’articolo 117 comma terzo della Costituzione. Infatti,

proprio mediante il riferimento ai connotati formali della funzione, si possono dettare i criteri di

base al cui interno si situa la attività svolta dai singoli soggetti pubblici, secondo principi di

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autonomia e discrezionalità, anche in attuazione degli indirizzi politici ritualmente formulati dagli

organi di governo di ciascuna amministrazione.

La normazione regionale, anche per quanto riguarda le forme di esternalizzazione delle

attività svolte dalle amministrazioni territoriali, può svilupparsi con maggiore pienezza nel settore

concernente i profili strettamente funzionali dell’attività. L’aspetto strutturale, invece, delinea lo

schema base non più plasmabile dalla legge regionale, se non per quanto riguarda singoli punti di

dettaglio, comunque collocati all’interno del quadro statale.

Si obietta, però, che, a ben vedere, le forme di gestione riguardano proprio il profilo

organizzativo delle attività, in cui dovrebbe emergere (addirittura rafforzato), quindi, anche

l’autonomia delle diverse regioni. La prospettiva viene quindi radicalmente capovolta: i principi

della legislazione statale si dovrebbero espandere proprio nella direzione sostanziale dei molteplici

contenuti della valorizzazione, lasciando alle Regioni una larga competenza attuativa nell’ambito

organizzativo, strutturale e dello spazio consentito alla esternalizzazione dei servizi.

Il punto è certamente delicato, perché investe alcuni degli interrogativi più complessi del

nuovo riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. Al riguardo, però, si possono compiere

le seguenti osservazioni, tutte convergenti nel senso di riconoscere la compatibilità costituzionale

del nuovo assetto di disciplina contenuto nel codice, proprio nella parte in cui le norme disciplinano

le modalità e le forme di gestione.

a) La struttura della norma è incentrata sulla previsione di un ventaglio molto ampio

e vario di possibilità offerte alle amministrazioni. Non sarebbe logico o pratico esaltare l’autonomia

regionale al di fuori di questo gruppo di moduli, perché occorre sempre garantire una omogeneità di

fondo degli strumenti alternativi. I vincoli e le condizioni previsti dall’art. 115 per concretizzare la

scelta non sembrano troppo stringenti o dettagliati. Quindi, la disposizione assume la connotazione

di una regola “autorizzatoria”, che non condiziona eccessivamente le autonomie territoriali.

b) La norma ha un raggio di azione estremamente ampio, che abbraccia anche le

amministrazioni statali e gli enti locali. Anzi, è agevole osservare che, sul piano meramente

quantitativo (e forse anche economico), la disciplina ha come destinatari principali proprio queste

due categorie di soggetti, oltre agli enti pubblici statali. Dunque, i profili di maggiore dettaglio

eventualmente riscontrabili nella norma devono essere riferiti direttamente solo alle

amministrazioni statali e agli enti pubblici di interesse generale, relativamente alle attività di

valorizzazione che riguardano i beni di rispettiva appartenenza. Per altro verso, con riguardo

all’incidenza sugli enti locali, la norma potrebbe trovare giustificazione nella previsione

dell’articolo 117, comma secondo, che attribuisce alla legislazione esclusiva statale la competenza

in materia di funzioni fondamentali degli enti locali.

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Per superare le obiezioni di possibile invasione delle competenze legislative statali, quindi,

potrebbe essere sufficiente interpretare la norma nel senso che eventuali disposizioni di dettaglio

rintracciabili nel codice non debbono essere applicate alle Regioni.

c) Si è ritenuto (nei primi commenti dell’articolo 115) che l’elenco delle forme di

gestione contenuto nell’articolo 115 avrebbe per le Regioni una valenza meramente esemplificativa,

consentendo, quindi, il ricorso anche a moduli ulteriori, individuati da apposita legge regionale. La

tesi non è condivisibile. L’asserita “cedevolezza” della norma codicistica potrebbe essere ammessa

solo per quanto riguarda profili di articolazione interna delle figure previste (struttura del soggetto

gestore, rapporti con l’amministrazione titolare delle attività). Non pare esservi spazio, invece, per

una disciplina del tutto sostitutiva dei principi strutturali e formali stabiliti dall’articolo 115.

d) La opinabilità del concetto di principi fondamentali della materia introdotto

dall’articolo 117 comma terzo della costituzione (come modificato dalla legge n. 3/2001) è stata più

volte sottolineata. Tuttavia, non pare contestabile che costituiscano principi generali anche quelli

riferiti alla struttura essenziale dei procedimenti (aspetto formale) e alle regole generali riferite alla

forma soggettiva in cui si articola l’attività. Potrebbero essere richiamati, in questa prospettiva, gli

orientamenti (“bipartisan”) emersi nel corso dell’esame del disegno di legge statale sulla riforma

della legge n. 241/1990, attualmente al Senato. Analogo indirizzo pare recepito nell’ambito della

normativa regionale in itinere (si veda, in particolare la bozza dello Statuto della Regione Toscana.

e) Del resto, questa affermazione trova ulteriori significative conferme negli

orientamenti della Corte costituzionale (a partire dalla sentenza n. 303/2003) che radica la

competenza legislativa in materie trasversali o di indubbia collocazione, proprio basandosi sul

principio di sussidiarietà delle funzioni amministrative, sottolineando, quindi, il rilievo di una

penetrante potestà legislativa statale collegata al tipo di funzione considerata.

f) Le regole racchiuse nell’articolo 115, in concreto, sono costruite come principi e

continua a valere il criterio generale della competenza legislativa regionale per la loro

concretizzazione.

g) Va osservato, poi, che, nell’ambito dell’articolo 115 sono previsti accuratamente

degli appositi meccanismi di raccordo, diretti a segnare la massima armonizzazione tra gli strumenti

di governo della valorizzazione culturale, collocati ai diversi livelli.

5. LA CONTRAPPOSIZIONE TRA GESTIONE DIRETTA E INDIRETTA. IL COLLEGAMENTO LIMITATO

CON LA SOLA VALORIZZAZIONE.

In primo luogo, il comma 1 dell’articolo 115 introduce una disposizione iniziale, che

presenta un duplice contenuto, pure incentrato sulla affermazione di una generale distinzione di

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fondo: “1. Le attività di valorizzazione dei beni culturali ad iniziativa pubblica sono gestite in

forma diretta o indiretta.”

La struttura schematica di questa prima proposizione normativa è molto meno scontata di

quanto potrebbe risultare ad una frettolosa lettura, ma propone subito alcuni interessanti spunti

ricostruttivi.

Anzitutto, merita di essere sottolineato che l’affidamento esterno delle attività di

valorizzazione è riferito alla gestione e non alla titolarità dell’attività, che resta imputata

all’amministrazione cui appartiene il bene (se pubblico) o cui è attribuito, in concreto, l’esercizio

delle altre funzioni di tutela del bene (se privato).

Inoltre, per evitare possibili equivoci, la disposizione definisce correttamente la funzione

come gestione della valorizzazione e non come generica gestione del bene finalizzata alla

valorizzazione del bene culturale stesso.

Anche sotto questo profilo, quindi, la disposizione precisa che si tratta dell’assegnazione di

una tipica funzione incidente sul bene culturale considerato.

In concreto, però, proprio l’organicità dell’attività di valorizzazione, così come definita dallo

stesso codice, finisce per dimostrare che la funzione racchiude una parte consistente della stessa

funzione di gestione del bene, globalmente intesa. La disciplina di dettaglio dei commi successivi al

primo chiarisce questo punto, indicando le modalità in cui l’attribuzione della facoltà di uso del

bene entra esplicitamente a far parte del modulo organizzativo, nella forma privilegiata del

conferimento in uso del bene pubblico, come modalità di esplicitare la partecipazione economica

del soggetto pubblico alla struttura del nuovo ente, costituito per la gestione della valorizzazione.

E tuttavia, nell’articolo 115, comma 1, la gradazione sistematica delle diverse funzioni

concernenti i beni culturali resta ferma, almeno come proposizione di principio.

Con questa terminologia, quindi, il legislatore sceglie una linea di decisa prudenza, che

emerge con chiarezza attraverso il raffronto con la disciplina dei servizi pubblici locali (così come

innovata nel 2001 e nel 2003), per i quali invece, l’affidamento implica proprio l’assegnazione della

titolarità del servizio al gestore.

La diversa locuzione adoperata dal legislatore non ha una valenza meramente descrittiva o

ideologica, ma si riflette anche sul piano pratico e applicativo. In sostanza, la conservazione della

titolarità della funzione in capo all’amministrazione segna comunque la riaffermazione di una

marcata e persistente responsabilità del soggetto pubblico. Ciò comporta anche l’attribuzione (o

quanto meno la giustificazione) di poteri di ingerenza più forti nella struttura organizzativa e nello

svolgimento del rapporto.

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Questa notazione, a sua volta, si sviluppa in due diverse direzioni. Da un lato, la persistente

titolarità è base idonea per regolare preventivamente e con apposite disposizioni l’affidamento

secondo moduli che specificano il preminente ruolo dell’amministrazione. Dall’altro lato, si

potrebbe anche affermare che la responsabilità della funzione di valorizzazione giustifica l’esercizio

di poteri “impliciti”, volti ad influire sullo svolgimento del rapporto con il gestore, anche in

mancanza di apposite e dettagliate previsioni contenute nell’atto di affidamento.

Il riferimento al profilo meramente gestorio dell’attività di valorizzazione, poi, sembra

evidenziare come il rapporto tra l’amministrazione e l’affidatario dell’attività resti confinato, in

larga e prevalente misura, nell’ambito di moduli pubblicistici. Quindi, i poteri esercitati,

eventualmente, dal soggetto pubblico devono essere opportunamente qualificati come esercizio di

attività amministrativa di connotazione autoritativa. Il contratto di servizio, pure previsto dallo

stesso articolo 115 presenta una connotazione meramente accessoria e subordinata rispetto al profilo

autoritativo del rapporto.

Si tratta di un aspetto piuttosto rilevante, soprattutto alla luce della recentissima decisione n.

204/2004 della Corte costituzionale, che, con una pronuncia additiva, circoscrive in modo drastico

la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di servizi pubblici. In questa

prospettiva, pur potendosi convenire con l’affermazione secondo cui la valorizzazione costituisce

un particolare e autonomo servizio pubblico, occorre compiere un ulteriore passo, diretto a precisare

che le attività dell’amministrazione incidenti sul rapporto sono comunque riconducibili, di regola, al

modulo pubblicistico dell’esercizio di un potere amministrativo.

Ulteriore spunto ricostruttivo derivante dalla norma riguarda la sua effettiva portata

precettiva. Non vi è dubbio che la disposizione presenta la finalità di regolare le modalità di

gestione, con particolare riguardo alla forma indiretta. Meno scontato è stabilire se la norma abbia

anche un ulteriore e più radicale scopo: quello di fornire la base legislativa per gli affidamenti

esterni, che, in mancanza di apposita regola dovrebbero considerarsi radicalmente preclusi.

La questione non è meramente teorica, perché si raccorda al tema generale della

eccezionalità, o meno delle tecniche di esternalizzazione. Se una apposita norma è considerata

necessaria, le regole relative vanno considerate di stretta interpretazione ed eventuali lacune

dovrebbero essere risolte senza fare ricorso all’analogia con altri specifici settori dell’ordinamento

(per esempio quello dei servizi pubblici locali).

6. LA GRADUAZIONE TRA GESTIONE INDIRETTA E DIRETTA.

Nella sua versione definitiva, l’articolo 115 ha espunto la previsione originaria diretta a

favorire (quanto meno per le amministrazioni statali) la gestione diretta. Si stabiliva che il ricorso

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alla gestione esternalizzata o indiretta fosse condizionato alla impossibilità di assicurare

diversamente un migliore livello di fruizione pubblica dei beni culturali.

Questa impostazione non è apparsa pienamente convincente anche considerando i criteri

specifici contenuti nella legge di delega. Proprio l’articolo 10, comma 2, lettera b) della legge n.

137/2002 sottolinea il rilievo delle fondazioni costituite con la partecipazione di soggetti pubblici e

privati. In modo ancora più esplicito, la delega prevede il principio direttivo della riorganizzazione

dei servizi offerti, “anche attraverso la concessione soggetti diversi dallo Stato mediante la

costituzione di fondazioni aperte alla partecipazione di regioni, enti locali, fondazioni bancarie,

soggetti pubblici e privati”.

7. LE FORME DI GESTIONE E IL CONCETTO DI VALORIZZAZIONE.

Il tema del carattere speciale e o generale delle regole riguardanti l’affidamento a terzi delle

attività di gestione e di valorizzazione dei beni culturali è però strettamente connesso alla

individuazione dell’ambito applicativo della norma.

In effetti, alla importante distinzione tra i due fondamentali tipi di gestione, si accompagna,

preventivamente, la specifica previsione riguardante l’oggetto della disciplina.

Pertanto, occorre considerare, preliminarmente, l’ambito applicativo della disposizione. Essa

non riguarda, genericamente, le diverse funzioni connesse alla gestione, all’uso e alla tutela dei beni

culturali, ma solo quelle riconducibili alla nozione più stretta di valorizzazione.

Quindi, la gestione viene intesa come attività servente alla valorizzazione, chiarendo alcuni

dubbi interpretativi sollevati dalle definizioni del d.lg. 31 marzo 1998, n. 112 in relazione all’assetto

delle competenze amministrative. In particolare, la gestione dei beni è intesa come gestione delle

attività di valorizzazione a iniziativa pubblica.

Del resto, l’articolo 115 è collocato all’interno del Capo II, espressamente riferito ai

“���ollabor della valorizzazione dei beni culturali”.

In tale contesto, l’articolo 111 definisce le attività di valorizzazione: esse “consistono nella

costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione

di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali, finalizzate all’esercizio delle funzioni ed

al perseguimento delle finalità indicate all’articolo 6.”

A sua volta, l’articolo 6, prevede che “1. La valorizzazione consiste nell’esercizio delle

funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale

e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso.

Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del

patrimonio culturale.

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La valorizzazione è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le

esigenze.

La Repubblica favorisce e sostiene la partecipazione dei soggetti privati, singoli o associati,

alla valorizzazione del patrimonio culturale.

Secondo la relazione originaria, il comma 1 definisce l’ambito della materia,

“identificandola con ogni attività che – a differenza della tutela – determini, in senso lato, effetti

ampliativi per i destinatari, essendo diretta ad incrementare la fruizione del patrimonio culturale da

parte della collettività; a migliorarne le condizioni di conservazione; a promuoverne la conoscenza”.

Tuttavia, nella versione definitiva del codice, accogliendosi i rilievi delle commissioni

parlamentari e della conferenza Stato- Regioni, è stato eliminato il riferimento all’attività di

conservazione, ritenuta più prossima alla tutela.

Evidente è stata la preoccupazione delle Regioni di delineare con maggiore precisione la

nozione centrale ai fini della determinazione delle competenze legislative.

Si tratta, quindi, di un complesso di funzioni certamente ampio e suscettibile di letture

interpretative diversificate, ma sicuramente più limitato rispetto all’ampio spettro dei vari e

molteplici compiti riguardanti i beni culturali, ma che, tuttavia, presenta una latitudine

estremamente vasta e una rilevanza pratica ed economica indiscutibile.

Per quanto rileva ai fini della disciplina delle esternalizzazioni, risulta particolarmente

importante il riferimento alla posizione di assoluta preminenza della tutela, che condiziona, in

radice, qualsiasi forma di svolgimento delle molteplici attività di valorizzazione.

Lo stesso articolo 111, comma 1, nell’ambito delle regole fondamentali riferite ala

valorizzazione, indica il principio fondamentale del ruolo di primo piano attribuito ai privati,

seppure considerato come meramente eventuale e facoltativo (ma non necessariamente

subordinato): “a tali attività possono concorrere, cooperare o partecipare soggetti privati”.

Anche sul piano dell’avvio dell’attività, si ribadisca, all’articolo 111, comma 2, il principio

della concorrenza: “2. La valorizzazione è ad iniziativa pubblica o privata.”

Per quanto riguarda, specificamente, la valorizzazione ad iniziativa pubblica, l’articolo 111,

comma 3, stabilisce che essa si conforma ai ���ollabor di libertà di partecipazione, pluralità dei

soggetti, continuità di esercizio, parità di trattamento, economicità e trasparenza della gestione.”

Nella definizione dei principi operativi, quindi, il ruolo dei privati diventa ancora più

rilevante e si manifesta attraverso le regole della libertà di partecipazione e della necessaria pluralità

dei soggetti inseriti nell’organizzazione.

Il principio, così delineato, potrebbe essere inteso, in senso restrittivo, come riconoscimento

espresso di un ruolo forte dei privati, ma anche come affermazione di una posizione suscettibile di

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positivo apprezzamento solo nell’ambito di quelle attività incidenti su beni privati. In questo senso,

quindi, la pluralità dei soggetti nel panorama dell’esercizio delle funzioni di valorizzazione presenta

una rilevanza apprezzabile, ma sembrerebbe giustificata, forse, più dalla logica complessiva della

salvaguardia degli stessi interessi proprietari e di impresa (orientati a sfruttare le potenzialità

economiche del bene), piuttosto che dal più pregnante favore per la collaborazione tra strutture

pubbliche e soggetti privati.

A ben vedere, però, l’articolo 111, comma 2, definisce il proprio oggetto in relazione alle

iniziative assunte dal soggetto pubblico, senza ulteriori specificazioni in ordine al punto di

incidenza oggettivo, riferito all’appartenenza del bene. Quindi, la regola assume un valore

programmatico di principio idoneo a riverberarsi anche sulla lettura sistematica dell’articolo 115.

Anche il criterio della parità di trattamento, fissato dall’articolo 111, comma 2, del codice,

potrebbe essere inteso, astrattamente, in senso riduttivo, come indicazione riguardante il vincolo a

garantire un’adeguata utilizzazione delle risorse, diretta a distribuire razionalmente la

valorizzazione tra beni pubblici e beni culturali privati. E anche questo significato dell’espressione è

sicuramente presente nella norma. Ma occorre considerare che la regola stabilita dalla disposizione

assume anche un senso più complessivo, riferibile non solo all’impatto oggettivo dell’attività, ma

anche all’organizzazione delle funzioni, consistenti nella valorizzazione su iniziativa pubblica.

Quindi, la parità di trattamento, introduce un principio che, almeno in parte, è riferibile alla

disciplina delle modalità di affidamento delle funzioni ai privati.

Gli altri criteri fissati dall’articolo 111, della continuità di esercizio, della economicità e

della trasparenza della gestione, pur essendo riferibili a tutte le forme di gestione, possono

evidenziare un chiaro e prevalente collegamento con i principi che governano l’affidamento dei

servizi pubblici.

Si tratta, comunque, di principi che trovano una larga elaborazione nell’ambito proprio dei

servizi pubblici. Il loro significato, ampio e “dinamico”, risulta efficacemente esplorato dalla

dottrina.

Da ultimo, l’articolo 111, comma 4, afferma che “la valorizzazione ad iniziativa privata è

attività socialmente utile e ne è riconosciuta la finalità di solidarietà sociale”. La norma assume un

indubbio risalto sistematico, sottolineando che la partecipazione dei soggetti privati si può svolgere

non solo nella fase meramente operativa della gestione, ma anche in quella della stessa iniziativa,

indipendentemente dalla circostanza che essa si rivolga, in concreto, a beni appartenenti a soggetti

privati.

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8. LA VALORIZZAZIONE COME SERVIZIO PUBBLICO: RIFLESSI SULLE MODALITÀ DI

ESTERNALIZZAZIONE.

Nella versione originaria del codice, l’articolo 117 (poi rinumerato come 111) qualificava

espressamente l’attività di valorizzazione ad iniziativa pubblica di beni culturali altrui, pubblici o

privati, come “servizio pubblico” di valorizzazione, così da estendere ad essa alcuni principi di

derivazione comunitaria (libertà di partecipazione, pluralità di soggetti, continuità di esercizio,

parità di trattamento, economicità e trasparenza della gestione).

Secondo la relazione governativa, “Da tale qualificazione si ricava, a contrario, che

l’attività di valorizzazione ad iniziativa pubblica, effettuata su beni culturali di pertinenza del

soggetto pubblico che la promuove, costituisce mera attività materiale, integrativa della funzione

istituzionale del soggetto stesso”.

Quest’ultima lettura non riesce pienamente persuasiva, anche se pare preoccupata di

connettere strettamente la valorizzazione con i compiti istituzionali dell’ente pubblico stesso, cui

pervengono i beni culturali.

Tuttavia, il riferimento alla mera materialità delle funzioni non riesce a spiegare la necessità

di individuare un’apposita struttura di carattere tecnicamente autonomo.

9. L’AMBITO SOGGETTIVO DI APPLICAZIONE DELLA NORMA.

Dunque, l’articolo 115 si colloca all’interno di questo schema generale, che individua il

ruolo delle attività di valorizzazione ad iniziativa pubblica, mediante una circostanziata attenzione

per il ruolo ampiamente ���������ussali�no�vi, propositivo e operativo, dei soggetti

privati.

In questo ambito, quindi, la disposizione si presta senz’altro ad una lettura assai ampia,

proprio per la valenza di ulteriore precisazione e sviluppo di un principio fondamentale del codice.

Coerentemente con questa impostazione, la norma è formulata in modo da prevedere uno

spazio applicativo generalizzato sul piano soggettivo, riguardante tutte le amministrazioni

pubbliche. Anzi, a stretto rigore, poiché il discrimine riguarda l’iniziativa di valorizzazione e non

l’appartenenza dei beni culturali, si potrebbe forse ipotizzare che la norma si possa applicare anche

ad attività di valorizzazione compiute dalle pubbliche amministrazioni su beni di proprietà privata.

In tal caso, però, le possibili interferenze tra tutela e valorizzazione potrebbero risultare,

concretamente, molto più evidenti e problematiche. Le difficoltà applicative, però, sono

riconducibili al punto preliminare, riferito alla corretta individuazione della nozione di

valorizzazione. Non sembra possibile, invece, una radicale preclusione alla operatività della norma

incentrata sulla natura oggettiva dei beni interessati dalla valorizzazione stessa.

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Senza considerare, poi, che questa particolare ipotesi forma comunque oggetto di una

puntuale e specifica disciplina, incentrata sulla marcata preferenza per moduli di collaborazione

consensuale fra soggetti pubblici e privati.

Peraltro, nonostante la evidente chiarezza della formula utilizzata dalla disposizione e la

indiscutibile coerenza sistematica con i principi cardine espressi dall’articolo 111, l’ambito

soggettivo di operatività della norma potrebbe suscitare alcuni dubbi interpretativi.

Il punto più delicato posto dall’articolo 115, comunque, riguarda l’applicabilità della norma

alle Regioni e agli enti locali, oltre che ad altri enti pubblici inquadrabili nella sfera strutturale degli

apparati regionali e locali.

Sul piano empirico, si deve osservare che la norma ha formato oggetto di una valutazione

sostanzialmente concordata tra i diversi soggetti coinvolti e, quindi, è plausibile ritenere che essa

non formerà oggetto di contestazioni regionali o degli enti locali. Indipendentemente dai suoi

contenuti, quindi, la disposizione non nasce come tentativo di statizzazione ulteriori di funzioni o di

competenze statali e, quindi, potrebbe essere plausibile ipotizzare che essa non formi oggetto di

contestazioni approfondite da parte delle amministrazioni non statali.

Ora, del nuovo assetto costituzionale in materia sono noti i tratti caratteristici. La riforma del

Titolo V (art. 117, commi 2 e 3) ha ripartito nelle due aree funzionali della tutela e della

valorizzazione la materia dei beni culturali e ambientali, attribuendo la prima alla competenza

legislativa esclusiva dello stato, la seconda alla competenza legislativa concorrente di stato e

regioni.

E adesso il nuovo art. 3 e il nuovo art. 6 del Codice definiscono rispettivamente gli ambiti

delle due aree funzionali, in parte riallacciandosi alle definizioni già contenute nell’art. 148 del d.lg.

112/1998 (ora abrogato dall’art. 184 del Codice) alle lett. c) ed e), in parte superandole, così da far

rientrare nella tutela il complesso delle attività e delle funzioni dirette a garantire l’individuazione,

la conoscenza, la protezione e la conservazione del patrimonio culturale, nonché a regolare e a

conformare i diritti e i comportamenti ad esso inerenti: identificando in breve nella tutela non solo

tutto ciò che è regolazione e amministrazione giuridica dei beni culturali, ma anche ciò che è

intervento operativo di protezione e difesa dei beni stessi (come conferma ora anche la recente

sentenza Corte cost. 18 dicembre-13 gennaio 2004, n. 9). Per converso, l’art. 6 fa rientrare nella

valorizzazione il complesso delle attività di intervento integrativo e migliorativo ulteriore

finalizzate alla fruizione pubblica dei beni: conferendo quindi alla valorizzazione una posizione

complementare se non ancillare rispetto alle funzioni di tutela, talché l’art. 6, comma 2, prevede che

la valorizzazione possa avvenire solo in forme compatibili con la tutela e comunque tali da non

pregiudicare le esigenze della stessa.

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Sulla base di questa summa divisio, che supera fra l’altro la tripartizione dell’art. 148 del

d.lg. 112 cit. fra tutela, valorizzazione e gestione, il Codice detta poi, da un lato, tutta la disciplina

legislativa delle funzioni di tutela nel presupposto della competenza legislativa esclusiva dello stato

al riguardo e, dall’altro, i principi fondamentali da osservarsi nella disciplina legislativa della

valorizzazione da parte delle regioni in quanto oggetto di competenza legislativa concorrente.

Si deve osservare, comunque, che l’articolo si limita a fissare delle regole generali,

suscettibili di essere specificate con apposite disposizioni adottate, rispettivamente, dallo Stato,

dalle Regioni e dagli stessi enti locali.

Proprio il codice afferma in modo esplicito che le disposizioni in materia di valorizzazione

assumono la connotazione di norme di principio, come previsto dall’articolo 117, comma terzo,

della Costituzione, suscettibili di attuazione e di sviluppo in sede di legislazione regionale di

dettaglio.

Inoltre, la norma ha l’indubbio pregio di caratterizzarsi per la previsione di un’ampia gamma

di strumenti operativi per la valorizzazione che, finisce, in ultima analisi, proprio per esaltare il

principio di autonomia della singola amministrazione. Questa può scegliere tra diverse ipotesi

strutturali, ritenute, di volta in volta, maggiormente congeniali all’attività considerata,

all’organizzazione degli uffici, alla disponibilità di risorse finanziarie ed umane, alla redditività

delle attività.

Le alternative previste rappresentano certamente principi generali della materia e non

parrebbe consentito alle Regioni, in sede legislativa, di restringere lo spazio operativo dei diversi

moduli, prevedendo presupposti più rigorosi, o comunque tali da restringere oltre ogni ragionevole

giustificazione le opzioni delle amministrazioni.

Per altro verso, non sembra consentito alle regioni nemmeno l’incremento delle ipotesi

previste dall’articolo 115, trattandosi di schemi scelti proprio allo scopo di delineare modalità

omogenee su tutto il territorio nazionale.

Lo spazio della legislazione regionale, quindi, non risulta particolarmente ampio, né

qualitativamente significativo.

È appena il caso di osservare che, in questa materia, considerando l’espressa previsione

dell’articolo 117, comma terzo, in materia di valorizzazione dei beni culturali, non sembra

revocabile in dubbio la competenza legislativa statale a fissare i principi del settore. Non hanno

ragione di essere, quindi, gli stessi dubbi prospettati (dalle Regioni) in riferimento alla legittimità

costituzionale degli interventi legislativi statali in materia (generale) di servizi pubblici locali.

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Il dibattito che si è sviluppato in relazione a quel problema, tuttavia, non è affatto irrilevante.

Infatti, l’affermazione di una competenza legislativa esclusiva statale nel settore dei servizi pubblici

locali, ancorata alla tutela della concorrenza, alla disciplina dell’ordinamento civile, all’attuazione

del diritto comunitario, alla definizione delle funzioni fondamentali degli enti locali e alla

determinazione dei livelli minimi delle prestazioni sociali, se compiutamente dimostrata, potrebbe

giustificare un intervento legislativo più incisivo nel settore.

In una prospettiva di più vasto respiro, poi, si tratta comunque di stabilire quale sia la

nozione di principi della materia considerata dal legislatore costituzionale nell’articolo 117.

Si potrebbe replicare, tuttavia, che la disposizione non si limita ad offrire un catalogo di

ipotesi strutturali alternative, ma fissa anche alcuni vincoli, segnando limiti apprezzabili

all’autonomia legislativa e normativa delle amministrazioni non statali.

Ma anche questa obiezione non appare insuperabile, tenuto conto del significato effettivo

dei vincoli previsti dall’articolo, i quali sembrano esprimere, in sostanza, la codificazione di criteri e

principi generali di razionalizzazione dell’attività amministrativa, ripetutamente espressi anche dalla

giurisprudenza amministrativa.

Ad ogni modo, per verificare l’effettivo impatto dell’articolo in esame sul riparto delle

competenze normative disegnato dall’articolo 117 e 118 della Costituzione, potrebbe essere

opportuno completare l’analisi delle diverse prescrizioni racchiuse nella disposizione.

10. LA POSSIBILE SEGMENTAZIONE DELLE DIVERSE ATTIVITÀ DI VALORIZZAZIONE: RIFLESSI

SULLA GESTIONE INDIRETTA.

La disposizione non impedisce, a priori, di articolare l’organizzazione delle diverse attività

di valorizzazione svolta dallo stesso ente secondo modalità e forme differenziate. Ciò è plausibile in

relazione alle strutture più complesse e articolate, nelle quali i programmi di valorizzazione possono

esigere anche moduli distinti. La pluralità delle forme, astrattamente, può riguardare tutte le diverse

possibili combinazioni organizzative.

Quindi, anche la stessa misura della esternalizzazione deve determinarsi in funzione della

specifica realtà considerata, in applicazione dei criteri fissati dallo stesso articolo 115.

Adeguatezza e proporzionalità, come formulati dall’articolo 118 della Costituzione.

Resta fermo il limite generale della razionalità e della congruenza delle opzioni

organizzative compiute dall’amministrazione. Queste non possono portare ad una frantumazione

radicale dell’attività del soggetto considerato.

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I limiti insuperabili della esternalizzazione.

Un ulteriore profilo da considerare riguarda la definizione della struttura organizzativa del

soggetto pubblico, in funzione delle scelte che conducono alla gestione indiretta. L’articolo 115 non

tocca espressamente questo aspetto. Ma è possibile fornire una indicazione di massima. Per quanto

accentuata (o estrema) risulti, in concreto, la scelta dell’amministrazione nel senso

dell’esternalizzazione, questa riguarda, propriamente, solo la gestione, intesa in senso corretto,

come esecuzione delle politiche di valorizzazione definite dal soggetto pubblico, attraverso le

modalità previste per la formazione dei processi decisionali.

Quindi, resta all’interno della struttura dell’ente l’organizzazione delle attività strumentali,

connesse, in generale alle politiche dei beni culturali. In questa prospettiva, spetta all’autonomia

normativa, regolamentare o statutaria, dell’ente, la individuazione di apposite strutture deputate alle

verifiche e ai controlli (se non alla gestione) incidenti sulle attività di valorizzazione.

Resta fermo, poi, che, nella creazione di tali uffici andranno sempre rispettati i principi

generali di distinzione tra funzione di indirizzo politico e titolarità dei poteri amministrativi di

gestione. Tuttavia, anche nelle ipotesi di esternalizzazione integrale delle attività di valorizzazione, i

compiti dell’amministrazione non sembrano riducibili alla mera direttiva programmatica di valenza

politico-generale. Da qui nasce l’esigenza di assicurare comunque la creazione di una struttura

organizzativa interna, per quanto snella, in grado di dialogare con l’affidatario dell’attività.

Il comma 3 dell’articolo 114, chiarisce, poi, che, in ogni caso, “I soggetti che, ai sensi

dell’articolo 115, hanno la gestione delle attività di valorizzazione sono tenuti ad assicurare il

rispetto dei livelli adottati.”

La disposizione è costruita in modo tale da prevedere che non si tratta di clausole

automaticamente inserite nella disciplina di settore, ma di disposizioni che devono essere recepite

da ciascuna amministrazione, attraverso gli strumenti normativi di competenza.

11. LE REGOLE ESSENZIALI RIGUARDANTI LA GESTIONE IN FORMA DIRETTA: I RIFLESSI SUI

PRINCIPI DELLA VALORIZZAZIONE AFFIDATA ALL’ESTERNO.

Il comma 2 dell’articolo 115 definisce la prima semplice regola riguardante la gestione in

forma diretta: essa è svolta, comunque, per mezzo di strutture organizzative interne alle

amministrazioni, dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e

provviste di idoneo personale tecnico.

In tal modo, è definito uno standard organizzativo minimo, nel quale assume rilievo

determinante il riferimento al criterio dell’autonomia e al parametro flessibile dell’adeguatezza. Si

tratta di un’indicazione molto importante, perché sembra giustificare sistematicamente,

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anticipandola, l’impostazione sviluppata analiticamente nei commi successivi, riguardanti proprio la

gestione in forma indiretta.

In sostanza, anche la gestione diretta si connota, all’interno della struttura pubblica, per un

rilevante e insopprimibile tasso di distinzione strutturale e operativa rispetto alla ordinaria

articolazione organizzativa del soggetto, riguardante tutti gli aspetti di tale riconosciuta autonomia,

compresi quelli relativi al personale tecnico. Il valore di indicazione generale (ma non meramente

programmatica) della norma spiega il riferimento a formulazioni basate su criteri relativistici e

flessibili: si pensi all’insistenza della disposizione su aggettivi quali “adeguato”, “idoneo”, ecc., che

percorrono, trasversalmente, l’intero articolo.

Anche nella prospettiva dello schema originario del codice, quindi, che prevedeva

l’esternalizzazione come ipotesi residuale, vi è una idea di fondo connessa alla necessità di isolare

nettamente la funzione di valorizzazione all’interno della struttura amministrativa.

Si potrebbe anche ritenere che il requisito della autonomia strutturale possa essere realizzato

mediante una puntuale applicazione dell’articolo 4 della legge n. 241/1990, in forza del quale ogni

amministrazione deve individuare le unità organizzative responsabili di ciascun tipo di

procedimento (accorpati in relazione alla unitaria funzione di valorizzazione).

Il riferimento al profilo strettamente organizzativo (strutturale e funzionale) dell’ente

propone qualche interessante problema di coordinamento con le regole contenute nel testo unico del

pubblico impiego e nel testo unico degli enti locali.

Il criterio indicato dall’articolo 115, infatti, deve essere letto in stretta connessione con i

principi racchiusi nelle norme che, in maniera più organica e completa, delineano l’assetto

organizzativo di ciascuna amministrazione.

In sostanza, proprio la riconduzione delle regole sulla struttura degli enti a un settore diverso

(ancorché limitrofo) rispetto a quello della valorizzazione dei beni culturali dovrebbe suggerire una

certa cautela nella definizione dei poteri legislativi delle Regioni. L’autonomia organizzativa degli

enti locali deve essere comunque preservata. Mentre dovrebbe spettare ancora allo Stato il potere

normativo (esclusivo) concernente la definizione dei principi strutturali degli enti locali.

Però, l’intento della norma è sufficientemente chiaro. La gestione dei beni culturali deve

essere contrassegnata da un livello minimo di differenziazione strutturale e operativa rispetto

all’appartato tradizionale. Dunque, proprio partendo da questa affermazione di principio, si

comprende come l’esternalizzazione non sia affatto un’eventualità eccezionale, rispetto al sistema,

ma costituisce il coerente sviluppo di un’impostazione complessiva del sistema.

E poiché l’autonomia si accompagna ad un’attenzione spiccata per la qualificazione

scientifica e tecnica del soggetto, si deve ritenere che la norma non determina un favore per le sole

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esternalizzazioni a strutture sostanzialmente controllate dal soggetto pubblico (affidamenti in house,

secondo i criteri enunciati dalla giurisprudenza comunitaria), ma riconosce anche l’utilità e la

funzionalità di affidamenti a soggetti sostanzialmente privati, purché in possesso di adeguati

requisiti di qualificazione.

12. IL RISPETTO DEGLI STANDARD MINIMI DELL’ATTIVITÀ DI VALORIZZAZIONE.

Si deve sottolineare, poi, che, secondo l’articolo 113, ogni attività di valorizzazione deve

svolgersi nel rispetto di standard qualitativi predefiniti.

“1. Il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali, anche con il concorso delle

università, fissano i livelli uniformi di qualità della valorizzazione e ne curano l’aggiornamento

periodico.

2. I livelli di cui al comma 1 sono adottati con decreto del Ministro previa intesa in sede di

Conferenza unificata.”

L’indicazione riferita ai livelli minimi di qualità della valorizzazione dovrebbe riguardare

essenzialmente i contenuti e gli obiettivi della valorizzazione. Tuttavia non sembra possibile

escludere a priori anche una connessione con le modalità strutturali di organizzazione della

gestione.

L’adozione degli standard attraverso un procedimento concertativi tra Stato, Regioni ed enti

locali dovrebbe garantire da soluzioni per un verso troppo accentrate nello Stato o, per l’altro, volte

ad accentuare, oltre ogni ragionevole giustificazione, un’esasperata differenziazione fra gli enti

locali e regionali.

13. I MEZZI ALTERNATIVI DELLA GESTIONE INDIRETTA.

A tale proposito, il comma 3 prevede che la gestione in forma indiretta, a sua volta, è attuata

tramite due mezzi alternativi:

“a) affidamento diretto a istituzioni, fondazioni, associazioni, consorzi, società di capitali o

altri soggetti, costituiti o partecipati, in misura prevalente, dall’amministrazione pubblica cui i beni

������ussali�no;

b) concessione a terzi, in base ai criteri indicati ai commi 4 e 5.”

La prima ipotesi riguarda la creazione di strutture miste pubblico-privato.

Si deve osservare, in linea preliminare, che la norma fa esplicito riferimento alla circostanza

dell’appartenenza pubblica del bene. La formula legislativa, quindi, muove dal presupposto che

l’articolo 115 riguarda sì l’attività di valorizzazione di iniziativa pubblica in senso ampio, ma

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assume quale concreto oggetto la funzione di valorizzazione correlata all’uso dei beni di

appartenenza pubblica.

Secondo questa prospettiva, pertanto, si realizza un più intenso collegamento tra l’attività di

valorizzazione e quella di gestione, che trova riscontro anche nei successivi commi dello stesso

articolo 115, specie nella parte in cui la concessione della funzione di gestione e di valorizzazione si

accompagna all’attribuzione dell’uso del bene.

Ciò posto, occorre considerare che, mediante la previsione della lettera a) si utilizza uno

schema ampiamente collaudato, nelle sue linee di fondo, specie nell’esperienza dei servizi pubblici

locali.

Peraltro, la disposizione presenta alcuni aspetti particolari.

Il soggetto cui affidare l’attività può presentare fisionomia molto diversificata: i tipi di

soggetto considerati, infatti, sono elencati solo in modo esemplificativo. La gamma tipologica

fissata dalla norma si chiude con un generico riferimento ad altri soggetti, che non pone alcuno

specifico vincolo strutturale, salva la verifica concreta della idoneità della struttura soggettiva

prescelta. In questa valutazione, peraltro, l’attenzione andrà concentrata essenzialmente sulla

capacità tecnica e scientifica del soggetto, piuttosto che sul dato formale soggettivo.

L’ampiezza delle diverse tipologie strutturali richiamate dalla disposizione si manifesta

anche sotto diverso profilo. Infatti, non è previsto nemmeno il vincolo della personalità giuridica.

D’altro canto, la concreta adeguatezza delle modalità strutturali della esternalizzazione non pare

vincolata in termini significativi dalla presenza della nota distintiva dell’autonomia patrimoniale

perfetta.

Resta da chiedersi, tuttavia, se la scelta della forma giuridica debba rispondere a criteri di

adeguatezza e ragionevolezza, correlati alle specifiche funzioni concretamente attribuite al soggetto

esterno.

D’altro canto, il tipo di soggetto non è affatto indifferente o neutrale, ove si consideri che lo

schema societario potrebbe mettere in luce la vocazione prevalentemente economica della nuova

struttura, mentre l’associazione o la fondazione sottolinea, forse, le diverse finalità non lucrative

dell’ente. Inoltre, le regole interne e la disciplina dell’attività del soggetto possono essere

profondamente condizionate proprio dalla scelta del tipo associativo o societario.

Concretamente, quindi, si tratterà di valutare se, insieme ad altri criteri pure indicati

dall’articolo 115, i provvedimenti con cui l’amministrazione dà vita all’affidamento esterno non

debbano essere sorretti da un’adeguata motivazione che dia conto delle ricadute operative del

modulo prescelto.

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Un’esigenza generale di razionalizzazione e di trasparenza induce a ritenere necessaria una

espressione completa degli elementi valutati dall’amministrazione, finalizzata ad un controllo anche

di tipo lato sensu politico sulle opzioni compiute.

Si deve considerare, comunque, che, allo stato, il giudice amministrativo appare poco

propenso ad imporre un generalizzato e approfondito obbligo di motivazione per gli atti

organizzativi in materia di servizi pubblici (specie locali). Alla base di questo orientamento si pone

la tesi secondo cui la norma si limita ad affidare agli enti una pluralità di strumenti sostanzialmente

equivalenti. La scelta tra questi non assumerebbe valenza discrezionale, ma rifletterebbe

impostazioni di tipo politico, apprezzabili esclusivamente in quel contesto, senza possibilità di

contestazione in sede di impugnazione per motivi di legittimità. Solo particolari circostanze

concrete, valutabili di volta in volta potrebbero imporre specifici obblighi di motivazione.

I casi più rilevanti sono quelli delle modifiche di assetti organizzativi preesistenti. Si

dovrebbero considerare, poi, le ipotesi in cui siano emersi concreti affidamenti dei soggetti coinvolti

nell’attività.

Si potrebbe prospettare poi, un problema di carattere generale: potrebbe ammettersi

nell’attuale contesto normativo un affidamento di servizi contrassegnato dalla iniziativa del privato,

ossia una sorta di project finance per la gestione dei servizi culturali?

Allo stato, sembra che questa possibilità sia ammissibile nei soli limiti previsti dalla legge n.

109/1994 (disciplina del promotore), ossia quando la gestione dei servizi culturali si accompagna

alla realizzazione di un’opera.

14. IL REQUISITO DELLA PARTECIPAZIONE PREVALENTE PUBBLICA.

Sul piano letterale, la norma impone il criterio della prevalenza dell’amministrazione

pubblica cui competono i beni. Questa deve partecipare al soggetto affidatario delle funzioni in

modo prevalente.

La ratio della disposizione è piuttosto chiara. L’esternalizzazione operata in questa forma

deve conservare il ruolo preponderante dell’amministrazione pubblica, pur riconoscendosi il rilievo

della collaborazione con i soggetti privati.

Ne deriva, quindi, che la prevalenza dell’amministrazione non potrebbe essere affermata

mediante il riferimento ad altri soggetti pubblici che partecipino comunque all’ente. In questa parte,

quindi, la norma utilizza una dizione non coincidente con altre (relative al settore dei servizi

pubblici locali) che fanno riferimento, in modo più ampio, alla prevalenza pubblica.

In tal modo si fissano limiti molto rigorosi sia alla possibilità di stabilire forme di

collaborazione pubblica all’interno della stessa struttura, sia alla possibilità di determinare la

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partecipazione attraverso un’azienda pubblica o una società di servizi della stessa amministrazione

(partecipazione indiretta).

Si tratta di una scelta legislativa giustificabile sul piano razionale dall’esigenza di mantenere

non solo una generica prevalenza del comparto pubblico, ma uno specifico controllo da parte del

soggetto pubblico titolare del bene e, quindi, maggiormente interessato alla corretta gestione del

bene stesso.

Anche sulla base di questa ratio, quindi, si deve ritenere che il concetto di prevalenza debba

essere inteso in senso assoluto e non meramente relativo. La partecipazione dell’ente deve essere

superiore alla metà e, comunque, deve essere sempre caratterizzata da meccanismi idonei ad

assicurare un effettivo controllo sull’ente (non necessariamente coincidente con i requisiti tipici

dell’affidamento in house), anche prescindendo dalle clausole dell’atto che regola i rapporti tra

l’amministrazione e il soggetto affidatario. Quindi, non rientra nel diretto campo di applicazione

della norma l’ipotesi di una partecipazione solo relativamente prevalente dell’amministrazione,

anche se, in concreto, la dispersione delle altre partecipazioni possa assicurare un controllo

penetrante sull’ente, eventualmente anche sulla base di particolari meccanismi, quali clausole di

golden share, accordi con le altre amministrazioni partecipanti, previsioni contenute nell’atto di

affidamento.

La perentorietà della regola potrebbe apparire eccessiva, considerando anche la varietà dei

casi considerati. Si pensi all’ipotesi in cui la partecipazione di soggetti pubblici sia addirittura

totalitaria, oppure si preveda, accanto a una rilevante (ma non prevalente) partecipazione dell’ente

titolare dei beni quella di altri soggetti pubblici dotati di competenze istituzionali in materia (quali

lo stesso Ministero dei beni culturali).

Altre ipotesi potrebbero essere risolte secondo criteri di interpretazione sistematica. Si pensi

all’ipotesi in cui due enti locali intendano affidare la gestione integrata delle funzioni di gestione dei

rispettivi beni a un apposito ente con la partecipazione privata. In tal caso, il criterio della

prevalenza potrebbe ritenersi soddisfatto mediante la sommatoria delle partecipazioni dei due

soggetti pubblici. Altrimenti, occorrerebbe imporre la soluzione, tecnicamente ed economicamente

più costosa, della preventiva istituzione di un consorzio, seguita dall’affidamento ad un soggetto

terzo.

Per le strutture soggettive a prevalente partecipazione pubblica, ma che non soddisfano il

requisito imposto dalla lettera a) resta aperta la sola strada della concessione a “terzi” di cui alla

lettera b).

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15. IL PROBLEMA DELL’AFFIDAMENTO DIRETTO DELLA GESTIONE SENZA GARA.

La legge, alla lettera a), prevede sostanzialmente, una fattispecie di affidamento diretto

senza gara, solo condizionata dalla preventiva valutazione (nei ristrettissimi limiti sopra menzionati)

della adeguatezza del modulo di gestione ritenuto preferibile dall’amministrazione.

In questa parte, mancando altre indicazioni, la norma suscita due problemi di non immediata

soluzione.

Il primo aspetto riguarda la legittimità comunitaria di un affidamento realizzato senza gara

ad un soggetto pubblico. Si propone, in sostanza, il delicato tema dei limiti dell’affidamento in

house, alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza comunitaria e delle indicazioni (anche

recentissime) provenienti dal legislatore interno e dalla giurisprudenza amministrativa, sviluppatasi

essenzialmente nell’ambito della materia dei servizi pubblici locali.

L’articolo 115 non si fa espressamente carico del problema, probabilmente muovendo da un

duplice presupposto:

a) la disciplina dell’affidamento della gestione o della valorizzazione dei beni

culturali è speciale e autonoma rispetto alle regole stabilite per i servizi pubblici locali; ne deriva

l’inapplicabilità diretta delle nuove regole che hanno dimensionato l’ambito applicativo degli

affidamenti in house;

b) in ogni caso, la peculiarità del settore culturale consente una maggiore estensione

degli affidamenti diretti, non limitati alle previsioni elaborate dalla giurisprudenza comunitaria.

Il ragionamento sotteso alla scelta legislativa è largamente condivisibile, almeno con

riguardo alla prima proposizione. Proprio gli articoli 113 e 113 bis contengono espresse

disposizioni di salvezza delle norme riguardanti settori speciali.

La seconda parte della tesi è meno persuasiva. Essa si basa sulla convinzione che le attività

di valorizzazione e di gestione pongono in luce aspetti di rilevanza pubblicistica (sociale e

solidaristica) assolutamente prevalenti sulla connotazione economica dell’attività, sfuggendo,

quindi all’applicazione delle regole e dei principi comunitari in materia di servizi pubblici e di

concessioni.

D’altro lato, poi, proprio i principi concorrenziali espressi dalla lettera b) dell’articolo 115

inducono a ritenere che potrebbero esistere limiti generali agli affidamenti diretti.

La difficoltà deriva anche dalla circostanza che, come si è visto, il concetto di valorizzazione

presente un’ampiezza notevole e, in concreto, potrebbe riferirsi ad attività di contenuto molto

diversificato, anche in rapporto alla connotazione economica o alla effettiva rilevanza di altri profili

strettamente pubblicistici. Senza considerare, poi, la particolarità dell’ipotesi in cui l’affidamento

della gestione è accompagnato all’affidamento dell’uso del bene.

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16. LE MODALITÀ DI SCELTA DEL PARTNER PRIVATO.

Il secondo aspetto critico posto dalla norma riguarda le modalità di scelta del partner

privato.

Il silenzio della legge potrebbe essere verosimilmente inteso nel senso che non sussistono

vincoli procedimentali particolari e non esiste alcun obbligo di procedere secondo modalità selettive

di carattere concorsuale.

Secondo questa discutibile prospettiva, le motivazioni sono sostanzialmente corrispondenti a

quelle appena esposte per delineare l’ampiezza del ricorso agli affidamenti diretti: la specialità del

settore e la clausola di espressa salvezza contenuta negli articoli 113 e 113-bis impediscono

l’applicazione dei rigorosi principi espressi nell’ambito dei servizi pubblici locali.

La formula prevista dalla lettera a), invece, risulta molto più chiara ed univoca in relazione

ad un diverso profilo. Essa non lascia alcuno spazio per l’affidamento diretto a soggetti partecipati

in modo prevalente da privati.

In ipotesi di tal genere, l’affidamento eventuale dovrebbe essere svolto secondo le modalità

descritte alla lettera b), ossia attraverso un’apposita concessione, anche nelle ipotesi in cui

l’amministrazione abbia ritenuto di procedere ad una preventiva selezione del soggetto privato.

Ci si deve domandare, tuttavia, se non sia possibile ipotizzare la costituzione di una società

mista a partecipazione minoritaria pubblica e con durata e compiti rigorosamente predefiniti, in cui

il socio privato sia scelto secondo modalità concorsuali sostanzialmente corrispondenti a quelle

previste dallo stesso articolo 115 per l’affidamento delle concessioni.

Per quanto riguarda le modalità di scelta del socio, si potrebbero ritenere applicabili, in via

analogica le regole previste per le società mista in ambito locale.

Oppure, dovrebbero trovare applicazione i generali principi comunitari in materia di

concessione di servizi di interesse generale.

Va comunque segnalato come si vada diffondendo, in ambito comunitario il moderno

criterio selettivo del dialogo competitivo. Rispetto alle procedure ristrette e all’appalto concorso, il

metodo previsto valorizza sensibilmente le iniziative del soggetto privato.

“Le nuove direttive del Parlamento europeo e del Consiglio volte a modernizzare e

semplificare il quadro legislativo comunitario instaurano una procedura d’attribuzione innovativa,

elaborata espressamente per rispondere alle specificità dell’aggiudicazione di ‘contratti d’appalto

particolarmente complessi, e dunque di alcune forme di PPP. Questa nuova procedura, denominata

“dialogo competitivo”, permette alle autorità pubbliche di discutere con le imprese candidate al fine

di individuare le soluzioni suscettibili di rispondere alle loro necessità.

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In seguito all’adozione della direttiva 2004/18/CE, una nuova procedura detta di “dialogo

competitivo” può essere applicata in occasione della conclusione di contratti d’appalto

particolarmente complessi. La procedura di dialogo competitivo può essere lanciata nei casi in cui

l’organismo aggiudicatore non sia obiettivamente in grado di definire i mezzi tecnici che possono

rispondere alle proprie necessità ed ai propri obiettivi, nonché nei casi in cui l’organismo

aggiudicatore non sia obiettivamente in grado di stabilire le operazioni giuridiche e/o finanziarie

proprie di un progetto. Questa nuova procedura permetterà agli organismi aggiudicatori di

instaurare un dialogo con i candidati incentrato sullo sviluppo di soluzioni atte a rispondere a queste

necessità. Al termine di questo dialogo i candidati saranno invitati a consegnare la loro offerta finale

sulla base della/delle soluzione/i individuata/e nel corso del dialogo. Tali offerte devono

comprendere tutti gli elementi richiesti e necessari per la realizzazione del progetto. Gli organismi

aggiudicatori valutano le offerte in funzione di criteri d’attribuzione prestabiliti. L’offerente che ha

consegnato l’offerta economicamente più vantaggiosa può essere invitato a chiarire alcuni aspetti

della sua offerta od a confermare gli impegni in essa contenuti, a condizione che ciò non comporti

una modifica degli elementi decisivi dell’offerta o della gara d’appalto, una distorsione della

concorrenza o delle discriminazioni.

La procedura di dialogo competitivo dovrebbe permettere di garantire la flessibilità

necessaria alle discussioni con i candidati di tutti gli aspetti del contratto in occasione della fase di

attuazione , pur facendo in modo che queste discussioni siano condotte nel rispetto dei principi di

trasparenza e di parità di trattamento, e non mettano a rischio i diritti che il Trattato conferisce agli

operatori economici. Essa si basa sul concetto che i metodi strutturati di selezione devono essere

salvaguardati in qualsiasi occasione, poiché contribuiscono a garantire l’obiettività e l’integrità della

procedura sfociante nella scelta di un operatore. Ciò garantisce il buon utilizzo del denaro pubblico,

diminuisce i rischi di pratiche poco trasparenti e rafforza la sicurezza giuridica necessaria

all’attuazione di tali progetti.

D’altra parte, occorre sottolineare che, in virtù delle nuove direttive, per gli organismi

aggiudicatori aumenta l’interesse a formulare le specifiche tecniche in termini di prestazioni o di

esigenze funzionali. Nuove disposizioni permetteranno così agli organismi aggiudicatori di

aumentare le possibilità di tenere conto di soluzioni innovative in occasione della fase

d’aggiudicazione, indipendentemente dalla procedura adottata”.

17. LA SOCIETÀ O DELL’ENTE INTERAMENTE PARTECIPATO DALL’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA.

La formula legislativa dell’articolo 115, poi, non contempla espressamente l’ipotesi della

società o dell’ente interamente partecipato dall’amministrazione pubblica.

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La lacuna normativa non può essere sopravvalutata. È evidente che, in tal caso, siamo in

presenza non già di una gestione esterna dell’attività, ma di una modalità organizzativa finalizzata

comunque ad assicurare un incisivo e costante controllo pubblico sullo svolgimento dell’attività.

Dunque, non può seriamente dubitarsi della legittimità di una gestione attuata mediante il

conferimento dell’attività ad un soggetto integralmente partecipato dall’ente pubblico cui

���ussali�no i beni oggetto di valorizzazione.

Ci si deve chiedere, però, quale sia la qualificazione di tale fattispecie. La tesi preferibile è

che, in tal caso, si sia in presenza di una gestione diretta, quanto meno nelle ipotesi in cui sia

possibile affermare l’esistenza congiunta degli altri presupposti tipici dell’affidamento in house.

La conclusione non è priva di conseguenze, tenendo conto della gerarchia prevista dallo

stesso articolo 115, in rapporto alla diverse forme di gestione e ai correlati obblighi di motivazione

che gravano sull’amministrazione.

Se si segue questa tesi, poi, si dovrebbe affrontare anche l’ulteriore problema riguardante la

necessità di una partecipazione minima del privato nell’ente. La norma non lo prevede, ma sembra

ammissibile una disciplina regionale in tal senso (sulla falsariga di quanto stabilito da alcune leggi

regionali, come quella della Toscana, in materia di servizi pubblici).

In ogni caso, anche una partecipazione irrisoria o meramente simbolica dei soggetti privati

potrebbe rendere palese l’intrinseca natura della gestione, riconducibile al modulo della gestione

diretta.

18. I PRESUPPOSTI GENERALI PER L’UTILIZZO DEI MODULI GESTIONALI INDIRETTI.

Il comma 4 dell’articolo 115 indica i presupposti per il ricorso alla gestione indiretta da

parte dello Stato e delle Regioni. La formula prescelta non appare, a prima lettura, particolarmente

significativa: “4. Lo Stato e le regioni ricorrono alla gestione in forma indiretta al fine di assicurare

un adeguato livello di valorizzazione dei beni culturali.”

L’elasticità, se non l’indeterminatezza del parametro potrebbe apparire inidonea a

determinare un apprezzabile vincolo al potere organizzativo dell’amministrazione.

Peraltro, il vero significato della norma consiste nella modifica apportata alla originaria

versione della norma, che sanciva un criterio di netta prevalenza della gestione diretta.

D’altro canto, la disposizione implica una indicazione di un certo interesse, in ordine alla

necessità di valutare la decisione di ricorrere alla gestione in forma indiretta all’esito di un

apprezzamento inteso a verificare se tali modalità consentano effettivamente un sufficiente grado di

efficienza nella valorizzazione.

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Tale profilo, per quanto flessibile, dovrebbe rilevare almeno sul piano motivazionale e sul

percorso istruttorio alla base delle determinazioni assunte.

Si deve notare, poi, che analoga previsione sui requisiti della struttura organizzativa non è

contenuta nelle ipotesi di gestione diretta. Questa può essere avviata, di regola senza dovere

rispettare un onere di motivazione particolare e senza svolgere una preventiva istruttoria a carattere

più o meno complesso.

Anche sul piano formale, quindi, la disposizione conferma l’impressione secondo cui il

codice supera definitivamente le tradizionali diffidenze nei riguardi delle esternalizzazioni in

ambito di gestione dei beni culturali, ma tiene ferma la tradizionale impostazione che considera la

gestione diretta come forma ordinaria di svolgimento dell’attività di valorizzazione, subordinando

l’esternalizzazione al riscontro positivo di elementi ulteriori e caratterizzanti.

L’alternativa tra gestione diretta e indiretta non è quindi paritaria o equivalente, ma si

connette alla definizione di una puntuale gerarchia o preferenza per lo schema tradizionale.

L’esternalizzazione non è eccezionale, ma rappresenta una deroga rispetto alla regola ordinaria.

Si noti che la norma individua, letteralmente, un solo parametro per l’opzione, conistente nel

positivo riscontro circa l’adeguatezza dello strumento prescelto a soddisfare gli standard di

adeguatezza nella valorizzazione. Il criterio della maggiore economicità non emerge in modo diretto

ed immediato. A stretto rigore, quindi, il modulo dell’affidamento esterno dell’attività non potrebbe

essere giustificato sulla base del solo riferimento del risparmio di risorse.

Tuttavia, si deve osservare che, a parità di condizioni, il dato economico potrebbe diventare

decisivo. Si intende, però, che anche in tali ipotesi, le amministrazioni dovranno indicare

positivamente le specifiche ragioni sull’opportunità di abbandonare il modulo della gestione

ordinaria.

19. LA SCELTA TRA I MODULI ALTERNATIVI DI GESTIONE INDIRETTA.

Parametri più articolati e complessi sono previsti, invece, nella scelta tra le due forme di

gestione esterna. La struttura logica della disposizione potrebbe apparire singolare, ma essa, a ben

vedere, indica la propria giustificazione razionale.

Il primo passaggio motivazionale e istruttorio risulta, indubbiamente, quello concernente

l’abbandono del modulo più collaudato della gestione diretta. Si spiega perché in tale caso occorra

considerare in modo accentuato il profilo qualitativo dell’adeguato livello della valorizzazione. Solo

dopo avere compiuto questo passo, l’analisi dell’amministrazione deve svilupparsi ulteriormente,

considerando una molteplicità di aspetti aggiuntivi.

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In pratica, però, è ipotizzabile che i due momenti logici fissati dalla legge finiscano per

saldarsi strettamente nell’unico provvedimento conclusivo in cui si sostanzia la scelta

dell’amministrazione. In tale prospettiva, allora, è presumibile che pure l’opzione sulla

esternalizzazione si poggi sul parametro complesso indicato dalla legge.

Secondo l’articolo 115, pertanto, “la scelta tra le due forme di gestione indicate alle lettere

a) e b) del comma 3 è attuata previa valutazione comparativa, in termini di efficienza ed efficacia,

degli obiettivi che si intendono perseguire e dei relativi mezzi, metodi e tempi.”

La disposizione non sembra segnare alcuna particolare preferenza per uno dei due schemi.

In linea generale, il soggetto pubblico controllato dall’amministrazione introduce un elemento di

collegamento molto più stretto e intenso rispetto alla concessione a soggetti terzi.

In concreto, però, occorre considerare l’ampia gamma dei moduli utilizzabili in attuazione di

entrambe le opzioni normative. La partecipazione prevalente dell’amministrazione nello schema

rappresentato dall’istituzione di un nuovo soggetto potrebbe accompagnarsi dalla previsione di un

ruolo di primo piano del partner privato nella disponibilità dei mezzi e nell’esecuzione tecnica

dell’attività. Al contrario, la concessione a terzi potrebbe essere strutturata in modo tale da

assicurare comunque una ingerenza penetrante dell’amministrazione.

D’altro canto, il modulo della lettera a) implica costi notevoli e presuppone una durata

apprezzabile dell’attività di valorizzazione.

Quindi, la scelta fra le due forme di gestione indiretta, necessariamente sostenuta da

adeguata motivazione e compiuta sulla base di una accurata istruttoria, risulta caratterizzata dalla

nota della piena equivalenza, senza la possibilità di definire una generale e indiscriminata

prevalenza per l’uno o per l’altro schema.

20. LE MODALITÀ DI INDIVIDUAZIONE DEL CONCESSIONARIO.

Il comma 5 dell’articolo 115, molto opportunamente, detta le regole per l’individuazione del

concessionario.

“5. Qualora, a seguito della comparazione di cui al comma 4, risulti preferibile ricorrere

alla concessione a terzi, alla stessa si provvede mediante procedure ad evidenza pubblica, sulla

base di valutazione comparativa dei progetti presentati.“

La disposizione assume, in questa parte, il valore di una indicazione di principio. Questo

spiega una certa genericità della previsione, che deve essere riempita di concreto contenuto dai

conseguenti atti applicativi stabiliti da ciascuna amministrazione, secondo il rispettivo ordinamento.

Il passaggio attraverso una preventiva disciplina di carattere generale (preferibilmente di natura

normativa), è senz’altro opportuno, ma non può considerarsi affatto necessitato, considerando la

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sola opportunità che, in concreto, risulti garantito la conformità della procedura di affidamento ai

criteri minimi stabiliti dall’articolo 115.

Il richiamo all’evidenza pubblica, senza ulteriori specificazioni, apre la strada,

potenzialmente, a tutti i moduli selettivi già sperimentati dalle amministrazioni. Quindi, sulla base

delle previsione legislativa, potrebbe essere utilizzato uno qualsiasi degli schemi preesistenti,

oppure potrebbe essere delineato un diverso ed autonomo schema, purché compatibile con la

formula dell’evidenza pubblica.

Non solo, ma va considerato che nell’evidenza pubblica può rientrare, astrattamente, anche

la trattativa privata, purché subordinata al riscontro positivo di elementi giustificativi, alla stregua

della normativa comunitaria e dei principi generali in tema di affidamento di servizi pubblici

elaborati dalla giurisprudenza.

Il riferimento alla valutazione progettuale comparativa, tuttavia, induce a ritenere che il

meccanismo concretamente praticabile dovrebbe connettersi alla licitazione privata con il criterio

dell’offerta economicamente più vantaggiosa o all’appalto concorso. In entrambi i casi, poi, la

valutazione comparativa dovrebbe operarsi secondo parametri coerenti con quelli indicati al comma

4, in ordine all’opzione tra istituzione di un autonomo soggetto e concessione a terzi.

Non sembra precluso, comunque, il ricorso alla trattativa privata, così come disciplinata

dalle più recenti normative, anche di derivazione comunitaria, purché, peraltro, sia effettuata una

gara informale incentrata sulla valutazione dei progetti predisposti dagli aspiranti.

Il generico riferimento alla evidenza pubblica, accompagnato dalla indicazione riferita alla

valutazione dei progetti, potrebbe determinare dubbi in ordine alla incidenza dei principi

comunitari. Sembra, però, che nel quadro della disposizione in esame, il riferimento all’evidenza

pubblica non precluda affatto la penetrazione dei principi tipici tratti dal diritto comunitario.

Quindi, accanto alla valutazione comparativa dei progetti, le procedure selettive in materia

devono comprendere anche il rispetto dei principi definiti più volte dalla giurisprudenza

amministrativa e dalla circolare adottata dal Dipartimento delle politiche comunitarie.

21. GLI ENTI LOCALI E IL FAVORE PER LA CONCESSIONE A TERZI

L’articolo 115, comma 6, detta una disposizione riferita, specificamente a “gli altri enti

pubblici territoriali“ (diversi dalle Regioni).

Questi “ordinariamente ricorrono alla gestione in forma indiretta di cui al comma 3,

lettera a), salvo che, per le modeste dimensioni o per le caratteristiche dell’attività di

valorizzazione, non risulti conveniente od opportuna la gestione in forma diretta.“

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La norma introduce, solo per gli enti locali, una particolare preferenza per il modulo

dell’esternalizzazione mediante la creazione di apposito soggetto partecipato in modo prevalente.

La priorità è quindi duplice. Per un verso essa mette decisamente in secondo piano la

gestione diretta. Per altro verso, essa segna una decisa priorità per la forma organizzativa

rappresentata dalla costituzione di un soggetto autonomo.

La spiegazione di questa previsione normativa potrebbe risultare sufficientemente lineare.

Per gli enti locali, si è ritenuto opportuno incoraggiare il modulo dell’esternalizzazione, segnando,

però, una decisa opzione per la creazione dell’ente partecipato in modo prevalente o controllato, che

dovrebbe garantire comunque un adeguato livello di controllo sull’esercizio dell’attività.

Evidentemente, quindi, si prende atto delle diverse tradizioni e delle diverse prospettive di

evoluzione delle amministrazioni statali e di quelle locali. Per le prime, la gestione diretta continua

a rappresentare l’eventualità normale e nettamente preferita. Si pensi, in particolare, alla

organizzazione riguardante i beni culturali gestiti nelle sedi �ussali. Per le seconde, invece, si

ritiene preferibile, invece spingere verso l’alleggerimento della tradizionale macchina burocratica.

La formulazione linguistica utilizzata potrebbe suscitare qualche problema. Infatti,

fermandosi alla lettera della norma dovrebbe ritenersi non consentito il ricorso alla forma della

concessione a terzi.

Una conclusione di questo tipo potrebbe non essere illogica, perché potrebbe connettersi

all’esigenza di mantenere fermo, sempre, il controllo pubblico sull’attività di valorizzazione.

Ma la rigidità dello schema non appare giustificata in relazione ad altre attività di rilievo o

dimensione minore, per le quali il ricorso alla concessione potrebbe ammettersi senza

compromettere la coerenza complessiva del quadro sistematico di riferimento.

22. L’AFFIDAMENTO CONGIUNTO DA PARTE DI PIÙ AMMINISTRAZIONI TITOLARI DELLE ATTIVITÀ

DI VALORIZZAZIONE.

Il comma 7 stabilisce che “previo accordo tra i titolari delle attività di valorizzazione,

l’affidamento o la concessione previsti al comma 3 possono essere disposti in modo congiunto ed

integrato.”

La disposizione si deve coordinare con la previsione più generale contenuta nell’articolo

113, comma 4, in forza del quale, “4. Al fine di coordinare, armonizzare ed integrare le attività di

valorizzazione dei beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica, lo Stato, per il tramite del

Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali stipulano accordi su base regionale, al fine di

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definire gli obbiettivi e fissarne i tempi e le modalità di attuazione. Con gli accordi medesimi sono

individuate le adeguate forme di gestione, ai sensi dell’articolo 115.”

La previsione dell’articolo 113 ha una portata certamente più ampia, riguardante la

definizione delle linee programmatiche delle politiche culturali di valorizzazione. Proprio il

riferimento ai tempi e agli obiettivi vuole sottolineare la finalità principale degli accordi,

riconducibili al modello dell’articolo 15 della legge n. 241/1990 e dell’accordo di programma

previsto, in generale, dal testo unico degli enti locali.

L’articolo 115, comma 7, invece, si riferisce ad accordi di carattere più puntuale ed

operativo, riguardanti l’individuazione concreta di una gestione congiunta ed integrata dei beni.

Questa può svolgersi attraverso tutte le forme previste dall’articolo, sulla base degli adattamenti

necessari. Quindi, la gestione diretta può realizzarsi mediante moduli organizzativi variabili, i quali,

nel rispetto dei criteri fissati dallo stesso articolo, si conformano agli schemi collaborativi già

collaudati nelle amministrazioni specie locali.

Al riguardo, si potrebbe ipotizzare lo schema della creazione di un’apposita struttura

comune, sottoposta a particolari poteri di controllo e di vigilanza esercitati dalle amministrazioni

interessate. Ma potrebbe anche ammettersi il ricorso al modulo dell’avvalimento delle strutture di

altra amministrazione, sulla base della definizione dei rapporti economici tra gli enti.

Ancora, potrebbe assumere rilevanza anche l’utilizzazione di strutture consortili già

costituite dagli enti interessati alla gestione comune.

Più probabile, e forse più semplice sul piano organizzativo, appare il ricorso allo schema

della gestione indiretta attuata mediante la creazione di un apposito soggetto. In tal caso, come si è

detto, il vincolo della partecipazione prevalente dell’amministrazione interessata deve adeguarsi alla

struttura pluralistica del soggetto. Si può affermare, in tal caso, che il requisito della maggioranza

può ritenersi realizzato attraverso la sommatoria delle partecipazioni delle amministrazioni

coinvolte.

Si intende, però, che, anche in tali eventualità, la composizione del soggetto deve rispettare

dei canoni di razionalità, a salvaguardia del ruolo di preminenza effettivamente riconosciuto alle

amministrazioni coinvolte, sia pure in stretta connessione con le previsioni racchiuse nell’accordo

stipulato tra le amministrazioni stesse e nel contratto di servizio. Ciò sotto vari profili.

Anzitutto, deve essere garantito a ciascuna amministrazione un ruolo apprezzabile nell’ente,

sia in termini di determinazione delle quote spettanti, sia in termini di eventuali poteri speciali

attribuiti all’interno della struttura. Una presenza di carattere irrisorio o meramente simbolica non

rispetterebbe il criterio fissato dall’articolo 115, che esige la verifica di un adeguato potere di

controllo dell’amministrazione interessata. La “debolezza” del soggetto pubblico potrebbe essere

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compensata solo in parte attraverso l’attribuzione di ulteriori poteri esterni, delineati nell’ambito del

contratto di servizio.

23. LA MISURA DELLA PARTECIPAZIONE DELL’ENTE PUBBLICO.

In secondo luogo, occorrerà verificare il rispetto, quanto meno tendenziale, della misura

della partecipazione dell’ente pubblico, secondo un principio di corrispondenza proporzionale alle

attività da svolgere.

L’esatta quantificazione della valorizzazione non è agevole, considerando la variabilità dei

programmi culturali definiti dalle amministrazioni. AL criterio della quantità e del pregio dei beni

appartenenti alle diverse amministrazioni si potrebbe sovrapporre un parametro più concreto,

riferito alla effettiva incidenza dei compiti assegnati al nuovo soggetto. In ogni caso, però, è

indispensabile verificare che il ruolo di ciascuna delle amministrazioni interessate sia puntualmente

rispettato.

Infine, occorre considerare con molta attenzione il rischio che la partecipazione di molti

soggetti pubblici possa indebolire il concreto controllo pubblico, in presenza di un partner privato

dotato di una partecipazione molto consistente. Si pensi all’ipotesi in cui l’ente preveda la

partecipazione di un soggetto privato con la quota del 40% e di quattro amministrazioni con la

quota del 15% ciascuna. La maggioranza delle quote è sicuramente pubblica. Ma basterebbe

l’alleanza tra il partner privato e una sola delle amministrazioni per mettere in minoranza le altre tre

amministrazioni.

In presenza di questi rischi, forse non solo eventuali, sembra opportuno restringere l’ambito

applicativo della gestione integrata, riferendola solo ad ipotesi in cui esista una reale e palese

connessione tra i beni culturali coinvolti e una chiara, puntuale predeterminazione delle politiche di

valorizzazione definite dalle amministrazioni coinvolte. In ogni caso, poi, occorre considerare la

necessità di introdurre efficaci misure di salvaguardia degli interessi della singola amministrazione

e dei suoi poteri di controllo. In tale direzione, potrebbe valutarsi l’opportunità di subordinare le

determinazioni riguardanti i beni di una singola amministrazione alla approvazione dei suoi organi

rappresentativi.

24. IL RAPPORTO TRA IL GESTORE E L’AMMINISTRAZIONE TITOLARE DELL’ATTIVITÀ.

Il comma 8 dell’articolo 115 si fa carico di dettare una regola di principio riferita alla

disciplina del rapporto tra affidatario e titolare dell’attività.

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L’impostazione legislativa è nel senso di accentuare il rilevo di un atto a struttura

consensuale, secondo una tecnica già sperimentata nel settore dei servizi pubblici, specialmente

quelli di dimensione locale. Ma alla base vi è la concessione.

Proprio questo aspetto merita di essere sottolineato, perché richiama il tema, più ampio, dei

rapporti tra disciplina generale dei servizi pubblici locali e ordinamento dei beni culturali e

dell’attività di valorizzazione.

Secondo il comma 8, “il rapporto tra il titolare dell’attività e l’affidatario od il

concessionario è regolato con contratto di servizio, nel quale sono specificati, tra l’altro, i livelli

qualitativi di erogazione del servizio e di professionalità degli addetti nonché i poteri di indirizzo e

controllo spettanti al titolare dell’attività o del servizio”.

La formula legislativa presenta qualche elemento di incertezza, nella parte in cui contempla

(nel secondo periodo) sia il riferimento alla “attività”, sia il riferimento al servizio.

Non si tratta, però, di mera imprecisione. Il legislatore muove dal corretto presupposto

secondo cui la valorizzazione costituisce un’attività dal contenuto complesso e variabile, che può

concretarsi tanto nella organizzazione di un vero e proprio servizio al pubblico, riconducibile alla

nozione elaborata dalla giurisprudenza (anche con riferimento al settore degli enti locali), oppure

può assumere la fisionomia di una funzione meramente strumentale alla gestione del bene.

Solo nel primo caso (che pure risulta più importante e, quantitativamente destinato ad ampia

diffusione) si pone il problema del coordinamento sistematico con le discipline specificamente

riferite ai settori dei servizi pubblici.

Rispetto alle previsioni contenute nell’articolo 113 del testo unico degli enti locali, la norma

evidenzia alcune peculiarità, di cui occorre farsi carico.

La disposizione ribadisce che il contratto intercorre tra l’affidatario e il titolare dell’attività.

Dunque, non si prevede affatto che l’affidamento implichi anche l’attribuzione della titolarità della

funzione. La scelta sembra frutto di una accurata e consapevole valutazione diretta a ribadire la

persistente competenza dell’amministrazione interessata. Questa conserva sempre la titolarità della

funzione, anche quando adotta il modulo dell’esternalizazione.

In questo modo, la norma assume un valore di principio generale, attenuando, in qualche

misura, l’impatto della nuova impostazione legislativa del codice, favorevole ad un certo

incoraggiamento delle tecniche di esternalizzazione.

Non è chiarissima, tuttavia, l’effettiva portata pratica della norma di principio. In effetti,

proprio l’affermazione della conservazione della titolarità dell’attività potrebbe giustificare la tesi

incentrata sul carattere derogatorio degli affidamenti esterni, ferma restando, però, la diversa regola

prevista per gli enti locali.

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Più realisticamente, invece, la norma determina l’effetto di giustificare l’introduzione di

vincoli molto stretti all’attività del concessionario e dell’affidatario. La norma parla di “indirizzo e

di controllo”, utilizzando due vocaboli che presuppongono un certo spazio di autonomia operativa e

organizzativa. Tuttavia, anche in tale prospettiva, i due poteri devono essere inquadrati

armonicamente nell’ambito di una funzione che resta saldamente radicata nell’amministrazione

direttamente interessata allo svolgimento dell’attività. Non si tratta dei generici poteri di indirizzo

attribuiti al soggetto pubblico che governa un determinato settore di servizi pubblici (normalmente

caratterizzati anche da uno svolgimento secondo regole concorrenziali e parametri di tipo

economico), ma di concrete prerogative volte ad orientare l’affidatario nella esecuzione dei compiti

di valorizzazione.

La persistente titolarità del soggetto pubblico potrebbe portare anche ad un esito

interpretativo ulteriore, sinteticamente definibile come riconoscimento di un’ampia gamma di poteri

impliciti, esercitabili anche al di fuori dei casi e dei presupposti espressamente indicati dal contratto

di servizio.

Quanto meno in via interpretativa, poi, la previsione legislativa conduce a leggere le

previsioni del contratto di servizio in senso tendenzialmente favorevole all’ampliamento delle

prerogative speciali dell’amministrazioni, purché riconducibili allo svolgimento istituzionale delle

funzioni previste in tema di valorizzazione dei beni culturali.

25. LA TITOLARITÀ DELL’ATTIVITÀ, LA CONCESSIONE E LA NATURA DEL CONTRATTO DI

SERVIZIO. I CONTENUTI NECESSARI DEL CONTRATTO DI SERVIZIO.

Il riferimento alla titolarità dell’attività potrebbe essere valutato anche per qualificare

l’effettiva natura del contratto di servizio e, conseguentemente, dei poteri di controllo e di indirizzo.

Il punto deve essere analizzato considerando, congiuntamente, due ulteriori aspetti della

disciplina in esame, che manifestano una sensibile differenza rispetto alle regole previste per i

servizi pubblici locali.

Nel testo unico degli enti locali, l’affidamento a terzi dei servizi a rilevanza economica non

è ricondotto, esplicitamente, al modulo della concessione. L’omessa indicazione della natura

dell’atto posto alla base dell’affidamento potrebbe non impedire di pervenire, comunque, alla

qualificazione in termini di concessione, accentuando, quindi, l’aspetto pubblicistico del rapporto.

Tuttavia, proprio l’evoluzione legislativa in materia induce a ritenere che il sistema abbia

inteso operare il superamento del vecchio modulo concessorio (espressamente previsto

nell’originaria formulazione dell’articolo 113), preferendo, invece lo schema del contratto di

servizio. Questo non costituisce più il solo elemento accessorio (a contenuto economico) del

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rapporto di stampo intrinsecamente pubblicistico, ma diviene la fonte essenziale e determinante

(autosufficiente) del rapporto tra il privato e l’amministrazione.

Ciò emerge anche dalla circostanza che il contratto di servizio è posto alla base della gara ed

è su tale schema che i concorrenti calibrano le rispettive offerte.

L’articolo 115 contiene una disciplina nettamente diversa. L’affidamento a terzi è

espressamente riportato al modulo della concessione e il contratto di servizio non è considerato

come elemento essenziale del procedimento di gara.

Entrambi gli elementi inducono a ritenere, coerentemente con la persistente titolarità della

funzione in capo all’amministrazione, che il rapporto mantiene sempre una fisionomia di carattere

pubblicistico, tutta ruotante intorno al modulo provvedimentale della concessione, cui si connette un

accordo, il quale pur definito come contratto di servizio, va ricondotto allo schema dell’accordo

pubblicistico.

Le conseguenze di questa ricostruzione potrebbero essere molto rilevanti, tanto sul piano

processuale, quanto sul piano sostanziale.

Gli atti di indirizzo e di controllo riferiti all’esecuzione del rapporto, ancorché applicativi di

previsioni racchiuse nel “contratto di servizio”, dovrebbero considerarsi come atti amministrativi

autoritativi, la cui cognizione spetta al giudice amministrativo in sede di legittimità. E ciò

indipendentemente dalla riconducibilità alla materia di giurisdizione esclusiva dei servizi pubblici.

Trattandosi di provvedimenti amministrativi e non già di atti negoziali, poi, la loro

contestazione dovrebbe operarsi mediante la tempestiva impugnazione nei termini di decadenza.

Sotto il profilo sostanziale, poi, la qualificazione come atti amministrativi autoritativi

comporta la necessaria applicazione di tutte le regole in materia: obbligo di motivazione, rispetto

delle garanzie procedimentali.

Per completezza, è utile sottolineare che la norma individua il contenuto minimo del

contratto di servizio, ma non impedisce affatto che in quella sede possano essere inserite altre

clausole incidenti, in varia misura, sul contenuto del rapporto.

26. LA PARTECIPAZIONE MEDIANTE IL CONFERIMENTO IN USO DEL BENE.

Il comma 9 dell’articolo 115 contiene una disposizione molto complessa, volta a

semplificare e incentivare il ricorso alle tecniche di esternalizzazione.

Si prevede, infatti, che la partecipazione possa effettuarsi anche mediante il conferimento in

uso del bene culturale oggetto di valorizzazione.

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Il senso economico dell’operazione è piuttosto trasparente, almeno se considerato nelle sue

linee essenziali. L’amministrazione interessata procede alla valorizzazione del bene senza

impegnare altre risorse, ma sfruttando proprio le potenzialità economiche del patrimonio culturale.

A sua volta il partner privato è maggiormente attratto dall’investimento, potendo fare

affidamento sul bene concesso in uso all’ente di nuova istituzione.

Si noti che la disposizione parla di conferimento in uso soltanto. Quindi non è minimamente

toccato l’assetto proprietario del bene.

Resta però aperto il problema della intersezione tra queste regole e quelle più o meno

stringenti dettate esplicitamente per le procedure di assegnazione in uso dei beni, non accompagnate

dalla contestuale attribuzione dei poteri inerenti la gestione per la valorizzazione.

Non sembra dubitabile, però, che la disposizione detta una disciplina particolare tutta

incentrata sulla stretta connessione tra uso e valorizzazione. Da qui nasce la conclusione secondo

cui la disciplina applicabile in materia è quella propria della valorizzazione.

A rigore si potrebbero prospettare anche degli interrogativi più sottili.

Anzitutto, si deve notare che, nella sua impostazione fisiologica, l’operazione economica

dovrebbe essere congegnata nel segno della subordinazione del conferimento in uso all’attività di

valorizzazione. In questo caso, la “prevalenza” del dato funzionale rispetto a quello del mero

godimento del bene spiega razionalmente l’applicazione delle norme speciali in materia di gestione

e di esternalizzazione.

Resta da chiedersi, però, se siano ammissibili operazioni sostanzialmente diverse e di ben

altro significato economico, nelle quali la valorizzazione diventa, per il suo effettivo peso operativo

ed economico, secondaria e strumentale rispetto alla gestione e all’uso del bene.

Considerare radicalmente preclusa questa ipotesi organizzativa non sembra ragionevole.

Anche perché, così ragionando, si impedirebbe di sfruttare a pieno le potenzialità offerte in concreto

dal bene.

Probabilmente, poi, in sede di definizione degli indirizzi generali in materia di definizione

delle politiche di valorizzazione, ben potrebbero essere incoraggiate, o quanto meno ammesse,

tecniche organizzative volte a incrementare queste tecniche.

In questa parte, quindi, la norma introduce il collegamento (eventuale, ma utile e,

presumibilmente destinato a frequenti applicazioni) tra la valorizzazione esterna del bene e il

conferimento in uso.

Due segmenti delle attività riguardanti i beni culturali, normalmente distinti, trovano un

significativo punto di contatto, giustificato proprio dalla finalità di perseguimento della massima

valorizzazione, secondo una prospettiva di razionale coordinamento delle funzioni.

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27. LA CONCESSIONE IN USO DEL BENE CULTURALE COLLEGATA ALL’AFFIDAMENTO DELLA

GESTIONE.

Secondo il comma 10 dell’articolo 115, all’affidamento o alla concessione di cui al comma

3 può essere collegata la concessione in uso del bene culturale oggetto di valorizzazione.

La norma precisa che la concessione perde efficacia, senza indennizzo, in qualsiasi caso di

cessazione dell’affidamento o della concessione del servizio o dell’attività.

28. LA TUTELA DEI BENI CONFERITI O CONCESSI IN USO.

L’articolo 116 prevede una norma di protezione ulteriore, stabilendo che i beni culturali che

siano stati conferiti o concessi in uso ai sensi dell’articolo 115, commi 9 e 10, restano a tutti gli

effetti assoggettati al regime giuridico loro proprio. Le funzioni di tutela sono esercitate dal

Ministero, che provvede anche su richiesta ovvero nei confronti del soggetto conferitario o

concessionario dell’uso dei beni medesimi.

29. LA DISCIPLINA DEI SERVIZI AGGIUNTIVI. ANALOGIE E DIFFERENZE CON LE ATTIVITÀ DI

VALORIZZAZIONE.

L’articolo 112 del testo unico n. 490/1999 disciplinava i Servizi di assistenza culturale e di

�mbito�ità’, recependo i contenuti della disciplina derivante dal decreto legge 14 novembre 1992,

n. 433, convertito con modificazioni nella legge 14 gennaio 1993, n. 4, art. 4, comma 1; decreto

legge 23 febbraio 1995, n. 41, convertito con modificazioni nella legge 22 marzo 1995, n. 85, art.

47-quater; decreto del Presidente della Repubblica 5 luglio 1995, n. 417, artt. 31-60; decreto

ministeriale 24 marzo 1997, n. 139, art. 2, comma 1.

Ora, l’Articolo 117 recepisce questa normativa, senza particolari innovazioni sostanziali.

Riemerge, peraltro, la criticabile formula dei “Servizi aggiuntivi”, apparsa molto imprecisa.

“1. Negli istituti e nei luoghi della cultura indicati all’articolo 101 possono essere istituiti

servizi di assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico.

Rientrano tra i servizi di cui al comma 1:

a) il servizio editoriale e di vendita riguardante i cataloghi e i sussidi catalografici,

audiovisivi e informatici, ogni altro materiale informativo, e le riproduzioni di beni culturali;

b) i servizi riguardanti beni librari e archivistici per la fornitura di riproduzioni e il recapito

del prestito bibliotecario;

c) la gestione di raccolte discografiche, di diapoteche e biblioteche �ussali;

d) la gestione dei punti vendita e l’utilizzazione commerciale delle riproduzioni dei beni;

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e) i servizi di accoglienza, ivi inclusi quelli di assistenza e di intrattenimento per l’infanzia, i

servizi di informazione, di guida e assistenza didattica, i centri di incontro;

f) i servizi di caffetteria, di ristorazione, di guardaroba;

g) l’organizzazione di mostre e manifestazioni culturali, nonché di iniziative promozionali.

I servizi di cui al comma 1 possono essere gestiti in forma integrata con i servizi di pulizia,

di vigilanza e di biglietteria.

La gestione dei servizi medesimi è attuata nelle forme previste dall’articolo 115.

I canoni di concessione dei servizi sono incassati e ripartiti ai sensi dell’articolo 110. (come

per 115, comma 2). Si ribadisce la connotazione pubblica.

30. LA SPONSORIZZAZIONE DI BENI CULTURALI.

Una novità di particolare rilievo del codice riguarda la previsione, all’articolo 120, della

Sponsorizzazione di beni culturali.

L’articolo, che ne definisce il contenuto e ne detta la disciplina, è situato all’interno della

parte della disciplina riferita espressamente alla valorizzazione. È molto evidente, poi, che lo

schema economico-giuridico della figura in oggetto mira proprio a realizzare una efficace forma di

coordinamento tra risorse private e finalità pubbliche di valorizzazione dei beni, altrimenti non

realizzabili per mancanza di risorse.

Realisticamente, la norma supera le tradizionali resistenze verso uno “sfruttamento

commerciale” del bene culturale, associato all’immagine di un soggetto o di un prodotto

economico.

Ma la disposizione finisce anche per incidere, in qualche modo, sulla gestione dei beni

oggetto di valorizzazione.

Il punto richiede qualche chiarimento.

Secondo l’articolo 1, è sponsorizzazione di beni culturali ogni forma di contributo in beni o

servizi da parte di soggetti privati alla progettazione o all’attuazione di iniziative del Ministero,

delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, ovvero di soggetti privati, nel campo della tutela

e valorizzazione del patrimonio culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio,

l’immagine, l’attività o il prodotto dell’attività dei soggetti medesimi.

Si può notare, quindi, che il contributo può avere per oggetto non solo un bene, ma può

consistere anche nell’erogazione di un servizio.

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Non è chiaro il significato di questa espressione. Si fa riferimento, genericamente, a una

prestazione di fare, resa in favore dell’amministrazione, o si considera anche (o addirittura soltanto)

uno dei servizi riconducibili all’ambito delle attività di valorizzazione o ai servizi accessori?

Il punto è molto importante, perché la precisa qualificazione normativa incide decisamente

sul regime applicabile.

È vero, infatti, che la sponsorizzazione presenta elementi di atipicità e di distinzione rispetto

alle altre figure tradizionali. Tuttavia, proprio il codice segna, invece, una tipizzazione delle

modalità di assegnazione di determinati servizi, con particolare riferimento al richiamo delle regole

elaborate in sede comunitaria.

In effetti, si potrebbe ritenere che l’articolo 121 indichi una parziale deroga rispetto alle

forme di gestione definite dall’articolo 115, giustificata dal ruolo preponderante degli scopi propri

perseguiti dal contratto di sponsorizzazione.

Ancora più rilevante diventa il problema del rispetto della disciplina comunitaria se si ritiene

che il servizio considerato dalla norma rientra nella nozione di cui al decreto legislativo n.

157/1995.

Né basterebbe replicare che, con ogni probabilità, le sponsorizzazioni restano quasi sempre

al di sotto della soglia di rilevanza comunitaria. Infatti, sono noti gli orientamenti della

giurisprudenza, avallati anche dagli indirizzi espressi dal Dipartimento delle politiche comunitarie

con apposite circolari, volti a imporre il ricorso a modalità concorrenziali anche per gli affidamenti

degli appalti sotto-soglia.

In ogni caso, poi, sembra opportuno che anche gli affidamenti di sponsorizzazioni siano

realizzati mediante procedure trasparenti.

Secondo la Commissione, poi, “il carattere oneroso del contratto in causa non implica

obbligatoriamente il pagamento diretto di un prezzo da parte del partner pubblico, ma può derivare

da qualsiasi altra forma di contropartita economica ricevuta dal partner privato”.

La disposizione precisa, al comma 2, che “la promozione di cui al comma 1 avviene

attraverso l’associazione del nome, del marchio, dell’immagine, dell’attività o del prodotto

all’iniziativa oggetto del contributo, in forme compatibili con il carattere artistico o storico,

l’aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare, da stabilirsi con il contratto di

sponsorizzazione.

Con il contratto di sponsorizzazione sono altresì definite le modalità di erogazione del

contributo nonché le forme del controllo, da parte del soggetto erogante, sulla realizzazione

dell’iniziativa cui il contributo si riferisce.

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31. LA VALORIZZAZIONE ATTUATA ATRAVERSO GLI ACCORDI CON LE FONDAZIONI BANCARIE.

Un’apposita regola mira a definire un rapporto privilegiato fra amministrazioni e fondazioni

bancarie. La tecnica prescelta non è quella della esternalizzazione o della individuazione di

particolari forme di gestione. L’intervento ha una portata diversa, che attiene alla distribuzione

razionale delle risorse bancarie finalizzate alla valorizzazione culturale. Il partneraiato pubblico-

privato assume, in tal modo, una rilevanza paricolare.

La gestione, infatti, continua a svolgersi secondo le regole prestabilite dall’amministrazione,

ma è largamente condizionata dalle erogazioni finanziarie disposte dal settore creditizio.

Secondo la norma, “1. Il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali, ciascuno nel

proprio �mbito, possono stipulare, anche congiuntamente, protocolli di intesa con le fondazioni

conferenti di cui alle disposizioni in materia di ristrutturazione e disciplina del gruppo creditizio,

che statutariamente perseguano scopi di utilità sociale nel settore dell’arte e delle attività e beni

culturali, al fine di coordinare gli interventi di valorizzazione sul patrimonio culturale e, in tale

contesto, garantire l’equilibrato impiego delle risorse finanziarie messe a disposizione.

La parte pubblica può concorrere, con proprie risorse finanziarie, per garantire il

perseguimento degli obiettivi dei protocolli di intesa.”

32. LA DISCIPLINA TRANSITORIA E GLI AFFIDAMENTI IN ATTO.

Pur affermando la natura profondamente innovativa delle regole riguardanti le forme di

gestione, il codice non prevede alcuna disciplina di carattere transitorio.

Si tratta di un’opzione legislativa che deriva dalla constatazione che, al momento

dell’entrata in vigore della nuova disciplina, pur nella varietà delle soluzioni operative praticate

nelle diverse realtà culturali, non appare necessaria una revisione degli affidamenti in atto, né

sembra opportuno prevedere una fase di transizione più o meno complessa.

Vi è anche la considerazione che, in linea di massima, gli affidamenti di servizi in atto non

hanno scadenze particolarmente lunghe.

Pertanto, il passaggio al nuovo sistema avverrà gradualmente, mano a mano che ciascuna

amministrazione procederà a definire il proprio assetto organizzativo e funzionale.

Va comunque puntualizzato che la disciplina va considerata immediatamente applicabile (in

relazione alle nuove forme di gestione), almeno per le amministrazioni dello Stato, anche

indipendentemente dalla adozione di alcuni atti applicativi (determinazione degli standard minimi,

stipulazione degli accordi di programma fra soggetti istituzionali diversi, ecc.

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Sul fronte opposto, si è osservato come sarebbe stato forse opportuno tutelare con maggiore

incisività la posizione degli attuali titolari di concessioni rilasciate in base alla legge Ronchey,

proprio per salvaguardare le esperienze acquisite e le aspettative economiche nel settore.

33. LE ESTERNALIZZAZIONI E LA RIFORMA DEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI.

Parallelamente alla specifica evoluzione del sistema dei beni culturali e del settore dei

servizi esternalizzabili, si è svolto il difficile percorso della riforma dei servizi pubblici locali.

Le interferenze tra i due ambiti sono evidenti. Colpisce, quindi, che il codice abbia omesso

di inserire qualsiasi disposizione specifica di coordinamento. Una delle possibili ragioni è quella

della riconosciuta opportunità di non appesantire il tavolo di concertazione Stato- ragioni- enti

locali, nella predisposizione del codice dei beni culturali.

Qualsiasi scelta compiuta con riferimento alla normativa in materia di sevizi pubblici locali

avrebbe potuto riaprire la polemica sulla competenza legislativa statale o regionale in materia di

servizi pubblici locali in generale.

Nello specifico contesto dei beni culturali, invece, la concertazione Stato e Regioni si è

risolta in modo soddisfacente per entrambe le parti attraverso la definizione di un percorso logico

giuridico lineare (ancorché non scontato): la gestione dei servizi strumentali (definiti comunque dal

codice, proprio al fine di ridurre le incertezze in ordine all’ambito oggettivo di applicazione della

disciplina) ai beni culturali costituisce attività di valorizzazione. Pertanto, si tratta di materia

inquadrata correttamente tra quelle di legislazione concorrente. Come si è visto, poi, l’articolo 115 e

le norme ad esse strettamente collegate sono effettivamente caratterizzate da una formulazione

riconducibile allo schema concettuale dei principi.

Ciò posto, però, il problema del rapporto con la disciplina (generale) dei servizi pubblici

locali resta aperto, in tutte le ipotesi in cui si tratta di delineare le regole concretamente applicabili

alle attività svolte dagli enti locali.

Il silenzio del codice potrebbe essere inteso come opzione implicita diretta a stabilire che il

settore dei beni culturali è completamente separato da quello degli altri servizi pubblici locali.

Le conseguenze di questa opzione interpretativa sono molteplici e particolarmente rilevanti.

Anzitutto, non vi sarebbe alcuno spazio per richiamare le regole generali riguardanti il

settore dei servizi pubblici locali, nemmeno in via meramente residuale o suppletiva.

Conseguentemente, poi, risulterebbe molto difficile estendere direttamente i principi

interpretativi fissati dalla giurisprudenza e dalle circolari della Presidenza del Consiglio, in materia

di affidamenti di servizi e di appalti al di sotto della soglia comunitaria.

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Inoltre, mentre la disciplina generale dei servizi pubblici locali è esplicitamente ricondotta

alla materia della tutela della concorrenza (ma si tratta di tesi quanto meno opinabile e recisamente

contestata dalle Regioni) e, quindi, non tollera interventi attuati da parte della normazione regionale,

la regolamentazione dei servizi per la valorizzazione dei beni culturali è saldamente ed

espressamente inserita dal codice nell’ambito della legislazione concorrente e, pertanto, ammette (o

esige) una normazione attuativa a livello regionale.

La distinzione tra i due ambiti potrebbe essere fondata, poi, sull’espressa previsione

contenuta nell’articolo 14 del decreto legge n. 269/2003, che prevede la salvezza delle disposizioni

dettate per specifici settori.

La formula utilizzata non è priva di ambiguità, perché essa potrebbe essere letta,

alternativamente, come assoluta impermeabilità tra la normativa di settore e la disciplina generale,

oppure come semplice prevalenza disciplina speciale, ferma restando l’applicabilità, in via

residuale, delle regole contenute nel testo unico degli enti locali e nelle norme a questo collegate.

Quest’ultima soluzione potrebbe essere più coerente con la premessa sistematica che

connette l’intervento legislativo statale in materia di servizi pubblici alla tutela della concorrenza e

alla determinazione dei livelli minimi delle prestazioni erogate su tutto il territorio nazionale.

In questi limiti, dunque, si dovrebbe cautamente riconoscere il rilievo sistematico

complessivo della normativa generale in materia di servizi pubblici locali, proprio allo scopo di

colmare possibili lacune o risolvere eventuali dubbi interpretativi.

Seguendo questa prospettiva si pone subito un delicato interrogativo di fondo, legato alla

classificazione ora utilizzata dal testo unico degli enti locali, che contrappone i servizi pubblici a

carattere economico a quelli privi di tale connotazione (senza peraltro offrire alcuna definizione).

La distinzione prevista dalla riforma intende in questo modo adeguarsi alle disposizioni del

Trattato dell’Unione europea in materia di servizi di interesse generale (articoli 16 e 86, p. 2). Si

supera, così, la precedente contrapposizione tra servizi aventi o meno carattere industriale, di

difficile applicazione (benché prevalesse la tesi incentrata sulla rilevanza della “rete”

nell’organizzazione del servizio e dell’attività). Seguendo questo indirizzo interpretativo

maggioritario, si riteneva che tutti i servizi di carattere culturale, non innestandosi in “reti”,

dovessero qualificarsi come privi di carattere industriale, indipendentemente sul concreto peso

attribuito al profilo “sociale” della attività.

Nel nuovo assetto dei servizi pubblici locali, L’opinione prevalente è nel senso che le

attività di valorizzazione devono inquadrarsi necessariamente nell’ambito dei servizi a vocazione

economica e imprenditoriale.

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Nella costruzione interpretativa comunitaria, infatti, si considera economica “l’attività che

consiste nell’offrire beni o servizi in un mercato e che potrebbe essere esercitata da un privato a

scopo di lucro”.

Il carattere economico dovrebbe essere escluso quando il servizio si svolge sulla base di un

apprezzabile intervento finanziario di sostegno del settore pubblico. Per queste ragioni, pertanto, si

esclude che non hanno carattere economico le attività che rientrano nelle prerogative di imperio e

nelle funzioni fondamentali dello Stato e degli enti territoriali, nonché quelle connesse allo

svolgimento dei sistemi di sicurezza sociale e l’istruzione obbligatoria.

Questa tesi è persuasiva, anche se, in larga misura, risente forse di un certo condizionamento

“ideologico” inteso a incoraggiare la vocazione economica delle attività di valorizzazione dei beni.

In effetti, occorre verificare se il servizio sia effettivamente destinato alla collettività, con

attribuzione del costo agli utenti, in modo che l’impresa erogatrice tragga dal mercato il proprio

finanziamento, assumendo il rischio della gestione.

Non costituiscono servizi economici, invece, quelli rivolti al pubblico, ma il cui costo grava

intermente (o in misura significativa: si pensi al caso della corresponsione di un ticket)

sull’amministrazione. In tali casi, il gestore non è remunerato dall’utente, ma dall’amministrazione.

Probabilmente, però, questa opinione dovrebbe essere in qualche modo temperata,

considerando la varietà delle attività di valorizzazione e la marcata flessibilità delle forme di

gestione descritte dall’articolo 115 (ulteriormente plasmabili dalla legislazione regionale e dalla

normativa di attuazione dei singoli enti locali).

Dunque, non sembra da escludere a priori che l’attività di valorizzazione possa in concreto

inquadrarsi nel paradigma dei servizi non imprenditoriali.

Del resto, si è opportunamente rilevato che nella distinzione fra i due tipi di servizio, poiché

diventa determinante il criterio dell’alea della gestione, sono decisive considerazioni di carattere

storico e geografico sulle modalità concrete di organizzazione del servizio stesso e sulle modalità di

remunerazione.

Quindi, la qualificazione di un servizio come economico o non, deriva dall’applicazione dei

criteri di individuazione legati alle modalità di remunerazione e non già da fattori aprioristici o

automatici.

Per i servizi dei beni culturali, quindi, il dato dell’economicità dipende dalla concreta

determinazione delle modalità di pagamento del servizio.

Il punto è molto delicato, considerando la persistente rigidità del sistema di determinazione

della misura dei biglietti di ingresso e del calcolo del canone di concessione, spesso legato a

previsioni di flussi di visitatori, piuttosto che al concreto volume dell’attività di erogazione.

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Va comunque aggiunto che non si è in presenza di un servizio pubblico in senso stretto,

quando l’attività è svolta non al pubblico, ma direttamente all’amministrazione, anche nei casi in

cui , in via mediata, possano trarne beneficio altri soggetti: vigilanza e pulizia dei locali sedi di

uffici pubblici, riscaldamento e climatilizzazione.

Si deve segnalare, poi, che il nuovo articolo 113-bis del testo unico degli enti locali compie

un puntuale riferimento ai servizi concernenti le attività culturali, prevedendo modalità di

affidamento dirette a favorire in modo ancora più marcato le strutture private associative.

Occorre però sgombrare il campo da un equivoco. La norma si riferisce, evidentemente, alla

esternalizzazione di servizi funzionalmente culturali (cineforum, attività teatrali, musicali, eccetera),

senza considerare in alcun modo il diverso e autonomo profilo della gestione del ben culturale,

considerato in senso oggettivo.

Ciò riduce nettamente ma non elimina del tutto le interferenze tra le discipline considerate.

Si pensi al frequente caso delle attività culturali che utilizzano siti di particolare pregio per lo

svolgimento di manifestazioni di vario tipo.

In tali eventualità, considerando la notevole varietà delle soluzioni organizzative

astrattamente ipotizzabili, si dovrebbe verificare il concreto contenuto degli affidamenti di beni o di

servizi culturali disposti dall’amministrazione.

Il criterio della prevalenza (anche economica, oltre che funzionale) della gestione del bene

rispetto all’attività culturale potrebbe risultare di solito determinante per individuare la disciplina

applicabile all’affidamento.

Peraltro, forse proprio il carattere organico della valorizzazione induce a ritenere che, in

linea di massima, anche questi affidamenti misti dovrebbero ricadere nella sfera applicativa delle

norme sulla valorizzazione dei beni culturali.

D’altro canto non è molto comprensibile il senso della drastica limitazione delle forme di

esternalizzazione previste dall’attuale articolo 113-bis.

La scelta legislativa è nel senso di eliminare del tutto la concessione a terzi e l’attribuzione

del servizio a società miste.

Non vi sono ragioni plausibili per ritenere che queste due forme siano compatibili solo la

connotazione economica dell’attività stessa.

Il fortissimo ostacolo alla esternalizzazione muove forse dalla convinzione che tutti i servizi

non economici debbano essere posti sotto il controllo totale dell’amministrazione di riferimento.

D’altro canto, nessuna regola di carattere comunitario imponeva questa soluzione legislativa, che,

non a caso, risulta fortemente criticata da tutti gli operatori del settore.

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Si deve ritenere, comunque, che queste regole limitative non siano applicabili nel settore dei

beni culturali, tenendo conto della espressa norma di salvezza contenuta nell’articolo 113-bis.

34. I PROBLEMI GIURIDICI DELLA ESTERNALIZZAZIONE ATTUATA ATTRAVERSO LE

SOCIETÀ DEL MINISTERO DEI BENI CULTURALI: LA SIBEC E L’ARCUS.

L’articolo 10 della legge 8 ottobre 1997, n. 352, introdotto dalla legge 16 ottobre 2003, n.

291, disciplina la “Società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo – ARCUS Spa.

Secondo la disposizione, 1. Il Ministro per i beni e le attività culturali è autorizzato a

costituire, con atto unilaterale, una società per azioni, denominata «Società per lo sviluppo dell’arte,

della cultura e dello spettacolo – ARCUS Spa», di seguito denominata «Società», con sede in

Roma, avente ad oggetto la promozione e il sostegno finanziario, tecnico-economico e

organizzativo di progetti e altre iniziative di investimento per la realizzazione di interventi di

restauro e recupero dei beni culturali e di altri interventi a favore delle attività culturali e dello

spettacolo, nel rispetto delle funzioni costituzionali delle regioni e degli enti locali.”

La norma prevede, quindi, un’altra ipotesi di esternalizzazione, forse non del tutto

sistematicamente inquadrata nel contesto delle regole del codice.

Per quanto riguarda la composizione societaria, si prevede, al comma 3, che “Il capitale

sociale è di 8.000.000 di euro ed è sottoscritto dal Ministero dell’economia e delle finanze. Il

Ministero per i beni e le attività culturali esercita i diritti dell’azionista d’intesa con il Ministero

dell’economia e delle finanze, per quanto riguarda i profili patrimoniali e finanziari. Le azioni che

costituiscono il capitale sociale sottoscritto dal Ministero dell’economia e delle finanze sono

inalienabili.

Al capitale sociale della Società possono partecipare altresì le regioni, gli enti locali e altri

soggetti pubblici e privati, tramite acquisto di azioni di nuova emissione, per un importo non

superiore al 60 per cento del capitale sociale sottoscritto dallo Stato.”

Dalla formulazione della norma non emerge in quale modo la società e il Ministero possono

individuare i partner privati. Per ragioni di coerenza complessiva del sistema sembra indispensabile

prevedere una procedura aperta e trasparente, coerente con gli obiettivi istituzionali assegnati al

soggetto.

Si sottolinea, comunque, che nella struttura la partecipazione statale deve mantenere un

ruolo preponderante.

La società assume tutte le connotazioni dell’organismo di diritto pubblico. Accanto alle

finalità istituzionali di interesse generale, non aventi carattere industriale o commerciale, si

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evidenzia il profilo del finanziamento pubblico e del controllo governativo degli organi: Secondo il

comma 6, infatti, il consiglio di amministrazione della Società è composto da sette membri,

compreso il presidente, nominati con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, di

concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Tre dei componenti del consiglio sono

nominati su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze. Il presidente è nominato sentite le

competenti Commissioni permanenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”.

La Società può essere, inoltre, destinataria di finanziamenti dell’Unione Europea, dello Stato

e di altri enti e soggetti pubblici e privati, il cui utilizzo, anche in relazione agli aspetti connessi alle

esigenze di funzionamento, sarà disciplinato sulla base di apposite convenzioni.

L’ARCUS S.p.A può promuovere la costituzione o assumere sia direttamente che

indirettamente interessenze, quote o partecipazioni in altre imprese, società, consorzi ed enti in

genere, il tutto in via strumentale ed in misura non prevalente rispetto alle attività che costituiscono

l’oggetto sociale.

La Società può anche compiere tutte le attività necessarie o utili per il conseguimento degli

scopi sociali, fra cui operazioni immobiliari, mobiliari, industriali, commerciali e finanziarie, ivi

compresa la concessione di garanzie reali o personali, rilasciate nell’interesse della Società, per

obbligazioni sia proprie che di terzi, con esclusione della raccolta del risparmio tra il pubblico,

l’esercizio del credito e le operazioni rientranti nell’attività bancaria e degli intermediari mobiliari,

nonché delle altre attività riservate dalla legge a particolari enti o subordinate a determinate

autorizzazioni.

36) LA ESTERNALIZZAZIONE OPERATA DAL MINISTERO DEI BENI CULTURALI: I LIMITI

DELL’INTERVENTO.

Il decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368, recante l’istituzione del Ministero per i Beni e

le Attività culturali, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59, prevede all’articolo

10, come modificato dall’art. 80, comma 52, legge 27 dicembre 2002, n. 289 e dall’art. 6, legge 16

gennaio 2003, n. 3, una specifica regola sulle esternalizzazioni, concernenti gli Accordi e forme

associative.

Secondo la disposizione, “1. Il Ministero ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni

e, in particolare, per la gestione dei servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale individuati

ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettere b) e c), del regolamento di cui al decreto del Presidente

della Repubblica 7 settembre 2000, n. 283 può:

a) stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e con soggetti privati;

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b-bis) dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione di servizi relativi ai

beni culturali di interesse nazionale, secondo modalità, criteri e garanzie definiti con regolamento

emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400. Il suddetto

regolamento dovrà stabilire, tra l’altro: le procedure di affidamento dei servizi che dovranno

avvenire mediante licitazione privata, con i criteri concorrenti dell’offerta economica più

vantaggiosa e della proposta di offerta di servizi qualitativamente più favorevole dal punto di vista

della crescita culturale degli utenti e della tutela e valorizzazione dei beni, e comunque nel rispetto

della normativa nazionale ed europea; i rispettivi compiti dello Stato e dei concessionari riguardo

alle questioni relative ai restauri e all’ordinaria manutenzione dei beni oggetto del servizio, ferma

restando la riserva statale sulla tutela dei beni; i criteri, le regole e le garanzie per il reclutamento

del personale, le professionalità necessarie rispetto ai diversi compiti; i parametri di offerta al

pubblico e di gestione dei siti culturali. Tali parametri dovranno attenersi ai principi stabiliti

dall’articolo 2, comma 1 dello Statuto dell’International Council of Museums. Con lo stesso

regolamento sono fissati i meccanismi per la determinazione della durata della concessione per un

periodo non inferiore a cinque anni e del canone complessivo da corrispondere allo Stato per tutta la

durata stabilita, da versare anticipatamente all’atto della stipulazione della relativa convenzione

nella misura di almeno il 50 per cento; la stessa convenzione deve prevedere che, all’atto della

cessazione per qualsiasi causa della concessione, i beni culturali conferiti in gestione dal ministero

ritornino nella disponibilità di quest’ultimo. La presentazione, da parte dei soggetti concorrenti, di

progetti di gestione e valorizzazione complessi e plurimi che includano accanto a beni e siti di

maggiore rilevanza anche beni e siti cosiddetti “minori” collocati in centri urbani con popolazione

uguale o inferiore a 30mila abitanti, verrà considerato titolo di preferenza a condizione che sia

sempre e comunque salvaguardata l’autonomia scientifica e di immagine individuale propria del

museo minore.

Al patrimonio delle associazioni, delle fondazioni e delle società il Ministero può

partecipare anche con il conferimento in uso di beni culturali che ha in consegna. L’atto costitutivo

e lo statuto delle associazioni, delle fondazioni e delle società debbono prevedere che, in caso di

estinzione o di scioglimento, i beni culturali ad esse conferiti in uso dal Ministero ritornano nella

disponibilità di quest’ultimo.

Il Ministro presenta annualmente alle camere una relazione sulle iniziative adottate ai sensi

del comma 1.

A distanza di anni dal d.lg. 368/1998, è stato approvato un regolamento relativo alla

“costituzione e la partecipazione a fondazioni da parte del Ministero per i beni e le attività

culturali”.

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36. LA ESTERNALIZZAZIONE COME MISURA DI RAZIONALIZZAZIONE GENERALE NELLA

FINANZIARIA 2002.

Una prospettiva di ampio respiro in materia di esternalizzazioni è seguita dalla legge 28

dicembre 2001 n. 448, recante Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale

dello Stato (legge finanziaria 2002).

L’articolo 29 (significativamente rubricato come Misure di efficienza delle pubbliche

amministrazioni) prevede che:

“1. Le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30

marzo 2001, n. 165, nonché gli enti finanziati direttamente o indirettamente a carico del bilancio

dello Stato sono autorizzati, anche in deroga alle vigenti disposizioni, a:

a) acquistare sul mercato i servizi, originariamente prodotti al proprio interno, a condizione

di ottenere conseguenti economie di gestione;

b) costituire, nel rispetto delle condizioni di economicità di cui alla lettera a), soggetti di

diritto privato ai quali affidare lo svolgimento di servizi, svolti in precedenza;

La norma prevede, quindi, una vistosa innovazione rispetto alle previdente regole di

contabilità, consentendo l’utilizzazione di strumenti alternativi alla gestione diretta di attività e

servizi.

La portata della disciplina è generale e – nell’ottica della perequazione dei bilanci e della

manovra economica – la norma si applica a tutte le amministrazioni, anche se è di derivazione

statale.

L’articolo non pare chiarire in questo punto quali siano le modalità strutturali del soggetto

(partecipazione totalitaria o prevalente quasi certamente) e nemmeno i criteri di scelta del partner

privato.

Suscita dubbi anche la limitazione applicativa ai soli i servizi svolti in precedenza. La

prospettiva è, evidentemente, quella del risparmio. Ma nulla impedisce che disposizione si possa

applicare anche a servizi di nuova istituzione.

La lettera c) poi prevede che le amministrazioni possano attribuire a soggetti di diritto

privato già esistenti, attraverso gara pubblica, ovvero con adesione alle convenzioni stipulate ai

sensi dell'articolo 26 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, e successive modificazioni, e

dell'articolo 59 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, lo svolgimento dei servizi di cui alla lettera

b).

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Non è molto chiara la differenza dalle due ipotesi precedenti. Ma si deve ritenere che lo

scopo della norma sia essenzialmente quello di consentire l’utilizzazione di strutture soggettive

preesistenti.

La Corte costituzionale, con sentenza 16 gennaio 2004, n. 17 ha riconosciuto la legittimità

costituzionale della norma, respingendo le censure proposte da alcune regioni, che lamentavano

l’ingerenza su sfere legislative rientranti nei commi terzo e quarto dell’articolo 117 della

Costituzione.

Secondo la Corte, spetta allo Stato, in sede di legislazione concorrente, la determinazione

dei principi fondamentali nella materia compresa nella endiadi espressa dalla indicazione di

“armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema

tributario“ (art. 117, terzo comma; art. 119, secondo comma, della Costituzione riguardante i

“tributi e le entrate propri” delle Regioni ed enti locali).

La disposizione del comma primo (e secondo), inoltre, pure con un obiettivo economico-

finanziario riguardante tutte le amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato, di cui all'art. 1,

comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (e quindi anche le Regioni e gli enti locali), ha carattere

meramente facoltizzante e autorizzatorio con valore di principio.

Per effetto di detta norma, la scelta riguardante il reperimento sul mercato o l'affidamento

dei servizi o la gestione diretta resta rimessa, in ogni caso, rispettivamente alla Regione e agli enti

territoriali, sia in ordine all'an sia in ordine al quomodo.

Il legislatore statale, con la predetta disposizione, si è limitato ad indicare, con carattere non

vincolante per l'autonomia delle Regioni ed in via generale e non di dettaglio, talune possibili

modalità procedimentali, caratterizzate da finalità esclusivamente economico-finanziarie, per una

c.d. esternalizzazione dei servizi.

Tali nuove modalità possono essere aggiunte a quelle previste nei singoli ordinamenti per

l'acquisizione e l'affidamento dei servizi, nel rispetto dei principi di economicità e buona

amministrazione e di copertura della spesa, senza, tuttavia, imporre o condizionare le scelte delle

amministrazioni diverse dallo Stato.

In realtà la norma del comma 1, deve essere correttamente interpretata in modo unitario,

come prima indicazione di principio di possibili misure adottabili in materia, in un ambito di primo

coordinamento della finanza pubblica, in ordine al reperimento di forme aggiuntive di copertura

delle spese e di finanziamento e alla riduzione dei fabbisogni finanziari per la gestione dei “servizi”.

Ciò deve intendersi, anche in relazione alle caratteristiche del testo legislativo in cui è inserita

(legge finanziaria 2002), come disposizione prodromica all'attuazione degli artt. 117, terzo comma,

e 119, primo e secondo comma, della Costituzione.

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Il comma 5 dell'art. 29 attribuisce al regolamento statale, emanato su proposta del Ministro

dell'economia e delle finanze ai sensi dell'art. 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400

(Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), il

potere di definire la tipologia dei servizi trasferibili, nonché le modalità dell'affidamento, i criteri

per l'esecuzione del servizio e per la determinazione delle relative tariffe, nonché le clausole di

carattere finanziario, fatte salve le competenze di Regioni ed enti locali.

La Corte, con la citata sentenza n. 17/2004 ha respinto le censure di incostituzionalità

sollevate da alcune regioni, secondo le quali tale disposizione violerebbe l'art. 117, comma sesto,

della Costituzione, in quanto prevede un potere regolamentare statale anche nei confronti dei servizi

trasferibili delle Regioni e degli enti locali in una materia appartenente alla competenza legislativa

regionale c.d. residuale.

A parere della Corte, la questione si basa su di un erroneo presupposto, in quanto la clausola

di salvezza («fatte salve le funzioni delle Regioni e degli enti locali») deve essere interpretata

nell'unico modo costituzionalmente corretto, cioè nel senso che la potestà regolamentare statale può

riguardare solo la parte normativa di competenza esclusiva statale, e quindi riferirsi esclusivamente

all'organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali.

Di conseguenza la previsione di regolamento non ha riguardo alle Regioni e agli enti locali.

Pertanto non può ritenersi violata alcuna competenza regionale.