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L’Osservatore Romano il Settimanale Città del Vaticano, giovedì 23 marzo 2017 anno LXX, numero 12 (3.885) Messaggio ai giovani

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L’Osservatore Romanoil SettimanaleCittà del Vaticano, giovedì 23 marzo 2017anno LXX, numero 12 (3.885)

Messaggioai giovani

L’Osservatore Romanogiovedì 23 marzo 2017il Settimanale

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L’OS S E R VAT O R E ROMANO

Unicuique suum Non praevalebunt

Edizione settimanale in lingua italiana

Città del Vaticanoo r n e t @ o s s ro m .v a

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v a

GI O VA N N I MARIA VIAND irettore

GIANLUCA BICCINICo ordinatore

PIERO DI DOMENICANTONIOProgetto grafico

Redazionevia del Pellegrino, 00120 Città del Vaticano

fax +39 06 6988 3675

Servizio fotograficotelefono 06 6988 4797 fax 06 6988 4998

[email protected] w w w. p h o t o .v a

TIPO GRAFIA VAT I C A N A EDITRICEL’OS S E R VAT O R E ROMANO

don Sergio Pellini S.D.B.direttore generale

Abb onamentiItalia, Vaticano: € 58,00 (6 mesi € 29,00).

telefono 06 6989 9480fax 06 6988 5164i n f o @ o s s ro m .v a

Se è vero che Paolo VI è un Papa lontano neltempo e di fatto dimenticato, altrettanto valeper uno dei suoi documenti più caratteristici,l’enciclica Populorum progressio sullo sviluppodei popoli. Pubblicato mezzo secolo fa, il te-sto porta la data del 26 marzo 1967, giorno diPasqua, e suscitò nel mondo un enorme cla-more, pari solo ai contrasti che avrebbe solle-vato un anno e mezzo dopo l’Humanae vitaeper il controllo naturale delle nascite. E non acaso proprio su questi due documenti tornòcon accenti particolari Montini nel solenne bi-lancio del pontificato tenuto il 29 giugno 1978,quando «il corso naturale della nostra vita vol-ge al tramonto», disse il Pontefice che si sa-rebbe spento quasi all’improvviso quarantagiorni più tardi.

Nel discorso Paolo VI dichiarò che le dueencicliche avevano voluto difendere la vitaumana «minacciata, turbata o addirittura sop-

zione, in molti accenti e nello stesso linguag-gio, appassionato e suggestivo.

Come spesso accade nella tradizione cristia-na, antico e nuovo si mescolano nella Populo-rum progressio, testo in radice evangelico e chesa unire con efficacia, e in uno sguardo lungi-mirante, la stessa esperienza personale diMontini, contributi del pensiero contempora-neo, l’insegnamento sociale dei Papi e la visio-ne di antichi autori cristiani. «La terra è data atutti, e non solamente ai ricchi» esclama Am-brogio, il santo vescovo di Milano citatodall’enciclica, che subito dopo spiega come ildiritto di proprietà non deve mai danneggiarel’utilità comune, appunto «secondo la dottrinatradizionale dei padri della Chiesa e dei gran-di teologi».

Il testo papale, concepito e maturato all’ini-zio degli anni sessanta, vede lucidamente chela questione sociale non solo è questione mo-rale, ma ha oggi una «dimensione mondiale».Montini si riferisce espressamente ai viaggicompiuti in America latina e in Africa da car-dinale e a quelli in Terra Santa, in India e aNew York, nella sede delle Nazioni unite, co-me successore di Pietro che aveva scelto il no-me di Paolo, per spiegare una delle afferma-zioni più incisive dell’enciclica — «I popolidella fame interpellano oggi in maniera dram-matica i popoli dell’opulenza» — e dichiararsi«avvocato dei popoli poveri».

Mezzo secolo è trascorso dalla pubblicazio-ne della Populorum progressio e a grandi lineela visione di Montini resta valida nella suadrammatica e radicale diagnosi: «Il mondo èmalato. Il suo male risiede meno nella dilapi-dazione delle risorse o nel loro accaparramen-to da parte di alcuni che nella mancanza difraternità tra gli uomini e tra i popoli». Comeoggi, pur incompreso da molti, anche nellaChiesa, ripete senza stancarsi il suo successore.Che di Paolo VI sta restituendo la memoria.

g. m .v.

pressa»: scelta definita dal Papa imprescindibi-le nel quadro del suo insegnamento per servirela verità. Appena concluso il concilio, propriouna nuova presa di coscienza delle esigenzedel messaggio evangelico imponeva alla Chie-sa «di mettersi al servizio degli uomini» scri-veva infatti il Pontefice all’inizio del testo, pre-parato grazie a collaborazioni diverse ma cherisulta indiscutibilmente personale nell’ispira-

L’enciclicadimenticata

#editoriale

Papa Montini firmala «Populorum progressio»

datata 26 marzo 1967, giornodi Pasqua

L’Osservatore Romanogiovedì 23 marzo 2017il Settimanale

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di VINCENZOFACCIOLI PINTOZZI

IUn camminoin salita

l governo centrale «non deve garantire unaparticolare attenzione nei confronti delle mi-noranze. Deve però considerare tutti i pakista-ni uguali fra loro: religione, etnia o provenien-za non dovrebbero influire sul trattamentogiuridico, l’occupazione o l’erogazione di ser-vizi pubblici». È quanto afferma all’«O sserva-tore Romano» il direttore della commissionenazionale giustizia e pace della conferenza epi-scopale pakistana, Emmanuel Yousaf Mani. Ilsacerdote non ritiene che la situazione dei cri-stiani nel paese sia peggiorata nell’ultimo pe-riodo, ma «di certo tutto può migliorare».Quello che davvero preoccupa è il «clima stri-sciante» di discriminazione sociale e lo scolla-mento fra le aree sotto il controllo dello statoe quelle tribali, quasi del tutto oramai in manoa strutture assimilabili a quelle dei talebani.

Lo prova l’avvertimento lanciato dal gruppofondamentalista Jamaat-ul-Ahrar, che dopoaver attaccato il mese scorso la Punjab Assem-bly di Lahore, ha pubblicato un video on line:«Chiese, templi (indù), gurdwara (sikh) e tuttii luoghi di culto non islamici non rientranonei nostri obiettivi, a meno che o fintantochéquesti luoghi non saranno usati dai nemicicontro di noi». Parlando ad AsiaNews JosephCoutts, arcivescovo di Karachi, ha sottolineatocome sia “difficile” comprendere i talebani:«Dipende tutto dal modo in cui pensano, dacome interpretano la nozione di nemico e col-legano le circostanze. Sono sfuggenti e potreb-bero fare qualsiasi cosa a un funzionariodell’esercito che visita una chiesa o a un poli-ziotto in servizio di guardia durante la messadomenicale. Si tratta di un tipo diverso diguerriglia. Dobbiamo imparare a proteggerci».

Jamaat-ul-Ahrar è responsabile dell’attentatolanciato a Pasqua dello scorso anno contro unparco cittadino di Lahore, che ha causato oltresettanta vittime. Saeed Khan, direttore del Fo-rum per la riconciliazione nazionale, spiegaall’«Osservatore Romano» che «vanno presimolto sul serio. Non sono pregiudizialmentecontrari ai non musulmani come i loro “cugi-ni” in Afghanistan: li vogliono semplicementefuori da quello che considerano il proprio ter-ritorio. È questo che mi fa temere di più per ilfuturo: l’assenza dello stato da intere aree, do-ve non vige più il diritto nazionale ma solo

Tuttavia, la Chiesa cattolica rimane ottimi-sta. «Noi — conclude Mani — non possiamofare altro che predicare la pace e continuare acomportarci come abbiamo sempre fatto. Dicerto un po’ di sana preoccupazione c’è, manon lasciamo la nostra terra o la nostra fede.Invitiamo tutti a ricorrere al dialogo davantialle differenze e chiediamo che vengano ab-bandonate le armi. Confidando nel Signore».

quello religioso, distorto dal fondamentali-smo». Alcune fonti cattoliche commentanocon preoccupazione anche la decisionedell’esecutivo di Islamabad di riaprire i tribu-nali militari segreti. La Camera bassa ha ap-provato il primo disegno di legge che riguardaqueste Corti di giustizia, nate nel 2015 in ri-sposta alla strage talebana che uccise 134 gio-vanissime reclute di una scuola militare. Con-clusi i due anni di mandato, i tribunali hannochiuso i battenti il 7 gennaio: ora il governointende riaprirli e fornire loro la possibilità diincriminare i civili sospettati di terrorismo.

Secondo Khan, «i tribunali rischiano di di-venire la mano armata dell’esecutivo non sol-tanto contro il fondamentalismo, ma anchecontro tutti coloro che vi si oppongono. Sulmodello dell’America latina degli anni settan-ta, rischiamo di vedere sparire nel nulla coloroche hanno diritti da affermare e ingiustizie dasanare. Se a questo aggiungiamo le minaccedegli integralisti islamici, possiamo prevedereun cammino in salita per tutti coloro che inPakistan non sono uomini e musulmani».

P re o c c u p a z i o n edei cristianiin Pakistan

Ma n i f e s t a z i o n econtro le discriminazioni

#internazionale

L’Osservatore Romanogiovedì 23 marzo 2017il Settimanale

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di ANTONIOZANARDI LANDI

Nelle ultime settimane l’attenzione è stata mo-nopolizzata dagli interrogativi sulle futurescelte di fondo della nuova amministrazioneamericana. E in effetti le decisioni che verran-no adottate a Washington nei prossimi mesiavranno un peso notevolissimo per determina-re i futuri assetti a livello mondiale. Eppure,per quanto importanti, gli Stati Uniti non so-no l’unico grande attore globale e le prime de-cisioni e annunci di Trump hanno determinatoreazioni di vario genere, spesso molto signifi-cative, tra i governi degli altri grandi paesi,certo non disposti ad accettare la prospettivadi un mondo unipolare.

Mentre da parte di Mosca si sono avute rea-zioni fortemente critiche, in particolare all’an-nuncio di consistenti aumenti al già rilevantis-simo bilancio delle forze armate statunitensi,quelle di Pechino sono state per lo più conno-tate da una marcata prudenza e sono sembratedare una risposta a uno degli interrogativi piùrilevanti sul futuro delle relazioni internaziona-li: la Cina accetterà un ordine mondiale strut-turatosi in tempi precedenti al suo rapidissimosviluppo e al suo divenire la seconda econo-mia al mondo per prodotto interno lordo, e laprima per potere d’acquisto comparato, o cer-cherà di sovvertirlo e di riscriverne le regolefondamentali?

Le reazioni cinesi all’avvio della presidenzaTrump fanno pensare che Pechino si limiterà acercare di acquisire maggior peso nelle que-stioni globali, ma senza metterne in discussio-ne i fondamenti. Per esempio, il presidenteTrump annuncia un forte aumento delle spesemilitari e Pechino, con molta moderazione, silimita ad augurarsi che forze armate statuni-tensi più attrezzate serviranno per mantenere

la pace e assicurare la coesistenza pacifica,mentre una settimana più tardi rende noto chele proprie spese militari non cresceranno piùdel sette per cento, e cioè meno che negli annip re c e d e n t i .

Segno che, nonostante le tensioni ricorrentinel Mar Cinese meridionale, Pechino non in-tende farsi trascinare in una corsa agli arma-menti accelerata e che desidera proseguire alsuo passo un rafforzamento del proprio stru-

mento militare che la doterà solo tra una ven-tina d’anni di una marina militare appenacomparabile a quella degli Stati Uniti.

E ancora, Trump annuncia un clamorosoabbandono dei principi a favore dello sviluppodel commercio internazionale che avevano sto-ricamente connotato le posizioni di Washing-ton. La leadership cinese reagisce proponendorapidamente a tutti i paesi dell’area e ad alcunidell’America latina la conclusione di un accor-do che consoliderebbe la sua posizione dibaricentro del commercio internazionale inuna vastissima parte del mondo. A Davos, alWorld Economic Forum, Xi Jinping si fa aper-tamente portatore di quei principi di liberomercato che erano tradizionalmente propridella politica degli Stati Uniti. Ci vorrà deltempo prima che la Cina riesca effettivamentea divenire pienamente un’economia di mercatoin senso tradizionale e rinunciare a politicheprotezioniste in alcuni settori importanti dellapropria economia, ma la strada è segnata.

Le scelte recenti di Pechino sembrano chia-ramente indicare che la Cina è insoddisfattadel ranking che le è stato sinora assegnato, mache intende guadagnare terreno senza sovverti-re le regole fondamentali del gioco. Nonostan-te queste considerazioni positive, si sono aper-te grandi sfide per l’occidente, verso una mag-giore efficienza e capacità d’innovazione, oltreche verso l’adozione di politiche coerenti ecoese a livello europeo. Solo così la Cina po-trà essere per l’Europa un partner prezioso enon solo un temibile concorrente.

La Cina e le regoleinternazionali

Il poster di un magazine cinesecon in copertinail presidente Trump(Shangai, Reuters)

#ilpunto

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da TokyoCRISTIANMARTINI GRIMALDI

KMorti solitarie

odokushi in giapponese significa “morte solita-ria”, ma è più di una parola, rappresenta infat-ti il cambiamento stesso del paese, dove la so-litudine e la rottura dei legami familiari sonoormai la cifra di una società sempre più fram-mentata. Il termine si riferisce alle persone an-ziane che muoiono da sole, i cui corpi senzavita vengono scoperti spesso dopo settimane oaddirittura mesi. Il numero di casi è impressio-nante, circa trentamila all’anno, anche se inquesta cifra sono inclusi migliaia di suicidi do-vuti spesso proprio alla solitudine.

Secondo uno studio sono due le caratteristi-che delle vittime di Kodokushi. I maschi sonopiù a rischio rispetto alle donne, e poi c’è ilfattore alcolismo: senza famiglia e senza lavoroperdono la voglia di vivere e tendono a isolar-si dalla comunità. Senza amici o parenti dun-que o più tristemente senza nessuno che si cu-ri di loro, questi anziani si trovano spesso a ri-siedere in piccoli appartamenti isolati dalmondo fino a quando l’odore di decomposi-zione non attira l’attenzione di qualcuno. Ac-cade soprattutto nelle zone rurali, la morteviene scoperta solo quando vi sono scadenzedi impegni finanziari e a quel punto qualcunoche “si interessi” salta fuori, ma non per com-passione. È successo un anno fa a un sessan-tenne, morto in un appartamento alla periferiadi Osaka. Per settimane il suo corpo si eralentamente decomposto senza che nessuno sene accorgesse. L’anziano non aveva amici, nonaveva un lavoro, non aveva moglie. Aveva pe-rò un figlio, col quale non parlava da anni.Per tre mesi nessuno ha chiamato, nessuno sa-peva, a nessuno importava. Per centoventi lun-ghi giorni il suo corpo è marcito accanto allescatole di cibo istantaneo e agli scarafaggi. Lasua banca aveva smesso di pagare l’affitto nonappena il conto era rimasto all’asciutto. Il pro-prietario della casa è stato il primo a rinvenir-ne il corpo. In un caso estremo che confinacon il macabro, nel 2010, Sogen Kato, permolto tempo ritenuto l’uomo più anziano di

no che farsene di quelle case ereditate loromalgrado. Perché in Giappone il tempo da de-dicare all’ozio non esiste e quando si decide diprendere le poche vacanze che si hanno si pre-ferisce puntare su mete esotiche. Il paese haattualmente non solo la più alta percentuale almondo di persone anziane, ma ben pochestrutture da mettere loro a disposizione. Alme-no 420.000 gli anziani in attesa di posti lettoin case di cura. La situazione è talmente dram-matica che alcune realtà locali si sono affidatealla buona volontà del personale postale percompiere dei “check-in” sugli anziani, in mododa aumentare le occasioni di contatto umano.

Tokyo a 111 anni di età, è stato scoperto dopopiù di trent’anni dalla morte completamentemummificato nel suo stesso appartamento. Eramorto in tutta probabilità già nel 1978, a 79anni, ma la famiglia che aveva scoperto il ca-davere dopo molto aveva deciso di continuarea far finta di niente per incassare la pensione.

Il Kodokushi è intimamente legato ai cam-biamenti sociali in corso in Giappone. Il pae-se, si sa, sta invecchiando, l’età media dellapopolazione non è molto lontana dal pensio-namento, e in molte farmacie la vendita dipannoloni per adulti supera persino quello deipannolini per bambini. Sono anni che i piùgiovani abbandonano gli stili di vita rurali pergli ambienti urbani, un fatto testimoniato an-che dall’alto numero di case, in buone condi-zioni, abbandonate nei centri alle periferie del-le grandi città. Le nuove generazioni non san-

Il fenomenoaumenta

in Giappone

Veduta panoramica della caoticacapitale giapponese

#internazionale

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di GIUSEPPEFIORENTINO

C

Ma l’Ue restacon il fiato corto

osa succederà adesso? La domanda che avreb-be dominato i commenti sul voto olandese nelcaso di una vittoria della destra populista, èvalida anche ora, dopo l’affermazione del par-tito liberale del premier uscente Mark Rutte.Un’affermazione accolta con grande sollievodalle cancellerie e dai mercati europei, ma chesuscita, appunto, qualche interrogativo.

All’indomani delle elezioni olandesi vieneinfatti da chiedersi quale insegnamento trar-ranno dal voto le istituzioni europee, che peril momento si sono “limitate” a celebrare lavittoria di Rutte, definendola un argine controla deriva anti-europeista. Il pericolo della Ne-xit (l’uscita dei Paesi Bassi dall’Unione) èscongiurato e l’Ue può raccogliere le idee inattesa delle presidenziali francesi e dellelegislative tedesche, appuntamenti che costitui-ranno un vero banco di prova per la tenutaeurop ea.

Perché una cosa è certa e la Brexit è lì a di-mostrarlo: il processo di integrazione conti-nentale è tutt’altro che irreversibile. A minac-ciarlo, tuttavia, non sono i partiti cosiddettisovranisti che predicano l’uscita dei rispettivipaesi dall’Unione e il conseguente ritorno allevecchie monete nazionali. La debolezza delprogetto europeo è in primo luogo dovuta alladistanza che le istituzioni hanno accumulatorispetto alla cittadinanza ed è proprio su que-sta distanza che le forze politiche populistefanno leva per mietere consensi.

Il rischio è quindi che il voto olandese pos-sa costituire una sorta di alibi per l’Ue che,mentre si avvia a celebrare il sessantesimo an-niversario dei Trattati di Roma, potrebbe esse-re indotta a pensare che il peggio è passato.Invece non è così. L’Unione resta fragile nonsolo a motivo del fossato scavato tra essa e lepersone, ma per la cronica mancanza di unprogetto comune sui grandi temi. Come quellodell’accoglienza ai profughi e ai migranti cheha davvero visto dividere l’E u ro p a .

È stata proprio l’assenza di una visione con-divisa a spingere verso la definizione di un ac-cordo con la Turchia, la quale, in cambio dimolto denaro, ha accettato di “a c c o g l i e re ” nelsuo territorio i profughi che altrimenti avreb-bero affollato la rotta balcanica. Ora il gover-

no di Ankara, in aperta polemica proprio conl’Olanda, minaccia di rivedere quell’intesa. Secosì fosse verrebbero messi in discussioneequilibri fragilissimi in seno all’Ue, equilibriraggiunti dopo mesi e mesi di difficili tratta-tive.

Comunque vadano le cose resta l’amaraconstatazione di un’Unione dal fiato corto, de-bole a tal punto da far dipendere la propriastabilità dalle decisioni di un paese terzo.

Dopo le legislativein Olanda

Operazioni di voto nel seggioelettorale al ventesimo pianodell’Adam Towerdi Amsterdam (Ap)

#internazionale

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di ROBERTORIGHETTO

Era la fine di marzo del 1994 e a Hollywood ilfilm di Spielberg Schindler’s List vinceva ottoOscar che premiavano non solo la storia del-l’imprenditore tedesco che a Cracovia riuscì asalvare centinaia di ebrei impiegati nella suafabbrica, divenendo così Giusto delle nazioni,ma anche il racconto crudo della Shoah. Do-vevano trascorrere pochi giorni e in Africa, inun paese fino ad allora considerato tranquillo,il Ruanda, aveva inizio «il genocidio più velo-ce della storia». In soli tre mesi, tra aprile egiugno, si compiva il massacro, in gran parte acolpi di machete, di circa ottocentomila perso-ne quasi tutte di etnia tutsi da parte di estre-misti hutu (ma anche molti hutu che non era-no d’accordo con la terribile ondata di violen-za furono uccisi). Una tragedia cui l’o ccidenteassisté senza intervenire e che non ha egualiper rapidità ed efferatezza.

Ora, finalmente, dopo più di vent’anni, laChiesa ruandese ha approvato un documentoin cui si fa mea culpa. In una lettera che è sta-ta letta nelle chiese, i vescovi scrivono conchiarezza: «Ci scusiamo in nome di tutti i cri-stiani per tutti gli errori commessi. Ci dispiaceche membri della Chiesa abbiano violato il lo-ro giuramento di obbedienza ai comandamentidel Signore. Perdonateci per i crimini di odionel paese, non abbiamo mostrato di essere unasola famiglia, ma ci siamo uccisi a vicenda».Frasi forti per non dimenticare che molti mas-sacri furono compiuti dentro le chiese e chediversi sacerdoti si macchiarono di delitti san-guinari (alcuni sono stati giustamente condan-nati). Il paese delle mille colline e dalle ancorapiù numerose parrocchie divenne predadell’odio etnico. Perfino ai vertici della Chiesavi fu acquiescenza verso il genocidio e le chie-se che erano state in passato tradizionalmenteun rifugio di fronte alla violenza, divenneroveri e propri mattatoi. Ma vi furono anchemolti preti, suore e missionari che si opposeroe rifiutarono di stilare le liste dei parrocchianitutsi: in alcuni casi anzi li nascosero e finironoessi stessi vittime. Alla fine rimasero uccisi trevescovi, 103 preti, 66 suore e 53 frati.

Il documento dei vescovi ruandesi, seppuredopo tanto tempo, rappresenta un doverosoatto di riparazione ed è stato reso noto pocodopo l’anno santo della misericordia volutodal Papa. Con l’obiettivo di portare pace egiustizia in una nazione che oggi vive addirit-tura un certo boom economico e ha cercato dicancellare il peso del passato. Anche se moltisostengono che in questi vent’anni, nonostantei tanti processi celebrati, non si sia giunti dav-vero a quella riconciliazione nazionale che tut-ti auspicavano.

Lo dimostra un libro inchiesta di una giova-ne ricercatrice, Valentina Codeluppi, pubblica-to nel 2012 col titolo eloquente Le cicatrici delRuanda (Emi). Il volume prende in considera-zione i tentativi messi in campo per fare giu-stizia assumendo come modello il processo di

internazionale e dal 2002, per volere del go-verno, anche le corti di villaggio tradizionali.Ma in migliaia di processi si è puntato quasiesclusivamente sui colpevoli, senza dare suffi-ciente ascolto ai sopravvissuti e ai traumi subi-ti: «La sola punizione può provocare conse-guenze molto negative come la sete di vendet-ta e la frustrazione» nota Codeluppi. Ora sispera che il mea culpa dei vescovi possa contri-buire a sanare le ferite.

riconciliazione realizzatosi in Sud Africa dopola fine dell’apartheid. Ma mentre la Commis-sione presieduta dal vescovo Tutu è riuscitacon le sue specifiche modalità a far riconosce-re ai colpevoli i misfatti compiuti, a farli in-contrare e spesso rappacificare con le vittime ei loro parenti, lo stesso meccanismo non si èverificato in Ruanda. Ove ai tribunali ordinarinel 1995 si sono affiancati un Tribunale penale

Doveroso attodi riparazione

Il mea culpadei vescovi

ruandesi

#catalogo

Josette, con il figlio Thomas, èuna delle vittime delle violenzein Ruanda fotografatedallo svedese Jonathan Torgovnik

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di ROBERTOPERTICI

L’

Un urtodiromp ente

enciclica Populorum progressio, che porta la da-ta del 26 marzo 1967, Pasqua di Risurrezione,è uno dei testi più significativi ed emblematicidegli anni sessanta del secolo scorso: in una li-nea di sostanziale continuità con alcuni impor-tanti testi conciliari e con interventi dello stes-so Paolo VI.

Il mondo era allora percorso da cambiamen-ti straordinari e da un inedito sviluppo econo-mico: probabilmente la più sensazionale, rapi-da e profonda rivoluzione nella condizioneumana di cui ci sia traccia nella storia. I docu-menti conciliari avvertono che qualcosa digrande sta accadendo: «L’umanità vive oggi —afferma la Gaudium et spes — un periodo nuo-vo della sua storia, caratterizzato da profondie rapidi mutamenti che progressivamente siestendono all’insieme del globo».

Lo nota anche la Populorum progressio, quan-do afferma che «l’urto tra le civiltà tradizionalie le novità portate dalla civiltà industriale haun effetto dirompente sulle strutture, che nonsi adattano alle nuove condizioni. Dentrol’ambito, spesso rigido, di tali strutture s’in-quadrava la vita personale e familiare, che tro-vava in esse il suo indispensabile sostegno, e ivecchi vi rimangono attaccati, mentre i giovanitendono a liberarsene, come d’un ostacolo inu-tile, per volgersi evidentemente verso nuoveforme di vita sociale».

Era stata proprio la fuoriuscita dalla staticitàdelle società tradizionali che stava aprendo gliocchi alle masse dei paesi in via di sviluppo eallargando a livello planetario i conflitti socia-li: «la viva inquietudine, che si è impadronitadelle classi povere nei paesi in fase di indu-strializzazione, raggiunge ora quelli che hannouna economia quasi esclusivamente agricola: icontadini prendono coscienza, anch’essi, dellaloro miseria immeritata». Insomma: per com-battere la povertà e la disuguaglianza (questal’impostazione dell’enciclica), ci si deve inseri-re in un processo di trasformazione economi-ca, non restarne ai margini. Ma le società cherisulteranno da questa incalzante modernizza-

zione non dovranno ripetere i difetti e i limitidella “società affluente” del “primo mondo”: ilconsumismo, l’atomismo individualistico, la lo-gica puramente utilitaria, l’attivismo, il tecnici-smo. Bisogna inoltre evitare che le nuove so-cietà conoscano laceranti disuguaglianze socia-li, come si erano avute nel mondo occidentaledopo la prima rivoluzione industriale. L’enci-clica non le attribuisce all’industrializzazionetout court, di cui invece sottolinea la positività,

ma al quadro ideologico in cui essa si era svol-ta: il «capitalismo liberale», come lo chiama.Tutto questo si era, in realtà, realizzato anchenei paesi first comers dell’industrializzazione,anzi qui stava la radice del loro grande svilup-po. Ma spesso era stato il portato di dure lottee di conflitti sociali, che, in questo nuovo sta-dio, potevano invece essere evitati. La moder-nizzazione del terzo mondo doveva essere gra-duale. La Chiesa, «esperta di umanità», sa be-nissimo che certi equilibri nella società sonoindispensabili, per cui la trasformazione socia-le non deve essere affrettata.

È moralmente giustificato in alcuni momen-ti forzare le situazioni e produrre un moto ri-voluzionario per eliminare ingiustizie insop-portabili e disuguaglianze dolorose? A questadomanda che allora emergeva anche da moltiambienti del mondo cattolico Paolo VI risp on-deva che, pur essendo in certi casi grande latentazione della violenza, essa era ammissibilesolo in determinate situazioni. «Non si puòcombattere un male reale — questa la conclu-sione del Pontefice — a prezzo di un male piùgrande».

Il male più grande era la prospettiva di«una collettivizzazione integrale o d’una piani-ficazione arbitraria che, negatrici di libertà co-me sono, escluderebbero l’esercizio dei dirittifondamentali della persona umana» e la realiz-zazione di un umanesimo ateo, «un umanesi-mo chiuso, insensibile ai valori dello spirito ea Dio che ne è la fonte [...]». Senza dubbiol’uomo può organizzare la terra senza Dio, ma«senza Dio egli non può alla fine che organiz-zarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo èun umanesimo inumano».

La condizione essenziale perché si realizzas-sero questi auspici era che il processo di mo-dernizzazione non venisse accompagnato dauna secolarizzazione selvaggia, come stava ac-cadendo nei paesi sviluppati, perché «non v’èumanesimo vero se non aperto verso l’Assolu-to, nel riconoscimento d’una vocazione, cheoffre l’idea vera della vita umana».

Cinquant’anni fal’enciclicadi Paolo VI

sullo sviluppodei popoli

Piazza San Pietro il 26 marzo1967, domenica di Pasqua

#populorumprogressio

L’Osservatore Romanogiovedì 23 marzo 2017il Settimanale

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di GI A N PA O L ORO M A N AT O

FLa rivoluzionemontiniana

urono i quindici anni di pontificato di PaoloVI ad aprire le porte del cardinalato alle nuoveChiese d’Africa, Asia e Oceania. Quando morìGiovanni Battista Montini, infatti — il 6 ago-sto 1978 — i cardinali aventi diritto al voto (en-trò allora in vigore per la prima volta la normache escludeva gli ultraottantenni) erano 114,con una rappresentanza delle nuove Chiese di26 cardinali, molto più alta rispetto ai conclaviprecedenti: 13 africani, 9 asiatici e 4 giuntidall’Oceania. Finalmente una presenza consi-stente, in grado di farsi sentire e di condizio-nare l’elezione.

Paolo VI, che in precedenza non era statoun appassionato viaggiatore, da Papa visitòogni angolo del mondo. Fu il primo Ponteficea servirsi degli aerei. Tra il 1964 e il 1970,quando fu bloccato dalla malattia che gli resedifficile la deambulazione, visitò paesi di tuttii continenti. E in particolare di quello che ve-niva definito il Terzo Mondo.

L’enciclica Populorum progressio, di cui ricor-diamo il cinquantenario della promulgazione,sta proprio al centro di questa rivoluzionemontiniana. Non solo perché dilatò su scalaplanetaria l’insegnamento sociale della Chiesa,ma anche perché affrontò questioni che sareb-bero diventate il perno del dibattito negli annisuccessivi.

Molti temi che fanno parte della nostra cul-tura globalizzata sono chiaramente enunciatida Paolo VI: la ferma condanna del nazionali-smo e del razzismo; il dovere di lottare control’analfabetismo, perché «un analfabeta è unospirito sottoalimentato; la questione demogra-fica, stretta fra la «tentazione» degli stati diadottare «misure radicali» di freno e l’obbligo,ribadito dal Papa, di non coartare la libertàdei genitori di «decidere sul numero dei lorofigli».

L’intera agenda che avrebbe travagliato ilmondo a venire, fino ai giorni nostri, è passatain rassegna in questo documento, espressivocome pochi altri dell’umanesimo, della moder-nità, della laicità che furono tipiche di Monti-ni. L’enciclica uscì nel pieno del dibattito

dolo al vecchio parroco di Torcy: «Noi invece,a quell’epoca, caro mio, abbiamo creduto disentire la terra tremare sotto i nostri piedi.Che entusiasmo! Questa idea così semplice,che il lavoro non è una merce, sconvolgeva lecoscienze, credimi. Per averlo spiegato sul pul-pito ai miei bravi parrocchiani, sono passatoper socialista». Anche molti di noi — che allo-ra avevamo vent’anni e ci entusiasmammo leg-gendo l’enciclica — passarono per socialisti.

postconciliare, quando stava per esplodere larivolta giovanile del ’68.

In questo clima, l’enciclica montiniana fubenzina sul fuoco, uno squillo di tromba per igiovani cattolici, la conferma che le frontieredel mondo avevano ormai dimensioni planeta-rie e che le ideologie andavano sintonizzate sunuove e inedite lunghezze d’onda.

Nacquero innumerevoli organizzazioni nongovernative, frotte di giovani scelsero di opera-re a favore del sud del mondo, iniziò alloraquella cultura dell’interscambio culturale cheha modificato — non senza eccessi e approssi-mazioni, va detto anche questo — le categorieintellettuali di tutta una generazione e il modod’essere di missioni e missionari.

La Populorum progressio ha insomma nellastoria della dottrina sociale cattolica la stessaimportanza della Rerum novarum di fine Otto-cento. Si può ripetere ciò che Georges Berna-nos scrisse a commento dell’enciclica leoniananel Diario di un curato di campagna, attribuen-

Lello Scorzelli«Paolo VI depone la tiara»

#populorumprogressio

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di GIACOMO SCANZI

Don Carlo era un giovane prete montiniano, or-dinato da un decennio dall’arcivescovo bre-sciano. Quando convocò tutti i giovani, unmercoledì sera, compresi quelli di terza media,ci fu sorpresa generale. La sala era piena. Lacuriosità poteva più della convinzione. C’era-no anche i barbuti. Seduti in fondo, con ariadi sfida. Sul tavolo una cinquantina di fogliciclostilati. «Prendete questi fogli; è la nuovaenciclica di Paolo VI, la Populorum progressio.Leggetela, mercoledì ne riparliamo». Quantoquell’enciclica, breve, appassionata, profeticaabbia fatto breccia nella coscienza, per quantopiccola, semplice, umile, talvolta inquieta diun’intera generazione che solo un anno dopoavrebbe provato i brividi della contestazione,lo dicono tante esperienze personali, tante sto-rie che, come quella nata intorno a don Carlo,avrebbero segnato un’epoca e tante vite.

Il Terzo Mondo entrava, con la familiaritàdell’amicizia, dentro l’esperienza cristiana.Tanti giovani orientavano il loro eskimo a sud,le loro barbe diventavano un positivo segnaledi impegno. «Tutti all’opera»: il richiamo diPaolo VI diventava non solo un imperativo ca-tegorico, ma addirittura un nuovo modellod’esperienza di Chiesa, e di Chiesa locale. Esoprattutto d’una Chiesa giovane.

Intorno alla Populorum progressio si venivatessendo, e dal basso, un nuovo linguaggiodell’esperienza di fede che si imponeva, alter-nativo e competitivo, sul linguaggio arido del-la rivoluzione borghese che avrebbe generatoil Sessantotto. Sì, lo spirito rivoluzionario cheinfiammava gli animi inquieti dei giovani, tro-vava una risposta alta e concreta nella visionemondialista di Paolo VI.

Poche encicliche hanno inciso così in pro-fondità sulla vita di una comunità. Vien da

pensare al curato di campagna di Bernanosche leggendo la Rerum novarum sentiva batte-re il cuore, assaporava il pathos della novitàassoluta, del cambio di passo, del perfetto sen-tire il ritmo del tempo. La Populorum progres-sio, con il suo perfetto stile montiniano, si col-loca tra quegli scritti che hanno in sé la forzadella verità e della comunicazione. Quasi a di-re che, cogliendo il perfetto battito del tempo,ha saputo parlare con naturalezza agli uominisenza il bisogno di mediazioni teologiche, ec-clesiologiche o pastorali. Una sorta di linguag-gio naturale, radicalmente antropologico, cheandava dritto al cuore dell’umano. Del vera-

mente umano. Era “la questione”: «I popolidella fame interpellano oggi in maniera dram-matica i popoli dell’opulenza». Di fronte a ta-le domanda, non vi potevano essere distrazio-ni, sguardi girati altrove, alibi consumistici eautoreferenziali. La questione si riassumevaper Paolo VI nello «scrutare i segni dei tempi einterpretarli alla luce del Vangelo». Non sitrattava soltanto di leggere dietro le palesi in-giustizie, le inevitabili spinte rivoluzionarie,una violenza endemica, una rabbia capace disovvertire l’ordine costituito del mondo:«Quando popolazioni intere, sprovviste delnecessario, vivono in uno stato di dipendenzatale da impedir loro qualsiasi iniziativa e re-sponsabilità, e anche ogni possibilità di pro-mozione culturale e di partecipazione alla vitasociale e politica, grande è la tentazione di re-spingere con la violenza simili ingiurie alla di-gnità umana», così da sostenere profeticamen-te che «lo sviluppo è il nuovo nome della pa-ce». Si trattava soprattutto di fermare losguardo su un Occidente così opulento e obe-so, nel suo primato del possesso, nel suo ma-terialismo totalitario, nel suo orizzonte senzacielo.

Le inquietudini del mondo cosiddetto civile,stavano covando e avrebbero prodotto degene-razioni disastrose. Non vi era in Montini alcunrimpianto di mondi scomparsi. Ma il tempoera mutato. La dimensione mondiale, una sor-ta di percezione delle sfide di una globalizza-zione che ancora non aveva trovato il suo no-me, chiamava a responsabilità nuove: «L’uo-mo deve incontrare l’uomo, le nazioni devonoincontrarsi come fratelli e sorelle, come i figlidi Dio». Il ciclostile funzionava giorno e not-te. La Populorum progressio, trascritta con lamacchina da scrivere, era entrata in ogni casa,affinché, il sabato pomeriggio, quando si suo-nava il campanello per raccogliere i pacchi dicarta e cartone che ogni famiglia preparava or-dinatamente, ciascuno sapesse che quelli eranoi ragazzi della Populorum progressio, con barbaed eskimo.

I ragazzidell’enciclica

Un gruppo di Azione cattolicanegli anni sessanta

#populorumprogressio

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di CHARLESDE PECHPEYROU

«Bisogna che il suo ricordo permanga, che la suaopera continui, che il suo sogno di civiltà cri-stiana venga realizzato». Queste parole sonostate scritte dal beato Paolo VI, il 5 novembre1966, dopo aver letto le ultime righe del diariodi uno dei suoi più stretti collaboratori, il pa-dre Louis-Joseph Lebret, scomparso quattromesi prima a 69 anni. Una frase che esprimela grande stima di Giovanni Battista Montiniper il domenicano francese e per il lavoro dalui svolto per tanti anni come pastore, ma an-che sociologo, per aiutare i poveri del mondointero a realizzare essi stessi il loro sviluppo.Una stima tanto grande da affidargli il lavoropreparatorio alla Populorum progressio, l’encicli-ca sullo sviluppo dei popoli, pubblicata il 26marzo 1967, festa di Pasqua.

«L’enciclica non avrebbe visto il giorno sen-za padre Lebret, ossessionato dall’idea di unaeconomia “umana”, che rispondesse ai bisognie non solo alla domanda quantificabile e solvi-bile», scriveva nel 2007 il gesuita franceseJean-Yves Calvez sulla rivista «Projet». «Fon-datore del movimento Économie et Humani-sme, poi dell’Istituto di ricerca e di formazio-ne all’economia dello sviluppo, Lebret ha per-corso il mondo, prodigando i suoi consigli perlo sviluppo al Senegal e ai paesi dell’Americalatina. Morì nel 1966 prima della pubblicazio-ne dell’enciclica, che porta ciononostante ilsuo stampo».

I rapporti tra padre Lebret e Paolo VI risal-gono a molti anni prima. Il primo contatto trail domenicano e Monsignor Montini, allorasostituto alla Segreteria di Stato della SantaSede, risale al 1947. Lebret è in quel periododirettore di Économie et Humanisme. I dueuomini continuano la loro corrispondenza epi-stolare negli anni seguenti, fino al 1953, quan-do il prelato italiano propone al padre france-se un primo incontro, al Vaticano. L’anno suc-cessivo il Sostituto viene nominato arcivescovodi Milano poi, nel 1963, è eletto papa; conti-nuerà tuttavia a considerare Lebret un interlo-cutore privilegiato.

Come ha scritto il cardinale Paul Poupard —che ben ha conosciuto i due uomini in quelperiodo — è così che «padre Lebret pervennenegli ultimi anni della sua vita, che furono an-che i primi tre del pontificato di Paolo VI, adalimentare l’informazione e la riflessione delPapa». Dal 1964, in pieno concilio Vaticano II,Paolo VI gli affida molti incarichi. Padre Le-bret è nominato esperto e lavora più partico-larmente all’elaborazione della costituzioneGaudium et Spes. Sarà lui il rappresentantedella Santa Sede a Ginevra nella prima Confe-renza delle Nazioni unite per il commercio elo sviluppo nel 1964.

Nello stesso periodo Paolo VI comincia a la-vorare al progetto di una enciclica sullo svilup-po dei popoli. «Padre Lebret non è un econo-mista, è piuttosto un sociologo che effettuanumerose inchieste sul terreno, ed è soprattut-to un uomo di sintesi per l’azione e per l’im-

minique Chenu, o da esperti cristiani comepadre Lebret, Colin Clark, padre Oswald vonNell-Breuning», segnalava già nel 1967 padreMolette. L’autore vi vedeva «un doppio inten-to: il riconoscimento del lavoro degli esperti eun appello a loro rivolto».

Lebret, quindi, è citato dal Santo Padre, in-sieme a Blaise Pascal ed Henri de Lubac. Masolo il prete bretone viene definito «eminenteesp erto».

pegno non solo in comitati interprofessionalima anche nel sindacalismo» spiegava MarcFeix nel 2007 sulla «Revue d’éthique et dethéologie morale». Negli anni cinquanta, attra-verso numerosi viaggi, con le sue analisi di ter-reno e l’elaborazione di strategie di sviluppo,incontra i grandi nomi dell’economia dello svi-luppo in Europa, in America latina, all’O rga-nizzazione delle Nazione unite.

La settima ed ultima versione dell’enciclicaPopulorum progressio è approvata dal Papa il 20febbraio 1967. «Sta tutto bene» scrive sullebozze. Ognuna delle sette stesure è stata an-notata personalmente dal pontefice ed è statasottomessa al giudizio di esperti provenientidai diversi continenti. «Fatto nuovo in questogenere di documenti, le citazioni ed i riferi-menti sono tratti non solo dalla Scrittura, daiPadri della Chiesa, dal Magistero, ma ancheda “saggi” cristiani come Pascal, Jacques Mari-tain, padre Henri de Lubac, padre Marie-Do-

Collab orazionedecisiva

Il contributodel domenicano

f ra n c e s eLouis-Joseph

L e b re t

#populorumprogressio

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CVerso Panamá

In vista del prossimoappuntamento mondiale inprogramma a Panamá dal22 al 27 gennaio 2019 e delsinodo dei vescovi che siterrà nell’ottobre 2018 sultema «I giovani, la fede e ildiscernimento vocazionale»,con un’iniziativa senzaprecedenti, Papa Francescoha voluto presentaretradizionale il messaggio aigiovani di tutto il mondocon un video in cui accennain modo sintetico ai temitrattati nel documento,invitando a intraprendere unintenso cammino dipreparazione spirituale aquesti due grandiappuntamenti ecclesiali.«Con il ricordo pieno divita del nostro incontro del2016 a Cracovia — spiega —ci siamo messi in camminoverso la prossima meta».Quindi confida che per lui«sono molto importantiquesti momenti di incontroe dialogo» con le nuovegenerazioni. «In questocammino — assicura — ciaccompagna nostra Madre,la Vergine Maria, e ci animacon la sua fede, la stessafede che lei esprime nel suocanto di lode». QuelMa g n i f i c a t che le fa dire:«Grandi cose ha fatto perme l’Onnipotente». Infatti,chiarisce Francesco, «lei sarendere grazie a Dio e simette in viaggio perincontrare sua cuginaElisabetta». E da quelviaggio Francesco ricavauna lezione particolarmentesignificativa per i giovani dioggi: «Non resta chiusa acasa — sottolinea — p erchénon è una giovane-divanoche cerca di starsenecomoda e al sicuro senzache nessuno le dia fastidio.È mossa dalla fede». Da quil’appello ai giovani: come lacoetanea di Nazareth, dice ilPapa, «potete migliorare ilmondo, per lasciareun’impronta che segni lastoria, quella vostra e dimolti altri. La Chiesa e lasocietà hanno bisogno divoi. Con il vostro approccio,con il coraggio che avete,con i vostri sogni e ideali,cadono i muridell’immobilismo e siaprono strade che ciportano a un mondomigliore, più giusto, menocrudele e più umano».

ari giovani,eccoci nuovamente in cammino dopo il no-

stro meraviglioso incontro a Cracovia, doveabbiamo celebrato insieme la XXXI GiornataMondiale della Gioventù e il Giubileo deiGiovani, nel contesto dell’Anno Santo dellaMisericordia. Ci siamo lasciati guidare da sanGiovanni Paolo II e santa Faustina Kowalska,apostoli della divina misericordia, per dareuna risposta concreta alle sfide del nostro tem-po. Abbiamo vissuto una forte esperienza difraternità e di gioia, e abbiamo dato al mondoun segno di speranza; le bandiere e le linguediverse non erano motivo di contesa e divisio-ne, ma occasione per aprire le porte dei cuori,per costruire ponti.

Al termine della GMG di Cracovia ho indica-to la prossima meta del nostro pellegrinaggioche, con l’aiuto di Dio, ci porterà a Panamánel 2019. Ci accompagnerà in questo camminola Vergine Maria, colei che tutte le generazionichiamano beata (cfr. Lc 1, 48). Il nuovo trattodel nostro itinerario si ricollega al precedente,che era centrato sulle Beatitudini, ma ci spingead andare avanti. Mi sta a cuore infatti che voigiovani possiate camminare non solo facendomemoria del passato, ma avendo anche c o ra g g i onel presente e s p e ra n z a per il futuro. Questi at-teggiamenti, sempre vivi nella giovane Donnadi Nazareth, sono espressi chiaramente nei te-mi scelti per le tre prossime GMG. Quest’anno(2017) rifletteremo sulla fede di Maria quandonel Magnificat disse: «Grandi cose ha fatto perme l’Onnipotente» (Lc 1, 49). Il tema del pros-simo anno (2018) — «Non temere, Maria, perchéhai trovato grazia presso Dio» (Lc 1, 30) — cifarà meditare sulla carità piena di coraggiocon cui la Vergine accolse l’annuncio dell’an-gelo. La GMG 2019 sarà ispirata alle parole«Ecco la serva del Signore; avvenga per me se-condo la tua parola» (Lc 1, 38), risposta diMaria all’angelo, carica di speranza.

Nell’ottobre del 2018 la Chiesa celebrerà ilSinodo dei Vescovi sul tema: I giovani, la fedee il discernimento vocazionale. Ci interrogheremosu come voi giovani vivete l’esperienza dellafede in mezzo alle sfide del nostro tempo. Eaffronteremo anche la questione di come pos-siate maturare un progetto di vita, discernendola vostra vocazione, intesa in senso ampio, va-le a dire al matrimonio, nell’ambito laicale eprofessionale, oppure alla vita consacrata e alsacerdozio. Desidero che ci sia una grande sin-tonia tra il percorso verso la GMG di Panamá eil cammino sinodale...

Maria non si chiude in casa, non si lasciaparalizzare dalla paura o dall’orgoglio. Marianon è il tipo che per stare bene ha bisogno diun buon divano dove starsene comoda e al si-curo. Non è una giovane-divano! Se serve unamano alla sua anziana cugina, lei non indugiae si mette subito in viaggio.

È lungo il percorso per raggiungere la casadi Elisabetta: circa 150 chilometri. Ma la gio-vane di Nazareth, spinta dallo Spirito Santo,non conosce ostacoli. Sicuramente le giornatedi cammino l’hanno aiutata a meditaresull’evento meraviglioso in cui era coinvolta.Così succede anche a noi quando ci mettiamo

rigido. E non è possibile archiviare tutto inuna “nuvola” virtuale. Bisogna imparare a farsì che i fatti del passato diventino realtà dina-mica, sulla quale riflettere e da cui trarre inse-gnamento e significato per il nostro presente efuturo. Compito arduo, ma necessario, è quel-lo di scoprire il filo rosso dell’amore di Dioche collega tutta la nostra esistenza.

Tanti dicono che voi giovani siete smemora-ti e superficiali. Non sono affatto d’a c c o rd o !Però occorre riconoscere che in questi nostritempi c’è bisogno di recuperare la capacità diriflettere sulla propria vita e proiettarla verso ilfuturo. Avere un passato non è la stessa cosache avere una storia. Nella nostra vita possia-mo avere tanti ricordi, ma quanti di essi co-struiscono davvero la nostra memoria? Quantisono significativi per il nostro cuore e aiutanoa dare un senso alla nostra esistenza? I voltidei giovani, nei “social”, compaiono in tantefotografie che raccontano eventi più o menoreali, ma non sappiamo quanto di tutto questosia “storia”, esperienza che possa essere narra-ta, dotata di un fine e di un senso. I program-mi in Tv sono pieni di cosiddetti “reality show”,ma non sono storie reali, sono solo minuti chescorrono davanti a una telecamera, in cui ipersonaggi vivono alla giornata, senza un pro-getto. Non fatevi fuorviare da questa falsa im-magine della realtà! Siate protagonisti dellavostra storia, decidete il vostro futuro!

Dal Vaticano, 27 febbraio 2017Memoria di San Gabriele dell’Addolorata

Preghiera rivoluzionariaNel messaggioper la trentaduesima

giornata mondialedella gioventù

che si celebreràa livello diocesano

nella domenicadelle Palme

il Papa rileggeil Magnificat

#copertina

lode al suo popolo, alla sua storia. Questo cimostra che essere giovani non vuol dire esseredisconnessi dal passato. La nostra storia perso-nale si inserisce in una lunga scia, in un cam-mino comunitario che ci ha preceduto nei se-coli. Come Maria, apparteniamo a un popolo.E la storia della Chiesa ci insegna che, anchequando essa deve attraversare mari burrascosi,la mano di Dio la guida, le fa superare mo-menti difficili. La vera esperienza di Chiesanon è come un flashmob, in cui ci si dà appun-tamento, si realizza una performance e poiognuno va per la sua strada. La Chiesa portain sé una lunga tradizione, che si tramanda digenerazione in generazione, arricchendosi altempo stesso dell’esperienza di ogni singolo.Anche la vostra storia trova il suo posto all’in-terno della storia della Chiesa.

Fare memoria del passato serve anche ad ac-cogliere gli interventi inediti che Dio vuolerealizzare in noi e attraverso di noi. E ci aiutaad aprirci per essere scelti come suoi strumen-ti, collaboratori dei suoi progetti salvifici. An-che voi giovani potete fare grandi cose, assu-mervi delle grosse responsabilità, se riconosce-rete l’azione misericordiosa e onnipotente diDio nella vostra vita.

Vorrei porvi alcune domande: in che modo“salvate” nella vostra memoria gli eventi, leesperienze della vostra vita? Come trattate ifatti e le immagini impressi nei vostri ricordi?Ad alcuni, particolarmente feriti dalle circo-stanze della vita, verrebbe voglia di “re s e t t a re ”il proprio passato, di avvalersi del dirittoall’oblio. Ma vorrei ricordarvi che non c’è san-to senza passato, né peccatore senza futuro...

I nostri ricordi però non devono restare tut-ti ammassati, come nella memoria di un disco

in pellegrinaggio: lungo la strada ci tornanoalla mente i fatti della vita, e possiamo matu-rarne il senso e approfondire la nostra vocazio-ne, svelata poi nell’incontro con Dio e nel ser-vizio agli altri.

L’incontro tra le due donne, la giovane el’anziana, è colmo della presenza dello SpiritoSanto, e carico di gioia e di stupore. Le duemamme, così come i figli che portano in grem-bo, quasi danzano per la felicità. Elisabetta,colpita dalla fede di Maria, esclama: «Beatacolei che ha creduto nell’adempimento di ciòche il Signore le ha detto». Lei, a sua volta, ri-sponde con il canto del Ma g n i f i c a t , in cui tro-viamo l’espressione: «Grandi cose ha fatto perme l’Onnipotente». È una preghiera rivoluzio-naria, quella di Maria, il canto di una giovanepiena di fede, consapevole dei suoi limiti mafiduciosa nella misericordia divina. Questa pic-cola donna coraggiosa rende grazie a Dio per-ché ha guardato la sua piccolezza e per l’op eradi salvezza che ha compiuto sul popolo, suipoveri e gli umili. La fede è il cuore di tutta lastoria di Maria. Il suo cantico ci aiuta a capirela misericordia del Signore come motore dellastoria, sia di quella personale di ciascuno dinoi sia dell’intera umanità.

Quando Dio tocca il cuore di un giovane,di una giovane, questi diventano capaci diazioni veramente grandiose. Le “grandi cose”che l’Onnipotente ha fatto nell’esistenza diMaria ci parlano anche del nostro viaggio nel-la vita, che non è un vagabondare senza senso,ma un pellegrinaggio che, pur con tutte le sueincertezze e sofferenze, può trovare in Dio lasua pienezza...

Maria è poco più che adolescente, comemolti di voi. Eppure nel Ma g n i f i c a t dà voce di

A destra: Il Papa alla gmgdi Cracovia (30 luglio 2016)

Sotto: Silvio Formichetti«Magnificat» (2009)

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I

di PIERODI DOMENICANTONIO

O ltrel’i n d i f f e re n z a

l carcere fa paura. Meglio girarsi dall’altra par-te e pensare che bastino quelle mura a separa-re e proteggere il mondo dei buoni da quellodei cattivi. Poi, in fin dei conti, chi cade inquel pozzo se l’è andata a cercare.

Eppure il carcere è il luogo dove la societàsi gioca la propria credibilità morale. Dove simisura il confine tra giustizia e vendetta. E,forse, per capire meglio quello che sta fuorivale la pena conoscere e ascoltare l’umanità dichi sta dentro.

A tentare di illuminare questa zona d’ombradella società, proponendo un percorso di co-noscenza libero da luoghi comuni e da facilipregiudizi ideologici, arriva in questi giorni inlibreria il saggio di Anna Paola Lacatena eGiovanni Lamarca, Reclusi. Il carcere raccontatoalle donne e agli uomini liberi (Roma, Carocci,2017, pagine 304, euro 28). Unendo la ricercae l’esperienza sul campo di una sociologa, daanni impegnata sul fronte delle cosiddette de-vianze, e di un comandante della polizia peni-tenziaria, il libro ha il merito di colmare unvuoto nella pubblicistica sulla detenzione inItalia, offrendone una trattazione completa esistemica. E soprattutto di stimolare un dialo-go costruttivo tra scienze sociali, istituzionipenitenziarie e gli stessi detenuti.

Dalle questioni giuridiche e organizzative aquelle riguardanti l’affettività, il lavoro, la pra-tica religiosa o la condizione della donna re-clusa, ogni aspetto del sistema carcerario vieneinfatti presentato e approfondito lasciando chel’analisi scientifica sia in qualche modo com-mentata, corretta o supportata dalla voce edall’emotività delle persone detenute. Voluta-mente, per evitare il rischio di una trattazioneartificiosa, non sono state sollecitate testimo-nianze ma vengono pubblicate le istanze pre-sentate negli ultimi dieci anni dai detenuti del-la casa circondariale di Taranto — la città deidue autori — ai responsabili del penitenziario.Sono le cosiddette “domandine”, come vienespiegato nel glossario del carcere riportato inappendice insieme ad altre curiosità sulla vitaristretta, utilizzate a norma del regolamentoper formulare richieste, esprimere lamentele eproteste o semplicemente per dire grazie.

A spiegare il tema dell’istruzione intervienecosì un detenuto analfabeta che detta al com-pagno di cella la domanda con la quale chiedeil permesso di frequentare la scuola del carce-re: «per poter imparare a scrivere e leggere —spiega — così so che potrei avere un futuro da-vanti a me». Oppure in materia di affettività èla voce di un altro detenuto a chiarire fino ache punto il carcere possa far sgretolare i rap-porti familiari: chiede solo di poter riavere lafede nuziale, che gli è stata tolta al momentodell’arresto, perché la moglie durante i collo-qui si lamenta di non vedergliela al dito.

Tante storie, talvolta particolarmente dram-matiche quando si toccano problematiche co-me quella dell’autolesionismo o delle malattiepsichiatriche, che mostrano però come insiemeal dolore, alla rabbia, alla noia, dentro una cel-la ci possa essere spazio anche per un sorriso,per un desiderio autentico di ravvedimento.

ne dei reati se anche il migliore dei sistemi de-tentivi non è accompagnato da un welfare effi-cace.

La strada è quella di un recupero dell’eticapubblica (l’uomo verso l’uomo) e della morale(l’uomo autentico) come indica Papa France-sco — più volte citato nel volume — quandoinvita ad andare oltre la prigione del propriointeresse passando dall’indifferenza che negaall’inclusione che riconosce.

Il carcerera c c o n t a t o

agli uomini liberi

La “domandina” con cuiun detenuto chiede che gli vengarecapitata le lettera che saessergli stata inviatada Papa Francesco

#culture

Una nostalgia di umanità che potrebbe e do-vrebbe farsi consuetudine.

Come viene messo in evidenza nella prefa-zione, firmata da Nicola Gratteri e AntonioNicaso, l’originalità di Reclusi sta proprio nellamodalità con cui una tematica così complessaviene trattata. Nel mostrare che dialogare sipuò, pensando a un carcere modulato sull’uo-mo e non sul reato, rigettando l’idea dell’i r re -cuperabilità sociale, della restrizione perpetuae priva di possibilità di riscatto.

L’opera di Lacatena e Lamarca rappresentaquindi un’opportunità per conoscere i veri ter-mini della questione carceraria. E per fissare,non solo sul piano teorico, i punti cruciali diuna riforma, culturale prima ancora che legi-slativa, da molti auspicata e attesa. Ricordan-do che ogni detenuto recuperato alla legalitàdetermina una ricaduta in termini di sicurezzaper la società intera. Ma anche che non si puòpensare di ridurre il fenomeno della reiterazio-

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di GUA LT I E R OBASSETTI

«DDal seme che muore fiorisce una messe nuovadi giustizia e di pace». C’è scritta questa frasesulla lastra di marmo che ricopre la tomba didon Giuseppe Diana: un “giusto innocente”ucciso dalla camorra a Casal di Principe il 19marzo 1994, nella sacrestia della sua Chiesa,nel giorno della festa di san Giuseppe. In quelgiorno di 23 anni fa è stato ammazzato ungiovane sacerdote; un figlio di Dio pieno dizelo e ardore; senza dubbio un martire dei no-stri giorni.

Nella settimana in cui molte piazze dellecittà d’Italia sono state riempite dall’iniziativadi Libera — l’organizzazione guidata da donCiotti che, con forza e coraggio, si batte ormaida decenni contro tutte le mafie — e sono scesiin piazza persino i figli sottratti alle cosche ac-canto agli orfani della mafia, la figura di donDiana risplende di una luce sempre più forte.La luce del coraggio e della verità. La luce in-delebile della testimonianza e del martirio.

Ho avuto l’onore di andare in pellegrinag-gio sulla sua tomba l’anno scorso e ho toccatocon mano e con il cuore una di quelle periferietante volte evocate da Papa Francesco. Una diquelle periferie che purtroppo riscuotono glionori delle cronache soltanto in occasioni dieventi drammatici. La “terra dei fuochi” è in-dubbiamente una dei tanti territori evocatidalla Laudato si’. Territori abusati senza pietàda criminali senza dignità. Criminali “al qua-drato” perché prima devastano quella Terrache ci è stata donata e della quale siamo solodebitori, e poi perché tolgono la vita a tutticoloro che osano rifiutarsi di abbassare losguardo verso le loro prepotenze. Don Diananon solo non ha abbassato lo sguardo ma al-zato gli occhi al cielo e non ha mai dismesso ilcoraggio della denuncia sociale ispirata dalVa n g e l o .

Nel 1991, tre anni prima di morire, avevascritto una lettera, Per amore del mio popolo,che era una sorta di manifesto contro il siste-ma malavitoso che regnava nella sua diocesi.«Assistiamo impotenti — scriveva don Diana —al dolore di tante famiglie che vedono i lorofigli finire miseramente vittime o mandantidelle organizzazioni della camorra». E soprat-tutto «come battezzati in Cristo — scrivevacon vigore — ci sentiamo investiti in pieno del-la nostra responsabilità di essere segno di con-traddizione». Un segno di contraddizione cheeduca e rende testimonianza. Educazione allaparola di Dio, testimonianza della Risurrezio-ne e, in definitiva, testimonianza di un amoreinfinito e gratuito per la vita. Una vita autenti-

tirio che oggi parla anche a questo stupendo ecomplesso paese che è l’Italia. Bisogna dirlocon chiarezza e senza tentennamenti: le orga-nizzazioni malavitose rappresentano un cancromortale per gli italiani e non un malessere conil quale convivere. Un concetto forse banalema che va ribadito con semplicità usando leparole di don Diana. Bisogna combatterecontro tutte le mafie «per amore del mio po-p olo».

ca, in cui si possa vivere in pienezza «la primabeatitudine del Vangelo che è la povertà» epoi il «distacco dalla ricerca del superfluo, daogni ambiguo compromesso o ingiusto privile-gio» e infine «come servizio sino al dono disé, come esperienza generosamente vissuta disolidarietà».

Parole ancora oggi attualissime che rendonovivo e concreto il magistero della Chiesa sullamalavita. Il grido di Giovanni Paolo II —quando urla “convertitevi” ai mafiosi siciliani— e di Francesco quando invita a reagire allaCamorra dicendo “la Camorra spuzza”. Que-ste parole diventano vita vissuta, azione con-creta nell’esistenza di don Diana che lo portafino alla testimonianza estrema: il martirio.

Un martirio che oggi parla prima di tuttoalle giovani generazioni: a coloro cioè che nonsono ancora compromessi e che possono, anzi,devono resistere, con tutte le forze della gio-ventù, alle false lusinghe malavitose. Un mar-

Per amoredel mio popolo

Giovanni Guida, «Don GiuseppeDiana» (2010, particolare)

#dialoghi

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QIl buonc o n f e s s o re

uesto della Penitenzieria è il tipo di Tribunaleche mi piace davvero! Perché è un “tribunaledella misericordia”, al quale ci si rivolge perottenere quell’indispensabile medicina per lanostra anima che è la Misericordia divina!

Il vostro corso sul foro interno, che contri-buisce alla formazione di buoni confessori, èquanto mai utile e direi perfino necessario...Certo, non si diventa buoni confessori graziead un corso, no: quella del confessionale è una“lunga scuola”, che dura tutta la vita...

Il “buon confessore” è, innanzitutto, un ve-ro amico di Gesù Buon Pastore... Essere amicidi Gesù significa innanzitutto coltivare la pre-g h i e ra . Sia una preghiera personale con il Si-gnore, chiedendo incessantemente il dono del-la carità pastorale; sia una preghiera specificaper l’esercizio del compito di confessori e per ifedeli che si avvicinano a noi...

Un ministero della Riconciliazione “fasciatodi preghiera” sarà riflesso credibile della mise-

ricordia di Dio ed eviterà quelle asprezze e in-comprensioni che, talvolta, si potrebbero gene-rare anche nell’incontro sacramentale. Un con-fessore che prega sa bene di essere lui stesso ilprimo peccatore e il primo perdonato... Edunque la preghiera è la prima garanzia perevitare ogni atteggiamento di durezza, cheinutilmente giudica il peccatore... Il buon con-fessore è, in secondo luogo, un uomo dello Spi-rito, un uomo del discernimento. Quanto male

viene alla Chiesa dalla mancanza di discerni-mento... Il confessore non fa la propria volon-tà e non insegna una dottrina propria... Il di-scernimento è necessario anche perché, chi siavvicina al confessionale, può provenire dallepiù disparate situazioni; potrebbe avere anchedisturbi spirituali, la cui natura deve esseresottoposta ad attento discernimento, tenendoconto di tutte le circostanze esistenziali, eccle-siali, naturali e soprannaturali. Laddove il con-fessore si rendesse conto della presenza di verie propri disturbi spirituali, non dovrà esitare afare riferimento a coloro che, nella diocesi, so-no incaricati di questo delicato e necessarioministero, vale a dire gli esorcisti. Ma questidevono essere scelti con molta cura e moltap ru d e n z a .

Infine, il confessionale è anche un vero eproprio luogo di evangelizzazione. Non c’è, infat-ti, evangelizzazione più autentica che l’incon-tro con il Dio della misericordia, con il Dioche è Misericordia. Incontrare la misericordiasignifica incontrare il vero volto di Dio, cosìcome il Signore Gesù ce lo ha rivelato.

Il confessionale è allora luogo di evangeliz-zazione e quindi di formazione. Nel pur brevedialogo che intesse con il penitente, il confes-sore è chiamato a discernere che cosa sia piùutile e che cosa sia addirittura necessario alcammino spirituale di quel fratello o di quellasorella; talvolta si renderà necessario ri-annun-ciare le più elementari verità di fede, il nucleoincandescente, il kerigma, senza il quale la stes-sa esperienza dell’amore di Dio e della sua mi-sericordia rimarrebbe come muta...

Il confessore, infatti, è chiamato quotidiana-mente e recarsi nelle “periferie del male e delp eccato” — questa è una brutta periferia! — ela sua opera rappresenta un’autentica prioritàpastorale. Confessare è priorità pastorale. Perfavore, che non ci siano quei cartelli: “Si con-fessa soltanto lunedì, mercoledì dalla tal oraalla tal ora”. Si confessa ogni volta che te lochiedono. E se tu stai lì [nel confessionale]pregando, stai con il confessionale aperto, cheè il cuore di Dio aperto...

Alla penitenzieriaapostolicar i c o rd a t al’importanzadella preghierae del discernimento

#francesco

Temp odi misericordia

Papa Francesco hapresieduto la celebrazionedella penitenza nelpomeriggio di venerdì 17marzo, nella basilica di SanPietro. Il Pontefice è stato ilprimo ad accostarsi alsacramento dellariconciliazione, confessandopoi a sua volta sette fedelilaici. Nel corso dell’ormaitradizionale rito penitenzialeche si svolge nel cuore deltempo quaresimale,Francesco si è inginocchiatosullo scalino delconfessionale collocatoaccanto al monumento diClemente XIII. Quindi,dopo aver ricevutol’assoluzione dal fratepenitenziere, si è seduto asua volta nel confessionaledi fronte, ha indossato lastola viola e haamministrato il sacramentoa tre uomini e a quattrodonne. In totale, leconfessioni sono duratecirca cinquanta minuti.A raccogliere le altreconfessioni dei fedeli sonostati sessanta sacerdoti, tra iquali i penitenzieri dellequattro basiliche papali: SanPietro, San Giovanni inLaterano, Santa MariaMaggiore, San Paolo fuorile Mura. La loro presenzaha rappresentato anche ilmomento conclusivo delventottesimo corso sul forointerno, organizzato dallaPenitenzieria apostolica dal14 al 17 marzo, i cuipartecipanti sono statiricevuti dal Pontefice lamattina di venerdì 17. Inquesta pagina pubblichiamostralci del suo discorso.

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GIOVEDÌ 16In mattinata il Pontefice ha ricevuto il presi-

dente libanese Michel Aoun. Nel corso deicolloqui ci si è soffermati sulle buone relazionibilaterali, sottolineando il ruolo storico e isti-tuzionale della Chiesa nella vita del Paese. Si èquindi espressa soddisfazione per l’imp egnodelle varie forze politiche nel porre fine allavacanza presidenziale, auspicando per il futurouna sempre più proficua collaborazione tra imembri delle diversità comunità etniche e reli-giose in favore del bene comune e dello svi-luppo della nazione. Nel prosieguo della con-versazione, si è fatto riferimento alla Siria, conparticolare attenzione agli sforzi internazionaliper una soluzione politica al conflitto. È statoaltresì ribadito l’apprezzamento per l’acco-

glienza che il Libano presta ai numerosi profu-ghi siriani.

VENERDÌ 17Il Papa ha ricevuto nella biblioteca privata

del Palazzo apostolico una delegazione di Ca-tholic Theological Ethics in the World Church(Ctewc). In precedenza aveva assistito alla se-conda predica di Quaresima, tenuta dal cap-puccino Raniero Cantalamessa nella cappellaRedemptoris mater.

S A B AT O 18All’età di 84 anni è morto il cardinale Milo-

slav Vlk, arcivescovo emerito di Praga,nella Repubblica Ceca. Appresa la notizia ilPapa ha inviato un telegramma al suo succes-sore, il cardinale Dominik Duka, in cui ha ri-cordato la «dolorosa malattia sopportata confede e fiducia nel Signore» dall’anziano por-porato. Francesco ha assicurato «fervide pre-

Invito tutte le comunità a vivere con fede l’appuntamentodel 24 e 25 marzo per riscoprire il sacramento

della riconciliazione: “24 ore per il Signore”. Auspicoche anche quest’anno tale momento privilegiato di grazia

del cammino quaresimale sia vissuto in tante chiese

Proseguono le visite ad limina deivescovi di tutto il mondo: giovedì16 il Papa ha incontrato quellidel Canada Atlantico (sopra) elunedì 20 quelli del Salvador

”ghiere a Dio perché conceda il riposo eterno aquesto zelante e generoso pastore» di cui harievocato «con ammirazione la tenace fedeltà aCristo, nonostante le privazioni e le persecu-zioni contro la Chiesa, come anche la sua fe-conda e molteplice attività apostolica animatadal desiderio di testimoniare a tutti la gioiadel Vangelo, promuovendo un autentico rin-novamento ecclesiale fedele sempre docile alleispirazioni dello Spirito Santo». Il cardinaleVlk, infatti, fu ordinato prete nei giorni della“primavera di Praga” del 1968 e vescovo all’in-domani della “rivoluzione di velluto” del 1989.

LUNEDÌ 20Papa Francesco ha ricevuto il presidente

rwandese Paul Kagame. Durante i colloqui so-no state ricordate le buone relazioni esistenti.Si è apprezzato il notevole cammino di ripresaper la stabilizzazione sociale, politica ed eco-nomica del Paese. È stata rilevata la collabora-zione tra lo Stato e la Chiesa locale nell’op eradi riconciliazione nazionale e di consolidamen-to della pace a beneficio dell’intera nazione.In tale contesto il Papa ha manifestato il pro-fondo dolore suo, della Santa Sede e dellaChiesa per il genocidio contro i tutsi, haespresso solidarietà alle vittime e a quanti con-tinuano a soffrire le conseguenze di quei tragi-ci avvenimenti e, in linea con il gesto compiu-to da Giovanni Paolo II durante il grande giu-bileo del 2000, ha rinnovato l’implorazione diperdono a Dio per i peccati e le mancanzedella Chiesa e dei suoi membri, tra i quali sa-cerdoti, religiosi e religiose che hanno cedutoall’odio e alla violenza, tradendo la propriamissione evangelica. Il Papa ha altresì auspica-to che tale umile riconoscimento delle man-canze commesse in quella circostanza, le quali,purtroppo, hanno deturpato il volto dellaChiesa, contribuisca, anche alla luce del recen-te anno santo della misericordia e del comuni-cato pubblicato dall’episcopato rwandese a«purificare la memoria».

#7giorniconilpapa

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GIOVEDÌ 16Come se niente fosse

I senzatetto, i nuovi poveri senza soldi perl’affitto, i disoccupati e i bambini che chiedo-no l’elemosina — guardati male perché appar-tengono a «quell’etnia che ruba» — sembranoormai far parte del «panorama della città».Proprio «come una statua, la fermata del bus,l’ufficio della posta». E vengono trattati con lastessa indifferenza, come se non esistessero,come se la loro situazione fosse persino «nor-male». Ma così si scivola «dal peccato allacorruzione» a cui non c’è rimedio, ha messo inguardia Papa Francesco nella messa celebrataa Santa Marta. Insomma, ha insistito il Ponte-fice, è come quando si pensa di cavarsela con«un’Avemaria e un Padrenostro», continuandopoi «a vivere come se niente fosse», vedendoin tv e sui giornali bambini uccisi da unabomba sganciata su un ospedale o una scuola.

«Nell’antifona d’inizio», ha fatto subito no-tare il Papa nella sua omelia citando il salmo139 (23-24), «abbiamo pregato: “Scruta, Dio, ilmio cuore”». Perché, ha spiegato, «possiamopercorrere una vita di menzogna, di apparen-ze». Proprio «per questo chiediamo al Signoreche scruti la verità della nostra vita: e se iopercorro una vita di menzogna, che mi portisulla via della vera vita». «Questa preghiera —ha detto Francesco — è in armonia con quelloche Geremia dice nella prima lettura» (17, 5-10) presentando «due opzioni: “Maledettol’uomo che confida nell’uomo; benedetto l’uo-mo che confida nel Signore”». Dunque da unaparte c’è «l’uomo che pone nella carne il suosostegno, cioè nelle cose che lui può gestire,nella vanità, nell’orgoglio, nelle ricchezze» e«si sente come se fosse un dio, allontana il suocuore dal Signore». Invece «benedetto l’uomoche confida nel Signore» ha affermato il Pon-tefice, ripetendo sempre le parole del Profeta.Quell’uomo infatti «si fida del Signore, si ag-

nelle sue cose, nel suo mondo, nelle sue fanta-sie, nelle sue ricchezze, nel suo potere».

Proprio «questo — ha proseguito il Papa fa-cendo riferimento al passo di Luca (16, 19-31)— è accaduto al signore ricco del Vangelo:quando una persona vive nel suo ambientechiuso, respira quell’aria dei suoi beni, dellasua soddisfazione, della vanità, di sentirsi sicu-ro e si fida soltanto di se stesso, perde l’orien-tamento, perde la bussola e non sa dove sonoi limiti». Il suo problema è che «vive soltantolì: non esce fuori di sé». E «il cuore lo ha por-tato su una strada di morte, a tal punto chenon si può tornare indietro: c’è un limite dalquale difficilmente si torna indietro». Ed «èquando il peccato si trasforma in corruzione».Perciò, ha chiarito, quell’uomo ricco «non eraun peccatore, era un corrotto perché sapevadelle tante miserie, ma non gli importava nien-te». A questo punto Francesco ha voluto pro-porre un esame di coscienza: «cosa sentiamonel cuore quando per strada vediamo i senza-tetto, i bambini da soli che chiedono l’elemosi-na?». Perché se non ci si interroga vuol direche «siamo su quella strada scivolosa», cheporta «dal peccato alla corruzione». Per que-sto, ha proseguito, è opportuno domandarsi:«Cosa sento io quando al telegiornale, suigiornali, vedo che è caduta una bomba su unospedale o su una scuola e sono morti tantibambini?». Magari «dico un’Avemaria, un Pa-drenostro per loro e continuo a vivere come seniente fosse». Invece è bene chiedersi se ildramma di tanta gente «entra nel mio cuore»oppure se sono proprio «come quel ricco» dicui parla il Vangelo a cui «non entrò mai nelcuore Lazzaro».

LUNEDÌ 20Giuseppe il sognatore

Nella solennità liturgica di san Giuseppe —quest’anno posticipata per la concomitanzacon la domenica di Quaresima — Papa France-sco ha celebrato la messa a Santa Marta, sof-fermandosi all’omelia sulla figura del patronodella Chiesa universale. In lui il Pontefice haindicato il modello di «uomo giusto», capacedi sognare», di «custodire» e «portare avanti»il «sogno di Dio» sull’uomo. Per questo lo haproposto come esempio in particolare per igiovani, cui insegna a non perdere «la capaci-tà di rischiare» e di assumersi «compiti diffici-li». E tanti sogni per il loro futuro avevano si-curamente le tredici studentesse che un annofa morirono in un incidente stradale in Catalo-gna mentre partecipavano al programma distudi Erasmus. Per loro il Pontefice ha offertola celebrazione eucaristica, alla quale hannopartecipato anche i familiari delle sette ragazzeitaliane morte nello schianto del pullman. Lameditazione ha preso spunto dalla liturgia del-la parola che parla di «discendenza, eredità,paternità, filiazione, stabilità»: espressioni

Le omeliedel Pontefice

Domingo Martínez,«Il sogno di san Giuseppe»(XVIII secolo, particolare)

In basso: Viktor e NataliaKovalevski, «Indifferenza»

grappa» a lui e «si lascia condurre». Ecco, haspiegato il Papa, che «questa opzione, tra que-sti due modi di vita, viene dal cuore: la fecon-dità dell’uomo che confida nel Signore e lasterilità dell’uomo che confida in se stesso,

#santamarta

«che sono un promessa ma poi siconcentrano in un uomo del qualesi dice che era giusto, soltanto. Eche agisce come un uomo obbe-diente». Giuseppe, appunto.

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Un uomo «del quale non sappiamo neppurel’età» e che «porta sulle sue spalle» una gran-de responsabilità che però, come si legge nelvangelo di Matteo (1, 16.18-21.24), si ritrovatutta concentrata «in un sogno».

Apparentemente, ha detto il Papa, ciò sem-bra «troppo sottile», labile. Eppure proprioquesto «è lo stile di Dio» nel quale Giuseppesi ritrova appieno: lui, un «sognatore» è capa-ce «di accettare il compito gravoso» e perciò«ha tanto da dirci in questo tempo di fortesenso di orfanezza».

Ecco quindi delineata la sua figura di «uo-mo nascosto, del silenzio, che fa da padreadottivo». Potrebbe «dirci tante cose», eppure«non parla», potrebbe «comandare», giacchécomanda sul Figlio di Dio, eppure «obbedi-sce». Al suo cuore, Dio confida «cose deboli»:infatti «una promessa è debole», così come èdebole «un bambino», ma anche «una ragazzadella quale lui ha avuto un sospetto». Debo-lezze che poi continuano anche negli eventisuccessivi: «pensiamo alla nascita del bambi-no, alla fuga in Egitto». Ma «tutte queste de-bolezze» Giuseppe «le prende in mano, nelcuore e le porta avanti come si portano avantile debolezze, con tenerezza». Ecco perché, harivelato il Papa, «mi piace pensarlo come ilcustode delle debolezze», anche «delle no-stre». E a lui, ha detto Francesco, «io oggivorrei chiedere» che «dia a tutti la capacità disognare, perché quando sogniamo le cosegrandi e belle, ci avviciniamo al sogno diDio». E a tutti i cristiani, infine, in particolareai giovani, doni «la fedeltà che cresce in un at-teggiamento giusto, nel silenzio e nella tene-rezza che è capace di custodire le proprie de-bolezze e quelle degli altri».

MARTEDÌ 21La grazia della vergogna

Bisogna chiedere a Dio «la grazia della ver-gogna», perché «è una grande grazia vergo-gnarsi dei propri peccati e così ricevere il per-dono e la generosità di darlo agli altri». È l’in-vito rivolto da Papa Francesco ai partecipantialla messa celebrata a Santa Marta.

Commentando le letture del giorno, il Pon-tefice si è dapprima soffermato sul brano trat-to dal vangelo di Matteo (18, 21-35). Gesù, haspiegato, parla «ai suoi discepoli sulla corre-zione fraterna, sulla pecora smarrita, della mi-sericordia del pastore. E Pietro pensa di avercapito tutto e coraggioso com’era lui, anchegeneroso, dice: “Ma, adesso quante volte iodevo perdonare, con questo che tu hai dettodella correzione fraterna e della pecora smarri-ta? Sette volte va bene?”. E Gesù dice: “Sem-p re ”, con quella forma “settanta volte sette”».In realtà, ha fatto notare il Papa, «è difficilecapire il mistero del perdono, perché è un mi-stero: perché devo perdonare — si è chiesto —se la giustizia mi permette di andare avanti echiedere che quella giustizia faccia quello chedeve fare?». La risposta, ha suggerito il Papa,la offre la Chiesa, che «oggi ci fa entrare inquesto mistero del perdono, che è la grande

opera di misericordia di Dio». E lo fa anzitut-to con la prima lettura, tratta dal libro delprofeta Daniele (3, 25.34-43), attraverso la qua-le «ci porta alla preghiera di Azaria, momentomolto triste della storia del popolo di Dio. So-no spogliati di tutto, hanno perso tutto e han-no la tentazione di credere che Dio li ha ab-bandonati». Descritta la scena, Francesco haripetuto le loro parole, in particolare: «Signorenon coprirci di vergogna». Essi, ha commenta-to, «sentivano la vergogna dentro perché sonorimasti così, come dice prima: “a causa deip eccati”». Insomma «Azaria ha capito beneche quella situazione del popolo di Dio è per ipeccati. E si vergogna. E dalla vergogna chie-de perdono». Ecco dunque il “primo passo”da compiere: «la grazia della vergogna. Perentrare nel mistero del perdono dobbiamo ver-gognarci». Ma, ha precisato il Papa, «nonpossiamo da soli, la vergogna è una grazia. Ecosì la Chiesa si mette davanti a questo miste-ro del peccato e ci fa vedere l’uscita, la pre-ghiera, il pentimento e la vergogna».

Successivamente, ha proseguito Francesco,«la Chiesa riprende il passo del Vangelo espiega cosa significa quel “settanta volte set-te”». Vuol dire, ha chiarito, «che sempre dob-biamo perdonare». E Gesù racconta la para-bola dei due servi: il primo va a regolare iconti col padrone e lo supplica di aver pazien-za, chiede perdono e il padrone lo perdona.Ma poi, uscito, trova il suo debitore e invecedi perdonarlo esige il pagamento. Allora il pa-drone, quando viene a saperlo si sdegna, chia-ma agli aguzzini e lo fa incarcerare. Ecco allo-ra la necessità di chiedersi: «perché quest’uo-mo che era stato perdonato ma di tanti soldi»,poi esce «ed è incapace di perdonare piccolecose». Insomma, «non ha capito il mistero delperdono». Ricorrendo a una sorta di dialogoimmaginario con i presenti il Papa ha quindichiesto: «Se io domando: “Ma tutti voi sietep eccatori?” — “Sì, padre” — “E per avere ilperdono dei peccati?” — “Ci confessiamo” —“E come?” — “Io vado, dico i peccati, il pretemi perdona, mi dà tre Avemaria e poi torno inpace”». In questo caso, ha ammonito il Ponte-fice, «tu non hai capito. Tu soltanto sei andatoal confessionale a fare un’operazione bancaria,una pratica di ufficio. Tu non sei andato ver-gognato lì di quello che hai fatto. Hai visto al-cune macchie nella tua coscienza e hai sbaglia-to perché hai creduto che il confessionale fosseuna tintoria» in grado soltanto di togliere «lemacchie. Sei stato incapace di vergognarti. Sì,sei perdonato, perché Dio è grande, ma non èentrato nella tua coscienza, tu non sei statocosciente di quello che ha fatto Dio; e perquesto esci, trovi un amico, un’amica e inco-minci a sparlare e continui a peccare». Perciò,ha fatto notare Francesco, «oggi la Chiesa èsaggia quando ci fa riflettere su questi duepassi». Infatti, «io posso perdonare» solamen-te «se mi sento perdonato. Se tu non hai co-scienza di essere perdonato mai potrai perdo-

Rafal Chojnowski«Vergogna» (particolare)

nare, mai». In fondo, in ogni per-sona «sempre c’è quell’atteggia-mento di voler fare i conti con glialtri». Mentre «il perdono è tota-le», per questo è un mistero.

#santamarta

Vicinanza al Perú

Papa Francesco è vicino alla«cara popolazione del Perú,duramente colpita dadevastanti alluvioni» che daalmeno una settimanaflagellano il paese. Altermine dell’Angelus recitatoil 19 marzo in piazza SanPietro il Pontefice hainvitato i fedeli a pregareper quanti hanno perso lavita e per coloro che sonoimpegnati nelle difficilioperazioni di soccorso aisuperstiti. Il bilancio delleinondazioni che hannocolpito varie regioniperuviane si fa di ora in orapiù tragico. Le autoritàlocali parlano di 75 morti,263 feriti e 20 dispersi.Oltre 100.000 le personeche hanno subitodirettamente danni e circa630.000 quelle coinvolte.L’appello del Papa per ilPerú è stato preceduto dauna riflessione sull’episo diodell’incontro di Gesù con lasamaritana, narrato nelvangelo della liturgiadomenicale. In propositoFrancesco ha ricordato che«l’acqua che dona la vitaeterna» è stata effusa inogni cristiano «con ilbattesimo» e da allora «Dioci ha trasformati».

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!Già da alcune settimane l’Apostolo Paolo cista aiutando a comprendere meglio in che cosaconsiste la speranza cristiana. E abbiamo dettoche non era un ottimismo, era un’altra cosa. El’apostolo ci aiuta a capire questo. Oggi lo faaccostandola a due atteggiamenti quanto maiimportanti per la nostra vita e la nostra espe-rienza di fede: la «p e rs e v e ra n z a » e la «consola-zione» (vv. 4.5). Nel passo della Lettera ai Ro-mani che abbiamo appena ascoltato vengonocitate due volte: prima in riferimento alleScritture e poi a Dio stesso. Qual è il loro si-gnificato più profondo, più vero? E in chemodo fanno luce sulla realtà della speranza?Questi due atteggiamenti: la perseveranza e laconsolazione.

La p e rs e v e ra n z a potremmo definirla pure co-me pazienza: è la capacità di sopportare, porta-re sopra le spalle, “sop-p ortare”, di rimanerefedeli, anche quando il peso sembra diventaretroppo grande, insostenibile, e saremmo tenta-ti di giudicare negativamente e di abbandona-re tutto e tutti. La consolazione, invece, è la gra-zia di saper cogliere e mostrare in ogni situa-zione, anche in quelle maggiormente segnatedalla delusione e dalla sofferenza, la presenzae l’azione compassionevole di Dio. Ora, sanPaolo ci ricorda che la perseveranza e la con-solazione ci vengono trasmesse in modo parti-colare dalle Scritture (v. 4), cioè dalla Bibbia.Infatti la Parola di Dio, in primo luogo, ciporta a volgere lo sguardo a Gesù, a conoscer-lo meglio e a conformarci a Lui, ad assomi-gliare sempre di più a Lui. In secondo luogo,la Parola ci rivela che il Signore è davvero «ilDio della perseveranza e della consolazione»(v. 5), che rimane sempre fedele al suo amoreper noi, cioè che è perseverante nell’amore connoi, non si stanca di amarci! È perseverante:sempre ci ama! E si prende cura di noi, rico-prendo le nostre ferite con la carezza della suabontà e della sua misericordia, cioè ci consola.Non si stanca neanche di consolarci.

In tale prospettiva, si comprende anche l’af-fermazione iniziale dell’Apostolo: «Noi, chesiamo i forti, abbiamo il dovere di portare leinfermità dei deboli, senza compiacere noistessi» (v. 1). Questa espressione «noi che sia-

mo i forti» potrebbe sembrare presuntuosa,ma nella logica del Vangelo sappiamo che nonè così, anzi, è proprio il contrario perché lanostra forza non viene da noi, ma dal Signore.Chi sperimenta nella propria vita l’amore fede-le di Dio e la sua consolazione è in grado, an-zi, in dovere di stare vicino ai fratelli più de-boli e farsi carico delle loro fragilità. Se noistiamo vicini al Signore, avremo quella fortez-za per essere vicini ai più deboli, ai più biso-gnosi e consolarli e dare forza a loro. Questo èciò che significa. Questo noi possiamo farlosenza autocompiacimento, ma sentendosi sem-plicemente come un “canale” che trasmette idoni del Signore; e così diventa concretamenteun “s e m i n a t o re ” di speranza. È questo che il Si-gnore ci chiede, con quella fortezza e quellacapacità di consolare e essere seminatori disperanza. E oggi serve seminare speranza, manon è facile...

Il frutto di questo stile di vita non è una co-munità in cui alcuni sono di “serie A”, cioè iforti, e altri di “serie B”, cioè i deboli. Il fruttoinvece è, come dice Paolo, «avere gli uni verso

gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio diCristo Gesù» (v.5). La Parola di Dio alimentauna speranza che si traduce concretamente in con-divisione, in servizio reciproco. Perché anche chiè “forte” si trova prima o poi a sperimentare lafragilità e ad avere bisogno del conforto deglialtri; e viceversa nella debolezza si può sempreoffrire un sorriso o una mano al fratello in dif-ficoltà. Ed è una comunità così che “con unsolo animo e una voce sola rende gloria aD io” (v.6). Ma tutto questo è possibile se simette al centro Cristo, e la sua Parola, perchéLui è il “forte”, Lui è quello che ci dà la for-tezza, che ci dà la pazienza, che ci dà la spe-ranza, che ci dà la consolazione. Lui è il “fra-

Vicini ai deboliAl l ’udienzag e n e ra l e

il Papa parladella perseveranza

e dellaconsolazione

nella vita cristiana

#catechesi

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Un rinnovato invito a non dimenticare che lemigrazioni sono «la tragedia più grande dopo laSeconda guerra mondiale» è stato rivolto dal Papa.salutando al termine dell’udienza generale del 22marzo i direttori diocesani della FondazioneMigrantes presenti in piazza San Pietro.Il Pontefice li incoraggiati «a proseguirenell’impegno per l’accoglienza e l’ospitalità deiprofughi e dei rifugiati, favorendo la lorointegrazione, tenendo conto dei diritti e dei doverireciproci per chi accoglie e chi è accolto». Nel dareil benvenuto ai vari gruppi che hanno partecipatoall’incontro settimanale, Francesco ha anche elogiatogli organizzatori del convegno sul tema:“Watershed: Replenishing Water Values for aThirsty World”, promosso dal Pontificio consigliodella cultura e dal Capitolo argentino del Club diRoma. Nello stesso giorno infatti ricorreva lagiornata mondiale dell’acqua, istituita 25 anni fadalle Nazioni unite, mentre il giorno precedente erastata celebrata la giornata internazionale delleforeste. Il Papa ha definito l’iniziativa «una nuovatappa nell’impegno congiunto di varie istituzioniper sensibilizzare alla necessità di tutelare l’acquacome bene di tutti, valorizzando anche i suoisignificati culturali e religiosi» e ha espressocompiacimento in particolare per le «proposterivolte ai bambini e ai giovani».

La tragedia più grande

tello forte” che si prende cura di ognuno dinoi: tutti infatti abbiamo bisogno di essere ca-ricati sulle spalle dal Buon Pastore e di sentirciavvolti dal suo sguardo tenero e premuroso.

Cari amici, non ringrazieremo mai abbastan-za Dio per il dono della sua Parola, che si ren-de presente nelle Scritture. È lì che il Padre

del Signore nostro Gesù Cristo si rivela come«Dio della perseveranza e della consolazione».Ed è lì che diventiamo consapevoli di come lanostra speranza non si fondi sulle nostre capa-cità e sulle nostre forze, ma sul sostegno diDio e sulla fedeltà del suo amore, cioè sullaforza e la consolazione di Dio. Grazie.

Significativa inoltre la presenza di sette giovanicampioni — una ragazza e sei ragazzi — dellasquadra di tennis in carrozzina di Cremona. Reduceda vari tornei anche a livello mondiale, la squadraha voluto aggiungere una trasferta a Roma perincontrare Papa Francesco. Insieme con il teammanager Alceste Bartoletti e l’allenatore RobertoBodini, gli atleti Marcella Benedetti, Giovanni Zeni,Andrea Botti, Dario Benzazzi, Nazareno Petesi,Costantin Micea, Davide Damiani e AlessandroGenna hanno iniziato la loro avventura sportiva nel2009, divenendo anche testimonial in variecampagne di sensibilizzazione, come quella per lasicurezza stradale promossa dal comando dellapolizia municipale cremonese. Al terminedell’udienza generale, infine, sul sagrato dellabasilica vaticana il Pontefice ha salutato un gruppodi lavoratori dell’azienda Accenture Services, arischio di licenziamento, che esponevano unostriscione. «La mancanza di lavoro — ha detto loro— è una cosa molto brutta. Togliere il lavoro è unacosa che il Signore non vuole, perché è come se sitogliesse la dignità di una persona. E le persone chefanno negoziati sporchi per arricchire se stessi etogliere il lavoro alla gente fanno un peccatomortale gravissimo». Quindi ha invitato a pregare«in silenzio. Ognuno di voi pensi e chieda alSignore quello che vuole», li ha esortati.

#catechesi

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di ENZOBIANCHI

L

Amore più fortedella morte

2 aprilequinta domenica

di QuaresimaGiovanni 11, 1-45

Edward Knippers«Resurrezione di Lazzaro»(2009)

a Pasqua è ormai vicina, e la Chiesa ci invita ameditare sul grande segno della resurrezionedi Lazzaro, profezia della resurrezione di Ge-sù. «Un certo Lazzaro di Betania, il villaggiodi Maria e di Marta sua sorella, era malato».Gesù amava molto questi amici, che frequenta-va: nella casa di Betania poteva godere dell’ac-coglienza premurosa di Marta, dell’ascolto at-tento di Maria (cfr. Luca 10, 38-42) e dell’affet-to fedele di Lazzaro. Le sorelle mandano adavvertirlo della malattia di Lazzaro, ma egli èlontano. Come può Gesù permettere che unsuo amico si ammali, soffra e muoia? Che sen-so ha? Sono domande affiorate all’interno del-la rete di amicizie di Gesù, ma che ancora og-gi risuonano quando nelle nostre relazioni ap-paiono la malattia e la morte; è l’ora in cui lanostra fede e il nostro essere amati da Gesùsembrano essere smentiti dalle sofferenze dellavita.

Gesù, informato di tale evento, dice: «Que-sta malattia non porterà alla morte, ma è perla gloria di Dio, affinché per mezzo di essa ilFiglio di Dio venga glorificato», ovvero èun’occasione perché si manifesti il peso cheDio ha nella storia e così si manifesti la gloriadel Figlio, gloria dell’amare «fino alla fine»(Giovanni 13, 1). Il suo parlare sembra contrad-dire l’evidenza: sempre nella malattia la mortesi staglia all’orizzonte con la sua ombra minac-ciosa, eppure Gesù rivela che la malattia di co-lui che egli ama non significherà vittoria dellamorte su di lui.

E così — particolare a prima vista sconcer-tante — Gesù resta ancora due giorni al di làdel Giordano. Solo il terzo giorno (allusionealla sua resurrezione!) annuncia la sua volontàdi recarsi in Giudea. I discepoli non compren-dono: «Rabbi, poco fa i giudei cercavano dilapidarti e tu ci vai di nuovo?». In risposta,Gesù espone loro una similitudine dal signifi-cato evidente: egli è intimamente convinto didover vivere e operare come il Padre gli hachiesto, e sa di doverlo fare nel poco tempoche gli resta, prima che giunga l’ora delle te-nebre, quando non potrà più agire.

«Lazzaro, il nostro amico, si è addormenta-to; ma io vado a svegliarlo» continua Gesù.Di fronte all’ennesimo fraintendimento dellasua comunità («pensarono che parlasse del ri-poso del sonno»), Gesù dichiara apertamente:«Lazzaro è morto e io sono contento per voidi non essere stato là, affinché voi crediate; maandiamo da lui!». L’unico a reagire, in modoimpulsivo, forse addirittura provocatorio, èTommaso: «Andiamo anche noi a morire conlui!». Al di là delle sue stesse intenzioni, egliafferma una profonda verità: seguire Gesù si-gnifica trovarsi dove lui è (cfr. Giovanni 12,26), e se lui va verso la morte — come saràchiaro alla fine di questo capitolo — anche aidiscepoli toccherà altrettanto.

Gesù giunge con i suoi discepoli a Betaniaquando «Lazzaro è già da quattro giorni nelsepolcro». Saputo del suo arrivo, Marta gli vaincontro e gli rivolge parole che sono insiemeuna confessione di fede e un rimprovero: «Si-gnore, se tu fossi stato qui, mio fratello nonsarebbe morto!». Poi aggiunge: «Ma ancheora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio,te la concederà». Marta è una donna di fede econfessa che dove c’è Gesù non può regnare lamorte, che la morte di Lazzaro è accaduta per-ché Gesù era lontano. Ella crede in Gesù e,sollecitata da lui, confessa la propria fede nellaresurrezione finale della carne. Ma Gesù la in-vita a compiere un passo ulteriore: «Io sono laresurrezione e la vita; chi crede in me, anchese muore, vivrà; chiunque vive e crede in me,non morirà in eterno». E Marta replica pron-tamente: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il

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L’Osservatore Romanogiovedì 23 marzo 2017il Settimanale

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Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nelmondo».

Anche Maria, chiamata dalla sorella, correincontro a Gesù e, gettandosi ai suoi piedi,esclama a sua volta: «Signore, se tu fossi statoqui, mio fratello non sarebbe morto!». I tonisono più affettivi, Maria esprime con le lacri-me il proprio dolore. Ella ama Gesù e si sa dalui amata, si mostra pronta a incontrarlo e siinginocchia davanti a lui, ma non dà segni di

nei sepolcri udranno la voce del Figlio di Dioe ne usciranno (cfr. Giovanni 5, 28-29). Eccoun’anticipazione: Lazzaro, morto e sepolto,esce dalla tomba ancora avvolto dalle bende econ la sua resurrezione profetizza la resurre-zione di Gesù. Non solo, ma la resurrezione diLazzaro, «colui che Gesù ama», manifesta laragione profonda per cui il Padre richiameràGesù dai morti alla vita eterna: nel duello travita e morte, tra amore e morte, vince la vita,vince l’amore vissuto da Gesù. Gesù è la vita,

una fede che possa vincere la sua sofferenza: èinteramente definita dal suo inconsolabile do-lore. Le sue lacrime sono contagiose: piangonoi giudei presenti e piange lo stesso Gesù.

Qui ci è chiesto di sostare sugli umanissimisentimenti vissuti da Gesù. Innanzitutto egli sicommuove, freme interiormente. Di fronte allamorte di un amico, di una persona da lui ama-ta, la prima reazione è il fremito che nasce dalconstatare l’ingiustizia della morte: come puòmorire l’amore? Perché la morte tronca l’amo-re, la relazione? Poi Gesù si turba: il fremitodi indignazione diventa turbamento, esperien-za del sentirsi ferito e del sentire dolore e an-goscia. Gesù prova questa reazione emotivaanche di fronte alla prospettiva della propriamorte imminente (cfr. Giovanni 12, 27) e quan-do nell’ultima cena annuncia ai suoi il tradi-mento di Giuda (cfr. Giovanni 13, 21). Infine,alla vista della tomba Gesù scoppia in pianto,reazione che i presenti leggono come il segnodecisivo del suo grande amore per Lazzaro.

Giungiamo quindi al vero vertice del rac-conto: l’incontro tra Gesù e Lazzaro. Gesù,ancora una volta fremendo nel suo spirito, sireca alla tomba e vede la pietra che chiude ilsepolcro: colui che è la vita (cfr. Giovanni 14,6) comincia un duello, una lotta contro lamorte. Il testo apre uno squarcio sulla relazio-ne di profonda intimità tra Gesù e Dio. «Gesùalzò gli occhi e disse: “Padre, ti rendo grazieperché mi hai ascoltato. Io sapevo che miascolti sempre”», così come Gesù stesso ascol-ta sempre il Padre (cfr. Giovanni 5, 30). Èl’unica volta che prega prima di compiere unsegno, ma la sua è una preghiera di ringrazia-mento al Padre, a colui che è il fine stesso del-la preghiera: Gesù desidera che i presentigiungano a credere che egli è l’Inviato di Dio,dunque un segno che rimanda alla realtà ulti-ma, alla fonte di ogni bene, il Padre.

La risposta di Dio giunge immediata, perce-pibile nella parola efficace di Gesù, che com-pie ciò che dice: «Lazzaro, vieni fuori!». Gesùaveva annunciato l’ora in cui coloro che sono

è l’amore che strappa alla morte le sue pecore,le quali non andranno perdute (cfr. Giovanni10, 27-28); se Gesù ama e ha come amico chicrede in lui, non permetterà a nessuno, neppu-re alla morte, di rapirlo dalla sua mano!

Avvenuto il segno, la sua lettura e interpre-tazione spetta a quanti lo hanno visto. «Moltidei giudei credettero in lui». La fede non con-sente certo di sfuggire alla morte fisica: tuttigli esseri umani devono passare attraverso diessa, ma in verità per chi aderisce a Gesù, lamorte non è più l’ultima, definitiva realtà. Chicrede in Gesù ed è coinvolto nella sua amici-zia, vive per sempre e porta in sé la vittoriasulla malattia e sulla morte. Non solo, come silegge al termine del Cantico dei cantici, «l’amo-re è forte come la morte» (8, 6), ma l’a m o revissuto e insegnato da Gesù è più forte dellamorte, è profezia e anticipazione per tutti gliamici del Signore, destinati alla resurrezione.Questa è la gloria di Gesù, gloria dell’a m o re ,anche se all’apparenza egli sembra sconfitto:in cambio di questo gesto, infatti, riceve unasentenza di morte dalle autorità religiose, perbocca di Caifa (cfr. Giovanni 11, 46-53). Dare lavita a Lazzaro è costato a Gesù la propria vita:ecco cosa accade nell’amicizia vera, quella vis-suta da Gesù, che ha donato la propria vitaper gli amici (cfr. Giovanni 15, 13).

L’amore, l’amicizia di Gesù, dunque, vincela morte. Se siamo capaci di mettere la nostrafede-fiducia in lui, questa pagina ci rivela chenon siamo soli e che anche nella morte egli sa-rà accanto a noi per abbracciarci nell’ora incui varcheremo quella soglia oscura e per ri-chiamarci definitivamente alla vita con il suoamore. Ecco il dono estremo fatto da Gesù aquanti si lasciano coinvolgere dalla sua vita: lamorte non ha l’ultima parola, e chiunque ade-risce a lui, lo ama e si lascia da lui amare, nonmorirà in eterno! Canta Gregorio di Nazianzo:«Signore Gesù, sulla tua parola tre morti han-no visto la luce: la figlia di Giairo, il figlio del-la vedova di Nain e Lazzaro uscito dal sepol-cro alla tua voce. Fa’ che io sia il quarto!».

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Il famoso dipinto di Van Goghsul noto episodio evangelico(1890, particolare)

Un rito ecumenico ha suggellatoa Gerusalemme la conclusione dei lavori

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22 marzo

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