diritto e religione

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Dirritto e Religione

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Plectica

Diritto e religioneL’evoluzione di un settore della scienza giuridica

attraverso il confronto fra quattro libri

Atti del seminario di studio organizzato dalla Facoltà di Scienze Politiche

dell’Università degli Studi di Salerno e dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Pisa

Pisa, 30 marzo 2012

a cura di

Gianfranco Macrì Marco Parisi Valerio Tozzi

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© by Plectica editrice s.a.s.

Via Botteghelle, 55 - 84100 Salerno tel 377 2075110e-mail [email protected] internet www.plectica.it

Riservati tutti i diritti, anche di traduzione, in Italia e all’estero.

Volume pubblicato con il contributodella Facoltà di Scienze Politichedell’Università degli Studi di Salerno

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Indice

Saluto introduttivodi PierluiGi consorTi 7

Appartenenza e rappresentanza. L’attenzione dell’ordinamento statale al rapporto tra individui e soggetti collettivi religiosi di appartenenzadi Valerio Tozzi 13

Parte primaPresentazione degli autori

Marco Parisi 31Gianfranco Macrì 47

presentano il volume G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione, Plectica, Salerno, 2011

luciano Musselli 57presenta il volume L. Musselli, Diritto e religione in Italia ed in Europa, Giappichelli, Torino, 2011

Mario ricca 59presenta il volume M. ricca, Diritto e religione. Per una pistemica giuridica, Cedam, Padova, 2002

PierluiGi consorTi 131presenta il volume P. consorTi, Diritto e religione, Laterza, Roma-Bari, 2010

Parte secondaCommenti sulle opere considerate

rinaldo BerTolino 143G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione, Plectica, Salerno, 2011

francesco MarGioTTa BroGlio 151L. Musselli, Diritto e religione in Italia ed in Europa, Giappichelli, Torino, 2011

Paolo Picozza 163M. ricca, Diritto e religione. Per una pistemica giuridica, Cedam, Padova, 2002

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enrico ViTali 171P. consorTi, Diritto e religione, Laterza, Roma-Bari, 2010

Parte terzaContributi dal seminario

chiara laPi, Cronaca del seminario 181Maria GaBriella BelGiorno de sTefano, Il Diritto ecclesiastico

può sopravvivere 189faBiano di PriMa, La proficua “irrequietezza” del Diritto ecclesiastico.

Primi cenni 207alBerTo faBBri, Alcune osservazioni sugli orientamenti del Diritto

ecclesiastico nell’Università riformata 239Mario ferranTe, Le nuove frontiere del Diritto ecclesiastico 251GiusePPe Gullo, A proposito di una nuova definizione del Diritto eccle-

siastico 259Manlio Miele, Brevi note esperienziali didattiche 263GiusePPe riVeTTi, Diritto ecclesiastico: il futuro dipende dalle origini 281MarTa TiGano, Il contributo della scienza del Diritto ecclesiastico

al “farsi” dell’ordinamento giuridico 291GioVanni B. Varnier, Dal Diritto ecclesiastico dello Stato al Diritto

e religione 303

Parte quartaAltri contributi

Giancarlo anello, Categorie ermeneutiche dei diritti religiosi e libertà di culto 319

Pasquale annicchino e GaBriele faTTori, Diritto ecclesiastico e canonico tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ multiculturalismo 345

luiGi BarBieri, Il business ethics nell’Enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI 367

GerMana caroBene, Laicità e libertà religiosa: prospettive dell’attuale ‘diritto delle religioni’ 385crisTina dalla Villa, Il diritto delle religioni nella Corte dei gentili 401Maria luisa lo Giacco, Associazionismo confessionale e dialogo

interreligioso 407Grazia PeTrulli, Diritto e secolarizzazione 415Paolo sTefanì, Kafalah islamica e uguaglianza religiosa: laicità

e società multiculturale 433

Autori 449

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Saluto introduttivo

Saluto introduttivodi PierluiGi consorTi

1. Permettetemi di avviare la nostra giornata di lavoro indirizzando a voi tutti un saluto di benvenuto a Pisa ed un sincero ringraziamento per aver accettato l’invito a partecipare a questo incontro. Il merito dell’idea va riconosciuto a Valerio Tozzi, che ha coinvolto il Dipar-timento di Scienze politiche, sociali e della comunicazione dell’Uni-versità di Salerno, ma soprattutto si è assunto l’onere di coinvolgere gli illustri Colleghi Rinaldo Bertolino, Francesco Margiotta Broglio, Luciano Musselli, Paolo Picozza ed Enrico Vitali – che pur non es-sendo più formalmente “in ruolo” – hanno a loro volta accettato di aprire una discussione apertamente indirizzata ad animare il dibattito fra i Colleghi che – se non altro, per mere ragioni anagrafiche – av-vertono la necessità di confrontarsi sul futuro della nostra disciplina. Ai relatori va quindi un ringraziamento speciale, che vorrei estendere anche a Paolo Moneta, che ci onora della sua presenza e che sono convinto vorrà aiutarci anche nel dibattito odierno.

2. Ho accolto volentieri la sollecitazione di Valerio Tozzi assumendo in corsa l’onere di collaborare alla preparazione di un’iniziativa già in cantiere, perché sono convinto che abbiamo bisogno di una pausa di riflessione che ci aiuti a precisare i termini di una discussione sul futuro della disciplina che, pur non essendo nuova né in sé originale, ha tuttavia ancora bisogno di essere precisata ed approfondita. Ho pensato che potevamo fare un passo in avanti utilizzando un metodo di discussione non sempre frequentato nell’accademia italiana, sin-tetizzato nel titolo di “seminario”. L’idea è quella di favorire una di-scussione libera e partecipata; per quanto possibile fuori dagli schemi più ordinati dei convegni tradizionali. Per l’aiuto che riceveremo in questo senso ringrazio sin d’ora lo staff del Centro interdisciplinare “Scienze per la pace” dell’Università di Pisa che, oltre ad aver soste-

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Pierluigi Consorti

nuto l’attività organizzativa, si è accollato la responsabilità, non faci-le, di curare i momenti partecipativi del pomeriggio: sui quali so es-serci un po’ di suspense, che verrà sciolta al termine della mattinata.

Ringrazio anche la Facoltà di giurisprudenza e il Dipartimento di diritto pubblico dell’Università di Pisa, che hanno sostenuto a loro vol-ta questa iniziativa. Menziono entrambi i soggetti che tradizionalmente appaiono centrali nella vita universitaria, ben sapendo che è possibile farlo solo perché oggi è il 30 marzo: se avessimo scelto una data di poco successiva non avremmo avuto l’opportunità di riferirci alla Fa-coltà, com’è noto dissoltasi a seguito della cosiddetta riforma Gelmini, che, fra l’altro, rinnega la divisione fra didattica e ricerca su cui si era innestata la riforma degli anni Ottanta. Accenno alla riforma perché la nostra discussione deve posizionarsi sullo sfondo dei cambiamenti più larghi che interessano l’Università italiana, e con essa l’intera società.

La domanda sul futuro del diritto ecclesiastico credo debba essere contestualizzata in tali scenari. Ad esempio, non possiamo nascon-dere che alcune scelte dipendono dalle mutate condizioni dei nostri impegni didattici. Oramai la gran parte di noi insegna due, talvolta tre e persino quattro materie. Di conseguenza, il tempo per la ricerca si restringe drasticamente. L’introduzione dei crediti formativi qua-li unità di misura della didattica si è peraltro rivelata un perverso misuratore del peso scientifico ed accademico di ciascuna materia. Possiamo far finta di niente: ma non è la stessa cosa se contiamo 6 o 9 crediti, o se i nostri insegnamenti sono obbligatori ovvero appaiono fra gli opzionali. Non ne faccio ovviamente una questione di princi-pio: ma sappiamo che il nostro futuro dipenderà anche dalle politi-che di reclutamento, che si svolgono a colpi di budget e crediti, con buona pace dell’autonomia ed autorevolezza scientifica. Per parlare chiaro, permettetemi di superare le parole di circostanza e dire a voce alta ciò che tutti diciamo nei corridoi: una parte del nostro futuro di-penderà anche dal numero dei docenti, dal ruolo che ricoprono e dai crediti attribuiti ai nostri insegnamenti.

Al livello nazionale la situazione non è uniforme. Disponiamo tuttavia di un dato oggettivo di immediata evidenza, che può tornare utile per una valutazione in termini prospettici. L’organico del nostro

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Saluto introduttivo

settore scientifico disciplinare è ad oggi composto da 44 professori di prima fascia (più un idoneo); 34 professori di seconda fascia; 48 ricercatori a tempo indeterminato e 3 a tempo determinato. Siamo quindi una piccola comunità scientifica di 129 persone. Il blocco del turn over ci condiziona fortemente, e nemmeno possiamo più contare sull’inserimento di ricercatori a tempo indeterminato. La riduzione dei fondi per i dottorati di ricerca – peraltro tornati anch’essi di fatto al regime dei consorzi interuniversitari – provocherà verosimilmente un ulteriore assottigliamento del gruppo di docenti, di per sé soggetto agli inesorabili pensionamenti.

Certamente, i fatidici “raggiunti limiti di età” non mettono a ripo-so il cervello. E per fortuna disponiamo di cervelli ed energie in otti-ma forma. Pur tuttavia – scusate la potenziale volgarità, ma spero sia chiaro il messaggio che voglio trasmettere – con minori possibilità di incidere nell’attuale sistema universitario che di fatto sottovaluta la priorità dei meriti scientifici e che in ogni caso ha bisogno di accre-scere le possibilità di accesso per i più giovani. Non mi stancherò di dire che solo nell’Università italiana i “giovani professori” hanno più di 40 anni (e talvolta 50!).

3. Non voglio però insistere su questi aspetti, che pure ritengo essen-ziali per inquadrare il contesto in cui si svolge il Seminario odierno, che ha un obiettivo meno modesto della sola “messa a punto” dei numeri appena ricordati. Credo siamo tutti convinti che lo sforzo maggiore che la nostra comunità scientifica è chiamata a fare riguar-di la sua visibilità in termini di effettiva autorevolezza scientifica. Dobbiamo poter cogliere dal contesto più generale quali possano essere le direzioni di studio che consentano di far apprezzare il no-stro lavoro per la sua specificità culturale, in modo particolare nel campo delle scienze giuridiche. In questo senso, resto personalmente convinto dell’opportunità di concentrarci maggiormente sullo studio dei fenomeni sociali connessi al rapporto fra diritto e religione, così come esso si dispiega nell’odierna società multiculturale.

Per la nostra discussione abbiamo preso lo spunto dal fatto che – almeno – quattro libri sono recentemente stati intitolati “Diritto e re-

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Pierluigi Consorti

ligione”; ed altri se ne sono aggiunti nelle ultime settimane. Prendere spunto da questi titoli è un evidente escamotage. Il punto centrale non è il titolo (sebbene anche questo aspetto nominalistico non sia poi del tutto secondario), quanto la sostanza che questo traduce.

Senza dilungarmi troppo, permettetemi pertanto di esprimermi su alcuni punti sostanziali che, a mio parere, dovrebbero essere affron-tati nel dibattito odierno. A mio modesto parere il futuro del diritto ecclesiastico si giocherà sulla frontiera della sua concezione quale disciplina giuridica utile. In primo luogo in termini culturali: os-sia in vista del progresso sociale. Abbiamo conoscenze che possono aiutare in questa direzione. Siamo esperti delle dinamiche connesse ai conflitti religiosi, che oggi si svolgono in termini molto diversi ri-spetto ad un passato, pure abbastanza vicino. E credo che siamo stati in grado di cogliere le principali novità connesse a tale evoluzione. Tuttavia non siamo sempre stati capaci di comunicare quello che sap-piamo; fino al punto che troppi credono che si possa tranquillamente fare a meno della nostra peculiare esperienza. Dobbiamo chiederci perché questo è avvenuto. E necessariamente immaginare quale di-rezione intraprendere per invertire la tendenza.

Dobbiamo poi porci una domanda sull’utilità del diritto ecclesia-stico in termini didattici. In genere i nostri Corsi durano poche ore (meno delle tradizionali 60 ore). Non possiamo più ripercorrere la manualistica tradizionale. E quindi: quali argomenti privilegiamo nei nostri Corsi (e, di conseguenza, nei nostri manuali)? Quali sono gli argomenti che oggi caratterizzano il “diritto ecclesiastico” in termini accademici? Cosa crediamo che debbano sapere gli studenti che fre-quentano i nostri Corsi? Va da sé che le risposte a queste domande incidono anche sui termini delle nostre ricerche. Quali sono i settori di ricerca che caratterizzano la nostra disciplina?

Gli studenti non sono però gli unici destinatari delle nostre attività di ricerca. Siamo giuristi, e come tali abbiamo la possibilità di incide-re nel campo del diritto. Dovremmo forse delineare meglio i contorni dei nostri interessi in questo senso? Qual è l’apporto principale che possiamo dare al mondo del diritto? E, più in particolare, agli opera-tori del diritto?

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Saluto introduttivo

Dovremmo anche porci un problema di metodo. Credo che il dirit-to ecclesiastico si ponga da sempre su un versante interdisciplinare, a cavallo fra diritto, storia e – perché no? – teologia. Percorrendo que-sta via abbiamo avuto esperienze significative di scienza della politi-ca e dell’amministrazione pubblica. Con una spiccata attenzione alla comparazione giuridica. Tutto questo favorisce l’elasticità necessaria per chi vuole fare ricerca in questa nostra epoca; l’interdisciplinarità è necessaria specialmente guardando al futuro. Da questo punto di vista penso che il contributo degli ecclesiasticisti vada valorizzato.

Nello stesso tempo siamo portatori di esperienze diverse: possia-mo chiederci se sia opportuno proseguire sulla strada delle nostre distinte originalità individuali, oppure se non sia meglio creare al-leanze culturali più larghe: sia al nostro interno che verso l’esterno. In termini minimalistici possiamo domandarci se siamo permeabili alle esigenze della interdisciplinarità, oppure vogliamo mantenerci in uno spazio di autoreferenzialità giuridica. Io credo sia necessario ravvivare i contatti con la ricerca storica e con quella teologica, senza dimenticare l’antropologia e la sociologia.

Guardandoci poi più da vicino, mi chiedo se sia utile proseguire nella logica della differenziazione fra scuole dentro la nostra discipli-na (posto che sia oggi ancora possibile e realistico parlare di scuole): non sarebbe meglio tentare alleanze virtuali su temi e metodi che segnalino all’esterno una nostra specificità unitaria?

Nel passato certi equilibri culturali si determinavano in sede con-corsuale. Ma non credo abbia molto senso oggi attribuire a future abilitazioni nazionali, ed alle successive selezioni locali poste sotto la dittatura del budget, il ruolo di scriminanti culturali. La questione dei numeri torna a giocare un ruolo non marginale. Non credo abbia senso ragionare in termini di difesa della cittadella assediata (che poi sarebbe IUS 11). Piuttosto ragioniamo in termini di “contaminazione culturale”.

4. Non credo che siamo arrivati per caso al punto in cui ci troviamo. Abbiamo seguito un percorso determinato da molti fattori esogeni. Ma nessuno di noi stava esattamente altrove. E, sia consentito dirlo,

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Pierluigi Consorti

chi si è posto altrove ha implicitamente assunto la responsabilità di essere altrove.

Credo sia giunto adesso il momento di assumerci responsabilità personali, ed insieme collettive. Se non lo faremo, altri, magari il caso o il corso degli eventi, decideranno per noi. Mi pare che tro-varci a discutere sia un modo per non subìre la realtà presente, e per cercare di incidere su quella futura. Per quanto mi riguarda, significa assumere un impegno civico nella dimensione culturale. Del resto, siamo pagati (sebbene poco) per coltivare questo impegno.

Ringrazio quindi tutti gli intervenuti, ed auguro buon lavoro. Grazie.

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Appartenenza e rappresentanza

Appartenenza e rappresentanza. L’attenzione dell’ordinamento statale al rapporto

tra individui e soggetti collettivi religiosi di appartenenza

di Valerio Tozzi

1. Presentazione - 2. Le problematiche sottoposte agli studiosi - 3. Rappre-sentatività e rappresentanza degli interessi della popolazione - 4. Interessi della popolazione e sistemi istituzionali di rilevazione - 5. Appartenenza a collettività organizzate e tutela degli interessi individuali o minoritari - 6. Responsabilità degli studiosi nella società democratica

1. Chi scrive ha vissuto l’esperienza di molti anni di studi della disci-plina del fenomeno religioso, istituzionalmente denominata “Diritto ecclesiastico”, attraversando diverse fasi non solo di politica legisla-tiva ed amministrativa riguardante questa materia, ma anche diverse fasi degli studi, legate principalmente all’epoca di formazione delle generazioni di studiosi che si sono avvicendati nel tempo.

La fase che per convenzione espositiva datiamo con l’avvento del nuovo millennio è stata caratterizzata dal consolidarsi di alcuni processi “epocali”, quali la progressiva formazione di istituzioni di governo dell’odierna Unione europea, con la relativa messa in comu-ne di porzioni di sovranità da parte degli Stati membri e il fenomeno dell’immigrazione verso la più florida economia europea di molti esponenti di popolazioni provenienti da Paesi vicini, sia mediterra-nei che continentali. L’attuale crisi delle economie occidentali, poi, apre ulteriori nuovi scenari che non mancano di incidere anche nel nostro settore di studi, apparentemente lontano dall’economia, ma la cui decifrazione è tutta da affidare alle nuove generazioni.

I primi due fenomeni hanno ormai definitivamente modificato il quadro di riferimento degli studi sulla disciplina giuridica del feno-meno religioso, rendendo ancora più obsoleto il metodo e l’imposta-

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Valerio Tozzi

zione teorica che ha continuato a dominare non solo la produzione legislativa nazionale, l’azione di governo, ma anche una parte non secondaria degli studi.

È definitivamente tramontato il monismo culturale religioso del cattolicesimo, vi sono comunità ampie di seguaci di altre fedi ed è diffuso l’indifferentismo e l’ateismo militante. Sia pure con circa qua-ranta anni di ritardo, rispetto alla entrata in vigore della Costituzione italiana, perfino da parte vaticana si è riconosciuta l’abolizione del principio del cattolicesimo religione dello Stato. Il pluralismo in cam-po religioso non è più un fenomeno marginale, riguardante minoranze sparute (e maltrattate), ma è faticosamente e tardivamente emerso nel-la società, in virtù dei principi di democrazia, pluralismo, laicità, san-citi in Costituzione. Questo fenomeno si è manifestato con un’evolu-zione dei costumi che ha spostato il dibattito dai ragionamenti del pri-mo liberalismo sulle minoranze religiose, all’odierno confronto sulle diverse visioni esistenziali, favorendo il confronto su tematiche nuove ed eticamente sensibili, quali le unioni di fatto, le famiglie unigenere, il testamento biologico, l’accanimento terapeutico e l’eutanasia.

Contemporaneamente, l’esplosione delle presenze in Italia di stranieri di cultura islamica, provenienti da aree geografiche distanti e portatori di esigenze di professione di fede molto articolate e di-verse fra loro (abbigliamento, famiglia, rapporto fra fede e politica), specialmente per il carattere di quella cultura, che stenta a distin-guere fra principi religiosi e regole di diritto civile, ha avuto il me-rito di evidenziare l’ancora troppo elevato tasso di confessionismo filo-cattolico presente nelle nostre istituzioni e nella classe politica, anche se non necessariamente condiviso dalla maggioranza della po-polazione, rendendo sempre più urgenti riforme consistenti, quale la reclamata legge generale sulle libertà religiose, con conseguente ri-posizionamento, nel nostro sistema giuridico, della legislazione con-trattata fra confessioni religiose e Stato italiano, fenomeni entrambi fortemente ostacolati dagli ambienti conservatori.

In questa atmosfera culturale e politica, abbiamo rilevato che, in un arco temporale breve, numerosi autori della nostra disciplina (noi fra questi) hanno adottato una titolazione dei loro testi non più

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Appartenenza e rappresentanza

conforme alla denominazione tradizionale di “Diritto ecclesiastico”, ma hanno adottato quella di “Diritto e religione”. Titolazione che, almeno da parte del gruppo di studiosi cui appartengo, ha la funzio-ne di evidenziare che la religiosità umana è un fenomeno che l’or-dinamento giuridico non può continuare a rilevare esclusivamente attraverso rapporti con le organizzazioni dominanti della religiosità collettiva (le chiese), ma deve anche considerare che la religiosità della persona umana (come singolo e nell’appartenenza al gruppo) è fondamentalmente un diritto inviolabile e perciò può e deve essere tutelata: sia nelle manifestazioni individuali, sia in quelle collettive e infine, nei suoi aspetti di collettività organizzata e autonoma; con tut-te le problematiche della contemporanea distinzione e convergenza fra la tutela delle esigenze degli individui e tutela delle esigenze dei gruppi organizzati.

È nata così a Salerno l’idea di sviluppare una discussione di con-fronto, anche generazionale, subito condivisa dal giovane collega Pierluigi Consorti, anch’egli autore di un testo con questo titolo. Consorti e la Facoltà di Giurisprudenza di Pisa hanno messo a dispo-sizione le strutture e l’organizzazione dell’Università pisana per l’oc-casione di confronto. Abbiamo avuto il privilegio di registrare anche l’entusiastica partecipazione degli altri Autori: Musselli, Ricca, di Maestri che hanno accettato di commentare i quattro volumi posti a base della discussione (Rinaldo Bertolino, Francesco Margiotta Bro-glio, Enrico Vitali e Paolo Picozza) e soprattutto la partecipazione di numerosi colleghi, molti delle nuove generazioni, che hanno portato i loro contributi e partecipato ai gruppi di discussione organizzati.

La raccolta in volume di questa esperienza, che vede la stampa in forma tradizionale da parte della dinamica e giovane Casa editrice Plectica di Salerno, ma che viene offerto anche gratuitamente on-line in formato pdf per garantire e facilitarne la diffusione, si iscrive in uno sforzo continuo della Facoltà di Scienze Politiche e del Diparti-mento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Ate-neo salernitano, già testimoniato dal Convegno e dalla pubblicazione degli Atti sul tema della Proposta di riflessione per l’emanazione di una legge generale sulle libertà religiose, editi da Giappichelli nel

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Valerio Tozzi

2011 nella prestigiosa collana di Studi di Diritto Canonico ed Eccle-siastico, diretta da Rinaldo Bertolino.

2. La società italiana è molto cambiata dall’irripetibile periodo post-bellico, nel quale una generazione di cittadini provati dagli eventi, ma molto motivati a ricostruire il Paese e l’economia, desiderosa del-la pace e del bene, seppe darci quella Costituzione della Repubblica, che ha garantito sviluppo e prosperità.

L’inevitabile articolazione delle visioni politiche, nel tempo, ha prodotto diversi orientamenti di politica di Governo (centro-destra, centro sinistra, sostegno esterno del partito comunista al governo di centro sinistra e via così) ma, anche nella fase di larghissima domi-nanza di un unico partito, sia pure con una forte impronta di parte e non senza vistosi limiti, specie in materia di diritti civili, si sostenne un processo di grande ampliamento del benessere generale e si po-sero i prodromi di una politica sociale orientata all’obbiettivo (non raggiunto, ma almeno tentato) della riduzione delle disuguaglianze.

I diritti civili sono lo specchio dell’orientamento di una società; essi si sviluppano se vi è un indirizzo ugualitario e democratico, sono invece compressi, quando dominano oligarchie egoistiche e poco at-tente al bene comune. Il tema dei diritti civili si impose con molto dinamismo negli anni settanta del millenovecento, in corrispondenza dell’allargamento a sinistra del quadro politico di governo, anche col contributo di quella parte politica già egemone, marcatamente orien-tata in senso ideologico religioso, ma che, appunto, per necessità po-litica, riuscì ad accettare un catalogo di leggi permissive non rispon-denti solamente alla propria visione di parte e tuttavia reclamate da una larga fascia di popolazione italiana. Disgraziatamente, negli anni successivi, questa progressione virtuosa si è interrotta.

Alcune riforme, dagli anni ottanta del novecento, reclamizzate come “epocali”, si rivelarono molto più modeste delle aspettative e prive di contenuti effettivamente riformistici; piuttosto, solo par-zialmente adeguatrici delle leggi già vigenti ad alcuni cambiamenti ormai intervenuti e consolidati nella società. In parte significativa quelle riforme furono espressione di un nuovo dirigismo politico ca-

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Appartenenza e rappresentanza

ratterizzato dalla demagogica professione di una nuova, ma inesi-stente laicità e costituita da accordi di vertice fra lobbies religiose e autorità del Governo centrale.

Al presente si manifesta una fase di riflusso ideologico, nel quale si cerca di rimettere in discussione alcune riforme degli anni settanta e si cerca di imporre, con leggi costrittive 1, la visione conservatrice di una sola parte ideale, ignorando e colpevolizzando ogni altra vi-sione ed ogni dissenso.

Questo fenomeno ha riguardato anche il campo religioso e spe-cificamente il rapporto fra la religione come fenomeno sociale e la religiosità come comportamento dell’uomo, individuale e collettivo.

L’evoluzione o il più solido radicamento del fenomeno demo-cratico, come cultura e idealità, ha mutato i comportamenti umani anche in campo religioso, ma meno sono mutati i comportamenti delle strutture organizzative delle fedi religiose ed in particolare, qui in Italia, quello della Chiesa cattolica. Ancor meno, poi, le istitu-zioni pubbliche hanno saputo adeguare alla democrazia l’apparato istituzionale di disciplina di questi fenomeni, sviluppando proprio il fenomeno filo-lobbistico di cui si è fatto cenno critico.

Tale – a mio avviso – è la natura dell’accordo di revisione concor-dataria del 1984 e la politica ad esso connessa della c.d. “stagione del-le intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica”. Stagione che ha avocato ogni disciplina del fenomeno religioso alla trattativa

1 V. Tozzi, Discipline giuridiche che generano conflitto di coscienza e soluzioni legislative, in G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto civile delle religioni, capitolo III, Laterza, Roma-Bari, in via di pubblicazione. Ho qui analizzato l’evoluzione e involuzione successiva, delle risposte del legislatore al superamento del monismo culturale cattolico del Paese e al manifestarsi del pluralismo ideologico e culturale. La prima risposta fu il riconoscimento, come eccezione alla regola, dell’obiezione di coscienza. La successiva svalutazione dell’istituto ha portato alla produzione delle c.d. “leggi permissive” (divorzio, interruzione della gravidanza), che accoglievano le istanze di una parte della cultura nazionale, ma salvaguardando il dissenso con la libertà di non avvalersi dei diritti garantiti e con l’obiezione di coscienza per non essere coinvolti in attività non condivise. Le leggi costrittive, invece, pretendono di imporre la visione partigiana di gruppi intransigenti, criminalizzando chi non con-divida quel pensiero.

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Valerio Tozzi

delle confessioni religiose col Governo centrale, ufficiale per le intese, meno trasparente per le leggi e leggine di settore, senza alcuna con-siderazione diretta degli effettivi bisogni religiosi della popolazione. Così, anche la legislazione ordinaria, nazionale e regionale, non man-ca di perpetuare la logica lobbistica della tutela dei riconosciuti, pro-teggendo, ma in misura diseguale, le confessioni religiose che hanno stipulato l’intesa con lo Stato e ignorando ogni altra manifestazione religiosa individuale e collettiva; fenomeno conseguente al fatto che, la stipula dell’intesa, con la connessa attribuzione della qualifica di confessione religiosa, è espressione di una decisione politica gover-nativa, sottratta ad ogni ancoramento al quadro generale del Progetto costituzionale di disciplina dei fenomeni religiosi 2.

Questi bisogni sono presi in considerazione dalle autorità pubbli-che mai con forme di attenzione diretta e paritaria fra tutti quelli della stessa classe, ma solo se rappresentati (o rappresentabili) tramite il patronnage delle rispettive organizzazioni della religiosità colletti-va, quando siano state riconosciute dal Governo, con apprezzamento politico. È stata enfatizzata, oltre ogni logica suppostamente mag-gioritaria, la parte del progetto costituzionale di disciplina del fe-nomeno religioso che riguardava i rapporti fra Chiesa e Stato, con l’implementazione dei rapporti fra le Confessioni religiose diverse dalla cattolica e lo Stato (artt. 8 e 7 della Costituzione), a scapito della più ampia e democratica tutela della religiosità individuale e collettiva di cui agli artt. 19 e 20. Contraltare di questa politica è stata la completa preterizione di ogni esigenza reale di collettività religio-se non riconosciute dall’autorità governativa (gruppi non qualificati come confessione religiosa) o dei singoli, quando non vivessero il rapporto di appartenenza a un grande gruppo religioso in un regime di obbedienza cieca e completa alle rispettive gerarchie 3.

2 V. Tozzi, Le confessioni religiose senza intesa non esistono, in Aequitas sive Deus. Atti in onore di Rinaldo Bertolino, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 1033 ss.

3 Vi è stato un arretramento centralista e “neo-concordatarista”, ma sembra più l’ultimo guizzo di un sistema in crisi che una vittoria del modello. La pressione dei gruppi religiosi dominanti stimola il neo-privatismo, con la sua clava istituzionale denominata “principio di sussidiarietà orizzontale”, con il pericoloso strumentario

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Appartenenza e rappresentanza

Chi, come noi, ritiene che la scienza che studia il diritto civile che regola i fenomeni religiosi abbia un ruolo per influire positivamente per la correzione di questi gravi problemi è perciò chiamato a discu-tere i temi che solleviamo 4.

3. È pacifico che in una società democratica l’ordinamento giuridico ha funzione di regolatore dei rapporti sociali, funzione da svolgersi nell’alveo dei valori condivisi da tutte le parti sociali, che hanno dato luogo alla creazione della Costituzione e dei principi da quest’ultima enunciati per l’attuazione dei valori condivisi. Fra questi è acquisito che le istituzioni pubbliche sono un servizio alla società e che il catalo-go dei diritti sanciti sono funzione della promozione dell’uomo, come individuo e nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità.

Questo quadro valoriale si regge sulla condivisione di tutti i con-sociati del senso di appartenenza alla comunità, nazionale o sovrana-zionale, come ambito di convivenza (la casa di tutti di A.C. Jemolo). È il principio democratico del consenso, che è diverso dall’imposi-zione autoritaria del volere dei forti. Senso di appartenenza che è

della “amministrazione partecipata”. Questo fenomeno genera la prevalenza degli “interessi forti”, non fa capire più chi rappresenta il “bene comune” nelle grandi decisioni, né chi risponde delle scelte fatte di fronte al “popolo sovrano”. Ma se da una parte si sviluppa un pericoloso anti-statalismo, dall’altra si liberano forze di base positive, offrendo anche possibilità alle nuove generazioni. Cfr. V. Tozzi, Le attuali prospettive del diritto ecclesiastico italiano, in Stato, Chiese e Pluralismo confessio-nale, rivista telematica, gennaio 2007, www.statoechiese.it.

4 R. Mazzola, Santi Romano e la scienza ecclesiasticistica, in La costruzione di una scienza per la nuova Italia: dal diritto canonico al diritto ecclesiastico, a cura di G.B. Varnier, EUM, Macerata, 2011, p. 214, afferma: «Non si tratta di ripensare il modello dei rapporti tra Stato e confessioni religiose riesumando o rielaborando la dottrina il Romano. Essa ha fatto il suo tempo e ha esaurito la sua parabola storica. Ciò che la scienza ecclesiasticista, sotto il profilo metodologico, può fare è molto più semplice, anche se nel contempo assai più difficile. Essa ha, infatti, il dovere di sug-gerire alle istituzioni e alla classe politica, come riuscire a dare efficacia, in termini di buone pratiche e prassi amministrative, al principio di uguale libertà religiosa, così come formulato dalla Costituzione, aiutando in tal modo il sistema italiano a rag-giungere un più maturo e ampio pluralismo e una più convinta ed effettiva uguaglian-za sostanziale fra gli attori religiosi operanti nell’ordinamento giuridico italiano».

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necessario per equilibrare le spinte individualistiche o egoistiche dei più potenti e utile per i benefici di pace e progresso che il senso di bene comune garantisce a una siffatta comunità.

Contemporaneamente, ciascun individuo, singolarmente o in ag-gregazioni collettive, produce la sua partecipazione alla vita della so-cietà, manifestando bisogni, esigenze e indirizzando verso le istituzio-ni pubbliche la richiesta di garanzie, tutele e diritti, come attuazione dei principi di libertà e uguaglianza che il patto comune (la Costituzio-ne) enuncia per tutti. I flussi di trasmissione di queste domande verso le autorità e di loro ricezione da parte dei destinatari è la politica; le risposte delle autorità a queste domande è il governo della società. Ciò posto, occorre riflettere sui modi di rilevazione delle esigenze, dei bisogni della popolazione, messi in opera dall’ordinamento.

La distribuzione decentrata delle decisioni di governo (decen-tramento, autonomie locali), i sistemi pubblici di rappresentanza elettiva degli interessi (leggi elettorali), le forme di consultazione o coinvolgimento degli interessi categoriali o collettivi nei processi di assunzione delle decisioni politiche e di governo (es: consultazione governativa delle c.d. “parti sociali”), sono alcuni degli strumenti istituzionali di democrazia, previsti e distribuiti in forme diverse nei vari settori di organizzazione sociale. La loro capacità di tutela del bene comune è diversa nel tempo e nello spazio.

Quanto agli interessi, ai bisogni individuali che si manifestano nella società, raramente questi hanno strumenti istituzionali per la loro presentazione in forma diretta a chi governa; più frequentemen-te, fruiscono di sistemi di rappresentazione collettiva, più o meno previsti e regolati dalle istituzioni. L’organizzazione collettiva degli interessi, infatti, può essere espressione di previsioni costituzionali (partiti politici, sindacati, organizzazioni religiose), ovvero di forme spontanee di organizzazione, meno strutturate, operanti nel regime di liberà e autonomia che l’ordinamento garantisce (associazioni, fon-dazioni, movimenti, gruppi).

L’esperienza empirica mostra che una primaria forma di tutela viene realizzata attraverso la partecipazione più o meno spontanea e sentita di singoli e gruppi ad aggregazioni sociali che, per peso

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numerico o per capacità politica, riescono ad ottenere (dal potere po-litico?, dalle istituzioni?) spazi di tutela dei loro interessi e quindi di quelli dei rispettivi consociati. Fenomeno a fronte del quale una democrazia efficiente deve predisporre istituzioni e poteri capaci di rispondere non in una logica contrattuale e di parte, me in una prospettiva generale di rispetto della uguaglianza, del bene comune, perché il diritto di libertà religiosa appartiene ai beni comuni. La vio-lazione della parità ed uguaglianza nella soddisfazione dei bisogni da parte di chi governa determina la disaffezione verso le istituzioni, l’attenuazione o la crisi di quel senso di appartenenza alla comunità (che è il motore del funzionamento dello Stato).

Tutte le forme di organizzazione collettiva degli interessi operano in base al principio di rappresentatività per cui gli organi del sogget-to collettivo rappresentano in forma unitaria i bisogni della comu-nità organizzata; questa rappresentazione, normalmente, dovrebbe costituire la sintesi del groviglio dei molteplici interessi individuali esistenti nella comunità stessa. Tuttavia, anche questo processo, per così dire interno, costituisce un passaggio problematico, in quanto determina l’esigenza, per le autorità che devono vagliare le domande dei soggetti collettivi, di valutare la rappresentatività delle organiz-zazioni che richiedono tutele, onde evitare il rischio di soddisfare non l’interesse collettivo dei consociati, ma quello distinto e poten-zialmente egoistico dell’oligarchia che governa quel gruppo. L’or-dinamento giuridico, quanto più saprà intercettare ed organizzare in maniera equilibrata e ugualitaria il caleidoscopio composito di que-ste esigenze e domande, tanto più avrà correttamente assolto al suo ruolo democratico di regolatore dei rapporti sociali.

Quelli che esercitano le funzioni di governo e le Assemblee legi-slative sono gli strumenti di realizzazione di questi obbiettivi.

4. Una delle modalità di attuazione di questo compito dei pubblici poteri è l’attribuzione di rappresentatività legale degli interessi di una parte della società a determinate organizzazioni, ritenute rappre-sentative della maggioranza di quella categoria di interessi e perciò elevate al rango di interlocutori diretti dell’autorità, attribuendo loro

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il monopolio (o l’oligopolio) della proposizione delle esigenze e del-la gestione della loro soddisfazione, garantita (e finanziata) dalle au-torità pubbliche. Limite di questa modalità è la rinuncia alla verifica della rispondenza fra le esigenze effettive della popolazione e quelle prospettate dall’istituzione divenuta legalmente rappresentativa di determinati interessi collettivi 5.

Più flessibile, invece, è la rappresentatività degli interessi stabili-ta in maniera politica, cioè legata ad un metodo di rilevazione, non aprioristicamente stabilito per legge, ma affidato ad organi pubblici responsabili politicamente, quanto più direttamente prossimi a chi deve essere rappresentato. Nelle società non democratiche il proble-ma della rappresentanza degli interessi è risolto a monte, con la nega-zione di diritti individuali e il riconoscimento di libertà solo se con-cesso dall’alto, con l’attribuzione ad agenzie controllate dei limitati ambiti di libertà riconosciute; ambiti che diventano fruibili dal sin-golo esclusivamente in quel rapporto di appartenenza che costituisce una forma di tutela indiretta, ma anche una forma diretta di controllo e di soggezione dell’individuo al gruppo (diritti riflessi).

Nello Stato liberale, certamente centralista e relativamente incline a recepire i bisogni che non provenissero dalla classe borghese che era al potere, nelle leggi comunali e provinciali, una qualche rappre-sentanza di alcuni interessi religiosi della base sociale era affidata alle assemblee elettive locali (Province e Comuni), al fine di assicurare l’effettiva esercitabilità del culto cattolico alla popolazione. Ad esem-pio, in materia di manutenzione degli edifici parrocchiali.

Tracce di coinvolgimento diretto delle assemblee elettive locali si rinvenivano ancora nella prima legislazione urbanistica italiana del

5 Ne è esempio, nel diritto del lavoro, l’attribuzione della rappresentanza degli interessi dei lavoratori ai sindacati più rappresentativi (legge n. 300 del 20 maggio 1970) che, nel settore del pubblico impiego (art. 25 della legge n. 93 del 29 marzo 1983), selezionava gli organismi rappresentativi dei dipendenti pubblici, allentando la tensione interna dei dirigenti di questi organismi a raccogliere e organizzare i bi-sogni della base, con grave nocumento della fiducia dei rappresentati nei confronti della organizzazione di appartenenza. G. Ghezzi, u. roMaGnoli, Il diritto sindacale, Zanichelli, Bologna, 1992; G. GiuGni, Diritto sindacale, Cacucci, Bari, 1996.

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dopoguerra, a proposito dell’edilizia di culto, ove lo standard urba-nistico delle attrezzature religiose era commisurato alla popolazione insediata e le scelte pianificatorie erano affidate all’Amministrazione comunale che, per essere elettiva, doveva necessariamente prestare attenzione alle istanze di base (anche se il modello veniva vanificato dal dominio politico del partito di ispirazione cattolica) 6.

La revisione concordataria del 1984, però, ha ulteriormente ri-stretto questi spazi, attribuendo una discutibilissima rappresentanza degli interessi religiosi della popolazione in materia di edilizia reli-giosa all’autorità ecclesiastica cattolica (art. 5 legge n. 121 del 1985), laddove quest’ultima rappresenta con certezza solo i propri interessi di grande organizzazione religiosa, ma molto meno certamente quelli della propria base sociale, come fu ampiamente dimostrato in oc-casione del referendum abrogativo della legge sul divorzio del 12 aprile 1974 7.

Si può affermare che, dal fascismo in poi, la rappresentanza de-gli interessi religiosi della popolazione è stata monopolizzata dalla Chiesa cattolica e, dagli anni ottanta del 1900, dalle confessioni reli-giose diverse dalla cattolica, cui è stato accordato il privilegio della stipula dell’intesa con lo Stato, ai sensi del 3° comma dell’articolo 8 della Costituzione.

Questa forma di rappresentanza legale degli interessi della base, di dubbia costituzionalità, non è conseguenza della previsione costi-tuzionale della normazione contrattata, di cui agli articoli 7 e 8 della Carta; questo monopolio (o oligopolio) è conseguenza dei contenuti dell’accordo di revisione del concordato lateranense e delle intese che, invece di operare l’adeguamento costituzionale della disciplina di quei rapporti, confermarono ed ampliarono il metodo della tutela della libertà religiosa attraverso i diritti riflessi. In conseguenza, la ri-levazione effettiva dei bisogni della gente in materia di interessi reli-

6 V. Tozzi, Gli edifici di culto nel sistema giuridico italiano, Edisud, Salerno, 1990.7 Analoga previsione vi è nell’intesa con l’Unione delle Comunità Ebraiche (leg-

ge n. 101 del 1989), ma, stante la consistenza numerica di detta comunità, non sem-bra sussistere analogo rischio.

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giosi è avvenuta in maniera davvero marginale e insufficiente, sicché è ancora vigente la legge n. 1159 del 1929, c.d. “Sui culti ammessi nello Stato”, e molto delle garanzie ampie e generali degli articoli 19 e 20 della Costituzione rimane ancora oggi non attuato.

Alla luce dei macroscopici difetti che l’esperienza empirica ma-nifesta in tema di soddisfazione dei bisogni religiosi individuali e collettivi (ma non di quelli lobbistici), caratterizzati dalla vistosa mancanza di uguaglianza di trattamento e di considerazione di biso-gni non rispondenti alla visione delle grandi agenzie della religiosità collettiva, ci sembra che uno dei maggiori problemi emersi, sia in campo politico, sia più specificamente in materia di libertà religio-se, è costituito dalla difficoltà di operare il contemperamento fra le esigenze dei singoli (anche partecipi di aggregazioni sociali in cui promuovono la loro personalità) e le esigenze delle organizzazioni di queste collettività, che costituiscono entità autonome e portatrici di esigenze proprie, distinte, ancorché connesse, con quelle dei loro consociati. Problema che si intreccia coll’ambito dei rapporti degli uni e degli altri con le istituzioni pubbliche sollecitate alla soddi-sfazione di queste esigenze; quindi, con quello della rappresentanza degli interessi e del rapporto fra essi intercorrente.

5. In materia di religiosità umana si è ormai acquisita, almeno da parte di noi occidentali, la distinzione fra regole religiose, espressive degli interessi di parte e regole generali della convivenza sociale (na-zionale, nella tradizionale forma di Stato). Gli interessi di un grup-po religioso, poi, in quanto riguardanti una comunità, più o meno estesa, ma sempre parte della società complessivamente considerata, richiedono una rappresentanza, cioè un’entità capace di esprimere una loro sintesi nei rapporti con l’autorità politica e con le istituzioni, che è normalmente costituita in capo ad organi dell’organizzazione del gruppo.

Questi rappresentanti interpretano oggettivamente i bisogni dell’organizzazione di cui sono organi, ma non necessariamente quelli effettivi dei singoli loro seguaci o di collettività interne o in-feriori del gruppo stesso. Infatti, in ogni collettività, anche in quel-

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le religiose, le visioni generali, i valori, i principi, raramente sono vissuti ed interpretati in maniera unitaria; per lo più si manifestano distinzioni e talora addirittura contrasti. Fenomeno che riguarda i pubblici poteri quando intervengono a regolare la vita sociale o a promuovere (o limitare) le manifestazioni, i bisogni, dei fenomeni religiosi. Negli interventi pubblici di protezione delle esigenze di una parte, siano essi leggi, atti amministrativi, sostegni materiali o finan-ziari, si manifesta il problema del rapporto corrente fra gli interessi collettivi del gruppo e quelli individuali dei singoli appartenenti o dei sotto-gruppi che si manifestano all’interno del gruppo. Infatti, il gruppo cui i singoli si legano può sia enucleare una corretta sintesi dei bisogni manifestati dalla comunità dei suoi adepti, cui dovrebbe corrispondere un’omogeneità di intenti e bisogni; ovvero, può fissare regole, valori propri, enucleati dall’elite di suo governo, cui corri-spondono bisogni che possono anche divergere o non coincidere con quelli dei suoi seguaci 8.

Ne consegue che, da una parte l’organizzazione di interessi col-lettivi è costituzionalmente titolata a fungere da centro di imputazio-ne delle tutele, diritti, garanzie, che l’ordinamento assicura a tutte le componenti sociali; dall’altra, che l’attenzione o accoglimento e tutela delle esigenze manifestate da dette organizzazioni collettive di parte non può né deve mai essere vincolante nei confronti del sin-golo partecipe. In questo senso si potrebbe parlare di strumentalità della soddisfazione accordata dalle istituzioni civili alle esigenze dei gruppi organizzati di interessi religiosi; queste esigenze collettive (di parte) vengono tutelate in funzione degli interessi individuali che compongono quella collettività 9.

8 Uno dei parametri che si richiede alle istituzioni pubbliche di considerare è quello della flessibilità del rapporto di appartenenza del singolo alle organizzazioni di interessi collettivi in cui si svolge la sua personalità; per cui la naturale conver-genza dei bisogni e degli interessi degli individui nelle esigenze delle organizzazioni collettive, non è né rigidamente determinata, né aprioristicamente assumibile da par-te delle istituzioni pubbliche sollecitate.

9 Cfr. G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione, Plectica, Salerno, 2011, p. 76.

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Non sfugge che l’appartenenza ad una formazione sociale è espressione della libertà dell’individuo, che volontariamente condi-vide l’organizzazione e le regole del gruppo; fenomeno che funge da legittimazione delle regole interne che il gruppo si dà; ma proprio la volontarietà di questo rapporto di appartenenza relativizza, di fronte alle istituzioni civili, le regole interne che la formazione sociale si è data, non potendo le istituzioni pubbliche riconoscere una loro vin-colatività che conculchi l’innata libertà dei singoli (o delle minori comunità interne) di sottrarsi ad alcune di queste regole o del tutto al legame di appartenenza al gruppo stesso.

Ne consegue che l’autorità civile, quale garante del bene comune, può riconoscere quella rappresentanza del gruppo religioso espressa all’interno dell’organizzazione del gruppo stesso, ma non può isti-tuirla come rappresentanza legale, cioè come obbligatoriamente in-clusiva della volontà e dei desideri del singolo o dei gruppi minori interni. La rappresentanza degli interessi dei rispettivi fedeli da parte degli organi di ciascun gruppo religioso, nei rapporti con l’autorità statale, non può essere che una rappresentanza politica democrati-ca, cioè soggetta al rispetto della libertà di disaccordo del singolo o dei gruppi minori interni, giacché l’autorità statale è obbligata dai principi costituzionali a tutelare gli uni e gli altri interessi, che sono parimenti protetti.

L’obbligo di tutelare una confessione religiosa o una istituzione a carattere religioso di qualsiasi tipo, nasce, per disposizione costi-tuzionale, se, quando e nella misura in cui, queste abbiano in Italia una base sociale che ad esse fa riferimento; inoltre, tale tutela non può mai giungere a sancire la rappresentanza legale degli interessi dei rispettivi seguaci del gruppo, pena la conculcazione dei diritti religiosi di questi ultimi, quando non collimano con quelli dell’ente rappresentante. La solidità o flessibilità del rapporto di appartenenza dei singoli al gruppo è un fatto empirico di cui l’ordinamento non può non tenere conto. Perciò la rappresentanza degli interessi reli-giosi dei propri seguaci in capo agli organi dell’organizzazione del gruppo deve rimanere volontaria, cioè legata alla volontà effettiva dei seguaci stessi. Di fronte a tale problematica, la rappresentanza

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degli interessi diviene lo snodo principale che le istituzioni pubbliche sono chiamate a considerare.

Qui interviene il compito degli studiosi e della scienza.Si tratta cioè di approfondire i metodi che le istituzioni pubbliche

devono elaborare, gli strumenti che l’ordinamento giuridico deve predisporre, perché tutte le categorie di interessi richiamati abbiano uguale considerazione e tutela.

6. Questi problemi riguardano direttamente il compito degli studiosi. La scienza ha un’importante ruolo e forti responsabilità a fronte di questi problemi; ruolo da distinguere da quello delle istituzioni di governo, ma in diretta connessione con la politica che li deve gestire.

È compito degli studiosi l’analizzare le domande, i bisogni, i fe-nomeni che si producono nell’attuale contesto e proporre alla società in generale e specificamente a chi governa e legifera, i metodi, le risposte, le regole, utili e appropriate, che attuino la legalità costitu-zionale, avviando a soluzione i fenomeni rilevati.

Per svolgere questo compito non basta l’elevato livello qualitati-vo degli studi in questa materia, certamente presente in molti cultori della disciplina giuridica del fenomeno religioso, ma è necessario che gli studiosi di questo settore sviluppino realmente l’autonomia dai poteri che possono procurare loro vantaggi personali e coltivino il senso di comunità scientifica, lo stato d’animo di appartenenza ad un gruppo, anche molto variegato negli orientamenti di pensiero, ma che, proprio per il sentirsi gruppo e nel proporsi tale, sviluppi l’atten-zione ed il rispetto per le elaborazioni di tutti coloro che vi parteci-pano. La professione dell’intellettuale non consta nello scrivere e nel pensare secondo opportunità, convenienza, tornaconti di qualsiasi provenienza, ma nella rigorosa, approfondita, schietta elaborazione libera del pensiero e del confronto con il pensiero altrui, producendo idee che avranno anche valenza politica, ma che non noi, ma chi fa politica deve valutare per l’espletamento del suo distinto compito 10.

10 G. zaGreBelsky, Il Colle, le Procure e la Costituzione, ne “La Repubblica”, quotidiano del 23 agosto 2012, pp. 1 e 33, a proposito dell’attività intellettuale, af-

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Perciò, la nostra comunità deve svolgere anche una funzione di polizia al proprio interno, per limitare se non sanzionare i compor-tamenti sleali o di egemonia e dipendenza ideologica, che troppo spesso si manifestano. Infine, la comunità scientifica deve amplifi-care la comunicazione esterna dei risultati scientifici raggiunti, non affidando questo compito ai consulenti del potere, ma presentando, compatta e solidale, anche le diverse soluzioni che la pluralità di orientamenti ideali produce, in quanto espressioni di una competen-za, anche se non produce un pensiero unico. Solo così è ipotizzabile un’influenza culturale della scienza accademica sulle istituzioni, che susciti un’azione di governo più rispondente alle esigenze reali del momento presente 11.

ferma che essa ha una funzione «non legata al potere e al consenso, la cui esistenza è essenziale alla vita libera della polis. Sarebbe una deviazione, se l’attività intellet-tuale non tenesse fede a questa caratteristica,, anzi non ne facesse il suo vanto. Solo così c’è la sua utilità, la sua funzione civile. Chi ragiona diversamente, che idea ha del rapporto politica-cultura?».

11 Chi studia una data materia non può esimersi dal ragionare sulla società che di quegli studi è destinataria e dal valutare le esigenze, i bisogni che il contesto storico-sociale produce sui fenomeni oggetto del suo esame. Contemporaneamente, non mi sfugge la differenza dei compiti degli studiosi-docenti rispetto a quelli del potere politico, legislativo e amministrativo; infine, sono convinto della pari legittimità di tutte le opinioni. Tuttavia, ritengo che la nostra comunità nel suo insieme avrebbe potuto e può svolgere un ruolo più incisivo di quello avuto fino ad oggi, rispetto ai ritardi e alle omissioni nell’attuazione del dettato costituzionale in materia religio-sa. V. Tozzi, Le prospettive della dottrina e dello studio del regime giuridico della religione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica, dicembre 2011, www.statoechiese.it.

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Parte prima

Presentazione degli autori

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Diritto e religione (Plectica, Salerno, 2011). Per una rilettura del disegno costituzionale in tema di libertà religiose

di Marco Parisi

1. Introduzione - 2. Prospettiva di un nuovo metodo di analisi delle questioni relative alla dimensione sociale della religiosità - 3. Conclusioni

1. La realizzazione di questo volume costituisce un primo tentativo di proporre una descrizione, ai fini dell’insegnamento universitario, della regolamentazione giuridica civile del fenomeno religioso, con l’obiettivo di favorire il tendenziale superamento delle modalità clas-siche di rappresentazione del diritto ecclesiastico. Proprio l’utilizzo della denominazione con cui si è fatto riferimento, fino all’ultimo decennio, alla materia avente ad oggetto l’analisi degli aspetti nor-mativi relativi agli interessi religiosi ha costituito il primo motivo di riflessione degli autori. Si è avvertito, infatti, imbarazzo nel ricorso tradizionale ad una definizione troppo legata al periodo in cui lo stu-dio della disciplina sembrava limitarsi, sostanzialmente, all’analisi dei rapporti tra la Chiesa cattolica e lo Stato (nel loro vario articolarsi tra liberalismo, fascismo e prima fase repubblicana), residuando solo piccoli cenni alla condizione dei gruppi confessionali acattolici.

Partendo da tale sensazione di difficoltà, si è provato a considerare il fenomeno religioso così come esso tende a proporsi nella società contemporanea, caratterizzata dall’incedere del fenomeno della glo-balizzazione 1, dal moltiplicarsi della forme di partecipazione degli

1 Il fenomeno della globalizzazione, avente alla sua base la proposta di uniformi e comuni valori di riferimento e di azioni sinergiche per il governo delle odier-ne società (sempre più interconnesse ed interdipendenti tra loro), nella sua strut-tura morfologica di carattere “pluritentacolare” (interessante ogni aspetto concreto dell’esperienza umana), ha interessato, in modo specifico, la sfera del diritto. Le

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Stati nazionali alle organizzazioni sovra-nazionali 2, dall’avvio di pro-cessi interni riformistici di forte impronta regionalistica 3, dal manife-starsi di nuove esigenze legate al benessere della persona umana, dalla proliferazione di una vasta gamma di istanze ideali e spirituali, dall’u-so strumentale e violento della religione per finalità di terrorismo 4.

correnti globalizzanti hanno favorito l’affermazione delle tesi sostenitrici dell’uni-versalizzazione dei diritti umani, con la contestale tendenza all’elaborazione di un “diritto comune” a tutte le nazioni, mirante a salvaguardare la dignità umana e la re-alizzazione delle istanze fondamentali di libertà della persona umana in quanto tale. Cfr. P. lillo, Globalizzazione del diritto e fenomeno religioso. Saggi di riflessione, Giappichelli, Torino, 2002, pp. 161 ss.

2 Sia consentito il rinvio a M. Parisi, Cittadinanza europea, organizzazioni re-ligiose e processi di integrazione giuridico-politica: realizzazioni e prospettive, in “Dir. fam. pers.”, 2010, 2, pp. 931 ss.

3 Sembrano esservi pochi dubbi rispetto alla realtà di un avviato processo di rifor-ma verso un “regionalismo forte”, tale da determinare un quadro in cui, restando fer-mo il carattere unitario dello Stato, i poteri regionali siano ritenuti essere (ed operino come) non più mere potestà decentrate dello Stato stesso, ma come poteri latamente originari, che ottengono la loro legittimazione (attraverso il circuito elettorale) dalle comunità territoriali, del cui benessere sono responsabili. Alla base del nuovo assetto dei poteri, regionali (ma anche locali, in genere) e statali, si rinviene il principio di sussidiarietà, che, nel riconoscere l’assunzione delle decisioni per la soddisfazione dei beni comuni in capo alle istituzioni più prossime ai consociati, propone una pro-spettiva di riaffermazione della centralità della persona umana, favorendone il pieno sviluppo nelle varie comunità territoriali di appartenenza. Cfr. r. BoTTa, «Regionali-smo forte» e tutela del sentimento religioso dei cittadini, in Studi in onore di Gaetano Catalano, tomo I, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1998, pp. 282-4.

4 Dopo l’11 settembre, i controlli e le restrizioni introdotti per la lotta contro il terrorismo hanno determinato concreti e notevoli limitazioni al godimento della libertà religiosa, sia a livello individuale che associativo. Per il timore che la pace e la sicurezza, interne ai singoli Stati ma anche nei rapporti internazionali, venisse-ro compromesse, si è determinata una significativa ingerenza nella vita interna dei gruppi religiosi e una variabile limitazione al diritto di manifestare e praticare libe-ramente le religioni. Il che ha causato, parallelamente, un ripensamento della laicità dello Stato e della stessa libertà religiosa. Per approfondimenti cfr. G. daMMacco, Le politiche delle religioni e le esigenze della sicurezza, in Scritti in onore di Gio-vanni Barberini, a cura di a. TalaManca e M. VenTura, Giappichelli, Torino, 2009, pp. 251 ss.; s. ferrari, Libertà religiosa e sicurezza nazionale in Europa dopo l’11 settembre, in “Quad. dir. pol. eccl.”, 2005, 1, pp. 161 ss.

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In base alla convinzione che in Europa, così come in Italia, siano in atto fenomeni significativi di trasformazione della realtà sociale, tali da incidere anche sul panorama religioso tradizionale, si è riflet-tuto sulla necessità di un eventuale adeguamento delle forme giuridi-che di regolamentazione della vita comune e di una rappresentazione dei fondamenti della disciplina delle libertà religiose più in sintonia con le dinamiche sociali ed istituzionali contemporanee. Soprattut-to laddove risulti verosimile che un cambiamento innovatore e una autentica modernizzazione possano concretarsi solo nel momento in cui la disciplina giuridica della convivenza sociale (e, quindi, anche del fenomeno religioso) si orienti verso una reale valorizzazione del-la libertà, dell’autonomia, del pluralismo, «con uno Stato che svolga la funzione di promotore e di garante di una società civile in cui le persone e tutti i corpi intermedi possano esplicare in piena libertà l’esercizio dei diritti» 5.

2. Si è notato come la complessità odierna della fenomenologia so-ciale religiosa sia tale da indurre ad una riconsiderazione della stessa architettura istituzionale del Paese 6, affinché si possa determinare (attraverso l’adozione di nuove modalità di organizzazione degli

5 Così G.B. Varnier, Religioni, istituzioni e diritti: dall’identità nazionale alla società multiculturale, in Immigrazione e soluzioni legislative in Italia e Spagna. Istanze autonomistiche, società multiculturali, diritti civili e di cittadinanza, a cura di V. Tozzi, M. Parisi, Arti Grafiche La Regione, Campobasso, 2007, p. 265.

6 Sotto questo punto di vista, l’attuale dibattito politico e dottrinale appare far riferimento a due diverse alternative: da un lato, operare una riforma organica della Costituzione che, pur non mutando nella sostanza le linee fondamentali del sistema, adegui, in concreto, i poteri istituzionali alle mutate esigenze della società naziona-le; dall’altro, operare una innovazione radicale che possa modificare in profondità il sistema dello Stato, riformandone la sua stessa fisionomia. Sostanzialmente, il processo riformistico potrà riguardare soltanto il profilo della re-distribuzione della sovranità statale e della ri-articolazione della connessa funzione di indirizzo politico fra i diversi organi costituzionali, oppure atterrà al rapporto fra le istituzioni e la so-cietà governata, fra l’ordinamento generale e i consociati. Cfr. P. lillo, Prospettive di riforma della legislazione ecclesiastica italiana negli anni ’90, in “Riv. trim. dir. pubb.”, 1997, 1, pp. 451-2.

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apparati statali e nuovi strumenti di soddisfacimento delle esigen-ze socialmente rilevate) l’abbandono degli schemi pregressi (ancora largamente presenti nella prassi politica e nell’attitudine dottrinale), secondo cui le aspettative di “sacro” della persona umana ottengono rilievo e tutela da parte dei pubblici poteri (organi legislativi, istituzio-ni governative, amministrazione pubblica in genere) soprattutto per mezzo della mediazione delle “confessioni religiose”, ovvero delle strutture apicali di organizzazione degli interessi religiosi collettivi.

Questa modalità tradizionale di considerazione dei bisogni spi-rituali dei consociati appare essere censurabile, soprattutto nella misura in cui si presenta tale da determinare una collocazione delle esigenze individuali in posizione recessiva, determinando la possibi-le reviviscenza della logica dei “diritti riflessi”, per cui determinate garanzie di libertà dei singoli godrebbero di una mera tutela indiretta e derivante dalla tutela già accordata ai gruppi religiosi socialmente consolidati (ritenuti essere mediatori delle necessità dei loro adepti) 7. A lungo si sono rappresentate come forme di soddisfazione della li-bertà religiosa dei consociati, sia a livello individuale che collettivo,

7 Per buona parte del secolo scorso, nel nostro Paese, la libertà religiosa del citta-dino ha ricevuto tutela in forma indiretta, attraverso lo strumento dell’appartenenza confessionale, in relazione alla forza contrattuale della religione di riferimento. Il ri-lievo sociale della partecipazione formale ad un gruppo confessionale si presentava di importanza tale da determinare la conseguenza negativa per cui il cittadino non appartenente ad una confessione, e soprattutto ad una confessione riconosciuta, non godeva, nella stessa misura degli appartenenti ad un culto “stabilito”, della pienezza dei diritti della personalità relativi alla dimensione spirituale. L’assorbimento dei diritti della persona nei diritti del fedele costituiva il portato della rivendicazione di autonomia e di indipendenza della Chiesa rispetto allo Stato liberale, ma finiva per costituire la condizione necessaria per il godimento effettivo delle garanzie legate all’esperienza religiosa dei consociati. Questa impostazione, purtroppo, ha ottenuto per decenni una significativa credibilità nella speculazione dottrinale, grazie alla coincidenza del dato sociologico della immedesimazione dei credenti nel contenuto dogmatico e nella struttura di ben individuate organizzazioni confessionali, bene-ficiarie di rapporti stabili con il potere statale (ovviamente, la Chiesa cattolica, ma anche le comunità ebraiche e le Chiese di matrice protestantica). Per ulteriori riferi-menti sul punto cfr. n. colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale, il Mulino, Bologna, 2006, pp. 105-10.

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il regime di favore e l’insieme dei benefici che le normative (uni-laterali statali e bilateralmente convenute) hanno riconosciuto alle organizzazioni confessionali dominanti.

Gli interventi delle pubbliche potestà (sia di carattere legislativo generale che di natura più specificamente finanziaria) sono apparsi solo di rado basati sul concreto riscontro della esistenza di interessi diffusi, ma sono stati, approssimativamente, predisposti a vantaggio di ben individuati gruppi religiosi, che si sono dimostrati in grado di esercitare una decisa influenza sul potere politico. Tali organizza-zioni, inoltre, sono state, dal punto di vista istituzionale, considerate come rappresentanze legittime degli interessi ritenuti meritevoli di soddisfacimento da parte dei pubblici poteri.

Come è noto, le istanze in materia di bisogni spirituali rivolte alle istituzioni civili presentano la caratteristica di provenire dalle orga-nizzazioni di fede, o anche dalle singole persone. Generalmente, que-ste domande hanno un contenuto convergente negli aspetti di merito, ma talora possono anche divergere nella individuazione di specifiche esigenze avanzate dai singoli in conflitto con il gruppo di apparte-nenza (o viceversa). Può essere legittimo ritenere che i gruppi fondati su un insieme preciso di valori possano richiedere dai loro aderenti il rispetto delle regole poste (e dai gruppi stessi fatte valere), ma è fondamentale porre in evidenza che i singoli aderiscono alle orga-nizzazioni fideistiche e alle loro norme in forma flessibile e relativa, reclamando dai pubblici poteri la libertà di professare la propria fede e di vivere la dimensione partecipativa alla vita dei gruppi religiosi con modalità personalizzate, liberi di cambiare appartenenza confes-sionale, credenza ed opinione (il c.d. “ius poenitendi”) 8. Spetta ai

8 Va ricordato che in virtù della centralità ordinamentale del principio di laicità dello Stato, si promuove il riconoscimento della diversità ideale dei gruppi spirituali, senza che possa realizzarsi una negazione dei diritti individuali dei loro adepti. La laicità, infatti, potenzia il ruolo dei diritti umani, creando una cittadinanza condivi-sa e stimolando sentimenti di inclusione nel circuito comunitario della convivenza giuridicamente organizzata. Ovvero, i diritti della persona umana «garantiscono la libertà della fede, ma anche la possibilità di cambiarla, di ricredersi, di agire libe-ramente […]. Le comunità religiose non possono diventare comunità nelle quali è

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pubblici poteri l’impegno di assicurare ad ognuno, ai singoli come ai gruppi religiosi, la massima soddisfazione possibile delle proprie esi-genze di spiritualità, sulla base del migliore equilibrio conseguibile tra le diverse aspettative in campo, atteso che sia le une che le altre sono oggetto di apprezzamento costituzionale 9.

L’auspicata compatibilità tra la varietà delle esigenze legate alla dimensione della trascendenza non può realizzarsi nell’ipotesi in cui le organizzazioni confessionali rivendichino la rappresentanza esclu-siva degli interessi dei loro fedeli nei rapporti con i pubblici poteri, in quanto, in tale ipotesi, si rivelerà preponderante la loro visione a dan-no delle pur legittime argomentazioni dei singoli. Ma la regolamen-tazione costituzionale del fenomeno religioso, dovendo promuovere la realizzazione di una libertà fondamentale della persona umana,

possibile entrare ma dalle quali non si esce più. La mobilità religiosa resta un terreno di garanzia per una società laica e accogliente, così come i principi di eguaglianza tra uomo e donna, di libera determinazione individuale, che tanto incidono sulla conce-zione della famiglia, non possono essere messi tra parentesi di fronte all’appartenen-za etnico-religiosa […]. Quando si soffrono le disuguaglianze, le sopraffazioni, le coartazioni della coscienza, la legge sta lì a garantire i diritti di ciascuno, per favorire ogni salto evolutivo della persona, o del gruppo di appartenenza». Così c. cardia, Laicità dello Stato, appartenenze religiose e ordinamento giuridico: prospettiva se-colare, in Scritti in onore di Giovanni Barberini cit., p. 129.

9 L’autorità civile può operare per favorire la realizzazione delle istanze sociali spiritualmente qualificate, in nome della valorizzazione della persona umana, ove tali richieste non si pongano in contrasto con la legalità costituzionale; oppure i pubblici poteri possono interdire o circoscrivere queste esigenze laddove esse siano tali da pregiudicare la convivenza civile. Del resto, nella società postsecolare la fede privata è ormai scissa dalla fede pubblica, dalla dimensione istituzionale dell’appar-tenenza religiosa; la fede sembra essere diventata “porosa”, e l’individualizzazione delle credenze religiose ha generato il credente autonomo, che crede nelle verità e nei principi (veicolati da questa o da quella organizzazione confessionale) più gra-diti, in una logica di “religione fai-da-te”. Queste trasformazioni della dimensione umana relativa al contatto con il trascendente determinano l’esigenza di difendere il singolo dal gruppo, affinché i pubblici poteri possano e debbano intervenire in difesa dello spontaneismo spirituale e in contrasto dei pregiudizi sociali o delle pre-varicazioni indotti dalle organizzazioni ecclesiastiche. Si veda M. ainis, Laicità e confessioni religiose, in Annuario 2007. Problemi pratici della laicità agli inizi del secolo XXI, Cedam, Padova, 2008, pp. 23-5.

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quale risulta essere quella di religione, va interpretata nella prospet-tiva della soddisfazione dei bisogni spirituali dei singoli consociati. Ne deriva che la considerazione prestata alle organizzazioni espressi-ve della religiosità organizzata (e ai principi da esse veicolati) va in-tesa, soprattutto, strumentalmente al perseguimento di questo obiet-tivo. Così, pur essendo vero che il rilievo sociale di un determinato gruppo religioso derivi dalla consistenza in termini di adesioni di cui esso è dotato, senza la quale verrebbe meno l’esigenza di conferire tutele giuridiche ad hoc, è altrettanto chiaro che la mera ricorrenza di dati di partecipazione numerica (più o meno formali, e sempre da verificare nella loro effettiva entità) non può ritenersi sufficiente per conferire alle organizzazioni religiose la rappresentanza istituzionale degli interessi della loro base sociale 10.

Ora, lo studio e l’insegnamento delle nostre materie, soprattutto nella manualistica, hanno privilegiato perlopiù una rappresentazione della tutela costituzionale del diritto di professione della fede, sia a livello individuale che collettivo, come una sezione distinta e resi-duale rispetto al complesso di disposizioni finalizzato alla protezione delle confessioni religiose. Si è preferito l’approccio teso a privile-giare le organizzazioni confessionali come uniche interlocutrici di riferimento per le pubbliche potestà, individuando in esse quasi un titolo esclusivo nel garantire qualsiasi forma di religiosità presente nella realtà sociale. Mediante la valorizzazione, in forma esclusiva, dei rapporti fra lo Stato e le organizzazioni confessionali, a fronte della perdurante mancanza di una legge generale sulle libertà religio-se, al fine di dare attuazione alle garanzie contenute negli artt. 19 e 20 della Carta, si è consolidato il modello di relazioni sociali religiose basato sulla delega alla Chiesa e alle confessioni (soprattutto se con intesa) 11 della rappresentanza degli interessi religiosi dei consociati.

10 V. Tozzi, Le prospettive della dottrina e dello studio del regime giuridico civile della religione, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, dicembre 2011, p. 6.

11 Ricordiamo che il conferimento da parte governativa dell’accesso dei gruppi religiosi alla stipula di una intesa con lo Stato non è oggetto di una specifica norma di legge (fatta eccezione per la generale ed astratta previsione contenuta nel comma III dell’art. 8 Cost.). In mancanza di una disciplina normativa precisa, l’ammissione alla

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Con ciò, anche nella rappresentazione didattica e nella speculazione scientifica, si è trascurata l’evidenziazione dell’affermazione civile delle libertà religiose dei singoli e dei gruppi, favorendo una logica di subordinazione delle facoltà individuali di azione in ambito reli-

trattativa per la conclusione di un accordo fra le rappresentanze dei gruppi religiosi e gli organi governativi non risponde a dettagliate indicazioni di legge, né è conseguen-te ad una atto formale dello Stato con cui si è conferita la qualifica di “confessione re-ligiosa” al soggetto religioso contraente. Così, l’accesso alla trattativa e la successiva (eventuale) stipula di una intesa costituiscono l’esito di meri atti di discrezionalità po-litica del Governo, non soggetti al rispetto del principio costituzionale di uguaglianza, ponendo significativi interrogativi in termini di correttezza costituzionale.

Ricordiamo che con una recente pronuncia, la sentenza 18 novembre 2011 n. 6083, la quarta Sezione del Consiglio di Stato è intervenuta nella delicata materia dei rapporti tra Stato e confessioni religiose diverse dalla cattolica. Il provvedimento ha tratto origine da una vicenda che ha avuto per protagonista l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR), la quale, in diversi momenti, aveva ripetu-tamente avanzato richiesta al Governo di avviare trattative finalizzate alla stipula-zione di un’intesa. Uno degli ultimi (in ordine di tempo) provvedimenti di diniego veniva impugnato dinanzi al T.A.R. del Lazio, che con sentenza n. 12539/2008, dichiarava il proprio difetto di giurisdizione, ravvisando la natura di atto politico nella determinazione del Governo riguardo alla richiesta di trattative per eventuale intesa. Avverso detta decisione l’UAAR ha proposto ricorso dinanzi al Consiglio di Stato contestando, in buona sostanza, la riconducibilità del diniego governativo ad avviare un negoziato fra gli atti politici, per i quali è escluso il sindacato da parte del giudice amministrativo. I giudici di Palazzo Spada, quindi, affrontano la questione escludendo la natura politica delle scelte del Governo sull’avvio o meno di trattative, ponendo l’accento sull’ampia discrezionalità sottostante a tali decisioni. Da questa prospettiva discendono due conseguenze di rilievo: 1) innanzitutto, la sindacabilità da parte del giudice dell’atto amministrativo con il quale il Governo formalizza le proprie scelte sull’avvio dei negoziati; il che determina la giustiziabilità secundum jus di un interesse soggettivo, costituzionalmente qualificato, del gruppo religioso istante; 2) l’obbligatorietà per lo Stato (imposta dal dovere di assicurare in concreto l’eguale libertà) di avviare i negoziati con qualsivoglia realtà confessionale ne faccia domanda, cui corrisponde, il diritto (ma non l’obbligo) per i gruppi confessionali (in base ad una libera scelta affidata alla loro indipendenza) di richiedere l’apertura del tavolo di trattativa. Per un esame di tale pronuncia cfr. J. Pasquali cerioli, Il diritto all’avvio delle trattative per la stipulazione delle intese ex art. 8, 3° comma, Cost. (brevi note a Cons. Stato, sez. IV, sent. 18 novembre 2011, n. 6083), in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, marzo 2012, pp. 8 e ss.

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gioso rispetto al potere delle organizzazioni spirituali riconosciute dai pubblici poteri (ovvero le confessioni religiose, specialmente per alcune assistite da particolari privilegi) 12.

Nella generalità degli strumenti didattici in circolazione, successi-vamente alla descrizione in ordine cronologico delle fonti costituzio-nali in materia di libertà religiosa (operata facendo riferimento ad una, ad oggi superata, primazia gerarchica del regime riservato ai gruppi confessionali rispetto a quello disegnato per l’esercizio del diritto di professione di fede), la trattazione di dettaglio della disciplina viene a realizzarsi, più che altro, nelle forme di un’analisi del Concordato e delle Intese (con riferimenti ricorrenti alle loro norme di attuazione). Anche la legislazione unilaterale statale in materia di interessi reli-giosi viene rappresentata come complementare rispetto all’insieme della legislazione bilateralmente convenuta, alla quale si fa riferimen-to come base di struttura della disciplina. Così, le peculiarità delle esigenze spirituali socialmente rilevabili sono considerate sempre in riferimento alle norme contrattate con le confessioni religiose, elu-dendo l’esigenza di una loro associazione rispetto all’assetto com-plessivo delle garanzie costituzionali di libertà della persona umana e allo schema di “società aperta” proposto dalla Carta del 1948.

Si tratta, come è agevole intuire, di una modalità di rappresenta-zione delle basi della disciplina di marca conservatrice (derivante dal

12 Secondo G. casuscelli, Il pluralismo in materia religiosa nell’attuazione della Costituzione ad opera del legislatore repubblicano, in Diritto e religione in Italia. Rapporto nazionale sulla salvaguardia della libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, a cura di s. doMianello, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 35-6, il diritto ecclesiastico repubblicano si è articolato, per lungo tempo, accentuando il profilo soggettivo della locuzione a discapito di quello oggettivo, per aver conferito maggior rilievo all’aggettivo “ecclesiastico” a detrimento del sostan-tivo “diritto”. Ovvero, nella condivisibile prospettiva disegnata dall’Autore, il diritto ecclesiastico «si è venuto configurando come un insieme di norme contrassegnate dal comune denominatore della funzione di garanzia positiva e promozione delle aspettative di alcune confessioni – privilegiate perché […] ammesse all’uso degli strumenti pattizi ed alla negoziazione in forza di una discrezionalità di natura politi-ca – aspettative sempre più segnate dall’ampiezza e dall’intensità degli strumenti ad esse propri, specie dopo l’affermazione del principio costituzionale di sussidiarietà»

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conformismo filo-curiale di buona parte della dottrina ecclesiastici-stica operante nei primi venti anni successivi all’approvazione della Carta costituzionale, meno sensibile ad avvertire il cambiamento del-la forma di Stato). Invece, il nuovo modello di relazioni tra i poteri civili e i consociati, promosso dal vigente assetto costituzionale, po-stula una diversa rappresentazione della disciplina (e delle libertà che la contraddistinguono), per cui la protezione dei diritti della persona umana deve risultare prioritaria e godere di eguale dignità rispetto alla tutela delle forme organizzate dei bisogni religiosi. Le questioni istituzionali relative ai gruppi spirituali (quali la libertà organizzativa interna, il riconoscimento delle loro strutture, l’articolazione dei rap-porti tra le gerarchie e il personale ecclesiastico) andrebbero analiz-zate tenendo conto del quadro generale dei rapporti sociali derivante dalla novità rappresentata dai principi costituzionali di libertà.

In questa prospettiva, ben può comprendersi come la Costituzio-ne repubblicana proponga un progetto di disciplina del fenomeno religioso avente il suo perno nella libertà di professione della fede religiosa 13, sia in forma individuale che associata (art. 19), accompa-gnata dal riferimento ad espliciti divieti a carico dei pubblici poteri a tutela delle espressioni organizzative della religiosità 14 (art. 20). La libertà religiosa, infatti, è parte integrante del novero dei diritti fon-damentali, di cui fa menzione l’art. 2 della Carta, e in quanto tale si pone in stretta connessione con il principio personalista che informa

13 Nel suo contenuto essenziale, il diritto di libertà religiosa configura, per ogni persona, la possibilità di estrinsecare il proprio patrimonio spirituale in una pluralità di dimensioni: dal soddisfacimento delle esigenze del proprio spirito (manifestazione della fede e compimento dei riti) alla diffusione delle proprie idee (propaganda e di-scussione), alla possibilità di creare gruppi e partecipare alla loro vita (associazione).

14 Sembra corretto classificare l’art. 20 della Carta come una disposizione di complemento rispetto all’art. 19, in quanto volta a garantire tutte le forme associate del fenomeno religioso considerate nel loro momento organizzativo, tutelandole da qualsiasi discriminazione che possa derivare dai loro rapporti con le istituzioni civili (che sono, pertanto, fatte destinatarie delle cautele e del divieto di trattamento in peius previsti dalla norma). Cfr. V. Tozzi, Fasi e mezzi per l’attuazione del disegno costituzionale di disciplina giuridica del fenomeno religioso, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, maggio 2007, p. 9.

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di sé l’ordinamento giuridico complessivamente considerato 15. Que-sto disegno viene integrato e completato dalle indicazioni contenute negli artt. 8, comma I, e 7 ed 8, commi II e III, nella misura in cui la regolamentazione dei rapporti fra lo Stato e le organizzazioni con-fessionali venga interpretata in chiave di garanzia per la libertà delle istituzioni religiose ma, contestualmente, anche, in via funzionale ed indiretta, per il soddisfacimento delle esigenze spirituali dei cives fideles ad esse aderenti. Ne deriva che i soggetti collettivi religiosi, siano essi sovrani (come è ritenuta essere la Chiesa cattolica) o dotati di autonomia originaria (come sono ritenute essere le organizzazioni confessionali acattoliche), sono presi in considerazione dai pubblici poteri (anche a mezzo dello strumento della contrattazione bilaterale) solo ove realmente rappresentino il luogo o il mezzo di soddisfazione dei bisogni (effettivi e manifesti) della persona umana 16.

La prospettiva di descrizione della materia, così come dei suoi istituti tradizionali (matrimonio religioso produttivo di effetti civili, rapporti finanziari tra pubblici poteri e gruppi confessionali, perso-nalità giuridica degli enti religiosi, insegnamento scolastico della

15 La norma contenuta nell’art. 2 Cost. indica una concezione dei rapporti tra lo Stato e le formazioni sociali radicalmente alternativa rispetto a quella dell’epoca statutaria e del ventennio della dittatura, in quanto impegna le istituzioni e la società civile ad un’azione diretta al pieno sviluppo della persona umana, anche nell’am-bito dei gruppi operanti per il perseguimento di qualsivoglia interesse particolare. Si veda s. lariccia, Battaglie di libertà. Democrazia e diritti civili in Italia (1943-2011), Carocci, Roma, 2011, pp. 14-5.

16 Il modello delle relazioni sociali disegnato dalla Carta costituzionale vigente articola, come si è visto, sulla centralità della persona umana ogni relazione tra lo Stato e le formazioni sociali di più diverso segno. Così, l’interesse pubblico per la soddisfazione dei bisogni spirituali (individuali o di gruppo) dei consociati non do-vrebbe mai costituire l’esito di un privilegio accordato all’uno o all’altro gruppo, in ragione del fatto che l’esercizio delle pubbliche funzioni costituisce un servizio alla comunità. La pari dignità delle opzioni etiche, religiose e morali, di cui tutte le con-fessioni religiose sono espressive, va ritenuta essere ineludibile nell’eventuale ado-zione di discipline contrattate tra lo Stato e i gruppi religiosi istituzionalizzati. Cfr. V. Tozzi, Religiosità umana, fenomeno religioso collettivo e Costituzione italiana, in Europa e Islam. Ridiscutere i fondamenti della disciplina delle libertà religiose, a cura di V. Tozzi, G. Macrì, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009, pp. 18-9.

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religione) e delle questioni eticamente sensibili, nell’ottica della valorizzazione dei bisogni spirituali dei consociati (e non solo, ed esclusivamente, delle esigenze istituzionali delle organizzazioni confessionali) e di crescita della persona umana, oltre a risultare più in linea con il vigente quadro costituzionale, appare essere la mo-dalità più in sintonia con la naturale evoluzione della regolamenta-zione giuridica statale del fenomeno religioso e degli studi relativi a queste tematiche.

3. Volendo sintetizzare l’approccio metodologico individuato per la realizzazione del nostro volume Diritto e religione, si è partiti dalla constatazione secondo cui la tradizionale attenzione, manifestata dal vigente testo costituzionale, rispetto alla specifica dimensione delle confessioni religiose (così come è testimoniato dall’esistenza di un sotto-sistema dei rapporti fra lo Stato e le organizzazioni confessio-nali, di cui agli artt. 7 e 8 della Carta) debba essere considerata l’esito di una forzatura interpretativa. Infatti, esulando da una esegesi più in linea con l’impianto liberale e democratico della Costituzione, si è a lungo indugiato in una valorizzazione delle norme relative ai grup-pi confessionali invece di prestare adeguata considerazione al più egualitario e moderno sistema di disposizioni costituzionali finaliz-zate alla promozione della religiosità come bene protetto, in quanto diritto inviolabile della persona umana.

Sarebbe più opportuno promuovere la configurazione delle disci-pline ecclesiasticistiche come “diritto pubblico delle religioni”, pro-muovendo «l’idea di un gruppo di norme e di istituti giuridici volti a disciplinare direttamente interessi specificamente attinenti alla di-mensione religiosa, variamente atteggiata della personalità, e osser-vati dal punto di vista dei diritti (non dei culti, ma) della persona» 17. Andrebbe recuperata la dimensione del diritto ecclesiastico come legislatio libertatis, «posta a garanzia degli interessi della persona

17 Così n. colaianni, Diversità religiose e mutamenti sociali, in Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano, a cura di G.B. Varnier, Rubbettino, Soveria Man-nelli, 2004, p. 149.

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in materia di fede e di convinzione, sia nel nucleo forte e primario degli interessi ascrivibili al novero dei diritti inviolabili, non soggetti ad alcun bilanciamento, sia di quelli che costituiscono l’oggetto di tutela attraverso lo schermo delle situazioni giuridiche soggettive la cui garanzia si confronta e si misura con la tutela di altri interessi e di altri diritti pari ordinati» 18.

In questa logica, troverebbe spazio una descrizione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose come mero ambito specifico necessario alla regolazione di aspetti peculiari di coordinamento fra le strutture interne dei gruppi spirituali dotati di una forte ricono-scibilità giuridica esterna (quali, per l’appunto, risultano essere le organizzazioni confessionali) e le istituzioni pubbliche.

La possibilità riconosciuta ai soggetti religiosi di accedere alla instaurazione di rapporti con lo Stato, al fine di determinare consen-sualmente la disciplina giuridica delle materie di comune interesse (le c.d. “res mixtae”, intese come materie aventi uno specifico refe-rente confessionale, ma ricadenti nella sfera di competenza statuale) e l’appagamento di peculiari istanze identitarie, va prospettata come finalizzata alla tutela e alla valorizzazione delle tipicità e della iden-tità propria delle confessioni religiose di volta in volta interessate. La speciale tutela garantita alle confessioni religiose, a mezzo del comma II dell’art. 7 e del comma III dell’art. 8 della Carta, va rite-nuta attivabile solo in presenza della scelta statale di soddisfare le specifiche esigenze delle grandi organizzazioni collettive a carattere religioso 19. Ciò ove le organizzazioni confessionali siano caratteriz-

18 Così G. casuscelli, Diritto ecclesiastico ed attuazione costituzionale tra de-formazione e proliferazione delle fonti, in Il riformismo legislativo in diritto eccle-siastico e canonico, a cura di M. Tedeschi, Pellegrini, Cosenza, 2011, p. 237.

19 Peraltro, sul piano delle fonti di produzione normativa, sembra intensificarsi il ricorso a fonti di produzione unilaterale anche per far fronte alle specifiche esi-genze delle organizzazioni confessionali. La tutela dei diritti e degli interessi delle confessioni religiose non sembra passare più, in modo esclusivo, attraverso i soli meccanismi della contrattattazione bilaterale, ma sta iniziando a trovare risposte soddisfacenti anche nelle normative di diritto comune adottate in settori interessanti l’azione sociale delle Chiese (si pensi, ad esempio, agli interventi degli enti religiosi

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zate da un significativo radicamento sociale e manifestino esigenze così singolari, da rendere utile un collegamento istituzionale al fine di garantire la migliore realizzazione della loro libertà, nei limiti di-segnati dalla legalità costituzionale 20.

I patti bilaterali hanno la finalità di specificare e qualificare deter-minati spazi di libertà religiosa collettiva costituzionalmente ricono-sciuti alle istituzioni religiose 21, in una prospettiva di salvaguardia per la distinzione e l’estraneità della sfera pubblica rispetto a quella degli ordinamenti confessionali. Il valore dell’identità confessionale, oggetto di riconoscimento e tutela nella legislazione bilateralmente convenuta, va equilibrato con i valori qualificanti l’identità costitu-zionale dello Stato, sottolineando come la normativa pattizia non possa essere ritenuta sottratta al rispetto dei principi fondamentali della Carta e del carattere laico pluralista della organizzazione statale complessivamente considerata 22. Queste relazioni, quindi, andrebbe-

in ambiti di interesse generale). Cfr. P. floris, Le nuove stagioni del diritto eccle-siastico. La dinamica attuale delle fonti di disciplina negli interventi della Corte costituzionale e del legislatore, in Studi economico-giuridici. In memoria di Lino Salis, vol. LVIII, Giappichelli, Torino, 2000, pp. 628-9.

20 Cfr. V. Tozzi, C’è una politica ecclesiastica dei governi. E la dottrina?, in Religione, cultura e diritto tra globale e locale, a cura di P. Picozza, G. riVeTTi, Giuffré, Milano, 2007, pp. 152-3.

21 In questo senso va ricordato che le confessioni religiose sono considerate dall’ordinamento italiano, nel quadro del sistema pluralistico-istituzionale, come corpi sociali afferenti alla fitta rete di relazioni caratterizzanti l’esperienza giuridica dello Stato-comunità. La nostra Costituzione, «nel riconoscere l’importanza della presenza confessionale all’interno della collettività nazionale, tende a valorizzare la peculiare funzione “pubblica” svolta dalle confessioni religiose e il loro significativo ruolo propulsivo nel quadro delle dinamiche sociali». Infatti, «le comunità religiose, accanto e in modo complementare rispetto alle altre istituzioni sociali – e in ragione della particolare funzione formativa specificamente esercitata – sono ritenute con-correre in modo qualitativo alla promozione della persona umana e all’elevazione morale e civile dell’intera società nazionale». Così P. lillo, La libertà religiosa isti-tuzionale nel sistema costituzionale, in Aequitas sive Deus. Studi in onore di Rinaldo Bertolino, vol. II, Giappichelli, Torino, 2011, p. 878.

22 Va rilevato come, nell’attuazione concreta della regola della bilateralità, a fronte della legittima necessità di determinare, da un lato, l’adeguamento della di-

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ro prospettate nella dimensione del riconoscimento dell’autonomia reciproca tra soggetti confessionali e potestà pubbliche, senza mai preludere, tuttavia, ad inaccettabili ipotesi di condizionamenti sulla libertà di scelte dei cives fideles.

Le discriminazioni verso le forme di religiosità diverse da quelle che si concretano attraverso la mediazione delle “agenzie confessio-nali”, così come verso i diritti religiosi individuali e collettivi dei soggetti non definibili come (e non parte di una) confessione religio-sa, sono da ritenersi non più tollerabili, stante l’insieme delle garan-zie di libertà prospettato dalla vigente disciplina costituzionale della religione 23. Al contrario, come già accennato per incidens, la com-plessiva regolamentazione giuridica del fenomeno religioso dovreb-be essere arricchita dalla adozione di una legge generale sulle libertà religiose, unilateralmente emanata dal legislatore statale, tale da pre-vedere l’accessibilità per tutti i soggetti religiosi delle garanzie nor-

sciplina concordataria rispetto al mutato assetto democratico dello Stato e, dall’altro, di consentire anche ai gruppi confessionali di minoranza l’accesso allo strumento pattizio, siano state rilevate diverse criticità. Infatti, trascurando l’obiettivo specifi-co della regolazione delle res mixtae e della soddisfazione delle peculiari esigenze delle varie realtà confessionali, si è avuta la produzione di un complesso normativo caratterizzato da una vasta gamma di concessioni particolaristiche, e in quanto tale originante dubbi di compatibilità rispetto al principio di laicità dello Stato. La nor-mativa pattizia, prodotta dal 1984 ad oggi, ha assunto, perlopiù, le fattezze di una le-gislazione che si è caratterizzata per una generosa elargizione di benefici e vantaggi (di natura legale, fiscale e finanziaria) in favore delle organizzazioni confessionali, conferiti anche a prescindere (in alcune ipotesi) dall’effettivo riscontro di una esi-genza concreta dei gruppi beneficiari. Ovvero, si è registrato un utilizzo distorto ed esasperato dello strumento pattizio, che è stato piegato alla definizione di deroghe particolari al diritto comune, di dubbia coerenza rispetto alle esigenze di unitarietà del nostro ordinamento giuridico. Cfr. M. Parisi, Promozione della persona umana e pluralismo partecipativo: riflessioni sulla legislazione negoziata con le Confessioni religiose nella strategia costituzionale di integrazione delle differenze, in Autono-mia, decentramento e sussidiarietà: i rapporti tra pubblici poteri e gruppi religiosi nella nuova organizzazione statale, a cura di M. Parisi, ESI, Napoli, 2003, pp. 26-8.

23 V. Tozzi, Rilievo delle norme confessionali nel territorio italiano, in La tutela dei minori di cultura islamica nell’area mediterranea. Aspetti sociali, giuridici e medici, a cura di a. cilardo, ESI, Napoli, 2001, p. 141.

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mative e degli interventi promozionali della mano pubblica in favore dei bisogni sociali connessi alla dimensione (individuale e collettiva) della religiosità. In questo caso, si determinerebbe l’esito positivo della libera fruizione di interventi che, stante la vigente disciplina normativa di natura pattizia, sono contraddistinti dal carattere privi-legiario in favore solo di alcune denominazioni confessionali, sono espressivi della politica mercantile della mediazione degli interessi fra poteri pubblici e lobbies confessionali forti, non sono assistiti dai criteri della ragionevolezza e dell’imparzialità amministrativa nella distribuzione di garanzie e risorse 24.

In conclusione, deve ritenersi che una simile modalità di rappre-sentazione del vigente assetto costituzionale delle libertà religiose e della condizione giuridica dei gruppi confessionali, ivi compreso il segmento specifico delle loro relazioni con lo Stato, e di descri-zione dell’auspicata evoluzione legislativa della materia appaiono tali da promuovere una quadro d’insieme rispettoso del modello di democrazia e di godimento delle libertà fondamentali suggerito dal-la vigente Costituzione repubblicana. Partendo dalla centralità della persona umana e dalla pari dignità delle credenze religiose di tutti i consociati, si conseguirebbe l’esito auspicabile di una collocazione delle organizzazioni espressive della dimensione istituzionale dell’e-sperienza religiosa in forme più rispettose del principio di uguaglian-za, senza primazie gerarchiche di sorta, derivanti dal favore sociale per specifici contenuti ideali o dalla capacità di influenza politica im-putabile a determinati movimenti religiosi 25.

24 V. Tozzi, La nostra proposta di riflessione per l’emanazione di una legge gene-rale sulle libertà religiose, in Proposta di riflessione per l’emanazione di una legge generale sulle libertà religiose, a cura di V. Tozzi, G. Macrì, M. Parisi, Giappichelli, Torino, 2010, pp. XXVI-XXVIII.

25 V. Tozzi, Dimensione pubblica del fenomeno religioso e collaborazione delle confessioni religiose con lo Stato, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, settembre 2009, pp. 17-8.

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Diritto e religione. La dimensione europea del fenomeno religioso

di Gianfranco Macrì

1. Introduzione - 2. Diritto e religione: dal nazionale al sovranazionale - 3. Europa, diritti, religione - 4. Per una migliore comprensione della società pluralista - 5. Le nuove opportunità offerte dallo spazio giuridico europeo - 6. Una nuova interpretazione del progetto costituzionale di disciplina del fenomeno religioso - 7. Gruppi di interesse, appartenenze, bene comune

1. Innanzitutto desidero ringraziare l’amico e collega prof. Pierluigi Consorti per l’ospitalità e lo sforzo organizzativo, e un altrettanto omaggio sincero desidero rivolgere agli illustri professori che hanno voluto raccogliere l’invito a partecipare “attivamente”, con impegno, a questa riflessione, nella prospettiva, da molti immagino condivisa, di contribuire a dare forma e sostanza ad un “cantiere”, umano e scientifico (fatto di sensibilità diverse) sulle nuove prospettive del diritto ecclesiastico italiano. In passato, com’è noto, si sono svolti al-tri importanti momenti di riflessione in diverse sedi universitarie, da nord a sud, a dimostrazione di come sia tutt’ora viva in molti di noi una sensibilità al confronto costruttivo, finalizzato, principalmente, al rinnovamento della disciplina – alla luce delle trasformazioni che la società civile, italiana ed europea, attraversa 1 – ma anche al piace-re di rinnovare sentimenti di amicizia e di arricchimento reciproco.

La mia riflessione si concentrerà su alcuni degli aspetti schemati-camente (per ovvi motivi) trattati nella Parte prima del volume Dirit-to e religione 2 – la seconda parte è in corso di stampa – che ritengo

1 G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto ecclesiastico europeo, Laterza, Roma-Bari, 2006.

2 G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione, Plectica, Salerno, 2011.

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siano di particolare importanza all’interno del dibattito sui rapporti tra religione e diritto e che scaturiscono dalle sempre più rilevanti interconnessioni tra sfera ordinamentale nazionale e forma politica europea, entro cui stanno gli stati nazionali. Mi limiterò a sollevare, dunque, alcuni nodi problematici nella speranza di poter contribuire, dal mio punto di vista, ad arricchire il dibattito.

2. L’inquadramento del fenomeno sociale religioso contenuto nel-la prima parte del volume Diritto e religione rappresenta, in primo luogo, la continuazione di un percorso di ricerca (oltre che didattico) avviato insieme a Valerio Tozzi e Marco Parisi già da alcuni anni (e prima ancora da Valerio Tozzi e Luciano Musselli 3) e orientato ad indagare ipotesi praticabili di innovazione didattica e di “novazione” giuridica nel settore di studi denominato “Diritto ecclesiastico” che noi riteniamo, però (insieme ad altri) essere finalizzato a ricompren-dere oramai modalità, forme ed esigenze nuove, tutte ricollegabili (secondo gradazioni diverse) al fattore religioso, che postulano ne-cessariamente il superamento della vecchia dizione (Diritto eccle-siastico) privilegiando, appunto, quella utilizzata come titolo del li-bro (Diritto e religione). Sul punto esistono opinioni diverse, com’è giusto che sia, per cui sarebbe interessante, oltre che opportuno, se queste venissero esplicitate e approfondite durante questo momento di discussione.

La stesura, a più mani, del lavoro, condivide, ovviamente, la me-desima riflessione di base: quella, cioè, di imperniare una serie di que-stioni problematiche (trattate separatamente dai curatori) sulle pro-spettive di adeguamento della disciplina giuridica positiva delle liber-tà religiose alle “virtù trasformative” del costituzionalismo europeo.

Si tratta, a mio parere, di un “punto di partenza” necessario, la cui ampiezza di riferimento, sotto il profilo storico-giuridico e politico-istituzionale degli apparati sovranazionali venutisi a creare a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso (Consiglio d’Europa e Comu-

3 L. Musselli, V. Tozzi, Manuale di diritto ecclesiastico. La disciplina giuridica del fenomeno religioso, Laterza, Roma-Bari, 2000.

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nità/Unione europea, in particolare), ricomprende finalità volte alla costruzione di un “potere comune”, inclusivo e mai difensivo.

La chiave di lettura è stata, perciò, quella del “processo di inte-grazione” che accompagna la Costituzione italiana (e quella di al-tri Stati europei) lungo il percorso finalizzato alla costruzione di un orizzonte politico comune, che non rappresenta il riflesso necessitato dello schema della “crisi” degli Stati nazionali (della “cessione” di sovranità), bensì della vitalità (oggi appannata) degli Stati medesimi. L’Europa non assorbe gli Stati, questi sono pensabili solo all’interno dell’Europa, la quale, a sua volta, è poca cosa come “Unione” se non partendo dagli Stati stessi 4.

3. Sono state privilegiate così alcune caratteristiche precise di questo processo di integrazione europeo, ritenute meglio espressive della capacità del costituzionalismo europeo di “allargare il campo” dello Stato-apparato e della Costituzione (dal punto di vista simbolico e delle regole), contribuendo ad aiutare a colmare le trincee delle iden-tità nazionali e a frenare soluzioni estreme. Pensiamo, ad esempio, all’elemento della partecipazione (il rafforzamento delle assemblee rappresentative e del dialogo tra soggetti istituzionali e non – rappre-sentativi di interessi diversi, anche religiosi – e decisore pubblico) e, soprattutto, al linguaggio dei diritti (con la loro progressiva scrittura, “messa in azione” e giustiziabilità) 5. Trattasi di risvolti importanti, propri sia del momento normativo (che cumula ambiti istituzionali un tempo separati) che dell’enforcement (la ricerca del risultato at-traverso la condivisione).

Non sfugge il dato che, sulle modalità di rappresentazione degli interessi (anche religiosamente connotati) e sull’espansione dell’u-niverso dei diritti individuali – nello spazio pubblico europeo e, di

4 M. FioraVanTi, È possibile un profilo giuridico dello Stato moderno?, in Lo Sta-to moderno di Ancien Regime, a cura di L. BarleTTa, G. Galasso, Aiep, Repubblica di San Marino, 2007, pp. 185-95.

5 M. CarTaBia, I nuovi diritti, in Le confessioni religiose nel diritto dell’Unione Europea, a cura di L. De GreGorio, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 95 ss.

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riflesso, interno – si possono creare fraintendimenti e illusioni se non si procede al giusto inquadramento delle questioni, sia dal punto di vista semantico sia da quello della individuazione dello strumentario normativo più adeguato a meglio regolare la salvaguardia delle liber-tà in regime di pluralismo.

Ma è già evidente che: il ruolo dei soggetti rappresentativi la c.d. “società civile organizzata” (organizzazioni espressive di interessi religiosi comprese), l’emersione di una policy europea dei diritti fon-damentali e l’ampliamento delle garanzie costituzionali, si integrano, completandosi reciprocamente – come rilevato dalla Corte costitu-zionale, in una prospettiva di interpretazione della normativa prodot-ta sulla base di questa interazione sinergica – e questo non potrà non avere ripercussioni sugli assetti interni di regolamentazione unilate-rale e pattizia del fenomeno religioso.

Si tratta, allora, di prestare grande attenzione ai cambiamenti prodottisi nella realtà politico-istituzionale (e sociale) europea, e di calcolare i riflessi che il sistema giuridico “euro-unitario” produce e produrrà sugli assetti ordinamentali interni. Costituirebbe, perciò, una falsa partenza continuare ad immaginare gli Stati europei «come roccaforti di un pensiero ancora impregnato di tradizioni nazionali-stiche ed etnocentriche» (Pinelli) e costruire, su questa premessa, gli ulteriori percorsi di ricerca e didattica indirizzati a dare risposte ai problemi delle società multiculturali.

4. È ormai acclarato che la metamorfosi dello Stato-nazione in “Stato-membro” (dell’Unione Europea) ha significato, prima di ogni altra cosa, la condivisa responsabilità per l’implementazione delle politiche europee, nonché il rispetto di tutte le prescrizioni contenute nelle fonti primarie e in quelle derivate del diritto dell’Unione europea.

Il primato del “diritto comune europeo” si è affermato, non solo grazie all’attivismo giudiziario della Corte di giustizia ma anche grazie alla apertura di ulteriori “finestre” (prima l’art. 11 poi il 117, comma 1 Cost.) dalle quali scorgere meglio il processo di affranca-zione delle Costituzioni nazionali dalla “forma statalistica” (attenta esclusivamente agli sviluppi interni ai singoli ordinamenti) oltre lo

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Stato. Ciò ha contribuito a determinare, con migliori risultati, quel-la funzione “mediativa” (propria delle Costituzioni moderne) della legittimazione democratica degli ordinamenti sovranazionali (quel-lo europeo in particolare) e a favorire la convergenza (non sempre armonica né adeguatamente sorretta da una fonte di legittimazione) di più livelli di governo (regionale, nazionale e sovranazionale) nel complesso sviluppo dell’integrazione; mi riferisco al c.d. “costitu-zionalismo multilivello”: una teoria di grande successo nel dibattito giuspubblicistico europeo, finalizzata a ricondurre a sintesi la molte-plicità dei livelli costituzionali.

Quelli appena menzionati rappresentano, perciò, i “segni” più consolidati, in senso democratico, delle Costituzioni europee, e di quella italiana in particolare, quest’ultima, fortemente caratterizzata in senso pluralista, nonché dotata di robusti “vettori normativi” in grado di favorire la comprensione interculturale della nostra società.

5. Nel nostro lavoro, si è cercato di rimarcare il fatto che la “dimen-sione costituzionale” europea costituisce il risultato di una “sovra-nità cooperativa” i cui basamenti sono: le sfere ordinamentali da un lato (Unione europea, CEDU e stati nazionali) e i centri decisionali dall’altro; in pratica: un legislativo bicamerale da un lato (Consi-glio dell’UE e Parlamento) e un esecutivo duale dall’altro (Consiglio europeo e Commissione), senza dimenticare il dialogo fecondo (ma complesso) tra giudici nazionali (in particolare quelli costituzionali e di legittimità), giudici europei e dottrina.

All’interno poi di quel «circolo virtuoso» 6 costituito da: CEDU, Carta europea dei diritti fondamentali, tradizioni costituzionali co-muni, il fenomeno religioso, considerato nelle sue mutevoli e varie-gate manifestazioni, trova nuove chances, tenuto conto del rinnovato contesto giuridico creato dal Trattato di Lisbona: l’attribuzione di forza vincolante alla Carta di Nizza, l’inserimento a pieno titolo delle

6 L. Violini, La dimensione europea dei diritti di libertà: politiche europee e case law nel settore della tutela dei diritti fondamentali. Sviluppi recenti, in www.federalismi.it, 11 gennaio 2012.

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politiche di promozione dei diritti fondamentali nell’area “Giustizia, Libertà, Sicurezza” (con un commissario europeo ad hoc responsa-bile per quest’area), la facoltà di intervento della Corte di giustizia in questo campo – a seguito della rimozione della struttura a pilastri dell’Unione – e, infine, l’obbligo di adesione dell’Unione europea alla CEDU (art. 6, punto 2 TUE), oggetto di trattative in corso.

Lo scenario, poi, si arricchisce anche grazie al c.d. “dialogo tra le corti”, che presenta però ancora ampi margini di miglioramento. In chiave interna, ad esempio, costituiscono oggetto di intenso dibattito dottrinale le questioni connesse al rapporto tra giudici costituzionali e giudici comuni sulle c.d. “interpretazioni conformi” alla Costitu-zione. È chiaro che, in una prospettiva di più ampio respiro e mag-giore convergenza (tra corti costituzionali e corti europee), il “dialo-go” contribuirà a “svecchiare” il diritto (quello legislativo e quello costituzionale, materialmente inteso in quanto comprensivo altresì delle norme di origine esterna riguardanti i diritti fondamentali) sta-bilizzando, da un lato, il pronunciato giurisprudenziale e fungendo, dall’altro, da fattore di incoraggiamento per la formazione di nuovo “diritto vivente” (Ruggeri).

C’è poi il rapporto tra giudici europei, giudici nazionali e dottrina. Trattasi di un confronto serrato, da cui: «stante la crescente rilevan-za acquisita nei diritti nazionali dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo […] il dialogo fra dottrina, operatori del diritto e giudi-ci internazionali […] non solo può offrire nuove suggestioni e pro-spettive interpretative a questi ultimi, ma può consentire alla stessa scienza del diritto, ed ancora di più ai giudici nazionali, l’opportunità di ampliare i propri orizzonti interpretativi offrendo nuove e inusuali soluzioni giuridiche a comuni problemi giuridici» 7.

Tutto questo si ripercuoterà sulle dinamiche tra il diritto e la so-cietà, soprattutto in materia di diritti fondamentali. Il rapporto si farà

7 R. Mazzola, Introduzione. La dottrina e i giudici di Strasburgo. Dialogo, com-parazione e comprensione, in Diritto e religione in Europa. Rapporto sulla giuri-sprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di libertà religiosa, a cura di Id., il Mulino, Bologna, 2012, pp. 9 ss.

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ancora più stretto, essendo la società (sempre più multiforme e com-plessa) il “luogo” dove il diritto misura il suo grado di vitalità, traen-done sostegno a svolgere il ruolo a cui è demandato.

6. La trama del lavoro dedicata ai profili sovranazionali della disci-plina giuridica del fenomeno religioso, ha privilegiato l’idea che la crescita della adesione alla democrazia pluralista, di fronte al disor-dine imperante (nella politica e nel diritto) deve passare attraverso quella che in dottrina è stata definita come la «portata orientativa del-la Costituzione» (Ruggeri), ri-attivando, innanzitutto, una lettura in-terpretativa di quelle norme in grado di distinguere – in una logica di «superamento del radicamento proprio di ogni identità» – tra «mera coesistenza multiculturale» e «piena integrazione interculturale» (Spadaro). Da qui lo sforzo di rendere chiaro che non si tratta, sol-tanto, di «invocare la dignità umana come valore universale», quanto piuttosto di ricercare percorsi normativi in grado di far discendere dal Capo Primo della Carta europea dei diritti fondamentali («La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata») – in com-binato disposto con l’art. 2 Cost. (quale “norma a fattispecie aperta”, che riconosce e tutela valori anche non espressamente previsti nella Carta repubblicana, ma via via emergenti a livello di “Costituzione materiale”) – l’intera gerarchia dei diritti costituzionali e, quindi, ri-considerare l’interpretazione del progetto costituzionale di disciplina del fenomeno religioso che ha il fulcro nel diritto di libertà religiosa individuale e collettiva (di questo ha dato conto più dettagliatamente il collega Marco Parisi).

A quanto sin’ora detto si aggiunge un’altra questione caratteristica del processo incrementale europeo: la governance della “forma politi-ca europea”. Si tratta, senza dubbio, di un tema controverso, affermato-si, in certi ambienti, come una delle possibili risposte a certe difficoltà della democrazia, e in altri, invece, quale fattore addirittura esprimente il «sentore» di Ancien Régime dell’ordine giuridico europeo 8.

8 A. SuPioT, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del Diritto, Mondadori, Milano, 2006.

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Sicuramente una certa “opacità” dei poteri decisionali, attenta soprattutto a voler espellere i conflitti a favore dell’armonia (della ricerca dell’equilibrio), rischia di portare diritti verso l’affermazione di forme ibride del potere e di concretizzarsi nel “cavallo di Troia” della governance stessa. Si tratta, sicuramente, di un processo dove il diritto perde il carattere della verticalità (imperatività e obbliga-torietà delle regole giuridiche) per assumere le sembianze della soft law, espressiva di una giuridicità multifunzionale, meno rigida e ge-neratrice di finalità non esclusivamente normative (finalizzate cioè a produrre vincoli) ma anche di «orientamento sociale» 9.

Alcuni effetti della governance, frutto della “europeizzazione dello Stato costituzionale”, come: 1) l’inclusività (per esempio di svariate tipologie di attori sociali, tra cui: “Le chiese, associazioni o comunità religiose, organizzazioni filosofiche e non confessionali” - art. 17 TFU); l’effettività (nel senso della capacità delle regole di produrre effetti “oltre” il momento normativo); l’interattività (che innova il tradizionale vocabolario della democrazia rappresentativa e che favorisce metodologie partecipative e relazionali caratterizzate in senso orizzontale piuttosto che verticale), rappresentano bene le li-nee evolutive della soft law euro-unitaria, che, a partire dalla adozio-ne del Libro Bianco sulla Governance (2001), si rivolge direttamente alle istituzioni e all’insieme della società.

Questi mutamenti istituzionali di tipo “orizzontale”, a “rete” (che connette), e le modalità decisionali che privilegiano, come scrive Cassese, «il principio della libertà delle forme a quello della tipici-tà», sono, dunque, i tratti ben visibili di una «democrazia degli inte-ressi», post-parlamentare – speculare, soprattutto, alla «crisi, morte o trasfigurazione della forma-partito» tradizionale, all’indebolimen-to dei sistemi parlamentari nazionali e alla loro oramai patologica «permeabilità verso le istanze particolari» – all’interno della quale la dimensione associativa (le “fazioni” avrebbe detto Madison) ap-

9 La definizione è di V. ferrari, Funzioni del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1995, ripresa da M.R. ferrarese, La governance tra politica e diritto, il Mulino, Bologna, 2010, 44-5.

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proda alla sfera del decisore pubblico con l’obbiettivo di produrre e distribuire informazioni nei diversi settori in cui i differenti gruppi operano.

7. La tematica dei gruppi di pressione, e delle lobbies in partico-lare, non è, perciò, solo questione “di fatto”, ma anche di diritto, considerato che la lobby rappresentativa di una categoria ampia e unitaria (es. gruppi ambientalisti, organizzazioni religiose maggiori-tarie, etc.) gode di condizioni migliori dal punto di vista dell’ascolto e della recezione dei materiali informativi che accompagnano la sua azione, rispetto ad un’altra che parla a nome di un settore di interessi costituito da una membership poco numerosa e debolmente sostenu-ta a livello di opinione pubblica oppure tra i partiti al governo (es. gruppi che si battono per la legalizzazioni delle unioni omosessuali, minoranze religiose, ecc.).

La natura “intermediaria” delle lobbies, pertanto, necessiterà di rendere ancora più trasparente il fenomeno. Dal lavoro congiunto tra Commissione e Parlamento, ha preso vita, nel 2011, un Accordo interistituzionale finalizzato alla istituzione di un Registro per la tra-sparenza per le organizzazioni, le persone giuridiche e i lavoratori autonomi impegnati nell’elaborazione e nell’attuazione delle politi-che dell’Unione.

Dopo un lungo periodo fatto di “inseguimenti” e tentativi di “sor-passo” sul fronte dei rapporti con i gruppi di interesse e della disci-plina regolamentativa da adottare, Commissione e Parlamento hanno stabilito che «l’interazione tra le istituzioni europee [e i gruppi di interesse] è costante, legittima [e necessita di] politiche adeguate che rispondano alle esigenze e alla realtà del momento».

Per quanto riguarda, in particolare, gli interessi religiosi su scala europea, all’art. 11 dell’Accordo citato si stabilisce che: «Il registro non concerne le chiese e le comunità religiose [in quanto tali]. Tut-tavia, gli uffici di rappresentanza o gli organismi giuridici, gli uffici e le reti creati per rappresentarli nelle loro relazioni con le istituzioni dell’Unione, come pure le loro associazioni, sono chiamati a proce-dere alla registrazione» (art. 11).

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Trattasi di un processo che avrà inevitabilmente ripercussioni an-che in chiave interna agli Stati membri, alla ricerca di nuove forme di bilanciamento tra democrazia rappresentativa e democrazia par-tecipativa. Per quanto ci riguarda (e nel volume Diritto e Religione vi si fa riferimento) quello dei gruppi di interesse e dell’attività di lobbying messa in campo dalle strutture rappresentative delle «Chie-se, comunità religiose, organizzazioni filosofiche e non confessiona-li» (art 17 TFUE), costituisce un argomento assolutamente pertinen-te, che investe la democrazia pluralista in quanto ha a che fare col rapporto tra rilevanza sociale degli interessi “di parte” e dimensione politica pubblica (bene comune).

Anche con questa realtà bisogna confrontarsi, ed è all’interno di questo “circuito reticolare” che passano (e sempre più passeranno) le valutazioni politiche e le reazioni giuridiche finalizzate a rispondere ai problemi degli stati europei.

Ecco, allora che, la soft-law, questa “neo-lingua” del diritto so-vranazionale europeo, integra le già enormi potenzialità interpreta-tive dei testi costituzionali e influirà (sulla base degli orientamenti provenienti da Lussemburgo e Strasburgo e alla luce degli atti nor-mativi adottati dalle istituzioni europee in applicazione delle disposi-zioni contenute nei trattati) sulla politica e sulla legislazione interna finalizzata alla disciplina dei diritti individuali e collettivi di libertà religiosa.

Sarà importante verificare se, in chiave interna, i Parlamenti (do-tati di strumenti molteplici di intervento sulla società) sapranno re-sistere alla forza pervasiva degli Esecutivi e riacquistare “centralità” aprendosi (come l’Europa invoca) ad un modello di cooperazione interparlamentare e di ridefinizione delle proprie funzioni in una pro-spettiva di compensazione del principio di indivisibilità dei diritti all’interno dell’elevato livello di complessità in cui versa la nostra società.

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Appartenenza e rappresentanza

Diritto e religione (Giappichelli, Torino, 2011)

di luciano Musselli

Intervenire oggi sui metodi di studio e sugli strumenti didattici (i ma-nuali) e la loro impostazione, dell’insegnamento universitario oggi denominato “Diritto ecclesiastico” è impresa particolarmente ardua.

Le nuove problematiche, emerse oramai da parecchi anni, da un lato hanno reso obsoleto lo schema classico del Diritto ecclesiatico ed anche la sua stessa denominazione (che rischia di sapere di vec-chio e di stantio) e dall’altro hanno posto l’esigenza di lasciarci alle spalle il passato e di tentare vie nuove. Dato che non c’è più solo come oggetto di studio la Chiesa cattolica o le Chiese cattoliche e non cattoliche (donde il termine “ecclesiastico”) ma anche altre re-altà, come quella importante e complessa dell’Islam e delle religioni orientali, ci si è orientati, a mio parere, non senza fondamento e mo-tivazioni, verso nuove denomimazioni quali quelle di “Diritto delle religioni” o “Diritto e religione”.

Un altro limite da superare, a mia opinione, è la prospettiva geo-graficamente limitativa all’Italia ed al suo ordinamento, che, pur ri-manendo l’ambito fondamentale di studio e di didattica, in un con-testo giuridico europeo non può più essere l’unica presa in conside-razione se non altro per l’importanza assunta da alcuni anni dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

Il pericolo in questa fase di transizione è quello della sovrappo-sizione tra due modelli non omogenei di Diritto ecclesiastico, che vengono spesso sovrapposti o giustapposti senza che si riesca a dare sempre una sistemazione omogenea del nuovo nel vecchio schema o del vecchio nelle nuove impostazioni. Il problema non è quindi solo del nome, per il quale mi sembra potersi dire che la tendenza vincente sia oggi quella innovativa anche sull’influsso della espe-rienza anglosassone od americana (Law and Religion); o forse anche

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Luciano Musselli

in qualche misura francese (Droit des cultes, Droit des religions etc.). C’è però l’esigenza di conservare un bagaglio di culture ed esperien-za giuridica legata al nome ed alla gloriosa scuola del Diritto eccle-siastico italiano (da Ruffini e Scaduto a Del Giudice e Jemolo, fino a De Luca e Finocchiaro, tanto per indicare studiosi particolarmente significativi di epoche diverse). Penso che quest’esigenza dovrebbe costituire oggetto di attenta meditazione.

Forse potrebbe essere opportuno conservare, almeno a livello di sottotitolo, nei manuali la dizione (corso o lezioni di diritto eccle-siastico) per non perdere il collegamento con questa tradizione, con questi valori, a meno che non si preferisca un taglio netto con essi.

Ma può veramente esserci un taglio netto con una tradizione cul-turale e giuridica ultracentanaria nel cui ambito anche l’attuale ge-nerazione di docenti e studiosi, a parte forse le ultimissime leve, si è formata? Possiamo peraltro permetterci di fare tabula rasa e partire da impostazioni nuove che finirebbero per muoversi tra sociologia e diritto od adottare un approccio prevalentamente pragmatico giuri-sprudenziale come spesso avviene oltreoceano?

Penso che il compito della nuove generazioni degli ecclesiastici-sti o degli studiosi del diritto delle religioni, comunque li si voglia chiamare, sia questo: in primis conservare l’unitarietà della materia, evitando che si disperda in mille rivoli e, in secondo luogo, ritrovare un linguaggio e una sistematica che, utilizzando anche molte vecchie e solide pietre, riesca a dare vita ad un nuovo ed armonico edificio.

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Laicità interculturale. Cos’è?

Laicità interculturale. Cos’è?

di Mario ricca

1. L’impossibile neutralità. Storia, antropologia e religione

Chi può dirsi “laico”? Che cosa significa “laicità”? D’intuito parreb-be facile rispondere a queste domande. Laico, potrebbe affermarsi, è tutto ciò che non ha che fare con la religione. E sin qui si resta entro i confini del senso comune. Nella risposta però non vi è nulla di universalmente ovvio, niente di così chiaro come potrebbe sembrare.

Innanzi tutto, l’idea di laicità è familiare soltanto a chi utilizza alcune lingue: francese e italiano, ad esempio. Gli idiomi anglofoni non possiedono un vocabolo equivalente. Si parla piuttosto di se-cularization, ma lo spettro semantico non è il medesimo. Ancora, laico è un vocabolo con un utilizzo anche ecclesiale. Non ha quindi un’accezione solo politica, quella intuitivamente più prossima. Nella Chiesa il laico è il semplice fedele, chi è investito con il battesimo del sacerdozio comune.

Nel gergo quotidiano, poi, laico è anche colui che non ha appar-tenenze specifiche, l’uomo qualunque, il cittadino e basta, colui che partecipa alla vita pubblica in ragione delle sue qualità antropologi-che e non in forza della sua collocazione ideologica o comunitaria 1. Laico, in senso lato, corrisponde a tutto ciò che risulta ascrivibile al paradigma della normalità. E già questa espansione nell’uso del termine rivela la sua stretta connessione con la cultura. Ma cosa può dirsi normale al di fuori di un contesto culturale? O in assenza di criteri di giudizio elaborati all’interno di un circuito comunicativo e sociale? Si supponga pure che normale venga assimilato a naturale. Ma quale natura esiste nel mondo osservato dal punto di vista umano se non quella restituita attraverso le lenti della cultura, anzi delle cul-

1 Laicità. Una geografia delle nostre radici, a cura di G. Boniolo, Einaudi, To-rino, 2006.

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Mario Ricca

ture? 2 Quale agenzia decide cosa sia natura e cosa cultura, se non la cultura stessa come processo di incessante riproduzione della mente umana e, insieme, della natura umana?

Eppure, “laico”, nel dialetto culturale italiano o francese, ha come suo significato centrale, primario (o molare), il non avere a che fare con la religione. Ma anche volendo ridurre a un’apparente ovvietà politica l’idea di laicità, e limitarsi a essa, le cose non acqui-stano maggiore chiarezza. Basta incrementare la messa a fuoco per scoprire che per rompere le comunicazioni con la religione bisogna prima definire l’identikit dell’interlocutore, la sua consistenza. E ciò innesca subito alcuni, ulteriori quesiti. Dove sta dunque la religione? Dove abita? Negli edifici di culto? Nella mente dei ministri di culto appartenenti alle diverse fedi? Nella coscienza della gente? In un suo specifico atteggiamento mentale? Oppure anche nei gesti delle per-sone e nelle loro intenzioni? Quindi pure nei luoghi, nei vestiti, nel cibo, nei viaggi, nelle parole, nei gesti, insomma in tutto ciò che è eletto come simbolo e segno di fede? La religione ha dunque luoghi specifici di sussistenza, così – se si vuole – da potersene tenere a distanza? Oppure è diffusa ovunque, anche dove non si vede e so-prattutto dove si crede di non vederla? 3

Del resto, se la religione può essere ovunque, agganciandosi come connotazione qualificativa a qualsiasi oggetto, parola o comporta-mento, come si fa a tenersene a distanza? Se la religione si annida anche in ciò che appare normale, come discernere cosa è religioso da ciò che è laico, e viceversa? Oppure si tratta, in buona parte, di termini speculari e quindi vuoti? In fondo laico è ciò che non è reli-gioso; e religioso ciò che non è laico. Vale a dire, alla fine del gioco di rimandi reciproci, nulla.

2 T. inGold, Ecologia della cultura, Meltemi, Roma, 2001; G. Marrone, Addio Natura, Einaudi, Torino, 2011; M. Ricca, Natura implicita e natura inventata nel diritto. Incursioni interculturali, in P. faBBri, Internaturalità e significazione, Mi-mesis, Milano, in corso di stampa; P. descola, G. Pálsson, eds., Nature and Society: Anthropological perspectives, Routledge, London-New York, 1996.

3 P. norris, r. inGleharT, Sacro e secolare. Religione e politica nel mondo glo-balizzato, il Mulino, Bologna, 2007.

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Laicità interculturale. Cos’è?

A questo punto il lettore comune potrà sentire odor di raggiro verboso. In ogni ambito si sa riconoscere cosa è religioso, sanno farlo anche i bambini. Ma ogni contesto sociale e comunicativo è forgiato dalla cultura e la religione stessa ne è parte costitutiva. Quindi, «il religioso» si differenzia all’interno di ogni universo culturale secon-do criteri che hanno già la religione tra le loro matrici di senso. Allo stesso modo, pure quanto è ritenuto laico, ovvio, normale, costituisce l’esito di un processo di differenziazione modellato grazie alle mole, agli scalpelli della cultura e quindi anche del sapere religioso 4.

La compenetrazione tra religione e cultura dipende dai processi storici. In ogni angolo del mondo, in qualsiasi universo immagina-rio, la religione ha operato nel tempo come agenzia antropologica e di produzione di senso. Le visioni del mondo coestensive a ogni cornice culturale sono cresciute e si sono scolpite anche attraverso il lavorio dell’immaginazione religiosa. La fede e le sue categorie di senso hanno agito come una corrente di fondo nella formazione dei saperi e degli abiti culturali, e si sono mimetizzate con essi, sino a rendersi in parte invisibili. Un italiano o un indiano possono essere rigorosamente laici, persino atei, ed esibire questa loro connotazio-ne tenendosi a distanza da quel che ritengono religioso. Il punto è che anche nel definire qualcosa come religioso e qualcos’altro come laico o normale, entrambi utilizzeranno categorie di giudizio cultu-ralmente radicate nel cristianesimo e nell’induismo, anche se ormai confuse con il rispettivo sapere comune 5.

Le ambiguità però non finiscono qui. Ed è così perché laico, oltre che il singolo individuo, può essere e autoproclamarsi anche lo stato e con esso le istituzioni pubbliche. Anzi, il sostantivo “laicità” si de-clina nel lessico istituzionale come caratteristica della politica statale. Che cosa significa, dunque, “stato laico”? Significa che le istituzioni pubbliche non devono avere a che fare con la religione? Ma com’è

4 M. ricca, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale, Dedalo, Bari, 2008.

5 M. ricca, Costruire l’esperienza giuridica oltre le identità, in “Daimon”, 2008, pp. 1 ss.

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possibile che ciò si verifichi dal momento che la religione vive nei comportamenti della gente e si proietta in ogni ambito esistenziale? Ancor più, poi, considerando che è così difficile distinguere quanto è normale, laico, da quanto è religioso? Inoltre, lo stato laico, per non avere a che fare con la religione, non può neanche vietarla o perse-guitarla. Lo stato laico non è lo stato ateo, così come una società laica non è una società atea. Tentare di reprimere le visioni del mondo di matrice religiosa e i gesti a esse conseguenti – come vorrebbe il mo-dello di un ateismo intransigente – significa imporre una o più visioni del mondo alternative totalmente scevre da connotazioni religiose. Questo è l’obiettivo, ma anche il dilemma dello Stato e della società atei. È possibile costruire, per scelta politica o culturale, un sapere e un fare collettivi che facciano evaporare qualsiasi retaggio religioso dal proprio bacino di significati?

Un’opera di decontaminazione totale della vita pubblica dalle sue componenti religiose presumerebbe la possibilità di edificare un mondo orfano di passato e quindi orfano di cultura 6. Ma il materiale da costruzione delle innovazioni culturali, persino dei cambiamenti di paradigma, è sempre la cultura stessa. Le innovazioni dei sistemi di conoscenze, sia teoriche sia pratiche, sono sempre parziali o pe-riferiche. Distruggere l’intero edificio culturale, privarlo di qualsiasi asse di ancoraggio con il passato, è semplicemente impossibile, per-ché gli arnesi per condurre in porto l’opera fanno parte integrante di esso. Noi distruggiamo ricostruendo e ricostruiamo distruggendo. È così che si sviluppa la vita culturale delle società e degli individui. È per questo motivo che l’ateismo integrale costituisce un’opzione so-stanzialmente irrealizzabile. Ogni risultato porterebbe in sé, comun-que, l’impronta di saperi che hanno avuto a che fare con la religione. E la circostanza che questa ascendenza venga negata (come pure è storicamente accaduto ad es. in USSR) non farebbe che peggiorare le cose, rendendo occulto e indicibile quel che si annida nel pro-fondo. È a causa di questo paradosso storico-culturale che l’ateismo

6 H.P. Glenn, Tradizioni giuridiche del mondo. La sostenibilità della differenza, il Mulino, Bologna, 2011.

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tende a rivelarsi come una fede, motore di una lotta inane contro le altre fedi. Ma se la laicità non può essere ateismo, qual è allora la sua via di manifestazione e di significazione? La risposta pressoché unanime del pensiero politico contemporaneo sembra raggrumarsi attorno a un vocabolo: neutralità. Lo stato laico è lo stato neutrale. Esso non combatte le fedi. Anzi, ne riconosce la libertà di espres-sione e di manifestazione pratica. Piuttosto, se ne tiene a ponderata distanza; una distanza scandita dalla frontiera tra pubblico e privato. La fede religiosa pulsa dalla dimensione privata, intima, dei soggetti e si proietta nella sfera pubblica in modo libero, sin dove non urta con altri valori laici ritenuti fondamentali dall’assetto costituzionale dell’ordinamento statale 7. Quindi lo stato laico-neutrale dovrebbe comportarsi rispetto alle religioni un po’ come un agente esente, una sorta di semaforo metafisico.

La metafora dello stato come agente-esente è evocativa, ma in-completa. Il semaforo non decide i propri colori, né il tempo d’illu-minazione rispettivamente del rosso, del verde o dell’arancione. C’è qualcuno che lo programma e soprattutto stabilisce dove posizionar-lo. Nella regolamentazione della vita pubblica però nessuno decide per lo Stato se, come, dove e quando far scattare il verde oppure il rosso di fronte alle manifestazioni della fede religiosa. È lo Stato stesso a farlo. E per farlo deve distinguere nuovamente cosa è nor-male o laico da ciò che è religioso. Solo che è impossibile regolare senza definire e qualificare 8; e non si può né definire, né qualificare, se non servendosi di criteri, di unità di misura connotati culturalmen-te. Ma la cultura, a sua volta, non è scevra da connotazioni religiose, che appunto permettono di riconoscere, al suo interno, cosa ritenere religioso e cosa laico.

La neutralità dello Stato richiede che le istituzioni possano getta-re sulle realtà sociali uno sguardo da nessun luogo, uno sguardo aset-

7 G. PaGanini, e. TorTarolo, Pluralismo e religione civile. Una prospettiva sto-rica e filosofica, Bruno Mondadori, Milano, 2004.

8 J. dewey, Metodo logico e diritto, in A. faralli, John Dewey. Una filosofia del diritto per la democrazia, Clueb, Bologna, 1990.

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tico, proiettato da una sorta di grado zero della cultura. Più che uno sguardo, un punto cieco. Non ci vuole molto a concludere che intesa come asetticità culturale la neutralità è semplicemente impossibile. Il miracolo della laicità come neutralità è un fuoco fatuo, almeno per quel che è riuscita a disegnare sino a oggi l’esperienza statale e democratica. La sua persuasiva apparenza si fonda tutta sulla mime-tizzazione della religione e delle sue stratificazioni cognitive all’in-terno degli abiti culturali. Al punto che ogni individuo, dall’interno della propria esperienza culturale, può sinceramente convincersi di esprimere idee o di adottare comportamenti neutri senza avere alcuna consapevolezza del loro retaggio religioso.

Per obiettare, qualcuno potrebbe appellarsi, a questo proposito, a una sorta di rappresentativismo. Come a dire che non importa l’ori-gine delle idee o dei gesti, ma il modo attuale di rappresentarseli. Per esemplificare: se la civiltà occidentale ritiene laiche le proprie cate-gorie giuridiche, esse allora saranno autenticamente laiche; e questo benché possano avere una matrice o un midollo di origine cristiana. Si tratta di un’obiezione tutt’altro che infondata dal punto di vista psicologico. Fatalmente, però, essa appare destinata a frantumarsi nel contatto con l’esperienza della diversità culturale.

Il rappresentativismo, anche dal punto di vista epistemologico, ha un limite coincidente con la sua intrinseca, e peraltro fruttuo-sa, relatività. Dire che non vi è cognizione senza rappresentazione ha una sua plausibilità, ma non equivale ad assolutizzare le singole modalità rappresentative. Tuttavia è proprio quel che fa l’obiezio-ne psicologico-rappresentativista a difesa della laicità-neutralità. Basta porsi in ascolto di altre modalità rappresentative perché le implicazioni pragmatiche di una falsa auto-rappresentazione della propria laicità-neutralità si rivelino cariche di problemi. Ed è ap-punto la situazione generata dall’esperienza della multiculturalità/multireligiosità vissuta dalle società contemporanee. Quel che ap-pare culturalmente normale, laico, razionale, ovvio, naturale, etc. all’individuo che osserva se stesso o le sue istituzioni dall’interno della sua cultura può invece denunciare la propria ascendenza reli-giosa agli occhi dell’Altro, da chi osserva e getta uno sguardo da

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fuori. La laicità, meglio la percezione della laicità, è in conclusione culturalmente relativa 9.

In un universo sociale multiculturale/multireligioso l’impossibili-tà della neutralità si converte immediatamente in asimmetria e in una percezione d’ingiustizia. Circostanza che si verifica ogni volta che il neutro per qualcuno venga imposto come neutro anche all’Altro, che invece dall’alto (o dal basso) della sua differenza lo percepisce come culturalmente e religiosamente relativo, quindi partigiano. D’altron-de, la cultura, anzi il culturale è neutro per definizione agli occhi di chi lo osserva dall’interno. Peggio, con una conversione tutt’altro che innocua, tende irresistibilmente a trasformarsi in naturale, evi-dente e alla fine in (aprioristicamente) universale. Chi non lo pratica, e quindi non lo condivide, è dunque fuori dalla natura, oltre i confini dell’umanità.

Ma se è così complicato e problematico articolare la laicità, come mai essa è divenuta un asse del costituzionalismo moderno e con-temporaneo? Uno slogan inossidabile, al quale a turno si appellano tutti, persino i soggetti confessionali, editandone ciascuno la propria versione ovviamente indicata come quella autentica? La risposta ri-posa nella storia.

La laicità, come idea politica, è figlia dell’Illuminismo. La possi-bilità di realizzarla, in quanto opzione istituzionale e pratica, non è però legata all’ateismo militante, a un atteggiamento ideale ostile alla religione. Piuttosto, la forza del pensiero laico giace in un’altra fede: la fiducia nell’auto-evidenza della ragione e delle sue verità.

L’Illuminismo laico fu l’incarnazione politica del razionalismo moderno inaugurato già dall’Europa del XVII secolo. La sua lotta contro i poteri ecclesiastici e i loro bastioni culturali fu una conse-guenza e non il presupposto della fede nella ragione. Dalle verità scientifiche di matrice galileiana e newtoniana sino all’asserita tra-sparenza del diritto naturale razionale e dei principi etici universa-li, gli assiomi della laicità illuminista orbitano attorno a un preciso

9 G.E. rusconi, Laicità ed etica pubblica, in G. Boniolo, Laicità. Una geografia delle nostre radici cit.

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presupposto antropologico. Esso consiste nella capacità dell’essere umano, di ogni singolo essere umano, di usare le sue facoltà razio-nali per riconoscere l’ovvietà, l’evidenza della natura, sia fisica, sia antropica.

Cronologicamente, fu in prima battuta l’opporsi della teologia naturale propugnata dalla Chiesa cattolica alle scoperte scientifiche a innescare l’opposizione tra fede e ragione 10. Qualcosa di simile si verificò anche sul piano politico. Non fu la religione in sé e per sé, quanto piuttosto le istituzioni clericali e la legittimazione da esse of-ferta a supporto dei quadri d’ancien régime a costituire la fonte delle polarità e degli antagonismi tra pensiero politico moderno e universi di fede.

La dialettica tra fede e ragione ebbe insomma una matrice stra-tegica, non genuinamente cognitiva, tanto meno antropologico-cul-turale. Fu una lotta per il potere, non per il sapere in sé. Laicismo e razionalismo moderni non sono sinonimi. E benché questa possa apparire un’affermazione eretica o eccentrica, è il vocabolario stes-so della laicità a suffragarla. Il razionalismo scientifico ha prodotto una reale, profonda rivoluzione nell’immagine della natura e nelle metodologie per scandagliarne i segreti. Lo stesso non può dirsi inve-ce dell’impegno illuministico e poi liberale sul fronte del progresso sociale. Certo, l’affermazione dei diritti dell’uomo e delle libertà na-turali trovò in entrambi formidabili alfieri, che hanno accompagnato l’ascesa e il cammino della democrazia e del costituzionalismo. Ma il nucleo dell’idea dei diritti naturali ha matrici culturali più antiche 11, così come l’intero apparato delle categorie di diritto inglobate nelle legislazioni ottocentesche post-rivoluzionarie 12.

Laicità e secolarizzazione, all’interno del lessico dei paesi latini, si configurano come piste parallele o comunque non coincidenti. Gli

10 A. funkesTein, Teologia e immaginazione scientifica dal Medioevo al Seicen-to, Einaudi, Torino, 1996.

11 B. Tierney, L’idea dei diritti naturali, il Mulino, Bologna, 2002.12 F. Todescan, Le radici teologiche del giusnaturalismo laico I. Il problema

della secolarizzazione nel pensiero di Ugo Grozio, Giuffrè, Milano, 1983.

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assetti laici vengono connotati, almeno storicamente, per la loro anti-clericalità, per l’attitudine a emanciparsi, a smarcarsi dai presupposti di legittimazione di matrice religiosa. Il cammino della secolarizza-zione viene inteso invece come un percorso culturale, coincidente con l’affrancamento cognitivo del pensiero occidentale dalle catego-rie teologico-filosofiche del cristianesimo 13. Eppure questa biforca-zione è assai meno ampia di quanto, per tradizione e per posa politi-ca, non si sia indotti a ritenere.

Secolarizzazione e laicità costituirono processi parziali, certa-mente di innovazione, ma anche di riconfigurazione di saperi anco-rati nel fondo del patrimonio cognitivo delle società occidentali. Pur nel suo rifiuto tutto moderno di scandagliare le cause prime o ultime della natura, persino la rivoluzione scientifica seicentesca portò con sé e lavorò grazie a nozioni e schemi mentali sviluppatisi in seno a precedenti circuiti culturali (cristiano, ebraico, islamico, indiano), profondamente intrisi di fede religiosa 14. Il paradigma complessivo mutò, indubbiamente, ma non tutti i suoi mattoni da costruzione. In modo ancor più spiccato, discorso analogo può essere svolto sul pia-no politico. Gli immaginari moderni hanno consentito la periferizza-zione socio-politica della religione, ma non hanno affatto disdegnato di servirsi degli apparati concettuali elaborati dalla teologia morale d’ascendenza medievale 15. L’opera dei filosofi, dei giuristi e dei teo-logi del lungo medioevo europeo (patristica, nominalismo, scolastica e seconda scolastica, glossatori e commentatori) non fu affatto posta

13 H. BluMenBerG, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova, 1992; H. lüBBe, La secolarizzazione. Storia e analisi di un concetto, il Mulino, Bologna, 1970; E.W. Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizza-zione, Morcelliana, Brescia, 2006; id., Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato mo-derno all’Europa unita, Laterza, Roma-Bari, 2007.

14 E. GranT, Le origini medievali della scienza moderna. Il contesto religioso, istituzionale e intellettuale, Einaudi, Torino, 2001.

15 H.J. BerMan, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occi-dentale, il Mulino, Bologna, 1998; P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal plurali-smo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, il Mulino, Bologna, 2000; C. schMiTT, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in id., Le categorie del «politico», il Mulino, Bologna, 1972.

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nel dimenticatoio. Piuttosto venne occultata, dopo averla sapiente-mente spogliata delle vestigia teologiche e rieditata in forme raziona-listiche. Anche in questo caso, mutò il dosaggio degli ingredienti e il prodotto finale, ma molta materia prima rimase inalterata.

Come il processo di secolarizzazione, anche la svolta laica inve-stì il ruolo pubblico delle chiese/confessioni piuttosto che i contenu-ti culturali di matrice religiosa. La dimensione antropologica delle diverse fedi rimase comunque intima all’articolazione culturale del sapere. Ma non c’è da stupirsene. Tra fede e cultura vi è sovrapposi-zione, coestensività, soprattutto se i loro legami vengono riguardati su ampi archi temporali.

Tuttavia non si dà alcuna possibilità per l’articolazione sociale di una «fede nella ragione» che sia culturalmente esente. Le ovvietà, le trasparenze cognitive della ragione sono evidenze necessariamente culturali, segnate e cifrate dai circuiti comunicativi della cultura. E fuori dalla dimensione culturale non vi è né evidenza, né ovvietà. È la cultura la fabbrica delle certezze, delle idee chiare e distinte (Car-tesio) e quindi anche dell’immagine della natura partorita e creduta da ogni epoca e da ogni contesto della storia umana. La stessa natura dell’uomo è – tra le altre – quella di «essere culturale».

Nel discorso comune, la laicità viene riconosciuta come fronte dell’opposizione tra ragione e religione. Ma si tratta di una rappre-sentazione falsata. Alla base di essa vi è una fuorviante metonimia, una confusione della parte con il tutto. Dal punto di vista politico, lo stato laico nasce e si struttura in opposizione dialettica alle Chiese, alle confessioni, nella loro dimensione istituzionale 16. Ma confessio-ne e religione sono fenomeni non coincidenti; identificarle è appunto indicare la parte per il tutto. Se le religioni germogliano all’interno di gruppi confessionali, più o meno circoscrivibili soggettivamente e oggettivamente, viceversa i loro effetti culturali si propagano a largo raggio all’interno della mappa culturale delle società. La religione, considerata in senso antropologico, è qualcosa di assai più ampio

16 M. sTolleis, Stato e Ragion di Stato nella prima età moderna, il Mulino, Bo-logna, 1998.

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della confessione. Nella storia d’Europa, ad esempio, le stesse guerre di religione si dimostrano retrospettivamente come lotte per l’inve-stitura politica, per la legittimazione del potere pubblico e assai meno come conflitti sulle assi culturali di fondo. Il patrimonio etico del cristianesimo, sedimentato da secoli di pratica nell’esperienza quoti-diana, non ne venne investito. Anzi, è proprio su questo plafond cul-turale che si costruì l’idea di un diritto naturale-razionale. Sarebbe un errore tuttavia ritenere che si tratti di un fenomeno idiomatico della moderna esperienza occidentale. Con modalità differenti, la commi-stione tra cultura e religione, tra ragione e fede, vale per tutte le tra-dizioni e gli universi sociali, dall’islamico al confuciano, dall’hindu al buddhista, e così via.

In Occidente, il cammino della laicità e della secolarizzazione politica hanno emancipato il potere politico dalla legittimazione confessionale. L’affrancamento dalle categorie cognitive della fede cristiana, stratificate nel sapere culturale comune, è risultato invece assai meno pregnante ed esteso. D’altronde, il contrario sarebbe stato pragmaticamente e politicamente impossibile. La storia non si può farla ripartire dal grado zero. Rappresentare in questi termini l’Illu-minismo, o qualsiasi altra rivoluzione ideale, può essere una buona strategia retorica, ma si risolve in una sostanziale mistificazione 17.

2. La laicità come equidistanza culturale

Pensare e proclamare che il discorso politico o assiologico dei singoli stati sia religiosamente asettico, puramente razionale, può risultare anche plausibile sul piano comunicativo – e così è stato. Ma l’effetto è destinato a rivelarsi di breve periodo. All’interno di ogni contesto, la religione fattasi cultura comune, perché mimetizza-ta con essa dagli usi comunicativi, può anche apparire come ragione. Il prezzo di questa assimilazione, certamente utile sul piano del con-senso e del controllo sociale, prima o poi dovrà però essere versato.

17 M. ricca, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale cit.

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La resa dei conti avviene quando l’edificio delle certezze, dei sape-ri di fondo, viene scosso, spostato, producendo un decentramento cognitivo. Quando ad esempio l’innovazione scientifico-tecnologia impatta sulle scansioni di fondo della quotidianità improvvisamente esplodono conflitti culturali infallibilmente inclini ad acquisire con-torni religiosi. Ma è nulla più che cronaca della contemporaneità. In questi frangenti, viene invocata regolarmente la laicità, contestando la discesa in campo delle autorità confessionali. Il punto però non è se le confessioni abbiano o meno il diritto di esprimersi su questio-ni come l’aborto, l’eutanasia, l’ingegneria genetica, la gestione del decesso e della malattia, e simili. Piuttosto bisognerebbe chiedersi perché all’interno di società ampiamente secolarizzate come quelle occidentali la gente si interessi, segua, si ponga il problema di valu-tare l’opinione delle agenzie confessionali. A tal proposito, alcuni parlano di de-secolarizzazione 18. Ma nell’elaborare questa nozione generano null’altro che un clone speculare della secolarizzazione, enfatico e assolutizzante quanto il suo doppio 19.

Piuttosto, quel che viene etichettato come de-secolarizzazione sovrappone i suoi contorni alla parte irrealizzata della secolarizza-zione, messa in movimento e disincagliata dal fondo dei saperi cul-turali impliciti a causa dell’impatto delle innovazioni. È il legame profondo e mai tranciato tra religione e cultura che rende interessan-ti, pertinenti, gli interventi delle autorità confessionali alle orecchie della gente comune. Opporre a queste presunte invasioni di campo – secondo il vecchio adagio, silete clerici in munere alieno – il se-maforo rosso della laicità non fa che accrescere l’intensità dei con-flitti. Ma ciò accade soltanto perché negare cittadinanza civile alla voce confessionale occulta la presenza della dimensione religiosa all’interno della cultura c.d. “laica”. Prende vita così un paradosso, benché solo apparente. Più si interdice il recupero delle radici, delle interdipendenze profonde tra ragione e religione sul piano culturale,

18 P. norris, r. inGleharT, Sacro e secolare cit.19 M. rosaTi, Solidarietà e sacro. Secolarizzazione e persistenza della religione

nel discorso sociologico della modernità, Laterza, Roma-Bari, 2002.

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più il discorso laico diverrà vulnerabile, se non pure succube del conflitto.

Gli antagonismi, legati alle fasi di metamorfosi del sapere so-ciale, tendono a commutarsi in molti casi in conflitti religiosi pro-prio perché non si ha consapevolezza di quanta religione vi sia nella cultura. Solo quando si demistificasse il mito della laicità integrale, dell’esclusiva razionalità del discorso pubblico, si potrebbe promuo-vere un effettivo processo di critica della religione e del suo capitale culturale sedimentato nella mentalità comune. In breve, la religione nascosta tra le pieghe dei saperi culturali va sviscerata e guardata in faccia. Anche perché non si può essere liberi rispetto a ciò che non si conosce. L’arcano, il non conosciuto, è destinato a dominarci, alme-no finché abita in questa condizione all’interno di noi stessi.

L’esagerata attenzione mediatica su questioni come il crocifisso nelle aule scolastiche, l’insegnamento della religione, le esternazioni dei ministri di culto sulle questioni bio-mediche, e altro, è un effetto della commistione profonda, storica, tra religione e cultura, e non la sua causa. Il fatto è che argomenti come il rapporto tra vita e mor-te, corpo e persona, etica pubblica e istruzione, sono profondamen-te connotati, in ogni cultura, da coefficienti di significato di matrice religiosa. Non appena viene scossa l’ovvietà delle opinioni, degli abiti di pensiero e comportamento su questioni simili, è inevitabile che l’ancoraggio religioso acquisti evidenza e presenzialità. Il sapere laico si scopre allora religioso e quindi esposto all’influenza religio-so-confessionale. Ma è una scoperta tardiva. In realtà si apprende quel che è sempre stato. Forse perché la cosa più difficile è sapere di sapere. Sebbene la retorica della laicità integrale e compiuta abbia camuffato questo sapere, in realtà esso è sopravvissuto sul fondo per l’intera durata della modernità occidentale. Il sentiero di una laicità autentica si disegna quindi a partire dall’acquisizione della consape-volezza di tale sopravvivenza, puntando a una sua rivalutazione criti-ca, da svolgersi in modo aperto, senza pregiudizi aprioristici, innanzi tutto sul piano cognitivo, prima ancora che su quello politico.

Le scosse che portano alla luce i reperti religiosi nascosti nella cultura non provengono tuttavia solo dall’evoluzione scientifico-

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tecnologica, né sono tutti ed esclusivamente endogeni a ogni singo-lo contesto culturale. Molte sono le culture e altrettante le religioni. Il loro saldarsi determina altrettante razionalità, ovvietà, normalità. Quando diversi mondi di evidenza entrano in contatto, viaggiando sulle spalle delle persone, è inevitabile che gli apparati di giudizio, le categorie utilizzate per scandire la realtà, subiscano una potenziale relativizzazione e risultino esposte a critiche e a possibili contamina-zioni. La convivenza tra diversi, tra persone con mentalità differenti, implica il decentramento dalle proprie ovvietà e dalla loro indiscus-sa legislatività come effetto intrinseco e simultaneo allo stesso ri-conoscimento della diversità, dell’Alterità. L’impatto tra differenti galassie di senso può quindi essere traumatico, configurandosi per-sino come un’ombra sul futuro, sulle conseguenze del proprio agire allorché esso intreccia inevitabilmente quello degli Altri da noi.

All’interno di ogni tradizione o civiltà, la religione ha contribuito alla creazione delle visioni del mondo, degli orizzonti di valore e del-le scansioni dell’agire collettivo e individuale 20. Le vestigia del suo contributo possono anche essersi smarrite, occultate, discendendo al di sotto della soglia della consapevolezza culturale. Rimangono però le orme del lavorio del pensiero religioso, delle categorie di fede, pi-stiche (dal greco pistis: fede)21. Nel contatto con altri modi di vedere il mondo e di agire, le stratificazioni del passato tornano alla luce, ac-quisendo nuovo senso e inedite potenzialità. Doversi confrontare con il nuovo innesca sempre una crisi riflessiva, quindi la ricerca dell’i-dentità ancorata a radici che affondano nel passato. Questo sguardo alle proprie spalle scalfisce di regola la patina dell’ovvietà culturale, proprio perché ha come motore il dubbio esistenziale innescato dal confronto con il diverso. È allora che si avvia la ricerca di fonti di legittimazione, di oggetti di fede, necessari per garantire una rinno-vata grammatica del sapere culturale e personale. Scorgere le proprie

20 H.P. Glenn, Tradizioni giuridiche del mondo cit.21 M. ricca, «Pistemica giuridica». Percorsi di ricerca in chiave antropologica

sui rapporti tra categorie del diritto e fenomenologia della fede, in id., Diritto e religione, Cedam, Padova, 2002.

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certezze in equilibrio precario e avvertire il bisogno, innanzi tutto a fini pratici, di costruirne di nuove, magari anche invocando l’inossi-dabilità di quelle trascorse, sono momenti di un processo unitario. In ogni caso, l’oggettivazione del Sé, il suo ancoraggio a una tradizione re-inventata per affrontare il presente e le incognite del futuro, sono processi cognitivi di tipo creativo. Essi comportano una costante opera di revisione, di risemantizzazione del proprio saper passato. Le religioni funzionano in questi frangenti come garanti accreditati dei sentieri di riscoperta di se stessi.

Ma il ripiegamento verso le proprie radici religiose non è un affa-re solipsistico. In quella direzione, verso le orme della fede, l’indice viene puntato innanzi tutto dall’Altro. Dal di fuori del recinto cultu-rale, ogni ovvietà appare idiomatica, motivata e situata. La storia fa parte della cornice contestuale e, ovviamente, l’impronta della re-ligione viene osservata come sua componente inequivoca, di là da ogni auto-qualificazione in termini di laicità. È per questa via che l’Occidente viene visto e si riscopre oggi cristiano. Allo stesso modo, nell’affrontare l’onda d’urto della modernità occidentale, il resto del mondo riscopre le proprie radici, quasi come un riflesso della propria non occidentalità/modernità. Orientalismo e Occidentalismo 22, quali matrici di stereotipi speculari utilizzati alla stregua di controdiscorsi strategici nel fronteggiare l’Altro, sono i vettori dei rinnovati antago-nismi tra Islam, Induismo, Cristianesimo, Ebraismo, e così via.

Nello scontro tra culture differenti la laicità si stempera. Quasi senza pudore, anche le culture laiche proclamano la valenza culturale della propria tradizione religiosa. Prende forma così ancora un para-dosso, tale però solo in termini analitici, ma non storico-contestuali. In effetti, le società e gli stati laici sorpresi a rivendicare la propria tra-dizione religiosa stanno semplicemente restituendo, rendendo visibile

22 E. said, Orientalism, Penguin Books, London, 1991; G. carrier, Occidental-ism: Image of the West, Clarendon Press, Oxford, 1995; A. nandy, The Intimate En-emy: Loss and Recovery of Self under Colonialism, Oxford University Press, New Delhi, 1983; C. Venn, Occidentalism: Modernity and Subjectivity, Sage, London, 2001; I. BuruMa, a. MarGaliT, Occidentalism: The West in the Eyes of its Enemies, Penguin, New York, 2004.

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la consistenza effettiva, e dunque parziale, dei propri processi di lai-cizzazione. Che vi sia una laicità cristiana, una hindu, una confuciana, una possibile laicità islamica (vedi ad es. la Turchia, e chissà cosa avverrà nei c.d. “stati islamici post-rivoluzionari” del Nord-Africa) è anch’essa un’ovvietà antropologico-politica. Ma non potrebbe essere altrimenti. Il problema semmai sta nel modo esplicito di riaffermare le proprie radici culturali ovvero nelle armi discorsive utilizzate per difendere le proprie certezze dall’irruzione della straniante Alterità.

Quando si generano conflitti culturali/religiosi è il nucleo di cer-tezze e ovvietà implicite a essere minacciato, esattamente come acca-de a causa delle implicazioni prodotte dall’innovazione scientifico-tecnologica. Tuttavia la connessione diretta tra gangli centrali delle culture e impatto delle diversità non è evidente, essa non mette in mostra in modo esplicito i sommovimenti endogeni ai singoli con-testi socio-culturali. La conseguenza è plateale e presto delineata. Benché l’obiettivo sia quello di preservare il centro dei diversi cir-cuiti culturali, lo scontro viene articolato attorno a feticci, simboli, spesso periferici, ma comunque eclatanti, visibili ictu oculi, eletti a rappresentare il fronte dell’identità culturale e della sua tutela. Veli, turbanti, croci, chiese e minareti, modalità rituali, usi del corpo, co-dici sessuali, etc., vengono branditi come sciabole ideali per tutelare l’identità e, al tempo stesso, per camuffare quel che veramente si vuole preservare o si ha timore che venga alterato. Il problema è che così facendo si dà voce alla paura preconcetta e istintiva della diver-sità – in sé peraltro tutt’altro che incomprensibile o non istintiva – e vengono inceppati i processi di auto-oggettivazione, cioè la presa di coscienza effettiva della propria tradizione, dei suoi saperi e della loro coimplicazione con l’azione antropologica dell’atteggiamento religioso o, più in generale, di fede.

Questo modo di comportarsi è riscontrabile sia nelle società oc-cidentali, sia nelle altre realtà socio-culturali presenti sul pianeta, in particolar modo in quelle post-coloniali. Se le società occidentali intendono mantenere inalterate le certezze laiche, sotterraneamente commiste al lascito etico della religione cristiana, quelle post-colo-niali devono affrontare il problema opposto. In molti casi, si trovano

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a confrontarsi con apparati normativi e istituzionali ereditati dall’e-sperienza coloniale. A innescarsi, allora, è un tendenziale processo di riappropriazione culturale della sfera pubblica e dei suoi linguaggi (l’India costituisce in tal senso un esempio paradigmatico) 23. Tenta-tivo peraltro minato, spesso, dall’incombere della globalizzazione e dalla pervasiva diffusione dei flussi di informazione e di beni derivati dalle culture occidentali. A fare da arieti sono ancora una volta feticci e simboli religiosi, talora apparentemente lontani dal nucleo di abiti, norme e istituzioni importati durante il periodo coloniale e ancora permanenti. Ma si tratta di un trucco strategico. Estirpare quanto di occidentale fa ormai parte della quotidianità è spesso impossibile e tutto sommato nemmeno conveniente; in compenso, però, è possibi-le addomesticarlo, selezionarlo, rieditarne il significato utilizzando come cifra dirimente la sua compatibilità con la tradizione culturale/religiosa autoctona. La religione diviene allora uno strumento di con-figurazione e qualificazione politico-antropologica della soggettività pubblica. Uno strumento che opera a vasto raggio, ma concentrando la sua azione su alcune icone, elementi simbolici usati come segnavia verso la tradizionalizzazione, e per certi versi la vernacolarizzazione, della modernità. La cosa interessante è che simili tentativi si consu-mano sia in contesti ufficialmente confessionali, come quelli islami-ci, sia in altri formalmente laici, come quello indiano.

Per alcuni aspetti, la convergenza tra linguaggi della laicità e di-scorso religioso-culturale tra le diverse parti del mondo, anche al meglio degli effetti della situazione post-coloniale, può apparire pre-occupante. Invece si tratta semplicemente del carattere culturalmente relativo di ogni società laica, così come del suo diritto. Piuttosto, v’è da osservare che i tentativi di vernacolarizzazione della modernità non possono che essere parziali e spesso solo apparenti. Ciascuno di essi produce i suoi effetti lungo i percorsi dei flussi transnazionali, restituendo e rigenerando di continuo nuovi assetti semantici della

23 T.N. Madan, Modern Myths, Locked Minds. Secularism and Fundamentalism in India, Oxford University Press, New Delhi, 2005; W. Menski, Postmodern Hindu Law, in http://www.arts.manchester.ac.uk/casas/papers/pdfpapers/pomolaw.pdf.

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modernità. Declinare in modo particolare il codice della modernità, ad esempio situando, localizzando l’universalità dei diritti umani, non costituisce una deriva dell’universale, ma al contrario la sua lin-fa vitale 24. Qualunque forma di universalità non sarebbe tale se non fosse in grado di situarsi, di prendere corpo in un luogo e nel rendersi idiomatica rispetto alle esperienza che si consumano in esso. Di ri-torno, queste esperienze potranno entrare nella cornice semantica e comunicativa che rende vivente l’universale, riplasmandone dall’in-terno i contenuti. Vivere in un mondo globalizzato significa proprio questo: cioè che quanto accade in un possibile là partecipa degli stes-si paradigmi di senso necessari a interpretare e ad agire quel che ac-cade in un possibile qua. Per tornare all’esempio dei diritti umani, se essi vengono interpretati e declinati in un determinato modo in India, questa circostanza influirà sul loro statuto semantico generale, producendo presto o tardi i suoi effetti anche nel modo in cui ver-ranno interpretati in Italia o negli Stati Uniti. A traghettare i flussi di contaminazione semantica sono le relazioni tra attori indiani e attori italiani sul palcoscenico del condominio-mondo traversato dal vettore dei percorsi migratori e delle interdipendenze economico-politiche.

I processi di auto-trasformazione sociale adesso descritti dimo-strano che l’implicazione reciproca tra religione e cultura non è sol-tanto un fatto del passato. Viceversa si tratta di un passato che si rinnova e viene recuperato di continuo nella definizione del presente e dei suoi orizzonti. Da ciò deve dedursi che la nozione di laicità non può essere limitata esclusivamente ai rapporti tra politica e diritto, da una parte, e religione, dall’altra. La neutralità richiesta dalla vulgata della laicità è impossibile proprio perché la religione fa parte della cultura. Tuttavia, per poter essere neutrali rispetto alle appartenenze religiose, le istituzioni dovrebbero esserlo anche rispetto alle cultu-re. Ma ciò significa che laici sono solo lo stato, il diritto, la società,

24 K.M. clarke, M. Goodale, eds., Mirrors of Justice: Law and Power in the Post-Cold War Era, Cambridge University Press, Cambridge, 2010; S. enGle Mer-ry, M. Goodale, eds., The Practice of Human Rights. Tracking Law Between the Global and the Local, Cambridge University Press, Cambridge, 2007.

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garanti del diritto di cittadinanza delle differenze. Ma se “laicità” deve essere sinonimo di “rispetto per le differenze” allora essa di-viene una metafora dell’uguaglianza. Un’uguaglianza non solo nella legge, ma all’interno di essa. Dunque, un’uguaglianza non soltanto formale, ma sostanziale in senso radicale. Essa non dovrà limitarsi né a dettare regole uguali per tutti, ma sorde alle differenti condi-zioni sociali dei soggetti di diritto; né a rimuovere gli ostacoli o le vulnerabilità di fatto che non consentono a tutti di godere in modo equivalente della protezione giuridica espressa dalle norme e relativa a un modello astratto ed etnicamente e/o eticamente predeterminato di soggetto sociale e giuridico. L’uguaglianza autenticamente laica dovrà presentarsi come culturalmente equi-rappresentativa ed equi-responsiva. Questo significa, in altre parole, che le norme legislative dovranno esprimere una sintesi ponderata tra la semantica culturale delle diverse soggettività presenti nella platea sociale. Il volto del soggetto di diritto dovrà essere la risultante di questa sintesi. E solo il suo presentarsi come una condensazione tra le differenze, tra le loro connotazioni di senso, potrà renderlo inclusivo 25.

Per raggiungere la soglia di un linguaggio normativo laico, e quindi un tessuto legislativo capace d’includere le diversità, sarà tut-tavia necessaria una preventiva opera di traduzione e transazione tra le differenze, tra i loro linguaggi e significati. L’esito, quando si riu-scisse a raggiungerlo positivamente, sarà il risultato della creatività e della ragionevolezza, piuttosto che l’esercizio astratto di una razio-nalità oggettiva, asettica. Laicità non indica dunque razionalità, l’e-sercizio in campo politico-normativo di una ragione assoluta e priva di attributi qualificativi o di torsioni culturali. La laicità non si libra al di sopra delle differenze, ma sta in mezzo a esse, come una (possi-bile) emergenza del loro intersecarsi e tradursi reciproco. Essa non è asettica, avulsa dai conflitti, semmai invece terapeutica, mediatrice.

Al contrario, addurre a supporto della laicità l’agire della ragione come agenzia neutrale di produzione di significati e modelli politico-normativi non fa che incrementare la curvatura culturale e, quindi,

25 M. ricca, Oltre Babele cit.

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anche religiosa delle scelte istituzionali. Chiunque invochi l’anali-ticità o la trasparenza dei giudizi della ragione non farà altro che articolare i propri convincimenti culturali/religiosi, ammantandoli di universalità. Così, più la sua laicità si professerà intransigentemente areligiosa e neutrale, più si accentuerà agli occhi degli altri, dei grup-pi minoritari, la relatività culturale dei suoi contenuti. Agli sguardi gettati da fuori, dall’esterno, il diritto laico tradirà un’inevitabile, marcata e dispotica coestensività con il patrimonio storico-teologico del contesto sociale di riferimento.

3. Regole vs. riconoscimento

L’astro sorgente della multiculturalità ha fatto germinare, un po’ dovunque nel mondo, l’invocazione della sicurezza e delle regole. Il diverso, il culturalmente altro, sembra stimolare con la sua presenza lo spettro del caos. Come se le omogeneità locali non fossero costret-te, anche quando esistessero davvero, a misurarsi reciprocamente in uno spazio planetario ormai contratto, imploso in una quotidianità pervasivamente meticcia e cosmopolitica. Piuttosto è vero proprio il contrario. Vale a dire che la fede nell’omogeneità locale, in una sicurezza specchiata in regole nitide, generali, buone per tutti, genera luoghi in conflitto tra di essi e anche all’interno di se stessi.

Quante volte accade di udire la propaganda mediatico-politica accoppiare «regole» e «sicurezza»? 26 Si tratta di un tormentone os-sessivamente indirizzato soprattutto agli stranieri, ai culturalmente diversi. La sua resa retorica più in voga suona più o meno così: chi viene qui da noi deve rispettare le regole. Tutti devono rispettare le regole, anche secondo l’altro adagio, artatamente propagandato, che proclama l’esigenza di attenersi all’unità nella diversità (l’Eu-ropa comunitaria lo ha adottato come icona-identikit). Ma, come si è detto, per essere laico, il lessico normativo e politico deve poter offrire una sintesi creativa e transattiva fra le differenze. In che sen-so, dunque, si può chiedere all’Altro di rispettare «le regole», di es-

26 Dimensioni della sicurezza, a cura di T. Greco, Giappichelli, Torino, 2007.

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sere partecipe di un’Unità asse della convivenza tra le differenze? La domanda pone il problema dell’universalità delle regole. Perché l’universalità sia autentica non è sufficiente declinare gli enunciati normativi in termini generali e astratti. Non basta dire “tutti devono”, “tutti hanno diritto”, o usare formule equipollenti, per porre gli atti di politica normativa al riparo dall’accusa di discriminazione. Le re-gole, anche quelle generali, possono aspirare all’universalità soltanto se risultano responsive e rappresentative degli interessi ponderati di tutti. Ma affinché ciò possa verificarsi è prima necessario elaborare un lessico frutto di processi di riconoscimento reciproco tra i soggetti sociali. Altrimenti, in assenza di un linguaggio interculturale, sarà impossibile escogitare formule che non siano escludenti, partigiane, espressione di una razionalità e quindi di un’universalità di parte.

Senza riconoscimento reciproco, allora uguaglianza, generalità e universalità verranno semplicemente inflitte agli altri, a chi non è rappresentato nello specchio del dettato normativo, complice la forza delle istituzioni. Ma questa condizione è quanto di più lontano pos-sa immaginarsi dalla laicità. Il terreno proprio della laicità è quello dell’ovvio, confinante con il senso comune. Ma dire “senso comune” significa riferirsi a un precipitato abbastanza generico delle convin-zioni, dei punti di vista, degli abiti mentali diffusi all’interno di una comunità sociale. Quando cambiano gli ingredienti demografici e culturali di quella comunità, quando la sua stabilità entra in subbu-glio, quel che prima era senso comune diviene differenza, ancorché ascrivibile alla parte dominante. Questo non significa affatto che l’i-dea di qualcosa in comune debba essere lasciata cadere, abbandonata come un reperto del passato, ormai obsoleto e inadatto a un mondo nomade, in trasformazione, endemicamente ibrido e proteiforme. Affermazioni del genere enfatizzano la perdita di qualcosa, forse mostrandosi più conservatrici di quanto il frasario avanguardista/post-moderno non voglia mettere in mostra 27. Più semplicemente,

27 M. ricca, Norma, autorappresentazione identitaria, memoria culturale. Al-terità e storia nell’agire giuridico interculturale, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 2010.

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la trama di quel che è comune deve essere ricucita pazientemente, ricostruita giorno per giorno, posta sotto la lente d’ingrandimento e trattata con consapevolezza, a partire dalla traduzione/transazione tra nuove e vecchie differenze.

Solo dopo aver dato inizio a quest’opera di riscrittura del dire co-mune sarà possibile invocare tout court il rispetto delle regole come dispositivo di universalizzazione della soggettività sociale. Scambia-re la forma universalistica della regola per il suo contenuto universa-le non solo è ingiusto e mistificatorio, ma nel tradire smaccatamente le promesse della laicità fomenta l’insicurezza. Chi non si riconosce nelle leggi, e non può riconoscervisi, se ne sentirà sfrattato. Subirà il diritto senza esserne partecipe attivo. Questa condizione di amputa-zione psico-sociale costringerà gli appartenenti ai gruppi minoritari a evadere dalla sfera pubblica, in cerca di circuiti sociali più ospitali. La mimetizzazione delle differenze culturali nelle pieghe del privato, tra le oasi della libertà, sarà il corrispettivo di una fuga dalla sfera pubblica, dall’apparire ufficiale, e quindi anche dal controllo sociale. Circuiti subalterni od occulti e devianza, però, fanno presto a gemel-larsi, tramutandosi in un vero e proprio verme dentro la mela della sicurezza pubblica. L’enfasi sulle ‘regole per le regole’ deve dunque essere moderata con un sano senso di modestia culturale 28, peraltro ingrediente decisivo in ogni ricetta di laicità istituzionale. Chi non viene riconosciuto nelle connotazioni della sua soggettività all’inter-no del discorso pubblico, inevitabilmente non riuscirà a riconoscersi nella legge. Ma questa evenienza inaugurerà la sua emigrazione dallo spazio istituzionale, dal vivere comune. Per gli immigrati di altra cultura può parlarsi di una contro-emigrazione psicologica dal paese di accoglienza, apparentemente muta, silenziosa, ma per questo tanto più allarmante.

Parlo di allarme non soltanto per evocare il pericolo della delin-quenza marcata straniero. Al contrario, l’estraneità della regola di legge, la non universalità dei suoi contenuti, finiscono per sganciare

28 A. saJó, ed., Human Rights with Modesty: The Problem of Universalism, Mar-tinus Nijhoff Publishers, Leiden/Boston, 2004.

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dalla tutela istituzionale soprattutto i soggetti più deboli, coloro che all’interno delle comunità migranti o nei circuiti della diversità re-ligiosa e culturale tendono a subire la forza, il potere condizionante dei prepotenti. La regola generale, ma di parte, la legge dei più for-ti che infligge la propria universalità, creano sfiducia e subalternità, ghettizzazione e disaffezione. Generano esse stesse l’ombra che im-pedisce alle istituzioni di vedere, di forare la coltre di oscurità che ammanta l’ingiustizia, la prevaricazione, lo sfruttamento. Chi sa di perdere in partenza, sempre e comunque, non va dal giudice 29. Sa in anticipo che non verrà compreso o comunque se ne convince in-vincibilmente, perché schiacciato dalla sorda potenza di regole che esigono obbedienza, ma non ascoltano.

4. Diversità, democrazia e sovranità interculturale

Ma perché gli stranieri o comunque le minoranze dovrebbero ave-re il diritto di essere riconosciuti nella legge e non solo di fronte a essa? Perché, con i loro indici culturali, dovrebbero comprimere lo spazio degli autoctoni? Non è già tanto che vengano accolti o tolle-rati? Che si conceda loro di violare il cerchio sacro della sovranità territoriale o di articolare la voce della dissidenza nel privato? In fondo nessuno li ha costretti a venire. E per le minoranze autoctone varrà pure la necessità di rispettare la volontà della maggioranza! La libertà, assicurata a livello costituzionale, non è già una sufficiente valvola di salvaguardia? Perché la sfera pubblica non dovrebbe esse-re lo spazio proprio del senso comune – quello della maggioranza?

Questa batteria di domande, peraltro diffusissime nell’opinione pubblica, ha due risposte secche: riflessività democratica e respon-

29 M.-C. foBleTs, Mobility versus Law, Mobility in the Law? Judges in Europe are Confronted with the Thorny Question ‘Which Law Applies to Litigants of Mi-grant Origin’?, in F. Von Benda-BeckMann, k. Von Benda-BeckMann, a. GriffiThs, eds., Mobile People, Mobile Law. Expanding Legal Relations in a Contracting World, Aldershot, Ashgate- Burlington, 2005.

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sività delle istituzioni. Negli assetti democratici il presupposto di le-gittimazione delle norme e dello stato stesso risiede nell’idea che le leggi siano riflessive, cioè vincolino e beneficino tutti, tanto gli autori di esse quanto i destinatari. Nessuno può essere esente dalla legge. Ma ciò è possibile, in termini effettivi, soltanto se le leggi rappresen-tano tutti e gli interessi di tutti, gruppi dominanti e gruppi minoritari. E questo significa che le istituzioni devono essere responsive rispetto ai bisogni, alle convinzioni, agli indici culturali di tutti.

Se vengono meno riflessività e responsività la democrazia rischia di tramutarsi in una dittatura della maggioranza, ben lontana dall’i-dea di sovranità popolare. Per intendersi, la maggioranza potrà certa-mente operare scelte contrarie alle opzioni proposte dalla minoranza. Ma la soglia di preferenza non può compromettere radicalmente, fino agli aspetti fondamentali della soggettività culturale, la capacità degli individui di riconoscersi, d’iscrivere il proprio orizzonte esistenziale all’interno dei contenuti normativi. Pur nella diversità di opinioni, un plafond culturale comune deve essere creato, costruito e, quindi, mantenuto. Ma in una società multiculturale, questo plafond non po-trà che essere interculturale.

In caso contrario, come potrà affermarsi che le leggi, modellate e calibrate solo sulla cultura e sugli interessi della maggioranza (an-corché autoctona), rispettano l’ideale democratico della (tendenzia-le) coincidenza tra governanti e governati? Come potrà dirsi sorto dalla voce della sovranità popolare un ordinamento che ripete al suo interno solo gli schemi culturali, etici, religiosi di alcuni, negando radicalmente cittadinanza a quelli di altri? Il lessico della sovranità e quindi del diritto potrà dirsi democratico soltanto se esso riusci-rà a dimostrarsi (ponderatamente) equidistante, dunque inclusivo. Diversamente esso costituirà l’espressione non già di uno stato de-mocratico, ma di uno stato etico/etnico. Potranno anche sollevarsi mille obiezioni circa questa conclusione. Obiezioni di carattere utili-taristico, comunitarista, tradizionalista, religioso-identitario, etnico-territoriale. Oltre una determinata soglia, tuttavia, esse non potranno fare a meno che convertirsi in una negazione dell’ideale democra-tico/costituzionalista. Non v’è nulla di male (in senso assoluto) in

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tutto questo. Non si tratta certo di difendere il carattere sacro della democrazia. Si tratta di un sistema politico colmo di pregi, ma anche di difetti. Qualcuno potrebbe anche preferire un sistema teocratico. Nulla dimostra che la democrazia sia intrinsecamente buona o intrin-secamente migliore; discorso analogo può farsi per i diritti umani. E certo non è una dimostrazione della loro pregevolezza assiologica la circostanza storica che essi si siano affermati, che la storia (presente) ne abbia decretato l’affermazione o quantomeno la legittimazione su scala pressoché planetaria. La storia trabocca di ingiustizie auto-revoli 30. Che qualcosa esista e sia diffusa non è affatto garanzia di bontà. Fatti e valori non sono nettamente disgiungibili, nonostante la speculazione filosofica si sia a lungo esercitata sul loro divorzio. Ma questo non significa nemmeno che i fatti, presi nella loro brutalità, siano valori, che l’esistente vada venerato o mantenuto integro.

Quel che sto provando a porre in evidenza è solo l’impossibilità di definire uno stato democratico e fondato sulla sovranità popolare se le sue leggi non integrano la diversità culturale, non sono inclusive. In un assetto democratico/costituzionale, la sovranità non può che essere interculturale proprio perché è popolare, espressione di tutto il popolo. Declinare la democrazia fondandola su un asse di fedeltà a un codice etico o etnico/culturale significa semplicemente negar-ne il presupposto: «una testa, un voto», ovvero il principio fondante dell’autonomia individuale 31.

Tutti quelli che sono soggetti alla legge devono poterne essere autori, almeno in via potenziale o immaginaria. Questo è l’optimum democratico, la versione statica e radicale della democrazia. Il prin-cipio deve ovviamente conoscere alcuni temperamenti, altrimenti ri-schierebbe di commutarsi in una dittatura della minoranza. L’unani-mità, se assunta come criterio di manifestazione delle scelte politiche funzionali alla produzione normativa, fornisce una sorta di strapotere

30 M.-B. deMBour, Who Believes in Human Rights? Reflections on the European Convention, Cambridge University Press, New York, 2006.

31 J. Tully, Strange Multiplicity. Constitutionalism in an Age of Diversity, Cam-bridge University Press, Cambridge, 1995.

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al singolo individuo. L’unico in disaccordo potrebbe impedire di ap-provare le leggi, di cambiare quelle vecchie o ritenute obsolete dalla ‘maggioranza meno uno’ della popolazione.

Ma diritto e politica vivono nella storia, la loro materia prima è il mutamento. Proiettata in senso diacronico, l’unanimità deve cedere il posto al criterio di maggioranza, per quanto possa apparire parados-sale, proprio in ossequio al principio di uguaglianza. È l’alternarsi possibile di maggioranze e minoranze, tra l’oggi e il domani, il modo d’incarnarsi del principio di uguaglianza attraverso il tempo. Ma quella possibilità richiede equidistanza, simmetria tra le parti sociali, tra gruppi dominanti e gruppi minoritari. Per questo, i contenuti delle leggi devono recare un nucleo di senso antropologicamente inclusi-vo, esprimere un ground di connotazioni della soggettività pubblica in grado di consentire a tutti di muoversi tra le pieghe del sociale e di concorrere alla costruzione di future maggioranze. In altre parole, nessuna maggioranza, ancorché si autoproclami garante della tradi-zione nazionale, di un verbo etnico unificante, può avere il diritto di cementare la propria condizione di supremazia, di impedire l’avvi-cendamento alla guida dello stato. In caso contrario, non si trattereb-be più di una maggioranza democratica. Quando ciò accadesse, il sistema sarebbe già tracimato oltre il solco della democrazia, debor-dando in una condizione di dispotismo culturale. Purtroppo, i mezzi a disposizione dei gruppi dominanti per imporre la propria la suprema-zia etica, economica e culturale sono moltissimi e straordinariamente efficaci, anche perché spesso occulti e mascherati all’ombra delle retoriche di potere. L’idea della cultura giuridica di un popolo, della sua unità e omogeneità, ne è un esempio eclatante. La differenza tra chi è qui da sempre e chi è arrivato da poco è uno degli argomenti preferiti da quanti intendono conservare lo status quo. La sua forza psicologica poggia, in fondo, sulla forza subliminale dell’adagio chi tardi arriva male alloggia. Ma questa idea, pure antropologicamente tutt’altro che banale, è incompatibile con la logica democratica.

La democrazia equivale a una forma di normalizzazione del muta-mento sociale, politico e culturale. Il suo asse di legittimazione giace nel consenso e nel processo del suo costante auto-rinnovamento. I

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prodotti normativi di uno stato democratico sono e devono sempre essere esposti al mutamento, alla rivalutazione, a un esame condotto dall’alto del presente e da quanti lo popolano nell’adesso. Di conse-guenza, creare primazie tra soggetti e tra contenuti normativo-culturali porrebbe in crisi tutto l’edificio democratico in modo irrimediabile 32.

Evidenziare la stretta connessione tra democrazia e contingenza ovviamente non significa che il potere decisionale debba e possa es-sere attribuito calibrandone la titolarità sull’istante, su situazioni ef-fimere. Le opzioni politiche sono candidate a trasformarsi in norme e le norme sono orientate a catturare il futuro. Esse distribuiscono doveri e benefici ponderando le situazioni pregresse e quelle a ve-nire. Vantaggi e costi devono essere dunque sopportati da tutti, e il loro prodursi, il momento in cui bussano alla porta, non è sempre sincronico, né di immediata realizzazione. Le leggi possono attribui-re nell’oggi vantaggi che dovranno comunque essere bilanciati da sacrifici nel domani; e viceversa, i sacrifici attuali potranno dimo-strarsi fruttuosi solo a distanza di tempo. La titolarità a partecipare ai processi di integrazione politica democratica, insomma, deve essere calibrata, almeno in parte, anche sul fattore tempo, sulla permanenza, su un coefficiente di stabilità demografica. Diversamente, chi oggi c’è, perché arrivato da poco e già in procinto di andar via, avrà tut-to l’interesse a massimizzare i vantaggi immediati, scaricando sugli altri, su coloro che resteranno, i costi delle scelte legislative. Ma ciò precipiterebbe i processi decisionali in una condizione di paten-te ineguaglianza. Lo straniero, dunque, potrà partecipare al gioco democratico, esigere una riconformazione in chiave inclusiva e in-terculturale delle assi culturali della soggettività giuridica e sociale, solo a condizione di essere stabilmente partecipe del popolo sovrano. E benché nella vita degli uomini non vi sia nulla che possa essere ascritto alla categoria del sempre, bisogna comunque che la presenza degli stranieri fornisca alcuni indici probabilistici di stabilità.

32 M. ricca, Democrazia e cultura. Uguaglianza, pluralismo, interculturalità. Una retrospettiva sulle trasfigurazioni del soggetto nel prisma della legge, in id., Dike meticcia. Rotte di diritto interculturale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008.

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Ancora una volta, il tempo, in questo caso passato, può in qualche modo fornire un’indicazione. Partecipare ai processi democratici, esercitare la cittadinanza politica, può legittimamente esigere, come suo prerequisito, che i sopravvenuti dimostrino di voler rimanere. Fermo restando che il risiedere in un paese da almeno dieci anni (come attualmente richiesto dalla normativa italiana e indicato quale limite massimo per il diritto a richiedere la cittadinanza dalle norma-tive europee) non dimostri affatto che poi non si possa decidere di migrare; considerazione, del resto, che vale anche per chi in un paese è nato e vissuto da sempre.

Credo sia da ribadire che non vi è nulla di etnico o tradiziona-lista nel porre uno sbarramento di tipo temporale/demografico alla partecipazione ai processi di integrazione politico-democratica. Vi-ceversa, quel limite risponde a un’esigenza egualitaria. La stessa esi-genza che induce ad affermare la necessità di una democrazia laica, equidistante dalle diversità culturali presenti nella platea sociale ed espressione di una sovranità interculturale.

5. Tradizioni, religioni e vita comune

Ma perché declinare l’equidistanza culturale come laicità? La grammatica del pluralismo socio-politico e costituzionale sarebbe sufficiente, in fondo, a fondare la necessità di rapporti simmetrici, del mutuo riconoscimento e di istituzioni eque. Perché mischiare i piani della politica con quelli della religione? Non rischierebbe d’essere una scelta linguistica fuorviante, fonte di confusioni? Piaccia o non piaccia il termine laicità ha una connotazione storica ben precisa, che lo ancora alla libertà religiosa, alla lotta contro la teocrazia, all’affran-camento del pensiero moderno dalle maglie dei condizionamenti teo-logici. Benché animato da intenti pacificatori, il pensiero laico sgorga dalla faglia aperta da questi aspri conflitti, da irrisolte dicotomie, po-ste sotto controllo ma non neutralizzate dalla modernità occidentale.

A queste pur plausibili obiezioni va risposto che anche quando non ne parlasse, il pluralismo dovrebbe comunque fare i conti con il

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fattore religioso. Tacerlo, occultarlo, espungerlo dal linguaggio isti-tuzionale non farebbe certo svanire la religione dal circuito antropo-logico, dalla sfera di esperienza vissuta dagli individui presenti nei diversi contesti sociali. Che parlare di religione sia fonte di problemi, soprattutto per il discorso politico moderno, non autorizza a tacer-ne. Nel campo della politica e del diritto non può valere la massima wittgeinsteiniana per cui ciò di cui non si può parlare (senza ambi-guità o precisione) si deve tacere.

Nessuno, neanche un despota, può decidere fino in fondo di che cosa si deve tacere. La signoria sul linguaggio è un esercizio effime-ro, di facciata. I silenzi che essa può imporre si caricano di significato assai più delle parole interdette. A determinare questo vincolo, questa costrizione, è la circostanza che politica e diritto non sono esercizi di fantasia. Il potere non disegna a mano libera. Anch’esso sconta vincoli di possibilità, che si registrano innanzi tutto sul piano semio-tico e comunicativo, quindi sul terreno pragmatico. Se non rispettati, quei limiti si convertono in deficit di effettività delle istituzioni e delle norme da esse prodotte. Far finta che la religione non ci sia, non parlarne, rafforza il suo peso sociale, anziché tacitarlo. Questa è la lezione che la modernità secolarizzata ha dovuto apprendere, un po’ dovunque in Occidente.

Ma se è così, dipende da una circostanza curiosa, già in parte il-lustrata. Anche a voler tassativamente tacere di religione, il diritto ne parlerebbe comunque. Il linguaggio pubblico è intriso di passato, di tradizione. Non esiste abito comunicativo che non affondi le proprie radici in schemi di pensiero e di comportamento incorporati nell’a-gire delle persone in modo irriflesso ed ereditati dal passato delle comunità di appartenenza. Senonché nei percorsi della memoria col-lettiva tradizione e religione appaiono inestricabilmente intrecciate. Molti non sanno di sapere di religione, e di saperne molto; molti non hanno consapevolezza di reiterare attraverso i propri gesti quotidiani i significati di una tradizione religiosa. Così, quando il diritto scandi-sce la vita pubblica e privata delle persone adagia le proprie qualifi-cazioni su reti di senso comune traboccanti di questo sapere irriflesso e da esso modellati. Tra linguaggio giuridico/deontico e linguaggio

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comune non vi è però solo una relazione estrinseca. Nel regolare la vita, le norme e i fini da esse perseguiti si intrecciano e contaminano con le reti di significato, con le categorie del vivere comune. Del resto, gli stessi autori delle leggi fanno parte del mondo sociale che sono deputati a regolare.

Sul piano culturale, quindi, il dire giuridico compie comunque scelte di campo. E queste scelte solcano i tracciati di senso sedimen-tati dal sapere religioso. Gli incroci possono essere positivi, coope-rativi, ma anche conflittuali o egemonici. Parlando l’uno o l’altro dialetto culturale, le leggi finiscono per attivare reazioni ed echi di senso che disincagliano dalle tradizioni, dal sapere di fondo dei gruppi componenti le società multiculturali, la voce della religione e dell’appartenenza religiosa. La commistione tra lessici antropolo-gici e codici di fede può allora commutarsi in un motore politico. Sotto l’ombrello della libertà religiosa e della laicità dello Stato, gli attori della diversità culturale costruiscono le trincee della propria resistenza alla forza omologante del diritto statale, quando questo viene avvertito come espressione della cultura dominante. Accade così che la cifra religiosa si commuti in una sorta di passpartout del discorso politico/normativo poiché essa può funzionare come dispo-sitivo legittimo di rivendicazione, schiudendo le porte del confronto istituzionale alla differenza culturale.

D’altronde, la religione ha sempre rivendicato, almeno ragio-nando sulla base del codice genetico della modernità occidentale, una sorta di alternatività e concorrenza rispetto allo stato. Questa circostanza conferisce a essa una sorta di autorevolezza aprioristica e apicale, radicata in specifiche caselle istituzionali (ad es. la libertà religiosa) già esistenti nel linguaggio costituzionalistico e in grado di innescare dispositivi di tutela effettiva, come ad esempio il giudi-zio di legittimità costituzionale. Il punto di vantaggio offerto dalla possibilità di conferire alle rivendicazioni culturali una curvatura religiosa e l’intrinseco intreccio fra tradizioni, memoria personale e religioni, fanno il resto. Il risultato finale si condensa nel dover constatare l’attuale tendenza dei confronti e dei conflitti culturali a commutarsi in confronti e conflitti a base religiosa o che comunque

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trovano nella religione una sorta di plafond argomentativo e di le-gittimazione pubblica.

L’insieme di questi fattori fa sì che il complesso dei problemi posti dalle società multiculturali del presente non possa essere derubricato rispetto alla voce “laicità”. Al contrario, essi inducono ad affermare che la gestione del pluralismo culturale non può evitare di fare i conti con la promiscuità religiosa propria di ogni scelta di politica concer-nente le questioni poste dalla multiculturalità. Dunque, il diritto, cioè l’agenzia che più di tutte scandisce la quotidianità nelle sue pieghe più intime, deve misurarsi con la religione nascosta, silente, la stessa mi-metizzata negli abiti antropologici, nei gesti irriflessi, nel sapere non saputo dei soggetti di diritto. E solo a partire dai risultati di quest’o-pera di ricalcolo delle sfere di senso, dei confini semiotici tra vita co-mune e differenze culturali/religiose, potrà essere costruito un lessico del pluralismo costituzionale effettivamente in grado di pacificare i conflitti e di funzionare da piattaforma per la convivenza. Bisognerà, insomma, riattraversare i paesaggi narrativi descritti dalle tradizioni, dai loro bacini di significato, per poter tracciare una mappa comune della soggettività, un lessico inclusivo ed equanime della cittadinanza quotidiana e delle sue coordinate istituzionali e normative.

6. Lessico istituzionale e storia culturale

Ma perché è necessario uno sforzo in più per costruire un lessico istituzionale comune? La storia della modernità, e della modernità laica in particolare, non ha prodotto forse standard normativi rispon-denti a una ragione universale? Una ragione condensata in principi giuridici naturali perché appunto razionali e quindi ascrivibili alla natura umana? Libertà, uguaglianza, solidarietà, autodeterminazio-ne, quali assi del linguaggio giuridico democratico-costituzionale, non rappresentano forse standard neutri, adattabili o estraibili da qualsiasi cultura? E quando ciò non avviene, quei principi non rap-presentano rispetto alle culture refrattarie uno strumento di emanci-pazione e sviluppo degli individui che ne fanno parte? Considerare

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quegli standard come sorgente dei diritti individuali non equivale a supportare un’esperienza giuridica autenticamente laica?

La ricerca antropologica del XX secolo ha fortemente contestato l’universalità dei diritti umani. Ne ha sottolineato la matrice occiden-tale, la connotazione storica, il loro situarsi all’interno di una porzio-ne della storia e della geografia culturali dell’umanità. Di riflesso, ha sostenuto la loro relatività, sottolineando che essi costituiscono l’espressione di un’esperienza culturale situata nel tempo e nello spa-zio. Ancora, ha mostrato la pari dignità di tutte le culture e dei loro apparati etico-deontici, in quanto dotati di orizzonti di senso, non sempre commensurabili, ma non per questo privi di pregevolezza 33.

La ricerca antropologica ha fatto da motore e talvolta da portavo-ce alla critica politica. La modernità, affermano le voci critiche, ha utilizzato le conquiste dell’Illuminismo alla stregua di vele e canno-ni. Insieme al progresso tecnologico, essa ha esportato e utilizzato in modo strategico ed egemonico anche il discorso dei diritti. Conside-rati come la soglia antropologica dell’emancipazione umana dall’i-gnoranza, essi sono stati assunti quale architrave per la legittima-zione dell’azione coloniale. L’arrivo degli occidentali è stato dipinto come la chance storica, per le altre popolazioni del pianeta, di uscire da uno stato di minorità, d’infanzia culturale. Sotto la maschera del soccorso antropologico – una sorta di missione assegnata all’Occi-dente – si è legittimato il dominio, lo sfruttamento, l’esautorazione di intere popolazioni dalle loro terre, l’usurpazione delle loro ricchezze, talora persino lo sterminio etnico. Tutto vero. La modernità ha con-dito il progresso con il puzzo di morte disseminato con l’aratro del saccheggio spietato. Piaccia o non piaccia, è moderna la retorica del colonialismo.

Ma la storia non sta tutta (solo) qui. Quel che si è fatto, l’uso re-torico e mistificatorio della modernità, del suo arsenale etico e ideo-logico, non coincide con le sue potenzialità di senso, tanto meno con

33 K.M. clarke, M. Goodale, eds., Mirrors of Justice: Law and Power in the Post-Cold War Era cit.; S. enGle Merry, M. Goodale, eds., The Practice of Human Rights. Tracking Law Between the Global and the Local cit.

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il suo autentico significato. Che il fuoco possa essere utilizzato per incendiare, non lo priva intrinsecamente della capacità di riscaldare o di cuocere, cioè d’essere utilizzato per fini benefici.

La critica anti-moderna e anti-occidentalista ha sviluppato una corrente di pensiero animata dall’intento di valorizzare il carattere alternativo dei valori altri, ascrivibili alle altre civiltà, differenti da quella occidentale. Tra le molteplici declinazioni assunte da questo filone critico si annovera il movimento dei c.d. “Asian Values”. Ma la sua diffusione è stata tanto rapida quanto effimera. Rispetto alle battaglie condotte dalle popolazioni indigene – altra etichetta di cri-tica politica – gli Asian Values si connotavano per la compattezza e l’ampiezza geografico-culturale dei loro riferimenti. Non scevra da una sorta di stereotipizzazione alla rovescia, figlia dell’Orientalismo partorito dall’epoca coloniale e convertita in uno speculare Occiden-talismo, la difesa dei valori asiatici ha orbitato attorno alla centralità del momento comunitario, rispetto a quello individualistico, quale caratteristica peculiare e differenziante delle culture dell’Asia.

La contestazione del carattere eticamente catalizzante, epicentri-co, dell’individuo, conduce questa corrente di pensiero a una radicale contestazione dei diritti umani e della loro logica 34. Essi – si sostie-ne – assumono una connotazione antropologica individualistica e la spacciano come condizione umana universale. L’Oriente, il pensiero orientale, poggiano su una versione della soggettività del tutto diver-sa, dove le connotazioni dell’individuo sono il riflesso, e non l’asse dell’ordine comunitario, dei vincoli di solidarietà, dell’ordine etico considerato come riflesso di un ordine cosmico complessivo. Si trat-ta di obiezioni importanti, che pongono la versione occidentale dei diritti umani e la stessa modernità di fronte a un ineludibile impe-gno auto-riflessivo. Nello specchio dell’alterità, per quanto irrigidi-ta in formule troppo nette e costrette entro una logica oppositiva, il

34 J.R. Bauer, D.A. Bell, eds., The East Asian Challenge for Human Rights, Cambridge University Press, Cambridge, 1999; D.A. Bell, a.J. naThan, i. PeleG, eds., Negotiating Culture and Human Rights, Columbia University Press, New York, 2001.

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pensiero moderno è costretto a un’analisi retrospettiva, autocritica, a una sorta di prova di resistenza della sua asserita universalità. La dialettica con l’Occidente aperta dagli Asian Values, così come dai movimenti indigenisti, ha però alcuni difetti genetici, riconducibili complessivamente a una superficiale essenzializzazione delle con-notazioni culturali dei fronti culturali posti in conflitto 35. Nonostante questo, ha prodotto però alcuni effetti benefici.

Il progressivo smorzarsi della forza e del successo politico degli Asian Values ha coinciso con forme di revisione critica dei diritti umani e dei lessici costituzionalistico-democratici. Dal confronto, l’assetto semantico dei diritti umani è uscito trasfigurato. Esso ha dovuto abbandonare il suo apriorismo razionalizzante, aprendosi alla valutazione empirica degli usi discorsivi delle dichiarazioni dei diritti inaugurati e rivendicati dai non-occidentali. Nel superare la prova, come testimoniato dal mutato atteggiamento contemporaneo degli stessi antropologi, la cultura dei diritti umani ha dovuto porre in luce la sua valenza multiculturale, il suo porsi come piattaforma di articolazione per le soggettività altre, la sua capacità di auto-conta-minazione e traduzione culturale.

In effetti, a togliere i canini all’antagonismo predicato dagli Asian Values è stato un dato fondato sull’esperienza. Le popolazioni non occidentali hanno dimostrato di non intendere affatto rinunciare a valersi dei diritti umani. Di là dal fatto che essi siano universali in sé oppure no, che siano intrinsecamente giusti o parto di una storia segnata da colorature egemoniche, certamente il loro utilizzo onni-laterale non può essere trascurato o considerato privo di valore 36. Al contrario, la rilettura delle piattaforme enunciative e semantiche del discorso sui diritti umani può agevolarne la caratura universaliz-

35 R. niezen, A World beyond Difference: Cultural Identity in the Age of Global-izations, Blackwell, Malden-Oxford-Carlton, 2004.

36 J.K. cowan, M.-B. deMBour, r. wilson, Introduction, in ead., eds., Culture and Rights: Anthropological Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge, 2001; W. TwininG, Human Rights, Southern Voice: Francis Deng, Abdullahi An-Na’im, Yash Ghai and Upendra Baxi, Cambridge University Press, Cambridge, 2009.

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zante, intesa come processo in atto, come orizzonte e quindi come mezzo per mettere in moto la creazione dal basso di un linguaggio giuridico interculturale e cosmopolitico. Che nello scontro con gli Asian Values e con le altre truppe di relativisti i diritti umani abbia-no dovuto valersi della voce degli altri, di coloro che li invocano seppure a partire dal proprio punto di vista, rappresenta un inizio importante di un nuovo modo di intenderne il valore etico e normati-vo. In altre parole, per legittimarsi essi hanno dovuto abbandonare la propria auto-descrizione come punto di arrivo della storia, icona di una ragione eterna ed eternante. Viceversa, l’apertura all’esperienza, alla valutazione dei loro usi culturali alternativi, ne ha dimostrato il carattere strumentale, il porsi come mezzo per l’avvicinamento a un orizzonte sempre rinnovato di universalizzazione. In breve, può dirsi che i diritti umani oggi si avviano a essere intesi non più come l’es-senza dell’universalità, ma come motore semantico di un processo d’universalizzazione aperto all’inclusione delle diversità culturali 37.

Oggi si dice che i diritti umani e il loro gemello statale, i dirit-ti fondamentali indicati dalle costituzioni dei diversi paesi, devono essere interpretati con modestia, senza apriorismi o essenzializza-zioni 38. Questo significa che di essi va fornita una lettura inclusiva, recettiva delle diversità, delle reinterpretazioni culturalmente orien-tate. C’è però un’altra faccia della moltiplicazione prospettica dei significati attribuibili ai diritti umani. Mi riferisco alla circostanza che la loro universalità, proprio per essere autentica, deve dimostrare di potersi situare, cioè di adattarsi ai contesti. E qui, nonostante il mondo di oggi sia globalizzato, de-territorializzato, segnato da inter-dipendenze capaci di contaminare ogni circuito di senso articolato a livello locale, emerge in tutta la sua drammatica difficoltà il legame tra lessico istituzionale e storia nazionale.

Nel coniugarsi con i diversi circuiti politico-istituzionali, il di-scorso sui diritti umani inevitabilmente incrocia i lessici giuridici elaborati da ogni tradizione nazionale. In molti casi, ciò implica la

37 M. ricca, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale cit.38 A. saJó, ed., Human Rights with Modesty: The Problem of Universalism cit.

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necessità di una riscrittura di essi, soprattutto nei paesi che hanno conosciuto una recente conversione dei precedenti regimi in assetti politico-istituzionali ispirati al costituzionalismo democratico. Ma in Occidente le cose vanno in modo diverso, anche perché sono già andate in modo diverso. Molte democrazie occidentali sono coeve, quando non coestensive, all’invenzione del discorso sui diritti e alla loro implementazione a livello costituzionale. Questa coincidenza cronologica ha fatto sì che l’interpretazione dei diritti umani si sia fusa e cosviluppata assieme all’evoluzione dei testi legislativi e delle categorie del diritto comune. Ma queste, a loro volta, erano e sono cariche di storia e di cultura, e quindi anche di religione – ancorché questa rappresenti una presenza dissimulata, occultata dalla retorica della secolarizzazione moderna. Il situarsi dei diritti umani è certo una dimostrazione, e non una negazione della loro universalità. Tut-tavia, nel comporre i loro significati all’interno del paesaggio seman-tico del diritto comune, essi hanno finito per assumere connotazioni culturalmente orientate. Niente di male, ribadisco. A patto però di non considerare queste riletture in chiave prototipica, scambiando le versione locali dell’attuazione e dell’interpretazione dei diritti umani per loro forme essenziali, prototipiche. Peraltro, questa non è soltanto un’ipotesi astratta, una mera possibilità. Si tratta invece di un pericolo grave, che ha già prodotto risultati nefasti anche sul piano interna-zionale. L’aver sperimentato il discorso dei diritti umani in casa pro-pria ha spesso condotto gli occidentali a voler esportare una versione provinciale della loro potenziale universalità. Essi hanno confuso le modalità di attuazione con il significato assoluto, scambiando l’uni-versalità con l’identico a sé e trasformando la propria storia in un modello cosmopolitico. Tutto ciò ha provocato veri e propri disastri politico-antropologici, generando una profonda disaffezione delle popolazioni extra-occidentali rispetto al discorso dei diritti. Se poi si coniuga tutto ciò con le strumentalizzazioni operate dalla modernità a scopo egemonico, si comprende bene quale sia la matrice dell’ostilità dimostrata in altre culture rispetto al vessillo dei diritti, sbandierato dall’Occidente come simbolo della propria azione salvifico-planeta-ria e quale asse di legittimazione delle istituzioni sovranazionali.

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Ma i problemi e i motivi di polemica non si esauriscono qui. Le migrazioni contemporanee trasferiscono la dialettica sui diritti umani anche all’interno degli stati, mettendo in discussione il complessivo assetto dei rapporti tra autorità e libertà disegnato dallo scacchiere internazionale. La presenza degli altri, di persone di diversa cultura all’interno dei contesti nazionali occidentali genera una crisi interna nelle modalità di declinazione nazionalistiche dei diritti umani. Il bi-nomio ‘uno stato/una cultura’, per quanto artificioso e discriminante nei confronti delle stesse minoranze autoctone, tende oggi a perdere plausibilità. L’effetto è che le forme di universalizzazione situata, di localizzazione della logica dei diritti, vengono oggi sottoposte a critica. La fusione fra tradizioni giuridiche locali e diritti umani e/o fondamentali viene contestata dall’interno, dai soggetti che coabita-no con gli autoctoni sul territorio nazionale, ma agiscono culture e tradizioni differenti, venute da lontano.

In questa condizione scambiare le universalizzazioni storiche lo-cali, le attuazioni dei diritti umani e costituzionali per il prototipo dei diritti umani stessi, per l’essenza inverata dei loro significati poten-ziali, rischia di aprire fronti di conflitto irrisolvibili e soprattutto di compromettere la fiducia nel potenziale universalizzante del discorso sui diritti. L’incapacità di risolvere i confronti tra culture all’inter-no delle democrazie multiculturali è carica degli errori del passato come del presente, dei tentativi di esportare forzosamente non solo la logica dei diritti, ma anche l’intero lessico giuridico occidentale, le sue categorie, il suo sostrato antropologico-religioso, artatamente camuffato e spacciato per razionale, neutro, a-culturale. Il carico di questi errori promette di trovare un’eco di rimbalzo negli irrigidi-menti etnico-nazionali, nel rifiuto di mettersi al lavoro per elaborare all’interno delle democrazie multiculturali un lessico giuridico inter-culturale, con la conseguenza di riproiettare questi conflitti sul piano internazionale, sulla stampa planetaria goduta dal discorso sui diritti.

L’opera di riconversione interculturale dei lessici giuridici na-zionali è però ardua e richiede l’auto-distanziamento dei gruppi dominanti dalla propria cultura, la presa di coscienza del carattere culturalmente relativo non solo delle proprie interpretazioni dei di-

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ritti umani, ma ancor prima delle categorie di fondo della propria esperienza giuridica. A tutto questo, poi, deve unirsi il senso di re-sponsabilità e la capacità di comprendere la necessità di rimettere in discussione quelle categorie, di esporle a forme di traduzione e transazione interculturale. È un passo ineludibile e propedeutico a una riformulazione in senso interculturale, e quindi autenticamente universalistico, dell’interpretazione dei diritti umani e dei diritti co-stituzionali in sintonia con le esigenze di equanimità, equidistanza istituzionale e di laicità delle società multiculturali.

Si tratta di un’operazione difficile, anche dal punto di vista psi-co-cognitivo. È davvero complicato far comprendere a popolazioni autoalimentate dal mito della propria avvenuta secolarizzazione che i propri lessici giuridici e il gergo della quotidianità sono entram-bi intrisi di tradizione e religione. Ancora oggi, lascerebbe molti al-quanto sconcertati l’asserire che senza il sapere di fondo di matrice cristiana i codici civili e penali occidentali sarebbero in molti casi incomprensibili o comunque soggetti a modalità interpretative stra-ordinariamente distanti dal diritto vivente. Eppure è un’affermazione immediatamente verificabile solo che ci si confronti con le comu-nità di stranieri presenti sul territorio, provando a esplicitare a essi i significati impliciti, il non-detto, le parti mute del diritto dei paesi occidentali. Si prenda come esempio l’ordinamento italiano. Dalla definizione di matrimonio, al concetto civilistico di buona fede o di equità contrattuale, dall’idea di responsabilità e di colpevolezza penalistiche fino al rapporto tra persona, individuo e corporeità im-plicito nelle forme della capacità e soggettività giuridiche, si è di fronte comunque a categorie profondamente impregnate dall’imma-ginario antropologico-culturale del cristianesimo. E questo è vero anche quando si analizzino istituti, come il matrimonio, fortemente investiti dai processi di secolarizzazione. Ne è riprova l’incapacità del divorzio, pure introdotto in Italia da un quarantennio, di scalfire il modello etico di convivenza tra uomo e donna implicito nel tes-suto normativo. Ciò, si badi, nonostante la prassi sociale tenda ad allontanarsene, per le vie di fatto, sempre più intensamente, seppure in modo contraddittorio (se è vero che la gente preferisce convivere

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anziché sposarsi, non si possono tacere le pressioni dei conviventi per ottenere a livello giuridico garanzie analoghe a quelle offerte ai coniugi legali; o persino la rivendicazione delle coppie omosessuali di poter accedere al matrimonio legale).

La lettura interculturale dei diritti umani, esito straordinariamente promettente della dialettica con gli Asian Values e con i c.d. “In-digenous Rights” 39, incrocia la necessità di rieditare le culture le-gali nazionali conferendo a esse la medesima curvatura dialogica, transattiva. L’operazione chiama in gioco la laicità a un livello di profondità antropologica mai sperimentato prima. Essa è sollecitata a immergersi sino alle profondità culturali della religione nascosta, degli schemi di pensiero dotati di ascendenza fideistica e mimetizzati all’interno del linguaggio comune e del suo corrispondente legale. È la caratura cosmopolitica del discorso sui diritti umani a richiederlo, trasferita sulle spalle dei migranti che oggi rivendicano, sulla base di quegli stessi diritti e della logica democratica, la conversione del lessico delle sovranità nazionali dei paesi di accoglienza in quello di altrettanti circuiti di sovranità interculturale.

7. Diseguaglianze occulte e laicità asimmetrica

Ogni sistema giuridico ha il proprio linguaggio. Nel linguaggio della legge si riflette la storia, la tradizione di un popolo. Così la di-mensione normativa si fonde e confonde spesso con quella descritti-va. Come il mondo deve essere e come è sono aspetti almeno in parte coincidenti. E questo slittamento semantico non è altro che il riflesso di quella coincidenza, del lento scivolare dei valori nell’effettività. I testi legislativi sono per lo più coniugati all’indicativo presente. Le categorie del diritto vengono esplicitate negli stessi enunciati nor-mativi come fossero oggetti, fenomeni esistenti. Il contratto è…, la vendita è…, sono solo esempi paradigmatici di un uso linguistico comune. Naturalmente quel ‘è’ significa un ‘deve essere’. Al tempo

39 A.J. connolly, ed., Indigenous Rights, Ashgate, Farnham-Burlington, 2009.

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stesso, però, la sostituzione tra essere e dover-essere va considera-ta come la traccia di un fenomeno latente e diffuso. In molti casi, la forza conformatrice delle norme più risalenti si è già consumata, assestata e sedimentata nell’uso sociale. Questo però è solo uno dei volti della stretta implicazione tra vivere sociale e strati normativi, tra la comunicazione quotidiana e il discorso istituzionale.

Il diritto è un fatto sociale non solo in forza del reificarsi della sua forza conformativa, quindi della sua capacità di produrre e imporre abiti di comportamento. In buona parte è anche vero il contrario. Vale a dire che esso è espressione di un accadere sociale, proiezione di valori che dal punto di vista istituzionale costituiscono l’essere della società, prima ancora che il suo dover essere. Il diritto poggia pesan-temente su queste dimensioni fattuali, che sono poi il manifestarsi storico-concreto della cultura di ogni comunità. Senza un simile sup-porto pragmatico e cognitivo l’effettività delle norme sarebbe un’im-presa a scarso coefficiente di probabilità. Ma c’è di più. Quel che accade spontaneamente, e che il diritto presuppone anche in ordine alla propria legittimità, non coincide solo con quanto viene esplici-tamente ordinato. Nel suo discorso, ogni legge, ogni atto normativo, dà per presunti gli oceani di significato sui quali poggia la forza in-giuntiva del comando, la molla propulsiva dei fini intrinseci a ogni obbligo imposto dalle istituzioni. Senza i paesaggi di senso prodotti dal sapere culturale, ordini e fini rimarrebbero incomprensibili, come frammenti isolati dal proprio contesto di senso. Le loro implicazioni pragmatiche sarebbero indecifrabili, affogate in una palude di ambi-guità e polivalenze semantiche. Nell’imporsi, quindi, il diritto pre-sume un mondo, un mondo dei fatti, che è però solo il riflesso di opzioni culturali, di categorie cognitive, condivise da una comunità di parlanti. Ma è proprio su questo oceano di continuità comunicative che si abbatte, come un ciclone, la diversità culturale 40.

Di fronte allo straniero, i diritti nazionali disegnano percorsi tra-boccanti di diseguaglianze occulte. Le leggi presumono conoscenze

40 M. ricca, L’ombra del diritto. Le ‘parti mute’ dell’agire sociale e la traduzio-ne interculturale, in “E/C, Rivista italiana di studi semiotici”, 2011.

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non possedute da chi è un nuovo arrivato. E quelle presunzioni ven-gono articolate come se il loro oggetto, il sapere tacitamente attribui-to all’altro, costituisse nulla più che un dato oggettivo, una sorta di coefficiente antropologico universale, invece che il riflesso di una specifica tradizione culturale. Chi non fosse in possesso di esso, di-mostrerebbe dunque d’essere incapace d’intendere e di volere, non in grado di vedere le cose come esse sono 41 – questa la convinzione tacita posta a base dell’agire istituzionale autoctono. In molti casi si tratta di una pretesa infondata e come tale fonte di ingiustizie. Ma non basta. Donare implicitamente evidenza alle proprie categorie culturali si commuta in una sorta di naturalizzazione e, in questa ve-ste, anche di ontologizzazione assiologica delle opzioni, dei giudizi a esse soggiacenti. Come a dire, in termini più diretti, che il pro-prio modo di vedere viene scambiato per quello naturale, e in quanto naturale come intrinsecamente buono 42. Questo modo di ragionare, tanto apparentemente opinabile, quanto difficile da cogliere come proprio atteggiamento, si traduce in uno sbarramento all’alterità cul-turale, alle ragioni di chi è diverso da noi, alla dequalificazione dei suoi alternativi schemi di giudizio. Il potere dei gruppi autoctoni, la loro condizione di dominanza fa il resto, corroborando come verità assolute semplici possibilità e opzioni culturali. L’intreccio tra di-ritto e schemi cognitivi, tra dover-essere e fatti sociali, genera così diseguaglianze destinate a rimanere occulte, non percepite come tali dagli autoctoni e spesso neutralizzate o peggio legittimate, e quindi normalizzate, dalla retorica della sovranità nazionale.

Questa situazione diviene particolarmente sintomatica e per molti versi paradigmatica di un vero e proprio paradosso diffuso in mol-te democrazie contemporanee allorché la diversità culturale viene iscritta sotto la rubrica della libertà. Nonostante il riconoscimento or-mai affermato dei c.d. “diritti delle culture”, è ancora difficile artico-lare una contestazione rispetto alle forme imperanti della soggettività

41 M. Jackson, ed., Things as They Are: New Directions in Phenomenological Anthropology, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis, 1996.

42 M. ricca, Natura implicita e natura inventata nel diritto cit.

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giuridica a partire dalle proprie, semplici opzioni culturali. Strada assai più rapida ed efficace, almeno nei paesi occidentali, è rappre-sentata dalla rivendicazione delle proprie prerogative culturali sotto l’etichetta del culto, della libertà religiosa. Su questo fronte i profili tradizionali della laicità dello stato, intesa come gemello della libertà religiosa, e quelli coincidenti con l’equidistanza rispetto alle diversi-tà tendono a fondersi e confondersi per ragioni tutt’altro che banali. Per poter illustrare i motivi profondi di questa commistione bisogna però muovere da una constatazione piuttosto scomoda, ovvero che in molte democrazie la laicità è oggi assicurata in modo asimmetrico, perché asimmetrico è il modo di tutelare la libertà religiosa.

Ma in cosa consiste e da cosa dipende questa asimmetria? Le sue radici si intrecciano con la parzialità dei processi di secolarizzazione che hanno accompagnato l’affermarsi della modernità occidentale 43. Il lessico giuridico delle democrazie d’Occidente si presenta come razionale, teologicamente neutro, avulso da coloriture di marca fidei-stica. Tuttavia, come già segnalato, la sua semantica e l’immaginario antropologico soggiacente alle sue categorie sono intrisi di rimandi alla cultura cristiana. La religione, intesa in senso antropologico, si mimetizza nel lessico culturale attratto all’interno del discorso giu-ridico. Dato, peraltro, per nulla scandalizzante. In effetti, la neutra-lità del discorso laico è un mito, poiché ipotizza un grado zero di conoscenza, uno sguardo gettato da nessun luogo. Ma, ovviamen-te, si tratta di una condizione impossibile da conquistare, almeno in assoluto. Vero è invece che il sapere religioso si confonde con la razionalità culturale, finendo così per apparire alle singole comunità di parlanti come parte integrante della ragione e dei fatti da essa de-scritti. Visto dall’interno, il discorso giuridico può anche apparire del tutto scevro di connotazioni religiose, poiché il suo dire coincide con i territori dell’ovvio, del culturalmente condiviso, lì dove l’immagi-nario religioso si confonde con il mondo della vita comune. È solo

43 C. Taylor, La modernità della religione, Meltemi, Roma, 2004; id., L’età se-colare, Feltrinelli, Milano, 2009; P. cosTa, Religione, modernità e secolarizzazione, in C. Taylor, La modernità della religione cit.

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quando la diversità religiosa o culturale entra a far parte dei circui-ti vitali, quando varca i confini disegnati dalla sovranità territoriale degli stati-nazione, che l’ovvio tradisce le sue ascendenze storiche, il suo pedigree culturale e inevitabilmente anche religioso. Sono gli occhi degli stranieri, soggetti al diritto dello stato di accoglienza, le cineprese più affidabili nel registrare simili genealogie ideali. Ma questo non perché lo straniero possieda maggiori abilità cognitive; piuttosto, semplicemente perché il suo scrigno di ovvietà non com-bacia con quello di chi lo accoglie.

Quando l’implicito, il sottinteso, l’agito in modo irriflesso, entra in rotta di collisione con la realtà, allora è indispensabile, quanto automatico, ricorrere alla memoria, alla propria storia, in cerca di assi di legittimazione, di sicurezze identitarie 44. Quando il mondo ci dice «no», è allora che ci chiediamo chi siamo e da dove veniamo, qual è il nostro (legittimo) posto nel paesaggio quotidiano, ovvero nel nostro attuale ambiente di vita. Quando lo straniero impatta con il diritto italiano, ammesso che riesca a comprenderne sia lo strato esplicito, sia quello implicito, le sue parti mute, si ritrova appunto alle prese con il codice cifrato di un mondo che dice «no» alle sue ovvietà, ai suoi abiti d’origine. Nel fuoco di questo rifiuto, scoprirà presto la propria differenza e proverà a tracciarne l’etichetta, l’identi-kit, o comunque una connotazione che la renda riconoscibile e assio-logicamente pregevole (quantomeno ai suoi occhi). Le religioni, in questi casi, si dimostrano prodighe di soccorsi. Esse fungono da casa immaginaria, offrendo alla mente in cerca di sicurezza interi arsenali di certezze, immensi bacini di significato, nobilissime genealogie. Nello specchio della propria religione tutti riacquistano, in quanto militanti e appartenenti, la dignità in qualche modo negata, declassa-ta dal discorso articolato dai gruppi dominanti o dalle leggi dei paesi di accoglienza. Per converso, nello scoprire la matrice religiosa delle proprie ovvietà si fa presto a proiettarsi in modo speculare in quelle altrui. Accade così che il discorso laico, neutrale, razionale, del dirit-to delle democrazie occidentali improvvisamente si orni dell’ombra

44 M. ricca, Norma, autorappresentazione identitaria, memoria culturale art. cit.

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del crocifisso. A questo punto l’ebbrezza della demistificazione fa il resto, alimentando la tendenza a rappresentare la differenza culturale in chiave confessionale/fideistica, e quindi come libertà religiosa.

L’asimmetria della laicità praticata nelle democrazie occidentali non è però solo una rappresentazione che scaturisce da dinamiche psico-culturali. In effetti, le continuità di senso tra lessico giuridico nazionale e ascendenze etico-culturali di matrice cristiana relativiz-zano molto l’estraneità del fattore religioso rispetto alla sfera pubbli-ca. Le istituzioni moderne si sono auto-costruite e auto-legittimate a partire dalla polarità stato/chiesa, parallela al dualismo tra ragione e religione. Agli albori della modernità occidentale, queste scansioni costituivano il riflesso di conflitti socio-politici tra apparati religiosi e istituzioni secolari che si contendevano il campo per la legittima-zione del proprio potere. Lo scontro venne affrontato e parzialmente risolto mediante una delimitazione di aree di competenza. La sfera pubblica venne distinta dalla sfera privata, e a fare da agente di do-gana tra i due domini venne posta l’idea di libertà individuale. In questo scenario, lo Stato radicava la propria legittimazione nel con-senso originario dei governati, il mitico contratto sociale. I cittadini tuttavia mantenevano di fronte all’autorità il diritto di declinare la propria sfera privata in modo libero. Il fronte della libertà religio-sa, insieme alla proprietà, costituì il primo percorso di rodaggio per questo nuovo dispositivo di organizzazione antropologico-politica. Sempre che la storia possa avere torto (e io non posso non credere di sì, benché sia impossibile dimostrarlo poiché le strade non percorse, perciò stesso, possono apparire tutte lastricate d’oro), dimostrò in questo caso di avere ragione. Diritto e religione, sfera pubblica e sfera privata, dominio delle istituzioni statali e regno della fede, si divisero il campo e, tra alterne contrapposizioni, riuscirono da allora a trovare una formula di convivenza.

Sarebbe però ingenuo pensare che la scansione pubblico/privato e quella parallela diritto/religione abbiano avuto come proprio ar-chitrave una reale rottura antropologica, una frattura epocale consu-mata sino alle radici del senso comune, della cultura comunitaria e individuale. Tra lessico giuridico e lessico religioso rimasero molte

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continuità, occultate dalla rivisitazione in chiave razionalistica dei principi travasati attraverso il lavorio della Seconda Scolastica e del giusnaturalismo dal piano della teologia morale cristiana a quello del diritto naturale/razionale. I cristiani potevano così obbedire a prin-cipi di convivenza dettati dalla ragione, ma in moltissimi aspetti del tutto continui e commensurabili con gli imperativi dettati loro dalla morale cristiana. Lungo la linea d’orizzonte che divideva pubblico e privato, ragione e religione, il cielo e la terra si confondevano.

Questo straordinario artificio retorico fece salvo il patrimonio antropologico generato dalla cultura cristiana pur se all’ombra di un divorzio epocale tra religione e politica, adottato come strategia di pacificazione sociale. Ciascuno rimaneva libero di credere nel proprio dio privato, obbedendo nella sfera pubblica ai principi di condotta dettati dal dio comune, il dio di tutti i cristiani, travestito da Stato o da diritto naturale. D’altronde, che cattolici, anglicani, luterani, calvinisti, e persino ebrei europei, tra loro non intendes-sero in modo molto diverso la grammatica etica del contratto, del matrimonio, del diritto successorio, delle forme di tutela penale e di reato, costituiva un dato di fatto. Bastava mutare la marca di queste ovvietà culturali, sostituendo a dio la ragione, e sarebbe cessato per ciò stesso il motivo per rivendicare l’appartenenza teologica di que-ste categorie. Un’appartenenza infranta, fatta a brandelli, contestata dalle lotte confessionali 45.

Il risultato di questi processi di riedizione discorsiva di vecchie verità fu di straordinaria efficacia. Consentì di articolare la retorica del progresso, e non solo la retorica, senza tagliare i ponti con il passato sul piano della vita quotidiana, degli abiti di comportamento effettivamente tenuti dalla gente, del comune sapere implicito. Alte-rare radicalmente i gangli profondi delle mentalità pratiche sarebbe stata un’opera ciclopica, oltreché impossibile sul piano storico. Letti retrospettivamente, i contorni netti della modernità sfumano quin-di nelle mezze tinte. Ma sono proprio queste che oggi si rivelano un problema. Da vantaggio strategico in seno ai tornanti della storia

45 P. Prodi, Una storia della giustizia cit.

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d’occidente, esse si sono tramutate in un grave problema nel fuoco del confronto con le altre culture.

Le continuità del diritto attuale dei paesi occidentali con l’antro-pologia cristiana rende la libertà degli altri, e la libertà religiosa in particolare, meno che uguale. Mentre un cristiano trova appunto fa-cilità di traduzione tra il proprio linguaggio religioso e quello giuri-dico statale, almeno sul piano dei comportamenti pratici, al contrario lo straniero ha grande difficoltà nel travasare la semantica della sua libertà e della sua fede nei circuiti discorsivi della sfera pubblica. La sfera privata dell’altro, del non cristiano, non ha la possibilità di estendersi, di proseguire lungo una pista di commensurabilità e di continuità di senso all’interno della sfera pubblica organizzata dalle istituzioni democratiche dello Stato. A differenza del cristiano, egli non troverà rispecchiati i propri codici culturali, etici e religiosi nel-le trame del linguaggio normativo, nel lessico istituzionale e nella sintassi della vita pubblica. La storia non gioca dalla sua parte. Di conseguenza, l’enciclopedia della sua soggettività sarà costretta a comprimere i propri indici culturali e religiosi all’interno di una sfera privata troppo esigua, perché calibrata sulle assai minori necessità di declinare la propria diversità da parte del cristiano. Tutti i «no» che il codice culturale del discorso giuridico pubblico pronuncia all’in-dirizzo dell’altro si convertiranno in un tentativo inevitabilmente inane da parte sua di esprimere nella sfera privata gli imperativi, le implicazioni, le proiezioni pratiche che a vasto raggio cultura e re-ligione disegnano all’interno del suo vivere quotidiano e nelle sue relazioni pubbliche. A conti fatti, quindi, il non cristiano straniero potrà esercitare una libertà amputata, difettiva, rispetto all’autoctono cristiano. E questo non perché egli sia oggetto di esplicite discrimi-nazioni (peraltro non assenti). A fare la differenza sarà l’indifferenza del linguaggio giuridico dello Stato rispetto alla sua non-cristianità. Un’indifferenza che ha come alibi la fittizia neutralità religiosa della ragione giuridica moderna.

Porre rimedio a questa situazione significa rileggere la storia oc-cidentale. Ancor prima, esige che nel compiere questa impresa gli occidentali cristiani accettino di prendere le distanze da se stessi. La

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posta in gioco, che è anche una poderosa sfida epocale, è la riscrittura del lessico dell’uguaglianza. Un lessico indispensabile a far articola-re una laicità simmetrica, che per essere tale dovrà necessariamente emergere da uno sforzo di traduzione/transazione interculturale della grammatica degli indici delle soggettività presenti nel contesto so-ciale multiculturale e multireligioso. Si tratta di uno sforzo enorme, innanzi tutto sul piano dell’antropologia politica. Perché esso possa articolarsi su uno sfondo di consenso è necessario che i popoli consi-derino esaurita la fase degli stati nazione, intesi non tanto come unità di potere territoriale, quanto piuttosto come circuito etnico-culturale omogeneo ed esclusivo.

8. Ortoprassi culturali e grammatica dei diritti

Le culture contengono enciclopedie di saper fare, istruzioni per l’uso della vita nelle sue relazioni con l’ambiente umano e naturale. Ciascuna esprime e trasmette ricette differenti. Ogni ricetta descrive i confini immaginari di un mondo. Non si tratta ovviamente di mondi chiusi, reciprocamente non comunicanti. Il pianeta Terra ospita mol-te culture, quindi molti mondi culturali. Il suo spazio funziona come una piattaforma di interazione e traduzione tra di essi. Nessun mon-do è puro, totalmente originario, auto-prodotto. Ciò nonostante, pur nei flussi di comunicazione, si creano circuiti di senso dotati di una relativa idiomaticità. Quanto proviene dall’esterno viene assorbito e vernacolarizzato, cioè reinterpretato e adattato alla dimensione loca-le. In un certo senso potrebbe dirsi che viene naturalizzato. Persino la globalizzazione, condizione comune dell’esperienza umana con-temporanea, è oggetto di processi di naturalizzazione 46. Il globale, oltre che subìto, viene reinterpretato, rilavorato e quindi restituito al circuito planetario. Il processo funziona come un alternarsi tra dia-stole e sistole lungo un flusso ininterrotto di comunicazione tra locale

46 M. ricca, Riace, il futuro è presente. Naturalizzare il «globale» tra immigra-zione e sviluppo interculturale, Dedalo, Bari, 2010.

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e globale. Nel suo inesausto riprodursi nuovi confini e circuiti cultu-rali sorgono, altri svaniscono. All’interno di essi si definiscono nuove enciclopedie di saper fare, altre si rigenerano 47.

Nello spazio/tempo di ogni cultura il saper fare è però anche un dover fare. La lingua culturale ha una sua propria legislatività, stru-mento indispensabile all’ottimizzazione dei processi comunicativi. Possedere un dialetto concettuale condiviso rende la vita più sem-plice, più efficiente. Vivere dentro una cultura come membro di essa significa saper parlare quella lingua, conoscerne i registri di senso, saperla usare in modo efficace per interagire con l’ambiente circo-stante. L’insieme degli schemi d’azione e di comunicazione è co-stituito da modalità di comportamento, mentale e pratico, definibili come script oppure ortoprassi. Le ortoprassi culturali scandiscono la vita quotidiana, dettandone i ritmi in modo normativo. Tutti noi, a qualsiasi cultura apparteniamo, siamo sintonizzati su simili ritmi, sulle sequenze iscritte negli spartiti delle ortoprassi culturali. Essi si infiltrano nelle pieghe più intime della vita giornaliera. Creano tempi e spazi, forgiano modalità di percezione del tempo e dello spazio. Le nostre soggettività sono esito dell’incrociarsi delle differenti or-toprassi che mappano il vivere individuale e collettivo. Muoversi, cibarsi, commerciare, morire, parlare, persino il tacere, sono oggetto di questa implicita modalità di normazione.

In ogni società il livello giuridico si sovrappone a questo strato normativo tacito, ma non per questo meno potente. Talmente poten-te che il diritto formale è interamente impastato di esso. Del resto, si tratta di una corsia obbligata. Nessun sistema giuridico potrebbe funzionare, sviluppare plausibili prognosi di effettività, se i suoi atti legislativi si dimostrassero del tutto alieni rispetto alle ortoprassi cul-turali diffuse a livello sociale. La grammatica dei diritti, per quan-to espressa in termini formali, generali e astratti, è impregnata di costume, di moduli mentali e comportamentali depositati nel senso comune. Questi fanno da cornice semiotica, da contesto di senso e di esperienza – come si dice, indessicale – rispetto alle parole della leg-

47 Sulla cultura come enciclopedia di «saper fare» cfr. M. ricca, Oltre Babele cit.

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ge. Separare ortoprassi e parole legislative significherebbe generare altri mondi sociali. Diritto e universo di esperienza, in questo senso, costituiscono un binomio inscindibile, ancorché dinamico nelle rela-zioni reciproche tra i suoi membri.

Il sovrapporsi di più modelli culturali agiti dagli individui con-testualmente presenti negli stessi spazi vitali determina inevitabil-mente una diffrazione tra grammatica dei diritti ed esperienza. Per usare una metafora, è un po’ come se un’immagine venisse estra-polata da uno sfondo e collocata in un altro. Lo spostamento pro-durrà distorsioni di senso, incongruenze, metamorfosi di significato e – uscendo dalla metafora – soprattutto discontinuità tra mezzi nor-mativi e fini, tra parole e prospettive di concreta realizzazione dei valori incastonati nelle enunciazioni di diritto. Lo scollamento tra piano delle norme e piano delle ortoprassi culturali implica una sorta di de-soggettivazione giuridica di quanti non appartengano al gruppo dominante. Gli indici di significato del loro vivere, le matrici di senso della loro soggettività, troveranno nell’ordinamento una batteria di negazioni e ostruzioni. E poiché cultura e religione sono strettamente interconnesse, inevitabilmente risulterà colpita, resa difettiva anche la capacità di queste minoranze di dar spazio alle proiezioni pragma-tiche della propria fede di appartenenza. Potrà trattarsi di una discri-minazione relativa, non assoluta. In altre parole, essa non dipenderà da una generale e aprioristica interdizione delle ortoprassi culturali e religiose dei gruppi non dominanti. Piuttosto, la discriminazione potrà e dovrà essere registrata sul piano dei fatti e della diversa con-dizione a essi riservata rispetto ai soggetti appartenenti alla cultura o alla fede di maggioranza. Per questi, il diritto parla la loro stessa lingua, consente loro di vivere la propria quotidianità gestendo all’u-nisono coscienza e obbedienza alle leggi, senza bisogno di sforzi di traduzione o di rocamboleschi accomodamenti e compromessi.

Discontinuità di significato e discriminazioni tacite animeranno tuttavia una situazione complessiva inevitabilmente segnata dalla tensione latente, dallo scontro incipiente. In nome dell’autonomia dei gruppi culturali, della libertà religiosa e del pluralismo, probabilmen-te si giungerà a chiedere per le ortoprassi non iscrivibili nella gram-

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matica generale dei diritti una sorta di cittadinanza separata, speciale. È questa la via del pluralismo multiculturalista. Una via destinata a risolversi nell’infausto progetto di una convivenza compartimenta-ta, a blocchi culturali reciprocamente isolati, non comunicanti. La soggettivizzazione o personalizzazione della normazione è l’esito di un simile approccio, da molti visto positivamente. La soluzione, se-condo le formule in voga, sarebbe quella delle leggi personali e delle c.d. “Courts of Arbitration”: tribunali interni alle comunità deputati ad applicare, almeno in alcuni settori, il diritto, le regole delle singole tradizioni culturali e religiose 48. Ma non ci vuol molto per intendere che si tratterebbe di un’ulteriore, colossale finzione. Una pseudo-so-luzione buona solo a incrementare i conflitti e a coltivare l’illusione di poter far vivere le singole culture e i loro rappresentanti come eremiti organizzati, posti in una fasulla relazione di reciproco, ma pur sempre coordinato isolamento. Di contro, a risultarne dramma-ticamente erosa sarebbe la sintassi dell’uguaglianza giuridica e so-ciale, asse indefettibile e scaturigine di qualsiasi forma di pluralismo e ponderata tutela delle differenze. Un pluralismo orfano del regolo dell’uguaglianza che si commuterebbe istantaneamente nel partico-larismo giuridico e, inevitabilmente, in un’irrimediabile deriva verso la sperequazione sociale e intersoggettiva.

La creazione di un lessico giuridico interculturale appare l’unica via per mettere insieme grammatica dei diritti, uguaglianza e orto-prassi culturali. Ed è così perché soltanto mediante un previo sforzo di traduzione reciproca e bilanciata tra i differenti saperi culturali presenti nella mappa sociale sarà possibile definire un lessico della soggettività giuridica inclusivo, in grado di rendere la legge social-mente ed equanimemente responsiva rispetto alle molteplici forme di soggettività. L’ortoprassi culturale laica, indispensabile presupposto di una grammatica dei diritti effettivamente laica, non potrà dunque che essere la sintesi, la risultante dell’integrazione transattiva tra le differenti soggettività culturali e/o religiose presenti nella platea

48 G. anello, Tradizioni di giustizia e stato di diritto I. Religioni, giurisdizione, pluralismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli-Roma, 2011.

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pubblica. Non si tratta ovviamente di un esito semplice o da poter costruire a tavolino. Esso richiede uno sforzo continuato di riposizio-namento culturale e pragmatico condotto dalle diverse parti sociali. Peraltro, non è detto che il raggiungimento dell’obiettivo debba tran-sitare necessariamente attraverso l’abrogazione radicale del sistema normativo esistente. Al contrario, le strategie normative della mo-dernità, incentrate nei paesi di civil law sulla generalità e astrattezza degli enunciati legislativi, rendono gli ordinamenti aperti a un uso interculturale delle norme. È questa l’altra faccia della generalità, spesso invece posta sotto accusa come responsabile della tendenza propria del «moderno» a creare serializzazioni, falsi universalismi, omologazioni improprie e mortificanti il valore delle diversità 49. Certamente, la generalità delle leggi può essere utilizzata come uno strumento egemonico. Essa può essere posta al servizio del tentativo di soffocare la voce della differenza all’ombra di una falsa unità. È anche vero però che le generalizzazioni sono intrinsecamente ambi-gue. Da una parte omologano, dall’altra presentano confini mobili, sfrangiati, continuamente vulnerabili, rimodellabili, esposti all’inte-grazione. Le categorie generali includono ed escludono 50.

Ma nell’escludere spesso finiscono per precostituire le condizioni perché quanto viene escluso possa domani risultare interno a esse. Ciò avviene per la semplice ragione che quel che resta fuori da ogni cate-goria possiede molti elementi connotativi in comune con quanto vi è incluso. Così, a partire da queste continuità, le precedenti esclusioni possono essere sottoposte a critica e commutarsi in inclusioni. Proces-so che può verificarsi anche nella direzioni inversa. Lungo il reiterarsi di queste oscillazioni, lentamente, le categorie e le generalizzazioni si rimodellano. Per ogni nuova inclusione verrà ridefinito il nucleo del-le connotazioni comuni degli oggetti, degli enti che compongono la

49 P. chaTTerJee, Oltre la cittadinanza, Meltemi, Roma, 2006; R. PeerenBooM, ed., Asian Discourses of Rule of Law. Theories and implementation of rule of law in twelve Asian countries, France and the U.S., Routledge, London-New York, 2004; M. ricca, Democrazia e cultura. Uguaglianza, pluralismo, interculturalità cit.

50 Z. BauMan, Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.

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categoria. Pian piano l’asse della categoria, la lista di controllo delle connotazioni più comuni tra membri dell’insieme muteranno, deter-minando una metamorfosi semantica. La categoria subirà una sorta di deriva, talora impercettibile, altre volte catastrofica e repentina. Il fat-to straordinario, però, è che tutto ciò avverrà mantenendo comunque la categoria, la generalizzazione, sempre e comunque riconoscibile, coerente con se stessa e attiva negli usi comunicativi.

La pista della traduzione interculturale tra le ortoprassi può con-durre proprio a simili auto-trasformazioni semantiche. Nuove conti-nuità emergono rispetto a oggetti, soggetti e comportamenti, prima ritenuti incommensurabili, se non pure opposti. Nel fuoco della tra-duzione interculturale possono perciò stabilirsi insospettabili equi-valenze metaforiche. Questo perché in contesti culturali differenti gli stessi gesti possono assumere significati incommensurabili; vicever-sa, gesti o parole diverse possono diventare sinonimi. Si badi, l’equi-valenza non sarà mai integrale. Nell’opera di traduzione e metaforiz-zazione incrociata qualcosa si perderà e qualcos’altro verrà guada-gnato. Di fatto si creeranno nuove categorie all’ombra e sotto i vestiti linguistici di quelle sempre esistite. Ma ciò è ipotizzabile solo grazie alle generalizzazioni e, nel mondo del diritto, sfruttando la vaghezza semantica degli enunciati normativi generali e astratti. Per mezzo dell’ambiguità intrinseca in ogni generalizzazione la differenza potrà trovare le corsie per iscriversi all’interno del discorso giuridico. Le ortoprassi straniere potranno così rintracciare un canale di emersio-ne e di affermazione nella sfera pubblica. Un canale, si badi, dotato di valenza normativa, in grado di imporsi anche agli altri, cioè agli autoctoni. Inevitabilmente, il linguaggio giuridico funzionerà come uno specchio riflettente, ma al tempo stesso deformante. I codici culturali dovranno subire un processo di straniamento e transazione interculturale. Esso tuttavia non sarà univoco. A esserne coinvolte saranno anche le ortoprassi culturali degli autoctoni. Le sequenze di traduzione e transazione, nello specchio del lessico giuridico e delle sue categorie, saranno cioè biunivoche – benché nulla assicuri che siano per questo automaticamente simmetriche ed equanimi. Se ciò accadrà, la grammatica dei diritti potrà acquisire una curvatura inter-

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culturale poiché lo stesso linguaggio giuridico esistente potrà essere sottoposto a un uso interculturale. La cifra di una laicità effettiva, ricostruita dal basso e in modo equo, simmetrico, potrà quindi essere iscritta all’interno del modo di pensare e fare il diritto.

La semantica giuridica potrebbe iniziare, a queste condizioni, a sintonizzarsi sulla composizione multiculturale e multireligiosa del-la società contemporanea, assicurando una risposta effettivamente democratica e la modellazione di una soggettività autenticamente laica e inclusiva. In altri testi 51 ho cercato di fornire esempi pratici, casi concreti, esemplificazioni delle modalità di riscrittura e di uso in chiave interculturale delle categorie giuridiche esistenti. Misuran-dosi con essi, si potrà osservare come il processo di adattamento del diritto esistente all’alterità culturale, alle ortoprassi altrui, presenti straordinari elementi di continuità con l’attività giornalmente con-dotta dai professionisti del diritto nell’affrontare i proteiformi aspetti della realtà sociale e delle sue dinamiche quotidiane. In fondo, ben-ché la difficoltà di attraversare la distanza culturale rappresenti un problema suppletivo, tuttavia l’uso interculturale del diritto si iscrive nelle prassi, nelle abilità da sempre messe in campo dai professionisti del diritto (avvocati, notai, giudici) 52.

9. Multiculturalità, universalismo ed eccessi identitari

Giungere a imprimere una curvatura interculturale al diritto vigen-te o a rielaborarne il lessico in sede di produzione normativa richiede però il superamento della multiculturalità. Essa va oltrepassata sia come percezione di una frontiera stabile, fissa, tra il Sé e l’Altro, sia come scelta ideologica o prescrittiva. La necessità di operare questo

51 M. ricca, Oltre Babele cit.; id., Norma, autorappresentazione identitaria, me-moria culturale art. cit.; id., L’ombra del diritto art. cit.; id., Notariato latino come agenzia interculturale. Un percorso tra diritti umani e prassi giuridiche quotidiane, in www.accademiadelnotariato.it.

52 M. ricca, Norma, autorappresentazione identitaria, memoria culturale art. cit.

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valico scaturisce da una circostanza ben precisa. Avvertire il mondo sociale come multiculturale presuppone l’identificazione della dif-ferenza culturale, dell’Altro come diverso da Sé. Questa operazione tuttavia non è neutra, non si produce all’interno di una relazione tra soggetto e oggetto priva di effetti riflessivi e auto-trasformativi. Per essere più espliciti, il soggetto che riconosce nel suo spazio vitale l’Altro da Sé è un soggetto che si è già modificato rispetto al suo stato originario. Riconoscere l’Altro come diverso implica sempre e simultaneamente una rinnovata percezione del Sé. L’identico si specchia nel diverso e si ridefinisce a partire da esso. Ecco perché la multiculturalità, anche come semplice rappresentazione, è un effetto di un’interculturalità implicita, cioè di una trasformazione silenziosa già prodotta dall’apparire, dall’irrompere dell’Altro sulla scena della quotidianità 53.

L’interculturalità irriflessa, generata sottosoglia, scaturisce da una condizione di crisi psicologica. Essa coincide con il senso di laten-te interdizione prodotto dalla percezione, spesso vaga ma non per questo meno incisiva, di una possibile, sopravvenuta inefficacia e inattendibilità dei propri abiti di vita 54. Di fronte all’Altro, allo stra-niero, la mente avverte che qualcosa dei suoi saperi non funzionerà, sarà destinato a incepparsi nella corsa verso la realizzazione dei fini vitali. Le ortoprassi quotidiane sono sedimentate nell’enciclopedia di quegli stessi saper fare che ordinariamente vengono agiti inconsape-volmente. La loro modalità di attivazione è l’automaticità. Essi sono innescati il più delle volte senza che la coscienza ne sia al corrente. Ciò conferisce loro una grande efficienza. Il controprezzo consiste però nella difficoltà di oggettivarli, di recuperarne il significato, di trasformali in simboli, rendendoli così disponibili all’intelletto e alla riflessione. Senza riflessione tuttavia non può esservi modulazione o modifica, cioè adattamento rapido e consapevole. Ecco allora che sorge la crisi e dalla crisi la propensione al conflitto. Crisi e conflitto,

53 M. ricca, Riace, il futuro è presente cit.54 M. ricca, Polifemo. La cecità dello straniero, Torri del Vento Edizioni, Pa-

lermo, 2011.

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comunque, costituiscono già un cambiamento, sebbene solo difetti-vo. Attraverso e a causa di esso gli abiti si radicalizzeranno, irrigi-dendosi, talvolta sclerotizzandosi.

Nella situazione di scontro, le ortoprassi culturali si pietrificano e divengono vessilli per alimentare e legittimare la contrapposizione. Delle differenti ortoprassi vengono selezionati gli aspetti più ecla-tanti e idiomatici, meno esposti alla traduzione e alla transazione. Di fatto, però, il potenziale di senso degli abiti culturali, così facendo, si immiserisce, fino a svuotarsi. I loro contenuti finiscono per migrare verso i paesaggi onirici della memoria etnica, nazionale, religiosa, ma in questo modo allentano la loro presa con la realtà, la capacità di controllare e imbrigliare programmaticamente il corso degli eventi. Nel fuoco del conflitto ciascuna parte coinvolta lotta per rimanere se stessa, inalterata, ma proprio per questo è destinata a mutare, trasfor-mando i propri saperi in armi di contrapposizione, anziché utilizzarli come codici per interpretare il mondo. Purtroppo in questa onnilate-rale crisi di senso, la lotta per l’identità si commuta in uno scontro formale (appunto) tra identici, cioè tra soggetti animati esclusiva-mente da una petizione di potere nei confronti dell’Altro. Benché illuso di combattere per se stesso, per la propria identità, ogni polo del conflitto, ogni contendente, si batte contro l’identico a sé, cioè semplicemente il suo opposto formale. Ogni parte diviene puramente e semplicemente controparte, destinandosi a una sorta di etero-deter-minazione a opera di quello stesso contendente che vuole eliminare. Ma se così è, quando la battaglia giungesse a buon fine per una del-le due fazioni, paradossalmente, il vincitore cesserebbe di esistere nel medesimo momento dell’ottenuta eliminazione dell’altro. La sua cultura, trasformata in mero strumento strategico, in un artificio reto-rico svuotato di intelligente corrispondenza e interpenetrazione con il mondo, andrebbe allora ricostruita, rivivificata, sempre che ciò fosse ancora possibile 55.

Se questa è la parabola potenziale dell’interculturalità implicita, non le è da meno la multiculturalità, cioè l’idea che le culture siano

55 M. ricca, Riace, il futuro è presente cit.

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circuiti di senso a compartimenti stagni, destinati, nei migliori auspi-ci, a permanere in una condizione di calcolata non contaminazione. Un’idea, di là dalle possibili apparenze, comunque figlia dell’inter-culturalità implicita. Al fondo, gli attori che popolano il paesaggio multiculturale, appunto le culture, sono il prodotto della contrap-posizione interculturale implicita, fantasmi di entità essenzializzate che questa partorisce. La versione del pluralismo soggiacente alla ricetta multiculturale, all’idea di una convivenza parallela dei gruppi culturali all’interno della medesima sfera sociale, è però anch’essa difettiva. Si presenta al tempo stesso relativistica e universalistica. Dichiara l’incommensurabilità di ogni cultura rispetto alle altre, ma simultaneamente afferma il diritto di ciascuna ad affermarsi su un piano di parità reciproca. Insomma, nel quadro del multiculturali-smo, dall’incommensurabilità si transita quasi impercettibilmente all’universalità, al comune denominatore ‘cultura’. Ogni cultura, così, potrà leggersi come unica, irripetibile, idiomatica, ma al tempo stesso universale. E proprio perché incommensurabile alle altre, dal punto di vista interno, verrà inevitabilmente percepita dai suoi appar-tenenti come “La Cultura”. Il terreno per il maturarsi della cecità nei confronti dell’Altro sarà stato a questo punto doviziosamente messo a semina. Ogni cultura potrà leggersi come il prototipo dell’univer-salità: il prototipo dell’uguaglianza, della libertà, dell’autonomia. Gli altri, paradossalmente proprio perché a priori ritenuti incommensu-rabili, tutt’al più potranno essere visti e considerati come replican-ti formali di questo prototipo. Altre unità uguali alla prima, ai suoi contenuti, ai suoi significati. La sequenza adesso descritta potrà forse apparire come un ulteriore paradosso, ma non è così. Per rendersene conto, basterà proseguire lungo il suo solco.

Nella stessa direzione appena delineata, ogni società apparirà agli occhi dei suoi membri come il modello della libertà, dell’uguaglianza, della dignità, della solidarietà e dell’autonomia. E poiché questi sono valori considerati universali, gli stessi che ci consentono di vedere l’Altro come Altro da Sé, originario e incommensurabile, ne diver-ranno l’unità di misura, anzi di esistenza. L’effetto finale sarà che la reale differenza dell’Altro, la diversità dei suoi saper fare, delle sue

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enciclopedie culturali, semplicemente svaniranno, almeno agli occhi dell’osservatore esterno, dell’individuo di altra cultura che lo osserva.

A prodursi sarà un effetto di omologazione strisciante, di serializ-zazione delle forme possibili di umanità. Dal punto di vista psicolo-gico e cognitivo si genererà una tendenza a confondere e a spacciare l’identità con se stessi per universalità. Ogni cultura e i suoi rappre-sentanti leggeranno se stessi come l’incarnazione prototipica di cate-gorie universali, di valori e diritti umani. In modo speculare, l’Altro non omologo al modello subirà inevitabilmente un declassamento. Semplicemente, in quanto diverso, risulterà meno che umano. Per in-tendersi, egli non sarà dis-umano perché in astratto il suo modo di vi-vere e di pensare non possa iscriversi nello schema ideale della liber-tà, dell’uguaglianza, della dignità, dell’autonomia. Piuttosto, egli non sarà umano, in senso universale, semplicemente perché non identico a un «noi» presupposto e al connesso modo di declinare (culturalmente) l’universalità nel suo agire quotidiano comune (nel senso di “solito”).

In un mondo sociale rigidamente e coerentemente multicultura-lista nessuno va in cerca dell’universalità oltre i confini della pro-pria comunità. È questo il paradosso del relativismo. In un universo dominato dalle rappresentazioni relativiste tutti sono uguali nella loro radicale diversità. Uguali nella forma, incommensurabilmente diversi nei contenuti. Nella terra di nessuno posta al centro di questa contraddizione, inevitabilmente tutti i «noi», tutti i gruppi, tendono a vedere se stessi come incarnazione dell’universale (almeno dal punto di vista dei contenuti). Questo perché, fatalmente, il contenuto ten-derà a migrare nella forma, a sovrapporsi e a confondersi con essa. Ed è esattamente ciò che spesso fanno gli occidentali con il resto del mondo. Essi prima proclamano valori universali, come appunto uguaglianza, libertà, etc., e poi sostituiscono a essi il proprio modo di attuarli. Il tentativo di imporre agli altri le proprie categorie cultu-rali, le proprie leggi, veicolandole al traino della diffusione dei diritti umani, è la conseguenza immediata e più dannosa di questo modo di pensare e agire. Il risultato, drammatico, sarà che gli altri, soprattutto se più deboli o succubi, finiranno per identificare – anche se al rove-scio – quelle categorie culturali con i diritti umani stessi, con il po-

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tenziale codice dell’universalità. L’approdo finale, inevitabile e già realizzatosi, sarà quello della proclamazione di codici dell’univer-salità alternativi, ovvero di altre carte dei diritti umani. L’ossimoro, la contraddizione in termini, di tanti modelli di diritti umani quante sono le culture costituisce il capolinea dell’approccio multiculturali-sta. Ed è un capolinea già parte integrante della storia, ormai sotto gli occhi di tutti. Com’è possibile, vien da chiedersi, che si sia giunti fino a questo punto? Qualche spiegazione può essere tentata.

In una prospettiva multiculturale, la possibilità di tradurre l’alteri-tà, di trovare ponti di comunicazione e di significazione comune, ri-sulta compromessa in partenza. È così perché l’inevitabile incrociarsi delle diversità culturali e delle loro proiezioni pragmatiche nell’arena comune della vita sociale, come nell’arena politica internazionale, verrà interpretato e vissuto in modo inevitabilmente antagonistico. Nel calderone del relativismo culturale, ogni fazione proverà a iscri-vere le proprie istanze all’interno di un codice dell’universalità e dell’uguaglianza rivendicate come unità di misura della tolleranza reciproca. Insomma, il gioco di contrapposizioni punterà a dimostra-re che la diversità dell’Altro non è compatibile con un’equa riparti-zione degli spazi e dei tempi sociali comuni. Surrettiziamente, ogni parte tenterà di riempire con i propri contenuti culturali la grammati-ca dell’universalità, il regolo della convivenza tra gli incommensura-bili: ora mimetizzando quei contenuti con il lessico della soggettività comune, ora provando a impedire che a farlo siano quelli degli altri.

Il meraviglioso mondo della tolleranza reciproca coltivata all’om-bra del riconoscimento dell’universale diversità di tutti da tutti è il mito spacciato dal multiculturalismo e dai suoi tentativi di afferma-zione politica. Un fronte di scontro permanente ne è invece la reifica-zione concreta: un mondo sociale animato da tensioni inestinguibili tra auto-rappresentazioni culturali sollecitate alla radicalizzazione e all’eccesso identitario. Del resto, dove l’unità di misura della sogget-tività pubblica diviene la differenza reciproca è giocoforza che que-sto ne sia l’esito. Il problema più grave, però, coincide con la tenden-za a utilizzare il diritto e il lessico dei diritti semplicemente in modo strategico. Così, gli enunciati normativi non verranno usati come

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piattaforme di traduzione interculturale e come canali normativi per l’effettiva iscrizione delle differenze in un contesto comunicativo e pragmatico condiviso. Al contrario, approfittando dell’ampiezza del loro spettro semantico, della vaghezza delle relative enunciazioni (ad es., tutti sono uguali, la libertà personale è inviolabile, etc.), ogni fazione culturale tenterà di piegarli alla realizzazione dei propri inte-ressi, delle proprie istanze declinate in modo radicale e antagonistico.

La conclusione, davvero tragica, sarà la commutazione del plura-lismo multiculturale in una cieca contrapposizione per la spartizio-ne delle risorse necessarie a poter coltivare l’illusione di esistenze (comunitarie) separate. Fatalmente, l’unico traduttore interculturale si rivelerà allora la moneta, capace di tradurre tutto proprio perché non traduce nulla, ma si limita a creare equivalenze quantitative, fi-nanziarie, dove invece a confrontarsi nella realtà sono diversità qua-litative, antropologiche. Senonché la commutazione delle diversità qualitative in equivalenze quantitative avviene sempre per amputa-zione, trascegliendo appunto solo quel che è quantificabile secondo gli standard dettati dal mercato e tralasciando tutto il resto.

Il “resto” però coincide con la differenza culturale, la stessa che si vorrebbe articolare in autonomia. Se quel resto non è tradotto, si rischierà di non cogliere la sua interdipendenza dal contesto sociale complessivo. Ma non coglierne l’interdipendenza significherà, a sua volta, non comprendere quali possano essere le effettive chance per la sua realizzazione pratica, gli ostacoli esistenti, le possibilità di adat-tamento. Al meglio di questa ignoranza o non conoscenza la via del conflitto verrà intrapresa inesorabilmente. A quel punto, l’unica strada possibile sarà una spirale di eccessi identitari e radicalizzazioni cultu-rali, abnormi discendenti dell’universalismo di marca multiculturale.

10. Rotte e possibili approdi della laicità interculturale

“Universalismo di marca multiculturalista” è formula sinonimo di neutralità. Il suo confluire in una situazione conflittuale, figlia della scissione tra forma e contenuti culturali, è il medesimo esito

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di una laicità intesa come neutralità. Se il diritto e le sue gramma-tiche della soggettività ipotizzassero, in nome della propria laicità, di poter articolare un discorso neutrale, relativistico, privo di tradu-zioni tra i contenuti culturali, non farebbero altro che alimentare la contrapposizione identitaria. Con un’aggravante, già denunciata: e cioè che all’ombra della dichiarata neutralità del lessico normativo si nasconderebbe comunque la prevalenza dei codici culturali do-minanti, percepiti e imposti dai gruppi più forti come specchio di una soggettività universale. Nel caso, poi, delle società multiculturali di recente formazione, ciò darebbe luogo – come avviene – al noto fenomeno dell’accreditamento della connotazione culturale soltanto in capo agli altri, ai nuovi venuti. Cioè a dire che ad avere differen-ze culturali o religiose sono solo gli stranieri, mentre gli autoctoni parlano già la lingua della realtà, una lingua neutrale e naturale. Una formula riassumibile, nel campo giuridico, con lo slogan falsamente pluralistico: il nostro diritto e le culture degli altri.

Il primo passo nella direzione opposta, quella di una laicità inter-culturale, consiste invece nell’adozione di un punto di vista definibile come planetario. Anziché porre al centro del cosmo sociale la cultura dominante, mimetizzandola con il diritto dello stato, probabilmente bisognerebbe inoltrarsi su una rotta ideale differente. Perché il dirit-to sia di tutti è necessario che le culture vengano tutte considerate eccentriche e, per restare in metafora, come se fossero tutte pianeti posti su orbite equidistanti dal centro del sistema, anche se non al-lineate, onde evitare collisioni. Il centro gravitazionale, a sua volta, andrebbe considerato non come un corpo estraneo, altro rispetto ai pianeti, ma al contrario come la sintesi ponderata delle loro masse e del loro tipo di composizione. Fuor di metafora, il diritto dovrebbe costituire la sintesi dei differenti linguaggi culturali, a sua volta esito di un processo di traduzione e transazione interculturale. Ed è appun-to verso questo approdo che dovrebbe incamminarsi un ordinamento costituzionale che aspirasse alla produzione di un modello effettivo di laicità per una società multiculturale.

La rotta da seguire per giungere a destinazione, cioè alla laicità interculturale, transita attraverso la creazione di un lessico intercul-

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turale suscettibile di essere travasato dentro le norme giuridiche e in grado di stimolare, a sua volta, un uso interculturale del diritto. La prima tappa intermedia, lungo questa navigazione, consiste nel com-prendere che la realtà, il fatto da qualificare mediante gli strumenti del diritto, non è indipendente dalla cultura di chi agisce o parla. Essere di un’altra cultura, insomma, non vuol dire soltanto valutare in modo differente lo stesso mondo, la stessa realtà, ma anche vedere e vivere una realtà diversa, fatti differenti. Acquisire consapevolez-za che il fattore culturale può produrre variazioni cognitive circa il mondo dei fatti costituisce il primo transito corretto lungo la rotta della laicità interculturale. Spiegare le cose attraverso la prospettiva del giurista pratico forse aiuterà a comprendere meglio l’importanza di questo passaggio.

Quando un giudice, un avvocato o un notaio devono qualifica-re giuridicamente un fatto, ai fini della propria professione, essi uti-lizzano una conoscenza di sfondo generata dal contesto culturale, dall’educazione. Nei circuiti nazionali questa conoscenza di sfondo è considerata comune sia al professionista del diritto, sia ai cittadini. Tanto il principio ignorantia legis non excusat, quanto le prognosi di effettività formulate in sede di confezione dei dettati normativi, poggiano in modo consistente sull’educazione giuridica folk posse-duta in media dalla cittadinanza. Come vivere senza violare la legge s’impara da bambini. È una conoscenza integrata nella cassetta degli attrezzi per l’uso della vita sociale e fornita a ogni individuo già nel contesto familiare 56. Così, quando un giudice o un avvocato ascolta-no le storie della gente che devono giudicare o assistere, essi possono utilizzare il proprio sapere culturale come matrice, come un calco per comprendere e tradurre gesti e parole altrui. In questo sapere accre-ditato anche nella mente degli altri, dei cittadini, sono presenti i più svariati abiti di comportamento, compresa la conoscenza popolare dei vincoli posti dalla legge. Ovviamente ciò non significa che tutto sia chiaro, senza zone d’ombra. Osservare e comprendere gli altri

56 A. saraT, T.R. kearns, Law in Everyday Life, The University of Michigan Press, Ann Arbor, 1995.

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implica sempre e comunque uno sforzo di traduzione, una trasposi-zione necessariamente metaforica dalla loro mente e dal loro conte-sto di vita ai nostri. Il risultato sarà sempre frutto di una transazione di senso, gemella dell’attività di traduzione.

Proverò a essere ancora più concreto ed esplicito. Quando un cliente va dall’avvocato per ottenere assistenza, nella maggior par-te dei casi non richiederà espressamente il tipo di azione legale da promuovere, magari indicando le norme processuali o sostanziali da utilizzare. Piuttosto, egli racconterà una storia, in parte già impastata di nozioni giuridiche, anche se declinate insieme a pratiche di costu-me, a indirizzi morali, e così via. L’avvocato sarà chiamato a tradurre il tutto in termini normativi formulando ipotesi che lo spingeranno a proporre ulteriori domande. In questo modo la situazione di fatto si chiarirà sempre di più, quindi si definiranno più precisamente gli interessi del cliente e, di rimbalzo, prenderanno forma le più oppor-tune modalità di interpretazione delle piattaforme normative vigenti. Tutto insieme darà vita a una sintesi integrata di attività proiettate verso il futuro, cioè verso una soluzione della questione sottoposta all’analisi dell’avvocato.

L’intera sequenza comunicativa e interpretativa adesso illustrata si svolge usualmente sotto l’ombrello di codici culturali relativamen-te condivisi tra le parti coinvolte. Se invece il cliente fosse uno stra-niero di altra cultura, le cose sarebbero inevitabilmente diverse. In questo caso, l’avvocato non potrà dare per scontato che le situazioni narrate dallo straniero, anche se in perfetta lingua italiana (e non è detto sia sempre così), abbiano un significato equivalente a quelle raccontate, magari con le stesse parole, da un italiano medio. Gesti, cose e parole variano il proprio senso da cultura a cultura. Diversi sono anche fini e valori. Inoltre, significati diversi supportano fini differenti e fini differenti inducono a trarre dalle situazioni significati differenti. Se non possiede i codici culturali del cliente, almeno in linea di massima, l’avvocato – come un altro professionista oppure un giudice – rischia di fornire risposte del tutto errate. E non solo. L’errore non dipenderà soltanto dalla falsa interpretazione dei fat-ti, dalla diversità tra gli schemi cognitivi e culturali rispettivamente

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dell’avvocato e del cliente. Esso risulterà ulteriormente incrementato dalla conseguente applicazione dei criteri di qualificazione normati-va. Decidere quali norme applicare dipende dalla rappresentazione che l’avvocato riesce a elaborare nella sua mente in ordine ai fatti e ai fini propri del cliente. Fraintendere fatti e fini può far sovrapporre alle situazioni pratiche effetti normativi del tutto incongruenti. Le conseguenze di questi deficit interculturali possono essere catastrofi-che. Un avvocato o, peggio, un giudice cattivi interpreti e maldestri traduttori possono dimostrarsi due volte traditori. E questo perché non solo errano nella traduzione, ma anche perché rischiano di con-ferire al loro errore l’effettività e la certezza promananti dall’autorità e dalla forza coattiva del diritto. Proprio perché usano la legge, anche se a diverso titolo, hanno entrambi il perverso potere di applicare le norme a una realtà che non esiste, suggellando per sempre il silenzio, l’irrilevanza di quella effettivamente vissuta, compresa, voluta dallo straniero, sia egli un cliente o un individuo sottoposto a giudizio 57.

Per evitare simili problemi è fondamentale contestualizzare le richieste e le narrazioni dello straniero. A tal scopo si rende neces-sario immergersi con l’immaginazione nell’universo mentale che ac-compagna il suo pensare e il suo agire. Interpretare le sue parole, i suoi gesti, secondo gli schemi culturali autoctoni può produrre fatali fraintendimenti. Per questo è necessario impegnarsi in un’attività di traduzione interculturale. Essa dovrà puntare a precisare i significa-ti articolati dall’Altro attraverso la ricerca di equivalenze di senso con i propri schemi culturali. L’attività non sarà mai neutra. Ogni trasposizione, qualsiasi trasloco di parole, gesti e significati, da un dominio culturale a un altro, inevitabilmente implicherà una trasfor-mazione 58. Un po’ come accade quando viene generata una metafora. Ciò che accade in questo caso non è altro che il trasferimento di una parola (e di ciò che essa indica) da un contesto a un altro. Si prenda come esempio la frase seguente: quell’avvocato è una sanguisuga. Nel trasferimento da “avvocato” a “sanguisuga” entrambi i termini

57 M. ricca, Norma, autorappresentazione identitaria, memoria culturale art. cit.58 M. ricca, L’ombra del diritto art. cit.

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acquisiranno qualche caratteristica e ne cederanno altre. Sovrappo-nendosi essi produrranno inevitabilmente un significato nuovo, adat-to a descrivere e a dare informazioni circa una situazione particolare, per molti versi inusuale. In fondo, la creazione di metafore serve proprio a questo, a interpretare in modo efficace circostanze nuove, non riconducibili con esattezza alle espressioni linguistiche correnti. Il linguaggio, attraverso la metafora, viene forzato e sospinto verso la creazione di nuovi significati per consentire la comprensione e la descrizione di situazioni nuove.

La trasposizione delle parole da un contesto a un altro somiglia molto all’attività di traduzione. Benché questa sia orientata a produr-re equivalenze di significato, in realtà essa trasforma sempre i signi-ficati di partenza. E ciò avviene semplicemente perché ogni lingua è legata a un contesto di esperienza, a un mondo, a un universo di senso. All’interno di esso, il semplice pronunciare una parola evoca subito uno scenario possibile. Ma gli scenari evocati, ovviamente, cambiano a seconda degli usi, degli schemi mentali sedimentati nella memoria, negli schemi comunicativi diffusi nei diversi circuiti so-ciali e culturali. Creare equivalenze tra parole è quindi un modo di trasporre e sovrapporre esperienze diverse. Circostanza che permet-te di assimilare l’attività di traduzione anche alla comunicazione tra persone che parlano la stessa lingua. Nei fatti, ciascuno può usare le stesse parole per descrivere e comunicare esperienze differenti. La comprensione reciproca implica dunque un’implicita traduzione, una metaforizzazione inconsapevole.

Il processo di sovrapposizione/rigenerazione dei significati ap-pare invece esplicito nella traduzione tra lingue diverse. Tuttavia, tradurre letteralmente può spesso produrre gravi fraintendimenti. Questo perché le equivalenze stabilite dal vocabolario sono spesso centrate sui significati centrali (o molari). Esse non tengono conto delle infinite proiezioni contestuali, delle molteplici reti di signifi-cato connesse all’uso delle parole 59. Una traduzione interculturale,

59 R.W. GiBBs, Poetics of Mind. Figurative Thought, Language and Understand-ing, Cambridge University Press, New York, 1994.

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al contrario, è orientata specificamente all’esplicitazione dei contesti di significazione e alla loro lettura incrociata. È per questo che essa risulterà inevitabilmente creativa, innovativa. La contestualizzazione incrociata potrà generare equivalenze insospettabili, assai lontane da quelle stabilite dal vocabolario. A seconda delle culture, ad esempio, il silenzio assume significati completamente differenti. Tradurre il silenzio di un orientale, giusto per essere concreti, può coincidere in determinate situazioni con una parola o un arcipelago di parole pronunciate da un italiano. Non è difficile intendere, allora, quanto sia importante nella vita del diritto adottare una prospettiva intercul-turale. Diversamente, si finirebbero per imputare agli stranieri inten-zioni e gesti per nulla corrispondenti a quelli pensati o da loro posti in essere.

Scegliere quale norma applicare a un comportamento tenuto da uno straniero dipende dunque dal significato interculturale dei suoi gesti. Comprenderlo, decodificando in modo avveduto le narrazioni e le situazioni di vita descritte dal cliente straniero o dall’imputato, può indurre avvocati e giudici a chiamare in causa norme differenti. Tutto ciò potrà condurre alla costruzione di un lessico interculturale, frutto di traduzioni, metaforizzazioni e transazioni di senso. Più in generale, quest’attività potrà sfociare in un uso interculturale del di-ritto, così come farsi vettore di una produzione legislativa modellata attraverso l’uso di un lessico giuridico interculturale.

Adottare un approccio al diritto ispirato all’interculturalità apre la possibilità di utilizzare le piattaforme normative come interfaccia culturale. Diffondere negli stranieri o nelle persone di diversa cultura la consapevolezza di poter iscrivere i codici della propria soggettivi-tà all’interno del lessico normativo può stimolare un senso di coap-partenenza alla sfera pubblica. Questa prospettiva, la possibilità di immaginare il linguaggio giuridico ‘in ascolto’ della diversità, può stimolare a livello sociale la disponibilità a impegnarsi nella produ-zione di contestualizzazioni culturali incrociate. Dove, al contrario, proprio dall’assenza di traduzioni/transazioni interculturali può sca-turire un uso delle previsioni normative imperialista, non equanime, ingiusto perché inadeguato. Un uso inevitabilmente incline a iterare

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la predominanza dei gruppi sociali più forti e a cementare la subal-ternità e la discriminazione degli appartenenti ai gruppi più deboli, migranti in testa. Ma la diseguaglianza nella legge, conseguenza del-la non responsività di essa rispetto ai diversi codici culturali presenti nella platea sociale, è l’altra faccia della medaglia di un deficit di laicità dell’ordinamento. Soltanto la creazione di un lessico inter-culturale, e quindi di un lessico giuridico interculturale, può ovviare alla mancanza di una soggettività sociale e normativa equanime e inclusiva delle diversità culturali e religiose. In conclusione può dirsi che soggettività giuridica interculturale e laicità interculturale sono fattori coestensivi o comunque da considerare strettamente intercon-nessi in un assetto democratico costituzionale. La loro compresenza è indispensabile a garantire adeguati standard di pluralismo, presup-posto indefettibile perché l’uguaglianza di fronte alla legge possa dirsi effettiva.

11. Lessico interculturale, equiconvivenza e modernità

L’elaborazione di un lessico interculturale è da considerarsi im-plicazione diretta del progetto politico della modernità. La creazione di una grammatica della soggettività laica ha accompagnato sin dagli albori il manifestarsi del pensiero moderno. Essa venne ottenuta spo-gliando delle vestigia teologiche molte delle categorie etiche generate nel grembo del cristianesimo e da esso intrecciate lungo i secoli con la grammatica della quotidianità, con il vocabolario antropologico della cultura europea. Nonostante il razionalismo politico moderno si articolasse in base alla cifra dell’universalità, la sua realizzazione storica fu culturalmente situata. Il diritto naturale ne fu la proiezio-ne istituzionale, successivamente trasfusa nell’esperienza codicistica dell’Europa continentale. Ma le continuità tra etica cristiana e istitu-ti civilistici e penalistici dei codici moderni sono profonde, almeno da un punto di vista antropologico. Se la religione ufficiale, la sua dimensione confessionale/istituzionale venne sfrattata dall’universo del diritto e della legittimazione politica, la religione mimetizzata

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con i saperi culturali rimase ben saldamente ancorata sul fondo del discorso giuridico.

Dissimulando la presenza della religione con un’abile strategia retorica, la modernità giuridica poté affermare la propria disconti-nuità rispetto al passato. Una discontinuità che appunto faceva rima con laicità. La parabola del colonialismo propagò poi questa finzione in giro per il mondo. Impose ai popoli non-occidentali un univer-salismo razionalista popolato da schemi concettuali, abiti e prassi di matrice cristiana, anche se spacciati come icone di una ragione antropologicamente neutra, trasparente a se stessa. Ma la lingua del cosmopolitismo coloniale era in realtà un dialetto (culturale).

La fine dell’era coloniale e lo sgretolarsi delle aderenze politi-che post-coloniali hanno dimostrato comunque che la modernità ha disseminato se stessa per il pianeta, nel bene, come nel male. Oggi, il c.d. “Resto del Mondo” è riuscito a impugnare la modernità per il manico. Ha iniziato così a utilizzarne i punti di forza a proprio van-taggio, imbastendo una competizione (finalmente) simmetrica con l’Occidente. Questo movimento, distribuito lungo le corsie dell’e-conomia, della politica e della critica antropologica, ha prodotto una profonda rilettura delle incarnazioni giuridico-istituzionali del pensiero moderno e in molti casi un processo di appropriazione e di vernacolarizzazione di esse. Transitando attraverso le critiche di matrice fondamentalista, gli Asian Values e le rivendicazioni degli Indigenous Rights, i diritti umani e le istituzioni liberal-democratiche sono stati recuperati dal linguaggio politico dei popoli e delle culture non occidentali e reinterpretati. La loro cifra universalistica è stata utilizzata come dispositivo per iscrivere la differenza all’interno di una piattaforma discorsiva e normativa dotata di immediata risonan-za internazionale e cosmopolitica.

L’universalità delle categorie giuridiche moderne, in un certo senso, è adesso illuminata dal basso e sospinta, a ogni proposta di reinterpretazione, lungo una linea d’orizzonte più ampia e distante, ma al tempo stesso più inclusiva. Il fenomeno indubbiamente non è privo di strumentalizzazioni contingenti. Per molti versi, però, è genuinamente emancipatorio. E questo non solo per chi legge i di-

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ritti umani o la democrazia provenendo dal Resto del mondo, ma anche per l’Occidente stesso. In fondo, la coincidenza aprioristica tra identità (occidentale) e universalità finalmente s’incrina, spezzando i legacci che avevano stretto intorno a essa le esigenze del potere colo-niale e post-coloniale esercitato dagli stati occidentali sul mondo. La modernità può uscire così dal suo provincialismo, da quel marchio limitante impresso dall’essere (ritenuta) oriunda europea 60. Un mar-chio nient’affatto casuale o impresso inconsapevolmente, che aveva tuttavia compromesso la realizzazione autentica della cifra universa-listica del pensiero moderno e specificamente dell’Illuminismo. Tra occultamenti retorici, dissimulazioni strategiche ed esigenze di con-tinuità storica imposte dalle prassi di governo, il progetto moderno ha dovuto rinunciare, e comunque ha rinunciato di fatto, al perse-guimento spassionato dell’ideale cosmopolitico. Incarnandosi, anche per ragioni logistiche, nelle esperienze nazionali e macro-regionali, la modernità politica e giuridica ha sostanzialmente abdicato all’in-clusione delle diversità, a un ecumenismo culturale di tipo induttivo e inclusivo. Tutto all’opposto essa è divenuta strumento strategico e mistificatorio al servizio delle mire espansionistiche degli stati na-zionali europei. E nel far questo ha subìto una sorta di conversione dialettica. Il suo peregrinare per il mondo annunciava universalismo e invece propagava (forzosamente) etnocentrismo, cieca imposizio-ne di schemi culturali di matrice cristiano-europea su realtà antropo-logiche del tutto differenti per storia e mentalità. Il risultato è stato il realizzarsi, l’affermarsi di una modernità difettiva, incompleta, tra-ditrice di se stessa 61. Gli odierni rigurgiti religioso-fondamentalisti sono il controprezzo inevitabile di una laicità monoculturale espor-tata ai quattro angoli del mondo e imposta come (falsa) grammatica della neutralità. Le popolazioni che hanno dovuto sopportare, nel suo

60 d. chakraBarTy, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2004; G.K. BhaMBra, Rethinking Modernity; Postcolonialism and the Sociological Imagina-tion, Palgrave Macmillan, New York, 2007.

61 M. horkheiMer, T.w. adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 2010.

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nome, la riconformazione dei propri abiti di vita quotidiani, la sot-toposizione di essi alle categorie del diritto di derivazione europea, hanno visto in essa solo un inganno, un fattore di straniamento e di cesura rispetto al proprio passato. “Moderno”, ai loro occhi, è dive-nuto sinonimo di statalismo nazionalista e di espansionismo.

La critica alla modernità, ai diritti umani, persino alla democra-zia, era ed è ancora di fatto una critica alla loro caricatura, a una pratica di essi aberrante, sovente in netto contrasto con il modello e l’ispirazione ideale. Ecco perché si tratta, per alcuni versi, di una critica salutare. Essa fa salva la modernità da se stessa, dalle sue incarnazioni perverse. E segna un ulteriore passo in questa direzione la circostanza che dalla critica antagonistica si sia oggi passati a una rilettura costruttiva, creativa e pragmatica, pronta a utilizzare quanto di positivo e vantaggioso può provenire dalla matrice universalistica dei diritti umani. Tutto ciò costringe il progetto moderno a tener fede a se stesso, alla sua aspirazione originaria. Recupera pragmaticamen-te l’idea universalistica e le sue potenzialità, che ne fanno un risultato sempre aggiornabile, un orizzonte costantemente rinnovato piutto-sto che un’essenza retrostante, qualcosa di reificato e sostantivato in modo aprioristico e quindi inevitabilmente etnocentrico.

La tendenza a trasformare il discorso dei diritti in un catalizzatore di diversità culturali va salutata positivamente. Essa tuttavia neces-sita d’essere costantemente assistita da uno sforzo di traduzione in-terculturale. Diversamente, la generalità delle enunciazioni dei diritti umani, la loro curvatura universalistica, rischiano di trasformarsi in un mero pretesto per imbastire contrapposizioni antagonistiche. Il linguaggio dei diritti, in altre parole, proprio per la sua vaghezza po-trebbe diventare, come spesso già accade, una sponda per articolare differenze e pretese postulate già in partenza come intransigibili. I diritti umani diverrebbero allora un vuoto involucro, suscettibile di legittimare qualsiasi petizione che si ascriva a essi, al loro spettro semantico, solo per autoaffermarsi nell’agone politico interno e in-ternazionale. A queste condizioni essi significherebbero tutto e nien-te, mero strumento per consentire l’assolutizzazione delle differenze, anziché una loro sintesi inclusiva e transattiva. A evitare questa deri-

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va può giovare solo uno sforzo di costante di traduzione. Un compito da condurre a partire dalle scansioni della quotidianità, dagli abiti densi di spessore antropologico-culturale, gli stessi regolati dalle si-lenziose proiezioni etico-giuridiche delle ortoprassi di derivazione religiosa sedimentate nel bacino mnestico di ogni cultura e di ogni soggetto individuale. Lungo il processo di traduzione i diritti umani potranno utilmente servire da interfaccia di traduzione, aprendosi a letture multiprospettiche e multivocali. Il pericolo di una loro stru-mentalizzazione a mano libera, incontrollata, in tal caso verrà esclu-so. Questo perché essi potranno essere invocati in modo situato, cioè all’interno di una cornice semantica preimpostata dagli sforzi di tra-duzione tra gli schemi dell’agire comune diffusi nelle diverse enci-clopedia culturali di volta in volta poste a confronto. La loro chiama-ta in causa, in altre parole, s’innesterebbe lungo il filo di continuità, di possibili equivalenze, che il fine della traduzione interculturale avrà già tracciato tra le differenze 62. In questo modo, i diritti umani e più in generale il diritto stesso potranno servire a generare corsie semantiche e assiologiche di condensazione e transazione tra le di-versità culturali, anziché fungere da sponda per un loro esasperato irrigidimento in chiave antagonistica.

Le dinamiche internazionali e macropolitiche che si agitano at-torno alle letture interculturali dei diritti umani trovano una sorta di proiezione, di rispecchiamento, nei contesti migratori e nelle socie-tà multiculturali da essi generate. Oggi, dentro il cuore degli ambiti nazionali si riproduce il dilemma di dover tener fede alla cifra uni-versalistica della modernità. La stessa cifra universale che gli stati nazionali occidentali trovano scolpita nelle proprie assi di legittima-zione, cioè nel lessico costituzionale. Qui, nel nucleo denso delle rei-ficazioni nazionalistiche del Moderno, questo viene messo di fronte a se stesso e alla sua originaria cifra universalistico-cosmopolitica. L’Altro che arriva propone la propria differenza e tenta di iscriverla nel linguaggio dei diritti fatto proprio dalle Carte costituzionali. La lettura provincialistica di quel linguaggio, consentita dal localismo

62 M. ricca, Oltre Babele cit.; id., L’ombra del diritto art. cit.

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delle precedenti reificazioni della modernità politica, è sottoposta così a una vera e propria prova da stress. Prova che i rigurgiti xe-nofobi, tradizionalisti e pseudo-religiosi di alcune democrazie occi-dentali (compresa quella italiana) dimostrano di poter non superare. Ma, se così fosse, se la possibilità di creare un lessico interculturale non si realizzase, la prospettiva di un’equi-convivenza tra le diver-sità culturali rischierebbe di tramontare. E ciò segnerebbe il tracollo degli ideali moderni e non una vittoria dell’Occidente, semmai la sua sconfitta definitiva. Gli ideali universalistici, democratici e persino il costituzionalismo liberale, dimostrerebbero di non poter resistere all’impatto (domestico) con la differenza culturale. A conti fatti, si paleserebbero come nulla più che una meta-narrazione etnocentrica, una delle tante mitologie fondative partorite dalle più diverse civiltà nel corso della storia umana. Nulla più che una ricetta locale sfruttata a scopi egemonici.

Quel che è più grave sta nel fatto che la sconfitta si maturerebbe proprio sul terreno della convivenza quotidiana. Essa coinciderebbe, guardata più da vicino, con l’incapacità di generare, di inventarsi un modello di soggettività sociale e giuridica inclusiva, rinegoziata a partire dalle differenze culturali e dalle matrici religiose mimetizzate al loro interno. Un’incapacità, si badi, ulteriormente alimentata dalle ricette multiculturaliste, spesso impegnate in una forma di soggetti-vizzazione della tutela normativa, persino in materia penale. Proprio in nome della multiculturalità vengono spesso erogate eclatanti for-me di riconoscimento della diversità culturale, talora rivolte a con-sentire comportamenti apparentemente inconciliabili con la cultura dominante e con il codice assiologico degli ordinamenti. Oltre l’ap-parente apertura pluralistica e relativistica, esse nascondono tuttavia un nocciolo amaro, che ne è l’esoso controprezzo. Dar spazio alle differenze senza tentare né di tradurre, né di transigere, rafforza gli stereotipi, la reciproca estraneità culturale tra i gruppi. Ma non solo. In realtà, dispositivi multiculturalisti come, ad esempio, le c.d. “cul-tural defences” sono spesso uno specchietto per le allodole. Essi con-cedono su un fronte soltanto per impedire dall’altro la rinegoziazione a vasto raggio delle categorie di fondo della soggettività giuridica e

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sociale, forgiata invece a immagine e somiglianza dei gruppi social-mente dominanti e dei loro modelli di soggetto. Anziché aperture, in realtà, quelle concessioni sono bavagli, accettati in cambio di rico-noscimenti concernenti comportamenti che orbitano alla periferia del sistema sociale complessivo o connotano l’esistenza relativamente chiusa di sparute minoranze. Non di rado, si tratta di concessioni operate in cambio di consenso politico strumentale o, comunque, di una neutralizzazione della critica o della contestazione ai poteri forti.

La creazione di un lessico interculturale, rivolto all’esigenza di assicurare una laicità interculturale, si muove nella direzione esat-tamente opposta. Esso punta alla predisposizione di una piattaforma giuridica inclusiva delle differenze in ordine agli snodi di fondo del-la convivenza sociale e alle connesse modalità di categorizzazione normativa. Produrre questo lessico all’interno dei circuiti nazionali costituirebbe un passo decisivo verso la realizzazione effettiva e au-tentica degli ideali moderni, laicità compresa. Un passo ciclopico, se considerato nelle sue implicazioni sul piano dei rapporti interna-zionali e dei confronti interculturali che in essi prendono forma. I contesti migratori insomma sono da considerarsi come miniature del pianeta e delle sue diversità antropologico-culturali. Una palestra/laboratorio per la storia futura, per un futuro presente.

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Perché ho scritto un libro di Diritto ecclesiastico

Perché ho scritto un libro di Diritto ecclesiastico e l’ho intitolato “Diritto e religione”

di PierluiGi consorTi

1. Il libro sul quale mi si chiede di tornare a riflettere nasce da un’esi-genza principalmente didattica. Disponiamo di diversi ottimi manua-li; eppure nessuno mi sembrava adatto per sostenere adeguatamente la mia funzione didattica. Molti sono stati immaginati e scritti in un momento storico molto diverso dall’attuale: non sempre sono ag-giornati; inoltre, siccome riportano un quadro completo delle diverse materie oggetto della nostra disciplina, spesso non risultano adeguati al nuovo sistema dei crediti. Mi sembrava scorretto suggerire agli studenti l’acquisto di un “librone” per ritagliarne poi alcune parti, sacrificandone in definitiva l’impianto e togliendo qua e là la parola all’Autore. Alcuni testi più recenti sono stati peraltro espressamente immaginati per un pubblico più vasto dei soli studenti universita-ri. Sono rivolti agli aspiranti avvocati e perciò privilegiano aspetti tecnici e mancano di un apparato di rinvio alla dottrina: l’efficacia concorsuale provoca così un difetto difficilmente colmabile per un libro che deve essere messo in mano ad uno studente universitario.

Le recenti riforme ci hanno costretti a contrarre e velocizzare i tempi di insegnamento. Abbiamo in assoluto meno tempo per parlare di quello che ci sembra essenziale, e dobbiamo farlo più in fretta. Per questo durante il Corso ho deciso di privilegiare alcuni temi ri-spetto ad altri, soffermandomi su quelli che ritenevo più formativi e maggiormente caratterizzanti il metodo di indagine pratica che un giurista in assoluto e, a mio modo di vedere, un ecclesiasticista so-prattutto, deve incarnare. Penso che il nostro compito di docenti uni-versitari sia quello di rendere chiari i principi di riferimento offrendo agli studenti, e più in generale a chi si interessa delle nostre materie, delle chiavi di lettura che consentano di intervenire in modo «profes-

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Pierluigi Consorti

sionale» nei singoli casi che possono incontrare nella loro vita. Sono peraltro convinto che i tratti più affascinanti del Diritto ecclesiastico non si trovano in singole questioni specifiche (che probabilmente gli avvocati o i giudici incontreranno poche volte nella loro vita profes-sionale), ma in quell’ampio sguardo d’insieme che vede da sempre questa materia intersecata non solo con le altre discipline giuridiche, ma con più vasti settori di interesse – come quello storico, filosofico o antropologico.

Siamo giuristi e per questo maneggiamo il diritto (o forse l’inver-so), ma ci interessiamo di religione e questo ci aiuta a non soffrire troppo il limite che spesse volte incontrano i nostri Colleghi giuri-sti, che finiscono per restare avvolti in un sistema tendenzialmente autoreferenziale. Il diritto rischia di diventare un ambito di riferi-mento potenzialmente totalizzante. Le regole – per dirla con Rodotà – prevalgono sulla vita. Talvolta anche il rigore metodologico che contraddistingue i giuristi diventa uno strumento per proporre una sorta di catecumenato esclusivo (ed escludente). Com’è noto, non c’è insulto peggiore di “dare del sociologo” ad un giurista; oppure lo studio di certi temi viene delegato all’antropologo, giacché noi dobbiamo salvaguardare la “specificità giuridica”. Credo però che sia impossibile trattare giuridicamente i temi che ci riguardano sen-za chiedere aiuto all’indagine sociologica piuttosto che a quella an-tropologica. Abbiamo bisogno di molta storia e filosofia; una buona formazione teologica non guasta. Il nostro termine di riferimento giuridico è infatti la religione. Tornerò sul punto.

2. Come ho detto, nel corso degli anni ho cominciato a selezionare ed approfondire quegli argomenti che, a mio modesto avviso, co-stituiscono il cuore di quello che – come giurista che si interessa di questioni religiose – vorrei comunicare. Per questa ragione il mio libro non è un manuale: almeno non nel senso classico del termine. Ritengo però che abbia un significativo valore didattico, l’esperien-za dimostra che gli studenti di Giurisprudenza (e ancor più quelli di Scienze politiche) lo trovano persino avvincente. Questo perché non si limita a fornire al lettore il quadro di riferimento normativo

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o giurisprudenziale degli argomenti presentati, ma propone un coin-volgimento personale. Lo studente si vede chiamato a ragionare per costruire un proprio percorso di riflessione, sulla base di dati giuridi-ci inseriti in un contesto più ampio di riflessione che parte dall’esame della vita quotidiana. Per questa ragione ho accettato di buon grado la proposta dell’Editore di inserirlo nella Collana “Manuali”.

Nel mio caso il rapporto con l’Editore ha una certa importanza; perciò vorrei fermarmi un momento su questo punto. Come ben sap-piamo, l’accademia produce libri. Il libro – anzi, la “monografia” – costituisce un passo ineludibile per chi voglia appartenere all’U-niversità. Quella che un tempo era una legge non scritta, oggi è un elemento formalizzato (in termini di “mediane”). Per questo motivo gli aspiranti docenti universitari sono portati a scrivere libri “per i concorsi”, di modo che chi scrive si rivolge principalmente ai suoi futuri valutatori, oppure ai propri pari. Opere eccellenti, insieme ad altre meno lusinghiere, vengono così inserite in Collane universitarie i cui costi (ingenti) di pubblicazione sono in genere sopportati dall’U-niversità stessa (se non addirittura dall’Autore). È una strada ben nota, che anch’io ho seguito – ad esempio per il volume sul sostentamento del clero – ma che ho volentieri abbandonato appena ho avuto l’op-portunità di scrivere libri adatti al mercato editoriale. Con tutti i pregi e i difetti che ne derivano. Del resto ogni libro ha i suoi limiti; ed ho accettato molto volentieri la sfida di pubblicare un libro destinato a “lettori normali”. L’ho considerata un’opportunità da non perdere.

Sapevo bene che pubblicare questo libro poteva essere rischioso. Avrei fatto meglio ad aspettare, magari pubblicando prima una mo-nografia settoriale, concorsualmente più redditizia. Non sarei però riuscito a parlare di Diritto ecclesiastico in termini altrettanto chiari di come ho potuto fare in un libro espressamente dedicato ai rapporti fra diritto e religione. Costruire questo libro mi è piaciuto moltis-simo, perché rappresenta bene il modo in cui concepisco il Diritto ecclesiastico. In un certo senso procedendo (secondo me in avanti) lungo la strada della mia formazione iniziale, provando a prendere una direzione che ritengo utile (se non indispensabile) per mantenere viva una tradizione che corre il rischio di restare travolta dal tempo

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che scorre, e cha già adesso per molti versi è ritenuta da tanti insi-gnificante.

3. La scelta del titolo “Diritto e religione” non è quindi casuale. Il convegno odierno dimostra che non sono stato molto originale. Prima del mio solo Mario Ricca aveva chiamato così un suo libro “di Diritto ecclesiastico”: dopo di che Luciano Musselli, Valerio Tozzi, Gianfranco Macrì, Marco Parisi (e poi Sara Domianello, Roberto Mazzola, Alessandro Ferrari, Maria Cristina Ivaldi, Antonello De Oto, Daniela Milani, Ivan Iban) hanno usato la stessa espressione. Non so quali ragioni abbiano spinto gli altri Colleghi ad usare que-sta locuzione, ma vorrei chiarire che per me la scelta non è stata indolore. Credere che si tratti di un aspetto meramente nominalistico sarebbe limitativo. Ero certo che non l’avrei chiamato “Diritto eccle-siastico”. In primo luogo perché non fosse confuso con un manuale tradizionale o con un testo per concorsi [Chi acquista un libro chia-mato “Diritto ecclesiastico” ha diritto a veder soddisfatta l’aspettati-va di trovare un manuale completo che lo aiuti a districarsi nella ma-teria con metodologia e sistematica tradizionale. Ricordo che quando fui chiamato a far parte della commissione per l’esame di stato un magistrato – che interrogava in Diritto ecclesiastico quando io non ero presente – mi disse: «Quando tu parli di Diritto ecclesiastico apri orizzonti. Quando interrogo io non c’è pathos. Parlo sempre la stessa lingua dei candidati: abbiamo studiato tutti sul Simone!». Per me fu un bel complimento (ma va detto che lo spettro di tenere in vita il Diritto ecclesiastico grazie agli esami di Stato e ai Manuali Simone continua ad aggirarsi per l’Italia!)].

Nemmeno sono stato spinto dalla volontà di differenziarmi. Ero piuttosto condizionato dalla scarsa capacità comunicativa che attri-buisco alla locuzione “Diritto ecclesiastico”. Secondo me, chi acqui-sta un libro chiamato “Diritto ecclesiastico” o già sa cos’è il Diritto ecclesiastico, o è costretto a comprarlo perché deve sostenere un esame di Diritto ecclesiastico. Desideravo piuttosto rivolgermi a chi non sa cos’è il Diritto ecclesiastico: e per raggiungere questo obbiet-tivo l’espressione “Diritto e religione” mi sembrava certamente più

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affabile. Per la verità avevo pensato di intitolarlo “Laicità, diritto e religione”. Che mi sembrano i poli attorno ai quali ruotano le nostre riflessioni. Ed infatti ho dedicato un intero capitolo ad approfondire questo tema, che tuttavia non esaurisce il contenuto del libro.

L’Editore mi ha quindi convinto ad usare solo i termini “Diritto e religione”: non ci ha messo molto. Quando mi capita di rispondere ad una domanda sui miei interessi, per evitare fraintendimenti, da anni dico solo «Diritto». Evito così di dovermi sobbarcare la fatica di spiegare cosa sia il diritto ecclesiastico. Credo di avere a che fare con gente normalissima, che non sa cosa sia il “Diritto ecclesiastico”, ma coglie al volo il fascino dell’intreccio implicito che lega la dimensio-ne religiosa e quella della prassi quotidiana, in cui il diritto gioca un ruolo decisivo in termini sia espliciti sia impliciti.

4. Usando l’espressione “Diritto e religione” ho anche preso una po-sizione netta nel dibattito che serpeggia fra i docenti di Diritto eccle-siastico (e canonico) circa il nomen della disciplina. Dipendesse da me, abbandonerei senza esitazione la locuzione ottocentesca “Diritto ecclesiastico”. La sua intraducibilità oltre le frontiere europee (ma forse solo spagnole) mi pare già un’ottima ragione. L’ecclesiastical law è il diritto canonico anglicano: di cui in genere non ci curiamo se non in via eccezionale. Ci interessiamo invece di law and religion. Non ne faccio una mera questione terminologica o da interpreti/tra-duttori. La faccenda tocca da vicino i contenuti.

Le attuali relazioni che legano diritto e religione nelle odierne società multiculturali non hanno molto a che vedere con le logiche verticali dei rapporti fra Stato e Chiesa/e, che hanno monopolizzato i secoli passati fino agli anni più recenti, e che hanno condizionato pure il Diritto ecclesiastico e gli ecclesiasticisti. Identificarci oggi con gli studiosi dei rapporti giuridici fra Stato e confessioni religiose – quasi fossimo gli esperti delle faccende concordatarie (o affini) – mi sembra un errore. La nostra preoccupazione sostanziale dovrebbe restare la tutela e la promozione delle libertà, prima fra le quali quella di religione; di cui indaghiamo gli aspetti giuridicamente rilevanti. Per poterlo fare dobbiamo restare in ascolto della vita vera; e, consa-

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pevoli della limitatezza del nostro campo, farci aiutare da sociologi, antropologi, storici e via dicendo.

Per tradizione disciplinare conosciamo qual è il contenuto del-la relazione che il diritto intreccia col potere, specie quello religio-so, e ne abbiamo indagato la dimensione giuridica. In questo senso abbiamo molto da dire a chi studia o si interessa di questi aspetti; spesso affrontati senza attribuire la giusta importanza all’elemento giuridico. Se torneremo ad avere come punto di riferimento la tutela e la promozione delle libertà i nostri studi potranno recuperare la centralità che vanno perdendo, perché torneranno ad interessarsi di questioni che toccano la vita concreta di tutte e di tutti.

E proprio guardando a questa vita concreta incontriamo quotidia-namente la sfida che ogni giorno affronta chiunque voglia autodeter-minarsi liberamente. Questa lotta per la libertà di essere se stessi, che un tempo si giocava principalmente in termini di libertà religiosa, oggi si estende in altri campi, che a buon diritto possiamo coltivare. I termini dei problemi identitari toccano ancora l’appartenenza reli-giosa, ma in modo analogo attraversano le opzioni culturali o politi-che, come anche quelle di genere, che interessano il diritto come (se non più di) quelle religiose (basti pensare al matrimonio fra persone dello stesso sesso o alla questione dei simboli, alle varie opzioni di coscienza). La lotta per essere se stessi si concretizza in un impegno che dà luogo ad un insopprimibile incontro fra la dimensione etica che contrassegna la vita di tutti e le regole che il diritto non solo propone, ma impone. Mi pare che su tale versante chi si interessa di diritto e religione debba coprire una posizione di primo piano che l’ecclesiasticista – inteso in senso tradizionale – non sempre ha il coraggio di tenere.

È peraltro vero che assistiamo ad una rinascita di interesse per le tematiche religiose. La religione non è morta, come qualcuno profe-tizzava. Le questioni religiose sono continuamente sulle pagine dei giornali, spesso associate alla dimensione dei conflitti: dal terrorismo internazionale alle polemiche interne tra forze politiche e istituzioni religiose, alla scissione fra religione e cultura. A mio avviso questo rinnovata centralità religiosa non dipende tanto dalla rinascita del

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senso religioso, quanto da una più profonda risistemazione dei rap-porti tra le esigenze etiche dell’umanità e lo spazio delle scelte politi-che. Investe direttamente il processo di secolarizzazione che – nono-stante le apparenze più vistose – tocca l’Occidente quanto l’Oriente caratterizzando la globalizzazione di cui tanto si parla.

Più che alla rinascita del religioso, stiamo assistendo alla rinascita dell’individualismo, con conseguenze da approfondire sul lato del-la ridefinizione delle identità. Tale circostanza si accompagna a una accentuazione del pluralismo religioso e culturale che rende sempre meno frequenti le ipotesi di “monismo religioso” alle quali erava-mo abituati e sulla base delle quali abbiamo costruito le regole della convivenza civile. Ormai nessuna parte del mondo (salvo, forse, lo Stato del Vaticano!) vede vivere (in un solo Stato-ordinamento giuri-dico) una sola confessione religiosa – o una sola ideologia religiosa. In Italia il rapporto fra religione e diritto, che fino a pochi anni fa era quasi totalmente assorbito dalle dinamiche relazionali fra Stato e Chiesa cattolica, presenta contorni del tutto nuovi. Le ipotesi conflit-tuali più concrete – vale a dire con minore spessore ideologico – si registrano soprattutto verso la presenza di comunità non omogenee al tradizionale contesto culturale italiano. In modo particolare verso gli islamici, nei confronti dei quali ci si ostina a non ritenere ripetibile la soluzione negoziata adottata con altre, ben più piccole, confes-sioni religiose. Alimentando così un conflitto culturale che sembra rafforzato proprio dalla differenza religiosa, vissuta come problema invece che come opportunità. Di fronte a tale conflitto il legislatore tace, l’esecutivo esprime un’esplicita tendenza giurisdizionalista, e la dottrina spesso balbetta.

Se da un lato già disponiamo degli strumenti di base per affronta-re tali problemi, dall’altro lato credo dobbiamo ancora dotarci di at-trezzi che ci aiutino nell’analisi dei fenomeni e nella individuazione delle strade che consentono di proporre soluzioni efficaci. I conflitti rischiano di scalare in forme violente e le possibilità di incontro si trasformano in scontri. In tale contesto dovremmo proporre il dialo-go laico – inteso tanto come valore quanto come metodo – interpre-tandolo come strumento formidabile di gestione dei conflitti. Qui sia-

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mo nel cuore del rapporto fra diritto e religione: non mi sembra che tali sfide possano essere affrontate mediante il tradizionale schema della relazione fra ordinamenti. Penso perciò che il diritto ecclesia-stico tradizionalmente inteso abbia bisogno di rinnovarsi e di aprirsi verso nuove frontiere.

5. Il mio libro ha l’ambizione di entrare dentro questi temi che il col-lega Mario Ricca da tempo sollecita ad approfondire nella dimensio-ne interculturale. Ragioni editoriali mi hanno impedito di affrontarli con la distensione che avrebbero meritato. Per il momento ho potuto solo proporre suggestioni “in pillole”, che mi ripropongo di siste-mare in una futura (non lontana) edizione del libro. Sono convinto che abbiamo bisogno di un approfondimento culturale che ci aiuti a guardare un po’ più lontano del nostro cortile. Per convivere in pace dobbiamo sforzarci di conoscere meglio gli altri. Dobbiamo perciò riprendere a studiare per entrare in dialogo con un dibattito più lar-go che vede talvolta i giuristi in una posizione marginale. Abbiamo qualcosa da dire; tirarsi indietro significherebbe addossarci colpe che possiamo ancora evitare di caricarci.

In questo senso non solo mi pare che sia sempre più necessario impostare i rapporti tra diritto e religione in termini di promozione della libertà personale e collettiva, quanto di insistere sul fatto che questa esigenza si presenta come una diretta conseguenza della di-gnità umana. È quest’ultima che fonda le pretese di libertà, ed al tempo stesso impone al diritto di assecondarle.

Tali esigenze di libertà devono peraltro a loro volta “liberarsi” dal paradigma verticale proprio delle relazioni apicali fra Stato e soggetti religiosi che ha condizionato il Diritto ecclesiastico tradizionale. Il ricorso alle intese, recentemente ripreso in termini ancor più sciatti del passato, conferma la tendenza a conservare tali relazioni nello schema degli accordi fra poteri che contrattano provvidenze econo-miche, lasciando da parte le risposte politiche e – in quanto tali, poi – giuridiche richieste da una società sempre più multiculturale. Tale questione non è una mera conseguenza dei recenti fenomeni migra-tori. L’accentuazione del pluralismo religioso e culturale è in parte

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indipendente da questi aspetti. È anche il frutto di una società seco-larizzata che presenta domande nuove alle quali il multiculturalismo non ha saputo dare risposte.

Da questo punto di vista la mia scelta esce rafforzata. Attraverso lo spostamento dell’attenzione verso i fenomeni identitari social-mente più rilevanti e conflittuali, intendo prendere parte per un cam-biamento di orizzonti fondato sulla solida tradizione del “Diritto ec-clesiastico”, che mi piacerebbe condurre verso spazi più larghi che contemplano lo studio dei rapporti fra diritto e religione.

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Parte seconda

Commenti sulle opere considerate

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Diritto e religione, di Macrì, Parisi e Tozzi

Diritto e religione, di Macrì, Parisi e Tozzi

di rinaldo BerTolino

La felice occasione di questo Incontro pisano, intelligentemente pen-sato e voluto dai colleghi Tozzi e Consorti, consente una opportuna riflessione sullo stato attuale della disciplina del Diritto ecclesiastico, per come è rappresentata in quattro importanti manuali di edizione recente. A me è toccata la fortunata opportunità di riflettere sul libro Diritto e religione, di Gianfranco Macrì, Marco Parisi e Valerio Tozzi.

Dico subito che il libro, piccolo per mole, è invece ricco di conte-nuti; suscita interesse, perché capace di sintesi sempre adeguatamen-te motivate e di dettagliate analisi critiche; merita di essere studiato, nell’insieme e negli specifici aspetti dei temi trattati.

Un libro-frontiera, che colloco volentieri tra passato e futuro della disciplina del Diritto ecclesiastico: esemplare anche per la metodo-logia di collaborazione adottata dagli autori, colleghi di età diversa e di differente qualificazione accademica, in cui Maestro e allievi si pongono allo stesso livello e riescono in una armonica sintonia sui temi trattati, attraverso un evidente e fecondo dialogo nella ricerca comune.

Meno appropriato ritengo per contro il titolo affidato al volume, soprattutto se voglia essere – come è nelle intenzioni degli autori – la proposta per una nuova denominazione scientifico-didattica della classica disciplina del Diritto ecclesiastico.

Anch’io la penso ormai bisognosa di modifica e di innovazione; ma continuo a pensare preferibile la denominazione ‘diritto delle re-ligioni’ o, meglio ancora, ‘diritto pubblico delle religioni’, con l’uso del genitivo sia nel modo oggettivo che in quello soggettivo.

In forma soggettiva, perché in tal modo si può rispondere sostan-zialmente agli interrogativi della religione e delle confessioni; in modo oggettivo, perché la religione svolge funzioni sociali, etiche e

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civili, rilevantissime nella vita di ogni ordinamento giuridico statuale o sovranazionale, le cui analisi e regolamentazione bene s’attagliano alla logica, metodologia e, appunto, normazione giuridiche.

Il libro viene presentato come una semplice introduzione allo stu-dio della disciplina giuridica italiana del fenomeno religioso; ma a me sembra molto di più. Coglie infatti – e li studia adeguatamente nella loro evoluzione – quasi tutti gli elementi della materia ecclesiasticisti-ca: i fattori storici e la disciplina costituzionale, raffrontata, nelle pa-gine di Macrì e di Parisi, con la normazione e la dimensione europee.

Tutte le sue pagine sono ispirate e sorrette dalla forte passione civile degli autori, che hanno come convinto traguardo la migliore giustizia, sotto i profili della uguaglianza e della libertà dei consocia-ti, nella disciplina del loro credo religioso individuale. Dal canto mio sottolineerei però l’esigenza della tutela anche di quello collettivo, convinto come sono della piena condivisione sul punto di Valerio Tozzi, il quale non casualmente scolpisce un perfetto medaglione della figura del giurista (mi augurerei, comunque, di quella dell’ec-clesiasticista) e della sua funzione, richiedendo (p. 84) ch’egli sappia «operare nel senso dell’equilibrio del sistema, con tutta la ricchezza della attualità dello svolgimento del suo compito, ma [quanto prezio-sa risulta questa notazione] con i limiti della fallibilità dell’uomo».

Ricerca, dunque, di un equilibrio nella politica e nella legislazio-ne del fatto religioso. Trovo pertanto del tutto condivisibile il rifiu-to, evidenziato con molta forza nel testo, della teoria e del metodo dei cosiddetti ‘diritti riflessi’ in materia religiosa, cari al guardasi-gilli dell’infausta epoca fascista Alfredo Rocco, con cui si é arrivati facilmente a negare fondamentali diritti della persona e la sua liber-tà religiosa. A pagina 33 si incontra un giudizio molto fermo al ri-guardo: «la fede delle persone (se ortodossa)», scrive Tozzi, «cessò di essere un diritto per divenire manifestazione di appartenenza alla patria, espressione del carattere nazionale e identificata con i vole-ri dell’autorità ecclesiastica, cui venne affidata la rappresentazione istituzionale degli interessi e dei bisogni delle persone; la religione divenne nuovamente un problema di relazioni fra Stato e Chiesa cattolica».

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La considerazione, sicuramente condivisibile, si accompagna peraltro ad una valutazione negativa di tutta la (e di ogni) politica concordataria: di quella del ’29, ma anche dell’apprezzamento dato-ne nell’art. 7 e, di riflesso, pure nell’art. 8 della nostra Costituzione repubblicana.

C’è, in verità, un interrogativo di fondo, decisivo, nelle pagine del volume, che lo accompagna e motiva. Lo si trova a pagina 135: «In una società pluralista e multiculturale, fondata sul principio dell’u-niversalità della dignità della persona umana e del radicamento dei diritti inviolabili dell’uomo, ivi compresa la libertà religiosa, è anco-ra accettabile che i rapporti sociali a carattere religioso siano disci-plinati da leggi civili che perpetuano il modello dei diritti riflessi, tu-telando la libertà religiosa della persona prevalentemente attraverso il patronnage delle confessioni religiose?».

La risposta che Tozzi e i coautori del libro danno è negativa: essi parlano infatti della sola strumentalità dell’attenzione istituzionale alle organizzazioni religiose rispetto alla esigenza primaria della pro-mozione della persona umana. Per giungere a questa conclusione si guarda al quadro costituzionale italiano, i cui solenni principi – frutto della mediazione di diverse istanze politiche – debbono essere inter-pretati secondo il modello della loro enunciazione aperta. Consiste in questo, infatti, l’attualità della funzione del giurista, che deve sapere interpretare e attuare i principi in maniera flessibile, capace di farne corrispondere i contenuti alle effettive condizioni politiche e sociali dell’ordinamento. Ma poiché è assodato che la persona umana è a fondamento della organizzazione dello Stato e dei suoi poteri; che esiste un inderogabile principio personalista nella filigrana connet-tiva del nostro testo costituzionale; che «la persona umana diviene l’oggetto diretto dell’attenzione dell’ordinamento e [che] la socialità dell’uomo, anche in materia religiosa, viene riconosciuta come sua dimensione normale, da tutelare al pari dell’individualità» (p. 38), ne deriva (ivi) «una tutela diretta dei bisogni dell’individuo ed una tutela delle formazioni sociali nelle quali si realizza la personalità umana, diretta ma strumentale al bene primario, che è appunto la tutela della persona umana stessa».

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Questa posizione è rafforzata dalla necessaria interazione tra il diritto interno del nostro ordinamento – anche di quello di rango co-stituzionale – e la normazione europea, della quale trattano Macrì e Parisi. V’è, in effetti, una profonda consonanza di pensiero tra questi autori e Valerio Tozzi; specialmente là dove Macrì scrive (p. 103) che l’identità europea ritrova «nel ‘super valore’ della dignità della per-sona umana […] il suo ‘nucleo duro’ costituzionale in vista della co-struzione della nuova casa comune», o, anche (p. 107), questo valore applica metodologicamente alla new governance europea, la quale muoverebbe dai bisogni religiosi dell’uomo, collocando sullo sfondo le diverse forme organizzate delle religioni, che sono anch’esse – si riconosce – «portatrici di bisogni, ma non necessariamente coinci-denti con quelli dei rispettivi seguaci».

Anche la giurisprudenza e le fonti normative europee, studiate da Parisi, riconoscono innanzi tutto i diritti delle persone, senza ipotiz-zare convenzioni o norme particolari di protezione per le chiese.

Secondo gli autori del volume, dunque, sia la nostra normativa costituzionale interna che il diritto sostanziale e la giurisprudenza europei concorderebbero sulla preminenza della persona (e della sua dignità), dei suoi bisogni e del suo credo e sentire religiosi, rispetto alla presa in considerazione della dimensione organizzativa e socie-taria del fenomeno religioso.

Su questo punto sorgono però mie perplessità e il dissenso con la posizione degli autori. Se anche si ammetta, infatti, che le considera-zioni sopra riportate siano esatte, ove si voglia attualizzare (per usare l’espressione cara a Tozzi) un diritto giusto in materia di diritto e di politica ecclesiastica, permane sempre, invero, l’esigenza di ricerca-re il giusto punto di equilibrio tra il momento della individualità e quello comunitario e sociale del fenomeno religioso.

Questa esigenza impone che non si possa prendere in considera-zione soltanto il singolo, con pregiudizio delle confessioni religiose, ignorando e svuotandone la realtà storica, pregiuridica e, pure, quella giuridico-istituzionale. È fuor di dubbio che il principio di attualità, nella società odierna caratterizzata da uno spiccato soggettivismo, porti a privilegiare la dimensione individuale del sentire religioso.

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Ma – lo dico da canonista – essa non esaurisce la realtà di quel mo-mento, né, appunto, corrisponde appieno alla realtà storico-sociale.

Intanto, non condividerei – ma ciò non sta scritto nel libro né appare essere nelle intenzioni dei suoi autori – che si consideri la per-sona uti individuus soltanto, dimenticandone la dimensione sociale, quella sua uti socius. È che, proprio dal punto di vista religioso, la professione individuale, il solo sentire soggettivo, il riferimento uni-camente personale all’Essere supremo – nel che è certamente la più convinta e coerente espressione di una fede religiosa – non è (ormai) adeguata a rappresentare correttamente le realtà religiosa, di quella almeno delle chiese cristiane; certo non della Chiesa cattolica.

Se, nel passato, il pensiero liberale pretendeva di riconoscere e di apprezzare il solo vissuto individuale del credente, voluto parados-salmente quasi solipsistico, oggi non può più essere così. La Chiesa del Vaticano II ha obbligato a una aggiornata riconfigurazione critica del proprio ordinamento; ha offerto di sé una dimensione societaria più completa e forte (quella del popolo di Dio); ha riscoperto il va-lore della comunità – della communio – rispetto alla fede e alla posi-zione del singolo christifidelis. Si tratta oltretutto di una dimensione societaria, che in una corretta visione teologica ed ecclesiologica, non può ridursi a quella storica soltanto, dovendo configurarne la coessenziale realtà escatologico-sacramentale: la Chiesa, appunto, come Ursakrament (K. Rahner).

Non intendo introdurre qui il tema, pur importante, della configu-razione giuridica dell’appartenenza confessionale, che Silvio Ferra-ri, in dissenso con Valerio Tozzi, accredita a manifestazione di una pubblica identità. Guardo a profili di sostanza; a come possa e deb-ba essere un corretto, nuovo sentire religioso, il quale – per essere tale – non può essere soltanto individuale: non si dà, infatti, sentire religioso ove manchi la religio; ove manchi, cioè, la configurazione societaria, l’appartenenza comunionale alla Chiesa.

Mi limito a probanti esemplificazioni e momenti di vita della e nella Chiesa cattolica, nella quale si può ben dire che non esista il christifidelis senza di questa, e che non esista la Chiesa senza la per-sona del fedele, nella sua identità e autonomia. Ma l’appartenenza

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alla Chiesa, la qualificazione del soggetto come christifidelis, l’ac-quisizione stessa della sua personalità giuridica avvengono nel batte-simo (can. 96), il quale è sacramento e strumento proprio alla istitu-zione e di questa costituisce la insostituibile via di ingresso. Se, poi, il battesimo (da non intendersi, ovviamente, in modo solo anagrafico) è il momento iniziale della fede religiosa individuale, la partecipazione piena del credente, quella vera, alla vita comunitaria della Chiesa avviene e si esprime attraverso il sacramento dell’eucarestia. Ma la titolarità sui sacramenti appartiene prevalentemente alla dimensione istituzionale della Chiesa e alla sua organizzazione, anche giuridica.

Si può, così, ritornare al preteso compromesso raggiunto, a mio avviso sapientemente, nella carta costituzionale del ’48 e al necessa-rio punto di equilibrio tra le esigenze di tutela individuale e di quella comunitaria del credo religioso. Non sono, invero, ragioni compro-missorie, ma di una più autentica comprensione della realtà del feno-meno religioso, quelle che hanno condotto i costituenti a un giusto punto di equilibrio, di coordinazione, tra i due momenti: gli artt. 7, 8 e 20 cost., orientati nella direzione societaria, sono equilibrati e coordinati, così, dagli artt. 2, 3 e 19, che privilegiano invece quella individuale.

Gli autori stessi del libro colgono, opportunamente, questi profili; ne elaborano anzi approfondite analisi critiche e li inquadrano assai bene nella temperie storica e politica di quel tempo.

Da ultimo, su un punto – ma è decisivo – sono pienamente d’ac-cordo con Tozzi: che il prius del riconoscimento e della tutela della libertà religiosa si identifica sempre con quello della libertà di co-scienza. Anch’io l’ho sostenuto da sempre nei miei studi, motivan-dolo sino al riconoscimento estremo della obiezione di coscienza; difendendo la tesi che tale libertà non possa esaurirsi nelle sole sue estrinsecazioni di natura religiosa.

Anche per me è dunque indubbio che il prius di ogni autenti-ca fede religiosa sia insito nella capacità intellettuale e nel cuore di ogni persona; ma la confessione religiosa non è, per ciò stesso, solo un posterius. Essa è invece coessenziale al credo religioso di ogni uomo, meritevole pertanto di un uguale apprezzamento rispetto alla

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libertà a lui riconosciuta. L’io religioso – mi scuso dell’assonanza delle parole – non può prescindere mai dalla realtà di Dio. Ancor più del Dio cristiano, incarnatosi nella storia, rivelato nella testimonian-za del Vangelo, pregato nella unità di fede, dottrina e di vita nella comunione ecclesiale.

Ma non è solo il riconoscimento della necessaria strumentalità della organizzazione confessionale a reclamare una disciplina, appo-sita e adeguata; si tratta anche, nella attuale situazione di pluralismo confessionale, del riconoscimento ineludibile della identità, storica e istituzionale, di ciascuna chiesa, specie di quelle significativamente presenti nel nostro Paese.

In un recente libro, che raccoglie pagine molto belle di Margiotta Broglio sulle figure dei Maestri delle nostre discipline (Religione, diritto e cultura politica nell’Italia del Novecento, il Mulino, Bolo-gna, 2011) vengono raffrontate le posizioni del Ruffini e di Scaduto. Non intendo, naturalmente, presumere di paragonarmi al Maestro torinese, né di attribuire a Valerio Tozzi posizioni intellettualmente riconducibili alla dottrina e alla visione politica dello Scaduto; certo è che la mia visione del Diritto ecclesiastico sembra divergere dalla sua, precisamente sul punto in cui Benedetto Croce attribuiva al Ruf-fini (p. 29) «qualcosa di più profondo che non il cosiddetto consenso nelle idee: il consenso nel sentimento verso la vita vissuta».

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Diritto e religione in Italia ed Europa di Luciano Musselli

Diritto e religione in Italia ed in Europa di luciano Musselli

di francesco MarGioTTa BroGlio

Vorrei anzitutto ringraziare i promotori di questo incontro, Valerio Tozzi e Pier Luigi Consorti, ma vorrei ringraziare anche Paolo Mo-neta che per tanti anni ha tenuto alto il prestigio delle nostre materie nell’Ateneo di Pisa.

Prenderei lo spunto dal riferimento di Consorti agli “effettivi” de-gli studiosi delle discipline IUS 11, per sottolineare che essi sono molto più numerosi di quelli della mia epoca e che, diversamente da allora, molti ricercatori tengono corsi. E ricorderei che per lo studente il “professore” è quello che svolge il corso e fa gli esami, non quello che abbia vinto un concorso. Una situazione, a mio avviso, senz’altro positiva. Vorrei, poi, spezzare una lancia a favore dell’ADEC: se tutti i numerosi presenti si iscrivessero e fossero attivi nell’associazione presieduta da Enrico Vitali, riusciremmo forse ad avere, come disci-plina, un po’ più di spazio e di forza accademica.

Veniamo ai manuali. Ce ne sono sempre stati due tipi: quelli “omnibus” e quelli che privilegiano alcune tematiche di fondo te-nendo presenti l’attualità o il maggiore rilievo politico, quelle che Consorti ha definito “novità”. Ricordo che Orio Giacchi, parlando di un manuale molto diffuso negli anni Sessanta del Novecento, mi disse: «Vede quel manuale è bellissimo e completissimo, ma è come l’orario delle ferrovie. C’è tutto: stazione di partenza e di arrivo, ora-rio di partenza e di arrivo, ma se si rompe il treno o c’è lo sciopero dei ferrovieri il sistema – e quindi anche il manuale – non funziona più». Era una critica ai manuali di quegli anni che erano molto espo-sitivi e poco problematici, con l’eccezione delle Lezioni di Jemolo. Riflettendo sui temi di questo incontro mi sono, anche, ricordato che quando ho sostenuto l’esame di Diritto ecclesiastico alla Sapienza di Roma nel lontano 1958 la materia era prevista in tutte le facoltà

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Francesco Margiotta Broglio

giuridiche al terzo anno del corso di laurea in Giurisprudenza. Oggi in ogni ateneo le materie Diritto ecclesiastico e Diritto canonico, a Giurisprudenza, e Storia e sistemi delle relazioni Stato-Chiesa e Storia delle istituzioni religiose, a Scienze politiche, sono collocate in anni di corso diversi. E ovviamente un manuale per studenti di secondo anno dev’essere concepito in maniera diversa da un corso di lezioni destinato a studenti del quarto o quinto anno (del bien-nio specialistico per scienze politiche): è una questione che non può essere sottovalutata in una discussione sui manuali universitari che vanno sempre più orientandosi anche verso il diritto comparato delle religioni e verso i sistemi del Consiglio d’Europa e dell’Unione Eu-ropea. Nel secolo passato il corso era obbligatorio e di sessanta ore (in pratica cinquanta) magistrali, mentre oggi, come si fa notare nella “brochure” che è stata distribuita, in vista dei concorsi,le materie già “ius 11” sono state inserite nel macrosettore “Diritto costituzionale e diritto ecclesiastico”, il che finisce per escludere tutto il diritto matri-moniale e anche la storia del diritto canonico.

Lasciatemi ricordare, in proposito, che nel “Cours de droit con-stitutionnel” professato alla Facoltà di diritto di Parigi nell’anno ac-cademico 1835-36 (integrato nel 1838 e ripubblicato più volte dopo la sua morte anche a cura di Carlo Bon-Compagni), Pellegrino Rossi affermava che la materia ecclesiasticistica trova la sua tete de chapi-tre in quel ramo fondamentale del diritto pubblico che “dicesi costi-tuzionale”. Un corso di cui venne edita negli anni novanta un’antolo-gia (Lezioni, a cura di G.F. Ciaurro, A. Bartoli e G. Negri, Colombo, Roma, 1992), ma che varrebbe la pena di ristampare integralmente, menzionando anche la sua risposta a Montalembert alla Camera dei Pari di Francia, riprodotta in appendice alle Libertés de l’église galli-cane del Dupin (1860). Del resto nell’Europa del secolo XIX, tranne che in Germania (come aveva spiegato lo Hinschius a fine secolo e come ha evidenziato Landau, quasi cent’anni dopo), non erano molti i corsi di quella materia che nel Regno di Napoli era definita “polizia ecclesiastica”: basta ricordare in proposito la prolusione palermitana di Catalano del 1965, il recente contributo (2004) di Ibàn sulla pro-lusione, nella stessa Università, di Francesco Scaduto sul “concetto

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moderno” della disciplina, letta nel 1884, e il saggio di Adami sulla manualistica tra fine ’800 e inizi ’900 apparso nel volume del 2011 curato da Varnier, sul quale tornerò. Un testo, quello di Scaduto, nel quale l’autore si impegnava a «presentare nell’aspetto critico che le si conviene, tanto dal lato del diritto privato, quanto, e più, dal lato del diritto pubblico» la rinnovata materia del corso di laurea in giu-risprudenza.

Vorrei anche far notare che, rispetto agli studi della mia genera-zione (come dimostrano i volumi esposti all’ingresso di questa sala), a partire dalla fine degli anni Sessanta, i manuali di Diritto ecclesia-stico e alcuni di canonico sono usciti fuori dal recinto dell’editoria giuridica tradizionale per approdare nei cataloghi di editori “gene-ralisti” (penso al Mulino e a Laterza), e, quindi, in tutte le librerie, con conseguenze non irrilevanti per quei lettori e per quell’opinione pubblica che non frequentano solitamente le così dette librerie “giu-ridiche” prossime alle facoltà o ai palazzi di giustizia. Del resto un autore come Jemolo era stato ben presente nell’editoria non specia-listica, mentre chi vi parla, insieme a Carlo Cardia, aveva provato, dalla seconda metà dei Sessanta, ad uscire da quel pur glorioso set-tore editoriale. Una “escursione” non apprezzata, allora, da tutti i docenti, ma che credo abbia giovato allo sviluppo della manualistica e al rinnovamento profondo della disciplina verificatosi negli ultimi vent’anni.

Prendiamo, per continuare il ragionamento, gli Elementi di diritto ecclesiastico di Jemolo del 1927, pubblicati con un editore “generali-sta”, il Vallecchi di Firenze (quello di Papini, Prezzolini, Palazzeschi, Pratolini, Soffici), e leggiamo quanto scrive nel paragrafo “Nozione del diritto ecclesiastico”: dopo aver elencato le opinioni di Scaduto, Schiappoli, Coviello, Romano, del Giudice e Falco, conclude: «Nes-suna di queste definizioni ci pare interamente accettabile» anche perché tutte lasciano in «ombra una circostanza essenziale». Quale? «Che la disciplina include in sé due diversi sistemi organici di norme giuridiche, accomunati soltanto per opportunità di trattazione didat-tica: il diritto della Chiesa e il diritto dello Stato» (in effetti i manuali dell’epoca contenevano, in genere, una prima parte canonistica e una

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seconda ecclesiasticistica). Per quanto riguarda quest’ultima, aggiun-ge: «come parliamo di un diritto civile, di un diritto commerciale, di un diritto amministrativo, astrattamente, senza riferirci a un deter-minato Paese, così possiamo anche parlare di un diritto ecclesiastico dello Stato in astratto, come del complesso organico di norme statali che nei vari Paesi regola la vita delle società religiose». Se a livello didattico era opportuno “accomunare” il diritto della Chiesa di Roma e quello italiano, riteneva che a livello pratico le «norme regolatrici della vita delle altre confessioni come quelle degli altri Stati» sareb-bero state «prive di interesse». Altri autori, invece, come il Galante (1923) e il Badii (1925), avevano preso in considerazione i sistemi di relazioni Stati-Chiese anche di altri paesi, mentre, come ha mes-so in evidenza Mirabelli, era tradizionale l’interesse della dottrina italiana “per i sistemi d’oltralpe” (basta pensare agli studi di Schiap-poli e Ambrosini sul Diritto ecclesiastico francese prima e dopo la Separazione o al Ruffini “traduttore” del Friedberg , al Bertola del Regime dei culti in Turchia del 1925 o al Giannini de I concordati post-bellici del 1929-36). Ciò per ricordare che, se le più giovani ge-nerazioni di ecclesiasticisti hanno “scoperto” il diritto europeo delle religioni, o quello internazionale dei culti, o la comparazione giu-ridica in questi settori, l’interesse per queste tematiche e per questi approcci data almeno dalla mitica “Biblioteca di scienze politiche”, diretta dal costituzionalista torinese Attilio Brunialti, il cui ottavo vo-lume (Torino, 1892, circa 1400 pagine) era dedicato alle relazioni fra gli Stati e le Chiese. Nel 1933 compare presso Hoepli il manuale di Gabriele Cornaggia Medici (allora assistente alla cattedra di Diritto ecclesiastico di Milano ricoperta dal Falco) con il nihil obstat del censore mons. Oldani, con l’imprimatur della diocesi di Milano e con il sottotitolo Storia e sistema del diritto della Chiesa. Diritto dello Stato in materia ecclesiastica. Scrivendo di “Concetto, caratteri e posizione delle norme in materia ecclesiastica nel sistema generale del diritto italiano”, Cornaggia critica implicitamente le definizioni correnti e dichiara che «il c.d. diritto ecclesiastico in senso statuale (più esattamente il diritto dello Stato in materia ecclesiastica) […] può con definizione unitaria considerarsi il complesso delle norme

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emanate autarchicamente dalla Corona pel regolamento dell’attività, delle istituzioni, delle persone e delle cose della religione ufficiale dello Stato». Ovviamente siamo all’indomani dei Patti, della legge sui culti ammessi e della normativa sulle comunità ebraiche, ma va riconosciuto che l’autore è uno dei pochi che valorizza l’art. 18 dello Statuto albertino e che qualifica l’art. 1 «una importante riserva per il passato legislativo ecclesiastico e un insuperabile vincolo per il futuro», spiegando che libertà politica e libertà di culto non potevano essere confusi e che, a più forte ragione dopo il 1929, il «principio che la religione cattolica è la sola religione dello Stato […] deve rappresentare la regola, e il principio della libertà religiosa, in quan-to posto unilateralmente dallo Stato, soltanto l’eccezione». Non so se avesse ragione: certo a quasi novant’anni di distanza aspettiamo ancora, nonostante la fine del principio confessionista, una legge ge-nerale sulla libertà religiosa.

Consentitemi, però, di segnalare il recente volume (2011), curato dall’amico Varnier per i tipi dell’Università di Macerata, che racco-glie una serie di importanti contributi, dal titolo La costruzione di una scienza per la nuova Italia: dal diritto canonico al diritto eccle-siastico. Un volume di notevole rilievo che sarebbe stato utile po-ter discutere in questo incontro al quale avrebbe sicuramente offerto un prezioso elemento di confronto. Mi si permetterà, comunque, di segnalare un dissenso con le conclusioni del saggio predisposto da Silvio Ferrari (autore della più importante ricerca “storica” sui ma-nuali e riviste della disciplina) sulla nascita del Diritto ecclesiastico. In esse l’autore sostiene che «per quanto coperto e negato il gene del diritto canonico continua ad operare all’interno del diritto ecclesiasti-co» e che la sua specificità continua a risiedere nella «attenzione alle ragioni della istituzione che è, a sua volta, l’eco dell’origine canoni-stica di questa disciplina». In un mondo dove pullulano le religioni “senza chiesa” e in un paese, come il nostro, dove la religione di maggioranza è quella degli atei e degli indifferenti, dove i praticanti e i ministri di culto cattolico continuano a diminuire, dove è fortissimo l’aumento dei matrimoni civili, delle libere unioni (anche same sex) e della prole “naturale”, non credo che il Diritto canonico possa avere

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ancora questa rilevanza per un diritto ecclesiastico che deve sempre più qualificarsi come diritto delle libertà di religione e di convin-zioni non religiose, individuali e collettive. Certo alle “filosofie” di cui parla il recente Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea non penso che la antica e gloriosa tradizione canonistica possa dire ancora molto.

Tornando al volume curato da Varnier, vorrei ricordare la vasta rassegna di Cesare Magni del ’39, la prolusione di Catalano del ’65, i vari scritti di Luigi de Luca, i contributi di Ventura, Ferrari, Rabel-lo, Salachas e Fantappiè al Dizionario diretto da Alberto Melloni, la relazione di Tozzi al Convegno di Padova dell’ADEC, e vorrei rin-graziare il medesimo Varnier per la menzione, da lui fatta con grande cortesia, di una delle molte imprese da me iniziate e mai concluse, il Seminario internazionale del 1981 su “Diritto ecclesiastico statuale e cultura giuridica europea (secoli XIX-XX)”, che aveva coinvolto Giovanni Tarello e il collega Schlick di Strasburgo. Gli elementi di riferimento che ho ricordato e quelli richiamati da Varnier, da Ferrari, da Adami e Fuccillo in quel volume, sono punti di partenza impor-tanti per un rinnovato confronto sulla tematica dei corsi e manuali di diritto ecclesiastico.

Veniamo, ora, al “manuale” di Luciano Musselli che mi è stato chiesto di presentare (Diritto e religione in Italia ed in Europa. Dai concordati alla problematica islamica, Giappichelli editore, Torino, 2011). Va subito detto che nel volume vi è una positiva “coniuga-zione” di diritto e di storia. Infatti non viene mai trascurata la di-mensione storica dei problemi sinteticamente affrontati e viene dato ampio conto della doppia dimensione europea dei medesimi: quella del Consiglio d’Europa e quella della Unione europea ora collegate dai meccanismi della “Carta dei diritti fondamentali”, ma pur sempre diversificate, ad esempio, a livello di episcopati cattolico-romani che si riuniscono in due diverse conferenze episcopali, quella della gran-de Europa e quella dei paesi membri dell’Unione europea ed hanno ciascuna un suo presidente. Consentitemi di citare, in proposito, il re-centissimo volume curato da Laura De Gregorio Le confessioni reli-giose nel diritto dell’Unione Europea, edito a Bologna da il Mulino.

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Si tratta, nel caso di questo che si presenta, di una manuale chiaro e semplice per gli studenti: conoscendo la bibliografia di Luciano Musselli e la sua vastissima cultura, dobbiamo apprezzare senz’altro lo sforzo di accantonare la sua formidabile conoscenza della storia e del diritto e di costruire un itinerario comprensibile dagli studenti universitari. Penso che esso sia destinato agli studenti dei primi tre anni del corso di laurea perché, per quelli del periodo successivo di studi giuridici o politici, personalmente preferirei corsi monografici nei quali questo manuale potrebbe essere utilizzato come corso di base. Ricordo che negli anni Settanta, con un gruppo di colleghi di varie discipline che operavano con l’editrice il Mulino di Bologna, sperimentammo la formula del c.d. “manuale componibile”. Si trat-tava di una serie di volumi per le singole discipline che iniziavano con un testo dal titolo “Le basi del diritto …”, al quale seguivano vo-lumi che approfondivano alcune tematiche specifiche, e che ebbero una inaspettata fortuna editoriale. Nella situazione di oggi, disorgani-ca e frammentata didatticamente a seconda degli atenei, si potrebbe, forse, ripensare ad una sperimentazione del genere.

Musselli prende le mosse da una definizione della disciplina del tutto condivisibile («Il diritto ecclesiastico è il diritto di fonte statale che concerne il fenomeno religioso nel suo complesso ed in parti-colare la posizione giuridica delle Chiese e confessioni religiose») ma, a mio avviso, da integrare alla luce dell’art. 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione dell’Unione Europea. Sviluppa poi in tre parti la trattazione (le basi, la dimensione europea, la problematica islamica), cui segue una parte speciale dedicata all’islam di fronte agli ordinamenti occidentali. Privilegia, comunque, in tutto il volu-me la dimensione della libertà religiosa sulla quale, «dopo la Costi-tuzione si accentuerà progressivamente l’attenzione», mentre dopo «la secolarizzazione […] della seconda metà del Novecento» altri oggetti di studio sono apparsi in primo piano: obiezione di coscienza, sette, nuovi culti, laicità dello Stato e problema dell’islam diventato la seconda confessione in Italia. Molti gli aspetti interessanti ma non è possibile in questa sede soffermarsi su tutti. Richiamerei il proble-ma aperto dalla revisione concordataria circa l’applicazione o meno

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ai nuovi accordi e alla legislazione derivata dell’art. 7 della Costitu-zione. Alle due tesi opposte in materia e alla conclusione di Musselli («pare difficile […] che questa ingente massa di norme possa godere di una particolare tutela costituzionale»), osserverei che se gli Accor-di del 1984 hanno avuto la finalità dichiarata di adeguare i Patti del 1929 alle norme costituzionali (sicuramente “rinforzate” dalla teoria dei principi supremi enucleati dalla Corte Costituzionale), il proble-ma di una resistenza supercostituzionale di norme come quelle del 1929, che erano in palese contrasto con la Carta fondamentale e che la Corte Costituzionale ha considerato poi di rango inferiore, non può porsi per una normativa di derivazione pattizia o unilaterale che è stata prodotta in conformità e alla luce dei principi della Costituzione proprio per sanare quegli evidenti contrasti.

Altro aspetto importante della riflessione di Musselli è quello della obiezione di coscienza, sulla quale un maestro come Bertolino scrisse pagine fondamentali, che, superata dalla fine del servizio mi-litare obbligatorio in questo settore, è oggi in primo piano per quanto riguarda l’obiezione all’aborto che, se generalizzata, «può portare a conseguenze […] non facilmente prevedibili». In proposito è ri-chiamata la sentenza 26 maggio 2011 della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha stabilito che le autorità degli Stati aderenti alla Con-venzione europea dei diritti dell’uomo devono organizzare i servizi sanitari in modo che «la libertà di coscienza dei medici» sia garantita «in un contesto professionale che non impedisca ai pazienti di acce-dere ai servizi ai quali hanno legalmente diritto». Il rischio è che per rispettare le coscienze si finisca per tornare agli aborti clandestini.

Sottolineerei, nelle pagine dedicate alla posizione giuridica della Chiesa, la sintetica formula con la quale l’autore definisce il sistema italiano di rapporti Stato-Chiesa cattolica: «“Collaborazione nella se-parazione degli ambiti”. Un sistema concordatario e non separatista, un sistema concordatario però non confessionista, che prende atto del grande rilievo sociale e istituzionale della Chiesa cattolica come, in misura minore, del rilievo delle altre confessioni, senza rinunciare ad essere patria religiosamente neutrale di tutti i suoi cittadini e alla sua dimensione di laicità». Aggiungerei che il sistema deve, oggi,

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prendere atto anche del vasto mondo dell’indifferenza e delle cre-denze non confessionali e che, comunque, rimane sempre irrisolta, anche in presenza di pressioni sociali separatiste, la questione dei due ordini “separati”, ma non definiti, ognuna delle due Parti ritenendo di avere, come scriveva Jemolo, la «competenza delle competenze». Tanto più irrisolta quanto più da parte ecclesiastica e da parte di po-litici “ubbidienti” si continua a parlare di “valori non negoziabili”, come era non negoziabile, ancora cento anni fa, il potere temporale del pontefice “debellato” definitivamente a Porta Pia. Ad esso so-pravvisse, invece, l’istituto carloalbertino della religione dello Stato, il cui significato e la cui storia di circa un secolo e mezzo Musselli richiama per soffermarsi, poi, sulla questione del vilipendio risolta, grazie ad alcune recenti sentenze della Corte Costituzionale, con l’a-brogazione del relativo reato.

Il paragrafo dedicato agli edifici di culto, che illustra puntualmen-te la normativa civile e quella di derivazione concordataria, mi sug-gerisce di richiamare un problema che sembrerebbe di recente essere stato avviato a soluzione: il biglietto d’ingresso nelle 95.000 chiese italiane alle quali tutti hanno diritto di accedere, a proposito del quale il Consiglio Permanente CEI ha di recente stabilito che, salvi casi eccezionali, i vescovi devono garantire «a tutti l’accesso gratuito a quelle aperte al culto perché venga in evidenza la fondamentale de-stinazione alla preghiera liturgica e individuale». Dovrebbero finire così quegli ibridi che sono le “chiese-museo” che violano il principio della apertura al culto pubblico con la pretesa di contributi per spese di mantenimento e sorveglianza facilmente sostenibili attraverso il meccanismo del così detto “otto per mille” previsto dalla legge n. 222/1985.

Nel capitolo dedicato alle confessioni diverse dalla cattolica (con-cetto, intese, disciplina comune) Musselli affronta per primo rispetto ad altri manuali la questione se «la massoneria possa considerarsi una confessione religiosa» e conclude negativamente anche perché se così fosse si finirebbe per ammettere la duplice appartenenza con-fessionale, che se non ricordo male Hans Kung considera invece le-gittima e che, in ogni caso, è tornata alla ribalta con l’ambigua crea-

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zione della Prelatura personale cattolica per gli anglicani transfughi, i cui vescovi e il cui Prelato, diversamente da quello dell’Opus Dei, hanno portato con loro mogli e figli, talvolta, forse, meno sopporta-bili del cilicio. Chiederei a Musselli di riflettere su una situazione del tutto nuova. Vorrei però osservare come non si possa non tenere con-to che, sia nelle dichiarazione n. 1 annessa al Trattato di Amsterdam, sia nel vigente art. 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, grazie alle pressioni delle logge europee, è stata inserita la parificazione delle chiese e comunità religiose con le organizzazioni filosofiche o non confessionali, abilitate, come le prime, a stabilire un dialogo formalizzato con gli organi dell’Unione. A parte la difficoltà di definire questo tipo di organizzazioni, la massoneria ne fa sicura-mente parte se le sue rappresentanze si sono date tanto da fare per ottenere la pur poco definibile formulazione. Starà alla Commissione europea definire i criteri di applicazione dell’art. 17, alla luce dell’art. 10 della Carta di Nizza (che parla di culto, pratiche e riti anche con riferimento alle convinzioni non religiose individuali e collettive) e tenendo conto altresì dello status di organizzazioni filosofiche o pa-raconfessionali (ad esempio Scientology) negli ordinamenti interni dei paesi membri. Certo in Belgio accanto all’Università dei cattolici (Lovanio) vi è l’ateneo massonico “Università libera di Bruxelles”, il cui presidente (rettore) è di solito un alto dignitario massonico, e nei Paesi Bassi la massoneria ha un suo definito statuto, mentre in Francia i presidenti della Repubblica ricevono i dignitari della Gran Loggia come il Consiglio della Conferenza episcopale cattolica e in Gran Bretagna, se non ricordo male, spesso il Gran Maestro è un membro della famiglia reale.

Ovviamente di grande interesse la parte dedicata all’islam dall’au-tore che è uno dei pionieri degli studi in materia nel nostro paese e che fa immediatamente presente, parlando di prospettive di intesa, la mancanza sia di organi o soggetti che possano assumere la rappre-sentanza di tale religione ai sensi dell’art. 8 della Costituzione, sia di un qualsiasi tipo di accordo o coordinamento tra le associazioni rap-presentative degli islamici. Ricorda anche il c.d. “matrimonio tem-poraneo” degli sciiti volto ad evitare avventure di breve durata che

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«altrimenti sarebbero ricadute nell’ottica del meretricio, istituzione condannata dalla morale islamica». A parte i riferimenti “puramente casuali” che si potrebbero fare a recenti situazioni italo-marocchine (senza scomodare il presidente Mubarak) la notazione è di particola-re interesse. Mentre, su una linea diversa ma non irrelata, segnalerei le pagine sui matrimoni celebrati nello Stato Vaticano (specialmente da cittadini italiani) dove il diritto canonico è anche diritto vigente, quelle sulla sempre complessa questione della procedura per la tra-scrizione dei matrimoni concordatari anche nei casi tardivi o post mortem e, infine, quella sull’efficacia civile odierna delle sentenze ecclesiastiche di nullità e quelle, annose e poco utili in una società sempre più secolarizzata (che vede, come nota l‘autore, «una gran-dissima contrazione del numero delle cause di questo tipo»), sulla esclusività o meno della giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio concordatario dopo gli Accordi del 1984 , mentre merita attenzione il problema del rapporto tra esecutività delle sentenze canoniche di nullità e divorzi.

Non mi soffermo sul troppo noto e troppo enfatizzato “tormen-tone” del crocifisso nelle sedi elettorali e in quelle scolastiche, sul quale i giudici della Gran Camera di Strasburgo sembrano aver det-to parole definitive, mentre sottolineo l’importanza delle pagine de-dicate all’ambito europeo a livello nazionale, convenzionale 1950 e comunitario e alla dimensione internazionale della libertà religiosa, nelle quali vedo, e ancora una volta, ignorato il “Codice internaziona-le della libertà religiosa” predisposto dalla Scalabrino per l’Unità di ricerca di Firenze e edito a Leuven, Parigi e Dudley (USA) nel 2003.

Alla parte speciale, organica e argomentata, sull’islam di fronte agli ordinamenti occidentali va riconosciuta una particolare capaci-tà di introdurre a problemi attuali e complessi studenti spesso non predisposti culturalmente ad affrontare temi delicati ma di grande rilevanza, tra i quali ben noto quello dei simboli ostentati e, in par-ticolare, quello dei veli, parziali o totali, indossati da donne musul-mane. Scarso successo hanno avuto i maldestri tentativi dei ministri Pisanu e Maroni di istituire, con spirito vagamente bonapartista, con-sulte e comitati che non hanno prodotto gran cosa. L’unico tentativo

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che aveva portato ad un positivo risultato è stato quello del Ministro Amato che aveva prodotto una rilevante “Carta dei Valori”, in gran parte predisposta da Carlo Cardia, accettata da quasi tutte le orga-nizzazioni islamiche italiane. La «rivalutazione del diritto comune», propugnata da Musselli all’interno di una rigorosa cornice di laicità dello Stato, mi sembra una via senz’altro da percorrere ma con dif-ficoltà fino a che il Parlamento non si deciderà a varare quella «nuo-va e moderna» legge generale sulla libertà religiosa che «traduca in norma lo spirito della Costituzione» (e, aggiungerei, anche quello della ricca normativa di derivazione internazionale ed europea) e che attende ormai da quasi trent’anni (la invocò Craxi nel 1984/85, De Mita, presidente del Consiglio, chiese che venisse predisposta e An-dreotti nel 1993 fece approvare dal Consiglio dei Ministri il relativo progetto). Troppi per quelle molte confessioni, soprattutto orientali o para-islamiche, come i Ba’hai dell’Iran, che potrebbero vedere rico-nosciute le proprie legittime esigenze senza imbarcarsi sugli incerti traghetti delle intese (basti pensare alle molte intese ex art. 8 della Costituzione, concluse e mai approvate dal Parlamento).

Concluderei sottolineando quanto scrive Musselli sulla difficoltà di delimitare il concetto di confessione religiosa, difficoltà oggi ac-cresciuta dal più volte richiamato articolo 17 del Trattato di Lisbona sul funzionamento della Unione Europea, che si riferisce indistinta-mente, senza alcuna specificazione e senza che i lavori preparatori possano contribuire ad essa, a “chiese, associazioni e comunità reli-giose”, per non parlare delle “filosofie”.

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Diritto e religione di Mario ricca

di Paolo Picozza

1. Parlare di Mario Ricca non è un compito facile, anche perché con-sidero Mario Ricca un maestro del pensiero capace di approfondite riflessioni, di renderci consapevoli di un sapere che ci appartiene ma che però ignoriamo di conoscere. Non è possibile, con il tempo a disposizione, illustrare per esteso il suo libro Diritto e religione. Per una pistemica giuridica. Il volume, infatti, è piuttosto complesso, così come il suo recente saggio Laicità interculturale. Cos’è?, che sviluppa ulteriormente le originarie tematiche. Mi soffermerò, per-tanto, solo su alcuni argomenti che hanno colpito la mia sensibilità, senza ovviamente sminuire l’importanza degli altri, tra i quali debbo ricordare la problematica relativa a Cittadinanza e religioni (cap. II) ed il capitolo veramente penetrante sulle Genealogie culturali della libertà religiosa (cap. III). Debbo, inoltre, premettere che il volume di Mario Ricca Diritto e religione, paradossalmente, è lontano dal Diritto ecclesiastico, così come da noi è comunemente inteso, in-segnato e trattato nei manuali della disciplina, ma al tempo stesso è anche quello che forse può essergli più vicino, al punto da fornire alla nostra disciplina elementi utili per il suo rinnovamento e soprattutto l’auspicabile quanto necessario ampliamento del suo orizzonte, pur restando in ambito propriamente giuridico.

2. In questo libro edito nel 2002, scelto, insieme ad altri tre volumi, per riflettere sulla “evoluzione di un settore della scienza giuridica attra-verso il confronto di quattro libri”, la parte più ecclesiasticistica, vista sempre attraverso un’ottica di ampliamento, è quella relativa all’art. 20 Cost., che Mario Ricca tratta sotto la categoria, da lui adottata, del pluralismo religioso. Questa parte del libro è certamente quella che più propriamente interessa l’ecclesiasticista in senso tradizionale.

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Debbo premettere, a mio avviso, che l’articolo 20 Cost. aveva ed ancora oggi ha l’esclusivo scopo e finalità di impedire qualsiasi for-ma di discriminazione con il ricorso diretto o indiretto allo strumento tributario o con speciali limitazioni legislative e non, invece, il suo contrario, ovvero, la finalità di favorire e privilegiare gli enti confes-sionali ed oggi, anche gli enti religiosi non confessionali. Mario Ric-ca, insieme a tanti altri, legge invece l’articolo 20 della Costituzione in senso positivo, ampliandone ulteriormente l’orizzonte, postulando una netta distinzione tra gli enti ecclesiastici e gli enti con fine di re-ligione e di culto. Distinzione in cui gli enti con fine di religione e di culto possono, in realtà, essere non ecclesiastici e non confessionali, ma semplicemente religiosi o a connotazione religiosa.

L’art. 20 Cost. verrebbe, così, ad assicurare il riconoscimento della personalità giuridica non solo a tutti gli enti appartenenti alle confessioni organizzate o alle formazioni aventi carattere eccle-siastico ma, anche a quelle «che pur non essendo riconducibili a più generali alvei confessionali, perseguono in forma privata il fine di religione o di culto». Con tutta una serie di conseguenti pro-blematiche: superamento della confessionalità strettamente intesa e conseguente riconoscimento di qualsiasi “ente religioso” anche di semplice ispirazione religiosa, ponendo conseguentemente tutta una serie di problemi relativi all’auto qualificazione ed all’accerta-mento degli “indici di religiosità” che non possono e, soprattutto, non debbono essere ricondotti ai classici indici di confessionalità, perché, come sottolinea Mario Ricca, il concetto di religione, fatto proprio dalla Costituzione, supera, di molto, il concetto di confes-sione religiosa.

3. Dopo questa breve premessa, ritengo utile un breve cenno all’ul-tima parte del libro, cap. VI Dalla Teoria alla didattica… (anche se si riferiva alla precedente ipotesi di riforma dell’Università; adesso ce n’è un’altra ma il ragionamento e la proposta di Ricca rimangono ancora valide). Il Diritto ecclesiastico, inteso in senso strettamente tradizionale, può avere ancora una certa limitata utilità pratica per gli operatori del diritto: ci sono diversi casi in cui può trovare concreta

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applicazione (enti, lavoro, matrimonio etc.) anche se statisticamente, si tratta pur sempre di un settore di nicchia.

4. Tra le problematiche più impegnative che, soprattutto sotto il pro-filo concettuale, costituiscono la parte centrale del lavoro di Mario Ricca (che qui non posso riassumere, non solo per ragione di tempo, ma anche perché è veramente difficile sintetizzare la complessità del suo pensiero), si colloca il problema del rapporto tra diritto e fede.

Dopo un approfondito excursus sulla genealogia della libertà re-ligiosa (cap. III), la tesi di Mario Ricca, si sviluppa nel fondamen-tale capitolo sulla Pistemica giuridica (Percorsi di ricerca in chiave antropologica sui rapporti tra categorie del diritto e fenomenologia della fede), termine apparentemente difficile quanto denso di conte-nuti. Per Mario Ricca esiste oggettivamente una forma di fede, quasi un a priori, che non può non tenere conto di quella che è la struttu-ra, di quello che è l’humus in cui storicamente l’uomo si trova: con tutte le sue esperienze, che risalgono anche a qualche millennio fa. È assolutamente inutile, secondo il nostro autore, voler pensare di razionalizzare la religione e cercare di estrometterla dagli stati, per-ché, comunque, la religione, anche se non se ne ha più alcuna con-sapevolezza, rimane inseparabilmente radicata all’interno del campo civile: la religione infatti ha assunto delle forme, degli habitus e dei modi con cui si è totalmente standardizzata tanto da non essere più percepita come religione, anche se continua a conservarne caratteri essenziali.

Mario Ricca, al riguardo, afferma con convinzione: «Come si è cercato di porre in luce in precedenza, il nesso tra soggettività e cul-tura è strettamente legato alla relativa fissità degli abiti in funzione della conservazione delle comunità umane. In questo contesto sto-ricamente attestato, i valori tendono ad assumere una connotazione tendenzialmente rigida, antiutilitaristica, e talora perfino disfunziona-le rispetto agli aut aut di sopravvivenza, talora imposti da improvvisi mutamenti ambientali. Le religioni si sono presentate storicamente in più di una occasione come il baluardo di questa fissità, finendo per essere declassate sotto la lente valutativa delle civiltà vincenti, dal

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rango di agenzie culturali, a mere forme di superstizione. E lo stesso atteggiamento pistico certo non depone nel senso dell’antitradiziona-lismo e delle capacità di adattamento rapido delle credenze di valore. C’è tuttavia da dire che se la fede gioca come fattore di conservazio-ne nella trasmissione culturale, il suo abito reca con sé un’attitudine all’agire pratico non antitetica alle capacità di apprendimento. Sotto certi aspetti la fede è un aprirsi all’esperienza, alla prova».

5. Il problema fondamentale che poi sviluppa in questo testo più re-cente riguarda la laicità e che intitola espressamente: Laicità inter-culturale. Cos’è? È su questa tematica, di stringente attualità, au-gurandomi di aver compreso bene il suo pensiero, che si incentra la sua analisi fortemente critica. Ma siamo proprio sicuri, si interroga Mario Ricca, che il nostro concetto di laicità sia un concetto valido? Che cosa significa innanzitutto laicità? Laicità in senso latino o lai-cità in senso anglosassone? Mario Ricca sostiene, con argomenta-zioni rigorose, che non si può fare assolutamente a meno (anche se si vorrebbe il contrario) della religione. Anche la persona più laica o convintamente atea, anche se vuole, non può fare a meno della oggettiva quanto estesa presenza della componente religiosa, pro-prio all’interno di quella cultura che, invece, ritiene laica; anzi esente da elementi religiosi. Ovviamente, parlando di religioni pensiamo sempre al Cristianesimo e alle varie forme del Cristianesimo, ma il discorso di Ricca prende in considerazione tutte le altre religioni che si sono incardinate nel tempo e che hanno posto le radici nella cultura e nella tradizione nei luoghi in cui operano o hanno operato.

Alla luce di quanto sopra il concetto di laicità pone innanzitutto un problema terminologico, in quanto qualificare come laico quello che non ha nulla a che vedere (o che si ritiene come abbia nulla a che vedere) con la religione è un vero e proprio non senso; in altri termi-ni, una affermazione storicamente e sostanzialmente errata. Quindi, anche se poi vogliamo continuare ad utilizzare il concetto di laicità come espressione di normalità, in un certo senso naturale, Mario Ric-ca ci ricorda che anche il concetto stesso di natura nasce dalla cul-tura, e la cultura è intrisa dagli elementi religiosi. Infatti il mistero,

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l’arcano, eccetera, sono quei capisaldi ineludibili ed indiscutibili che, ancora oggi, continuano a costituire le radici di tutto, radici che non riusciamo o piuttosto preferiamo non recidere.

Dobbiamo conseguentemente constatare che in certi stati, che si ritengono e sono comunque laici (sia pure nel senso indiretto di Ric-ca), specie quando emergono certe problematiche come la nascita, la morte, la presenza in luoghi pubblici di simboli religiosi, vale a dire tutta una serie di problemi etici, anche di grande attualità, le religio-ni o meglio le confessioni religiose (che ne costituiscono l’aspetto operativo) si fanno subito autoritativamente presenti e finiscono per essere ascoltate e quindi incidere nella realtà sociale dello stato.

Le spiegazioni di tale fenomeno possono essere molteplici. Innan-zitutto perché la religione, fattasi cultura comune, può apparire anche come ragione: «È il legame profondo e mai tranciato tra religione e cultura che rende interessanti, pertinenti, gli interventi delle autorità confessionali, agli orecchi della gente comune», afferma Ricca. Si ritiene cioè di avere dalle religioni un lume, una risposta, un qualco-sa che la ragione non sa fornire. Si finisce, quindi, per obbedire alle autorità confessionali che, a loro volta, non perdono l’occasione di imporre, quando le circostanze lo consentono, anche in uno stato c.d. laico, come accade nel nostro paese, le loro convinzioni, spesso sle-gate da qualunque razionalità o ragionevolezza, quando non basate direttamente sul dettato fideistico, nel campo dell’etica, convinzioni che non poche volte vengono codificate in dettati normativi, che, ob-bligando tutti, finiscono, così, per violare il diritto fondamentale di libertà religiosa e di autodeterminazione dell’individuo, che noi rite-niamo essere una conquista del nostro mondo, per lo meno occiden-tale. Ma siamo poi sicuri, si domanda Mario Ricca, che questi diritti, per noi fondamentali, siano poi fondamentali per altre culture intrise di elementi religiosi e dominate dalle varie confessioni religiose? E lo stesso concetto di libertà, e soprattutto di libertà religiosa, è un concetto valido per tutti? Così come i diritti umani che riteniamo, per noi, fondamentali, sono concepiti come tali da tutti?

Allora il vero e concreto problema che Ricca pone alla nostra riflessione è il seguente. In un mondo globalizzato, come facciamo a

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rapportarci con gli altri, a convivere senza andare verso derive auto-ritarie, o nuovamente teocratiche. Perché il rischio che si vada verso derive e realtà soprattutto teocratiche è concreto; noi lo vediamo in certi paesi non proprio vicini a noi. Ed il ricorso al metodo democra-tico non sempre è in grado di funzionare, anche perché come sostiene Mario Ricca, nulla dimostra che la democrazia sia intrinsecamente buona, o intrinsecamente migliore. Non è più possibile continuare a pensare ad uno stato democratico, fondato sulla sovranità popo-lare e sul conseguente criterio di maggioranza, se “le sue leggi non integrano la diversità culturale”. E quindi la sovranità stessa non sia interculturale.

Domande, come si vede, che pongono in dubbio i nostri radicati convincimenti. E le risposte anche sul piano normativo sono anco-ra più difficili. La soluzione dei problemi che l’intercultura pone, necessita di risposte e comportamenti diversi rispetto a quelli fino ad oggi utilizzati. In altre parole è impensabile continuare, o meglio tentare, di imporre i nostri schemi culturali, comunemente di matrice cristiana, o cercare di esportare la nostra laicità monoculturale, ma-scherata da una pretesa imparzialità. Negativa poi l’attitudine, sotto l’apparente nome della multiculturalità, ad accettare e legittimare, spesso, o per utilità politica o quando costretti da forte contestazio-ne, comportamenti non conciliabili nel nostro ordinamento. «Dare spazio alla diffidenza senza tentare né di tradurre, né di transigere, rafforza gli stereotipi, la reciproca estraneità culturale tra i gruppi». La soluzione che Mario Ricca propone, consiste piuttosto in un me-todo, che richiede certamente tempi lunghi, ma che può e deve por-tare al risultato che tutti desiderano. «La creazione di un lessico in-terculturale», scrive Mario Ricca, «rivolto all’esigenza di assicurare una laicità interculturale si muove in direzione esattamente opposta. Esso punta alla predisposizione di una piattaforma giuridica inclu-siva delle differenze in ordine agli snodi di fondo della convivenza sociale e alle connesse modalità di categorizzazione normativa. Pro-durre questo lessico all’interno dei circuiti nazionali costituirebbe un passo decisivo verso la realizzazione effettiva e autentica degli ideali moderni, laicità compresa. Passo ciclopico, se considerato nelle sue

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implicazioni sul piano dei rapporti internazionali e dei confronti in-terculturali in cui essi prendono forma. I contesti migratori insomma sono da considerarsi come miniature del pianeta e delle sue diversità antropologico-culturali. Una palestra/laboratorio per la storia futura, per un futuro presente».

Mi sembra una conclusione da condividere. Penso che prima di arrivare a questo ci vorrà parecchio tempo. Occorre poi constatare, con rammarico, che non si cerca neppure di risolvere i problemi posti oggi dalla globalizzazione ampliando i propri orizzonti, compiendo così significativi passi in avanti. I problemi vengono invece affrontati facendo dei passi indietro; ritornando cioè alle vecchie logiche o ca-tegorie di popolo, nazione, regione, della difesa della propria identità religiosa e/o culturale, affrontando cioè la sfida della globalizzazio-ne, al sicuro, rinchiusi dentro il proprio orticello.

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Diritto e religione di Pierluigi Consorti

Diritto e religione di PierluiGi consorTi

di enrico ViTali

In questo convegno mi è stato assegnato il compito di parlare del volume Diritto e religione di Pierluigi Consorti. Mi è stato detto: fai una specie di recensione. Ed eccomi qua.

Parlando di recensioni, mi viene in mente un fatto degli anni 1960-70. Su una rivista, diretta da uno dei maestri del Diritto am-ministrativo, un bel giorno cominciarono a uscire, quasi in ogni nu-mero, delle recensioni firmate da uno studioso che era stato allievo di quel direttore, ma che non aveva seguito la carriera universitaria, preferendo la grande industria. Questo cultore della materia, non avendo alcun legame con l’Università, scriveva liberamente quel che pensava, senza remore e condizionamenti accademici. Erano stron-cature terrificanti per chi le subiva, ma molto divertenti per i lettori. A quel punto cominciò a formarsi una specie di claque, che aspettava l’uscita del numero successivo per leggere la nuova recensione del signore in questione. Nel chiacchiericcio, che cominciò ad accom-pagnare quelle recensioni, alcuni cominciarono a pensare che sotto il nome dell’allievo si nascondesse il maestro, che usasse quel nome come un riparo. Ricordo, tra le altre, che fu pubblicata una recen-sione a un libro di Diritto amministrativo piuttosto corposo, la cui conclusione era: «e in fondo non è neanche un libro».

Oggi questo tipo di recensione non usa più. Al chiasso di quelle “esecuzioni” si è sostituito il silenzio.Qualunque cosa uno scriva è accolta dal silenzio, al più rotto da

flebili pettegolezzi privati. Certo, un silenzio di questo tipo, che è poi il vuoto, non fa andare

avanti la materia. Bene ha fatto quindi l’amico Tozzi a riunirci qui a Pisa per par-

lare di alcuni manuali usciti da poco, sperando che portino novità.

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Enrico Vitali

Insomma siamo qui per vedere come sta la nostra materia attraverso il periscopio di quattro manuali.

Una precisazione: ci si è soffermati di preferenza su manuali inti-tolati “Diritto e religione”. Ma a parte questo criterio di scelta, che mi sembra l’effetto di una rivoluzione puramente nominalistica, quali sono, per dirla con Montale, le “notizie dall’Amiata”?

Per darle vediamo il volume di Consorti.Dico subito che il libro si segnala per lo stile accattivante, carat-

terizzato da notevole immediatezza, come se si rivolgesse a persone che non conoscono il diritto e che ancor meno sanno che cosa sia il Diritto ecclesiastico, materia che notoriamente, per i più è assolu-tamente sconosciuta. Ma anche i lettori che nulla sanno del Diritto ecclesiastico, osserva l’A., se si fermano a ragionare, avvertono che esso «tocca le dimensioni profonde del modo di vivere in pratica la nostra vita» (p. VI).

La materia riguarda fattispecie religiosamente significative, cioè qualificate dall’attinenza alla religione, per cui, precisa l’A. ponen-dosi nel solco della dottrina maggioritaria della legislatio libertatis, il diritto ecclesiastico si apre verso orizzonti che coinvolgono i sen-timenti profondi della persona nella fase della loro esternazione. Le interferenze tra religione e diritto sono continue; molta materia si interseca con altre discipline giuridiche su di un tessuto culturale fat-to di storia, di politica e filosofia, in un ambiente mai culturalmente chiuso in sé stesso (“oggi forse”, dico io).

Si tratta dunque di un testo per corsi universitari, non però di un manuale dove trovi tutta la normativa della materia didascalicamente presentata; sotto questo profilo, anzi, è un volume che suscita più problemi che sicurezze; che mostra una certa insofferenza per il testo legislativo, avvertito spesso come limitante (cfr. per esempio p. 49) e che quindi tende a superarlo.

Esemplare sotto questo profilo può essere il paragrafo “matrimo-nio e famiglia”: è scritto con garbo, illustra le forme di convivenza non fondate sul matrimonio, i problemi della genitorialità, affronta il tema del matrimonio fra persone dello stesso sesso – insomma i temi oggi più scottanti (pp. 95-107) – ma poi limita la trattazione del

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Diritto e religione di Pierluigi Consorti

matrimonio concordatario a due paginette concludendo sulla deliba-zione delle sentenze ecclesiastiche con una espressione sintetica che potrebbe dar luogo a fraintendimenti e cioè essere intesa anche come un grave errore (p. 109 in fondo).

Chiaramente non è un testo sul quale fare affidamento per la pre-parazione dell’esame di stato di avvocato o per un uso professiona-le, nel quale sono necessari dati normativi e indicazioni di possibili connessioni. Invece sarebbe adatto ad un insegnamento nell’ambito di un corso di laurea in Scienze politiche, perché è libro che suscite-rebbe certamente il dialogo tra docente e discente con possibilità di aperture e verifiche.

Nel primo e secondo capitolo dopo aver illustrato le origini della nostra materia e della dizione “Diritto ecclesiastico” – che oggi si può intendere come l’insieme delle norme poste dallo Stato (o da al-tri enti) per disciplinare gli interessi religiosi o meglio, le manifesta-zioni del sentimento religioso. L’A. afferma che la dizione “Diritto ecclesiastico” potrebbe essere sostituita senza traumi da “Diritto e religione” – che è appunto il titolo che è stato dato al volume – titolo sul quale ritornerò più avanti. Funzione delle norme del Diritto eccle-siastico è quella di assicurare la libertà religiosa concepita come com-ponente fondamentale della libertà personale, che non può esaurirsi in una semplice tutela contro le aggressioni fisiche alla libertà personale, «ma si apre a garantire la piena autodeterminazione di ogni individuo nei confronti delle grandi tematiche della vita e il pieno riconosci-mento di un’autonomia etica articolata e diffusa, che consente a cia-scun soggetto di realizzare un personale progetto di vita» (Pacillo). E quindi l’A. tiene ad evidenziare come il Diritto ecclesiastico colga le tensioni tra diritto ed etica, tra legge e coscienza, meglio, tra impera-tivi della coscienza e obblighi imposti dal legislatore, tra imperativi imposti dal gruppo religioso o condotte consentite o garantite come diritto delle norme dello Stato. Sorgono così alternative tra approfit-tare delle facoltà consentite dal diritto dello Stato e l’osservanza dei divieti religiosi (divorzio, aborto), ossia i conflitti di lealtà.

Pertanto, secondo l’A., tutelando le manifestazioni del sentimen-to religioso in quanto atti esterni alla persona, il diritto ecclesiastico

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Enrico Vitali

viene a tutelare il profondo, l’intimo della persona e quindi tutela la dignità della persona umana per cui «la salvaguardia della dignità umana costituisce un valore supercostituzionale che il diritto eccle-siastico moderno deve assumere come compito proprio» (p. 6).

Il volume distingue due possibili atteggiamenti assumibili dal le-gislatore: nella disciplina dei rapporti religiosamente qualificati: un primo costituito dal diritto ecclesiastico verticale, che l’A. giudica fuori dalla storia (p. 29), posto in essere dai rapporti apicali tra gli enti esponenziali dello Stato e della Chiesa – come nel ’29 – e che presenta affinità con gli schemi internazionalistici, ma lascia in se-condo piano i diritti dei singoli che risultano tutelati solo in quanto coincidano con l’interesse dell’istituzione. Tuttavia il continuo pro-liferare di accordi in materia di beni culturali ecclesiastici o di assi-stenza ospedaliera a livello locale, per es. tra autorità locali e confe-renze episcopali regionali o tra autorità civili locali e singoli vescovi mi pare contrastino con questo rilievo (che personalmente altrimenti condividerei); dall’altra parte vi è il diritto ecclesiastico orizzontale che ha la funzione di assicurare la libertà religiosa concepita come elemento fondamentale della libertà personale (p. 11).

L’A. distingue inoltre tra libertà religiosa positiva (credere e cre-dere in ciò che più piace) e libertà religiosa negativa (non credere in nulla) – distinzione che mi pare non abbia senso, perché i due diversi atteggiamenti sono comunque assorbiti nel contenuto del diritto della libertà religiosa.

Posto che funzione del diritto ecclesiastico è quella di assicurare la libertà religiosa quale elemento fondamentale della libertà perso-nale, l’A. precisa che libertà religiosa non si risolve solo nella libertà di esprimere una fede religiosa (e quindi di averla o di non averla, ecc.), ma contempla le diverse possibili espressioni della spirituali-tà personale e quindi «si rapporta alle esigenze della coscienza che possono esprimersi tanto in relazione al pensiero quanto alla creden-za religiosa» e quindi il diritto ecclesiastico concerne la tutela della libertà di coscienza nella dimensione della libertà personale e della valorizzazione della dignità umana (p. 12). La libertà di coscienza è dunque la premessa per la libertà delle scelte, per le opzioni dello

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spirito, e quindi riguarda l’intimo della persona. I limiti tra ciò che rileva civilmente e ciò che importa spiritualmente devono essere sta-biliti dalla coscienza di ciascuna persona e non possono essere im-posti né dallo Stato né dalla religione (per esempio sul finis vitae). Si tratta, secondo l’A., di una concezione che concernendo la libertà e la dignità umana «travalica i confini nazionali e supera la dimensione di una relazione di tipo di formale con le fonti di produzione di un dato ordinamento. Il diritto ecclesiastico non è questione di fonti, ma di interessi coinvolti» (p. 13).

Qui sorgono spontanee alcune osservazioni.La prima: mi sembra che la visione dell’A. si allarghi per cui la

libertà di coscienza non è più solo una componente della libertà re-ligiosa, ma è un momento della libertà tout-court, anteriore anche alla libertà religiosa. Pertanto, quella che era una delle componenti della libertà religiosa, nella concezione del Ruffini, si allarga e non tocca più solo la religione e la posizione propria dell’individuo e dei gruppi di fronte alle credenze di religione, ma riguarda la posizione del soggetto di fronte a qualsiasi scelta, di fronte ad ogni opzione di coscienza. Il problema è se tale allargamento, che dovrebbe garantire sempre più le possibilità di opzione della coscienza personale, non finisca con l’indebolire la tutela della libertà religiosa e di contro se non ponga in dubbio la potestà stessa di legiferare in merito da parte dello Stato (pensiamo alla obbiezione di coscienza in materia fiscale).

Consorti richiama naturalmente il principio di laicità. Egli ritiene che la laicità sia il punto di equilibrio tra promozione della libertà individuale e il fatto istituzionale. Nell’ambito dei ragionamenti sul concetto di laicità (dove egli respinge “i termini di neutralità o im-parzialità dello Stato rispetto alle confessioni religiose o alla religio-ne in genere”, perché si ricadrebbe nella impostazione verticale del problema) egli afferma che la laicità dello Stato riguarda in definitiva la sua capacità di garantire una eguale libertà di coscienza e propone al diritto la necessità di mettere le persone in condizione di formare liberamente i propri convincimenti di coscienza, ossia senza sotto-stare a condizionamenti e discriminazioni (p. 30). Ricollegandosi

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probabilmente al pensiero di Calogero, l’A. evoca la necessità del dialogo e dell’incontro con gli altri come metodo, mediante il quale si possono dare risposte alle domande che vengono dalla coscien-za religiosa. In conclusione la laicità sembra essere intesa come un modo di vivere l’esperienza religiosa a livello personale e interiore.

Qui mi sorge qualche dubbio perché tradizionalmente ci hanno insegnato che ciò che deve rilevare per il giurista è la manifestazione esterna, il comportamento esterno della persona, il fatto. Invece, nel volume che stiamo esaminando, si focalizza l’attenzione sul fatto di coscienza, che può anche rimanere interno all’individuo. Il fatto di coscienza comporta la necessità di considerare l’esigenza della liber-tà di formarsi una coscienza, per cui, come osservavo prima, si ha non solo la libera scelta in campo religioso, ma anche di fronte a fatti non religiosi, ma puramente etici.

Mi chiedo se queste scelte appartengano al campo del diritto se non danno luogo a comportamenti esterni.

Una ulteriore osservazione concerne il problema delle fonti, dove mi sembra che l’A. tragga argomento dalla transnazionalità.

Ho qualche dubbio che il diritto ecclesiastico non sia anche que-stione di fonti, ma solo di interessi coinvolti e quindi di contenuti. Ba-sta pensare, anche di sfuggita, ai problemi suscitati dall’art. 7 Cost., nonché alla strana copertura costituzionale conferita all’Accordo del 1984 tra Stato italiano e Santa Sede. Mi rendo conto che qui si rica-de nel deprecato diritto ecclesiastico verticale, che sarà anche fuori dallo storia come scrive Consorti (e forse politicamente ha ragione), ma continua a regolare e anzi si è vieppiù esteso a molti settori delle fattispecie religiosamente qualificate, attraverso accordi locali.

Ancora, è vero che laicità e democrazia formano un binomio in-scindibile, come scrive Consorti, ma proprio per questo rileva il pro-blema delle fonti.

Il sistema delle fonti è essenziale per ogni ordinamento, sia per quel che riguarda la loro gerarchia – e quindi la loro diversa efficacia – sia per quanto attiene il profilo orizzontale del riparto delle com-petenze per materia. Non è vero che si sia di fronte solo a rapporti formali; qui attraverso la forma si salva la sostanza, nel senso che la

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garanzia della democraticità di un ordinamento si evidenzia attraver-so la scelta delle forme della produzione legislativa.

Consorti afferma anche che la garanzia giuridica dei diritti di li-bertà non è costituita dal diritto, ma dalla dignità umana.

Anche qui mi sorge qualche dubbio. Se è vero, come è stato osservato, che la dignità umana è quel

complesso di valori umani fondamentali che costituisce l’essenza di ogni persona «nel suo statico esserci» e che la persona umana viene quindi considerata «per sé stessa e nel suo libero svolgimento» (Bal-dassarre), impedendo così a chiunque di degradare la persona a mero oggetto (Pacillo), è chiaro che si tratta di una considerazione statica dell’uomo.

Mentre la considerazione dei diritti fa rilevare il conferimento di possibilità dell’agire. Quindi il profilo della dignità evoca una con-siderazione del soggetto in sé, non nelle sue possibilità di agire. Ciò dovrebbe significare rispetto delle dignità dell’uomo sia in campo pubblico che in campo privato, in quanto membro della comunità umana. Essa è il presupposto dei diritti inviolabili e indisponibili che configurano «nella loro unità complessiva i momenti essenziali del concetto di personalità garantito dall’art. 2 Cost.».

Questo ragionamento indica meglio il soggetto, la personalità, cui fa riferimento il diritto, ma non mi sembra di poter accettare la icastica espressione: «la garanzia giuridica dei diritti di libertà non è costituita dal diritto, ma dalla dignità umana». E tale dignità si tutela attraverso il conferimento dei diritti indisponibili e irretrattabili, tra i quali rientra anche la libertà religiosa. Quindi sono i diritti che tute-lano la dignità e non viceversa.

Due parole sul titolo del volume.Oggi il Diritto ecclesiastico non è più solo un diritto bilaterale, ma

è soprattutto un diritto posto unilateralmente dallo Stato attraverso diversificati procedimenti legislativi, nonché a seguito della inciden-za diretta o indiretta degli obblighi comunitari. Si può ricordare a questo proposito che un tempo si parlò anche di “Diritto interna-zionale ecclesiastico” (Balladore Pallieri), oggi si parla di “Diritto ecclesiastico europeo”, che è una parte attuale della materia. D’altra

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parte i fatti evolvono con una velocità cui non sempre il legislatore, per di più tendenzialmente neghittoso come il nostro, riesce a rag-giungere.

Direi che i fatti si impongono e sono più forti della non proget-tualità.

Da ciò deriva una notevole confusione sia a livello di formazione delle idee sia a livello di progettualità scientifica, che ha investito persino la denominazione della disciplina.

Non mi sfugge che tutte le volte che, nella civiltà dell’Occidente, l’edificio delle convinzioni morali e dei fondamenti della vita civile e democratica, nonché del gusto, non resse al proprio peso e fu solcata da fenditure che sembravano annunciare l’ultimo crollo (Cecchi), da codeste fenditure si vide balenare l’Oriente e si dubitò della soprav-vivenza della civiltà. Questo fenomeno provoca spesso quella che si potrebbe chiamare una fuga dal battello su cui si sta navigando e induce a cercare altrove, su altre barche, ritenute inaffondabili, rico-vero, sperando in una più sicura navigazione. Non vorrei che il feno-meno investisse la nostra materia provocando una sorta di trahison des clercs.

A questo fenomeno vorrei opporre molto semplicemente il D.M. 25 novembre 2005 e il più recente D.M. 29 luglio 2011: il primo che qualifica il Diritto ecclesiastico e il Diritto canonico come “attività formative indispensabili” per cui i due insegnamenti sono stati inse-riti tra le “attività formative di base”. Il secondo ha ribadito l’auto-nomia concorsuale del Diritto ecclesiastico e canonico (devo queste indicazioni all’amico Rivetti, che ringrazio). Questa è la situazione normativa. Sicché mi sembrerebbe, che il miglior partito, in una fase di transizione e di quasi quotidiana modificazione normativa, sareb-be quello di rimanere fermi e contenti dell’attuale sistemazione. Di contro si è manifestata una sorta di insofferenza verso la dizione “Di-ritto ecclesiastico”, pronosticandone la prossima fine, forse perché essa evoca l’appartenenza alla Chiesa (il che mi sembrerebbe infanti-le), che però da quando la materia è stata introdotta nell’ordinamento universitario italiano e cioè dalla seconda metà dell’800 in avanti non ha mai assunto un tal contenuto. Nel solco di questa insofferenza

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è stato detto che il problema fondamentale sarebbe quello del mul-ticulturalismo provocato dal fenomeno dell’immigrazione che nelle scuole implica una educazione interculturale e la conoscenza e va-lorizzazione delle differenze, anche religiose, presenti nella scuola stessa. Di qui la proposta di sostituire alla dizione di “Diritto eccle-siastico” quella di “diritto del multiculturalismo”, confondendo un piccolo settore con il tutto.

Quello del multiculturalismo è un fenomeno che deve senz’altro attirare l’attenzione dell’ecclesiasticista, ma una attenzione che deve inglobare il fenomeno nel Diritto ecclesiastico e che deve essere af-frontato secondo i parametri della giuridicità e non della sociologia. Esso potrebbe essere certamente un capitolo importante del Diritto ecclesiastico, ma dentro di esso e non fuori, dove invece perderebbe qualsiasi connotazione giuridica divenendo al più una materia com-plementare in divertimento di mediazione linguistica. D’altra parte, se si deve parlare di antropologia, ci sono i cultori di tale materia che potrebbero accusare l’ecclesiasticista dedito al multiculturalismo di essersi trasformato in uno studioso d’accatto e che potrebbero dire che essi (antropologi) quegli studi li fanno meglio.

Da altre parti si propone un nuovo appellativo, “Diritto e religio-ne”, che giunge a tale risultato dopo una considerazione della fine dell’assetto westfaliano dei rapporti tra Stato e Chiesa, dopo il mu-tamento del fenomeno religioso attuale e infine a seguito del diversi-ficarsi delle autorità statuali e non che vengono in considerazione a fronte del fenomeno religioso. Ho l’impressione che in questo modo si sia costruita una versione alquanto astratta della realtà da superare (quando si formò il Diritto ecclesiastico italiano, l’assetto westfa-liano era già tramontato), che non corrisponde alla realtà effettuale, ma che è diventata più vera del vero. Talché l’appellativo, peraltro d’importazione, “Diritto e religione”, mi sembra pecchi per la sua genericità. E allora perché non “Diritto sulle credenze di religione”?

Sia ben chiaro, la mia non è una posizione di testardo difensore dell’antico. Niente di tutto ciò.

Non vorrei però che la questione nominalistica servisse a nascon-dere il segno di un disagio personale che potrebbe essere inteso come

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Enrico Vitali

rifiuto di studiare sotto il profilo giuridico le questioni sempre nuove di una materia tanto affascinante e problematica come quella che fino ad oggi abbiamo chiamato banalmente “Diritto ecclesiastico”.

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Parte terza

Contributi dal Seminario

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Cronaca del Seminario

Cronaca del Seminario

di chiara laPi

L’incontro svoltosi a Pisa nel Palazzo dei Dodici, sede dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, non è stato un convegno nel senso proprio del termine, ma un Seminario che si è articolato in fasi specifiche distribuite secondo orari precisi nel corso della giornata allo scopo di garantire l’applicazione di una metodologia partecipativa, solitamen-te poco utilizzata nei consessi accademici. Infatti, mentre la prima parte della giornata ha seguito un andamento tradizionale, con i saluti del Direttore del Dipartimento di Diritto di pubblico della Facoltà di Giurisprudenza, Roberto Romboli, la relazione introduttiva di Pierlui-gi Consorti, e le presentazioni dei quattro libri 1, l’attività pomeridiana si è strutturata nella forma della divisione in gruppi facilitati.

Questo elemento, che ha costituito la novità dell’incontro e la cui previsione nel programma aveva suscitato negli iscritti una certa su-spence, ha svolto un ruolo significativo per più ragioni. La divisione in gruppi permette ad ogni partecipante di esprimere il proprio pen-siero più liberamente rispetto al contesto assembleare. All’interno del gruppo tende ad attenuarsi la differenza gerarchica tra i parteci-panti che rivestono ruoli accademici diversi, anche grazie al fatto che costoro sono seduti a forma di cerchio e non davanti al tavolo dei re-

1 I testi, in ordine di presentazione, sono i seguenti: G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione, Plectica, Salerno, 2011; L. Musselli, Diritto e religio-ne in Italia ed in Europa. Dai concordati alla problematica islamica, Giappichelli, Torino, 2011; M. ricca, Diritto e religione: per una pistemica giuridica, Cedam, Padova, 2002; P. consorTi, Diritto e religione, Laterza, Roma-Bari, 2010. L’onere della presentazione dei libri è stato assunto da quattro docenti non più in ruolo, Ri-naldo Bertolino, Francesco Margiotta Broglio, Paolo Picozza ed Enrico Vitali, che hanno dedicato, ai libri riservati a ciascuno di loro, ampio spazio mettendone in luce i relativi pregi ed operando anche critiche costruttive.

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Chiara Lapi

latori, come accade nelle sessioni dei normali convegni. Inoltre, ogni partecipante ad un gruppo ha la facoltà di spostarsi da un gruppo ad un altro potendo così ascoltare la discussione relativa ad un diverso tema e portare il proprio contributo. Il numero limitato dei compo-nenti 2 fa sì che si instauri fin da subito una sinergia tra loro, che in-duce ciascuno ad esercitare un ascolto attivo nei confronti dell’altro, per cui ogni intervento suscita immediatamente una reazione, con il risultato di una partecipazione attenta, vivace e collaborativa. L’a-gilità dei lavori di ciascun gruppo è stata garantita dalla presenza di un facilitatore 3, persona non esperta del diritto ecclesiastico, ma del metodo, con il compito di gestire gli interventi in modo da evitare sia che eccedessero una certa durata, per permettere a tutti di parlare, sia divagazioni dal tema.

Le sollecitazioni emerse dalle relazioni di presentazione dei quat-tro libri e dalle repliche degli autori dei testi hanno permesso di in-dividuare tre domande riguardanti il diritto ecclesiastico (“Cos’è?”, “Perché?”, “A che cosa serve?”), presentate in plenaria, ciascuna delle quali è stata assegnata ad un gruppo. I partecipanti ai workshop hanno così potuto scegliere la domanda di proprio interesse e quindi il gruppo di lavoro.

Il primo gruppo doveva cercare di rispondere alla domanda “Cos’è il diritto ecclesiastico”, ed in particolare interrogarsi su “Qual è la specificità del d. e. rispetto alle altre discipline giuridiche”, su “Quali sono i contenuti che contraddistinguono la disciplina”. Il se-condo gruppo doveva iniziare la discussione a partire dalla domanda

2 Nell’incontro del 28 marzo, essendo gli iscritti circa quaranta, sono stati forma-ti, per lo svolgimento dell’attività pomeridiana, tre gruppi di circa quindici persone ciascuno.

3 L’attività di facilitazione all’interno dei gruppi è stata resa possibile grazie ai ricercatori del Centro Interdisciplinare di Scienze per la Pace di Pisa, persone che hanno imparato nel corso della loro attività accademica e professionale a gestire i conflitti ed a lavorare sulle tecniche partecipative: il Dott. Andrea Valdambrini, il Dott. Andrea Fineschi, il Dott. Flavio Croce, il Dott. Giaime Berti e la Dott.ssa Tatiana Vasilyeva. Alla Dott.ssa Luisa Locorotondo era stata affidata la cura della logistica.

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Cronaca del Seminario

“Perché il diritto ecclesiastico”, ossia “chi sono i destinatari del no-stro lavoro di ricerca”. Infine, il terzo gruppo si è occupato di ana-lizzare “A che cosa serve il diritto ecclesiastico” e “Qual è la sua funzione nell’attuale contingenza sociale”.

I risultati della discussione di ogni gruppo sono stati riportati in plenaria da tre persone, esperte della disciplina, incaricate di verba-lizzare gli interventi per poi esporre la relativa sintesi a tutti i parte-cipanti, riunitisi nuovamente in plenaria, una volta terminato il lavo-ro dei workshop. Le domande assegnate a ciascun gruppo avevano molti aspetti in comune per cui le osservazioni formulate nei gruppi si sono rivelate in parte sovrapponibili. Perciò è sembrato utile ri-portare i risultati dei workshop globalmente, prescindendo dalla loro collocazione nei singoli gruppi di riflessione.

In primo luogo è emerso che, nonostante il diritto ecclesiastico possa talvolta apparire in crisi, in realtà è una disciplina vivente e vitale, non solo particolarmente utile, ma necessaria nell’attuale con-testo multiculturale, come dimostrato del resto dall’alto valore dei contributi prodotti dagli ecclesiasticisti. Il motivo principale della presunta crisi è forse da individuare in una difficoltà di carattere co-municativo per cui molto spesso, sia dai docenti di altre discipline giuridiche sia dal pubblico in generale, il diritto ecclesiastico è anco-ra percepito come quella branca che studia solo i rapporti dello stato con le confessioni religiose ed in particolare con la Chiesa cattoli-ca. Per risolvere i problemi di carattere comunicativo e per mette-re in luce la funzione precipua dell’ecclesiasticista, che consiste nel prospettare soluzioni di stampo pratico a fronte di nuove esigenze concrete che la società pone, è emersa la proposta di promuovere iniziative scientifico-accademiche che coinvolgano studiosi di al-tri settori giuridici. In questo modo si farebbe comprendere meglio l’importanza interdisciplinare della materia, che può dare un apporto significativo al diritto penale, al diritto di famiglia e a tutte le altre discipline giuridiche.

La difficoltà di comunicazione emerge anche nel rapporto con gli studenti che, di primo acchito, non comprendono la funzione del diritto ecclesiastico, e pensano che sia una materia da studiare solo

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Chiara Lapi

al fine di acquisire crediti; mossi da un simile ragionamento utili-taristico, anche coloro che si preparano a sostenere la prova orale dell’esame di avvocato, nella maggior parte dei casi, scelgono diritto ecclesiastico perché “più breve” rispetto ad altre materie. È stato no-tato che questo problema può essere affrontato dando agli studenti rassegne di sentenze dalle quali emerga l’importanza del fattore reli-gioso: infatti, quando si rendono conto dell’utilità pratica della mate-ria, gli studenti cambiano atteggiamento e si appassionano al Diritto ecclesiastico. Sarebbe anche utile provare ad istituire all’interno del-le facoltà laboratori in grado di offrire assistenza gratuita alle per-sone che presentano problematiche attinenti al diritto ecclesiastico (si pensi alle questioni legate all’immigrazione). Tali laboratori po-trebbero collaborare con le istituzioni pubbliche permettendo di far comprendere l’importanza della materia anche al di fuori dell’ambito strettamente accademico (si veda, a questo proposito, l’esperienza guidata da Roberto Mazzola del Piemonte orientale).

Un altro modo per implementare la disciplina potrebbe consistere nell’inserire la materia all’interno dei corsi di Master come accade già in Francia e nel mondo anglosassone.

La funzione dell’ecclesiasticista si apprezza anche alla luce della considerazione che il diritto ecclesiastico è una materia con due ani-me, una più ampia, culturale, ed una tecnica, giuridica in senso stret-to. Ciò considerato, si è posto il problema dell’eventuale influenza che discipline quali la filosofia, la sociologia, la storia esercitano sul diritto ecclesiastico. Su questo punto l’opinione degli studiosi è quasi unanime: sebbene l’apporto delle discipline non giuridiche sia utile, occorre salvaguardare la specificità della giuridica della materia.

All’interno dei gruppi ha occupato uno spazio ampio la proposta di Mario Ricca, che mira a ripensare il diritto ecclesiastico nella chia-ve interculturale. Su questo punto si registra una certa divergenza tra gli studiosi: alcuni nutrono forti dubbi sul diritto interculturale, mentre altri ritengono che possa aprire ampie prospettive di ricerca, e così rafforzare l’utilità del diritto ecclesiastico.

Data la vivacità della discussione e la ricchezza delle riflessioni e delle proposte che hanno caratterizzato i lavori di ciascuno dei tre

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gruppi, si può concludere che il nuovo metodo sperimentato nell’in-contro pisano del 28 marzo abbia raggiunto il suo obiettivo, permet-tendo a tutti i partecipanti, indipendentemente dal loro grado accade-mico, di portare un contributo significativo al dibattito sul futuro del diritto ecclesiastico. Al termine del Seminario, è sembrato che tutti fossero soddisfatti dei risultati della giornata: l’iniziale atteggiamen-to di suspence di molti si è trasformato in apprezzamento per l’idea innovativa. Per queste ragioni, il metodo dei workshop mediati meri-rebbe di essere applicato anche nell’ambito di altri consessi accade-mici: se così accadesse, l’iniziativa pisana avrebbe avuto il merito di essere «fondativa», come ha osservato Romboli nel saluto iniziale.

Il Seminario si è chiuso con i ringraziamenti di Valerio Tozzi che ha precisato come lo scopo principale della giornata, consistente nel «consolidare la comunità scientifica attraverso il confronto delle idee, la passione del mestiere ed i contenuti del lavoro che svolgia-mo», sia stato pienamente realizzato.

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Il Diritto ecclesiastico può sopravvivere

Il Diritto ecclesiastico può sopravvivere

di Maria GaBriella BelGiorno de sTefano

Il Diritto ecclesiastico deve ritrovare la sua identità scientifica e di-dattica ripartendo dal pensiero di Francesco Ruffini, dalla sua idea di libertà religiosa e di laicità dello Stato e dal valore da lui stesso attri-buito alle minoranze religiose come matrice originaria, sia del diritto di tolleranza, sia dello stesso diritto di libertà religiosa.

Anche oggi le minoranze religiose e tutte le credenze anche laiche chiedono in primo luogo la salvaguardia del diritto fondamentale alla libertà di coscienza e religione in comunità politiche da fondare sul principio di laicità dello Stato.

Tali principi sono stati i pilastri fondanti del diritto ecclesiastico e proprio in quanto tali Arturo Carlo Jemolo li ha posti a fondamento della formazione della Scuola romana e Francesco Scaduto ne ha fatto l’indirizzo scientifico della scuola siciliana.

Tali pilastri non sono solo la struttura portante della nostra mate-ria, ma costituiscono anche parte essenziale della struttura costitu-zionale nazionale (articoli 2, 3 e 19 Costituzione) ed europea come testimonia l’art. 9 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo del 1950 e l’indirizzo giurisprudenziale della Corte Europea dei di-ritti dell’uomo, che ha fissato in tali principi la chiave d’interpreta-zione della tutela della dignità umana in una società multiculturale, multi religiosa e multietnica. Si ricorda che lo Jemolo in particolare, in tutta la sua vasta produzione scientifica, ha sempre sottolineato il valore della libertà in tutte le sue manifestazioni, ritenendo la libertà di coscienza e religione una delle manifestazioni più significative da salvaguardare in un sistema giuridico-statale, dove «sussistono reli-gioni e credenze anche laiche».

Proprio in base a tali presupposti occorre difendere l’autonomia della nostra materia, non solo perché essa rappresenta un particolare

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ambito giuridico del diritto pubblico, ma perché attraverso di essa si possono conoscere e tutelare i nuovi sistemi religiosi, culturali e so-ciali la cui complessità spesso sfugge al cultore del diritto pubblico, come al sociologo o allo storico.

Tale mia opinione purtroppo non appare condivisa né dalle scelte formative didattiche delle facoltà e dipartimenti universitari, né dal-le politiche statali ed internazionali tendenzialmente conservatrici, tendenti a vivificare l’identità storico-culturale e religiosa degli Stati ignorando la presenza di nuove culture, diritti religiosi, usi e costumi che ormai sono radicati nelle diverse comunità politiche e richiedono specifiche regolamentazioni statali rese necessarie dalla salvaguardia del diritto alla libertà di coscienza e religione.

Sappiamo che il diritto ecclesiastico italiano ha potuto soprav-vivere nel dopoguerra perché ha tentato di ripercorrere la strada ri-sorgimentale del principio “libera Chiesa in libero Stato”. L’Assem-blea Costituente, infatti, cercò di realizzare un difficile momento di trasformazione istituzionale del paese e gli artt. 7 ed 8 della nostra Costituzione sappiamo quali dibattiti hanno suscitato prima di giun-gere alla loro definitiva stesura. Le componenti politico-evangeliche ed ebraiche, proprio nella sede costituente, costantemente ribadivano la necessità che la Costituzione repubblicana fosse impostata rigida-mente sul principio della laicità dello Stato e della tutela della libertà religiosa di tutti. Dopo lunghe trattative, invero, si riuscì a raggiun-gere un accordo sul testo normativo degli artt. 7, 8 e 19 della Costitu-zione che costituiscono ancor oggi i fondamenti costituzionali e laici della Stato e ancora oggi su di essi potrebbe essere costruito un nuo-vo assetto della nostra comunità politica. Anche gli anni ’60, come si ricorda, sono stati un’epoca fiorente del diritto ecclesiastico in rela-zione ad una apertura culturale, sociale e religiosa che si è orientata principalmente all’obiezione di coscienza al servizio militare e alla guerra ed all’apertura del dialogo tra le religioni 1.

1 Si ricorda che la legge statale sull’obiezione di coscienza è datata 15 dicem-bre 1972, n. 772, dopo un difficile cammino giurisprudenziale dei tribunali penali militari.

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Negli anni ’60, infatti, sembrava aprirsi un rinnovamento struttu-rale della Chiesa Cattolica che emergeva dai documenti del Concilio Vaticano II ed in particolare dalla Costituzione apostolica Gaudium et spes che fu considerata «uno dei documenti più importanti del Concilio, poiché essa si è proposta di risolvere il problema teologico del rapporto strettamente intrinseco che esiste tra le realtà profane ed umane e il mistero della salvezza in Cristo» 2.

Si ritenne che la Chiesa Cattolica romana avesse abbandonato lo storico e dinastico rapporto con gli Stati ed i suoi governanti per po-tenziare il legame con l’individuo e su esso dirigere la sua potestas in spiritualibus 3. L’unzione divina del principe si era tramutata in sacerdozio comune del Popolo di Dio e l’uomo diveniva il punto d’intersezione delle realtà materiali e spirituali. In tale prospettiva spirituale sembrava doversi interpretare anche una lettura politica della Gaudium et spes al §76 allorché affermava «la comunità po-litica e la Chiesa sono indipendenti ed autonome l’una dall’altra nel proprio campo». Sembravano infine accettati i fondamenti del diritto di libertà di coscienza e religione non solo nella condivisione dell’a-pertura del dialogo ecumenico, ma anche nel riconoscimento degli altri sistemi religiosi mondiali, come ad esempio, quello ebraico, quello induista, quello islamico 4.

Si ricorda che non pochi ecclesiasticisti ritennero che la Chiesa si fosse resa conto «della nuova realtà umana in atto» e che la Chie-

2 P. GisMondi, Il diritto della Chiesa dopo il Concilio, Giuffrè, Milano, 1972, pp. 151 ss.

3 P. Bellini, Potestas Ecclesiae circa temporalia, in “Ephemerides Iuris Canoni-cis”, XXIV, n. 1-2, 1968, p. 22. A tale proposito il Gismondi sostenne il mutamento della potestas Ecclesiae in potestas directiva ed affermava che «è di grande impor-tanza in una società pluralistica che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la co-munità politica e la Chiesa e si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli individualmente o in gruppo compiono in proprio nome come cittadini, guidati dalla coscienza cristiana e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunità con i loro pastori».

4 P.a. d’aVack, Il problema storico giuridico della libertà religiosa, Bulzoni, Roma, 1966 pp. 264 ss; l. sPinelli, Il diritto pubblico della Chiesa dopo il Concilio, in collaborazione con G. dalla Torre, Giuffrè, Milano, 1982.

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sa in tale nuova prospettiva avrebbe rinunciato a quei privilegi che avessero potuto far dubitare della sua missione spirituale (§76 della Gaudium et spes) 5.

La nuova struttura concentrica del Popolo di Dio ed il ricono-scimento delle altre chiese come societas giuridicae (ordinamenti giuridici separati dalla Chiesa cattolica romana) sembrava realizza-re finalmente quell’«intendimento ecumenico a cui ciascuna chiesa s’ispira» 6. Si ritenne che la Chiesa romana avesse accettato ormai il principio risorgimentale “libera Chiesa in libero Stato” testimoniata anche dalla finale realizzazione di riforme legislative particolarmen-te significative come la legge di divorzio 7, quella relativa alla Rifor-ma del diritto di famiglia 8 quella sull’interruzione volontaria della gravidanza 9.

Si giunse alla conclusione da parte di non pochi giuristi ecclesia-sticisti che i sistemi concordatari non giovavano alla Chiesa post-conciliare, soprattutto per i fatali scivolamenti sul terreno politico; si aprì di conseguenza per l’Italia una stagione nuova per la revisione del Concordato Lateranense del 1929, con la costituzione di una de-legazione statale (Gonella, Jemolo, Ago) e quella vaticana (Casaroli, Silvestrini, Lener) che doveva finalmente cancellare quel principio confessionista statale, che dichiarava la religione cattolica apostolica romana la sola religione dello Stato (art. 1 Trattato) e dare impul-

5 P. GisMondi, Lezioni di diritto ecclesiastico, Giuffrè, Milano, 1975, p. 3: «Lo studio del diritto ecclesiastico acquista particolare importanza nella nostra epoca con la Costituzione italiana del 1948 e dopo il Concilio Vaticano II. Infatti la Costi-tuzione ha manifestato uno speciale interessamento per il fattore religioso dal punto di vista organizzativo esterno, al fine di assicurare il soddisfacimento dei bisogni religiosi dei cittadini». f. de GreGorio, Coscienza laica stato confessionale e libertà religiosa dopo il Concilio Vaticano II, Aracne, Roma, 2012.

6 G. PeyroT, Aspetti e rilievi giuridici delle relazioni ecumeniche, in “Protestan-tesimo”, 1966, pp.129 ss. Si ricorda anche che si costituì successivamente a tal fine la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, il 5 novembre 1967.

7 Legge 1 dicembre 1970, n. 898. Tale legge trovò una larga opposizione cattoli-ca e si giunse al referendum abrogativo che si tenne il 12 maggio 1974.

8 Legge 19 maggio 1975, n. 151.9 Legge n. 194 del 22 giugno 1978, anch’essa sottoposta a referendum.

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so al sistema delle intese con le confessioni diverse dalla cattolica; quest’ultime, infatti, attendevano da tempo, non solo una nuova leg-ge sulla libertà religiosa, ma anche un proprio riconoscimento giuri-dico nel diritto pubblico esterno italiano 10.

Ma l’impulso innovativo che aveva caratterizzato l’epoca dei referendum abrogativi per il divorzio e per l’interruzione volonta-ria della gravidanza ed aveva proposto una nuova epoca di rapporti Stato-Chiesa sappiamo purtroppo che si è progressivamente affievo-lito, perdendosi nei molti rivoli di una riconfessionalizzazione statale portata avanti dalle diverse anime dell’associazionismo cattolico e dalla svolta conservatrice europea, che ha voluto rifondare un nuovo giurisdizionalismo confessionista statale posto nelle mani di cittadini fedeli politicamente e spiritualmente indirizzati, ma anche di cosid-detti “laici devoti”.

Lo storico Accordo di Villa Madama (1984) in parte snaturato dai principi contenuti nel suo stesso preambolo, che comunque era sopravvissuto alle numerose bozze, ebbe in realtà il solo merito di aver abolito il principio già contenuto nello Statuto Albertino e rece-pito nell’art. 1 del Trattato lateranense per cui «la religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato».

La Chiesa cattolica, da parte sua, aveva rielaborato i principi con-ciliari in una prospettiva conservatrice (si ricorda il progetto della Lex Ecclesiae fundamentalis) e nel 1983 riuscì a promulgare un nuo-vo codex juris canonici che rappresentava nella realtà una elabora-zione più sociologica che giuridica degli stessi principi conciliari.

Si aprì anche contestualmente la stagione delle “Intese” con le confessioni diverse dalla cattolica con l’Intesa Valdo-Metodista. Da tale epoca di apparenti grandi riforme emerge a mio avviso il punto dolente dei rapporti tra Stato e fattore religioso rappresentato dalla ri-

10 Accordo di Villa Madama 18 febbraio 1984, Legge 25 marzo 1985, n. 121, con Protocollo addizionale; parimenti si aprirono altre delegazioni con gli enti esponen-ziali delle confessioni diverse dalla cattolica per giungere all’attuazione del dettato dell’art. 8 Cost. e dare una giusta dimensione giuridica alle confessioni diverse dalla cattolica. La prima intesa fu con la Tavola valdese (Intesa valdo-metodista) 21 feb-braio 1984, Legge n. 449 del 1984.

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conferma dell’insegnamento dell’ora di religione nelle scuole statali, anche se tale insegnamento non era più obbligatorio. Si ricorda infat-ti come nella realtà vennero creati problemi didattici e costituzionali per l’organizzazione delle ore alternative all’ora di religione.

La Corte Costituzionale fu chiamata a pronunciarsi su tale que-stione, con la storica sentenza che oltre a dirimere la questione dell’obbligatorietà dell’ora alternativa a quella di religione, afferma-va l’esistenza nell’ordinamento italiano del “principio supremo” di laicità dello Stato 11. Tale affermazione sembrò colmare il vuoto co-stituzionale costituito dall’assenza di una chiara affermazione della “laicità dello Stato” e si sperò che la sentenza della Corte Costitu-zionale aprisse, anche contro la realtà progressivamente dominante, una nuova stagione normativa statale in materia ecclesiastica, mentre l’ora di religione diveniva un forte simbolo confessionista potenziato da testi confessionali e dal progressivo consolidamento dello status giuridico dei professori di religione nelle scuole pubbliche statali.

La progressiva riconfessionalizzazione trasversale degli stessi apparati statali ha creato una realtà sociale e politica devota, quella stessa che già lo Jemolo pessimisticamente intravedeva come evento pericoloso nell’immediato dopoguerra (la fine della Democrazia Cri-stiana e dei partiti della Prima Repubblica).

Il gioco dei veti incrociati, come abbiamo potuto constatare in questi anni, ha allontanato il paese non solo dall’attuazione del risor-gimentale principio del Cavour “libera Chiesa in libero Stato”, ma ha anche impedito che si giungesse legislativamente ad una nuova legge sulla libertà religiosa; quella oggi vigente risale al 1929 12.

11 Corte Costituzionale, sentenza 12 aprile 1989, n. 203: la previsione di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella inter-rogazione della coscienza che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto. L’esercizio della libertà costituzionale di religione e la questione del matrimonio religioso indissolubile con effetti civili “dissolubili” definiti dalla legge di divorzio sembrava risolta dalla definita “delibazione” delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale canonica che veniva a risolvere i contrasti giurisprudenziali creati in materia dalla stessa Corte di Cassazione.

12 Legge n. 1159 del 1929, sui culti ammessi.

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In tale asfittica realtà sociale e politica, il diritto ecclesiastico si trova in realtà al bivio tra due anime. La prima tendente a riciclare un sistema di rapporti di tipo confessionista con la Chiesa cattolica apostolica romana anche in nome di una identità storica ed europea che si voleva fosse inserita nel preambolo della Costituzione dell’U-nione Europea. L’altra anima, a contrario, è quella progressista che, partendo dal pensiero di Francesco Ruffini (che riconosceva alle di-verse confessioni religiose – libero protestantesimo – un ruolo fonda-mentale nella creazione del diritto subbiettivo alla libertà religiosa), ma nello stesso sistema costituzionale europeo, vorrebbe che lo Stato sviluppasse il dettato dell’art. 19 Cost. e quindi si orientasse al ricono-scimento di quel pluralismo religioso confermato di fatto nella nostra comunità politica dalla presenza dei diversi diritti religiosi professati dagli immigrati, che chiedono anche primariamente la tutela legisla-tiva del loro diritto fondamentale alla libertà di coscienza e religione.

Il pluralismo religioso e sociale del nostro paese può essere, in-fatti, facilmente verificato entrando nelle scuole pubbliche italiane in primo luogo nelle scuole materne ed elementari nelle quali l’utenza non “cattolica” e culturalmente e religiosamente diversa è facilmen-te individuabile. Le due anime della materia, ma in realtà le anime sono molte, si contrappongono tra loro e di conseguenza il diritto ecclesiastico ha perso la sua storica identità e la sua strutturale veste giuridica e per questo è stato inquadrato nell’ampio bacino del diritto pubblico statale.

Prospettive di studio del Diritto ecclesiastico

Il Diritto ecclesiastico ha avuto anche un sviluppo in una prospet-tiva internazionalista, come già dagli anni ’60 sosteneva il Margiotta sottolineando la rilevanza dei trattati internazionali bilaterali e mul-tilaterali 13, ponendo le basi metodologiche del diritto ecclesiastico

13 Trattato di amicizia, commercio e navigazione fra Italia e USA del 2 febbraio 1948, reso esecutivo dalla legge 18 giugno 1949, n. 385. Trattato di pace del 1947 tra

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comparato e indicando lo studio della Convenzione europea dei di-ritti dell’uomo in riferimento all’art. 9, nonché i possibili sviluppi giurisprudenziali attuabili da parte della stessa Corte Europea dei di-ritti dell’uomo che avrebbe potuto rappresentare una futura garanzia internazionale sia del diritto di libertà di coscienza e religione, sia della laicità degli Stati.

L’ampia panoramica delle fattispecie di cui si è occupata la Cor-te europea dei diritti dell’uomo dimostra la perenne attualità della materia. Tra le tante ricorderemo solo a titolo esemplificativo la sen-tenza Refah Partisi contro Turchia nella quale la Corte ha preso una netta posizione contro l’invadenza di un diritto religioso nel siste-ma costituzionale laico di uno Stato (shari’a) 14. E da ultimo il caso Lautsi contro Italia (più noto come il crocifisso nelle aule scolastiche della scuola pubblica), la cui rilevanza politica (attualissima) è dimo-

Italia e altri paesi reso esecutivo con d.L.C.p.S 28 novembre 1947, n. 1430, «obbligo dell’Italia di rispettare il diritto fondamentale alla libertà di culto». Convenzione Eu-ropea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali stipulata a Roma il 4 novembre 1950 che riconosce ad ogni persona il diritto alla libertà di co-scienza e religione inclusa la libertà di cambiare religione, di manifestare il proprio credo in forma individuale o associata. Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea, firmato a Lisbo-na il 13 dicembre 2007: articolo 6 (ex articolo 6 del TUE): 1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati; articolo 10 Libertà di pensiero, di coscienza e di religione: 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di reli-gione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmen-te o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti; 2. Il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. (f. MarGioTTa BroGlio, c. MiraBelli, f. onida, Religioni e sistemi giuridici, Introduzione al diritto eccle-siastico comparato, il Mulino, Bologna, 1997).

14 Corte Europea dei diritti dell’uomo, caso Refah Partisi, Erbakan, Kazan et Tekdal c. Turchia (n. 41340/98 e 41342/98), sentenza del 31 luglio 2001, confermata dalla Grande Camera con sentenza del 13 febbraio 2003.

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strata dal fatto che allorquando una prima pronuncia 15 è stata oggetto di riesame da parte della Grande Camera della stessa Corte europea, si è visto l’intervento di numerose associazioni pro e contro le con-clusioni della prima sentenza, ma soprattutto si è visto l’intervento di ben dieci Stati 16 che chiedevano che fosse mantenuta l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. Con la sentenza emessa dalla Grande camera il 18 marzo 2011, la Corte, pur riconoscendo che il crocifisso è un simbolo religioso, ne ha ritenuta legittima l’esposi-zione in quanto di per sé simbolo passivo, riversando sui docenti la responsabilità di eventuali proselitismi nei confronti della personali-tà degli studenti 17.

L’orientamento in materia di libertà religiosa e di laicità dello Sta-to della Corte Europea dei diritti dell’uomo deve essere sostenuto in questo momento storico proprio di fronte alla crisi dell’assetto Unio-ne Europea, poiché il Consiglio d’Europa, grazie alla Convenzione Europea ed al suo sistema giudicante è riuscita comunque a creare un sistema giurisprudenziale condizionante per le legislazioni europee; infatti, se attualmente sembrano prevalere anche nella dimensione economica le politiche reazionarie degli Stati membri, è indiscutibile che le politiche ecclesiastiche indicate dalla Corte Europea costitui-scono una necessità storica e politica non eludibile anche di fronte alla presenza di nuove religioni e credenze immigrate nei paesi membri.

Ma il diritto ecclesiastico italiano e internazionale ha infine svi-luppato un ulteriore ambito scientifico della materia nello studio dei diritti religiosi, estendendo il metodo di studio del diritto canonico della Chiesa cattolica romana, percorso indicato già dai maestri sto-rici (Ruffini, Scaduto e Jemolo) ai diritti canonici delle altre religioni e si è giunti allo studio del diritto comparato delle religioni fondato

15 3 novembre 2009.16 Armenia, Bulgaria, Cipro, Federazione di Russia, Grecia, Lituania, Malta,

Monaco, Romania, San Marino.17 Europa e Islam, a cura di V. Tozzi, G. Macrì, Rubbettino, Soveria Mannelli,

2009. M.G. BelGiorno de sTefano, Il crocifisso “salvato”dalla Corte Europea dei diritti umani, in Scritti in onore di Franco Bolognini, Pellegrini, Cosenza, 2011, pp. 55 ss.

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sull’esame comparato dei diritti religiosi come l’Ebraismo, l’Islam e il Cristianesimo ed anche altri sistemi come l’Induismo, il Buddhi-smo ecc.

Tale orientamento della materia dovrebbe permettere anche una più ampia conoscenza non solo dei diversi sistemi religiosi, ma an-che della loro rilevanza giuridica e sociale nei diversi Stati a livello mondiale, anche in relazione al fenomeno dell’immigrazione. Un più attento esame inoltre è stato svolto più recentemente non solo nell’analisi dell’Islam mediterraneo 18, ma anche nelle diverse aree continentali come l’Asia e l’Africa, la cui multireligiosità e multi-culturalità richiedono una conoscenza specifica anche per valutare la rilevanza di tali diritti nei sistemi normativi, giudiziari ed ammini-strativi dei paesi europei.

Tali problematiche sono necessariamente solo indicative e spesso richiedono una conoscenza sistemica delle particolarità normative religiose legate ad usi, costumi e tradizioni particolari, come dimo-stra il problema delle mutilazioni genitali femminili e maschili 19.

Attraverso tali nuove frontiere della materia si potrebbe, anche nel nostro paese, sviluppare e predisporre le innovazioni legislati-ve necessarie in un contesto sociale multiculturale e multi religioso, creando finalmente una legislazione idonea in materia di tutela del diritto fondamentale di coscienza e religione. A tal fine sarebbe estre-mamente necessaria, come già più volte sottolineato, che venisse ap-provata in sede parlamentare una nuova legge sulla libertà religiosa, che sostituisse definitivamente la legge sui culti ammessi del 1929, che recepisse anche le direttive internazionali in materia e superasse il sistema delle intese, tenendo anche presente che le ultime appro-vate, quella con i Testimoni di Geova e quella con l’UBI (Unione Buddhisti Italiana) sono ancora in attesa di apposita legge statale e le

18 Diritto e religione nell’Islam mediterraneo. Rapporti nazionali sulla salva-guardia della libertà religiosa: un paradigma alternativo?, a cura di s. ferrari, il Mulino, Bologna, 2012. Il libro è dedicato ad Edoardo Dieni che stato il precursore degli studi di diritto comparato delle religioni.

19 M.G. BelGiorno de sTefano, La comparazione del diritto delle religioni del Libro, Ianua, Roma, 2002.

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molteplici altre in naftalina non sono nemmeno in fase preliminare di discussione 20.

Ma nella attuale fase reazionaria e conservatrice dello Stato italia-no, il diritto ecclesiastico, come possiamo tutti constatare, è opportu-namente relegato nell’area del diritto pubblico che nella sua vastità tutto comprende e tutto nasconde; spetta pertanto ai nuovi docenti della materia di opporsi a tale realtà e rifondare il diritto ecclesiastico italiano ed internazionale.

Il Diritto ecclesiastico, continuando la prospettiva della scuola ro-mana

In conclusione mi sembra doveroso ancora una volta ricordare il valore scientifico che ancora ha per la nostra materia l’insegnamento di Francesco Ruffini che può essere definito il fondatore del Diritto ecclesiastico, insieme a Francesco Scaduto. Il Ruffini rimane il più illustre tra i nostri maestri ed in lui possiamo trovare quegli elementi di studio che servono per riprendere un percorso innovatore in questo nostro momento storico. Egli non solo è vissuto in una epoca ancora rivoluzionaria e risorgimentale, ma ha anche affinato la sua cultura giuridica nella scuola del Friedberg a Lipsia, nella quale approfondì i fondamenti storici e pubblicistici della materia 21.

Il “periodo prussiano” pose il Ruffini anche a contatto con un’e-sperienza politica statale fondata sul nazionalismo statale, sull’esal-tante nascita dell’impero prussiano (18 gennaio 1871), sull’inimici-zia con la Francia cattolicissima (che aveva impedito l’unità d’Italia fino al 1870) e sull’anticlericalismo cattolico 22.

20 P. Piccioli, Il prezzo della diversità. Una minoranza a confronto con la storia religiosa in Italia negli scorsi cento anni, Jovene, Napoli, 2010.

21 Il Ruffini tradusse in italiano il trattato di diritto ecclesiastico del Friedberg. Anche Francesco Scaduto studiò a Lipsia impostando il proprio pensiero a favore della sostanziale superiorità della laicità dello Stato.

22 Le Leggi prussiane ecclesiastiche del 1872 erano fondate sulla “lotta per la civiltà” (KulturKampf) e rappresentavano un vero attacco di Bismarck alla Chiesa

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Il Ruffini proprio in tale contesto, entrando in contatto con tutti quei movimenti di liberi protestanti che in quel periodo godevano di maggiori libertà sociali e politiche, sviluppò la sua ricerca sulle ori-gini della libertà di coscienza e religione studiando il Giansenismo, il Socinianesimo e le loro influenze in Europa ed in America 23.

Il suo insegnamento universitario, prevalentemente a Torino, gli permise di confrontarsi con gli studiosi del tempo e di definire la di-mensione scientifica e culturale della nostra materia non tralasciando i presupposti storici di essa, ma indirizzando la struttura portante di essa alla determinazione del diritto subbiettivo di libertà religiosa ed alla elaborazione istituzionale del principio di laicità dello Stato 24.

La partecipazione anche alla vita politica italiana come senatore del regno e lo svolgimento anche di una ampia attività giornalistica gli permise di consolidare le sue prospettive scientifiche nella costan-te verifica delle effettive necessità politiche e giuridiche nazionali. La sua opera ancor oggi più significativa è legata al suo corso di dirit-to ecclesiastico: la libertà religiosa come diritto pubblico subbiettivo.

Nella stessa Prefazione del Corso egli definiva il suo testo non un manuale, né un trattato e nemmeno un testo di Istituzioni, ma un la-voro nel quale esporre «tutto ciò che nella universa nostra disciplina stimammo dover importare massimamente ad uno studioso italiano.

cattolica romana ed al cattolicesimo; esse erano state elaborate anche dal Friedberg e si fondavano sul principio della superiorità dello Stato sulla Chiesa. Le leggi prus-siane ecclesiastiche del 1872 rappresentavano una scelta politica di superiorità dello Stato sulla Chiesa e sul fattore religioso in nome della quale si regolava la chiusura di alcuni ordini religiosi, s’istituiva un tribunale regio per le questioni ecclesiastiche, si ipotizzava anche la creazione di una Chiesa nazionale.

23 Il Ruffini nella sua opera Storia di un’idea esamina la formazione del concetto di libertà religiosa nel seicento e nel settecento. Egli cercò di comprendere il valore del “dogma sociniano” nell’idea stessa di tolleranza. In a.c. JeMolo, Introduzione, in f. ruffini, La libertà religiosa: storia di un’idea, Feltrinelli, Milano, 1962 (prima edizione 1908). La nostra attenzione a Francesco Ruffini è legata anche alla conti-nuità del suo pensiero con quello di Arturo Carlo Jemolo, suo studente a Torino e suo primo allievo.

24 f. MarGioTTa BroGlio, Introduzione, in f. ruffini, Discorsi parlamentari, Se-nato della Repubblica, Roma, 1986.

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Il criterio della scelta non fu quindi oggettivo ma soggettivo» 25. Una materia che appariva «la più vasta fra le giuridiche come quella che presenta gli aspetti più disparati» 26.

Il Ruffini non volle limitare la sua trattazione scientifica ai rap-porti Stato-Chiesa, ma estenderla alla considerazione «del diritto del cittadino ad un assetto di tali rapporti che rispetti e garantisca, innan-zi tutto, la sua libertà di fede», per questo il suo libro analizza nella la prima parte «l’epoca della intolleranza religiosa», nella seconda «l’e-poca della libertà religiosa», concludendo l’opera con una finale ri-flessione sul valore del separatismo «come principio costituzionale».

Sappiamo anche come il Ruffini si opponesse al mutamento di un sistema di separazione tra Stato e Chiesa cattolica come affermò pro-prio specificamente nel suo lavoro sui rapporti tra Stato e Chiesa 27. Si oppose ai Patti Lateranensi ritenendoli una involuzione storica e una continuazione di quel rapporto storico dinastico creatosi tra l’Italia e la Sede Apostolica romana, databile nei lontani tempi della calata longobarda, per cui fu «La collocazione trasversale dei possedimenti pontifici a far da spartiacque fra due Italie: contribuendo a separare quelle due aree geografiche e quei due ambiti umani e a mantenerli distinti per interessi, mentalità, per interessi politici» 28.

La scuola romana di Diritto ecclesiastico nasceva quindi dall’i-dea di Ruffini ed anche se nel quadro della materia troviamo illustri ecclesiasticisti, come Francesco Scaduto ed altri che hanno allargato i confini della materia stessa, possiamo affermare che la singolarità

25 f. ruffini, Corso di diritto ecclesiastico italiano. La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bocca, Torino, 1924, p. 1.

26 Diritto storico e diritto presente, diritto universale e diritto particolare, diritto statuale e diritto extra-statuale riconducibili a tre punti essenziali: 1) diritto pubbli-co subiettivo, 2) autonomia, 3) autarchia). Tre punti però apparivano per il Ruffini «strettamente collegati», tutti e tre infatti derivano «dal duro nocciolo primitivo del-la libertà di religione che tutta la teoria dei diritti di libertà si venne poi faticosamen-te enucleando, perché quello della inviolabilità della propria coscienza fu il primo e per un pezzo il solo diritto che l’individuo abbia accampato di fronte allo Stato».

27 f. ruffini, Relazioni tra Stato e Chiesa. Lineamenti storici e sistemici, a cura di f. MarGioTTa BroGlio, il Mulino, Bologna, 1974.

28 P. Bellini, Tra due Italie, Claudiana, Torino, 2010, p. 15.

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del metodo del Ruffini diede una dimensione specifica all’autonomia del diritto ecclesiastico e nello stesso tempo lo inserì pienamente in quel complesso momento storico in cui si pensava che l’unità d’Italia avrebbe rappresentato il crogiolo di tutte le libertà religiose e civili.

Egli in realtà era nato all’indomani dell’unità italiana ed aveva percepito pienamente il significato della incompiuta realizzazione del sistema di separazione tra Stato e Chiesa e di un vero sistema di garanzia del diritto subbiettivo di libertà religiosa, vivendo poi, an-che, come senatore del regno le vicende postunitarie italiane gravate dal non expedit papale. Tali riflessioni possono essere comprese leg-gendo proprio l’epistolario di Benedetto Croce a Francesco Ruffini nel quale si può cogliere la profonda crisi dello Stato liberale italiano nella nuova prospettiva politica ed ideologica dello Stato 29.

Se il Ruffini è considerato il fondatore del diritto ecclesiastico italiano, in onore anche alla sua completa personalità umana di stu-dioso, di politico e di giornalista, egli è anche considerato il punto di riferimento della scuola romana poiché ebbe come allievo a To-rino, nella facoltà di giurisprudenza, Arturo Carlo Jemolo che fu in realtà colui che diede valenza nazionale ed internazionale al diritto ecclesiastico italiano e che proseguì l’opera del maestro, sviluppando le tematiche fondamentali della materia e interpretando la successi-va epoca storica e le vicende politiche e sociali del paese con “gli occhiali del giurista” ed insegnando prevalentemente a Roma nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” 30.

Lo Jemolo fu rigoroso giurista, ma anche attento osservatore della connessione tra diritto, politica e storia. Sappiamo che la sua produ-zione scientifica, letteraria e giornalistica fu eccezionale, ma forse per comprendere pienamente il significato del suo pensiero e trac-ciare una linea unitaria tra la sua produzione scientifica e l’indirizzo di studio lasciato agli allievi, occorre leggere il suo libro Tra dirit-

29 f. MarGioTTa BroGlio, Travaglio e crisi dello Stato liberale, in Lettere di Be-nedetto Croce a Francesco Ruffini, in “Nuova Antologia”, n. 2159, 1986.

30 Chiesa e Stato negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino, 1948.

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to e storia 1960-1980 31 che costituisce anche il nesso di continuità della “scuola romana” con i suoi esponenti storici più illustri (P.A. D’Avack, P. Gismondi, L. De Luca, T. Mauro, L. Spinelli). Quest’ul-timi, essendosi recati a presentare gli auguri al maestro in occasione del suo novantesimo compleanno, si stupirono della sua semplicità e modestia, mentre «ricordava l’impegno con il quale ognuno di loro aveva affrontato il lavoro scientifico quasi ignorando il significato del suo messaggio di guida e di maestro». Gli allievi stessi per degna-mente onorarlo successivamente pensarono di raccogliere parte dei suoi saggi più significativi e comunque scelti collegialmente in modo che testimoniassero anche i diversi indirizzi della materia sviluppati da essi 32. In tale opera, nella quale sono raccolti diversi lavori dello Jemolo, emerge in tutti l’attenzione costante dello storico e del giuri-sta al tema della libertà che è considerata come afferente innanzitutto all’intima coscienza del singolo ed all’etica vigente in seno alla co-munità. «Per l’uomo di sentimenti liberali quel che conta non è tanto la sua libertà, ma il vivere in un sistema di libertà».

La libertà religiosa ha quindi caratteri suoi propri; essa presen-ta: «libertà e tolleranza, libertà ed eguaglianza, libertà di credere e di operare contrasti tra le norme di una religione e la legge statale, l’intolleranza di diritto e quella di fatto». Anche la normativa canoni-ca della Chiesa Romana fu studiata dallo Jemolo che, confermando l’orientamento del Ruffini, considerava il diritto della Chiesa come un ordinamento giuridico i cui fondamenti erano nel diritto romano e si sviluppavano in un complesso sistema di sacralizzazione del dirit-to, costituendo un autonomo diritto religioso come peraltro analoga-mente costituiva un diritto religioso quello ebraico 33.

Il tema della libertà di coscienza e religione venne costantemente collegato nei suoi scritti anche al tema della separazione tra Chiesa

31 a.c. JeMolo, Tra diritto e storia (1960-1980), Giuffrè, Milano, 1982.32 id., Vita ed opere di un italiano illustre. Un professore dell’Università di

Roma, a cura di G. cassandro, a. leoni, f. Vecchi, Jovene, Napoli, 2007.33 Lo Jemolo era profondo conoscitore e studioso del diritto ebraico essendo egli

stesso di origini ebraiche.

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e Stato, considerando negativamente sia i Patti Lateranensi, sia la nuova impostazione della Costituzione italiana del 1948. Egli si de-finiva liberal-cattolico, termine riservato a chi per intensa che sia la sua fede e la sua pratica pensi secondo schemi della società civile, dia gran posto nelle preoccupazioni alle strutture statali, a chi ad esem-pio riconoscesse che nella sua formazione avessero agito eminente-mente uomini del mondo laico 34.

Il mio personale ricordo di Jemolo risale a molti anni fa, quando nel corso della lezione magistrale della docenza di Giuseppe Caputo (suo più giovane allievo) vidi entrare un vecchio signore un po’ ma-landato, che si sedette agli ultimi banchi silenziosamente. Poco dopo i professori della scuola romana presenti D’Avack, Gismondi, De Luca, Mauro ed allora i più giovani Bellini e Margiotta si lanciarono verso il malandato signore costringendolo a sedersi in prima fila. Egli continuava ad essere riluttante e infastidito da tanta attenzione, ma poi rivolse, dietro gli occhiali, una occhiata benevola al folto grup-po dei più giovani quasi per compiacersi della continuità potenziale della materia. Il ricordo di quella giornata non può non legarsi anche alla continuità della scuola romana non tanto nelle diverse sedi uni-versitarie italiane, nelle quali i vari giuristi ecclesiasticisti sono stati e sono presenti, ma per la continuità ideale e sostanziale della loro produzione scientifica con il pensiero dei loro primi maestri. Tutti hanno sviluppato con orientamenti diversi nelle loro opere scienti-fiche sia il tema della libertà religiosa, sia il valore del principio di separazione tra Stato e Chiesa, formando in tal senso anche i loro al-lievi. Il patrimonio scientifico e culturale del diritto ecclesiastico non dovrebbe andare disperso; recentemente nella mia sede universitaria di Perugia, a fronte della proposta di sopprimere in quell’ università l’insegnamento del diritto ecclesiastico, ho pubblicamente afferma-to: «salvate il soldato Ryan».

Ma il problema fondamentale della sopravvivenza della materia non è legato solamente ai problemi economici delle università ita-

34 c. sTaJano, Jemolo l’umiltà della virtù civile, in “Corriere della sera”, 10 ago-sto 2011, p. 37.

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liane, esso è connaturato alla voluta non conoscenza sociale e giu-ridica del fondamentale significato della libertà anche religiosa e di pensiero. Le enunciazioni formali anche politiche della tutela dei diritti fondamentali della persona sono solo vuote enunciazioni e il valore dell’autonomia dello Stato da tutte le religioni e credenze è altro principio sostanzialmente dimenticato in una società reaziona-ria, economicamente umiliata e diseducata a dare il giusto valore ai rapporti umani (fratellanza), alla libertà e all’uguaglianza ed anche al diritto alla felicità. Il rispetto personale e collettivo di tali principi potrebbe rappresentare una nuova svolta storica sociale e politica che però sembra purtroppo molto lontana nel futuro del nostro paese 35.

35 P. Bellini, Il diritto di essere se stesso. Discorrendo dell’idea di laicità, Giap-pichelli, Torino, 2007.

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La proficua “irrequietezza” del Diritto ecclesiastico. Primi cenni

di faBiano di PriMa

Ringrazio anzitutto gli organizzatori della giornata di studi, che offre ai cultori più giovani della disciplina l’occasione per riflettere sulle sorti del diritto ecclesiastico.

Premetto che ripagherò offrendo solo qualche minima suggestione. Non per scortesia, naturalmente; ma perché ritengo che per esprimere assunti compiuti su un tema di tale portata e delicatezza occorra un bagaglio d’esperienza e conoscenza superiore al mio. Mi limiterò, pertanto, a tracciare alcune prime coordinate d’uno sviluppo possibile dell’insegnamento; facendomi guidare dall’ipotesi – da verificare – che una sua caratteristica “genetica” gli conferisca una naturale tendenza allo scrutinio costante dei propri schemi, metodiche e contenuti, e una tensione di base a un ciclico “ripensamento” della propria identità.

Per procedere a tale esposizione, partirei dall’annotazione d’una circostanza che attiene al vissuto dell’Accademia, e che sarà capitata a molti affacciatisi (come il sottoscritto) in un momento incerto di quest’ultima. Mi riferisco al consiglio che più volte m’è capitato di ricevere da parte dei maestri della disciplina, di non badare al contesto generale “avvilente”, e piuttosto concentrarsi sullo studio dei classici 1.

1 In tal senso, in ordine agli studi canonistici ed ecclesiasticistici, quantomeno suggestiva mi pare la circostanza che solo negli ultimi mesi siano state edite ben tre opere deputate a rievocare figure di insigni giuristi della disciplina (F. MarGioTTa BroGlio, Religione, diritto e cultura politica nell’Italia del Novecento, a cura di G. Mori e A.G. Chizzoniti, il Mulino, Bologna, 2012; La costruzione di una scien-za per la nuova Italia: dal diritto canonico al diritto ecclesiastico, a cura di G.B. Varnier, EUM, Macerata, 2011) o a riproporne il pensiero circa le metodiche più opportune da seguire nella ricerca e nella didattica (Lo studio e l’insegnamento del diritto canonico e del diritto ecclesiastico in Italia, a cura di S. Gherro e M. Miele,

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Un suggerimento che ricordo volentieri, anche perché effettivamente proficuo: procedere “sulle spalle dei giganti” (per usare una nota immagine 2), permette nei giorni meno bui e con un po’ d’ottimismo d’intravedere tempi migliori.

Sennonché, per chi si occupa di Diritto ecclesiastico tale procedi-mento pare sortire un effetto secondario, pur esso, in un certo senso, giovevole. A seguire quel consiglio, infatti, si scopre in prima battuta che i maestri della disciplina, a cominciare dai fondatori (vedi ad esempio Francesco Scaduto 3), hanno convissuto anch’essi con un’in-sicurezza di fondo: quella, cioè, di coltivare una scienza allora ritenuta marginale, accusata di non avere autonomia scientifica e comunque di non essere indispensabile per la formazione del giurista: una disciplina il cui insegnamento, era questo il pensiero ostile, risultava surrogabile da altri (più consolidati) ambiti scientifici 4.

Cedam, Padova, 2012); e lo stesso è a dirsi in ordine al tema prescelto in occasione dell’ultimo Convegno nazionale dell’A.D.E.C., svoltosi nell’Ateneo patavino, Gli insegnamenti del diritto canonico ed ecclesiastico a centocinquant’anni dall’Unità, Padova, 27-28-29 ottobre 2011, cfr. olir.it/areetematiche/95, consultato il 2 mag-gio 2012) e altresì a quello su cui s’è incentrato il recentissimo incontro di studi tenutosi nell’Ateneo federiciano nell’aprile scorso Rileggere i Maestri (cfr. olir.it/areetematiche/news/documents/news_3174_napoli_rileggere_maestri_18apr2012.pdf, consultato il 2 maggio 2012).

2 Si tratta del celebre aforisma riportato da Giovanni di Salisbury nel suo Metalo-gicon (1159), e da lui attribuito a Bernando di Chartres, secondo il quale «noi siamo come nani issati sulle spalle di giganti, cosicché possiamo vedere più e più lontano di loro, non per l’acutezza dello sguardo o per la statura del corpo, ma perché siamo sollevati in alto dalla loro mole gigantesca». Per approfondimenti, cfr. M. Giansan-Te, Giganti e nani. Gli antichi e i moderni in una metafora medievale, in “I Quaderni del M.A.E.S.”, 2009-2010, pp. 137 ss., anche in biblioteca.retimedievali.it.

3 f. scaduTo, Il concetto moderno del diritto ecclesiastico. Prolusione letta il 21 novembre 1974, L. Pedone Lauriel, Palermo, 1885, ora in appendice a i.c. iBan, En los orígenes del Derecho Eclesiástico, Boletin oficial del Estado, Ma-drid, 2004, p. 187 ss.

4 Come rilevato, tra gli altri, da a. zannoTTi, nel suo intervento svolto in oc-casione delle Giornate di studio su “L’insegnamento del diritto ecclesiastico nelle università italiane”, svoltesi a Campobasso nel gennaio del 2001 (i cui contributi sono raccolti nel volume L’insegnamento del diritto ecclesiastico nelle università

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In altre parole, quel tuffo nel passato consente di rinvenire un tratto ricorrente dell’ecclesiasticista di rango, che pur forte del lustro conseguito in una «civiltà giuridica raffinatissima» 5 (e quindi estre-mamente esigente), può scontare un latente «senso di scetticismo e insicurezza» 6 sull’autosufficienza scientifica della materia 7; e talvolta maturare (specie nelle fasi di stanca) un convincimento pessimista sul futuro della stessa 8.

italiane, curato da M. Parisi, Esi, Napoli, 2002) v’è un radicato indirizzo di pensiero per il quale, da una parte, «il diritto ecclesiastico non avrebbe una sua autonomia scientifica, ma dovrebbe essere ricompreso dentro l’insegnamento e l’alveo del di-ritto costituzionale, rappresentandone, esso, niente più che quella branca che studia i rapporti tra lo Stato, la Chiesa e le altre confessioni religiose».

5 L’espressione è presa a prestito da e. ViTali, Legislatio libertatis e prospetta-zioni sociologiche nella recente dottrina ecclesiasticistica, in Il diritto ecclesiastico, 1980, I, p. 30 (ora anche in id., Scritti di diritto ecclesiastico e canonico, Giuffrè, Milano, 2012, p. 9), che la utilizza in ordine a un celebre studio di L. de luca (Il concetto del diritto ecclesiastico nel suo sviluppo storico, Padova, 1946), per indi-care come esso risultasse il «frutto ultimo», per l’appunto, di «una civiltà giuridica raffinatissima, portata ad interrogarsi sulle ragioni stesse del proprio operare».

6 Così, G. caTalano, Problemi metodologici nel diritto ecclesiastico tra storia e dogmatica, in M. Tedeschi, G. caTalano, P. Bellini, P. loMBardía, e.G. ViTali, M. condorelli, f. finocchiaro, l. de luca, Storia e dogmatica nella scienza del diritto ecclesiastico, Giuffrè, Milano, 1982, p. 46.

7 Ad esempio, a quanti (e non credo siano pochi) abbiano appreso i primi rudi-menti del diritto ecclesiastico dal manuale del Finocchiaro, può fare una qualche impressione la scelta dello stesso di aprire un saggio incentrato sullo studio della disciplina (Lo studio del diritto ecclesiastico negli ultimi venti anni, in Problemi metodologici cit., p. 149), col quesito «se il diritto ecclesiastico sia una scienza»; pur al netto della spiegazione fornita dall’A., di voler «agevolare una valutazione degli studi ecclesiasticistici del ventennio testè trascorso», col porre in evidenza come al-cuni di essi, pur trattando «problemi fondamentali della materia, non sempre hanno tenuto conto della necessità di procedere» in modo scientifico, (nel senso prospettato dal Finocchiaro, e cioè) «sulla base di principi classificatori individuati con un suf-ficiente margine di sicurezza»; all’A. pare altresì problematico (nel senso indicato), il fatto che quando pure tali studi avessero individuato detti principi, non sempre avevano «per oggetto l’indagine sulla materia offerta dall’esperienza» (p. 151).

8 Ci si riferisce all’esempio più noto di A.C. Jemolo (vedi il suo Considerazioni sulla giurisprudenza dell’ultimo decennio in materia di decime con particolare ri-guardo a quella della Corte di Venezia e dei Tribunali Veneti”, in Studi in onore di

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L’effetto giovevole di cui si diceva, tuttavia, non sta solo in questo primo e parziale rilievo: che, al più, potrebbe cagionare al giovane ricercatore l’esiguo “mezzo gaudio” di patire un disagio (quello dell’insicurezza) conosciuto anche dai grandi. C’è invece soprattutto la sensazione che quest’ultimo possa aver incentivato le dinamiche culturali del diritto ecclesiastico; pungolando, cioè, i relativi cultori ad un’opera costante di costruzione e “decostruzione” dell’architettura della disciplina, che nel cercare i «criteri normativi speciali» 9 atti a darle il fondamento più solido, fungesse al contempo a dar evidenza della sua autonomia dalle altre scienze giuridiche (specie agli occhi dei relativi cultori) 10. Determinando una «rincorsa all’eccellenza» che

Francesco Scaduto, vol. II, Casa Editrice del dott. Carlo Cya, Firenze, 1936, pp. 4 ss.) che a pochi anni dalla conciliazione, avvertiva come nel languire o nello spe-gnersi della polemica, il diritto ecclesiastico si trovasse in «acque stagnanti», appa-rendo un «ramo morto» o quantomeno «meno vivo» del diritto. Preoccupazioni sul destino della disciplina, che lambivano quelle sulla sua autonomia scientifica, posto che l’A. lamentava altresì come «la più gran parte» della letteratura ecclesiasticistica vertesse «sulla materia matrimoniale, cioè su un capitolo comune al nostro diritto e a quello civile». Gli faceva eco il suo allievo, P. fedele, Il problema dello studio e dell’insegnamento del diritto canonico e del diritto ecclesiastico in Italia, in “Ar-chivio di diritto ecclesiastico”, 1939, I, p. 51, che rilevava, rispetto al primo profilo, come il diritto ecclesiastico gli sembrasse un «terreno povero, arido, il quale altri frutti non è ormai in grado di offrire al ricercatore se non quelli contingenti, d’or-dine professionale e pratico»; e quanto al secondo, che il diritto ecclesiastico fosse «ormai così ristretto nel suo ambito da ridursi nelle mani dei suoi cultori ad una sola materia, che per di più non può neppure considerarsi estranea ai cultori del diritto civile, come la matrimoniale». Scritto, quest’ultimo, che originò un vivace e prolun-gato dibattito tra illustri canonisti ed ecclesiasticisti ospitato nella medesima rivista (diretta dallo stesso Fedele), la cui lettura è ora resa più agevole dalla ristampa dei relativi interventi contenuta nel summenzionato volume Lo studio e l’insegnamento del diritto canonico e del diritto ecclesiastico in Italia. Vi fa cenno, tra gli altri, M. Tedeschi, Sullo studio delle discipline ecclesiasticistiche, in Id., La tradizione dot-trinale del diritto ecclesiastico, Pellegrini, Cosenza, 2007, p. 53 ss.

9 Sulla scienza giuridica come «ricerca di criteri normativi», cfr. M. doGliani, Indirizzo politico. Riflessioni su regole e regolarità nel diritto costituzionale, Jove-ne, Napoli, 1985, p. 5 ss.

10 Esemplificativamente, vedi le osservazioni operate sul punto da V. del Giudice, Corso di diritto ecclesiastico, vol. I, Giuffrè, Milano, 1933, p. 34 ss.; M. falco, Cor-

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nel succedersi continuo di soluzioni innovative, critiche e/o imposta-zioni alternative, mira alla delineazione di modelli teorico-sistematici ottativamente «inattaccabili»: con un procedere che nell’immediato divide o polarizza, come e più della tensione dialettica tra «laicisti» e «confessionisti» 11; ma nel lungo risulta preziosa.

Solo per fornire un esempio, si focalizzi quanto accade nella disci-plina nel periodo compreso tra la stipula e la revisione del Concordato lateranense, dove segnatamente: a) all’indomani della Conciliazione, prima prevale una certa impostazione formalistica incentrata sulla “spe-cialità” del diritto ecclesiastico 12, poi monta un pensiero avverso, che ne denuncia l’indole “privilegiaria” e l’eccessiva astrattezza tecnica 13; b) con l’avvento della Costituzione repubblicana, questo secondo trae forza dai principi pluralistici e garantistici in essa contenuti, per far va-lere l’idea generale del diritto ecclesiastico quale legislatio libertatis 14;

so di diritto ecclesiastico, vol. II, Cedam, Padova, 1938, pp. 4 ss.; o. Giacchi, Note sullo studio del diritto ecclesiastico, in Lo studio e l’insegnamento cit., pp. 125 ss.

11 Cfr. G.B. Varnier, Le attuali prospettive del diritto ecclesiastico italiano.Re-lazione di sintesi, in olir.it, maggio 2005, p. 2, nota la peculiarità del diritto ecclesia-stico, «che nasce laicista e sfocia nel confessionismo, alimentandosi dalla contrap-posizione dialettica tra queste due opposte correnti, mentre teme il ristagno della palude». Circa un decennio prima, A. ViTale, Lo stato degli studi di diritto ecclesia-stico in Italia, in “Anuario de Derecho Eclesiástico del Estado”, vol. XII, 1996, p. 442, parlava d’una «tradizionale articolazione ideologica» esistente nel campo della disciplina, tra «cattolici clericali e moderati» e «laici anticlericali e moderati» ma ri-levando come essa «a prima vista [non fosse] così netta come in passato». Sul punto, cfr. altresì, V. Tozzi, L’insegnamento del Diritto Ecclesiastico nell’Università italia-na, in L’insegnamento del diritto ecclesiastico nelle università italiane cit., pp. 21-2.

12 Emblematica, in tal senso, la visione di V. del Giudice, Manuale di diritto ecclesiastico, Giuffrè, Milano, 1951, pp. 3 ss. Sul punto, vedi e. ViTali, Legislatio libertatis e prospettazioni sociologiche cit., pp. 36 ss.; M. Tedeschi, Sulla scienza del diritto ecclesiastico, Giuffrè, Milano, 20073, pp. 49 ss.

13 Cfr. M. Tedeschi, Sulla scienza cit., p. 54; E. ViTali, Legislatio cit., pp. 17 ss.14 Il richiamo va a l. de luca, Diritto ecclesiastico ed esperienza giuridica,

Giuffrè, Milano, 1971. Sul punto, cfr. tra gli altri A. alBiseTTi, Diritto ecclesiastico italiano, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. V, Utet, Torino, 1999, pp. 237 ss. (ora anche in id., Tra diritto ecclesiastico e canonico, Giuffrè, Milano, 2009, pp. 186 ss.) e E. ViTali, op. ult. cit., passim.

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ma più tardi, con l’affermarsi d’un certo modello di Stato (sociale) e di Chiesa (“postconciliare”), questa stessa idea informa una costruzione peculiare parzialmente divergente, basata su prospettazioni sociolo-giche e concentrata sulle esperienze comunitarie di base 15; c) negli anni ’80, prima e dopo il rinnovamento della piattaforma normativa bilaterale ex artt. 7 e 8 Cost. che ribadisce la centralità del rapporto in-teristituzionale 16 e lo specifico rilievo delle «confessioni» 17, l’anzidetta costruzione riceve critiche che segnalano l’imprescindibilità di questi due punti; rilievi che, in quello stesso periodo, col varo dell’indicata nuova piattaforma, ispirano spesso a loro volta nuove teoriche 18.

Non si crede quindi di generalizzare, se si evince da ciò (ma anche da altre “schermaglie” dottrinali già compiutamente descritte e analiz-zate) l’esistenza d’una costante tensione dialettica nella disciplina, la quale pare “non contentarsi mai” degli esiti teorici raggiunti, specie quando variano le contingenze della concreta esperienza giuridica; e ciò anche perché in gioco, sia pur magari non direttamente, sta sempre il tema della sua identità di scienza 19, che conduce nel più dei casi a

15 Emerge in tal senso soprattutto l’architettura delineata da A. ViTale, Il diritto ecclesiastico, Giuffrè, Milano, 1978. Cfr. i rilievi critici su tale opera in E. ViTali, op. ult. cit., pp. 27 ss.

16 Si ribadisce peraltro, in generale, la centralità del rapporto tra autorità dei due rispettivi “ordini”, come suggerisce la ritrosia delle parti a trattare fenomeni non orga-nicamente legati alle confessioni. Sul punto, più diffusamente, sia consentito il rinvio a f. di PriMa, Il volontariato religioso nell’ordinamento giuridico italiano, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica (statoechiese.it), dicembre 2011.

17 Cfr. C. cardia, Stato e confessioni religiose, il Mulino, Bologna, 1988, pp. 173 ss.

18 Quello degli anni ’80, secondo G. casuscelli, Le attuali prospettive del diritto ecclesiastico italiano, in Olir.it, aprile 2005, pp. 5-6, pare essere uno snodo signi-ficativo, ma non in senso positivo: posto che secondo l’A., «la spinta propulsiva che, dopo gli anni sessanta, aveva consentito una vera e propria rifondazione della disciplina il cui baricentro si era spostato, con lenta progressione ma con solidità di impianto, dall’assorbente prisma concordatario verso quella configurazione di legi-slatio libertatis che dalla cattedra milanese ha tratto ispirazione prima ed alimento poi, quella spinta si è pian piano attenuata dopo la fine degli anni ottanta».

19 Cfr. P. consorTi, Diritto e religione, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 3, che par-lando del presente della disciplina, nota come essa stia «attraversando un momento

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una difesa pervicace del peso e del senso della sua presenza, e delle sue metodiche caratteristiche.

Un ragguardevole sforzo critico, in effetti mai cessato (specialmen-te in questi ultimi anni, e segnatamente appresso al passaggio grave della riforma degli studi universitari del ’9920) che opportunamente ha fatto emergere, altresì, quella costante autocritica che un celebre studioso spagnolo ha con sense of humour elevato a minimo comun denominatore degli ecclesiasticisti italiani21. Quasi come se questi ultimi avessero inteso, chi più, chi meno, raccogliere il testimone di Francesco Scaduto, come ‘trivellatore’ appassionato22.

non facile, e in parte sembra essere alla ricerca di una sua identità». V. anche G.B. Varnier, La mutazione genetica dei contenuti della didattica, in L’insegnamento del Diritto ecclesiastico nelle Facoltà di Scienze politiche, a cura di G. Macrì, Gu-tenberg, Fisciano, 2005, pp. 24-33, il quale manifesta l’avviso «che sia prioritario ri-vendicare una identità delle nostre materie». Sul punto in questione, altresì, cfr. le osservazioni fatte a suo tempo da G. caTalano, Lezioni di diritto ecclesiastico, I, Giuffrè, Milano, 1989, p. 46 ss.

20 Cfr., in proposito i saggi raccolti all’indomani della riforma in parola nel volu-me collettaneo L’insegnamento del diritto ecclesiastico nelle università italiane cit.

21 i.c. iBan, Francesco Scaduto como propugnador de la concepción moderna del derecho eclesiástico, in Il contributo di Francesco Scaduto alla scienza giuridica, a cura di S. Bordonali, Giuffrè, Milano, 2009, pp. 31-2, nel porre a confronto il diritto ecclesiastico italiano e lo Staatkirchenrecht tedesco, nota come «quizà la nota distin-tiva más llamativa» tra le due realtà scientifiche è «que en Alemania hay una marcada tendencia a la consideración de todo trabajo de cierta entidad como definitivo, en tanto que en Italia el “diritto ecclesiastico” de modo continuo se ha sometido a un constante processo de autocritica, de tal manera que nada puede darse por definitivo».

22 Nell’impegno a scavare le trincee di una usurante, ma avvincente, battaglia delle idee, combattuta su più fronti. L’immaginifica espressione è adoperata da A.C. JeMolo, nella Introduzione alla nuova edizione, curata dalla Regione Siciliana, del celebre lavoro di Scaduto, Stato e Chiesa nelle due Sicilie dai Normanni ai giorni nostri (Palermo, 1969; ediz. orig., Amenta, Palermo, 1887). Per approfondire il tema specifico dell’approccio peculiare, insieme meticoloso e «agguerrito», adottato da Scaduto nella redazione dei suoi studi, si rinvia a G. caTalano, La problematica del diritto ecclesiastico ai tempi di Francesco Scaduto e ai nostri giorni, in Il Diritto ec-clesiastico, I, 1965, I, pp. 23-34; id., Il contributo di Francesco Scaduto alla nascita ed allo sviluppo del Diritto ecclesiastico italiano, ivi, 1995, IV, pp. 845 ss.; o. con-dorelli, Il «Diritto ecclesiastico» di Francesco Scaduto nel giudizio di alcuni con-

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Tutto ciò per provare a offrire uno spunto di riflessione, e cioè che la “cifra” del diritto ecclesiastico italiano sia tradizionalmente quella d’una disciplina dalla “fibra” robusta (per via degli illustri apporti) e dall’allure notevole, per l’unicità del campo prescelto 23, i.e. la ricer-ca della specialità normativa cagionata da un fatto religioso; ma al contempo – è questo il punto – naturaliter messa in discussione. Ciò essenzialmente a causa del suo legame stretto – rilevato da Scaduto 24

temporanei. Note minime su frammenti di ricerca, in Il contributo cit., pp. 162 ss.; F. di PriMa, Il “metodo” di Francesco Scaduto. Un caso paradigmatico, ivi, pp. 95 ss.

23 Cfr. S. BerlinGò, Lo stato dell’arte cit., p. 114, dove segnala l’«apporto non di poco conto» che la “scuola” ecclesiasticistica italiana ha offerto «all’odierno modo di concepire il diritto come sistema normativo»; e l’evidenza del fatto che il mos italicus abbia fatto e continui «a fare proseliti anche al di fuori del nostro Paese», sicché gli studi di diritto ecclesiastico vanno sviluppandosi sempre più – secondo il metodo offerto dalla “scuola” italiana e, non di rado, in diretto rapporto di sinergia con i suoi esponenti – anche in realtà nazionali o in ambiti sovranazionali che non avevano mai sviluppato, finora, una disciplina di studio autonoma per i rapporti giuridici tra il sistema d’ordine che presiede alle esigenze della polis e l’insieme delle regole che attiene alla libera adesione delle coscienze (religiose o no, che sia-no). L’A. rimanda in quella stessa sede alla «esatta ed orgogliosa rivendicazione di “primazia”» per la “scuola” ecclesiasticistica italiana rinvenibile in G. caTalano, Il contributo di Francesco Scaduto alla nascita ed allo sviluppo del diritto ecclesiasti-co italiano cit., pp. 845 ss.; nonché al valore paradigmatico assunto da quella scuola, per quel che riguarda l’esperienza spagnola, in J. MarTinez-Torrón, Religión de-recho y sociedad. Antiguos y nuevos planteamientos en el derecho eclesiástico del Estado, Granada, 1999, pp. 16 ss. Quanto a quest’ultima valenza, si rinvia anche al menzionato lavoro di I. C. iBán, En los origines cit., pp. 13 ss.

24 Al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (organo dell’amministrazio-ne centrale della p.i. ai sensi dell’art. 2 della Legge Casati), che aveva espresso il parere che il diritto ecclesiastico difettasse d’autonomia scientifica, sulla scorta del rilievo (in sé corretto) della comunanza dei campi di quest’ultimo a quelli di altre di-scipline (e che queste ultime potessero perciò essere le sole a occuparsene), Scaduto risponde convinto del fatto che se pure «i lati forense e storico si potevano annettere, senza notevole danno della scienza, alle materie affini del diritto civile e della storia del diritto»; ma «non così [poteva dirsi] rispetto agli altri sociologico e politico, la cui importanza [… sarebbe andata] in grandissima parte perduta, quando la materia […] non si [… fosse più] present[ata] nel suo insieme» (f. scaduTo, Il concetto moderno del diritto ecclesiastico, cit., p. 187 e ss.).

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(e recentemente da Catalano 25) – col dato sociologico e politologico dell’esperienza religiosa: che costringe la disciplina non solo a regi-strare il più minimo cambiamento di tale dato, fungendo in qualche modo da «termometro della sua mutevolezza» 26; ma altresì, per starvi dietro, a ‘tarare’ costantemente la precisione e l’affidabilità delle «misurazioni» effettuate 27, e in caso di grandi variazioni di sistema, a prefigurare la necessità di aggiornare lo ‘stato dell’arte’ 28. Da qui il ripensamento costante, la messa in discussione, il dibattito serrato e tutte quelle dinamiche che dicono del fisiologico svolgimento della «missione ecclesiasticistica»: quella di fornire una costruzione teorica ogni volta effettivamente rappresentativa degli aspetti socio-politici che stanno dietro al fenomeno religioso inquadrato dal diritto con una regola ad hoc.

25 Cfr. G. caTalano, Lezioni di diritto ecclesiastico cit., p. 48; id., La problema-tica del diritto cit., pp. 34 ss.

26 Si mutua l’immagine da G.B. Varnier, Il Diritto ecclesiastico dopo le riforme, in Id., Il nuovo volto del Diritto ecclesiastico italiano, Rubettino, Soveria Mannelli, 2004, p. 53, che vede la disciplina quale «termometro sensibile dei mutamenti in atto nella società».

27 Ciò pare dedursi dalla combinazione dell’idea illustrata nella nota precedente (la disciplina come “termometro” dei mutamenti sociali) con la notazione dello stes-so A. (G.B. Varnier, ibidem), circa il «cedimento strutturale» conosciuto dalla disci-plina, dovuto, tra l’altro, all’«essere rimasta» quest’ultima «in ritardo nei confronti dei cambiamenti che hanno investito la realtà storico-sociale e le stesse esperienze religiose non riconducibili ad unità».

28 A pena d’infrangere, altrimenti, il compito che secondo s. BerlinGò, Lo stato dell’arte «ecclesiasticistica»: dalla dura “specialità”dei privilegi alla forte “specificità” del Diritto ecclesiastico, in “Rivista di Diritto costituzionale”, 1999, p. 118, è proprio degli studiosi di diritto ecclesiastico, e cioè «di mediare culturalmente fra il momento speculativo e “ideologico” e il momento pragmatico o tecnico-ope-rativo di concretizzazione di una data esperienza giuridica». A tal proposito, vale il rilievo critico di M. VenTura, Regolazione pubblica del religioso. La transizione tra simboli e realtà, in Autonomia, decentramento e sussidiarietà: i rapporti tra pubbli-ci poteri e gruppi religiosi nella nuova organizzazione statale, a cura di M. Parisi, Esi, Napoli, 2003, p. 213, che segnala la difficoltà del diritto ecclesiastico italiano a «cogliere i problemi relativizzandoli (rispetto alla pluralità di contesti e sistemi) e contestualizzandoli (rispetto al nesso tra idee/strumenti giuridici ed equilibri di forze, pressioni e conflitti, negoziazioni e strategie)».

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Dietro un nome convenzionale, sta, quindi, un contenuto costante-mente in bilico, tra la difesa, la «metabolizzazione» e la critica delle impostazioni da adottare; che vive tuttavia, nel bene e nel male, proprio di questa intelligente tensione, o per dirla diversamente, d’una «saggia stratificazione di spinte, equilibri e assetti» 29. Può esservi staticità, in-somma, ma soltanto nel brevissimo periodo: poiché la sua persistenza, che in altre discipline cagionerebbe al più arretratezza; qua fa perdere le coordinate dell’oggetto di studi (già di per sé estremamente sfug-gente), determinando uno smarrimento di fronte a un orizzonte non più conosciuto, che è letale per una «scienza di frontiera» 30. Appoggiarsi, infatti, in tale circostanza, a criteri elaborati da altre discipline giuri-diche, significherebbe asseverare la degradazione del proprio statuto epistemologico come minimo a scienza ancillare di altri settori.

Pare così emergere come rappresenti non solo un segnale positivo, ma un requisito insieme vitale e identitario del diritto ecclesiastico italiano il costante riaggiornamento delle proprie prospettive.

*

È questo il caso, a me pare, della circostanza posta all’attenzione dall’odierno Seminario, della diffusione di volumi e riviste curati dagli anzidetti specialisti che utilizzano il binomio “Diritto e religione”, o “Diritti e religioni” 31.

29 Così, M. VenTura, Regolazione pubblica, cit., p. 215. Cfr. , altresì, G. casu-scelli, “A chiare lettere”- Editoriale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale.Rivista telematica (Statoechiese.it), gennaio 2007, p. 1, dove evoca le «crisi ricor-renti che investono il diritto ecclesiastico».

30 Cfr. s. BerlinGò, Lo stato dell’arte, cit., p. 109 e ss.31 Si considerino, oltre ai quattro volumi (G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto

e religione, Plectica, Salerno, 2011; L. Musselli, Diritto e religione in Italia e in Europa. Dai concordati alla problematica islamica, Giappichelli, Torino, 2011; P. consorTi, Diritto e religione cit.; M. ricca, Diritto e religione. Per una pistemica giuridica, Cedam, Padova, 2002) ed alla rivista (Diritto e religioni, diretta da Mario Tedeschi) posti in debita evidenza nell’odierno Seminario, altresì i tre volumi collet-tanei pubblicati quest’anno per i tipi de il Mulino, curati da S. Domianello (Diritto e religione in Italia), R. Mazzola (Diritto e religione in Europa) e A. Ferrari (Diritto

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È una scelta che in molti casi segue un orientamento già inquadrato in dottrina 32, che parrebbe dire d’una preferenza a non adoperare l’espressione “Diritto ecclesiastico” 33, perché ritenuta non del tutto appagante e da alcuni finanche poco adatta a rendere all’esterno il senso d’uno specifico ambito di studi, che appare mutato, nei contenuti e nelle modalità d’indagine.

Le motivazioni culturali che animano quest’indirizzo sono varie: provando a richiamarne qualcuna per sommi capi, si può partire da quella che sembra l’idea generale, e cioè che i paradigmi tradizionali della disciplina non rispecchino da qualche tempo le novità intervenute nel quadro sociale e istituzionale italiano ed europeo. Si allegano a tal proposito, fenomeni di portata epocale, ampiamente analizzati, come

e religione nell’Islam mediterraneo); nonché gli altri usciti in tempi a noi vicini, i.e. quello curato da D. Milani e J.G. Navarro Floria (Diritto e religione in America Latina, il Mulino, Bologna, 2010), e l’altro a cura di S. Ferrari, L. Gerosa e L. Müller (Diritto e religioni nel mondo contemporaneo, 2009); ed ancora gli altri due editi un paio d’anni prima, di E. dieni (Diritto e religione vs nuovi paradigmi. Sondaggi per una teoria postclassica del diritto ecclesiastico civile, Giuffrè, Milano, 2008, pubblicato postumo a cura di A. Albisetti, G. Casuscelli e N. Marchei) e M.C. iValdi (Diritto e religione nell’Unione Europea, 2008); e infine i meno recenti contributi, curato uno da S. Ferrari, insieme a W. Cole Durham Jr. ed a E. Sewell (Diritto e religione nell’Europa postcomunista, il Mulino, Bologna, 2004), e l’altro steso a quattro mani dallo stesso S. ferrari e da i.c. iBan (Diritto e religione nell’Europa occidentale, 1997). Rileva come il binomio de quo sia stato di recente usato anche per intitolare un convegno internazionale arricchito dalla presenza di studiosi di dif-ferenti settori (tra cui anche quello ecclesiasticista), i cui atti sono stati pubblicati nel 2010 per i tipi della Aracne (Diritto e religione. Tra passato e futuro. Atti del Convegno internazionale, Villa Mondragone. Monte Porzio Catone, 27-29 novem-bre 2008, a cura di M.R. Di Simone, A.C. Amato Mangiameli, Aracne, Roma, 2010).

32 Esemplificativamente, vedi r. BoTTa, Manuale di diritto ecclesiastico. Valori religiosi e rivendicazioni identitarie nell’autunno dei diritti, Giappichelli, Torino, 2008, p. 63; M. VenTura, Diritto ecclesiastico e Europa. Dal church and state al law and religion, in Il nuovo volto cit., pp. 191-213; S. doMianello, L’insegnamento del diritto ecclesiastico e l’«avvenire», in L’insegnamento del diritto ecclesiastico nelle università italiane cit., pp. 64 ss.; G. ciMBalo, La riforma dell’insegnamento universitario e prospettive di insegnamento del Diritto Ecclesiastico, ivi, pp. 37 ss.

33 Cfr. s. ferrari, Una modesta proposta per prevenire…, in “Quad. dir. pol. eccl.”, 1998, I, p. 9.

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– ad esempio – la “globalizzazione”, l’immigrazione, la multicultura-lità, il post-secolarismo e la crisi della “sovranità westfaliana” 34, che indubbiamente hanno cambiato (e cambiano) assetti consolidati, sul piano istituzionale/verticale delle decisioni politiche e della produzione delle regole; e su quello sociale/orizzontale dei modelli culturali, etici e religiosi, sempre più differenziati e sfaccettati 35.

A esser messa in luce, nello specifico della “gestione” della fe-nomenologia religiosa, è la novità che lo Stato e le Chiese non ne sono più i protagonisti assoluti: e ciò per un complesso di fattori legati ai predetti fenomeni, che – in estrema sintesi – ex parte Status, attengono alla perdita di sue proprie attribuzioni verso l’alto (a van-taggio di organismi sovranazionali e internazionali) e verso il basso (a pro di enti territoriali, soggettività private, authorities e istituzioni indipendenti) 36; mentre ex parte Ecclesiae concernono dinamiche

34 L’espressione è adoperata da M. VenTura, Diritto ecclesiastico e Europa cit., p. 196.

35 Fornisce un quadro riassuntivo delle «ragioni del mutamento socio-religioso», da ultimo, F. MarGioTTa BroGlio, Confessioni e comunità religiose o «filosofiche» nel Trattato di Lisbona, in Le confessioni religiose nel diritto dell’Unione Europea, a cura di L. De Gregorio, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 34-6. Vedi altresì, tra gli altri, G. daMMacco, Il diritto ecclesiastico tra riformismo e multiculturalismo, in Il riformismo legislativo in diritto ecclesiastico e canonico, a cura di M. Tedeschi, Pellegrini, Cosenza, 2011, pp. 157 ss.; S. Bordonali, L’incidenza del fatto religioso nei percorsi formativi della legge nell’ordinamento italiano, in “Anuario del dere-cho eclesiastico del Estado”, vol. XXVI, 2010, pp. 733 ss.; P. consorTi, Pluralismo religioso: reazione giuridica multiculturalista e proposta interculturale, in Multire-ligiosità e reazione giuridica, a cura di A. Fuccillo, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 197 ss.; P. lillo, Globalizzazione del diritto e fenomeno religioso, Giappichelli, Torino, 2007; R. BoTTa, Sentimento religioso ed appartenenza confessionale, in Re-ligione, cultura e diritto tra globale e locale, a cura di P. Picozza, G. Rivetti, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 51 ss.; M. VenTura, op. ult. cit., pp. 192 ss.; il volume collettaneo Integrazione europea e società multi-etnica, a cura di V. Tozzi, Giappichelli, Torino, 2001; V. Tozzi, Società multi-culturale, autonomia confessionale e questione della sovranità, in “Il dir. eccl.”, 2000, I, pp. 124 ss.

36 Esemplificativamente, cfr. G. corso, Persistenza dello Stato e trasformazioni del diritto, in “Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, XVI, 2011, pp. 107 ss.; e M. VenTura, Diritto ecclesiastico e Europa cit., pp. 196 ss.

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incrementali (pluralismo confessionale; indifferentismo religioso) e decrementali (calo dell’appartenenza e della pratica religiosa) che ne ridimensionano il peso e il ruolo rappresentativo 37. Si evidenzia, in-somma, l’indebolimento d’un “dittico” su cui per secoli s’è strutturata la dialettica tra politica, diritto e religione; e che ha, a catena, segnato una certa impostazione tradizionale della dottrina. Allo stesso tempo, si segnala come la parte del “proscenio” che rimane libera, tenda ad esser occupata da presenze vecchie e nuove che incombono: da un lato, le forme “altre” della religione 38 e i loro “diritti speciali”, ovvero le credenze in genere (specie individuali); e dall’altro le istituzioni diverse da quelle statali.

A tal proposito, tra i predetti fattori che mitigano l’influenza degli Stati, è dato particolare rilievo al processo di integrazione europea, e al ruolo determinante assunto dalle istituzioni “euro unitarie” e dagli organi della CEDU. Da un canto, in quanto entrambi assumono, in forza di tale processo, un’autonomia decisionale in apicibus su settori che investono direttamente (come nel caso della Corte europea dei diritti dell’uomo) o indirettamente (come accade, ad esempio, nel caso della Corte di Giustizia) il sentire religioso (rendendo frequente l’ipotesi che siano questi a dirimere “effettivamente” i conflitti de-rivati dall’esplicazione di quel sentimento nella sfera pubblica) 39. Dall’altro, in ragione dello spirito e delle logiche che animano quelle decisioni: nel caso delle istituzioni UE, di segno antimonopolistico

37 Cfr., tra gli altri, s. ferrari, Diritto e religione nello Stato laico: Islam e lai-cità, in Lo Stato secolarizzato nell’età post-secolare, a cura di G.E. Rusconi, il Mu-lino, Bologna, 2008, pp. 313 ss.; F. MarGioTTa BroGlio, L’eredità del recente pas-sato, in Chiese, associazioni, comunità religiose e organizzazioni non confessionali nell’Unione europea, a cura di A.G. Chizzoniti, Vita e Pensiero, Milano, 2002, pp. XIII ss.

38 Cfr. P. consorTi, Diritto e religione, cit., p. 7.39 Cfr. G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione cit., pp. 100-26. Sulle

decisioni giurisprudenziali, cfr. tra gli altri o. Pollicino, Corti europeee e allarga-mento dell’Europa: evoluzioni giurisprudenziali e riflessi ordinamentali, in Il diritto dell’Unione europea, 2009, I, pp. 1 ss.; c. zanGhì, Evoluzione e innovazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Studi sull’integrazione euro-pea, 2008, I, pp. 29 ss.

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e antidiscriminatorio, comunque volte – in linea di massima – a pro-muovere la competizione degli interessi, piuttosto che la conserva-zione di «rendite di posizione» 40; nell’ambito CEDU, fin da subito, di attenzione primaria ai diritti protetti dalla Convenzione (e solo di riflesso a quelle istituzionali, statali ed ecclesiastiche, coinvolte), e negli ultimi anni, con una certa frequenza, di tendenziale “surroga-zione” del ruolo dei legislatori nazionali nello standard setting circa il rispetto di tali diritti 41 (logica foriera di alcuni recenti conflitti fra i primi e la Corte 42). Col risultato complessivo di erodere la forza dei principi posti a salvaguardia delle prerogative del “dittico”, sia nella Costituzione (vedi la potestà legislativa esclusiva riservata alla Repubblica in materia di rapporti con le confessioni; o il privilegio riconosciuto alle Chiese di rappresentare elettivamente gli interessi religiosi confessionali nella stipula e applicazione del diritto pattizio), sia nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (con la formula ivi contenuta del «non pregiudizio e del rispetto dello status previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri» 43).

Ma le motivazioni in discorso inquadrano non solo il mutamento di “peso” dell’intervento statale, ma anche quello del suo ruolo elettivo. Non sono infrequenti, infatti, sviluppi teorici che considerano cruciale l’analisi del mutato atteggiamento che lo Stato contemporaneo/demo-

40 Cfr. M. VenTura, Religione e integrazione europea, in Stato secolarizzato cit., pp. 327 ss.; id., Diritto ecclesiastico cit., pp. 204 ss.

41 Cfr. s. ferrari, La Corte di Strasburgo e l’articolo 9 della Convenzione euro-pea.Un’analisi quantitativa della giurisprudenza, in Diritto e religione in Europa. Rapporto sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di libertà religiosa, a cura di R. Mazzola, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 51-2. Rileva L. lorello, in Lo Stato costituzionale di diritto e le insidie del pluralismo, a cura di F. Viola, il Mulino, Bologna, 2012, p. 182, come «in tempi più recenti» gli interventi della Corte Edu abbiano assunto una «maggiore incisività e una diversa connota-zione», tradottasi tra l’altro, nella «scelta di elaborare nuove versioni di principi e diritti, non sempre in linea con le tradizioni costituzionali nazionali».

42 Cfr. M. VenTura, Conclusioni. La virtù della giurisdizione europea sui conflit-ti religiosi, in Diritto e religione in Europa cit., pp. 357-8.

43 TfUe, art. 17.

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cratico deve assumere in ordine alla triplice dialettica su considerata (politica/diritto/religione). Sottolineando come il “nuovo” contesto imponga ad esso di svolgere una funzione prevalentemente mediatrice, onde comporre una pluralità di tensioni sempre meno “incasellabili”, per l’emergere dell’indicata pluralità di istanze ideali e spirituali; e rilevando come per svolgere tale compito in modo «costituzionalmente efficiente» assuma valenza basilare la laicità, come metodo e cifra delle decisioni da assumere 44 col maggior grado di soddisfazione per le diverse istanze culturali (caso per caso) coinvolte 45. Un approccio teorico che quindi appare interessato – potrebbe dirsi – alla verifica delle «condizioni di praticabilità della democrazia» rispetto all’espli-carsi di un’esperienza umana del tipo indicato, entro le condizioni dettate dalle contingenze 46.

Queste e altre ragioni allegate da chi opta per l’approccio law and religion, sottolineano la necessità d’uno studio focalizzato su questo scenario mutato in senso plurale, i cui campi di ricerca preminenti paio-no dunque grossomodo essere: a) le decisioni giuridicamente vincolanti assunte in sedi extrastatuali (o decentrate); b) il diritto prodotto dagli ordinamenti religiosi “emergenti”, analizzabile anche con tecniche comparatistiche 47, ovvero nell’interazione con l’esperienza giuridica civile 48; c) le rivendicazioni personali “ultraconfessionali” di libertà nelle scelte etiche e di coscienza 49 (per inciso, un tema “antico”, ma che torna attuale alla luce dell’eclettico rapporto con la spiritualità proprio dell’uomo postmoderno).

44 Cfr. S. ferrari, Tra geo-diritti e teo-diritti. Riflessioni sulle religioni come centri transnazionali di identità, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, 2007, p. 13; P. consorTi, Diritto e religione cit., pp. 13-4.

45 Cfr. M. VenTura, Grillo parlante o Pinocchio? Come sta nascendo il dirit-to ecclesiastico dell’Italia multiculturale, in Multireligiosità e reazione giuridica cit., pp. 181 ss.; M. ricca, Laicità interculturale. Cos’è, in “ScienzaePace. Rivista del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace-Università di Pisa”, pp. 19 ss.

46 Prefigura questo tipo d’indagine a. ViTale, Lo stato cit., p. 455.47 Cfr. Introduzione al diritto comparato delle religioni. Ebraismo, Islam e Indui-

smo, a cura di S. Ferrari, il Mulino, Bologna, 2008, pp. 18 ss.48 Cfr. s. ferrari, Una modesta proposta cit.49 P. consorTi, op. ult. cit., pp. 8-19.

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Tutto ciò, infine, conduce, con toni e formule le più diverse, a incoraggiare l’adozione di questo tipo di approccio; pur nel rispetto di quello church and state, più confacente al ‘vecchio diritto eccle-siastico’. Col risultato ultimo di suggerire che la convenzione adot-tata da Francesco Scaduto sfidando un etimo che rimanda ad altro (il ‘chiesastico’), sia sempre meno acconcia a fotografare il quadro sopra descritto.

Tuttavia, riprendendo quanto detto a proposito del carattere (che qui si assume proprio) della disciplina, pare di poter giungere a una conclusione diversa. Se è vero, infatti – per i motivi dianzi esposti – che la storia del diritto ecclesiastico italiano è fatta d’un ciclico ripensa-mento sulle acquisizioni (ogni volta) raggiunte; che ciò rappresenta il sintomo d’un indefettibile inappagamento insieme culturale (a presidio dell’identità scientifica) e “funzionale” (al suo proposito di apprendere il dato ultimo socio-politico che sta dietro alla norma speciale religionis causa); che questo spinge i cultori a ricercare con insistenza i contenuti e gli approcci più aderenti ai dati d’interesse in continua mutazione: allora pare ricavarsi l’impressione che l’orientamento appena illustrato (quello law and religion), lungi dal segnalare la caducità del “diritto ecclesiastico”, piuttosto ne confermi la vitalità, rappresentando un fenomeno fisiologico e tipico della natura peculiare dell’insegnamento.

Più che d’uno snodo evolutivo della disciplina in quanto tale; quin-di, si può forse parlare d’un ambito scientifico che – come avvenuto in passato – si affianca a quello “tradizionale” (cioè quello legato all’ap-proccio church and state), e lo completa, dedicandosi prioritariamente ai settori maggiormente coinvolti dalle descritte mutazioni di sistema.

Non pare, infatti, di scorgere una radicale discontinuità nel modo di vagliare i fenomeni da studiare, sembrando in entrambi i casi “inforca-ti” a tal fine – per usare un’immagine raccolta in dottrina – gli «occhiali dell’ecclesiasticista» 50: quelli, cioè – alfine – focalizzati sulla ricerca dell’ecclesiasticità, e cioè dell’espressione (comunque manifestata) d’una speciale esperienza individuale e/o collettiva che reclama una disciplina adeguata a tale specificità. Parendo quindi, in altre parole,

50 Cfr. r. BoTTa, Manuale cit., p. 66.

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che a cambiare sia il campo d’indagine prescelto, e il conseguente approccio adottato, per studiare alcune particolari risposte che offre il «mondo della politica e del diritto» 51; ma che resti ferma l’esigenza (che sembra) propria della disciplina, di studiare prioritariamente la regola speciale che sovviene alla peculiarità dell’esperienza religiosa 52.

*

A confortare tale impressione, del resto, sta il fatto che il dittico Stato-Chiesa, per quanto “depotenziato” nel senso prima visto, non abbia comunque perso centralità; e che quindi rebus sic stantibus l’a-gire delle istituzioni statali ed ecclesiastiche continui a rappresentare un oggetto d’analisi cruciale per l’ecclesiasticista (quello, cioè, del “diritto ecclesiastico nazionale”).

Da una parte, infatti, persiste lo Stato (e il diritto da esso prodotto): come altre costruzioni artificiali della modernità, in perenne «crisi» 53 (al punto che c’è chi ritiene quest’ultima una «sorta di connotato» permanente dello Stato 54), nonché oggi effettivamente limitato nel suo

51 G. de VerGoTTini, Garanzia della identità degli ordinamenti statali e limiti della globalizzazione, in Global Law v. Local Law. Problemi della globalizzazione giuridica, a cura di C. Amato, G. Ponzanelli, Giappichelli, Torino, p. 6.

52 Su questa specifica esigenza della disciplina, cfr. a. alBiseTTi, Diritto eccle-siastico italiano cit., p. 244.

53 È del 1909 il celebre saggio di Santi Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi (1909), che si può leggere in Scritti minori, a cura di G. Zanobini, vol. I, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 1950, pp. 311-25; il tema della crisi dello Stato mo-derno, come rileva F. Viola nella sua Introduzione, in “Ars Interpretandi” cit., p. 7, è «ripreso da Giuseppe Capograssi nel 1921 e da Giorgio Del Vecchio nel 1933, e nel dopoguerra da altri studiosi, storici del diritto e giuristi, a noi più vicini nel tempo, come tra gli altri, Opocher, Tarello, Mazzacane, Ferrajoli, Sabino Cassese, tanto che s’è parlato d’una vera e propria “cultura della crisi dello Stato”». L’argomento ha costituito uno degli oggetti preminenti di riflessione nel corso del II Convegno nazionale dell’ADEC tenutosi a Macerata (28-30 ottobre 2010) sul tema ‘Libertà religiosa tra declino o superamento dello Stato nazionale’, i cui atti sono stati pub-blicati nella rivista “Il dir. eccl.”, 2010, III-IV.

54 Lo rileva l. ferraJoli, Lo stato costituzionale, la sua crisi e il suo futuro, in Stato costituzionale cit., p. 309, notando come «nella letteratura ad essa dedicata, la

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raggio d’azione; eppure al contempo, per certi versi, in “buona salute”, come paiono suggerire alcuni indicatori, quali l’incrementale consi-stenza numerica delle entità statali, il persistente rilievo dell’interesse “nazionale” dietro vicende apparentemente ascrivibili alle organizza-zioni internazionali (come nel caso degli avvenimenti dell’Africa del Nord) 55 e la crescita costante della produzione giuridica statale. Rileva, in particolare, quest’ultimo dato, legato non solo a cause interne vec-chie e nuove (ad esempio la “costituzionalizzazione dei diritti”, che eccita la produzione di leggi per assicurarne l’esercizio, e impedirne la violazione; il peso dell’opinione pubblica; l’incidenza pressante di «sfere sociali prima paghe dell’autoregolazione» 56; l’intolleranza esponenziale verso i fattori di “rischio”, ambientale, economico e soprattutto sanitario, ecc.) ma altresì, paradossalmente, al fatto su indicato del conferimento di prerogative alle organizzazioni sovrasta-tali: giacché ad esempio, nel caso di attività basilari per lo sviluppo del Paese come quelle economiche in genere e i servizi pubblici, se il diritto europeo indica altri soggetti deputati alla relativa gestione, lo Stato tuttavia resta presente nel momento antecedente, (ugualmente) capitale, della regolazione 57.

Il punto che spiega l’apparenza del paradosso è proprio quella della volontarietà del conferimento e della delega: gli Stati, cioè, liberamente creano le predette organizzazioni (per rispondere a

crisi [dello Stato] è stata caratterizzata di volta in volta, sotto innumerevoli aspetti, quanti sono i connotati comunemente associati al termine “stato”: come crisi dello stato liberale, come crisi dello stato sociale, come crisi dello stato rappresentativo, come crisi dello stato di diritto, come crisi dello stato nazionale, come crisi dello stato sovrano».

55 Sul punto, cfr. G. corso, Persistenza dello Stato e trasformazioni del diritto, in “Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, XVI, 2011, pp. 107-8, il qua-le, segnatamente in ordine alle recenti vicende richiamate, nota come solo prima facie siano eventi riconducibili alle strategie e agli interventi delle organizzazioni inter-nazionali (ONU, NATO, Unione Europea, Unione Africana, Lega Araba); ma come in effetti le reazioni siano «fondamentalmente quelle – diverse e in qualche misura confliggenti – degli Stati: la Francia, la Germania, il Regno Unito, gli Stati Uniti».

56 Cfr. F. Viola, Introduzione, in “Ars Interpretandi” cit., pp. 13-4.57 Cfr. G. corso, Persistenza cit., pp. 117 ss.

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bisogni che superano l’orizzonte nazionale, in primo luogo quello dell’integrazione), volontariamente vi aderiscono e, sempre in libertà, decidono quali e quante attribuzioni conferirvi (cfr. il paradigmatico testo degli artt. 4, par. 1 e 5, par. 2 del Trattato sull’Unione europea 58). Essi quindi, per dirla con la Corte costituzionale federale tedesca 59, restano i “Signori dei Trattati” (Herren der Verträge): depositari della responsabilità primaria 60, esercitano effettivamente e in ultima istanza l’autentico potere decisionale in seno a dette istituzioni 61, restando, in sintesi, i “veri” soggetti sovrani.

Talchè, com’è stato osservato, piuttosto che a una crisi della sovranità statale, sembra più di assistere ad una trasformazione 62 o

58 Cfr. il testo dell’art. 4, par. 1 Tue («qualsiasi competenza non attribuita all’U-nione nei trattati appartiene agli Stati membri») e dell’art. 5, par. 2 Tue («In virtù del principio di attribuzione, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competen-ze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti»).

59 Cfr. la sentenza del 30 giugno 2009 della Corte costituzionale federale (Bun-desverfassungsgericht), relativa alla compatibilità con la Costituzione tedesca (Grundgesetz) della legge di ratifica del Trattato di Lisbona (nonché della legge di accompagnamento e delle norme sui poteri delle istituzioni tedesche).

60 Cfr., quanto all’Unione europea, L.S. rossi, I principi enunciati dalla sentenza della Corte costituzionale tedesca sul Trattato di Lisbona: un’ipoteca sul futuro dell’integrazione europea?, in “Riv. dir. internaz.”, 2009, IV, pp. 993 ss., dove rile-va come la Corte costituzionale federale tedesca (Bundesverfassungsgericht), nella citata sentenza del 30 giugno 2009, «precis[i] che l’Unione europea gode di un’au-tonomia decisionale che è diversa dalla sovranità, in quanto non è originaria ma è derivata dalla volontà degli Stati membri».

61 Cfr. L. condorelli, Crisi dello Stato e diritto internazionale: simul stabunt simul cadent?, in “Ars Interpretandi”, XVI, 2011, p. 177.

62 Cfr., esemplificativamente, sull’esperienza europea, C. MiraBelli, «Primato del diritto comunitario» (anche sulle Costituzioni?), in Le confessioni religiose cit., p. 23. Più in generale, sul “mutamento” della sovranità, cfr. V. Tozzi, Società multi-culturale cit., pp. 124 ss.; M. ricca, Metamorfosi della sovranità e ordinamenti con-fessionali. Profili teorici dell’integrazione tra ordinamenti nel diritto ecclesiastico italiano, Giappichelli, Torino, 1999; recentemente, vi accenna J. Pasquali cerioli, La «maggiore disponibilità» nei confronti del diritto canonico matrimoniale: una formula «ellittica» al vaglio dell’evoluzione dell’ordine pubblico, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, Rivista telematica (statoechiese.it), maggio 2007, p. 2.

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alterazione dei modi di esercizio di quest’ultima 63. Appare senz’altro in crisi, invece, la democrazia statale, risultando in particolare appan-nato, come nel caso italiano, il ruolo delle assemblee parlamentari 64. Non v’è chi non veda, infatti, il momento “infelice” conosciuto dalla politica e dall’istituto della rappresentanza democratica 65 (per cui si parla d’un progressivo «svuotamento del ruolo di governo» della prima, incalzata dai poteri economici e finanziari), e i conseguenti processi di «verticalizzazione e semplificazione» 66 dei sistemi politici, per via dei quali si tende a esautorare i parlamenti e a rafforzare, anche accrescendone i poteri normativi, gli esecutivi 67 (sempre più luogo abituale delle «decisioni essenziali» 68).

Ciò si rileva in quanto ne scaturisce, tra l’altro, in generale e nel particolare della situazione italiana, il mutamento del tipo di diritto

63 Cfr. L. condorelli, op. ult. cit., p. 177.64 Cfr. r. Bin, G. PiTruzzella, Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2006,

p. 62, dove gli A. parlano d’un «ruolo sempre più difficile dei Parlamenti». Cfr., altresì, sul punto, i rilievi critici di a. d’andrea, Gli affanni della democrazia ita-liana, in Il governo sopra tutto: cattiva politica e Costituzione, a cura di id., Biblio-fabbrica, Gussago, 2009, pp. 17 ss.; L. sPadacini, L’eclissi della rappresentanza all’origine della crisi del Parlamento italiano, ivi, pp. 113 ss. Per un’articolata let-tura critica degli aspetti costitutivi della democrazia, cfr. H. H. HoPPe, Democrazia: il dio che ha fallito, Liberi Libri, Macerata, 2005.

65 Cfr. A. BarBera, La rappresentanza politica: un mito in declino?, in “Quad. cost.”, 2008, IV, pp. 854 ss.

66 Cfr. L. ferraJoli, Lo Stato costituzionale cit., p. 329. 67 Sul punto c’è una copiosa bibliografia. Si rimanda al recente saggio di r. di

Maria, La vis expansiva del Governo nei confronti del Parlamento: alcune tracce della eclissi dello Stato legislativo parlamentare nel “ruolo” degli atti aventi forza di legge, e alla bibliografia ivi citata; nonché al volume collettaneo Trasformazioni della funzione legislativa. II. Crisi della legge e sistema delle fonti, a cura di F. Mo-duGno, Giuffrè, Milano, 2000.

68 Si usa l’espressione adoperata da C. Schmitt nel suo Dottrina della Costituzio-ne (1928), dove osserva come dalla perdita del ruolo rappresentativo del Parlamen-to, deriva come esso «non sia più il luogo nel quale viene presa la decisione pubblica politica», in quanto «le decisioni essenziali vengono prese fuori» da esso. Cfr., sul punto, G. azzariTi, Critica della democrazia identitaria, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 67 ss., dove l’A. riporta la citazione testé indicata.

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prevalentemente prodotto dallo Stato: i.e. atti normativi del Governo 69, linee-guida e norme regolamentari dettate da agenzie di emanazione governativa o da autorità indipendenti (ovvero ancora da comitati etici), ma anche ordinanze sindacali 70 e un numero sempre maggio-

69 Cfr. R. di Maria, La vis expansiva cit.70 Il potere di ordinanza del sindaco, come rileva V. cerulli irelli, Sindaco le-

gislatore?, in “Giur. cost.”, 2011, II, p. 1600, è «tradizionale e risalente nella no-stra legislazione». Il nodo critico dell’ambito di estensione di tale potere, fuori dai casi di eccezionali emergenze che conducano all’assunzione delle ordinanze c.d. “contingibili e urgenti”, è emerso, come rileva R. Mazzola, Laicità e spazi urbani. Il fenomeno religioso tra governo municipale e giustizia amministrativa, in Stato, Chiese e Pluralismo confessionale cit., marzo 2010, pp. 10 ss., con l’introduzione nell’ordinamento del precetto contenuto nell’art. 6 della l. 24 luglio 2008, n. 125 (l. di conversione del decreto legge 23 maggio 2008, n. 92) che ha riformulato l’art. 54 comma 4, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (T.U.E.L.), attribuendo al sindaco il potere di adottare «con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana». Notava l’A. il pericolo insito nel «rafforzamento del ruolo dei sindaci» nella materia della sicurezza, per le ricadute sulle politiche di integrazione, comportando «un aumen-to, da parte delle amministrazioni comunali, dell’uso delle c.d. “ordinanze libere”», alle quali «si è fatto spesso ricorso per risolvere problemi connessi alla presenza di minoranze religiose all’interno dei centri urbani». Segnatamente V. cerulli irelli, Sindaco cit., rileva come fosse da subito emerso il rischio che la portata della norma modificata potesse essere intesa nel senso di conferire al sindaco «una sorta di potere generale di ordinanza (a contenuto normativo, si direbbe) da esercitare anche in dero-ga a singole disposizioni di legge (con il solo limite del rispetto dei principi generali dell’ordinamento); ma al di là dei casi che […] giustificano l’adozione di ordinanze contingibili ed urgenti, quindi senza i necessari presupposti per l’esercizio del potere di ordinanza (contingibilità ed urgenza) e senza i limiti temporali circa l’efficacia dei relativi atti»: un potere quindi che, anche in considerazione della vastissima gamma di significati che assume il concetto di sicurezza urbana, appariva estremamente am-pio, tale da rendere l’esercente «una sorta di sindaco legislatore, con “giurisdizione” su quasi tutti i rapporti della vita sociale nell’ambito della comunità». Sulla questione è intervenuta la Consulta, che con la pronuncia n. 115 del 2011, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale del predetto comma 4 dell’art. 54 (i.e. nella parte in cui si indicavano provvedimenti «anche» contingibili e urgenti, elidendo codesto virgolettato, così che la norma adesso evoca solo quelli, per l’appunto, «contingibili e urgenti»), in primis escludendo la possibile summenzionata lettura della norma,

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re di provvedimenti giurisprudenziali 71. Ciò è a dirsi anche per le fattispecie d’interesse ecclesiasticistico. La «fine della centralità del parlamento» 72 italiano determina, infatti, la progressiva «perdita di ruolo della legge quale fonte tipica di regolamentazione degli interessi e delle situazioni giuridiche soggettive (individuali e/o collettivi o istituzionali) sottesi alle esperienze di fede» ancorché costituzional-mente protette; e l’accresciuto ricorso ad altri atti aventi forza di legge, «a fonti secondarie e ad altri atti/provvedimenti di incerta natura e collocazione» 73. Si aprono dunque vasti spazi all’azione della P.A.,

secondo cui essa avrebbe attribuito ai sindaci un potere di ordinanza generale capace di derogare a norme di rango legislativo con il solo limite del rispetto dei principi ge-nerali dell’ordinamento, come accade mediante i poteri di ordinanza in senso proprio; vieppiù chiarendo come il sindaco, quale ufficiale del Governo non possa adottare provvedimenti a «contenuto normativo ed efficacia a tempo indeterminato», pur al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minaccino la sicurezza urbana, fuori dai casi di contingibilità e urgenza. Sul tema, cfr. fra gli altri, R. Bin, G. PiTruzzella, Le fonti del diritto, Giappichelli, Torino, 2009, pp. 245-54.

71 Sul trend incrementale favorevole a un trasferimento del potere della tutela dei diritti dalla sede dell’attività parlamentare a quella «dell’attività […] giurispru-denziale in senso lato», cfr. S. doMianello, Il ‘ripensamento’ e la ‘ridistribuzione’ suggeriti ai sistemi giuridici liberaldemocratici dalla naturale metamorfosi della domanda di libertà in materia religiosa, in “Il dir. eccl.”, 2010, III-IV, pp. 635 ss. Cfr., sul punto, altresì M. Parisi, Il soddisfacimento delle istanze di visibilità spiri-tuale e culturale tra margine di apprezzamento statale e principio maggioritario: il caso Lautsi contro Italia, in “Il dir. di famiglia e delle persone”, 2011, IV, p. 1380, dove nota come «la lentezza del legislatore, a tutti i livelli dell’esercizio della fun-zione nomopoietica, nell’esame delle richieste più diverse sollevate dalle minoranze etniche e culturali […] abbia determinato l’affidamento alla giustizia per l’indivi-duazione di soluzioni utili al soddisfacimento delle istanze in causa».

72 Così G. casuscelli, Le attuali prospettive cit., p. 14.73 Così G. casuscelli, Il pluralismo in materia religiosa nell’attuazione della

Costituzione ad opera del legislatore repubblicano, in Diritto e religione in Italia cit., pp. 29 ss. Più in generale, come rileva F. freni, Soft law e sistema delle fonti del diritto ecclesiastico italiano, ivi, settembre 2009, p. 4, si avverte un cambiamento del «modello di regolazione», e l’esigenza sempre più avvertita «di accentuare la flessibilità e l’articolazione degli interventi atti a regolamentare le mutate dinamiche sociali». Il primo virgolettato rimanda al saggio citato dall’A. di B. PasTore, Soft law, gradi di normatività, teoria delle fonti, in “Lavoro e Diritto”, 2003, p. 8.

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specie locale 74 (che patisce meno, in linea di massima, la sfiducia incombente sugli organi rappresentativi locali e nazionali) sovente in vista di esigenze di sicurezza, su materie ecclesiasticisticamente sen-sibili (luoghi di culto, finanziamenti, simboli in spazi ove s’esercitano pubbliche funzioni; uso di oggetti religiosamente orientati, ecc.) 75. A loro volta, tali provvedimenti sollecitano spesso l’intervento giudi-ziale, per “districare” i nodi non sciolti nella fase della normazione, e acclarati da quella dell’applicazione. Così che, in molti casi, da un lato il principio di legalità è soggetto a «fibrillazioni»; dall’altro si registra «un significativo incremento del tasso di discrezionalità dell’azione amministrativa» 76 specialmente degli enti locali (che a sua volta dà la stura a una proliferazione di ricorsi giudiziari).

È evidente che questo “nuovo” diritto ecclesiastico statale pone problemi giuridici seri, specie riguardo al grado di tutela effettivamente offerto alle predette peculiari situazioni soggettive 77. Ma qui interessa

74 Cfr. A. licasTro, Libertà religiosa e competenze amministrative decentrate, in “Il dir. eccl.”, 2010, III-IV, pp. 607 ss.

75 Cfr. R. Mazzola, Laicità e spazi urbani cit., p. 13.76 Così M. BiGnaMi, Principio di laicità e neutralità religiosa: l’esperienza del

giudice amministrativo italiano, in associazionedeicostituzionalisti.it, p. 14; con-cordano su tale lettura R. Mazzola, Laicità e spazi urbani cit., marzo 2010, p. 12; G. ciMBalo, Il diritto ecclesiastico oggi: la territorializzazione dei diritti di libertà religiosa, ivi, novembre 2010, p. 16.

77 Notano M.c. folliero e G. d’anGelo, Il pluralismo in materia religiosa nel settore del privato sociale e in quello scolastico, in Diritto e religione in Italia cit., p. 61, come nella «più ampia logica di ridefinizione del ruolo delle […] istituzio-ni pubbliche connessa ai fenomeni da “crisi della sovranità”» si iscrivono processi (condizionati dalla “fisologica complessità” dell’istanza pluralista) saturi di proble-maticità: queste ultime, soggiungono gli A., appaiono «particolarmente incisive» (al punto da convertirle in vere e proprie criticità) laddove investano «realtà peculiari, in primis quelle di natura religiosa/e o confessionale». Cfr., altresì, le osservazioni di a. ferrari, Libertà religiosa e nuove presenze confessionali (ortodossi e islamici): tra cieca deregulation e super-specialità, ovvero del difficile spazio per la differenza religiosa, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale cit., luglio 2011, pp. 6-7, che sottolinea le preoccupazioni nutrite dalle minoranze religiose per via dell’afferma-zione di uno dei fenomeni più evocati quando si ragiona di questi temi, i.e. il “fe-deralismo”, che rischia di acclarare un problema grave del Paese, che «riconosce le

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rilevare che, nel bene e nel male, questo complesso variegato di rego-le scritte e lebendes Recht costituisce spesso il materiale normativo utilizzato dagli operatori per gestire le eventuali criticità derivanti dall’esplicazione di una o più istanze di tipo religioso.

Appare inoltre convincente il fatto che a orientare tale complesso giuridico restino comunque i principi cardine costituzionali 78 del riconoscimento della libertà religiosa individuale e collettiva, del «precetto dell’accordo con le confessioni religiose» e della loro au-tonomia statutaria 79. Un sostrato fondamentale che dice, insieme ad altre previsioni basilari contenute nella Carta, della identità costitu-zionale italiana; e che in tal guisa (cioè come “corredo genetico” che impone alla Repubblica un certo approccio col fenomeno religioso) pare ricevere ulteriore forza giuridica (oltre che politica) dal nuovo precetto eurounitario che impone all’Ue di rispettare la «identità na-zionale insita nella […] struttura fondamentale» degli Stati membri (art. 4, par. 2 Tue) 80.

autonomie ma è incapace ad adempiere al compito, che pur si è dat[o], di fissare per esse una cornice adeguata, che salvaguardi la possibilità, per tutti ed ovunque, di un pieno ed effettivo godimento dei diritti fondamentali (art. 117, 2, lett. m Cost)». Per alcuni esempi di particolari evenienze problematiche legate alle predette criticità, sia consentito il rinvio a F. di PriMa, Il volontariato cit.; e id., Interventi pubblici di sostegno alle attività di promozione socio-culturale degli enti ecclesiastici, tra inte-resse pubblico e sussidiarietà orizzontale. Note critiche alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 12 giugno 2009, n. 371, in “Il dir. eccl.”, 2009, III-IV, pp. 671 ss.

78 Ispirati tra l’altro, come rileva G.B. Varnier, Orientamenti culturali e politici della scienza ecclesiasticistica italiana nei secoli XIX e XX, in La costruzione di una scienza cit., p. 12, dal ripudio delle «visioni proprie dello Stato etico» e dalla «riscoperta della specifica collocazione delle formazioni sociali».

79 Il virgolettato è di G.B. Varnier, Orientamenti culturali e politici cit., p. 12.80 Per un’ampia e approfondita ricostruzione del concetto, vedi il recente con-

tributo di M. sTariTa, L’identità costituzionale nel diritto dell’Unione europea: un nuovo concetto giuridico, in Stato costituzionale cit., pp. 139 ss. Sul punto, cfr. le riflessioni di S. ManGiaMeli, L’identità dell’Europa: laicità e libertà religiosa, in forumcostituzionale.it, pp. 9-10, dove rileva come «la costruzione dell’identità eu-ropea, non solo non è passata attraverso la decisione su presunte comunioni storiche di tipo linguistico, etnico, territoriale e, non ultimo, religioso […] ma ha utilizzato diffusamente nel corpo dei trattati questi elementi come caratteri distintivi posti a

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Da ciò deriva, venendo all’altro “termine” del dittico in parola, la persistente centralità “ordinamentale” delle Chiese (pur sofferenti, come accennato, sui piani diversi e generali della conservazione del rilievo sociale e dell’attecchimento delle relative dottrine sulle nuove generazioni 81) e conseguentemente del diritto pattizio. Se infatti «la linea del cambiamento» che investe il diritto statale appare, a fronte di quanto appena detto, «contenuta e tracciata all’interno della stessa Carta fondamentale» 82, allora sembra restare immutato il rilievo della previsione costituzionale che inquadra le confessioni religiose quali «rappresentanti privilegiati» degli interessi religiosi «confessionali» 83: per la stipula di accordi o intese (giusta artt. 7, II° co. e 8, III° co.) come pure «per tutto ciò che è riconducibile all’applicazione della legislazio-ne pattizia» 84. Inoltre, il radicamento costituzionale di tali pattuizioni pare fondare ancora una certa «preminenza del diritto di produzione pattizia» 85, facendo sì, cioè, che gli accordi raggiunti non siano mere

salvaguardia dell’identità degli stati membri, facendo loro assumere il compito di fungere da contro-altare alla comune identità europea costituita dai principi e dai valori». Per approfondimenti, vedi E. di salVaTore, L’identità costituzionale dell’U-nione europea e degli Stati membri. Il decentramento politico-istituzionale nel pro-cesso di integrazione, Giappichelli, Torino, 2008; P. häBerle, Costituzione e identità culturale, tra Europa e Stati nazionali, Giuffrè, Milano, 2006; C. MaGnani, Il prin-cipio dell’identità nazionale nell’ordinamento europeo, in L’ordinamento europeo, I, I Principi dell’Unione, a cura di S. Mangiameli, Giuffrè, Milano, 2006, pp. 481 ss.

81 Cfr., da ultimo, G. filoraMo, Trasformazioni del religioso e ateismo, in “Quad. dir. pol. Eccl.”, 2011, I, pp. 3-14; c. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano, 2009 (ed. orig. Harvard University Press, Harvard, 2007); nonché gli originali spunti di riflessione di U. Beck, Il Dio personale, Laterza, Roma-Bari, 2009.

82 Così J. Pasquali cerioli, La «maggiore disponibilità» cit., p. 2.83 Cfr. sul punto dei “rapporti interordinamentali” tra Stato e Confessioni religio-

se, tra gli altri, a. BeTTeTini, Sulla relazione fra religione, diritto canonico e diritto politico in una società dopo-moderna, in “Il dir. eccl.”, 2003, III, pp. 901 ss.

84 Così A. chizzoniTi, Il rapporto fra istituzioni civili e soggetti religiosi collettivi a livello amministrativo; interventismo, sussidiarietà e rapporti con le autonomie, in Proposta di riflessione per l’emanazione di una legge generale sulle libertà re-ligiose, a cura di V. Tozzi, G. Macrì, M. Parisi, Giappichelli, Torino, 2010, p. 107.

85 Ivi, pp. 107-8. Contra, n. colaianni, Laicità e prevalenza delle fonti di diritto unilaterale sugli accordi con la Chiesa cattolica, in “Politica del diritto”, 2010, II,

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occasioni per emanare una legge ordinaria, bensì circostanze prope-deutiche alla produzione di una fonte fornita di particolare stabilità 86 (una preminenza che, per inciso, si percepisce maggiormente, stante la grave perdurante assenza di una legge comune generale sul fatto religioso, che potrebbe e dovrebbe fungere da punto di riferimento per tutti i culti e per tutti i cittadini fedeli, superando l’obsoleta legge sui Culti ammessi 87).

*

Tirando le fila di queste primissime osservazioni, pare potersi ricavare la sensazione che l’adozione di un approccio church and state, ossia di un orientamento incline a restare nell’alveo del “diritto ecclesiastico civile” (per usare la definizione di Catalano), sèguiti a presentarsi proficua per l’ecclesiasticista, stante la centralità che a tutt’oggi rivestono, sia pur in senso mutato, i profili istituzionali della dialettica politica/religione/diritto. Allo stesso tempo, sempre sulla scorta di quanto detto prima, pare altresì che l’anima “virtuosamente

pp. 181 ss., dove espone le ragioni che suffragano secondo l’A. la «primauté della legge unilaterale laica» (p. 222).

86 Cfr. s. Bordonali, L’incidenza del fatto religioso nei percorsi formativi della legge nell’ordinamento italiano cit., p. 752.

87 Ivi, p. 754. La legge sui Culti ammessi n. 1159, del 24 giugno 1929, sorta come nota G. dalla Torre, Libertà di coscienza e di religione in Stato, Chiese e plurali-smo confessionale cit., marzo 2008, p. 1, in un contesto politico e sociale del tutto diverso da quello attuale, ha una sorta di funzionamento “residuale”, applicandosi quando l’istanza religiosa non proviene dalla Chiesa cattolica (art. 1) ovvero da una delle confessioni che hanno sottoscritto un’intesa ex art. 8, III° co, Cost., per via di un’apposita previsione ogni volta espressamente contemplata nel testo pattizio che la rende inefficace (cfr. sul punto, tra gli altri, S. Bordonali, Problemi di dinamica concordataria, in Il riformismo legislativo cit., pp. 278 ss.; M.J. ciaurriz, La abro-gación de la legislación italiana sobre los “culti ammessi”, in “Anuario de Derecho Eclesiástico del Estado”, vol. XIV, 1998, pp. 691 ss.). Per approfondimenti, cfr. M. Tedeschi, La legge sui culti ammessi, in Dalla legge sui culti ammessi al progetto di legge sulla libertà religiosa, Atti del Convegno di Ferrara, 26 ottobre 2002, a cura di G. Leziroli, Jovene, Napoli, 2004, pp. 35 ss.

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irrequieta” propria della disciplina incentivi naturalmente l’espres-sione, al suo interno 88, d’una costante tensione e d’un permanente dinamismo culturale. Suffragando, in tal senso, la stabile ambizione di aprire fronti nuovi: come quelli di cui si discute in questo consesso, incentrati sull’analisi dell’interazione tra ordinamenti interni e sovra-statali in materia di libertà religiosa, e delle “pluralità emergenti” (dei diritti religiosi, da una parte, e delle istanze etiche, dall’altra). Pare, pertanto, ravvisarsi la plausibilità di uno sviluppo dell’insegnamento che, in coerenza col predetto carattere, ma altresì con la sua identità di scienza e la sua storia, coltivi entrambi gli orientamenti (e perché no, altri ancora a venire, laddove accadano altri mutamenti epocali di sistema).

Non è solo un auspicio ottimistico ovvero un blando irenismo: la pratica dei due indirizzi sotto l’egida d’uno stesso insegnamento, infatti, sembra offrire non solo la garanzia della copertura di spazi d’approfondimento culturale sempre maggiore (secondo una semplice logica “additiva”); ma altresì un contributo potenziale allo scioglimen-to di alcuni nodi cruciali nella gestione della fenomenologia religiosa, specie quelli più complicati derivanti dalla multilevel governance 89 (e il relativo inevitabile conflitto fra direttrici). Ciò in quanto da tale pratica scaturisce un “deposito” di soluzioni dottrinali peculiari a disposizione degli operatori 90, munite del non indifferente appeal di essere differenti (a seconda della prospettiva assunta) ma tutte sussumibili sotto il medesimo obiettivo scientifico: e cioè la ricerca del contegno dei poteri pubblici più confacente al soddisfacimento della peculiare istanza in causa. Si pensi, ad esempio, al problema

88 Rileva A. fuccillo, L’incidenza professionale del diritto ecclesiastico, in Sta-to, Chiese e pluralismo confessionale cit., ottobre 2009, p. 3, come «all’interno della disciplina si confront[i]no varie anime e sensibilità, che poi costituiscono uno dei valori portanti della stessa».

89 Cfr. A. licasTro, Libertà religiosa e competenze amministrative decentrate cit., pp. 607 ss.

90 Cfr., a. fuccillo, Il diritto ecclesiastico «come diritto vivente» nella esperien-za giuridica contemporanea, in Il riformismo legislativo cit., pp. 410 ss.

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complesso concernente l’ampiezza del «margine d’apprezzamento» 91 che la Corte di Strasburgo decide di riconoscere agli Stati membri del Consiglio d’Europa nei casi concernenti una violazione della libertà religiosa 92. L’ottica law and religion, attenta alla dimensione del

91 Cfr., sul punto, tra gli altri, P. Tanzarella, Il margine di apprezzamento, in I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti eu-ropee, a cura di M. Cartabia, il Mulino, Bologna, 2007, pp. 145 ss.; G. leTsas, Two Concepts of the Margin of Appreciation, in “Oxford Journal of Legal Studies”, 2006, pp. 705 ss.; F. donaTi, P. Milazzo, La dottrina del margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in La Corte costituziona-le e le Corti d’Europa, a cura di P. Falzea, A. Spadaro e L. Ventura, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 88 ss.; cfr. altresì, per cogliere l’indirizzo seguito dalla Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, in un caso specifico avente ad oggetto un tema di stringente attualità (la conformità alla Convenzione dei divieti imposti da alcuni Stati membri circa l’adozione di pratiche di fecondazione di tipo “eterologo”), il recente contributo di C. nardocci, La centralità dei Parlamenti na-zionali e un giudice europeo lontano dal ruolo di garante dei diritti fondamentali, in “Forum di Quaderni costituzionali”, 3 febbraio 2012 (che mette in luce, tra l’altro, il rilievo dato in tale pronuncia al principio di sussidiarietà).

92 Nota G. casuscelli, Convenzione europea, giurisprudenza della Corte euro-pea dei diritti dell’uomo e sua incidenza sul diritto ecclesiastico italiano. Un’oppor-tunità per la ripresa del pluralismo confessionale?, in “Il dir. eccl.”, 2010, III-IV, come la CEDU abbia sin dalle prime decisioni affrontato il tema delle relazioni “stato/chiese” con un atteggiamento misurato, e di prudenza. Dando atto più vol-te, quindi, del fatto «che la complessità e [la] delicatezza dei problemi coinvolti dalle discipline nazionali di questi rapporti rendono le autorità locali più idonee alla valutazione ed alla decisione idonea a rendere giustizia nel caso concreto in favore di chi si ritenga ‘vittima’ di una (norma, una pronuncia, una prassi posta in) violazione della norma convenzionale. Di conseguenza, essa ha ammesso che in questo ambito deve essere riconosciuto ai singoli stati membri un margine di discre-zionalità nel dettare una concreta disciplina – giustificata o richiesta dallo specifico contesto (storico, culturale, sociale, politico) che li contraddistingue –, più ampio che in altri settori pur essi assistiti da garanzie convenzionali». Tuttavia, negli ultimi tempi, soggiunge l’A. si va «delineando (non senza contrasti, e non solo dottrinali) un nuovo orientamento» della Corte, «volto a circoscrivere lo spazio del margine di apprezzamento. Si afferma, infatti, che un siffatto potere discrezionale non possa essere ritenuto illimitato, privo di regole, affidato alla esclusiva, discrezionale ed incensurabile decisione del legislatore/giudice/amministratore di uno Stato membro, ma debba invece essere inteso ‘in modo piu restrittivo’ […] e sopratutto esercitato in

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diritto convenzionale e alla sua ispirazione universalistica di prote-zione delle istanze fondamentali, tenderà a segnalare la criticità insita nell’applicazione generosa di tale canone, i.e. la vanificazione del fine della supervisione internazionale e l’eccessiva autonomia lasciata alle scelte nazionali 93; laddove invece l’ottica per così dire tradizionale, incentrata prioritariamente sul diritto nazionale (specialmente costitu-zionale) e sulle esigenze peculiari e identitarie da esso espresse, sarà portata a segnalare l’eventuale problema opposto, di un insufficiente riconoscimento da parte della Corte dell’autonomia degli Stati e della loro meilleur position 94 per stabilire i criteri normativi adeguati al proprio contesto storico e culturale 95.

Ebbene queste due tendenze, apparentemente divergenti (la pri-orità del “diritto” vs la primazia dell’“identità costituzionale”) in verità appaiono convergere se inquadrate sotto il filtro ecclesiasticista della continua ricerca della specialità: in quanto in entrambi i casi la prospettiva di base assunta è quella di chi cerca la migliore risposta peculiare offerta dal sistema giuridico in vista d’una o più istanze

via eccezionale, secondo criteri rigorosi e oggettivi di necessità e di ragionevole pro-porzione, entro i limiti posti dall’obbligo di osservare la Convenzione e di rispettare quanto prescritto dalle istituzioni del Consiglio d’Europa». Sul punto, vedi altresì M. Pedrazzi, Sviluppi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani in tema di libertà religiosa, in Studi in onore di Vincenzo Starace, Esi, Napoli, 2008, pp. 657 ss.

93 Esemplificativamente, R. Mazzola, Introduzione. La dottrina e i giudici di Strasburgo. Dialogo, comparazione e comprensione, in Diritto e religione in Europa cit., p. 21. Pare di scorgere quest’avviso, altresì, in n. fioriTa, L’insostenibile legge-rezza della laicità italiana, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale cit., giugno 2011, pp. 4-5, dove rileva come nei casi in cui la Corte di Strasburgo decide di «ri-mettersi completamente alle scelte assunte dai singoli ordinamenti, implicitamente» essa abdichi «al proprio compito di garantire il rispetto effettivo e pieno del diritto fondamentale di libertà religiosa attraverso l’enucleazione di uno standard minimo di tutela sottratto alla disponibilità nazionale».

94 Sul concetto, cfr. tra gli altri G. haarscher, Freedom of religion in context, in Brigham Young University Law Review, 2002, pp. 269 ss.

95 Vedi in tal senso, tra gli altri, V. Turchi, La pronuncia della Grande Chambre della Corte di Strasburgo sul caso Lautsi C. Italia: post nubila Phoebus, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale cit., ottobre 2011, p. 19.

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connesse con la religiosità e la coscienza individuale. Sicché entrambe le visuali, in altri termini, paiono essere funzionali a rilevare i criteri normativi più “efficienti” da applicare al caso concreto, suggerendo, mediante la loro sinossi, un’auspicabile soluzione bilanciata tra i “fini-valori” in discussione.

Restando sul tema della tutela offerta dalla Corte EDU, l’indicato procedimento ermeneutico potrebbe rilevarsi addirittura indispensabile in vista delle “macroproblematicità” che si prospettano all’orizzonte, nell’ipotesi in cui si profilasse una frizione fra i fondamenti del sistema costituzionale e i caposaldi dell’ordine convenzionale. Si prefigura 96, infatti, l’eventualità intricata che una norma interna di derivazione pat-tizia contrasti con l’art. 9 della Convenzione, ma non con un principio supremo dell’ordinamento costituzionale: avendosi così una previsione interna costituzionalmente legittima (secondo il consolidato indirizzo della Consulta sul punto stabilito nel ’71 97) ma convenzionalmente illegittima. Un ipotetico conflitto che investirebbe i piani assiologici-sostanziali su cui si reggono i rispettivi sistemi: poiché se da un lato il Giudice delle leggi pare da qualche anno (sentt. 311 e 317 del 2009; sentt. 113 e 245 del 2011) 98 aver imboccato una strada «che porta a

96 Cfr. G. casuscelli, Convenzione europea, giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e sua incidenza sul diritto ecclesiastico italiano. Un’opportuni-tà per la ripresa del pluralismo confessionale?, in “Il dir. eccl.”, 2010, III-IV.

97 Ci si riferisce all’impostazione assunta dalla Consulta a partire dal ’71 (sentt. 1 marzo 1971, n. 30 e 31) per cui esistono «principi supremi dell’ordinamento costi-tuzionale», muniti d’una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale; e che pertanto le «norme di derivazione concordataria», pur fornite di particolare copertura costituzionale, non si sottraggono all’accertamento della (loro) conformità con detti principi. Sul punto, esemplificativamente, E. ViTali, Giurisdi-zione ecclesiastica in materia matrimoniale e princípi supremi dell’ordinamento costituzionale, in Diritto ecclesiastico e Corte costituzionale, a cura di R. Botta, Esi, Napoli, 2006, pp. 381 ss.; C. MiraBelli, Diritto ecclesiastico e “principi supremi dell’ordinamento costituzionale” nella giurisprudenza della Corte. Spunti critici, ivi, pp. 389 ss.

98 Ma non nella sent. 80 del 2011, dove pure secondo a. ruGGeri, La Corte co-stituzionale “equilibrista”, tra continuità e innovazione, sul filo dei rapporti con la Corte EDU, in Consulta online, 2011, per i temi trattati avrebbe potuto farvi men-

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riconoscere alla CEDU» il rango di «vera e propria Carta “costitu-zionale” dei diritti, capace di giocarsi [...] la partita alla pari con la Costituzione (ed altri documenti ancora)» 99, giusta l’assunzione del criterio «del livello di tutela più intensa» (che ammette l’eventualità di un innalzamento della prima al medesimo livello delle norme della seconda) 100; d’altro canto, detto Giudice non pare aver (ancora) ab-bandonato il criterio ispiratore delle c.d. “sentenze gemelle” (sentt. 348 e 349 del 2007) che dice d’una prevalenza di fondo della norma interna laddove «servitrice di valori di natura costituzionale» 101 (pur a fronte del vincolo derivante dagli obblighi internazionali giusta art. 117, I° co., Cost.).

Non mancano ai due orientamenti descritti gli elementi per risol-vere questo complicato rebus: ma l’idea che anima queste righe è che anche in questo caso, e forse soprattutto in questo caso, la soluzione più appagante (scientificamente e culturalmente) sia quella che può offrire la speciale visione di sintesi della disciplina.

zione. Cfr., sul punto, O. Pollicino, Margine di apprezzamento, art 10, c.1, Cost. e bilanciamento “bidirezionale”: evoluzione o svolta nei rapporti tra diritto interno e diritto convenzionale nelle due decisioni nn. 311 e 317 del 2009 della Corte costitu-zionale?, in forumcostituzionale.it, dicembre 2009.

99 A. ruGGeri, Conferme e novità di fine anno in tema di rapporti tra diritto interno e CEDU, in forumcostituzionale.it.

100 A. ruGGeri, La Corte costituzionale “equilibrista” cit., avverte come «la Cor-te a tutt’oggi […] non ha dichiarato mai» che la Convenzione possa affermarsi persi-no a discapito della Costituzione. «e, con ogni verosimiglianza, non lo farà neppure in seguito, per la elementare ragione che è dalla Costituzione (e solo da essa) che ritiene – come si dirà a momenti, a torto – di trarre la propria legittimazione».

101 O. Pollicino, Margine di apprezzamento cit.

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Alcune osservazioni sugli orientamenti del Diritto ecclesiastico nell’Università riformata

di alBerTo faBBri

1. Nell’ultimo decennio si sono realizzati molti incontri organizzati da docenti del nostro settore al fine di analizzare e verificare lo stato di salute e di attualità delle nostre discipline 1 alla luce delle temati-che e delle metodologie adottate nelle singole Università e Facoltà.

Lo spirito che sta alla base di queste iniziative è motivo per pro-porre alcune valutazioni.

Questi convegni possono essere letti come un momento autoce-lebrativo, nel quale viene esposto lo stato della ricerca sulla materia nei diversi Atenei, anche per cercare una condivisione delle tipolo-gie di indagini avviate; tali incontri conseguono, inoltre, la finalità di fotografare lo stadio di sviluppo delle problematiche relative al settore IUS/11, nel prendere atto di quanti studiosi oggi si dedichino alla ricerca ed alla didattica in questo settore, anche per valutare le strategie da adottare al fine di rispondere in modo adeguato ai cam-biamenti dei tempi.

Sul piano oggettivo vanno considerati questi elementi. In primis la riforma universitaria che ha visto prima spezzare il

percorso universitario in un lungimirante 3+2, così da richiedere la necessità di trovare una idonea collocazione della materia secondo un percorso logico per il docente, ma illogico per lo studente che non

1 Campobasso nel 2001 (L’insegnamento del diritto ecclesiastico nelle Univer-sità italiane, a cura di M. Parisi, E.S.I., Napoli, 2002), Genova nel 2002 e nel 2003 (Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano, a cura di G.B. Varnier, Rubbetti-no, Soveria Mannelli, 2004), Capri nel 2004 (L’insegnamento del diritto ecclesia-stico nelle facoltà di Scienze politiche, a cura di G. Macrì, Dipartimento di Teoria e Storia delle Istituzioni, Università degli Studi di Salerno, Salerno, 2005) e Pisa quest’anno.

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sempre frequenta l’intero ciclo di studi nello stesso Ateneo 2. È da tener presente, poi, che nella legge n. 240 del 30 dicembre 2010 (ri-forma Gelmini) si è legato il docente ad un solo corso per gli aspetti qualitativi, quantitativi e di requisiti minimi, e ciò ha determinato una situazione spesso conflittuale tra docenti per collocare quella specifica disciplina insegnata nella posizione migliore 3.

Ancora, il pensionamento di molti professori ordinari ha richie-sto una riprogrammazione dell’organigramma in una fase povera di concorsi; la modifica di collocazione del settore IUS/11, immetten-dolo nel nuovo macrosettore 12C, come 12C2 4, accanto al diritto co-stituzionale, storico concorrente nell’area di ricerca; si è marcata di entrambi la natura pubblicista, e al tempo sono stati posti in secondo piano gli studi ecclesiasticisti e canonisti di carattere privatista e sto-rico. Infine va ricordato che i repentini avvenimenti storici, politici e sociali hanno riguardato ogni aspetto sociale del fenomeno religioso.

Proprio la pluralità dei temi potenzialmente di interesse inducono alla frammentazione della ricerca a danno del valore dell’analisi pro-dotta; è sintomatica la stessa declaratoria del nostro settore «il settore comprende l’attività scientifica e didattico-formativa degli studi rela-tivi alla disciplina giuridica del fenomeno religioso, anche nella pro-spettiva comparatistica, sia all’interno dell’ordinamento statuale, sia negli ordinamenti confessionali, con particolare riferimento a quello della Chiesa cattolica. Gli studi attengono, altresì, alla storia del di-ritto canonico, alla storia e sistemi dei rapporti tra Stato e Chiesa, al

2 Se lo spezzettamento è stato in gran parte ora superato con il ciclo unico quin-quennale della laurea magistrale in Giurisprudenza (classe LGM/01), il tema si pone in altre classi di laurea, come quella di Scienze politiche e delle relazioni internazio-nali (classe L/36), dove il settore è posto come caratterizzante nel corso magistrale (classe LM/62), ma che può trovare spazio come opzionale nel triennio vecchio ordinamento (classe 15), o come nel corso di laurea triennale in Scienze giuridiche (classe 31) e specialistica in Giurisprudenza (classe 22/S).

3 Per l’offerta formativa, D.M. n. 509 del 3 novembre 1999 e D.M. n. 270 del 22 ottobre 2004. Per i requisiti minimi quantitativi e qualitativi, D.M. n. 15/2005, D.M. n. 544/2007, D.M. n. 17/2010 e D.M. n. 50/2010.

4 Decreto ministeriale 29 luglio 2011, n. 336, Declaratorie SSD 2011.

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diritto comparato delle religioni e si estendono ai profili di rilevanza giuridica dei fenomeni di pluralismo etico e religioso».

Il rischio è quello di diventare esperti di tutto, nel ricoprire il ruo-lo di opinionisti del fenomeno religioso.

2. La realtà che ci si presenta sembra la risultante di un percorso politico-istituzionale che parte da lontano, dal nuovo ruolo che vie-ne assegnato all’Università. Quella funzione che prima era ricoperta dalle scuole medie superiori, ora è trasferita ai corsi triennali, cui è affidato il compito di formare la preparazione minima per accedere al mondo del lavoro.

Per la realtà universitaria questo comporta una rivoluzione in ter-mini di programmazione, ma, ancora prima, un ripensamento pro-fondo della propria funzione. Il luogo deputato a fornire gli strumenti culturali e formativi dei diversi settori di studio, deve improvvisa-mente diventare il terreno di conoscenza degli strumenti tecnici mi-nimi, per un’immediata operatività dello studente.

Alle lauree magistrali e alle scuole di dottorato, nelle finalità della riforma, viene attribuito il compito di proporre gli approfondimenti e fornire le chiavi di lettura per un’alta formazione.

Conosciamo gli esiti. Lo spacchettamento dei corsi classici e l’ampliamento dell’offerta formativa hanno prodotto la corsa al po-sto, ogni settore ha cercato di essere presente sia nella triennale sia nella magistrale con uno sfilacciamento dei corsi a tutto discapito degli aspetti contenutistici.

Ci siamo trovati a dover fronteggiare più corsi con un numero ridotto di crediti, senza avere il tempo di programmare un percorso giuridicamente logico. Si è verificato il caso dell’attivazione di un corso di Diritto ecclesiastico comparato nei corsi specialistici in al-cune classi di laurea per studenti che non disponevano le basi minime del diritto ecclesiastico, così da dover ripensare lo stesso programma del corso.

A rafforzare questa precaria condizione c’è la dimensione impre-scindibile dei numeri. Da un lato la pluralità di offerte formative in un sempre crescente numero di Atenei fa sì che tutto il bagaglio cul-

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turale e sociale, anche legato al territorio, che ha caratterizzato – nel tempo e nello spazio – una Facoltà piuttosto che un Ateneo, perdano improvvisamente valore se viene meno il numero di studenti, soprat-tutto frequentanti, con cui istaurare un dialogo costruttivo tra docente e discenti. Per contro quello, a cui si presta maggiore attenzione oggi sono gli aspetti legati alla capacità dell’Università di attrarre studen-ti, quasi da richiederle il ruolo proprio di un’azienda; si impongono degli standard numerici da rispettare, pena la chiusura di interi corsi, se non di Facoltà.

Ancora. L’apertura di nuove sedi universitarie, magari molto più “comode” da raggiungere, hanno comportato una distribuzione oriz-zontale del corpo docente a tutto svantaggio delle scuole di ricerca.

Infatti assistiamo, spesso nelle Università minori, alla presenza di un solo docente di ruolo per settore scientifico-disciplinare nell’in-tero Ateneo, così da perdere lentamente il fenomeno di trasmissione del sapere che passava nella relazione quotidiana tra il giovane ricer-catore e il suo maestro, relazione necessaria non solo sotto gli aspetti culturali, ma anche di metodo, necessaria per impostare una ricerca in un determinato ambito, quella relazione permetteva di partire da risultati ed da intuizioni proprie della “scuola di appartenenza” e svi-lupparle ulteriormente, secondo direttive e criteri metodologici già sedimentati e provati.

Infine l’attribuzione ai ricercatori del ruolo di docenti; se ciò si propone di attivare tutte le forze presenti in Ateneo per sostenere la funzione didattica, lo stesso porta ad un necessario impoverimento della ricerca pura, la quale si ritrova a dover essere collocata nei rita-gli di tempo tra un semestre e l’altro.

3. Questa è la ben nota situazione, oggettiva e strutturale, nella quale siamo chiamati ad operare. Tuttavia, rispetto ad altri settori, il nostro ha visto crescere in maniera esponenziale le tematiche connesse, gra-zie ai molteplici campi dove il fenomeno religioso acquista sempre maggiore rilevanza.

La situazione che si è venuta a creare rappresenta l’evoluzione sociale e istituzionale di un percorso storico nel quale sono andati

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lentamente scemando le problematiche legate alla relazione Stato-Chiesa istituzione, per concentrarsi sulle conseguenze prodotte dal-la secolarizzazione della società e alla necessità di regolamentare le nuove esigenze religiose che i movimenti migratori portano con sé.

Proprio la ricerca di una soluzione, e il livello raggiunto nel rego-lamentare il fenomeno religioso, acquista una valenza determinante sia nel definire il grado di sviluppo sociale, giuridico e politico pro-prio del paese o dell’istituzione interessata, sia nel fornire la base per una convivenza fondata sul pluralismo religioso e culturale.

Nell’appartenenza del diritto di libertà religiosa alla sfera dei diritti fondamentali si gioca la partita della modernità, nella quale la nuova laicità deve essere in grado di dialogare con la religiosità, come espressione di un valore sociale e come manifestazione indivi-duale e collettiva del cittadino.

La sfida non è semplice.La declaratoria del nostro settore fa riferimento anche al diritto

comparato. Specie nelle lauree specialistiche di Relazioni internazionali e di

Scienze della politica l’insegnamento del diritto ecclesiastico compa-rato aiuta a comprendere i rapporti ed i condizionamenti esistenti tra normative religiose e leggi statali negli Stati ortodossi dell’Europa orientale e negli Stati islamici del Medio Oriente e del Nord-Africa, oggi più che mai alla ribalta della politica internazionale; non solo, ma aiuta il legislatore nazionale ed europeo a capire e regolamentare le esigenze religiose di quanti sono portatori di tradizioni cultuali, giuridiche e religiose diverse; è a tutti noto che in seguito al crescente flusso migratorio dall’Europa Orientale, sia dagli Stati facenti parte dell’Unione Europea sia da altri, il numero dei fedeli ortodossi 5 e

5 Scrive V. ParlaTo (Le chiese ortodosse in Italia, oggi, in “Studi Urbinati di scienze giuridiche, politiche ed economiche”, n. 61, 3 (2010), p. 483): «Se prima gli ortodossi appartenevano a comunità da secoli presenti nella penisola o erano esuli di possedimenti italiani nel Mediterraneo orientale, oggi i fedeli sono prevalentemente immigrati, moltissimi dalla Romania, in cui la chiesa ortodossa è la chiesa della stra-grande maggioranza dei Romeni; minori sono i flussi migratori, dalla Bulgaria altro Stato facente parte dell’Unione Europea, più numerosi i cittadini dell’Ucraina e del-

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islamici, regolari ed irregolari, dimoranti nella Repubblica è notevol-mente aumentato 6.

4. Come riuscire a conciliare il nuovo percorso universitario intrapre-so con la necessità di riaffermare il valore e l’autonomia del nostro settore scientifico-disciplinare ed in particolare di una disciplina, il diritto ecclesiastico, che detiene gli strumenti per decifrare la realtà?

Da una attenta lettura delle dichiarazioni espresse dai colleghi sul ruolo e sulla funzione che andrà ad assumere il settore IUS/11 nella dimensione universitaria, risulta chiara la volontà di non costituire una agenzia di formazione che si caratterizzi per la sua funzione pro-fessionalizzante 7, quanto piuttosto proporre un luogo del pensiero critico 8, nel quale vengano fornite categorie di pensiero, strumenti interpretativi storico-giuridici, fondati su di una dimensione scienti-fica e metodologica collaudata.

Dal punto di vista teorico le posizioni sostenute mirano a salva-guardare l’unità della disciplina, il diritto ecclesiastico, la sua iden-tità e il suo carattere, ma rischiano di mostrarsi troppo distaccate se non completate da contenuti che siano in grado di «gettare un ponte tra il mondo del diritto e la realtà umana e sociale che esso regola» 9.

Questo percorso, a mio avviso, richiede un processo integrato nel quale far convergere la dimensione statale, quella confessionale, quella interordinamentale e comparatista. Infatti il livello di rilevan-

la stessa Russia oltre che delle altre realtà statuali dell’Europa orientale. Vi è anche un flusso migratorio di fedeli cristiani egiziani, eritrei, etiopi, ma il cristianesimo di queste popolazioni è sostanzialmente copto, e le chiese maggioritarie di quegli Stati non appartengono alla Comunione delle chiese ortodosse, bensì alle altre antiche chiese orientali pre-calcedoniane».

6 Secondo alcune stime solo i cristiani ortodossi sarebbero circa un milione cfr. D. Giordano, Le prospettive dell’ecumenismo ed il dialogo in Italia, in “O Odigos”, Rivista del Centro Ecumenico ‘Padre S. Manna’ , 1/2007, pp. 20 ss.

7 A. zanoTTi, Intervento, in L’insegnamento del diritto ecclesiastico cit., p. 99.8 S. doMianello, L’insegnamento del diritto ecclesiastico e l’«avvenire», in

L’insegnamento del diritto ecclesiastico cit., p. 82.9 S. ferliTo, Gli strumenti didattici del diritto ecclesiastico di fronte alla rifor-

ma, in L’insegnamento del diritto ecclesiastico cit., p. 111.

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za del fenomeno religioso nelle relazioni nazionali e internazionali induce a ricercare tutti i codici comportamentali che l’oggetto della ricerca contiene nelle diverse dimensioni nelle quali si forma e negli ambiti nei quali si genera, così da non limitare l’angolo di osser-vazione, ma cercare di cogliere il diverso valore che assumono gli aspetti legati alla religione. Nel promuovere questo procedimento si riescono a rilevare meglio nella sintesi i criteri ultimi adottati nella disciplina della tematica. Di conseguenza, la conoscenza del percor-so che un fenomeno religiosamente qualificato attraversa nella re-golamentazione giuridica permette di cogliere gli aspetti perduti e quelli acquisiti o che hanno subito un processo interpretativo più o meno marcato.

5. Prima di prospettare possibili modelli applicativi dell’insegna-mento nelle università italiane, è necessario chiarire l’idea di ‘diritto ecclesiastico’ che si intende promuovere.

a. In un’idea statica-statale, basata sul dato normativo, il diritto ecclesiastico cerca di prospettare una lettura giuridica della realtà per confermare o meno i criteri elaborati secondo stratificazioni normati-ve-ordinamentali. Il punto di osservazione è rigorosamente statale e l’ordinamento civile diventa il terreno sul quale confrontare i diver-si movimenti che presentano una matrice di natura religiosa, o che interessano il fenomeno religioso, sia che abbiano origine in ambiti confessionali o laici, sia che si formino all’interno di aree nazionali o sopranazionali. Il metodo di lavoro richiede un continuo confronto per confermare la validità dell’elemento che si è preso come riferi-mento, in una verifica che coinvolge i diversi aspetti della realtà. In questo modo tutte le evoluzioni sociali e culturali del fenomeno reli-gioso non rilevano fino al momento in cui non trovano espressione su un piano normativo sul quale avviene il confronto. L’atteggiamento è quello dell’attesa, nell’aspettare che i processi in atto si concludano e producano gli atti conseguenti, sui quali si incentra la ricerca.

b. In un’idea dinamica-sociale, l’analisi della realtà si muoverà all’interno delle stesse dimensioni che costituiscono espressioni del fenomeno religioso, cercando, prima, di catalogare tutti gli aspetti

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nei quali il fenomeno si esprime, e, poi, nel tentare un’analisi de-gli elementi comuni, con una attenzione anche verso le particolarità, come segno distintivo e di identità. In questo modo la ricerca si ar-ticolerà all’interno delle stesse dinamiche che producono il fenome-no religioso, così da cogliere gli aspetti costitutivi fondamentali; in questo processo si richiede una conoscenza profonda delle fonti sulle quali si svolge l’indagine, per applicare un metodologia corretta, che sia in sintonia con l’ambiente di produzione del fenomeno religioso. Nell’utilizzo di criteri giuridici l’angolo di osservazione viene col-locato nella realtà sociale verso la quale si apre una ricerca continua per monitorarne tutti gli sviluppi.

Appare chiaro che la dimensione propria del diritto ecclesiastico è la risultante di entrambe le idee-espressioni, per un metodo di inda-gine ad ampio spettro; l’indirizzo nell’assumere una direzione piut-tosto che un’altra dipenderà in definitiva dell’obiettivo che si vuole perseguire. Infatti la differenza di impostazione risiede unicamente nel settore politologico, sociologico, storico o economico, piuttosto che giuridico, verso il quale viene rivolto l’insegnamento.

Archiviata la figura delle Facoltà con le quali risultava più facile e immediato promuovere una differenza di contenuti della materia, con il trasferimento della funzione didattica ai Dipartimenti, occor-rerà conoscere l’ambito nel quale si vuole improntare un percorso formativo, il settore caratterizzante il corso, in particolare di quelli interdipartimentali. A mio avviso la contrapposizione da applicare è quella tra ambito giuridico, da un lato, e il resto degli ambiti umanisti nei quali il diritto ecclesiastico può trovare collocazione, dall’altro. Infatti lo spartiacque segna una profonda differenza nella metodolo-gia di presentazione del fenomeno religioso, non tanto sui principi applicativi, quanto sui criteri di analisi del contenuto normativo. Il percorso formativo che si intende promuovere attraverso il diritto ec-clesiastico, consiste nel portare a conoscenza degli studenti gli stru-menti giuridici essenziali e i canoni metodologici con cui decifrare la realtà così come si presenta, e allo stesso tempo prospettare dei percorsi di ricerca che contengano elementi innovativi, senza tuttavia contrastare con i principi costituzionali attualmente in vigore.

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6. Per quanto concerne l’ambito giuridico, al fine di evitare un per-corso didattico troppo professionalizzante, o al contrario troppo te-orico e quindi lontano dal piano immediatamente operativo, occor-rerebbe rivedere l’impostazione dell’intero settore, per disporre una differenziazione interna.

Nell’ambito di un corso altamente professionalizzante, di durata quinquennale a numero chiuso, nel quale formare operatori del dirit-to italiano e comunitario, prescindendo dalla preparazione specifica forense, peraltro satura di soggetti, il diritto ecclesiastico sarebbe chiamato a contribuire alla formazione di una mentalità giuridica e culturale dello studente attraverso un percorso che parta dai principi propri di una scienza pura, per poi transitare nella scienza applicata, mediante una didattica di tipo giuridico-positivo, procedurale e ap-plicativo. Si dovrebbe portare gli studenti alla conoscenza dei criteri giuridici che sono a fondamento delle norme e delle regole sottese ai procedimenti, avendo ben chiaro la relazione che esiste tra ius e lex. Nel rilevare il valore che l’ordinamento riserva al fenomeno re-ligioso, la finalità verrebbe collocata nel dare immediato riscontro ai contenuti appresi. Si dovrebbe prevedere un approfondimento della normativa nazionale (matrimonio concordatario, matrimoni misti, unioni matrimoniali a base confessionale, legge sulla libertà reli-giosa, riconoscimento degli enti, insegnamento della religione nelle scuole pubbliche) per spostarsi successivamente negli ambiti europei e internazionali (Unione europea, Cedu, OSCE, libertà religiosa, in-dividuale e collettiva, come diritto fondamentale identitario).

Parallelo potrebbe essere il percorso ordinario di base sempre nell’ambito giuridico; il percorso si presenterebbe sempre impron-tato alla formazione di una metodologia giuridica, ma più orientata alla conoscenza dei parametri non solo giuridici sui quali si muove il fenomeno religioso, per coglierne le caratteristiche fondamentali sulla base di criteri che trovano la loro giustificazione nel diritto di autodeterminazione delle confessioni religiose e nel diritto comune disciplinato dall’ordinamento. Il procedimento che si prospetta non vuole limitarsi ad una conoscenza statica, ma dovrebbe promuovere uno spirito critico capace di trovare negli stessi ambiti normativi le

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chiavi di lettura per una evoluzione del diritto di libertà religiosa. Il contenuto potrebbe poi essere meglio adattato al corso, facendo emergere gli aspetti comparatisti, interordinamentali, internazionali o lavoristi che contribuiscono all’apprendimento di una visione glo-bale delle tematiche studiate.

Sarebbe anche utile discutere con gli studenti delle dinamiche so-ciali che investono gli aspetti legati alla libertà di religione nella sua dimensione evolutiva, per capire le direttive che assumono i sistemi giuridici interessati, le chiavi di lettura e di conoscenza utilizzate.

Il confronto su tematiche di attualità nelle quali viene ad essere interessata la dimensione religiosa-spirituale, aiuterebbe a intercetta-re correttamente i principi che sono a fondamento della disciplina in oggetto, a cogliere le possibili divergenze tra diritto scritto e diritto applicato e a ipotizzare, infine, nuove categorie giuridiche.

L’insegnamento di diritto ecclesiastico presente nei corsi di lau-rea non giuridici dovrebbe presentare e promuovere altri contenuti. Il fenomeno religioso, espressione di un diritto di libertà individua-le e collettiva, dovrebbe essere indagato come correlato ad aspetti storico-politici e socio-culturali, ed analizzato come valore che con-tribuisce, insieme ad altri elementi, alla formazione del diritto e alla costituzione di una tipologia giuridica specifica.

Il tentativo è quello di cogliere la rilevanza riservata alla religione nel processo di trasformazione dell’identità sociale, e il peso assunto nella formazione del patrimonio culturale nazionale ed europeo. In questo percorso il dato normativo e l’uso della norma verrebbero ad essere letti come il frutto di un percorso storico e sociale, come rispo-ste a precise richieste non solo comunitarie, ma della realtà europea e mediterranea, realtà nella quale da millenni opera la cultura e la scienza giuridica italica per conseguire la pacifica convivenza ed il bene comune dei popoli.

L’indagine proposta avrebbe fondamento su di una base giuri-dica integrata da elementi storici, culturali, sociali e antropologici. Nel cogliere l’indirizzo e l’incidenza che la religiosità occupa nello spazio pubblico, caratterizzato da un pluriconfessionismo e da un pluriculturalismo, si acquistano i parametri per comprendere il limite

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che una tutela dei diritti fondamentali riserva agli aspetti religiosi e spirituali.

La didattica, così, andrebbe impostata su due linee guida. Nella prima andranno collocati gli attori che intervengono sul fenomeno religioso, le confessioni religiose, lo Stato e le istituzioni sovranazio-nali, anche nella dinamica di comprendere il grado di incidenza che assumono le nuove comunità religiose con la loro crescente presenza sul territorio. Questo richiederà un approfondimento dei diritti reli-giosi, della natura delle fonti sulle quali si fondano e dei criteri che trovano applicazione nel contesto relazionale.

La seconda linea guida si concentrerà sul concetto e sul valore della libertà religiosa del fedele come espressione di una appartenen-za, per capire quale modello di espressione della propria religiosità l’ordinamento è capace di accogliere e disciplinare, e a quali condi-zioni.

L’analisi dovrà necessariamente considerare la dimensione spi-rituale che assume i contorni dell’ateismo, come il prodotto di una secolarizzazione che mira a confinare l’espressione della propria re-ligiosità nella sfera privata. Ecco allora che diventeranno oggetto di analisi e di discussione tutte le questioni che sono di stretta attualità e i problemi connessi, come l’uso dei simboli religiosi, l’obiezione di coscienza, la bioetica in tutte le sue fattispecie, l’eutanasia, senza escludere questioni molto più economiche come l’apertura domeni-cale degli esercizi commerciali etc.

A tutto questo si aggiunge il rapporto pubblici poteri-confessioni religiose nella gestione dei servizi sociali, fino a comprendere la re-lazione che intercorre tra le pretese avanzate dai nuovi movimenti religiosi e il diritto.

7. La recente riforma universitaria deve essere letta come il tentati-vo di risposta, in modo adeguato, ai cambiamenti dei tempi, con la proposta di strumenti didattici capaci di prospettare ai giovani un bagaglio culturale da investire nel mondo del lavoro. Il diritto eccle-siastico, in particolare, in questo contesto è chiamato a lavorare su due fronti paralleli. Nel primo deve dimostrare di possedere la cono-

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scenza degli strumenti di analisi giuridica della realtà ordinamentale e sociale nella quale si esprime il fenomeno religioso, e nell’altro fronte deve lavorare per proporre contenuti che, nel solco della viva tradizione, sappiano meglio spiegare le situazioni attuali sulla base dei principi assunti come presupposti.

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Le nuove frontiere del Diritto ecclesiastico

Le nuove frontiere del Diritto ecclesiastico

di Mario ferranTe

1. Cenni introduttivi - 2. Considerazioni sul cambiamento di denominazione della disciplina - 3. Sull’importanza del diritto canonico - 4. Conclusioni

1. Il tema del cambiamento di denominazione della disciplina “Di-ritto Ecclesiastico”, oggetto del convegno di Pisa, viene supportato in dottrina partendo dal presupposto che la locuzione con cui attual-mente si individua la materia sarebbe inadeguata a ricomprendere i fenomeni religiosi che sono entrati a fare parte dell’attuale sistema sociale in esito alla spesso richiamata globalizzazione 1.

In altri termini, si ritiene che senza un effettivo cambiamento, si rischierebbe una sterile difesa d’ufficio di una disciplina impreparata ad affrontare i temi del multiculturalismo sociale e religioso e, per-tanto, divenuta ormai anacronistica ed obsoleta, in quanto legata ad un’antiquata concezione del fenomeno religioso.

Si segnala, inoltre, la volontà di emancipare la materia dal diritto canonico, visto solo come un retaggio storico ormai ingombrante da cui affrancarsi in vista di una modernizzazione della disciplina.

Invero, da tempo, si evidenzia in dottrina l’ineludibile necessità che a fronte del citato multiculturalismo vi sia un’adeguata reazio-

1 Sul punto cfr. P. consorTi, Diritto e religione, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 7. Per un’interessante analisi della tematica con riferimento alla situazione spagnola, si veda J. M. Gonzáles del Valle, Derecho eclesiástico español, Civitas edicio-nes, Madrid, 20056, pp. 47-65, il quale, nel criticare l’uso dell’espressione “Derecho eclesiástico del Estado”, adoperata in Spagna, che ritiene dovuta alla circostanza che «esta disciplina comienza a cultivarse sólo desde hace algunas décadas aún no tiene el suficiente arraigo terminológico», per cui propone l’uso dell’espressione “Derecho eclesiástico español” (p. 49).

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ne giuridica dello Stato laico che permetta al diritto ecclesiastico di ammodernarsi per fare fronte al tema del pluralismo confessionale e, soprattutto, della multireligiosità 2.

2. L’idea di utilizzare l’espressione sostitutiva di “Diritto e religio-ne” sarebbe motivata dalla ritenuta e, per certi aspetti, condivisibi-le necessità di realizzare il «superamento dello schema tradizionale […] per cui i bisogni religiosi della persona umana rilevano e sono tutelati dalle istituzioni dello Stato [...] principalmente o esclusiva-mente attraverso la mediazione delle confessioni religiose, cioè delle forme apicali di organizzazione degli interessi religiosi collettivi» 3.

2 In argomento si vedano i contributi contenuti nel volume Multireligiosità e reazione giuridica, a cura di a. fuccillo, Giappichelli, Torino, 2008, ad indicem. Per un’analisi storica del tema cfr. anche c. cardia, Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo, islam, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 9 ss. Per un con-tributo teorico alla rivalutazione della portata di significato e di valore del metodo della laicità giuridica quale garanzia di governo non dispotico delle società plurali-ste, Diritto e religione in Italia. Rapporto nazionale sulla salvaguardia della libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, a cura di s. doMianello, il Mulino, Bologna, 2012, ad indicem.

3 Così G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione, Plectica, Salerno, 2011, p. 7. Segnala un mutamento dell’oggetto della materia anche l. Musselli, Diritto e religione in Italia ed in Europa. Dai Concordati alla problematica islamica, Giap-pichelli, Torino, 2011, p. 4, il quale ricorda come «dopo la secolarizzazione avutasi nella seconda metà del Novecento si evidenziano altri oggetti di studio, dalla obiezi-one di coscienza al problema delle sette e dei nuovi culti», evidenziandosi in parti-colare la problematica della laicità dello Stato e delle nuove religioni (religioni ori-entali, Islam, ecc.). Sul punto, con specifico riferimento alla realtà latino-americana, si veda Diritto e religione in America Latina, a cura di J.G. naVarro floria, d. Milani, il Mulino, Bologna, 2010, pp. 11-2. Per il punto sulla situazione e sul grado di tutela della libertà religiosa in Europa, così come regolata dall’art. 9 della Con-venzione europea dei diritti dell’uomo e sul modo in cui quest’ultima sia stata inter-pretata e applicata dalla Corte di Strasburgo si rinvia a Diritto e religione in Europa. Rapporto sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di libertà religiosa, a cura di r. Mazzola, il Mulino, Bologna, 2012, specialmente pp. 55 ss.; si veda anche Diritto e religione nell’Islam mediterraneo. Rapporti nazi-onali sulla salvaguardia della libertà religiosa: un paradigma alternativo?, a cura di a. ferrari, il Mulino, Bologna, 2012, ad indicem.

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Si vuole, in tal modo, superare la concezione della tutela del diritto di libertà religiosa individuale quale semplice diritto riflesso e del di-ritto ecclesiastico quale diritto «delle formazioni sociali qualificabili come confessioni religiose» 4.

In realtà, se la soluzione proposta è quella di sostituire il termine “ecclesiastico” – considerato troppo legato al concetto di confessio-ne e, al più, ad un pluralismo di tipo meramente istituzionale – con quello di “religione”, ritenendo, così, di ricomprendere in esso i nuo-vi fenomeni religiosi che si esprimono non già attraverso la cate-goria delle confessioni ma, in modo più ampio, in «ogni altro tipo di formazione sociale religiosa» 5, non riteniamo che ciò costituisca la soluzione ottimale e preferibile. Invero, basti dire che il termine religione – che dovrebbe diventare uno dei due poli di riferimento della materia, l’interfaccia con cui fare relazionare il diritto – crea non pochi problemi definitori. Senza volersi troppo addentrare in tale complessa tematica, basti citare il sempre attuale pensiero di E. Durkheim, il quale, dopo essersi interrogato su cosa si dovesse in-tendere per religione, concludeva asserendo che «una religione è un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre, cioè separate e interdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale, chiamata chiesa, tutti quelli che vi aderiscono» 6. Ne consegue, in dottrina, che «l’idea di religione non è quindi distinguibile da quella di Chiesa e riguarda pertanto una collettività di individui» 7.

In altri termini, anche sostituendo al termine confessione quello di religione, si finisce, inevitabilmente, per tornare al punto di par-

4 Così a. alBiseTTi, voce Diritto ecclesiastico italiano, in Digesto delle disci-pline pubblicistiche, vol. V, Utet, Torino, 1990, p. 242, ora anche in id., Tra diritto ecclesiastico e canonico, Giuffré, Milano, 2009, p. 198.

5 L’espressione è di V. Tozzi, Normative contrattate fra le confessioni religiose e lo Stato ed esigenze di una legge generale dello Stato di disciplina delle libertà religiose, in G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione cit., p. 131.

6 Così E. durkheiM, Le forme elementari della vita religiosa, trad. it. a cura di C. Cividali, Meltemi, Roma, 2005, (edizione originale Paris, 1912), p. 25.

7 Così M. Tedeschi, Sulla scienza del diritto ecclesiastico, Giuffré, Milano, 2007, p. 122.

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tenza, ossia all’aspetto istituzionale del fenomeno religioso. Ancora, la contrapposizione terminologica tra il diritto e la religione appare riduttiva, anche quando si voglia porre l’accento sull’aspetto giuridi-co di tale binomio 8.

Invero, in questo ambito del diritto, più che in molti altri, si evi-denzia che esso è solo uno strumento, un mezzo per la realizzazio-ne di una qualsivoglia politica in materia ecclesiastica. Quindi, in una prospettiva di modifica della terminologia della materia, pensare che il solo termine diritto, non altrimenti specificato, possa rendere in pieno la posizione dello Stato di fronte al fenomeno religioso, o esprimere i contenuti della materia, pare poco realistico.

A parte ogni considerazione sul punto se il diritto – al di là della sua necessità oggettiva – possa essere lo strumento più adeguato, o, meglio, il terreno più fertile di elaborazione e coltura del rapporto tra lo Stato ai suoi vari livelli e il fenomeno religioso, parrebbe più opportuno – se proprio si deve pensare a riformare la denominazione della materia – ipotizzare una terminologia più articolata ed esausti-va, quale, ad esempio, “Diritto, Politica e Religione”.

Prescindendo dalla questione terminologica, si vuole proporre una semplice considerazione: forse per inserire il diritto ecclesiastico in un più ampio circuito culturale e dare un maggiore respiro alla materia immettendovi nuova linfa vitale, non è affatto necessario e, per altri versi, neppure sufficiente cambiare il nome alla materia.

Si ricorda, infatti, che il diritto ecclesiastico è stato più volte dato per morto eppure, come l’araba fenice, è riuscito, ogni volta, a risor-gere dalle sue ceneri. Basti dire che già A.C. Jemolo aveva segnalato il rischio che il diritto ecclesiastico fosse da considerarsi come un «ramo morto della scienza giuridica dopo che con la conciliazione si era spenta ogni polemica» 9. In realtà, non è stato così, in quanto – al di là di un incurabile scetticismo sul futuro della disciplina – resta il

8 In argomento si veda f. Viola, G. zaccaria, Le ragioni del diritto, il Mulino, Bologna, 2003, pp. 152-8 e pp. 205-7; f. d’aGosTino, Diritto e giustizia. Per una introduzione allo studio del diritto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, ad indicem.

9 Così M. Tedeschi, Sulla scienza del diritto ecclesiastico cit., p. 122.

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dato incontrovertibile che il diritto ecclesiastico, essendo legato alle cangianti e magmatiche dinamiche sociali, propone un’elaborazione teorica che non può mai dirsi conclusa ma, anzi, in continuo divenire che rende la materia odierna in sé da un punto di vista contenutistico, a prescindere della sua denominazione 10. Vale a dire che la mutevo-lezza dell’oggetto, lungi dall’essere un problema, o, peggio, un limi-te, rappresenta un’inesauribile fonte di ricchezza che rende sempre interessante e innovativo l’approccio alla nostra disciplina.

L’odierna fluidità storica e sociale della materia è poi tale che, se oggi si decidesse di mutare il nome della materia (a circa un secolo da quando il diritto ecclesiastico ha acquisito la propria autonomia scientifica), ciò non garantirebbe, comunque, dal rischio di dover es-sere costretti tra qualche decennio ad una nuova modifica della de-nominazione della disciplina per adattarla ad eventuali ulteriori cam-biamenti sociologici e culturali, con le ovvie conseguenze del caso.

In realtà, al di là della denominazione, ciò che appare caratte-rizzante la nostra materia è il metodo storico-comparativistico con approccio multidisciplinare da essa utilizzato che rappresenta l’ele-mento qualificante che la rende sempre attuale ed in grado di fare fronte anche alle attuali sfide sociali e culturali 11.

3. Per ciò che attiene al rapporto tra diritto ecclesiastico e diritto ca-nonico – seppure si deve ammettere che i recenti sviluppi socio-cul-turali hanno segnato un ulteriore tappa nell’ormai lungo e inesorabile cammino di differenziazione ed allontanamento tra Diritto ecclesia-

10 Come ricorda s. BerlinGò, Fonti del diritto ecclesiastico, in s. BerlinGò, G. casuscelli, s. doMianello, Le fonti e i principi del diritto ecclesiastico, Utet, Tori-no, 2000, p. 5: «più in generale, in un contesto democratico e pluralista quale quello tipico della Costituzione repubblicana, riservare una considerazione specifica al sot-tosistema delle fonti del diritto ecclesiastico, non risulta eversivo rispetto alle linee fondamentali dell’insieme; appare, al contrario, intimamente compenetrato con la sua essenza».

11 Sul rapporto tra diritto ecclesiastico e scienza giuridica, nonché sul metodo si veda f. finocchiaro, Diritto ecclesiastico, a cura di A. Bettetini e G. Lo Castro, Zanichelli, Bologna, 200910, pp. 2-5 e pp. 13-5.

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stico e Diritto canonico12 – resta vero il fatto che «per l’ecclesiastici-sta è evidente la necessità di conoscere il diritto canonico» 13.

In altri termini, si ritiene che, guardando al nostro settore scienti-fico disciplinare, lo IUS/11, Diritto Canonico ed Ecclesiastico, anche nell’ipotesi in cui si giungesse a modificare la seconda parte della sua denominazione nella formulazione che la nostra comunità scientifica dovesse ritenere più corretta, dovrebbe restare inalterata la sua prima parte che, a mio sommesso avviso, rimane storicamente e cultural-mente caratterizzante la nostra disciplina 14. Invero, come ricorda il Mirabelli, «la questione del metodo nello studio del diritto canonico ha indirettamente contribuito allo sviluppo dell’interesse comparati-vistico nella dottrina ecclesiasticistica» 15.

4. Mi sia consentita, in ultimo, una breve considerazione da cultore della materia: in un momento storico in cui la materia attraversa una crisi di identità e viene inserita dalle recenti riforme universitarie in contesti scientifici più ampi in cui rischia di dissolversi in scienze giuridiche soltanto parzialmente affini come il Diritto Costituziona-le 16, il richiamo alle proprie origini storiche e culturali, pare non solo

12 Sul punto cfr. l. de luca, voce Diritto ecclesiastico, in Enc. dir., vol. XII, Giuffré, Milano, 1964, p. 977, il quale ricorda che «il diritto ecclesiastico – nel senso di diritto dello Stato relativo a materie ecclesiastiche – presuppone non solo il di-sconoscimento del principio che la Chiesa sia l’unica fonte capace di dettare norme giuridiche in materie da essa ritenute ecclesiastiche, e, quindi, di propria esclusiva competenza, ma presuppone altresì in modo imprescindibile l’emancipazione del diritto positivo dal diritto divino quale autenticamente dichiarato dalla Chiesa».

13 Cfr. M. Tedeschi, Sulla scienza del diritto ecclesiastico cit., p. 45. 14 Cfr. c. MiraBelli, Diritto ecclesiastico e comparazione giuridica, in c. Mira-

Belli, f. MarGioTTa BroGlio, f. onida, Religioni e sistemi giuridici. Introduzione al diritto ecclesiastico comparato, il Mulino, Bologna, 1997, p. 30.

15 Cfr. P. fedele, Il problema dello studio e dell’insegnamento del diritto cano-nico e del diritto ecclesiastico in Italia, in “Arch. Dir. Eccles.”, 1939, pp. 50 ss.; Id., Ancora sullo studio e l’insegnamento del diritto canonico e del diritto ecclesiastico, in “Arch. Dir. Eccles.”, 1940, pp. 390 ss.

16 Si veda il Decreto Ministeriale 29 luglio 2011 n. 336, relativo alla “Deter-minazione dei settori concorsuali, raggruppati in macrosettori concorsuali, di cui

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opportuno ma direi necessario per riaffermare l’autonomia scientifi-ca ed epistemologica della nostra bella materia.

all’articolo 15. Legge 30 dicembre 2010, n. 240”, con cui, all’interno dell’area 12 - Scienze Giuridiche, si è artificiosamente creato il macrosettore denominato “12/C - Diritto Costituzionale ed Ecclesiastico”. Si tratta di una soluzione che non tiene adeguatamente conto della poliedricità del diritto ecclesiastico che, al di là della for-te componente costituzionalistica, presenta riferimenti anche significativi con altre branche del diritto quali, ad esempio, il diritto privato. Sul punto mi sia consentito di rinviare a M. ferranTe, Diritto ecclesiastico - Diritto privato: ossimoro o sineste-sia?, in Diritto civile e diritti speciali. Il problema dell’autonomia delle normative di settore, Giuffré, Milano, 2008, pp. 219-41.

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A proposito di una nuova definizione del Diritto ecclesiastico

A proposito di una nuova definizione del Diritto ecclesiastico

di GiusePPe Gullo

Il seminario nazionale su Diritto e Religioni, svoltosi a Pisa il 30 mar-zo 2012, ha permesso di interrogarsi sulla concreta attualità di quel ramo della scienza giuridica catalogata sotto la denominazione di “di-ritto canonico e diritto ecclesiastico” (in riferimento al s.s.d. IUS/11).

Partendo dal presupposto secondo cui al continuo evolversi del-le dinamiche socio-religiose, ha fatto seguito un conseguente muta-mento della disciplina del diritto ecclesiastico (quale strumento di regolamentazione statale del fattore religioso), con il proliferare di diverse materie che si sono via via aggiunte al settore disciplinare di cui sopra. È per queste ragioni che si giustificava il confluire dell’in-tera materia del diritto ecclesiastico nel più grande settore del diritto costituzionale (s.s.d. IUS/12).

Non altrettanto solerte, questa sembra la preoccupazione che si coglie dal dibattito, è risultato l’adeguamento dell’altro ramo del di-ritto che, al pari di quello ecclesiastico, definisce i rapporti con il sentimento religioso della stragrande maggioranza della nostra po-polazione, ossia il diritto canonico.

Si proponeva, quindi, di rivisitare la ormai obsoleta denomina-zione di Diritto ecclesiastico, ritenuta non più adeguata, in una più moderna espressione di Diritto e Religione, lasciando intendere che, altrimenti, si rischierebbe di regolamentare in maniera inadeguata gli ormai complessi fenomeni religiosi presenti nel nostro sistema giu-ridico. I sostenitori di tale orientamento facevano leva sulla conside-razione secondo cui le istituzioni statali hanno come diretti interlo-cutori gli organi rappresentativi delle rispettive confessioni religiose, ragion per cui non si potrebbe continuare a ridimensionare sotto la dicitura “diritto ecclesiastico” la complessa disciplina dei diversi in-teressi religiosi della collettività.

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Giuseppe Gullo

Crediamo, però, che la semplice sostituzione del termine “eccle-siastico” con “religione” non possa fungere da soluzione alla que-stione sollevata dell’attuale complessità dello studio dei diversi pro-fili che la religione assume nella società moderna.

Non si può prescindere dalla oggettiva difficoltà che il significato del termine “religione” comporta, specie se si pensa al necessario riferimento all’altro cardine di riferimento della materia (diritto). Senza voler sollevare riflessioni di carattere di teoria generale sul di-ritto si potrebbe più semplicemente alimentare un qualche rilievo sul carattere confessionale della singola comunità religiosa che di volta in volta viene in contatto con l’ordinamento interno.

Il diritto ecclesiastico, anche nei suoi aspetti di studio storico e politico dei rapporti tra Stati e singole confessioni religiose, è stato caratterizzato da molteplici punti di contatto con le fonti degli ordi-namenti che reciprocamente si integrano nel nostro ordinamento. Vi è quasi una sorta di naturale predisposizione, all’interno della ma-teria, per lo studio di tali rapporti secondo una pluralità di sistemi e modelli organizzativi, il tutto senza perdere di vista le peculiari caratteristiche e la consapevolezza della propria autonomia e rego-lamentazione.

Non sono mancate, come detto, nuove materie che si sono inserite nel settore disciplinare in questione, le quali hanno di certo contri-buito a valorizzare lo studio comparatistico di questa disciplina am-pliandone il quadro culturale e formativo generale. Va detto però che il progredire della cooperazione e dell’integrazione politica e giuri-dica europea, il recuperato ruolo nazionale delle religioni in alcuni paesi, nonché la diffusione del pluralismo di valori e del multicultu-ralismo, hanno reso meno definiti i confini nazionali delle chiese e delle confessioni religiose.

Si potrebbe pensare, allora, di modificare non la denominazione della disciplina ma il suo contenuto, ampliandone la portata in modo da approfondire i suoi metodi di insegnamento e diffusione nei modi che si riterranno più confacenti alle mutate esigenze della società. Avendo sempre come punto di riferimento la consapevolezza di es-sere l’unico strumento per studiare ed analizzare quel settore dell’or-

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A proposito di una nuova definizione del Diritto ecclesiastico

dinamento giuridico di ogni singolo Stato che regola il fenomeno religioso.

È stata avanzata l’idea, semmai, di aggiungere, accanto alla di-zione “diritto ecclesiastico” lo specifico riferimento alla qualifica di “civile” o “statale” per non confonderlo con il diritto confessionale delle singole comunità religiose 1.

Con la nuova proposta di denominazione della materia, ci si pri-verebbe, inoltre, dello specifico riferimento al ramo del diritto con-fessionale costituzionalmente garantito e che storicamente ha da sempre caratterizzato i rapporti tra Stato e Chiesa.

Così facendo si correrebbe il rischio di far confluire l’intero settore disciplinare della materia in un più ampio contesto (quale quello co-stituzionale), col rischio di perdere la propria autonomia scientifica.

1 F. MarGioTTa BroGlio, Religioni e sistemi giuridici. Introduzione al Diritto ecclesiastico comparato, il Mulino, Bologna, 1997, p. 5.

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Brevi note esperienziali didattiche

Brevi note esperienziali didattiche

di Manlio Miele

1. Sull’insegnamento del Diritto canonico - 2. Sull’insegnamento del Diritto ecclesiastico - 3. Sull’impatto pratico del Diritto ecclesiastico

1. Mi limito qui ad alcune notazioni piuttosto pratiche, derivanti dalle esperienze d’insegnamento ormai pluriennali. Ho parlato di «esperienze», al plurale. Questo sottende il fatto che ho avuto modo di insegnare girando in tutte le sedi universitarie del Nordest, ecce-zion fatta per Trento e Trieste; in sedi di fondazione sia antica che contemporanea 1. Inutile dire che, in riferimento al settore scientifico disciplinare Ius/11, le diverse sedi esprimono esigenze ed inclina-zioni diverse; queste dipendono da molteplici variabili. Alcune sono interne all’apparato universitario, come il peso della tradizione, la personalità degli antichi docenti, l’orientamento dei comitati fonda-tori nel caso degli atenei di recente creazione. Altre variabili, corri-spondenti ad altrettanti elementi d’influenza, sono invece esterne e hanno a che fare con la situazione politica, sociale, culturale del luo-go dove si svolge l’insegnamento. Non va nascosto poi che non sono affatto mancati, nel caso di sedi universitarie nate sul fondamento di convenzioni con enti privatistici, i desiderata di tali enti. Il fatto che non siano mancati, non significa che siano stati di per sé assecondati.

Comprendendo Ius/11 sia il Diritto canonico che il Diritto ec-clesiastico, occorre premettere qualche considerazione sul rispet-tivo rilievo nell’ambito dei piani di studio da me incontrati. Dopo l’instaurazione della laurea quinquennale in Giurisprudenza, infatti,

1 La sede trevigiana della Facoltà di Giurisprudenza nasce nel 2000. Subito vi venivano attivati i due insegnamenti di Ecclesiastico e Canonico.

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Manlio Miele

il Diritto canonico diventava obbligatorio a Padova, a Treviso e a Udine. Il Diritto ecclesiastico assumeva la veste di insegnamento fa-coltativo e obbligatoriamente attivato 2. A Verona i due insegnamenti venivano addirittura accorpati in un unico modulo da 6 crediti, con la denominazione «Diritto canonico ed ecclesiastico», nella quale non è inderogabile né l’uno né l’altro.

Sull’insegnamento del Diritto canonico nell’Università dello Stato posso dire qualcosa di storicamente e geograficamente delimi-tato. Il Nordest, infatti, viene o veniva ritenuto una zona geografica fortemente religiosa e cattolicamente caratterizzata, ciò che poteva influire sull’interesse verso una materia confessionalmente determi-nata. I rilevamenti più recenti, però, evidenziano una realtà diversa, specie a livello di giovani generazioni. Nel Triveneto, degli apparte-nenti alla fascia d’età che va dai 18 ai 29 anni, dichiarano d’essere «cattolici senza riserve» il 6,6% degli intervistati 3. Il commentatore nota come «un’analisi più raffinata, condotta tra chi ha un’età com-presa tra 18 e 26 anni, che possiamo considerare cioè “figli”, e chi una compresa tra 48 e 56, che possiamo ritenere come “genitori”, dice in sostanza che tutti gli indici di religiosità non solamente dimi-nuiscono, ma si dimezzano. E ciò interessa tutte le dimensioni della religiosità» 4.

Comunque sia, del Diritto canonico il programma stesso viene im-postato con un metodo sostanzialmente positivo, coincidente con la bipartizione diritto costituzionale-diritto matrimoniale. Il riscontro è stato vario, ma non sono mancati gli studenti che, in sede di valutazio-ne, hanno chiesto per quale motivo, in una facoltà di Giurisprudenza statale, fosse obbligatorio uno specifico diritto confessionale. Certo non siamo ai livelli di difficoltà incontrati da Giambattista Pertile pochi anni dopo l’unificazione nazionale e raccontati dal professor

2 A Udine, sin dall’inizio, venne attivato solo l’insegnamento di Diritto canonico prima e di Istituzioni di diritto canonico poi.

3 V. a. casTeGnaro, Una prospettiva individuale, in “Il Regno-att.”, 57 (2012), p. 131. La rilevazione è stata effettuata dall’Osservatorio socio-religioso triveneto in occasione di un convegno ecclesiastico tenutosi ad Aquileia dal 12 al 15 aprile 2012.

4 Ivi, p. 132.

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Falchi nel suo recente saggio sulla soppressione del corso autono-mo di Diritto canonico del 1875 5. Altri studenti infatti, più riflessivi, confrontandosi col docente, condizionavano la valenza formativa della materia alla sua impostazione in termini di teoria generale e di ricostruzione storica degli istituti, con un riferimento storico-critico costante al sistema delle fonti; ciò che comporta un’attenzione parti-colare, se non esclusiva, al I libro del Codex. Questo, personalmente, ritengo il motivo fondante della giustificazione dell’insegnamen-to del Diritto canonico, per di più obbligatorio, in un Ateneo dello Stato 6. Solo riflettendo specialmente sul I libro credo sia possibile, in relazione al complesso normativo canonico, percepire poi le «due dimensioni congiunte: la costanza della tradizione, il consolidarsi del mutamento» 7.

A favore di una simile convinzione stanno diverse circostanze.Una è, per così dire, accidentale, e riguarda l’opportunità di raf-

forzare ulteriormente la sensibilità culturale degli studenti odierni, generalmente ostili alla Storia, per il fraintendimento secondo cui

5 In una nota del Preside patavino, datata 1 novembre 1873, relativa al corso di Diritto canonico, si dice: «non vengono bene disposti oggidì i nostri giovani ad udirlo, fattone a loro un dovere. Troppo si disse, e si fece in conformità al detto, nel pubblico e nelle stesse università contro il diritto canonico ed il suo insegnamento obbligatorio ai laici, che ormai la posizione del Prof.re è resa difficile». F. Falchi, La soppressione del corso autonomo di Diritto canonico delle Facoltà giuridiche di-sposta dal ministro Bonghi nel 1875, in www.statoechiese.it (cit. da p. 34 dell’estr.).

6 Riscontro speculare nella parole di M. VenTura, Diritto ecclesiastico, in Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, a cura di A. Melloni, il Mulino, Bologna, 2010, I, p. 735: «Il metodo storico-critico è apparso obsoleto e inadatto ad esprimere la specifica vocazione ecclesiale del diritto canonico; è venuta imponendosi quella dogmatica teologica su cui il pontificato giovanneo-paolino ha concepito e costruito la coesione della comunità ecclesiale del terzo millennio. Il linguaggio del diritto è ormai praticabile, nel “diritto ecclesiale”, solo a prezzo di una purificazione che lo restituisca al suo habitat teologico. La virata ha compor-tato una profonda crisi nella scuola laica italiana che si è fatta ormai residuale nel panorama della canonistica internazionale e che rischia l’emarginazione nell’ambito degli studi giuridici secolari».

7 P. Grossi, Valori e limiti della codificazione del diritto (con qualche annota-zione sulla scelta codicistica del legislatore canonico), in “Jus”, 52 (2005), p. 358.

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questa comporterebbe uno sforzo mnemonico inutile in relazione a date, nomi etc., e non costituisca invece un elemento fondante per approfondire «il mutamento istituzionale sotto il profilo interdisci-plinare» 8. Studiare la storia degli istituti canonici significa, anche, penetrare lo «sviluppo della civiltà giuridica occidentale» 9.

Un’altra circostanza, certo disputabile, riguarda i caratteri della legislazione canonica, e del Codex del 1983 in particolare, succes-sivamente alle riforme postconciliari. Facendo un passo indietro, in uno scritto – a mio avviso tuttora significativo – del 1937, Andrea Piola aveva a motivare l’insegnamento del Diritto canonico nelle università di Stato, tra l’altro, con una citazione nella quale Vincenzo Del Giudice – sotto il Codex del 1917 – segnalava essere quello ca-nonico un «ordinamento d’alta perfezione tecnica» 10. Ora, in riferi-mento ai libri diversi dal I, si ha l’impressione che l’universo concet-tuale, ma anche la tecnica costruttiva del Codex del 1983, appaiono agli studenti (di Giurisprudenza) come esotici a causa proprio di quei caratteri che la scienza canonica – generalmente – vorrebbe qualifi-care come peculiari e originali del diritto postconciliare. Si potreb-bero fornire molteplici esempi di una siffatta difficoltà.

Così, prendendo uno dei primi manuali usciti dopo il 1983, scrit-to con una terminologia giuridica, sarebbe indubbiamente appagante poter approfondire, sia in sede di lezione che di accertamento, i «prin-cipi canonici del Vaticano II», esposti dal Lombardia con rara acri-bia 11. Tuttavia va tenuto conto di quanto ammette lo stesso Autore, e cioè che quei principi, i quali asseritamente sono fondamento del Codex, si «presentano nei documenti conciliari con uno scarso grado

8 F. MarGioTTa BroGlio, Diritto canonico e scienze umane, premessa a G. le Bras, La Chiesa del diritto, il Mulino, Bologna, 1976, p. XXVII.

9 Come ricorda S. ferrari, Diritto delle religioni, in Dizionario del sapere stori-co-religioso del Novecento cit., I, p. 714.

10 A. Piola, Diritto ecclesiastico, diritto canonico e diritto concordatario, in “Studi sassaresi”, XV (1937), p. 9 estr. L’Autore auspicava «l’inclusione del diritto canonico fra gli “insegnamenti fondamentali”». Ivi, p. 10.

11 P. loMBardia, Lezioni di diritto canonico, ed. it. a cura di G. lo casTro, Giuffré, Milano, 1985, pp. 36-40.

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di formalizzazione, poiché non era proposito dell’assemblea sinoda-le offrire testi redatti secondo la tecnica legislativa» 12. Parimenti, la categoria della pastoralità, così come viene comunemente riferita al Codex, pone problemi di effettiva comprensione. Infatti, nell’imma-ginario diffuso, pastorale sembrerebbe un carattere alquanto etero-geneo rispetto al dato giuridico 13.

Questo carattere, espresso con un termine polivalente 14, risulte-rebbe però irrinunciabile, come dimostra il fatto che, anche quando se ne denuncia la possibile equivocità, lo si definisce «elemento co-stitutivo essenziale» della legislazione canonica 15. Le tensioni sotte-se al binomio diritto-pastorale 16, che probabilmente hanno una certa parentela con la discussione talvolta polemica sulla pastoralità del Vaticano II, si riflettono sui dati esperienziali che gli studenti ricava-no dal contatto personale con l’ordinamento canonico vivente. Questi sembrano – il più delle volte – assai lontani dai dati teorici esponibili in relazione all’ordinamento vigente, facendo apparire quello che è stato chiamato anche «lo scarto tra il diritto scritto e il diritto pratica-to nella vita delle comunità» 17.

12 Ivi, pp. 37-8.13 Forse è riflesso di tale diffusa percezione il tentativo di identificare la categoria

(negativa) del pastoralismo, che consisterebbe nel sostituire le soluzioni giuridiche con quelle (pretese) pastorali. Cfr. J. herVada, Pensamientos de un canonista en la hora presente, Navarra Gráfica Ediciones, Pamplona, 20042, p. 15 e passim.

14 E. Baura, Pastorale e diritto nella Chiesa, in PonTificio consiGlio Per i Te-sTi leGislaTiVi, Vent’anni di esperienza canonica, 1983-2003, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 2003, p. 164-7.

15 J. Herranz, «Salus animarum», principio dell’ordinamento canonico, in Id., Giustizia e pastoralità nella missione della Chiesa, Giuffré, Milano, 2011, p.191.

16 Emblematico, sul tema, il contributo di A. Borras, Rôle et signification du droit canonique dans la pastorale, in “Revue théologique de Louvain”, 40 (2009), p. 360-81.

17 C. FanTaPPiè, Diritto canonico codificato, in Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento cit., I, p. 695. Ad esempio, una efficace tutela dei diritti dei fedeli – pur proclamati – appare, nell’ordinamento canonico, tuttora insufficiente. Cfr. I. Zuanazzi, Praesis ut prosis. La funzione amministrativa nella diakonía della Chiesa, Jovene, Napoli, 2005, pp. 662 ss.

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Ancora, la ricostruzione storica sembrerebbe avere il pregio di far apparire in tutta la sua complessità una questione ermeneutica fonda-mentale, non accademica ma effettiva: quella del rapporto tra Codice e Vaticano II. Rapporto che, studiato alla luce delle norme generali del I libro del Codex, può forse concorrere egregiamente a formare un’attitudine correttamente critica, in grado di superare i limiti di quel positivismo che da molti viene additato come il pericolo fonda-mentale nello studio del Diritto canonico. Del resto, proprio nel pri-mo libro stanno i criteri interpretativi generali della legge canonica, tra i quali la mens legislatoris, e non va dimenticato che «la corretta spiegazione canonistica dei canoni può chiarire quali convinzioni teologiche il legislatore abbia considerato degne di una traduzione giuridica e quali no» 18. Specialmente nei periodi di riforma, non è possibile separare l’ordinamento positivo dalla sua storia, coglierne lo stabile ed il mutante, interrogare le fonti con l’uso di una «seria cultura storico-giuridica» 19.

Piola, nello scritto citato, non ometteva di riportare altri contribu-ti al dibattito sui contenuti dell’insegnamento canonico, con Arturo Carlo Jemolo che auspicava una cattedra con «carattere eminente-mente storico: storia della formazione e della evoluzione del diritto della Chiesa, esegesi delle sue fonti, storia dell’apporto che il diritto canonico e i canonisti hanno recato alla formazione del diritto comu-ne e del diritto codificato nei vari Paesi, storia dei rapporti tra Stato e Chiesa» 20. Inutile dire che, per quanto penso, la ricostruzione storica degli istituti canonici sia ancor più significativa – e formativa – nel-lo Studio di Padova, ateneo nel quale per secoli era organicamente inserito il consultore in jure e nel quale l’insegnamento del Diritto canonico era segnato da forti accenti nazionali: fin nei manuali ot-tocenteschi si riscontra la tendenza ad esporre il Diritto canonico

18 N. lüdecke, Studium Codicis, schola Concilii, in “Il Regno-att.”, 51 (2006), p. 348.

19 M. VisMara Missiroli, Diritto canonico e scienze giuridiche, Cedam, Padova, 1998, p. 204.

20 A. Piola, Diritto ecclesiastico, diritto canonico e diritto concordatario cit., p. 13.

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nazionale 21. Quest’ultimo impone di riflettere sullo svolgimento diacronico delle fonti e sull’obiettivo intersecarsi di diritto (talvolta preteso) universale e diritti particolari, tema centrale nel conflitto set-tecentesco sulla cattedra patavina di Diritto pubblico ecclesiastico 22.

L’impostazione storica consentirebbe anche di evitare un dilem-ma tutto interno alla libertà d’insegnamento. Se sia cioè possibile te-nere indenni gli studenti dal dibattito sulla c.d. “specificità del Diritto canonico”, dibattito che secondo qualcuno da un lato sarebbe «ad un punto morto», ma che, dall’altro, comunque presenterebbe il merito di aver contribuito «ad approfondire non solo le proprietà dell’ordi-namento canonico, ma il senso del diritto in quanto tale, dando una spallata decisiva al positivismo giuridico che in un modo più o meno inconscio era considerato anche all’interno della Chiesa semplice-mente il diritto» 23. Se gli studenti dell’università dello Stato doves-sero essere informati su tale specificità, come sempre s’è cercato di fare, questo di per sé non comporterebbe una svalutazione del meto-do giuridico acquisito nei corsi istituzionali relativi al diritto statuale, la cui «mentalità propria», secondo qualcuno, potrebbe addirittura «essere nociva nel campo del diritto canonico» 24.

2. Il Diritto ecclesiastico, a livello di manuali adottati, ha mantenuto l’impostazione in termini prevalenti di studio dei rapporti tra enti sovrani; quell’impostazione nella quale è centrale, se non esaustivo, l’esame esegetico dell’art. 7 Cost. D’altro canto la parte speciale ha

21 F.E. adaMi, La manualistica italiana di diritto ecclesiastico tra fine ’800 ed inizi del ’900, in La costruzione di una scienza per la nuova Italia: dal diritto ca-nonico al diritto ecclesiastico, a cura di G.B. Varnier, Eum, Macerata, 2011, p. 86, nota 3.

22 Basti qui P. PreTo, voce Fabbro Angelo Antonio, in Dizionario biografico de-gli italiani, 43, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1993, p. 667-9.

23 Così V. de Paolis, Il ruolo della scienza canonistica nell’ultimo ventennio, in PonTificio consiGlio Per i TesTi leGislaTiVi, Vent’anni di esperienza canonica 1983-2003 cit., p. 152.

24 Così Z. Grocholewski, L’insegnamento del Diritto canonico dopo la promul-gazione del Codice del 1983, in PonTificio consiGlio Per i TesTi leGislaTiVi, La legge canonica nella vita della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 2008, p. 129.

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riguardato, fino a qualche tempo fa, esclusivamente il matrimonio concordatario, e ciò sul presupposto che questa sia, in loco, la for-ma maggioritaria di legame matrimoniale. A dire il vero gli studenti, messi di fronte all’alternativa di una parte speciale relativa agli enti confessionali o religiosi, dimostravano il loro forte interesse, se non altro perché alcuni argomenti usualmente molto menzionati (onlus, enti non profit), trovano poi scarso riscontro di trattazione in ambito accademico.

Ma soprattutto la realtà sociale del Triveneto, i conflitti là esi-stenti e in qualche modo collegati col fenomeno religioso, le proble-matiche derivanti dal venir meno del monolitismo confessionale, si riflettevano sull’insegnamento del Diritto ecclesiastico, in occasione delle domande di spiegazione rivolte dagli studenti dopo le lezioni, nel corso di pubbliche conferenze organizzate dal docente o all’atto della richiesta della tesi di laurea. Le domande degli studenti, quelli costituenti il classico ‘piccolo gruppo’ più partecipe, dimostravano, in genere, scarso interesse per i profili relativi ai c.d. “rapporti inte-rordinamentali” e maggiore attenzione per l’inveramento dei diritti di libertà e di eguaglianza in campo religioso. A suscitare siffatto interesse non erano questioni di dogmatica giuridica, ma fatti della realtà socio-politica contemporanea e, moltissime volte, locale. Da tale punto di vista devo dire che l’attitudine politica locale in campo religioso, negli ultimi anni, ha fornito molto materiale di discussione, di confronto e di studio durante il corso di Diritto ecclesiastico; in un certo senso direi che – rispetto agli anni in cui frequentavo i corsi da studente – ne ha determinato, o a concorso a determinarne, il mu-tamento dell’oggetto materiale preponderante. Ciò che conferma il rilievo, fatto già anni or sono, della «forte pressione della realtà per-sonale e sociale, composita e pluralista, che nel trasformarsi impone nuove regole, nuovi strumenti didattici e conoscitivi, nuove forme di organizzazione» 25.

25 A. BeTTeTini, La riforma dell’insegnamento universitario e prospettive dell’in-segnamento del diritto ecclesiastico, in L’insegnamento del Diritto ecclesiastico nelle università italiane, a cura di M. Parisi, ESI, Napoli, 2002, p. 35.

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E così, la questione dei simboli religiosi negli spazi pubblici o la problematica, se tale sia, degli abiti femminili religiosamente ispirati, entrava nelle discussioni correnti alla fine delle lezioni (o nella deter-minazione del titolo della tesi) non perché una qualche corte italiana o europea se ne occupasse, o perché fosse pendente nel Parlamento nazionale un qualche disegno di legge, ma perché diversi sindaci fa-cevano oggetto del proprio potere di ordinanza prescrizioni in tali materie. Neppure destavano particolare interesse gli accenni confes-sionali dello statuto regionale o le proposte dell’assessore regionale tendenti a rendere obbligatorio l’insegnamento della religione catto-lica in tutte le scuole della Regione «per motivi culturali». Capitava invece che, in occasione di una conferenza tenuta dal sottosegretario agli Interni sullo statuto giuridico dell’Islam in Italia 26, intervenisse uno studente islamico a chiedere precisazioni, o perlomeno quelle possibili, sul fatto che i numerosi islamici presenti nella provincia di Treviso siano sforniti di edifici di culto adeguati; e sul fatto che sia loro inibito pure l’uso di aree pubbliche. E poiché i politici intervista-ti in sede locale si avvalgono della c.d. clausola di reciprocità, talché le migliaia di islamici regolari che lavorano in Provincia dovrebbero vedersi riconosciuto il diritto agli edifici di culto, o più semplice-mente il diritto di pregare in pubblico o in luogo aperto al pubblico, «purché ciò sia consentito anche a noi a casa loro», gli studenti hanno condotto il corso di Diritto ecclesiastico verso un’analisi rigorosa dei diritti fondamentali, della loro valenza alla stregua del diritto interno, delle convenzioni internazionali e del diritto internazionale generale e, soprattutto, delle condizioni per la loro applicabilità diretta.

Va anche detto che in questa circostanza ho potuto riscontrare una generale sensibilità verso il tema – speculare al precedente – del-la salvaguardia del diritto di libertà religiosa all’interno dei gruppi confessionali e delle famiglie che vi aderiscono. Questo interesse, evidentemente, ha a che fare con l’esperienza delle scuole superio-ri, la composizione multiculturale delle cui classi consente contatti

26 «Islam italiano: problemi giuridici aperti», Conferenza dell’on. Alfredo Mantovano, Treviso, 13 marzo 2009.

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con atteggiamenti genitoriali differenti e non sempre improntati alla sensibilità verso la libertà religiosa o anche solo culturale dei figli minorenni. Destava pure molto interesse il seminario sul concetto di laicità 27, tema impervio ma prontamente recepito, nei suoi pro-fili critici, dagli studenti; ai quali in altri corsi, tra l’altro, era stata presentata come scontata la distinzione giuridica tra laicità e laici-smo. Il seminario conduceva gli studenti di Diritto ecclesiastico ad interrogarsi ed a interrogare sull’esistenza di criteri giuridici, e non ideologici, che consentano di riconoscere ciò che è laicità e ciò che è laicismo, giungendo da soli alla contestualizzazione storico-geogra-fica del concetto 28.

In sostanza, gradatamente e nel volgere di alcuni anni, ci si è ac-corti di come, in riferimento al Diritto ecclesiastico, l’interesse con-tenutistico sia mutato in un senso meno attento a quelli che potrem-mo definire ‘rapporti di vertice’, e mutando si sia invece spontane-amente rivolto verso reali situazioni di conflitto e di dissenso, quasi a conferma che proprio di queste la disciplina dovrebbe occuparsi 29.

Nei contatti con gli studenti dedicati agli approfondimenti, ad anno accademico inoltrato, si è potuto notare come probabilmente, anche nell’Italia di oggi, un corso di Diritto ecclesiastico debba prin-cipiare – per dir così – dalla «grammatica» di cui all’art. 19 Cost. e 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, se non altro perché identificare quando una fede sia religiosa, e non ad es. politica o calcistica, ha delle ovvie conseguen-ze concrete, generalmente toccanti una delle sfere più intime della persona. D’altro canto non si può neppure – ancor prima – non de-dicare adeguato spazio all’interpretazione di quel tutti dell’art. 19 Cost., se già in sede di Assemblea costituente ci si chiedeva se una simile espressione non fosse così «astratta nella sua latitudine» da

27 «La laicità o le laicità», Conferenza del professor Francesco Margiotta Broglio, Treviso, 13 dicembre 2010.

28 Cfr. S. BerlinGò, Presentazione, in Diritto e religione in Italia, a cura di S. doMianello, il Mulino, Bologna, 2012, p. 13.

29 E. ViTali, Il Diritto ecclesiastico oggi, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di E. dolcini e C.E. Paliero, Giuffré, Milano, 2006, III, p. 2989.

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rischiare di essere priva «di un destinatario preciso» (Ruggiero) 30. In materia, particolarmente, non apparirebbe sufficiente, o comunque utile, presentare «i modelli teorici» come «avulsi dalle loro ragioni genetiche» 31. E sulla crescente importanza concreta dell’art. 9 della Convenzione cit., specialmente a partire dal 1993, nonché sulle rela-tive motivazioni, si veda il recente saggio di Silvio Ferrari 32.

3. Ora un accenno a due fatti concreti: le discussioni sull’offerta didattica relativa ad un possibile nuovo corso di laurea di giurista d’impresa e le esperienze della partecipazione alle commissioni degli esami di libera avvocatura. Entrambi sembrano poter essere fonte di alcune osservazioni, forse utili.

Del tutto cortesemente, i colleghi della Facoltà che hanno discus-so, e discutono, di questo nuovo possibile corso di laurea in giurista d’impresa, presso la sede trevigiana, hanno coinvolto il docente di Ius/11, per vedere di impostare in qualche modo forse non proprio un diritto ‘relativo alle religioni’, quanto agli enti («associazioni o istituzioni») che perseguono un fine di religione o di culto, ai sensi dell’art. 20 Cost. Ciò, se non altro, perché molte volte siffatti enti svolgono pure attività commerciali; ma anche perché identificare i confini del non profit è operazione correlata alla fissazione dei con-fini del profit. L’osservazione per la quale la materia che va sotto il nome di ‘Diritto ecclesiastico’ dovrebbe già occuparsi di siffatti enti, non ha avuto un successo completo o, meglio, non ha avuto lo stesso successo della proposta, fatta in via residuale dal docente di Ius/11, relativa ad un corso – non derogabile – di ‘diritto degli enti non com-merciali’; proposta, questa, subito accettata da tutti. Io non so se il fatto particolare debba ingenerare nel docente un caso di coscienza relativo alla pertinenza a Ius/11 di una simile disciplina; va però rile-

30 Atti dell’Assemblea costituente, sed. 20.03.1947, p. 2276.31 M. ricca, Diritto e religione. Per una pistemica giuridica, Cedam, Padova,

2002, p. 202.32 S. ferrari, La Corte di Strasburgo e l’articolo 9 della Convenzione europea.

Un’analisi quantitativa della giurisprudenza, in Diritto e religione in Europa, a cura di R. Mazzola, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 27 ss.

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vato come il semplice mutamento di denominazione, in rapporto ad una materia che poteva tranquillamente trattarsi nella parte del corso di Diritto ecclesiastico relativa agli enti ecclesiastici, abbia ricevuto un’accoglienza universalmente favorevole in un nuovo piano di studi dichiaratamente concepito come alternativa maggiormente appetibi-le per le nuove generazioni. Anche in questo caso, si è sperimentato che i nomi costituiscono un «processo di costruzione dell’identità», come è stato osservato in rapporto alla determinazione del settore non profit 33.

E ora qualche considerazione derivante dalle esperienze nelle commissioni d’esame per l’accesso alla libera avvocatura. Come noto, in questa sede il Diritto ecclesiastico è materia di libera scelta, considerata dai candidati assolutamente marginale rispetto a quelle ritenute più importanti; la conseguenza è che, come materia ritenuta ‘leggera’, la scelgono tutti. E poiché per i candidati è congiunzione astrale sfavorevole che in commissione vi sia un docente di Diritto ecclesiastico, l’interrogazione in genere viene effettuata a turno dai singoli commissari. Questo determina, sul piano oggettivo, uno svi-limento (e una cattiva fama) della materia, visto che troppe volte i candidati riferiscono di domande o talmente generiche da rientra-re nell’ambito della cultura giornalistica, o talmente periferiche da sfiorare il ridicolo 34. La prassi è indice, almeno così sembra, di una sofferenza della materia, e questa sofferenza pare investire i capisaldi dell’antico Diritto ecclesiastico italiano. Pur dovendosi aggiungere che, sempre negli esami d’avvocatura, sorte non migliore capita allo

33 G.P. BarBeTTa, f. MaGGio, Nonprofit, il Mulino, Bologna, 20082, p. 17.34 Cfr. già V. Tozzi, L’insegnamento del Diritto ecclesiastico nell’Università ita-

liana, in L’insegnamento del Diritto ecclesiastico nelle Università italiane cit., p. 26. Il Diritto ecclesiastico non è stato escluso dagli esami per l’accesso alla libera avvocatura, ma il trattamento che in quella sede (generalmente) subisce, sembra avere a fondamento quanto notato dall’Autore: «Ciò accade per ignoranza delle nuove frontiere problematiche cui esso si adopera e nella errata convinzione che la riduzione di importanza dei suoi ambiti scientifici precedentemente rilevanti (il matrimonio e gli enti ecclesiastici) costituisca un’attenuazione dell’esigenza di pro-fessionalità degli operatori sui temi del diritto ecclesiastico in generale».

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stesso Diritto costituzionale, non può non osservarsi come, profes-sionalmente, mentre è socialmente scontata la figura ad es. del pe-nalista o del tributarista, stenta (per eufemismo) a delinearsi invece quella dell’ecclesiasticista. Se esiste, egli è professionalmente chia-mato o ad occuparsi di questioni di ius antiquum (interessanti quanto rarissime) o ad affrontare direttamente casi sempre più infrequenti relativi ad enti o a matrimoni canonici trascritti. Gli sembra mag-giormente consono, invero, fungere da supporto verso altri profes-sionisti (avvocati, notai, commercialisti) nella soluzione di specifici aspetti occasionali (ecclesiasticità di un ente, legale rappresentanza, controlli canonici etc.) o anche verso le pubbliche amministrazioni. Tuttavia, per queste ultime, bisogna distinguere. Le amministrazio-ni statali sono, ovviamente, guidate secondo il principio gerarchico, nel quale lo studioso periferico difficilmente si inserisce, eccezion fatta per eventuali contenziosi, nei quali egli interviene professio-nalmente. Le amministrazioni locali, invece, seguono sovente strade frammentarie, tortuose, anche attraverso il c.d. «“bilaterale confu-so” (spesso troppo sensibile ad esigenze localistiche)» 35; e, talvolta, strade dichiaratamente ostili all’inveramento del principio di libertà religiosa o di laicità delle istituzioni pubbliche. La cosa è anche più preoccupante quando, a sostegno di siffatte iniziative, si invoca il principio di sussidiarietà, palesemente strumentalizzato in funzione antiunitaria e, soprattutto, concepito come svincolato da limiti, col pericolo delle violazione del principio della parità di trattamento 36. In questi casi gli ecclesiasticisti vengono accuratamente evitati.

Questa funzione negativa, quasi di impedimento e comunque cri-tica degli studiosi di Diritto ecclesiastico, in materia di diritti fonda-mentali, sembra concorrere a demarcare ulteriormente l’autonomia scientifica della disciplina e confermarne l’«utilità» 37.

35 E. ViTali, Il Diritto ecclesiastico oggi cit., p. 2987.36 Cfr. N. colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose, il Mulino,

Bologna, 2006, p. 217.37 S. doMianello, L’utilità pratica del «Diritto ecclesiastico civile» come scien-

za, in Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano, a cura di G.B. Varnier, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, p. 287-302. Cfr. anche S. BerlinGò, Diritto

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Adottando un paradigma meno stringente in relazione alle finalità professionali 38, gli studenti di Giurisprudenza sembrano chiedere, e chiederci, come ci si debba accostare in modo adeguato agli artt. 7 e 8 Cost.; ovviamente, in un modo oggi adeguato. Questa domanda di adeguatezza, che il più delle volte emerge in occasione dell’esa-me, si deve notare acuta sull’art. 7, soprattutto in riferimento ad una ‘sovranità’ formulata quando, nella gerarchia delle fonti, mancavano pressoché totalmente quelle europee e comunitarie; e quando, con il termine ‘sovranità’, si credeva probabilmente di esprimere esaustiva-mente il concetto di potere supremo su un dato territorio in rapporto a certe materie 39. La discussione in sede costituente nella sessione del 21 novembre 1946, che vide come protagonisti tra altri Dossetti e Basso, è tutta pervasa dal convinto presupposto che qualunque li-mitazione alla sovranità statale sia sempre conseguenza di un’auto-limitazione 40. Sarebbe interessante provare a leggere l’art. 7 Cost. attraverso la mediazione di chi del potere sovrano, del suo esercizio e del suo funzionamento – e dunque della sovranità e delle limita-zioni ad essa –, ha fatto da tempo una lettura critica, tanto da parlare di «eclissi della sovranità» 41. Questa comporta l’abbandono di una concezione monistica e l’assunzione di un quadro pluralistico, nel quale lo Stato è ormai «incapace di essere un unico e autonomo cen-tro di potere, il soggetto esclusivo della politica, il solo protagonista nell’arena internazionale» e in cui «la pienezza del potere statuale, indicata appunto dalla sovranità, sta venendo meno, per cui lo Stato

interculturale: istruzioni per l’uso di un ecclesiasticista-canonista, in “Daimon”, 8 (2008), dove l’Autore configura una «specifica attitudine» dell’ecclesiasticista-canonista ad «indagare su quel non-luogo che è rinvenibile in tutti i luoghi dell’u-mana esistenza e delle relazioni interpersonali», parlando di una «frontiera [...] del non-diritto che non è definibile una volta per tutte, e che, per altro, interpella conti-nuamente il diritto perché precisi, individui e garantisca i suoi presidi» (ivi, p. 47-8).

38 Cfr. M. ricca, Diritto e religione cit., pp. 212 ss. 39 M. ricca, Metamorfosi della sovranità e ordinamenti confessionali, Giappi-

chelli, Torino, 1999, pp. 28 ss.40 G. dosseTTi, La ricerca costituente (1945-1952), a cura di A. Melloni, il

Mulino, Bologna, 1994, pp. 208 ss.41 N. MaTTeucci, Lo Stato moderno, il Mulino, Bologna, 1997, p. 97.

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Brevi note esperienziali didattiche

si è quasi svuotato e scomparsi i suoi confini» 42. Questa stessa lettura esigerebbe il rigetto della convinzione secondo cui l’apertura al dirit-to comunitario ed internazionale costituirebbe una sorta di cessione ad una sovranità esterna, dovendosi invece sostenere che «la sogge-zione, laddove se ne abbia in concreto riscontro, dello stesso diritto costituzionale (e, discendendo, del diritto da questo derivato) al di-ritto internazionale consuetudinario ed al diritto comunitario non co-stituisce affatto una menomazione del primo ma, all’inverso, la sua piena realizzazione» 43. Lasciando sullo sfondo il quesito vertiginoso di uno studente acuto durante una lezione sull’art. 7 Cost.: se, cioè, la sovranità appartenga allo Stato, come per il medesimo articolo, o al popolo, come recita l’art. 1 Cost. 44.

Che dire poi della c.d. globalizzazione, parola popolarissima per non essere utilizzata sia dai nostri studenti che dai nostri tesisti. Paolo Grossi ne ha fatto oggetto di una lectio articolata 45, dalla qua-le, forse un po’ immaginosamente, su più punti ho provato a trarre conseguenze per il diritto ecclesiastico italiano e per la disciplina che lo studia. Quando si dice, ad esempio, che «globalizzazione significa deterritorializzazione […] significa anche primato dell’economia a tutto detrimento della politica; di più, significa eclisse dello Stato e della sua espressione più speculare, la sovranità» 46. O quando ancora si sottolinea come «il diritto della globalizzazione rifugge dalla te-stualità» 47. Siamo sicuri che queste meditazioni si riferiscano solo al diritto privato, come qualcuno potrebbe obiettare? Anche così fosse, potrebbe comunque insinuarsi il sospetto che, durante le lezioni, si

42 Ivi, p. 97-8.43 A. ruGGeri, “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, XI, Studi del-

l’anno 2007, Giappichelli, Torino, 2008, p. 38-41.44 Cfr. lo stesso interrogativo posto da P. Grossi, Brevi riflessioni sull’art. 7 del-

la Costituzione, in Sovranità della Chiesa e giurisdizione dello Stato, a cura di G. dalla Torre, P. lillo, Giappichelli, Torino, 2008, p. 20.

45 P. Grossi, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in Paolo Grossi, a cura di G. alPa, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 190-210.

46 Ivi, p. 195.47 Ivi, pp. 190, 200-4.

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parli di una sovranità dello Stato che più non esiste, o che comunque non esiste nei contenuti presupposti allora dal Costituente.

Nella realtà, ogni ulteriore anno d’insegnamento fa sperimenta-re «l’effetto delle dinamiche europee sul diritto ecclesiastico... nel senso di evidenziare l’inadeguatezza di quell’approccio church and state verso i rapporti tra politica, diritto e religione» 48, con ciò pro-vandosi che «la tutela delle libertà religiose non è più un problema di diritto interno dei singoli Stati nazionali, ma diviene sempre più oggetto dell’attenzione delle sedi sovranazionali nelle quali questi coordinano le proprie politiche» 49.

Egualmente, sull’art. 8 Cost. e sul meccanismo delle intese, non sfugge il fatto che aggregazioni religiose numericamente rilevanti in Italia, come quelle degli islamici e dei testimoni di Geova, ne pre-scindono; ragion per cui ci si interroga sulla funzionalità effettiva della disposizione costituzionale e del meccanismo delle intese, an-che se gli studenti non arrivano all’acribia terminologica e a dipinge-re il fenomeno come a quello delle «intese fantasma» 50.

Di fatto gli studenti, figli del loro tempo, si dimostrano sensibili a problematiche meno legate all’eredità storica tipicamente italiana; quelle problematiche, per intenderci, connesse alla Questione roma-na, alla presenza della Sede petrina nella nostra penisola, all’organiz-zazione del patrimonio ecclesiastico. Si viene interrogati, invece, e si prende posizione, in un senso o nell’altro, sui limiti della presenza dei gruppi religiosi nello spazio pubblico; sul fondamento delle di-sposizioni tributarie derogative; sull’applicazione in materia religio-sa del principio di eguaglianza, non mancando uno studente pensoso che chiedesse quale sia il rapporto vero tra il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost. e l’«egualmente libere» dell’art. 8,

48 M. VenTura, Diritto ecclesiastico e Europa. Dal church and state al law and religion, in Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano cit., p. 197-8.

49 V. Tozzi, Le fonti del diritto ecclesiastico italiano, in G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto ecclesiastico europeo, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 69.

50 Secondo la definizione di A. alBiseTTi, Le intese fantasma, in www.statoe-chiese.it.

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quasi intuendo di quest’ultimo una natura ‘compromissoria’ 51; sui limiti che può offrire l’art. 19 Cost. riguardo ai fondamentalismi; e, abbastanza significativo, su come possa essere tutelato nel nostro or-dinamento un ‘diritto all’indifferenza’, che evidentemente è qualco-sa di diverso dal diritto all’ateismo. Possiamo forse dubitare che la maggiore attenzione verso la «tutela della libertà religiosa nel quadro delle dichiarazioni internazionali per la protezione dei diritti umani» – chiesta ancora in anni passati rispetto ad «un’eccessiva insistenza sulla considerazione costituzionale e sulla sovranità dello Stato» 52 – non porti ad includere tra i diritti umani quello di credere ad essi, o anche solo di farne oggetto d’insegnamento, essendo indifferenti rispetto al loro fondamento?

In sostanza sembrerebbe percepibile, anche al livello dei discenti, il «riassetto del diritto di libertà religiosa all’interno del testo costi-tuzionale», visto che «la perdita di centralità della disciplina pattizia rispetto all’assetto di garanzia della libertà positiva e dei diritti fon-damentali potrebbe avere l’effetto di riorientare la disciplina stessa verso la centralità di altri principi accanto alla libertà religiosa, come quello del pluralismo e della tutela delle minoranze» 53.

Tale riassetto subisce il fascino che sa suscitare il diritto giuri-sprudenziale, nella sua dialettica con le produzioni dottrinali, che oramai non sono più ristrette all’ambito esclusivamente nazionale 54. Il diritto giurisprudenziale europeo, con i suoi meccanismi formativi affatto peculiari rispetto alla tradizione nazionale 55, appare come una

51 Cfr. G. Taddei, Confessioni prive di intesa, libertà religiosa e principio di eguaglianza, in Diritti, nuove tecnologie, trasformazioni sociali. Scritti in memoria di Paolo Barile, Cedam, Padova, 2003, p. 762.

52 P. loMBardía, Il rapporto tra Diritto canonico e Diritto ecclesiastico, in Storia e dogmatica nella scienza del Diritto ecclesiastico, Giuffré, Milano, 1982, p. 77.

53 G. anello, Modelli di scrittura normativa e dinamica concordataria, Cedam, Padova, 2004, p. 61.

54 Cfr. R Mazzola, Introduzione. La dottrina e i giudici di Strasburgo. Dialogo, comparazione e comprensione, in Diritto e religione in Europa cit., pp. 9 ss.

55 Ivi, p. 11: «come evidenzia efficacemente de Vergottini, il lavoro istruttorio e conoscitivo della Corte di Strasburgo comprende, tra l’altro, anche il riscontro e l’analisi della dottrina, in modo da consentire al giudicante di “farsi una idea di”».

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forma attraverso la quale, a livello europeo, si costruisce il diritto costituzionale 56.

56 Cfr. G. Macrì, Evoluzione ed affermazione del diritto fondamentale di libertà religiosa nell’ambito della “comunità sovranazionale” europea, in La libertà reli-giosa in Italia, in Europa e negli ordinamenti sovranazionali, a cura di G. Macrì, Università degli Studi di Salerno, Dipartimento di teoria e storia delle istituzioni giuridiche e politiche nella società moderna e contemporanea, Salerno, 2003, p. 69, nonché M. Parisi, Affermazione di principi in materia religiosa nella giurispruden-za delle Corti di Strasburgo e del Lussemburgo, in G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione, Plectica, Salerno, 2011, pp. 109 ss.

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Diritto ecclesiastico: il futuro dipende dalle origini

Diritto ecclesiastico: il futuro dipende dalle origini

di GiusePPe riVeTTi

1. Diritto ecclesiastico o Diritto canonico, attività formative di base nel nuovo corso di laurea magistrale in Giurisprudenza: sviluppi e prospettive - 1.2. Le discipline canonistiche ed ecclesiasticistiche tra postmodernità ed incerta codificazione dei saperi - 1.3. Le parole del Diritto

1. Diritto ecclesiastico o Diritto canonico, come noto, nell’attuale Corso di laurea magistrale in Giurisprudenza, sono stati qualificati come “attività formative indispensabili” ed inseriti nel ristretto nove-ro delle “attività formative di base”, per effetto del D.M. 25 novem-bre 2005 1.

Un riconoscimento formale di rilievo fondato, evidentemente, sul presupposto che contribuiscano alla formazione di base del giurista, assicurando l’acquisizione di conoscenze e competenze di carattere generale, richieste per lo svolgimento del successivo percorso for-mativo. Una qualificazione indubbiamente importante, nell’attuale strutturazione dei piani di studio delle Università italiane, in conti-nuità con la prestigiosa tradizione 2 e le innovative prospettive di svi-

1 In G.U. n. 293 del 17 dicembre 2005. Il Decreto Ministeriale ha strutturalmen-te rideterminato i regolamenti didattici degli Atenei italiani, relativamente ai nuovi corsi di studio, a partire dall’anno accademico 2006/2007.

2 Per una riflessione sulla prestigiosa tradizione, nella totalità degli atenei italia-ni, si rinvia agli atti del convegno, in corso di pubblicazione, Gl’insegnamenti del diritto canonico ed ecclesiastico a centocinquant’anni dall’Unità, promosso dalla Facoltà di Giurisprudenza e dal Dipartimento di storia, filosofia del diritto e diritto canonico dell’Ateneo di Padova e dall’A.D.E.C. (Padova, Palazzo del Bo, 27-29 ottobre 2011). In particolare gli interventi di s. Gherro, f. MarGioTTa BroGlio, r. BerTolino, V. Tozzi, M. VenTura, e. ViTali. Le relazioni di l. Musselli, Atenei di Genova, Padova, Pavia, Milano Statale, Milano Cattolica, Torino, Trieste; f.e.

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luppo delle Scienze canonistiche ed ecclesiasticistiche. Ad ulteriore conferma, con il D.M. 29 luglio 2011, Determinazione dei settori concorsuali 3, è stata ribadita l’autonomia concorsuale del corrispon-dente settore disciplinare, poiché, con riferimento alle nuove decla-ratorie, nell’ambito del macrosettore Diritto costituzionale ed eccle-siastico (12/C), è stato previsto il settore autonomo (12/C2: Diritto ecclesiastico e Diritto canonico), distinto dall’altro settore (12/C1: Diritto costituzionale) 4.

Nessuna diminuzione, quindi, o confluenza per affinità scientifica in altri settori disciplinari, comunque, importanti ma non fisiologi-camente strutturati per cogliere, nella loro complessità, sensibilità e sfumature interordinamentali, proprie della tradizione giuridica e

adaMi, Atenei di Bologna, Ferrara, Modena, Parma; a. TalaManca, Atenei di Ca-gliari, Camerino, Firenze, Macerata, Perugia, Pisa, Roma, Sassari, Siena, Urbino; o. condorelli, Atenei di Bari, Catania, Messina, Napoli, Palermo; G. feliciani, Esperienze canonistiche nell’università italiana nel secolo XX; G.B. Varnier, Line-amenti e contenuto di un diritto relativo alle religioni; s. ferrari, Quale futuro per il diritto ecclesiastico e canonico? Una riflessione attraverso l’esame di manuali e riviste degli ultimi cento anni; s. doMianello, Dove va la Storia: forme tradizionali e nuovi contenuti della ricerca scientifica e degli insegnamenti di diritto canonico ed ecclesiastico.

3 Si tratta di macrosettori concorsuali, di cui all’articolo 15, legge 30 dicembre 2010. V., inoltre, Parere espresso dal C.U.N. in data 4 novembre 2009, n. 7, in rela-zione alla definizione di un modello di revisione dei settori scientifico-disciplinari ed all’utilizzo di tale modello per le procedure di abilitazione e progressione di car-riera o reclutamento (parere espresso dal C.U.N nell’adunanza del 10 marzo 2011); schema di decreto trasmesso con nota prot. n. 1497 del 3 marzo 2011; d.l. 16 maggio 2008, n. 85, convertito, con modificazioni, dalla l. 4 luglio 2008, n. 121; l. 19 no-vembre 1990, n. 341; l. 15 maggio 1997, n. 127 ed, in particolare, l’art. 17, commi 95, 99 e 102; il d. 30 luglio 1999, n. 300, e succ. mod.; l. 16 gennaio 2006, n. 18, con riferimento art. 2, comma 1; l. 30 dicembre 2010, n. 240, recante norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento e, in par-ticolare, gli artt. 15 e 16; D.M. 4 ottobre 2000 e successive modifiche e integrazioni, concernente la rideterminazione e l’aggiornamento dei settori scientifico-disciplina-ri e definizione delle relative declaratorie.

4 I limiti numerici (dei professori ordinari), rispetto ai quali il nostro settore sem-bra in difficoltà, rappresenta una preoccupazione che attraversa la quasi totalità dei settori disciplinari.

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culturale della scienza del Diritto ecclesiastico. Al riguardo l’auto-nomia e soprattutto l’espresso richiamo del “Diritto ecclesiastico” nella stessa denominazione formale del macrosettore, assume un va-lore simbolico/strutturale, poiché sottende il riconoscimento di chiari profili identitari.

Nel contempo vengono delineati dal Ministero i confini della nostra disciplina che nelle sue linee programmatiche e funzionali, secondo il richiamato D.M. 29 luglio 2011, comprende «l’attività scientifica e didattico-formativa degli studi relativi alla disciplina giuridica del fenomeno religioso, anche nella prospettiva comparati-stica, sia all’interno dell’ordinamento statuale, sia negli ordinamenti confessionali, con particolare riferimento a quello della Chiesa cat-tolica. Gli studi attengono, altresì, alla storia del diritto canonico, alla storia e sistemi dei rapporti tra Stato e Chiesa, al diritto comparato delle religioni e si estendono ai profili di rilevanza giuridica dei feno-meni di pluralismo etico e religioso».

Delimitazione di massima entro la quale possiamo/dobbiamo, na-turalmente, inserire «tematiche altre», per sfuggire un pericoloso iso-lamento, in un tempo in cui talune rigidità ottocentesche sembrano essere venute definitivamente meno; il sapere scientifico, infatti, si attraversa e nessuna disciplina «può bastare a sé stessa».

All’interno delle richiamate tematiche, non vanno trascurate le problematiche relative al superamento delle logiche Stato-nazione che impongono la riconsiderazione di un nuovo orizzonte, all’interno del quale veniamo sollecitati ad affrontare problemi inattesi. Nuovi scenari che ridefiniscono il complesso rapporto tra Stati e religioni, poiché i tradizionali soggetti nazionali, secondo alcuni, si presentano inadeguati per esprimere identità e gruppi sociali. Del resto il cosid-detto modello di «territorialità moderna», coincidente con la costitu-zione di spazi esclusivi, sembra essere entrato in crisi, nel momento in cui gli Stati non sono più riusciti ad esaurire al loro interno, a cau-sa di reciproche interdipendenze, tutte le correlate problematiche 5.

5 Tuttavia non ritengo si possa parlare di un completo superamento degli Stati nazionali poiché l’ordinamento internazionale, per certi versi, sembra caratterizzato

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1.2 Per effetto delle citate disposizioni di riordino dell’ordinamen-to universitario, molte materie sono state compresse o “depresse” nell’autonomia (didattica/concorsuale), ma non hanno intonato il De profundis e ascoltano, con un certo sgomento, i discorsi relativi alla imminente fine, sotto diverse forme, della nostra disciplina.

Di conseguenza, a mio avviso, il ricorso in atto, alle tradizionali forme di liturgie per i defunti, celebrate in ogni ricorrenza, appare

ancora da incertezze ed in molte applicazioni appare privo di effettività. In dottrina, Diritto e religione in Europa. Rapporto sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di libertà religiosa, a cura di r. Mazzola, il Mulino, Bologna, 2012; a. licasTro, Il diritto statale delle religioni nei paesi dell’Unione europea. Lineamenti di comparazione, Giuffrè, Milano, 2012; M. luGli, J. Pasquali cerioli, i. PisTolesi, Elementi di diritto ecclesiastico europeo, Giappichelli, Torino, 2012; Le confessioni religiose nel diritto dell’Unione Europea, a cura di l. de Gre-Gorio, il Mulino, Bologna, 2012; G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto ecclesiastico europeo, Laterza, Bari-Roma, 2006, pp. 48 ss.; G. dalla Torre, Verso un diritto ecclesiastico europeo? Annotazioni preliminari sulla Costituzione UE, in “Quad. dir. e pol. eccl.”, 2005, 2, pp. 399-412; f. MarGioTTa BroGlio, c. MiraBelli, f. oni-da, Religioni e sistemi giuridici. Introduzione al diritto ecclesiastico comparato, il Mulino, Bologna, 2004; P. floris, L’Unione e il rispetto delle diversità, in Scritti in onore di Anna Ravà, a cura di c. cardia, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 421 ss.; s. BerlinGò, Il «cammino» e le «radici»: riflessioni su di una «nuova» missione della «vecchia» Europa, in “Quad. dir. pol. eccl.”, 2005, 2, pp. 361 ss.; Chiesa cattolica ed Europa centro-orientale. Libertà religiosa e processo di democratizzazione, a cura di a.G. chizzoniTi, Vita e Pensiero, Milano, 2004; G. ciMBalo, Europa della regioni e confessioni religiose, Giappichelli, Torino, 2002.; V. Marano, Unione Europea ed esperienza religiosa, in “Dir. Eccl.”, 2001, 3, pp. 862-904.

Su tutto la problematica della libertà religiosa, poiché è superfluo ricordare che laddove quest’ultima non sia garantita, non potrà prosperare nessuna libertà civile. I problemi della libertà religiosa, infatti, si dilatano fino a toccare il problema di ogni libertà e di ogni diritto, in dottrina, o. fuMaGalli carulli, Matrimonio ed enti tra libertà religiosa e intervento dello Stato, Vita e Pensiero, Milano, 2012; M. Jasonni, Alle radici della laicità, Il Ponte, Bologna, 2008, pp. 37 ss.; La coesistenza religiosa nuova sfida per lo Stato laico, a cura di G.B. Varnier, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008; c. cardia, Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo, islam, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 147 ss.; P. Picozza, G. riVeTTi, Religione, cultura e diritto tra globale e locale, Giuffrè, Milano, 2007; Problematiche attuali del diritto di libertà religiosa, a cura di e. ViTali, Cuem, Milano, 2005, p. 155.

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quanto meno prematuro e, forse, inopportuno, anche se è giusto ri-flettere sul ruolo della materia 6, non confidando molto sui mutevoli (e per questo inaffidabili) orientamenti ministeriali.

D’altra parte le preoccupazioni si fondano su domande alle quali difficilmente riusciamo a dare risposte, se non partendo da alcune considerazioni che interessano l’Università nel suo complesso 7, ed assumendo come presupposto condiviso, la necessità di avviare una rilettura/ revisione dei contenuti strutturali della disciplina, in un tem-po governato da mutamenti che non possono lasciarci indifferenti.

La proliferazione di nuovi saperi non codificati e per questo im-mediatamente più affascinanti, salvo poi scoprirne la corrispondente fragilità strutturale, all’interno di un rapporto, sempre più sbilanciato tra pensiero debole e tecnologia forte, dove il sapere finisce per essere sempre più confinato in uno spazio tecnicistico, mortificano l’anima umanistica dell’ Università, all’interno della quale possiamo natural-mente inserire i nostri insegnamenti. Di conseguenza, quest’ultima rischia di essere declassata al ruolo di custode sonnolenta e impro-duttiva di un passato glorioso cui tributare qualche atto di ossequio saltuario e indolore ed alla quale destinare una quota minima di spese di manutenzione, sul presupposto che non abbia più nulla da offrire al nostro futuro. Parole che attraversano il nostro sistema universita-

6 M. ricca, Pantheon, Torri del Vento, Palermo, 2012; s. ferliTo, Le religioni il giurista e l’antropologo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005; Il nuovo volto del diritto ecclesiastico, a cura di G.B. Varnier, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004.

7 Nell’attuale contesto universitario «il giovane che con l’inizio del corso acca-demico entri per la prima volta nel mondo delle scienze, quanto più ha sensibilità e inclinazione per la totalità, tanto meno ha lo possibilità di ricevere un’impressione diversa da quella di un caos in cui non riesce a distinguere alcunché, o di un vasto oceano, nel quale si vede trasportato senza bussola e senza stella polare», F.W.J. schellinG, Lezioni sul metodo accademico (1803), tr. it. di C. Tatasciore, Guida, Napoli 1989, p. 63. In questo modo, ricorda L. Alici, si aprivano le magistrali lezioni sul metodo accademico che si riferiscono al severo e ordinato ambiente accademico tedesco del primo Ottocento, recentemente richiamate da l. alici, Tra Universitas e Multiversity, dove comincia il futuro. Prolusione, Università di Macerata (2012). Considerazioni interamente sovrapponibili, nella forma e nella sostanza, all’attuale sistema universitario.

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rio e riecheggiano (inascoltate) nelle sempre più tristi inaugurazioni accademiche, rispetto agli annunci sistematici di tagli e riduzioni di risorse 8.

La dimensione giuridica, inoltre, si misura con la dimensione glo-bale e la modernità con tutte le sue rassicuranti applicazioni sembra irreversibilmente segnare il passo rispetto ad un plurale/postmoderno privo di riferimenti 9, in cui la scienza giuridica perde le sue forme (e in questa crisi, per certi versi, manifesta tutto il senso di una pro-messa tradita) 10.

8 l. alici, Tra Universitas e Multiversity cit. In un tempo, peraltro, sottolinea ancora l’A., che pretende di parlare di futuro e di innovazione nell’epoca dei “post”: postmoderno, postsecolare, ecc.

9 Diritto e religione in Italia. Rapporto nazionale sulla salvaguardia della libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, a cura di s. doMianello, il Mulino, Bologna, 2012; a. alBiseTTi, Tra diritto ecclesiastico e diritto canonico, Giuffrè, Milano, 2008; M. Tedeschi, Multireligiosità e reazione giuridica:contributi congressuali, in Multireligiosità e reazione giuridica, a cura di a. fuccillo, Giap-pichelli, Torino, 2008, pp. 11-28; G. casuscelli, Dal pluralismo confessionale alla multireligiosità: il diritto ecclesiastico e le sue fonti nel guado del post-confessioni-smo, ibidem, pp. 61-80; s. Bordonali, Le istanze religiose di fronte ai meccanismi di produzione giuridica, in “Dir. eccl.”, 2005, 1, pp. 81-97.

10 Per questo motivo «il vocabolo crisi sta ad indicare nella sua radice etimologi-ca una armonia che si scioglie, una stabilità che cede al mutamento». Saldezza e si-stematicità giuridica che lasciano spazio a fragilità ed approssimazioni, riconducibili agli stessi processi di produzione del diritto, P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico (1860-1950), Giuffrè, Milano, 2000, p. 275; s. BerlinGò, L’ultimo diritto, Giappichelli, Torino, 1998, pp. 190 ss.

Tutte variabili che costituiscono per il giurista del Ventunesimo secolo una peri-colosa tentazione: considerare definitivamente superata la cultura giuridica del No-vecento, sul presupposto che la postmodernità abbia ridisegnato un mondo nuovo, fondato su dinamiche, a volte, inespresse che la modernità non solo non intuisce ma addirittura non capisce. Non tutto è condivisibile. Del resto di fronte alle difficoltà del presente, come non pensare a quelle straordinarie figure di studiosi che ci hanno preceduto ed hanno attraversato (con naturalezza) notevoli cambiamenti: la caduta di un regime, la nascita di un nuovo sistema democratico, il trapasso istituzionale del sistema monarchico, l’avvento della Repubblica ed, infine, l’introduzione di una nuova Carta costituzionale che ha disegnato un nuovo affresco istituzionale ed un nuovo sistema giuridico (e non sembrano aver scontato la fatica dell’innovazione),

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In tale scenario, le tensioni che attraversano il nostro settore disci-plinare potrebbero essere ricondotte ad una naturale crisi identitaria che, a mio avviso, attraversa la quasi totalità dei settori disciplinari, generata dall’evidente senso di smarrimento del giurista moderno, posto improvvisamente di fronte ad una realtà fluida/liquida che per questo destruttura e disorienta; sullo sfondo la crisi delle fonti del diritto con le sue, conseguenti, incerte applicazioni.

In alcuni casi, si aggiunga, inoltre, un progressivo abbandono della dimensione giuridica di riferimento, sempre più sommersa da passioni che rischiano di sacrificare categorie e forme giuridiche. Di contro «il diritto non è la filosofia, il diritto ha una funzione pratica e la costruzione giuridica ha la finalità ultima di dare una regola di vita, di stabilire delle normae agendi» 11.

Del resto, sono stati numerosi gli spunti provenienti da autore-voli e qualificati studiosi della nostra disciplina, che hanno saputo, di recente, indicare percorsi raffinati ed innovativi, anche se questo non vuol dire, necessariamente, partire dalle macerie (il nuovo non comincia mai da zero ed il futuro, spesso, dipende dalle origini) 12.

La cultura giuridica vive di continuità e nella continuità. I Maestri del passato rimandano temi, indicano delle strade, ci spingono più avanti. In altre parole ci sono momenti in cui continuiamo a dialo-gare con loro ed in alcune circostanze riusciamo a cogliere l’essenza delle loro argomentazioni, sviluppiamo, con la consapevolezza del presente, nuovi percorsi ed improvvisamente il loro pensiero appare attuale, in qualche modo, a noi contemporaneo.

G. riVeTTi, Attilio Moroni, un giurista dal tratto rinascimentale, in La costruzione di una scienza per la nuova Italia: dal diritto canonico al diritto ecclesiastico, a cura di G.B. Varnier, Eum, Macerata, 2011, pp. 280-1. In proposito l’opera di f. MarGioTTa BroGlio, Religione, diritto e cultura giuridica nell’Italia del Novecento, a cura di a.G. chizzoniTi, G. Mori, il Mulino, Bologna, 2012.

11 In tal senso, a.c. JeMolo, Confessioni di un giurista, in Pagine sparse di di-ritto e storiografia, scelte e ordinate da L. Scavo Lombardo, Giuffré, Milano, 1957, pp. 168 ss.

12 h.-G. GadaMer, La filosofia nella crisi del moderno, Herrenhaus, Milano, 2000, p. 43.

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1.3. Il giurista moderno appare tormentato da molteplici preoccu-pazioni: spesso il linguaggio nasconde il pensiero e «molti mettono insieme un imponente apparato di parole lunghe e composte, di in-tricati fioretti retorici, di sterminati periodi, di espressioni nuove e inaudite, il che costituisce nel suo complesso un gergo per quanto possibile arduo e dall’apparenza assai erudita. Con tutto ciò tuttavia essi non dicono nulla: da loro non si riceve alcun pensiero, non ci si sente accresciuta la propria visione del mondo, e si deve sospirare: Odo il suono del mulino, ma non vedo la farina» 13.

Peraltro, la grammatica e le corrispondenti parole del diritto, in diverse circostanze,appaiono improprie ed inadeguate, caratterizzate da oscillazioni semantiche che, in alcuni casi, denotano poca consa-pevolezza delle categorie giuridiche sottese.

Al contrario le parole (del diritto) andrebbero scelte con prudenza e misurate sulla base di una antica disciplina ed armonia (perduta), in un tempo in cui i diritti soggettivi sono sempre più in via di estinzio-ne e gli effetti si amplificano a dismisura, senza confini.

In tale ambito, si potrebbe suggerire di dismettere il comodo uso di parole cangiati (che cambiano colore) e per questo adatte ad ogni contesto e recuperare le forme ed i valori sottesi, di quella tradizio-ne giuridica sapientemente orientata verso le prospettive 14 (e non

13 a. schoPenhauer, La filosofia delle università (1851), tr. it. di G. Colli, Adelphi, Milano, 1992, p. 49.

14 Lo spazio pubblico europeo diventa il luogo cui ricondurre molte delle con-siderazioni sviluppate in precedenza. Al riguardo proprio le differenze linguistiche, spesso trascurate, risultano estremamente importanti poiché creano consapevolezze concettuali in grado di valorizzare quelle diversità e soprattutto capaci di tradurre diritto. Le lingue non sono neutre, esprimono categorie proprie, si pensi al concetto di laicità che la lingua francese esprime molto bene un significato legato al contesto nazionale, ma difficilmente traducibile in altre lingue, se non ricorrendo con lunghe perifrasi. Ancora quando si parla di liberté in Francia, di regola, il riferimento sot-tende diritti garantiti dallo Stato, in Inghilterra, si richiama, invece, una limitazione del ruolo del potere pubblico nei rapporti con i privati. In definitiva non è solo un problema linguistico ma di traduzione di fondamentali parole che rimandano a va-lori e principi in grado di influenzare e condizionare le forme giuridiche, poiché «quello che caratterizza ogni lingua sono gli equivoci che essa contiene, gli equivoci

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Diritto ecclesiastico: il futuro dipende dalle origini

esclusivamente gli effetti) che l’opera e la tecnica del giurista può generare.

caricano di senso le parole di una lingua nel suo senso tecnico e politico» (e giuridi-co). Le parole del diritto ecclesiastico europeo restano, quindi, una delle variabili più importanti, tenuto conto della richiamata esistenza di diverse gradazioni di rapporti rispetto a simboli ed appartenenze religiose, cui corrispondono diverse ipotesi di soluzioni, G. riVeTTi, Spazio pubblico e religioni. Prospettive di superamento della dicotomia pubblico-privato nelle manifestazioni del sacro, Comunicazione inviata al Convegno nazionale di studio (organizzato dall’A.D.E.C. e tenutosi a Bari il 17-18 settembre 2009) sul tema Laicità e dimensione pubblica del fattore religioso. Stato attuale e prospettive, destinata ad essere pubblicata negli atti del Convegno.

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Il contributo della scienza del Diritto ecclesiastico

Il contributo della scienza del Diritto ecclesiastico al «farsi» dell’ordinamento giuridico

di MarTa TiGano

1. Necessità di un ampliamento del «contenuto tipico» della materia - 2. Il «paradigma» offerto dal diritto canonico - 3. La «funzione eminente» dell’ecclesiasticista - 4. Il diritto ecclesiastico come «formante»

1. Da diversi anni ormai, presso i cultori del diritto ecclesiastico, viene avvertita l’esigenza di rinnovare la rappresentazione a fini di-dattici della disciplina giuridica civile del fenomeno religioso, per il tramite del superamento degli schemi classici offerti dai tradizionali manuali a tale materia espressamente dedicati 1.

Tale esigenza, da una parte della dottrina, viene percepita come autentico disagio quando si tratta di perpetuare l’uso della stessa de-nominazione “Diritto ecclesiastico”, in quanto eccessivamente evo-cativa dell’epoca in cui lo studio del fenomeno si esauriva, più che altro, nella disciplina delle relazioni Stato italiano - Chiesa cattolica così come si erano venute delineando dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, per sostituirla con la dizione, certamente più attraente ed accattivante, di “Diritto e religione” 2.

1 In questo senso si esprimono G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione, Plectica, Salerno, 2011, p. 7.

2 Tale esigenza, peraltro, ha dato luogo alla pubblicazione di alcuni volumi che recano nel titolo la dizione “Diritto e religione”. Oltre al sopracitato lavoro, si fa ri-ferimento a P. consorTi, Diritto e religione, Laterza, Roma-Bari, 2010; L. Musselli, Diritto e religione in Italia e in Europa. Dai concordati alla problematica islamica, Torino, 2011; M. ricca, Diritto e religione. Per una pistemica giuridica, Cedam, Padova, 2002; nonché, da ultimo, Diritto e religione in Italia, a cura di S. doMia-nello; Diritto e religione nell’Islam mediterraneo, a cura di A. ferrari; Diritto e religione in Europa, a cura di R. Mazzola, il Mulino, Bologna, 2012, pubblicati

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Ora, non vi può essere dubbio sul fatto che la società civile sia profondamente mutata rispetto all’epoca in cui venne coniato, per la nostra materia, il nomen di “Diritto ecclesiastico”. I fenomeni del multiculturalismo, della globalizzazione e dell’integrazione europea, solo per fare alcuni esempi, se, da un lato, hanno avuto il pregio, tra gli altri, di riportare il tema della libertà religiosa al centro dei dibatti-ti pubblici; dall’altro lato, hanno gettato una luce sull’esigenza di un cambiamento o, meglio, di un ampliamento e di un’apertura dei tra-dizionali contenuti della disciplina alle “novità” che si registrano nel mondo esterno, alle “nuove” problematiche, ai “nuovi” interrogativi, alle “nuove” domande di libertà. Si pensi, ad esempio, alle proble-matiche legate all’Islam, alla bioetica, alle c.d. “mobili frontiere” 3, al «no profit», rispetto alle quali, già da diversi anni, alcune esperienze didattiche hanno avvertito l’esigenza di affiancare i classici manuali adottati come libri di testo con alcuni saggi o veri e propri studi mo-nografici al fine di colmare i vuoti di interi settori.

A questo proposito, anzi, merita senz’altro attenzione il fatto che la produzione scientifica più recente si dimostra particolarmente sen-sibile ai problemi indotti, ad esempio, dalla dimensione europea, dal-la crisi delle sovranità nazionali, dal federalismo, dal regionalismo e dalla devolution, dalla mondializzazione, dalle «nuove libertà», dai codici e dai comitati etici e dalla interculturalità 4; e, al tempo stesso, mostra l’attitudine ad una ripresa innovativa ed aggiornata delle te-matiche di tradizionale appannaggio della disciplina: dai concordati al matrimonio, dagli enti ecclesiastici e non lucrativi alla tolleranza religiosa, dalla laicità alla libertà religiosa nei suoi profili sincronici

con il finanziamento del Progetto nazionale Prin 2007 dal titolo “Libertà religiosa e pluralismo giuridico nell’Europa multiculturale: paradigmi di integrazione a con-fronto”, rispettivamente dalle Università degli Studi di Messina, dell’Insubria (sede di Como), Firenze e Torino.

3 Così G. dalla Torre, La città sul monte. Contributo ad una teoria canonistica sulle relazioni fra Chiesa e Comunità politica, AVE, Roma, 2007³, pp. 35 ss.

4 Fra i più recenti si segnalano: f. alicino, f. BoTTi, I diritti cultural-religiosi dall’Africa all’Europa, Giappichelli, Torino, 2012; F. freni, La laicità nel biodiritto, Giuffré, Milano, 2012.

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e diacronici, dai conflitti di lealtà innestati dalla adesione ad una cre-denza o convinzione di coscienza ai rapporti fra diritto internazionale e diritto ecclesiastico 5.

Il «nuovo volto»6 dell’odierno diritto ecclesiastico risulta così es-sere un mix fra tradizione ed innovazione: lascia intravedere un’uti-le apertura a nuovi orizzonti tematici, un’ansia di percorrere nuove strade e di affrontare ricerche d’avanguardia, senza tuttavia disto-gliere lo sguardo dal fil rouge che consenta di interpretarli secondo le modalità più «coerenti» con l’identità frattanto assunta nell’ambito disciplinare che ci è proprio 7.

2. Non vi può essere nemmeno dubbio sulla circostanza per cui all’e-sigenza di apportare alcune modifiche o, meglio, integrazioni ai con-tenuti tipici della materia, in un certo senso «interni» alla disciplina, dovrebbe accompagnarsi, simultaneamente, un ampliamento anche «esterno» alla stessa individuato, da attenta dottrina, in un dialogo a più voci tra i pubblici poteri e quelle minoranze religiose che spesso rimangono nelle retrovie, o che, ancora più spesso, vengono parame-trate secondo gli schemi delle «confessioni religiose» di cui agli artt. 7 e 8 Cost. 8

In Italia, infatti, come è stato osservato, «le denominazioni di in-dividuazione dei diversi tipi di organizzazioni collettive a carattere religioso vengono spesso confuse, in quanto l’interpretazione dottri-nale e giurisprudenziale resta modellata sul fenomeno dei rapporti

5 Per citarne solo alcuni: G. dalla Torre, P. lillo, G.M. salVaTi, Educazione e religione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2011; D. durisoTTo, Edu-cazione e libertà religiosa del minore, Jovene, Napoli, 2011; nonché i due volumi di A. fuccillo, Giustizia e religione, Giappichelli, Torino, 2011.

6 L’espressione è presa in prestito da Il nuovo volto del diritto ecclesiastico ita-liano, a cura di G.B. Varnier, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004.

7 Cfr. S. BerlinGò, «Passata è la tempesta»? Il «diritto ecclesiastico» dopo la riforma universitaria: riflessioni ex post factum, in G.B. Varnier, op. cit., p. 79.

8 Cfr. V. Tozzi, Normative contrattate fra le confessioni religiose e lo Stato ed esigenze di una legge generale dello Stato di disciplina delle libertà religiose, in G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, op. cit., pp. 131 ss.

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Stato-Chiesa e legata agli schemi della sovranità (della Chiesa cat-tolica), dell’autonomia originaria o derivata (degli altri gruppi)» 9.

Questa impostazione, infatti, finisce con l’assimilare «fenomeni diversi, salvo poi operare classificazioni e gerarchie all’interno del genus», e col «discriminare i gruppi meno potenti ovvero politica-mente insignificanti» 10.

Si trascura, così, la circostanza che «la Costituzione parla di con-fessioni religiose – quale categoria istituita dall’art. 8, 1° comma, e rimandante all’art. 7 –, ma anche di associazioni o istituzioni a carattere religioso o con fine di culto o di religione (art. 20); e della più ampia e omnicomprensiva categoria delle forme associate di pro-fessione di fede religiosa di cui all’art. 19» 11.

Pertanto, «la collaborazione con lo Stato (rectius: con i poteri pub-blici), deve riservare uguali opportunità a tutte le formazioni sociali a carattere religioso, cioè a tutti i soggetti collettivi che soddisfano le esigenze religiose di un parte, anche minoritaria, della popolazione». Solo così si farebbe strada «una logica di rilievo della religione come fatto di interesse pubblico» 12.

Può sembrare un azzardo, ma, in questo senso, il diritto canonico può essere assunto – soprattutto dopo gli approfondimenti e le revi-sioni condotti dal Concilio Vaticano II – come modello e termine di confronto per le modalità di dialogo da instaurare tra i sistemi etico-confessionali e l’ordine giuridico delle comunità politiche 13.

9 Queste peculiari organizzazioni della religiosità umana non sono da relegare al mero fatto privato, ma nemmeno da confondere tout court con il pubblico nella sfera istituzionale dei rapporti civili. Vi sono religioni, come quelle di ceppo islamico, che rifiutano i caratteri e gli attributi organizzativi di una struttura centralistica, come, ad esempio, quella della Chiesa cattolica, e, pertanto risulta difficile il loro accesso alle forme di ricognizione della loro rilevanza sociale predisposte da una legislazione statale tarata sul modello delle “confessioni religiose”, quale la prassi ha dogmatica-mente strutturato in clima mono-culturale. Così V. Tozzi, op. ult. cit., p. 141.

10 Ivi, p. 132.11 Ivi, p. 131, in special modo nota 56.12 Ivi, p. 132.13 Non è un caso se Silvio Ferrari, nel lavoro dal titolo La nascita del diritto

ecclesiastico, rileggendo, sulle orme delle analisi compiute dal pensiero di Max We-

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Con la sua tipica «dinamicità», infatti, intesa nel senso di atten-zione ai «segni dei tempi»; con la sua caratteristica «apertura», nella duplice accezione di apertura verso tutti gli uomini indistintamente – e non solo quelli che fanno già parte del proprio «ovile» –, e verso gli ordinamenti giuridici «altri», cioè diversi da sé, pur mantenen-do integra la sua peculiare «coesione», il diritto canonico «si offre» come paradigma estremo, ai confini tra l’ordine giuridico e l’ordine morale 14.

La nuova trama della laicità – che è, ad un tempo, democrati-ca, pluralista e sociale – nello stato contemporaneo si va tessendo e reggendo anche con e per il ricorso alla negoziazione fra le diverse identità (culturali, etiche, religiose) che ormai compongono ciascun popolo insediato sul medesimo territorio.

A tal fine, l’uso dello strumento dell’analogia con riferimento ai sistemi di raffronto e di raccordo sinora adoperati nell’incontro tra la comunità di fede e quella politico-giuridica potrebbe concorrere ad aprire un percorso di verifica che oltrepassi i confini di ogni uni-laterale (e in quanto tale squilibrato) modello di omologazione o di integrazione.

ber e di Carl Schmitt, l’atto che è all’origine del diritto ecclesiastico italiano, vale a dire la prolusione palermitana di Francesco Scaduto del 1884, faccia rilevare la presenza nel diritto ecclesiastico di un gene del diritto canonico, da cui esso ha origi-ne. Secondo l’Autore, infatti, questa sarebbe la ragione profonda della diversità del diritto ecclesiastico rispetto al diritto costituzionale, amministrativo e ad altri rami dell’ordinamento giuridico statale e il fondamento della sua non assimilabilità. «Per quanto coperto e negato, il gene del Diritto canonico continua ad operare all’interno del Diritto ecclesiastico». «Naturalmente si tratta di un orientamento generale che viene poi diversamente calibrato in base alla convinzioni dei singoli studiosi: ma la specificità del diritto ecclesiastico – e quindi anche l’apporto che, nel bene e nel male, può dare alla scienza giuridica – mi pare risiedere in questa attenzione alle ragioni dell’istituzione che, a sua volta, è l’eco dell’origine canonistica di questa disciplina». Così S. ferrari, La nascita del diritto ecclesiastico, in La costruzione di una scienza per la nuova Italia: dal diritto canonico al diritto ecclesiastico, a cura di G.B. Varnier, EUM, Macerata, 2011, in particolare p. 84

14 Sull’argomento sia consentito il rinvio a s. BerlinGò, M. TiGano, Lezioni di diritto canonico, Giappichelli, Torino, 2008, in particolare pp. 51 ss.

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La «rotta» così tracciata potrebbe rendere esperibili proficui ten-tativi per trasformare l’occasione offerta dalle libertà delle coscienze da mere di garanzie volte ad esaltarne la funzione negativa di limite, a positive chances per sempre nuovi contenuti assiologici.

Onde evitare il rischio di privare gradualmente di senso l’irridu-cibile alterità, diversità, specificità o tipicità del fenomeno religioso, ricacciandolo nel limbo del «coacervo anonimo degli indistinti» 15, vale la pena correre il rischio di “esplorare” le realtà che costitu-iscono le ultime «riserve di senso» per la vita propria di ciascuna persona, facendo tesoro della carica alternativa e critica che esse ali-mentano nei confronti degli assetti sociali maggioritari.

In questo senso, allora, le confessioni religiose possono costitu-ire senza dubbio uno strumento di arricchimento, anziché di preva-ricazione: guardare attraverso i loro occhi può fornire il contributo più genuino e fecondo che le religioni, ciascuna con la sua specifi-ca visione del mondo e della vita, può offrire alla comunità politica nel suo insieme considerata, secondo quel «progetto costituzionale» di politica ecclesiastica che riconosce la necessità di coerenza tra il quadro generale della Costituzione e dei rapporti tra cittadino e isti-tuzioni ivi istaurati, e le regole del sistema di disciplina del fenomeno religioso, in una prospettiva promozionale della persona umana 16.

3. Tali brevi considerazioni mi inducono a ritenere che il “problema”, se così si può dire, del diritto ecclesiastico non sia tanto legato alla forma, quanto alla sostanza; non sia, cioè, un problema di nomen-clatura, ma di contenuti, di identità, di specificità, di diversità della materia rispetto ad altri settori del diritto 17.

15 La nota espressione appartiene a G. PeyroT, Condizione giuridica delle con-fessioni prive di intesa, in Nuovi accordi fra Stato e confessioni religiose. Studi e testi, con saggio introduttivo di P. GisMondi, Giuffré, Milano, 1985, p. 388.

16 Cfr. V. Tozzi, Il progetto di disciplina del fenomeno religioso nella Costitu-zione italiana del 1948, in G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione cit., p. 62 ss.

17 Sulla «specialità» degli strumenti di cooperazione con le confessioni religiose, sia consentito il rinvio a M. TiGano, Norme interposte e artt. 7 e 8 Cost.: norme

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Le “tipicità” del diritto ecclesiastico, infatti, come è stato osser-vato, non sta in questo o in quel determinato «oggetto», o insieme di «oggetti» di studio e di insegnamento; «sta nella sua vocazione ed attitudine ad indagare su quel non-luogo che è rinvenibile in tutti i luoghi dell’umana esistenza e delle relazioni interpersonali, su quella frontiera col non-diritto che è difficilmente definibile una volta per tutte, e che ciò nonostante interpella di continuo il diritto perché pre-cisi, individui e garantisca i suoi presidi» 18.

Non v’è disciplina, infatti, più del diritto ecclesiastico, incline, per sua stessa natura, alla «interdisciplinarietà» ed alla connessa «de-localizzazione» anche didattica 19: tale circostanza, tuttavia, da oc-casione propizia di arricchimento e crescita, non deve tramutarsi in «un’avventura senza ritorno» 20, ovverosia in frantumazione e fram-mentazione in vecchi e sedimentati, o nuovi ed inesplorati, luoghi del sapere. Fuor di metafora, ciò significa che il diritto ecclesiastico può senz’altro inserirsi proficuamente in una dinamica interdisciplinare, a patto che non ne risulti snaturato il suo DNA di disciplina giuridica del tutto peculiare.

Pertanto, esso rivendica la propria identità di disciplina giuridica quando entra in rapporto con quelle non giuridiche; ma, per conver-so, entra in sinergia feconda con altre discipline giuridiche solo se riesce a salvaguardare la sua peculiarità, cioè il suo essere «scienza di frontiera» 21, al confine col multiforme mondo del non-diritto.

interposte «di tipo diverso»?, in “Quad. dir. pol. eccl.”, 2008/3, pp. 867 ss., special-mente p. 893.

18 Cfr. S. BerlinGò, «Passata è la tempesta»? cit., p. 81.19 Ibidem.20 L’espressione è mutuata dal titolo di un lavoro di P. consorTi, L’avventura

senza ritorno. Intervento e ingerenza umanitaria nell’ordinamento giuridico e nel magistero pontificio, Edizioni Plus, Pisa, 2002.

21 Ovverossia «scienza (avanzata perché operante democraticamente in funzio-ne) “mediatrice” fra le norme e gli atti (anche solo parzialmente) confligenti di due o più ordinamenti giuridici che operano all’interno del medesimo territorio e nei confronti dei medesimi soggetti». In questi termini S. doMianello, L’insegnamento del diritto ecclesiastico e l’«avvenire», in L’insegnamento del diritto ecclesiastico nelle università italiane, a cura di M. Parisi, ESI, Napoli, 2002, pp. 74 ss.

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Lo specifico bagaglio culturale di cui l’ecclesiasticista per primo deve fare tesoro, va ricercato nella sua stessa “indole” di «frequentato-re» di campi normativi diversamente dimensionati e tipizzati, ma pur sempre riconducibili alla realtà giuridica positiva, latamente (ma non impropriamente) intesa; nonché nella sua “vocazione” di «moderato-re» delle regole idonee a risolvere le controversie di confine tra «ordi-ni» 22, che, nonostante le diversità, sono «destinati ad intrecciarsi» 23.

Si comprende, pertanto, come mai una simile ed originale «com-petenza» non solo possa risultare preziosa nell’arricchire ogni am-bito di esperienza disciplinare (endosistemica), ma addirittura possa risultare infungibile quando si tratti di cimentarsi nel terreno, sinora poco battuto, della comparazione fra i vari diritti religiosi (extrasi-stemica): la «laica» formazione dell’ecclesiasticista puro, infatti, può contribuire a liberare dalle incrostazioni della materia lo «spirito» autentico dei diritti religiosi 24.

Così come, tra i ministeri della Chiesa, quello dei «consacrati» spicca per la «funzione profetica», ovverossia la funzione di «im-plementare» la vocazione del laico e del chierico per il tramite di un continuo richiamo alla «autenticità» evangelica, non per raggiungere uno stato di individualistica perfezione, bensì per favorire il dispie-garsi dello Spirito nell’opera di edificazione della Chiesa; così «l’ar-te» dell’ecclesiasticista consiste nel saggiare e calibrare di continuo la compatibilità degli «accordi particolari» con le «regole generali» e lo “spirito” della Costituzione 25.

In altri termini, come il religioso funge da trait d’union tra i due ministeri del laico e del chierico e la loro «aspirazione» trascendente; l’ecclesiasticista, pur non identificandosi ora col canonista, ora con lo storico, ora con l’esperto di altro diritto confessionale, funge da

22 Cfr. S. BerlinGò, op. ult. cit., p. 82.23 Si serve di questa suggestiva espressione P. Bellini, Stato e Chiesa: un destino

intrecciato, in “Orient. soc.”, 1995/2, pp. 34 ss. 24 È probabilmente questa la chiave di lettura più idonea per il lavoro di S. fer-

rari, Lo spirito dei diritti religiosi. Ebraismo, cristianesimo e islam a confronto, il Mulino, Bologna, 2002.

25 Cfr. S. BerlinGò, op. cit., p. 91.

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«dialogica cerniera», con la «missione tipica» di recuperare di conti-nuo «i caratteri dell’ermeneutica giuridica».

Se, dunque, l’apporto specifico delle ricerche dell’ecclesiasticista alle varie discipline non può essere negato, non bisogna tuttavia con-fondere il bagaglio culturale di questo “giusperito” che, “per necessi-tà”, indaga nei vari campi del sapere, con una mera «sommatoria» di conoscenze pubblicistiche, privatistiche, penalistiche, amministrati-vistiche, comparatistiche, storico-sociologiche, teologiche e così via.

L’ecclesiasticista, infatti, a differenza del “giusperito puro” che conosce di un singolo settore del diritto, ha come inclinazione natu-rale quella di captare l’elemento religioso in tutti i campi in cui esso si può manifestare. Deve pertanto conoscere i singoli tasselli che compongono l’ordinamento giuridico, i quali, addizionati tra loro, non danno vita ad una semplice «somma», bensì ad un «prodotto» assolutamente nuovo.

4. Tale precisazione dovrebbe aiutare a sgombrare il campo dall’ul-teriore equivoco di ritenere che i temi del diritto ecclesiastico siano come “ritagliati”, per mera comodità di studio e fini puramente si-stematici, da temi più ampi che, nel loro «intero» rientrerebbero nel diritto costituzionale, privato, amministrativo, penale, e così via. La vocazione interdisciplinare e comparatista al tempo stesso della scien-za del diritto ecclesiastico civile merita, invero, di essere compresa e descritta come una qualità particolare ed esclusiva degli studi ad alta specializzazione, destinati ad operare principalmente intra moenia.

Il principale compito dell’ecclesiasticista puro, infatti, come è stato detto, consiste nell’usare lo strumento della comparazione per verificare ed evidenziare (se ce ne sono), «le assonanze» o, al con-trario, «le irriducibili differenze» che intercorrono tra le fattispecie «complesse», nel senso di “complicate” dall’elemento religioso, di-sciplinate dalle norme speciali del diritto ecclesiastico, e le analoghe fattispecie «semplici» regolate dagli altri rami del diritto civile 26.

26 Cfr. S. doMianello, L’utilità pratica del «Diritto ecclesiastico civile» come scienza, in Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano cit., pp. 287 ss.

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Si tratta di un contributo di non poco conto alla complessiva evolu-zione dei sistemi giuridici secolari, in quanto solo «attraverso il con-fronto con le risposte che alle domande di libertà religiosa potrebbero offrire le singole discipline di settore al cui crocevia si pone il diritto ecclesiastico è possibile misurare la “differenza” che corre, in termi-ni di effettiva garanzia democratica, tra un sistema di tutela dei vari diritti di libertà che pretenda di soddisfare, senza tuttavia introdurre alcun distinguo, tutte le manifestazioni religiosamente caratterizzate; e un sistema, invece, che pretenda di riservare proprio alle istanze libertarie “complicate”, un trattamento giuridico particolare» 27.

L’autonomia (inter)disciplinare del diritto ecclesiastico, dunque, va riaffermata con forza affinché non “naufraghi” il contributo che tale scienza, ad alta specializzazione professionale, è in grado di of-frire alla formazione strettamente giuridica delle varie categorie di partecipanti alla vita «pratica» degli ordinamenti secolari, nazionali e sovranazionali.

Come il diritto canonico invita tutti a divenire «partecipi» al «farsi» del proprio ordinamento, riempiendo di contenuto specifico e concreto la norma generale e fondamentale della carità; così, nell’or-dinamento secolare, i partecipanti al «farsi» delle norme giuridiche possono assolvere al delicatissimo compito del materiale riempimen-to della laicità secolare (nazionale, comunitaria o internazionale), di sempre più nuovi e numerosi contenuti di valore, solo se possono attingere, direttamente o indirettamente, alla scienza tipica del diritto ecclesiastico civile.

Non è un caso se, diversamente dal medico che, specializzandosi, conosce approfonditamente una sola parte del corpo umano e, in sede patologica, individua la cura per la singola «fattispecie» di malattia; l’ecclesiasticista deve conoscere necessariamente tutte le parti del corpo in cui si «annida» l’elemento religioso; per tale motivo egli è l’unico che, avendo il quadro della «complessità», è in grado di intra-vedere «l’unità» della «persona umana» (art. 2 Cost.).

27 Così S. doMianello, L’insegnamento del diritto ecclesiastico e l’«avvenire», in L’insegnamento del diritto ecclesiastico nelle Università italiane cit., pp. 63 ss.

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Mi avvio alla conclusione delle mie brevi osservazioni, prenden-do in prestito alcune calzanti metafore che sono state adoperate a proposito del diritto ecclesiastico: è stato fatto, infatti, riferimento a «tempeste», «odissee», «visitatori», «ospiti», ad un non luogo im-possibile da allocare «in un’Itaca qualsiasi» 28.

Mi sia consentito aggiungerne un’altra, forse la più “umana” di tutte: Ulisse.

E mi sia consentito l’accostamento tra la figura dell’ecclesiasti-cista e l’Ulisse di omerica memoria, non semplice “marinaio”, ma «navigatore esperto»; con gli occhi rivolti all’orizzonte, ma il cuore alla sua Itaca, ai suoi valori, al suo focolare.

Oppure all’Ulisse dantesco, fatto «per seguire virtute e conoscen-za», connotato cioè da quella «lealtà» e «correttezza», o, ancora me-glio, da quella «onestà intellettuale» di cui occorre dotarsi quando, bramosi di scorgere «l’infinito oltre la siepe», si intendono valicare i confini di ciò che «già è stato concesso»; o, infine, all’Ulisse di Joyce, emblema del «farsi», in cui il protagonista, viaggiando, si co-struisce la propria identità arricchendosi delle diversità con cui entra in contatto, senza risultarne tuttavia distrutto o assorbito.

Con l’auspicio, per concludere, che l’ecclesiasticista non perda mai né lo slancio propulsivo in termini di consapevolezza teorica, né la «buona pratica» di indagine e, perché no, riesca anche ad ascolta-re il “bel canto delle sirene”, resistendo, tuttavia, alla tentazione di tuffarsi nel mare pieno di «insidie mortali», legandosi saldamente all’albero del metodo scientifico, per fare un giorno ritorno in patria, non da “reduce”, ma da eroe.

28 S. BerlinGò, op. cit., p. 81.

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Dal Diritto ecclesiastico dello Stato al Diritto e religione

Dal Diritto ecclesiastico dello Stato al Diritto e religione

di GioVanni B. Varnier

Ringrazio tutti gli organizzatori per l’invito che mi è stato rivolto e osservo subito che è positivo che parecchi giovani – come nel nostro caso – abbiano interesse per queste problematiche giuridiche che ai più potrebbero sembrare di secondaria importanza.

Forse sono proprio coloro i quali risultano meno gravati dal peso di precedenti esperienze che avvertono meglio le novità che sono davanti a noi e che interessano questa nostra scienza, che costante-mente si rinnova per continuare ad assolvere l’impegno di regolare quell’incontro tra lo spirituale e il temporale, il quale – con modalità proprie – interessa ogni uomo nelle più diverse epoche e società.

Sono, dunque, problematiche antiche, che – come si è detto poc’anzi – a taluno forse potrebbero sembrare anche vecchie, ma che non sono da reputare secondarie. Si tratta infatti di riflettere sull’evo-luzione di un settore che è forse il più delicato dell’intera scienza giu-ridica, perché coniuga in un unico precetto la coscienza individuale e la norma positiva di valore collettivo.

Fu, quindi, una iniziativa propizia quella di incontrarci a Pisa il 30 marzo 2012, come ancor più positivo è l’intento di Valerio Tozzi, Gianfranco Macrì e Marco Parisi di raccogliere in un volume mono-grafico gli atti dell’incontro pisano. Diritto e religione in Italia e in Europa è ormai la nuova cifra dell’evoluzione di quel settore della scienza giuridica, che comunemente è conosciuto come Diritto ec-clesiastico, ma che nel tempo è stato qualificato in modo diverso.

Premetto che non intendo con questo richiamo alimentare il dibat-tito sulla denominazione con cui indicare la nostra materia, perché ciò potrebbe diventare fuorviante rispetto all’indagine sui contenu-ti (di cui invece dobbiamo occuparci), ma non posso non ricordare che quella del nome è una discussione che si presenta ciclicamente

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Giovanni B. Varnier

e – solo per menzionare un caso a titolo di esempio – già Domenico Schiappoli nella prolusione napoletana del 1895 si pose questo pro-blema. Tuttavia è indubbio che dalla law and religion di oggi al Dirit-to ecclesiastico dello Stato degli anni Trenta del Novecento c’è pro-prio una differenza che non è semantica ma tocca i contenuti. Infatti, si può dire che costantemente vengano inclusi nel diritto che discipli-na il fenomeno religioso profili di indagine diversi e nuove questioni e, altrettanto costantemente, altre tematiche risultano abbandonate. Cito per tutte il matrimonio che soltanto dal 1929 entrò nelle com-petenze del diritto ecclesiastico mentre oggi assistiamo all’indeboli-mento delle connessioni tra le fattispecie civilistiche matrimoniali e le questioni di diritto ecclesiastico. Infatti, attualmente i temi preva-lenti ruotano attorno alle novità relative alla privacy, al mondo del volontariato, alla bioetica, al turismo religioso, al diritto ecclesiastico europeo e alle problematiche legate al multiculturalismo.

C’è poi un fenomeno che si presenta con risvolti di attualità e sta a metà strada tra l’adesione ad una fede religiosa e una visione ispi-rata a principi di laicità; si tratta di quale riconoscimento attribuire al valore dell’appartenenza confessionale, intesa come elemento di identità che interessa in modo nuovo sia il cittadino che lo straniero immigrato. Inoltre, ci sono poi da considerare più profonde ragioni esterne, in quanto vengono in evidenza sensibilità di ordine persona-le. Se infatti proviamo a prendere rapidamente in esame alcuni testi di diritto ecclesiastico di differenti autori, troveremo definizioni diverse.

Incominciamo da Francesco Ruffini che, nella Prefazione a L’am-ministrazione ecclesiastica di Arturo Carlo Jemolo, con la consueta eleganza letteraria ci ricorda come la materia: «variamente denomi-nata ed anche più variamente intesa, ch’è il diritto ecclesiastico dello Stato» 1, diritto che: «dovrebbe essere ad ogni modo di gran lunga più comprensivo e considerare così quelli, che, tanto per intenderci e senza prendere ad esattezza di terminologia e di metodo, potrem-mo dire i rapporti costituzionali, come i rapporti amministrativi dello

1 F. ruffini, Prefazione al volume di A.C. JeMolo, L’amministrazione ecclesia-stica, Società Editrice Libraria, Milano, 1918, p. 5.

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Stato con le chiese» 2. Vincenzo Del Giudice arriva al concetto del diritto ecclesiastico partendo dall’esame dello Stato moderno in rela-zione al fenomeno sociale a finalità religiosa e precisa che «il ramo del diritto interno d’uno Stato, nel quale si raccolgono a unità siste-matica le norme che riguardano il regolamento del detto fenomeno sociale religioso, si usa denominarlo “diritto ecclesiastico”» 3.

Osservando, quindi, che la «denominazione tradizionale della disciplina venne poi ad assumere una significazione più ampia, ri-ferendosi a tutte le norme vigenti nell’ordine giuridico statuale che riguardino il fenomeno sociale come estrinsecazione della coscienza religiosa collettiva o comunque relative a diffuse convinzioni in ma-teria religiosa, in quanto queste danno luogo a raggruppamenti sociali più o meno organizzati e attivi secondo le dottrine cui sono informati (“confessioni religiose”, “culti”, e simili)» 4, perviene alla conclusio-ne che, «ciò stante, la denominazione di diritto ecclesiastico si mostra ormai inadeguata a designare un tal ramo del diritto dello Stato, che meglio potrebbe denominarsi diritto delle confessioni religiose, o dei culti, o in modo analogo. La denominazione di diritto ecclesiastico, non ha dunque, attualmente, che una significazione convenzionale» 5.

Cesare Magni giudicò invece la definizione del diritto ecclesia-stico «insoddisfacente», questo per il fatto che «la dottrina italiana impiega il predicato con un significato diverso e molto più esteso di quello etimologico e di quello in uso nei testi delle nostre leggi positive. Infatti nella dottrina quel predicato è usato per denotare la caratteristica religiosa o di culto, senza aver riguardo al contenuto delle varie credenze, designa la proprietà caratteristica, che denota “l’appartenenza ad una qualsiasi credenza in materia di religione”» 6.

Sempre il medesimo studioso fu chiaro nell’indicare la necessità di costruire un «insieme ordinato» di scelte normative nel campo del

2 Ivi, pp. 5-6.3 V. del Giudice, Manuale di diritto ecclesiastico, Giuffrè, Milano, 19599, p. 3.4 Ibidem.5 Ivi, p. 4.6 C. MaGni, Interpretazione del diritto italiano sulle credenze di religione, I, Ce-

dam, Padova, 1959, p. 84.

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diritto ecclesiastico 7, in questo aprendo spiragli sulla necessità di un nuovo diritto, con un contenuto scientifico organico e con la necessi-tà di predisporre idonei manuali.

A proposito del mutare del concetto di diritto ecclesiastico esso è stato evidenziato da Enrico Vitali nella Prefazione alla ristampa ana-statica della monografia del 1946 di Luigi De Luca, Il concetto del diritto ecclesiastico nel suo sviluppo storico, laddove il Vitali ricorda di aver avvertito «che, al fondo, la ricerca rispondeva ad un bisogno dell’Autore, che era quello di chiarirsi le ragioni del proprio operare. E la giustificazione di questo operare era trovata anzitutto sul piano storico, perché era quella più appagante, in quanto consentiva di co-gliere la dipendenza del mutare del concetto di diritto ecclesiastico nel tempo quale effetto del mutare delle concezioni generali del di-ritto, a causa del fluire e dell’evolversi delle situazioni ideologiche e politiche» 8.

Se poi leggiamo Pietro Agostino D’Avack: «Il diritto ecclesia-stico, quale noi lo studiamo, può pertanto essere definito come il si-stema delle norme giuridiche speciali poste dallo Stato italiano per il regolamento di quelle attività e rapporti sociali che esso considera diretti alla attuazione di finalità religiose all’interno del suo ordina-mento giuridico; o più comprensivamente, il diritto speciale italiano attinente la disciplina della materia ecclesiastica» 9.

Secondo Arturo Carlo Jemolo: «Il diritto ecclesiastico è un ramo del diritto di quegli Stati che ritengono di dover dettare apposite nor-me per regolare sul terreno giuridico le manifestazioni del fenomeno religioso» 10, aggiungendo «che è l’ordinamento statale a giudicare quali comportamenti, quali attività, debbano venir considerate reli-

7 Ivi, pp. 83 ss.8 E. ViTali, Prefazione a L. de luca, Il concetto del diritto ecclesiastico nel suo

sviluppo storico, Cedam, Padova, 2011, p. V.9 P.A. d’aVack, Trattato di diritto ecclesiastico italiano. Parte generale, secon-

da edizione integralmente rinnovata e aggiornata, Giuffrè, Milano, 1978, p. 11.10 A.C. JeMolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, secondo aggiornamento della 3a

edizione, Giuffrè, Milano, 1962, p. 23.

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giose o di culto» 11. Invece Mario Petroncelli definisce il concetto di diritto ecclesiastico come quel «complesso di norme che entro l’or-dinamento dello Stato disciplinano la vita della Chiesa cattolica» 12, precisando che l’esclusione degli altri culti è perfettamente logica: «in quanto nessuna delle confessioni esistenti nello Stato assume i caratteri di Chiesa»; quindi soltanto ai fini di necessità didattiche: «nella pratica [… ] si può dire che esiste un concetto latissimo di diritto ecclesiastico che comprende anche il diritto dei culti» 13.

Infine Francesco Finocchiaro afferma che tale diritto «non è co-stituito solo dalle norme prodotte direttamente dal legislatore statale, perché, in non poche occasioni, le norme statali, per la disciplina dei rapporti, rinviano a un ordinamento confessionale o presuppongono fatti normativi, atti o negozi prodotti da un ordinamento confessio-nale. Perciò, lo studio del diritto ecclesiastico concerne tutto il dirit-to efficace ed applicabile nell’ordinamento statale per la disciplina del fenomeno religioso; un diritto che, se è di prevalente produzione statale, può tuttavia importare l’applicazione del diritto prodotto da ordinamenti confessionali» 14. Una definizione che, se accolta, supe-rerebbe ogni necessità di ricercare un altro nome per la disciplina 15.

Tutto questo ci fa capire che, se c’è il problema se si debba cam-biare il nome essendo cambiati i contenuti, di maggior rilievo è in-dividuare proprio i nuovi contenuti, per il fatto che essi mutano ra-pidamente.

Sottolineo subito che la riflessione che vado svolgendo non in-tende essere fine a se stessa, ma ci aiuta a comprendere la contempo-raneità, in quanto consente di seguire come le principali tappe della disciplina furono indicate con una data precisa – come quella che fa riferimento alla Prolusione palermitana di Francesco Scaduto – mentre oggi manca questa data a cui fare riferimento e, quindi, al

11 Ivi, p. 25.12 M. Petroncelli, Manuale di diritto ecclesiastico, Jovene, Napoli, 19652, p. 11.13 Ibidem.14 F. finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Zanichelli, Bologna, 20039, p. 4.15 Ivi, p. 3.

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momento abbiamo difficoltà nel registrare il battesimo della nuova materia.

Altro momento significativo è quello del completo rinnovamento normativo dopo la soluzione pattizia del 1929: «il diritto ecclesia-stico fascista aveva innovato nella forma e nella sostanza rispetto al diritto ecclesiastico liberale. Pur essenzialmente profittando al con-solidamento della disciplina, il passaggio non era stato percepito da cultori del diritto ecclesiastico nello stesso modo» 16.

Se dopo i Patti del Laterano ci fu qualche studioso che giunse a distinguere tra diritto ecclesiastico, diritto canonico e diritto con-cordatario, evidenziando la necessità di considerare quella parte del diritto canonico che assume rilevanza nell’ordinamento statuale, in primo luogo il matrimonio 17, oggi si può parlare di un diritto comune per il fenomeno religioso (che comprende norme dello Stato, dell’U-nione europea e la giurisprudenza internazionale); un diritto pattizio che interessa la Chiesa cattolica e le confessioni con intesa; il diritto canonico per la sua influenza storica; il diritto delle confessioni re-ligiose che abbiano stipulato accordi con lo Stato (a cui rinviare); i diritti religiosi, che possono essere richiamati ed avere influenza per via giurisprudenziale.

16 M. VenTura, Diritto ecclesiastico, in Dizionario del sapere storico-religioso, a cura di A. Melloni, vol. I, il Mulino, Bologna, 2010, p. 725.

17 «Concludendo su questo punto, credo che sia stato dimostrato che l’insegna-mento del diritto ecclesiastico, specialmente ora che può essere istituito anche quello separato del diritto canonico, non deve comprendere anche il diritto della Chiesa, almeno nella sua totalità. Questo appare ancor più evidente, se si tiene presente che la dottrina recente più autorevole, fissandone la posizione enciclopedica, considera il diritto ecclesiastico come un ramo del diritto pubblico dello Stato e che soltanto in questo senso può apparire non contrastante l’inclusione nella nostra disciplina del diritto riguardante i culti diversi dalla religione cattolica. Riuscirebbe infatti più dif-ficile sostenere che il diritto ecclesiastico sarebbe tanto eterogeneo da comprendere il diritto statuale e quello extrastatuale in materia ecclesiastica, il diritto cattolico e quello acattolico, se non anche la storia del diritto ecclesiastico» (A. Piola, Diritto ecclesiastico, diritto canonico e diritto concordatario. Prolusione al Corso ufficiale 1937-38 di Diritto ecclesiastico nella Università di Sassari, ora in id., Dalla Conci-liazione alla Costituzione, Giappichelli, Torino, 19562, p. 289).

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Ricordo anche Silvio Ferrari che alla fine degli anni Settanta, svolse una rilettura delle linee di evoluzione della scienza giuridica alla luce delle trasformazioni istituzionali e sociali avvenute o ancora in corso in Italia, giungendo a sottolineare che «due soli sembrano essere i riflessi della legislazione pattizia sulla struttura dei manuali di diritto ecclesiastico. Il primo consiste nella trattazione della ma-teria matrimoniale che, omessa nei vecchi manuali, giunge a coprire più di un quarto dell’intero volume in alcuni corsi» 18.

«La seconda trasformazione rilevabile nella sistematica dei ma-nuali del ventennio fascista è determinata dal lento e contrastato ab-bandono della bipartizione della materia in diritto costituzionale e diritto amministrativo della Chiesa […]a favore di una quadriparti-zione imperniata su persone, enti, patrimonio e matrimonio» 19.

Attualmente il percorso non è dunque più quello di valutare quale sia lo spazio da attribuire al diritto concordatario, ma quello del di-ritto e religione resta e, da sempre, un difficile quanto delicato bino-mio, perché comprende oggetto, funzione e metodo della disciplina giuridica del fenomeno religioso. Pertanto, abbastanza superata è la questione se «la necessaria limitazione dell’indagine a quella parte del diritto canonico, che assume rilevanza giuridica nell’ordinamen-to statuale, indagine che dev’essere condotta sulla linea della tanto dibattuta questione internazionalistica del rinvio tra diversi ordina-menti giuridici» 20.

Arrivo ora all’ultima considerazione che intendo presentare in questa sede: il rapporto tra il diritto ecclesiastico e quello costituzio-nale. Un legame che è di stretta attualità ma che tuttavia cercherò di leggere con qualche richiamo al passato.

L’occasione per questa riflessione mi è offerta da una dispensa universitaria di Arturo Carlo Jemolo, confrontata con il coevo ma-nuale di Diritto ecclesiastico, sempre del medesimo autore.

18 S. ferrari, Ideologia e dogmatica nel diritto ecclesiastico italiano. Manuali e riviste (1929-1979), Giuffrè, Milano, 1979, p. 135.

19 Ivi, p. 136.20 Ivi, pp. 30-1.

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Si tratta delle Lezioni di Diritto costituzionale, tenute nell’Uni-versità di Bologna e pubblicate a cura dello studente Giuseppe Raba-glietti 21. L’anno a cui si riferiscono non è indicato, ma poiché trovia-mo traccia di un altro corso per il 1929-30 22, anche nel nostro caso siamo senz’altro in un contesto storico pressoché coevo.

Jemolo, giurista e storico, allievo di Francesco Ruffini, visse tra il 1891 e il 1981 e – come sappiamo – fu scrittore elegante e acuto e, non ultimo, espressione di una coscienza sicuramente laica, ma animata di profondi sentimenti religiosi. Formatosi in un’epoca non toccata dall’eccesso di specializzazione e neppure di confusione del sapere che caratterizza in senso negativo la cultura contemporanea, egli poté contare su settanta anni di ininterrotta attività scientifica e di poliedricità espositiva, ma anche di testimonianza di un passaggio epocale che dagli ultimi bagliori dello spirito risorgimentale giunge al superamento dello Stato nazionale.

Ho compiuto questo riferimento, perché quando Jemolo pubblicò, all’indomani della Conciliazione, le sue Lezioni di Diritto ecclesia-stico, le accompagnò dal seguente sottotitolo: Il Diritto ecclesiastico dello Stato italiano 23; una precisazione allora logica, ma che è oggi riferita ad un ordinamento completamente superato, con il conse-guente superamento della stessa nozione di Diritto ecclesiastico dello Stato italiano.

Infatti, la sua speculazione scientifica – che ha segnato la seconda metà del Novecento italiano (con un netto contributo di pensiero a sostegno della libertà religiosa e di opposizione contro ogni l’uso strumentale della religione) – è ancora attuale e rappresenta, anche per gli studiosi più giovani, un punto di riferimento, ma ovviamente

21 Cfr. A. C. JeMolo, Lezioni di Diritto costituzionale, La Grafolito Editrice Uni-versitaria, Bologna, s.d.

22 Cfr. A.C. JeMolo, Lezioni di Diritto costituzionale, Gruppo Universitario Fa-scista Giacomo Venezian, Bologna, [1930], in Arturo Carlo Jemolo: vita ed opere di un italiano illustre. Un professore dell’Università di Roma, a cura di G. cassandro, A. leoni, f. Vecchi, Jovene, Napoli, 2007, p. 34.

23 A.C. JeMolo, Lezioni di Diritto ecclesiastico. Il Diritto ecclesiastico dello Sta-to italiano, Soc. Tip. Leonardo da Vinci, Città di Castello, 1933.

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egli non poté conoscere la foresta sterminata della globalizzazione e neppure la società multireligiosa. Questo pur essendo conscio del fatto che la regolamentazione giuridica del fenomeno religioso non può in ogni circostanza essere sempre incanalata in modelli collau-dati e definitivi. Nelle sue Lezioni di Diritto costituzionale il già af-fermato studioso esordisce premettendo che è interesse dello Stato il soddisfacimento dei bisogni religiosi dei cittadini; premesso, infatti, che ci sono «finalità che lo Stato dichiara di volere siano raggiunte ed al cui raggiungimento dà opera in ogni modo, ma che non può per circostanze materiali raggiungere direttamente» 24.

Tra queste: «l’esempio più antico e più chiaro è quello del com-portamento dello Stato di fronte al sentimento religioso, alla Chiesa. Lo Stato crea un’apposita legislazione, appositi organi amministra-tivi, si addossa spese non irrilevanti per ottenere il soddisfacimento del bisogno di culto dei fedeli, attraverso il regolare funzionamento degli organi della Chiesa. Ma questo bisogno di culto di cui lo Stato si preoccupa, che vuole essere appagato, non è in grado di soddisfar-lo esso stesso. Siamo nel campo del diritto pubblico ma di fronte ad una attività che lo Stato non può svolgere, cui deve limitarsi a creare condizioni favorevoli» 25.

Tale interesse dello Stato per il fenomeno religioso varia nel tem-po: «così in altri tempi lo Stato legiferava sotto varie forme in mate-ria spirituale o liturgica (ad es. dichiarava la superiorità del Concilio ecumenico sul Papa) laddove oggi questi sono punti divenuti estranei al diritto in quanto per lo Stato non è più d’interesse pubblico che nel campo religioso si opini in un modo piuttosto che nell’altro» 26.

Sempre nella medesima ottica di un interesse pubblico per il fe-nomeno religioso, si ricorda che «la legislazione ecclesiastica pie-montese ed italiana non costituì certamente lo sviluppo dell’art. 1 desiderato da Carlo Alberto» 27, per poi passare a considerare se è

24 A.C. JeMolo, Lezioni di Diritto costituzionale cit., p. 26.25 Ivi, pp. 26-7.26 Ivi, p. 29.27 Ivi, p. 123.

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attributo essenziale del nostro Stato quello di essere cattolico, osser-vando subito – siamo ancor nel pur vicini alla Conciliazione del 1929 in un quadro separatista – che «qui si possono affacciare seri dubbi».

«È vero ch’è precisamente l’art. 1 dello Statuto carloalbertino a dettare: “La religione cattolica, apostolica e romana è la sola reli-gione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati confor-memente alle leggi”. È pur vero che non vale l’opporre (come fanno anche pubblicisti di gran valore, quale il Ranelletti) essere assurdo il concetto di una religione dello Stato. Invero se si volesse pensare con una esagerazione della teoria organica lo Stato come subietto munito di un sentimento e di una fede religiosa analoghi al sentimento ed alla fede delle persone fisiche, si cadrebbe in una di quelle goffaggini note alla più scadente pubblicistica tedesca. Ma il concetto di religio-ne dello Stato ha un significato tradizionale ben fissato, e non rispon-de a rigor di termini al significato letterale della espressione. Lo Stato ha una sua religione in quanto fa ad una confessione una particolare posizione di diritto pubblico, in quanto assume i suoi concetti a prin-cipi direttivi della propria legislazione e della propria azione etica, in quanto stabilisce una determinata relazione tra organi dello Stato ed organi della Chiesa.

Bisogna piuttosto ricordare come il principio posto da Carlo Al-berto in testa allo Statuto sia più tardi stato attenuato e quindi addi-rittura negletto. Sicché dieci anni or sono i pubblicisti nostri, sia pure con qualche esagerazione di fronte al diritto positivo ma credendo quanto meno di interpretare la prossima evoluzione di questo, parla-vano nell’art. 1° come di norma che avesse ormai cessato di eserci-tare ogni efficacia e dello Stato italiano come di Stato laico. In fatto il termine “religione dello Stato” era scomparso dalle nostre leggi.

L’evoluzione più recente del nostro diritto ha invece portato a far rientrare nella terminologia legislativa l’espressione statutaria. Pe-raltro non si può dire né che sia stato attuato l’ideale di Stato ch’era certo nella mente di Carlo Alberto, né che il nostro diritto positivo sia quello che secondo la Chiesa dovrebbe essere proprio di un Paese cattolico. Invero noi vediamo il nostro Stato avere proprie direttive etiche (laddove lo Stato cattolico nel concetto della Chiesa non do-

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vrebbe avere se non quelle della dottrina cattolica nella interpretazio-ne ecclesiastica), ritenere uguali di fronte ad esso Stato tutti i cittadi-ni quale sia la loro fede religiosa e pur se privi di una fede religiosa, consentire ai non cattolici di dare opera alla diffusione delle proprie fedi, legiferare in una serie di materie che la Chiesa insegna essere precluse allo Stato se non abbia avuto un indulto pontificio.

D’altronde nella coscienza collettiva l’allontanamento dal con-cetto che inspirò l’art. 1° dello Statuto ed il parziale ritorno verso di esso, non hanno mai assunto il valore di modifiche di elementi essenziali dell’ordinamento giuridico. Una nuova direttiva in manie-ra di politica ecclesiastica diversa dall’attuale non avrebbe mai quel significato rivoluzionario, di distruzione dell’ordine costituzionale odierno, che avrebbe il passaggio alla forma repubblicana o alla Mo-narchia assoluta o allo Stato non fascista» 28.

Infine ancora un richiamo ad un punto che tuttavia non tocca di-rettamente il diritto ecclesiastico, ma piuttosto le valutazioni di ordi-ne politico con le quali nello scorso 2011 si è commemorato il 150° anniversario dell’unità d’Italia. In quell’ultima circostanza per porre in luce il contributo dei cattolici al processo di unificazione nazionale si è preferito ricordare la data del 17 marzo 1861, oscurando invece quella – che fu già festività nazionale – del 20 settembre 1870.

Di fronte al valore di queste date Jemolo nelle sue Lezioni di Di-ritto costituzionale fu invece netto nel sostenere che «la legge 17 marzo 1861 n. 4671 non sanzionò quindi la creazione di un nuovo Stato, ma soltanto il cambiamento del titolo dei nostri Re, sia pure d’incommensurabile importanza storico-nazionale» 29.

Ho richiamato questi diversi passaggi per due ordini di ragioni. La prima risiede nel fatto che bisogna sempre rileggere i maestri del passato perché il loro insegnamento – anche negli aspetti contingenti – presenta una valenza atemporale.

La seconda ragione di interesse per queste indagini la ricavo da un passaggio contenuto in un articolo di Amedeo Giannini, il quale

28 Ivi, pp. 170-3.29 Ivi, p. 112.

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ricorda che il diritto ecclesiastico – specialmente al momento del suo affermarsi come disciplina autonoma dal diritto della Chiesa – fu spesso insegnato per incarico, ricevendo in tal modo il contributo di storici del diritto, pubblicisti; romanisti; civilisti, per cui: «Questa collaborazione di giuristi di diversa provenienza e mentalità non fu senza vantaggi per l’incremento ed il perfezionamento degli studi del diritto ecclesiastico, dato l’indirizzo sistematico e dogmatico che era prevalso negli studi romanistici, civilistici e pubblicistici e che temperava la diversa tendenza che poteva derivare dagli studi preva-lentemente storici o esegetici» 30.

Sarebbe quindi non privo di interesse cercare traccia degli eccle-siasticisti che insegnarono diritto costituzionale e, di conseguenza, prendere in esame come il diritto ecclesiastico fu affrontato nei ma-nuali di diritto costituzionale. È questa una pista di approfondimento che indico volentieri ai più giovani lettori.

Visto che abbiamo menzionato Jemolo – un giurista a noi vicino e ricco di risvolti di attualità – più delicato è il superamento della sua asserzione che «il diritto ecclesiastico dello Stato è una discipli-na eminentemente italiana» 31, precisando che «la pianta del diritto ecclesiastico italiano, sorta come subito diremo, sul ceppo della no-stra legislazione risorgimentale, ebbe sempre un carattere originale; mentre non va taciuto che nel campo del diritto statale (non in quello del diritto canonico) la poderosa linfa della scienza giuridica tedesca sembrò avere una sosta e un arresto nella sua virtù creatrice a partire dalla prima guerra mondiale» 32.

Richiamo questo non solo per il riferimento alla atipicità del caso italiano, ma anche a quanto di recente è stato richiamato con grande sensibilità culturale da Ivan C. Iban. L’autorevole studioso, licenziando da Oviedo il 15 giugno 2009 una raccolta di saggi intesi come un particolare omaggio alla cultura ecclesiasticistica italiana,

30 A. Giannini, Il diritto ecclesiastico in Italia (1860-1944), in “Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia”, 1944-46, p. 148.

31 A.C. JeMolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, Giuffrè, Milano, 19754, p. 153.32 Ivi, p. 154.

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esprimeva l’augurio «che questo volume venga considerato come un mattone in più per la costruzione dell’edificio della scienza del diritto ecclesiastico europeo. Se è vero che le fondamenta di questa scienza si trovano in Italia, mi sembra che la maggior garanzia di un loro consolidamento risieda nella collaborazione, per il disegno e l’esecuzione dell’immobile, dei giovani studiosi italiani. In tal modo potranno essere degni successori dei loro maestri» 33.

Sono invece pagine tutte da costruire quelle del rapporto tra l’am-bito del diritto pubblico che concerne il fenomeno religioso e il di-ritto canonico e gli altri diritti confessionali e ancora (se davvero l’Unione europea farà dei passi avanti e non sarà ostacolata dagli egoismi nazionali della Germania) dovremo – «cercando di riunire tutti gli elementi comuni alle diverse tradizioni europee» 34 – mettere in cantiere un diritto comunitario europeo per disciplinare in modo il più possibile uniforme il fenomeno religioso all’interno dell’Unione.

33 I.C. iBan, Europa, diritto, religione, il Mulino, Bologna, 2010, p. 18.34 Ivi, p. 134.

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Parte quarta

Altri contributi

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Categorie ermeneutiche dei diritti religiosi e libertà di culto

Categorie ermeneutiche dei diritti religiosi e libertà di culto

di Giancarlo anello

1. Introduzione - 2. Nel prisma della normativa: i condizionamenti legali e giurisprudenziali alla libertà del culto islamico - 3. Per un’ipotesi di sil-logismo. Premessa maggiore: i doveri di culto del fedele secondo le norme di diritto islamico - 4. Premessa minore: ‘ibadat e gli articoli 17 e 19 della Costituzione - 5. Conclusione: la ricategorizzazione giuridica come metodo laico di governo delle questioni culturali

1. La sacralità investe la sfera profana incidendo sugli aspetti basilari dell’esperienza umana. Quando le religioni accedono alla dimensione secolare, modificano il significato e il valore delle assi regolatrici dei rapporti sociali e giuridici. Per fare un esempio, la sacralità investe la vita sociale chiedendo la dedicazione di una dimensione alternativa a quella ordinaria, temporale rispetto alla durata, spaziale rispetto all’estensione del sacro 1. Nel saeculum, ovvero nel tempo mondano, si dispone la sospensione periodica dello svolgimento delle normali attività per attendere agli obblighi rituali; nello spazio si ordina la separazione di luoghi sacri dallo svolgersi delle pratiche quotidiane. Tale incidenza sulle regole del convivere può diventare problema-tica all’interno di un ordinamento statale laico, nel momento in cui essa risulti difforme rispetto al bilanciamento di interessi (sia di tipo pubblico, sia di tipo privato) consolidatosi nelle norme e nelle pras-si giuridiche previgenti. Posto l’assunto della relatività storica delle

1 Cfr. A. BeTTeTini, Diritto canonico e senso del tempo, in Lex Iustitia Veritas. Per Gaetano Lo Castro. Omaggio degli allievi, Jovene, Napoli, 2012, pp. 41 ss.; R. aluffi Beck-Peccoz, Tempo, lavoro e culto nei paesi musulmani, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 2000, pp. 1 ss.; G. Van der leeuw, Fenome-nologia della religione, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pp. 302 ss. per le nozioni di tempo e spazio sacri.

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Giancarlo Anello

categorie del diritto 2, uno tra i compiti dello studioso che si occupa di diritto e religione può essere, ove possibile, di elaborare percorsi di interpretazione degli interessi religiosi, al fine di veicolare quelli non ancora riconosciuti, ma giuridicamente accettabili, all’interno di canali diversi di legittimazione. In tal senso egli può anche operare sull’acquisizione dei concetti in modo da costruire categorizzazioni o qualificazioni differenti 3 e, di conseguenza, proporre nuove pro-spettive di bilanciamento degli interessi all’interno di una cornice giuridica laica e pluralista 4.

Un campo d’indagine di queste riflessioni può essere offerto dal-le pratiche in cui si concreta la libertà di culto delle confessioni di recente insediamento in Italia. In particolare, la complessa tematica dei luoghi di culto islamico offre un reticolo di norme legislative e di decisioni giurisprudenziali sulle quali elaborare ipotesi di qualifica-zione giuridica alternative a quelle finora proposte, al fine di distri-care alcune questioni di carattere finanziario o urbanistico dal diritto all’esercizio del culto. Si tratta di dare seguito a osservazioni che sono state, a suo tempo, già sollevate dalla dottrina ecclesiasticistica 5 e che hanno trovato parziale riscontro in quelle decisioni del giudice ordinario e amministrativo che di quest’indagine integrano l’oggetto.

2 Da angolazioni diverse vedi, F. salVia, La «relatività» delle categorie giuridi-che e i nuovi criteri sostanzialistici nel diritto amministrativo, in “Nuove autono-mie”, 2001, 1, pp. 7 ss., e N. liPari, Categorie civilistiche e diritto di fonte comu-nitaria, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, fasc. 1, 2010, pp. 1 ss.

3 Cioè realizzando una suddivisione, ordinando o classificando secondo vari cri-teri (gerarchico, potestativo, di specialità, di sussunzione e così via) i comportamenti umani in categorie giuridiche; ovvero attribuendo, in base ai caratteri specifici, una qualifica normativa ad una fattispecie, cfr. A.J. connolly, Cultural Difference on Trial. The Nature and Limits of Judicial Understanding, Ashgate, Farnham-Burl-ington, 2012, p. 100.

4 M. ricca, La laicità interculturale. Che cos’è?, in “Scienza & Pace”, Rivista on line, marzo 2012.

5 V. Tozzi, Le moschee ed i ministri di culto, in www.statoechiese.it, 2007; inol-tre, cfr. il numero monografico dei “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, 1, XVIII, 2010, intitolato Campanili e minareti. I luoghi di culto tra norme civili e interessi religiosi, di cui verranno richiamati, di seguito, singoli contributi.

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2. In una recente sentenza 6 il Consiglio di Stato ha espressamente escluso che le problematiche di carattere finanziario o urbanistico che ruotano attorno al tema degli edifici di culto islamico possano configurare una limitazione della libertà religiosa. Nel dettaglio, si af-fermava che lo specifico contenzioso, in materia di denuncia d’inizio attività (DIA), andasse inteso come strettamente inerente a problemi di compatibilità urbanistica degli interventi edilizi proposti dall’ap-pellante, l’associazione comunità islamica del Trentino Alto Adige, senza che ciò concretizzasse alcun coinvolgimento della libertà di culto costituzionalmente garantita. D’altra parte – si aggiungeva – erano stati gli stessi ricorrenti a proclamare di non volere in alcun modo conseguire obiettivi limitativi di diritti fondamentali. Risultava pertanto corretto ricondurre la controversia all’indirizzo giurispru-denziale di esclusiva pertinenza urbanistica secondo cui gli edifici adibiti a luogo di culto (di qualsiasi culto) sono tenuti a rispettare la disciplina stabilita dai comuni nell’esercizio della propria potestà di conformazione del territorio 7. In un’altra sentenza, in materia di cit-tadinanza, la medesima autorità rilevava che la partecipazione all’at-tività religiosa da parte dello straniero richiedente non poteva consi-derarsi una causa ostativa alla concessione della stessa. Al contrario, si specificava che la frequentazione della moschea, fino a quando non fossero emersi elementi contrari, costituiva esplicazione della libertà di religione, garantita dall’articolo 19 della Costituzione 8. Un mero accostamento tra le due sentenze – esse non vertono sulla medesima fattispecie – serve però ad evidenziare una contiguità sostanziale tra la libertà religiosa e la frequentazione del luogo di culto. Ne conse-gue una certa perplessità verso quell’impostazione tecnicistica, ri-corrente nella giurisprudenza amministrativa, che recide i nessi tra la disciplina dello spazio di culto e quella delle attività rituali in esso svolte, contribuendo a realizzare una certa “ineffettività strutturale”,

6 Cons. St., sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1488.7 Cfr. la giurisprudenza del Cons. St., sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8298 e 27

luglio 2010, n. 4915.8 Cons. St., sez. VI, 18 gennaio 2012, n. 154.

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in questi ambiti, del diritto di libertà religiosa 9. Che il tema dell’at-tuazione di un ipotetico “diritto alla moschea” 10 si inserisca nell’al-veo della libertà religiosa, delineato dall’art. 19 cost., e rappresenti un aspetto dell’insediamento delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, di cui all’articolo 8, comma 2 della carta fondamentale, è invece una considerazione che si può e si deve sviluppare. Come accennato, essa può almeno indurre ad elaborare ipotesi pluralistiche di contemperamento tra gli interessi di tipo religioso e i cogenti li-miti legali. Non si nega si tratti di un problema piuttosto complesso: per questo appare semplicistico affrontarlo sia in chiave puramente tecnicistica, sia sulla base di indicazioni meramente ottative, come quelle del parere sui luoghi di culto islamici del Comitato per l’Islam Italiano 11. In questo documento si richiamano alcune linee guida cir-ca l’edificazione dei luoghi di culto affermando, tra l’altro che

i luoghi di culto islamici, relativamente alle procedure edilizie e urbanistiche, alle norme di sicurezza e di gestione, e dell’ordine pubblico, dovranno fare riferimento esclusivo alla normativa nazionale e locale vigente. Perciò, gli edifici dovranno essere costruiti in totale conformità con la normativa edi-lizia e urbanistica e, dunque, previa approvazione dell’Ufficio Tecnico del Comune. Essi dovranno essere inseriti in zone urbanistiche compatibili con la destinazione d’uso di “pubblico interesse” o “luogo di culto”. La comunità islamica deve individuare l’area per l’edificazione del luogo di culto, con le idonee caratteristiche urbanistiche, e presentare il progetto all’Ufficio Tecni-co del Comune che lo esamina e ha facoltà di proporre soluzioni alternative.La comunità islamica si fa carico di acquistare l’area per l’edificio da adi-bire a luogo di culto, che dovrà corrispondere a criteri di estetica e decoro, anche in relazione all’entità del bacino d’utenza e deve essere conforme alle vigenti norme urbanistico edilizie nonché a quelle in materia di igiene,

9 Cfr. l’intervento di A. chieTTini, Giudice amministrativo, immigrazione e luo-ghi di culto, al convegno Frontiere dell’immigrazione o migrazione delle frontiere?, tenutosi a Trento il 25 novembre 2011, pp. 2 e 17, ora consultabile on line all’indiriz-zo internet http://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/25_11_2011_re-lazione_chiettini.htm.

10 G. casuscelli, Il diritto alla moschea, lo Statuto lombardo e le politiche co-munali: le incognite del federalismo, in www.statoechiese.it, 2009.

11 Del 27 gennaio 2011, consultabile sul sito del Senato.

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sanità, sicurezza e ordine pubblico. A tale fine deve essere prevista anche la possibilità di parcheggio delle automobili in misura adeguata all’affluenza dei fedeli. Per i luoghi di culto di nuova edificazione si dovrà richiedere re-golare destinazione d’uso a luogo di culto dell’edificio interessato, secondo la normativa in materia e le disposizioni dei piani urbanistici.

Colpisce il fatto che lo stesso documento ammetta che l’esercizio del culto, espressione delle più fondamentali garanzie costituzionali, possa però essere praticato con “ampi” margini di discrezionalità nei luoghi privati. Di fatto, tale “ampia discrezionalità” nello svolgimen-to di funzioni religiose in immobili adibiti a residenza privata è con-fermata dalla giurisprudenza. Il giudice amministrativo ha precisato che il proprietario di immobile pacificamente destinato a residenza è libero di esplicare molteplici attività umane, fra le quali rientra an-che l’utilizzo della propria residenza per riunioni religiose come per lo svolgimento saltuario di pratiche di culto. Una circostanza simile non ne integra una diversa destinazione d’uso. Eventualmente, quel tipo di attività incontrerebbe il limite dei comportamenti illeciti, che sono sanzionati amministrativamente, civilmente e penalmente. Sa-rebbe sempre salva la facoltà dei vicini di adire il giudice ordinario qualora, in relazione all’afflusso di persone e al disturbo cagionato in occasione delle suddette cerimonie religiose, si registrassero immis-sioni moleste che eccedono la normale tollerabilità 12.

In realtà, da un esame a più ampio spettro della giurisprudenza recente, appare evidente che l’esercizio del culto in residenze private non limita o esclude la litigiosità sulla questione. Esso inoltre non dà conto di quelle circostanze in cui tale attività richieda spazi adeguati al numero di fedeli, in costante incremento in alcune aree urbane. La problematicità di queste situazioni piuttosto risiede nel porsi a ca-vallo tra la sfera privata e quella pubblica. Si tratta di fattispecie che

12 T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 17 settembre 2009, n. 4665. Per rilievi ge-nerali in tema di immissioni sonore e attività di enti ecclesiastici nella giurispruden-za più recente cfr. M.R. Piccinni, Applicabilità agli enti ecclesiastici della disciplina ex art. 844 c.c. in tema di immissioni sonore, in “Diritto e religioni”, n. 2/2007, pp. 622-37.

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vanno dall’edificazione di luoghi di culto in senso stretto all’utilizzo di sedi associative o centri culturali per scopi rituali. Condiziona-menti o limitazioni all’esercizio del culto vengono in essere nelle diverse fasi di realizzazione o di utilizzazione di spazi o di edifici per scopi rituali.

La disciplina in materia urbanistica e di edilizia di culto è oggetto di competenza concorrente dello stato e degli enti territoriali (artt. 8, 19, 117 co. 3 cost.). La casistica giurisprudenziale che ne deriva ap-pare frastagliata, anche se in via di progressiva definizione. In modo meramente esemplificativo, si può provare a riassumere gli attuali termini della questione in coincidenza dei momenti in cui, astratta-mente, si determina la realizzazione di una moschea, avendo cura di porre in evidenza alcune tra le linee di tendenza già consolidate, condizionanti in senso positivo o negativo la libertà religiosa.

a. Pianificazione urbanistica e attuazione edilizia: a fronte di nu-merose ipotesi di discriminazione previste dalla legislazione regio-nale 13, la Corte costituzionale ha ribadito che tutte le confessioni religiose hanno uguale libertà e un interesse tutelato, di rilievo co-stituzionale, non soltanto a concorrere alla ripartizione delle quote dei contributi di concessione legati alle opere di urbanizzazione se-condaria ma anche alla destinazione di aree per l’edilizia di culto 14. In particolare, è stato rilevato che i comuni non possono sottrarsi dal prestare ascolto alle eventuali richieste che in questa fase mirino a dare contenuto sostanziale al diritto del libero esercizio del culto. Ciò

13 V. Tozzi, Gli edifici di culto tra fedele e istituzione religiosa, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, 1, XVIII, 2010, p. 37, ha qualificato come «culturale», oltre che normativa, la questione della discriminazione nella legislazione regionale (legge Regione Sardegna, n. 38 del 13 giugno 1989 e legge Regione Veneto n. 44 del 20 agosto 1987) che attribuisce alle sole confessioni con intesa, l’attribuzione di aree specifiche per edificare, i contributi o finanziamenti per le attrezzature religiose.

14 In base alle leggi 29 settembre 1967, n. 847, e 28 gennaio 1977, n. 10, e al D.M. 2.4.1968, n. 1444, sugli standard urbanistici, le aree per le «attrezzature di interesse comune religiose» devono obbligatoriamente essere previste in sede di pia-nificazione urbanistica. Vedi quindi Corte cost., 27 aprile 1993, n. 195; Corte cost., 16 luglio 2002, n. 346.

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non solo nel momento attuativo del rilascio del permesso di costru-ire, ma anche nella precedente fase di pianificazione delle modalità di utilizzo del territorio 15. In sede di elaborazione degli strumenti di pianificazione, i Comuni che ricevono richieste di localizzazione di luoghi di culto possono legittimamente porsi soltanto il problema dell’effettiva esigenza di queste infrastrutture in relazione al numero di soggetti interessati (anche su scala sovracomunale se per le ridotte distanze o per altri motivi risulti verosimile che il bacino potenziale è più ampio del territorio comunale). Ma, una volta accertata l’esigen-za di un luogo di culto, un diniego legittimo deve necessariamente basarsi sull’inidoneità del sito proposto secondo le normali valuta-zioni urbanistiche mentre, all’opposto, la localizzazione deve essere necessariamente conforme alla proposta presentata qualora i promo-tori del progetto abbiano la disponibilità degli immobili, in quanto una diversa soluzione, coinvolgendo diritti di terzi, equivarrebbe di fatto a un diniego arbitrario 16. Sul punto, però, vale la pena segnalare che tali passaggi possono essere strumentalizzati per speculazioni di tipo ideologico. In una recente decisione, relativa all’impugnazione, da parte di alcuni esponenti politici locali, del permesso di costruire un luogo di riunione per i fedeli ottenuto dall’Unione dei Musulmani in Italia a Torino, la corte ha dichiarato inammissibile tale azione per difetto di legittimazione e di interesse, dato che i ricorrenti non di-mostravano l’esistenza di «uno stabile collegamento territoriale con il luogo interessato dall’intervento edilizio» o «alcun pregiudizio ai loro interessi» 17.

15 Cons. St., sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8298, con commento di T. raPisarda, I luoghi di culto e la confessione religiosa islamica. Pluralismo religioso e convi-venza multiculturale, in “Diritto e religioni”, VI, 1, 2011, pp. 480 ss.

16 Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 14 settembre 2010, n. 3522.17 Cfr. T.A.R. Piemonte, sez. II, 27 ottobre 2011, n. 1139. Sulla stessa scia, circa

la aberrante prospettiva di una approvazione popolare preventiva tramite referen-dum comunale, cfr. la decisa e condivisa critica di N. Marchei, Gli edifici dei «culti ammessi»: una proposta di legge coacervo di incostituzionalità, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, 1, XVIII, 2010, p.117.

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b. Mutamento di destinazione d’uso 18: un discorso a parte va fatto per le prassi che riguardano la conversione d’uso dell’immobile. Si tratta di fattispecie composite, in cui i fedeli acquistano o fruisco-no di immobili da adibire ad associazione; in seguito, in costanza di ulteriori interventi, viene chiesto il cambio di destinazione d’uso, pur in assenza di modifiche ai piani urbanistici, oppure si realizza-no lavori allo scopo di adibire i locali medesimi a luogo di culto, aggirando gli obblighi relativi alla realizzazione delle necessarie infrastrutture di servizio 19. In altre circostanze ancora, si presenta all’amministrazione locale una richiesta per poter fruire di immobili di proprietà del comune da adibire a centri culturali. Una volta otte-nuta la concessione di tali spazi, si usa domandarne il mutamento di destinazione d’uso, in assenza di modifiche ai piani urbanistici, allo scopo di realizzare in quei locali veri e propri luogo di culto 20. Tali

18 Cfr. G. PaGliari, Corso di diritto urbanistico, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 456 ss.19 Cfr. le vicende analoghe di T.R.G.A. Trentino Alto Adige, 7 maggio 2009,

n. 150 confermata da Cons. St., sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1488. Vedi nello stesso senso, T.A.R. Emilia Romagna, Parma, sez. I, 26 novembre 2009, n. 792 confermata da Cons. St., sez. IV, 28 gennaio 2011, n. 683. In tema, A. BeTTeTini, La condizione giuridica dei luoghi di culto tra autoreferenzialità e principio di effettività, in “Qua-derni di diritto e politica ecclesiastica”, 1, XVIII, 2010, pp. 3 ss.

20 Cfr. pertanto la modifica apportata ad hoc alla legge per il governo del territo-rio della Regione Lombardia n. 12 del 2005 come modificata dalla L.R. n. 3 del 21 febbraio 2011, in tema di norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrez-zature destinate a servizi religiosi. L’art.71 ne circoscrive l’ambito di applicazione:

1. Sono attrezzature di interesse comune per servizi religiosi:a) gli immobili destinati al culto anche se articolati in più edifici compresa l’area

destinata a sagrato;b) gli immobili destinati all’abitazione dei ministri del culto, del personale di

servizio, nonché quelli destinati ad attività di formazione religiosa;c) nell’esercizio del ministero pastorale, gli immobili adibiti ad attività educa-

tive, culturali, sociali, ricreative e di ristoro compresi gli immobili e le attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e similari che non abbiano fini di lucro.

c bis) gli immobili destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricon-durre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali.

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prassi sono state più volte ritenute illeggittime sulla base della ne-cessità di dare corretta applicazione alle normative locali in materia urbanistica ed edilizia. In alcuni casi si è fatto valere il principio di effettività, in virtù del quale il mutamento strutturale e funzionale della destinazione d’uso deve essere qualificato, non tanto in base alle intenzioni espresse dalla parte interessata, quanto dalle oggettive caratteristiche che presentano i locali. In altri casi, si è rilevato che le deroghe ai piani regolatori non possono legittimare eccezioni alle destinazioni di zona, sulle quali si fonda la struttura concettuale del piano regolatore generale.

c. Attività svolte: infine va fatto un richiamo alla giurisprudenza in tema di attività svolte all’interno di tali luoghi. Pare necessario sottolineare che in molte circostanze esse hanno sollevato preoccu-pazioni in materia di ordine e di sicurezza pubblica, in applicazione di legislazioni inerenti la limitazione di attività di sedizione politica e religiosa 21 da parte di imam integralisti, ad esempio, durante lo svogimento del sermone del venerdì. In relazione alla determinazio-ne dei limiti, va segnalata, però, la decisione in virtù della quale le dichiarazioni rese alla stampa da un cittadino straniero di religione musulmana, a favore dell’integralismo islamico, non giustificano l’e-spulsione di quest’ultimo dall’Italia. Dette condotte non appaiono tali – per le concrete modalità di esternazione che le hanno carat-

2. Le attrezzature di cui al comma 1 costituiscono opere di urbanizzazione se-condaria ad ogni effetto, a norma dell’articolo 44, comma 4.

3. Gli edifici di culto e le attrezzature di interesse comune per servizi religiosi interamente costruiti con i contributi di cui al presente capo non possono essere in ogni caso sottratti alla loro destinazione, che deve risultare trascritta con apposito atto nei registri immobiliari, se non siano decorsi almeno vent’anni dall’erogazione del contributo. Tale vincolo di destinazione si estende anche agli edifici. di culto ed alle altre attrezzature di interesse comune per servizi religiosi costruiti su aree cedute in diritto di superficie agli enti delle confessioni religiose che ne siano assegnatari i quali sono tenuti al rimborso dei contributi ed alla restituzione delle aree in caso di mutamento della destinazione d’uso delle attrezzature costruite sulle predette aree.

21 Come nel caso di istigazione all’odio razziale o religioso, in base alla legge 25 giugno 1993, n. 205; come nel caso del terrorismo internazionale di matrice islami-ca, di cui alla legge 31 luglio 2005, n. 155.

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terizzate nel caso di specie – da arrecare un grave turbamento per l’ordine pubblico e costituire un pericolo per la sicurezza dello Stato. Le suddette dichiarazioni debbono, infatti, ritenersi quali semplici manifestazioni di pensiero, tutelate dalla Carta costituzionale, essen-do espresse in modo palese e non connotate da alcuna forma di riser-vatezza o “mimetismo”, risultano inconciliabili – secondo i dati della comune esperienza – con la volontà di arrecare a chiunque un reale nocumento 22. Per la stessa materia, occorre richiamare la sentenza, citata in precedenza, in virtù della quale la frequentazione della mo-schea non può considerarsi sufficiente a far sospettare l’interessato di avere rapporti con il fondamentalismo islamico, in modo da impedire la concessione a suo favore della cittadinanza italiana 23. Di recente, infine, il giudice amministrativo ha avuto la possibilità di annullare un’ordinanza sindacale che obbligava le associazioni culturali e reli-giose (islamiche) a tenere le loro riunioni “latatamente” pubbliche 24 esclusivamente in lingua italiana 25.

3. Dall’analisi della giurisprudenza amministrativa appare evidente che la categoria giuridica sotto cui viene sussunta la realizzazione degli spazi di culto islamici sia prevalente quella dell’edificio di cul-to, inquadramento che si colloca, a sua volta, all’interno delle previ-sione di principio e di dettaglio del diritto urbanistico. Tale inquadra-mento si è risolto in una serie di pronunce del giudice amministrativo che, di fatto, hanno inciso a vario titolo sull’effettività costituzionale

22 T.A.R. Lazio, sez. I ter, 11 novembre 2004, n. 15336; Cons. St., sez. VI, 18 gennaio 2012, n. 154.

23 Cons. St., sez. VI, 18 gennaio 2012, n. 154.24 Vedi, n. 2, lett. f) Ordinanza Sindacale Trenzano (Brescia) n. 312/2009, in cui

si leggeva: «È da considerarsi pubblica anche una riunione che, sebbene indetta in forma privata, tuttavia per l’accessibilità del luogo in cui sarà tenuta, o per il numero di persone che dovranno intervenirvi, o per lo scopo o l’oggetto di essa, ha carattere di riunione non privata».

25 T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II., 15 gennaio 2010, n. 19. Sia permesso il rinvio al mio G. anello, Pretese linguistiche e culture. Il diritto alla “Parola Sacra” nella sfera pubblica pluri-culturale, in Multilinguismo e società, Edistudio, Pisa, 2011, pp. 21-34.

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del diritto alla libertà religiosa degli islamici. Tuttavia questo non pare l’unico inquadramento concettuale in cui si possano scomporre le pratiche in cui si estrinseca l’esercizio del culto islamico. La ca-tegorizzazione giuridica consiste in un’operazione di suddivisione intellettuale che si pone in essere ordinando o classificando secondo vari criteri (gerarchico, potestativo, di specialità, di sussunzione e così via) i comportamenti umani. Ciò posto, di seguito si vorrebbe proporre una sterzata interpretativa volta a categorizzare il culto isla-mico secondo una suddivisione differente rispetto a quella fino ad ora praticata, al fine di rendere possibile l’attribuzione di una qualifica normativa diversa al complesso di tali pratiche.

Ammettendo che l’art. 8 cost., comma 2, tuteli la possibilità di fare rinvio agli statuti delle confessioni, anche in senso culturale 26, vi sarebbe, all’interno della tradizione giuridica musulmana, la pos-sibilità di rintracciare, appunto, ulteriori ipotesi di inquadramento. Tramite questo esperimento argomentativo ci si pone l’obiettivo di ipotizzare circuiti di riconoscimento di questo diritto fondamentale la cui effettività pare essere messa in discussione nella casistica giu-risprudenziale precedentemente descritta. Per approfondire questa prospettiva interpretativa si potrebbero scandagliare le categorie in cui sono ordinate le pratiche del culto, c.d. “‘ibadat”, secondo il dirit-to islamico 27, privilegiando la categoria ermeneutica dell’attività ca-ratterizzante il culto, quella della preghiera congregazionale, rispetto a quella basata sull’ubicazione delle stesse all’interno di un luogo di culto. In altri termini, si andrebbe a scandire, almeno in prima battu-ta, la disciplina dell’attività di riunione da quella dell’edificio, al fine di valutare, dal punto di vista antropologico, assiologico e giuridi-co, l’utilità di convertire la qualificazione della moschea da quella di edificio di culto in senso stretto a quella di “spazio” della preghiera.

26 G. anello, Organizzazione confessionale, culture e Costituzione. Interpreta-zione dell’art. 8 cpv. cost., Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, pp. 5 ss. Cfr. anche lo studio pionieristico di A. Predieri, Shari’a e Costituzione, Laterza, Roma-Bari, 2006.

27 T.W. JuynBoll, Manuale di diritto musulmano secondo la dottrina della scuo-la sciafeita, Vallardi Editore, Milano, 1916, pp. 42 ss.

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Non si tratta di una virata ermeneutica inopportuna, ove si guar-di alle categorie interpretative della tradizione islamica. Di là dalle pur corrette distinzioni tra le differenti tipologie dei luoghi di culto islamici (musallah, jami’a, masgid, küllyie) 28, infatti, nella cultura di origine, la definizione della moschea non ha mai avuto una sua autonomia ontologico e teologica 29, architettonica e storica 30, socio-giuridica 31. Sotto il primo aspetto, per esempio, è possibile tracciare una differenza di grado tra santuari dell’Islam, come la Ka’abah e la Moschea del Profeta Maometto a Medina, e gli altri luoghi di culto nati durante l’espansione dell’Islam. La prima fonda la sua sacralità direttamente nel Corano (3,96; 5,97), che la definisce la “casa sacra”. Com’è noto, tale qualità la rende il centro effettivo della cosmogonia islamica, il punto verso cui orientare le preghiere o attorno al quale far convergere il pellegrinaggio. La seconda trae la sua sacralità dal fatto di essere contigua alla casa del Profeta; abitazione che ha pro-gressivamente assorbito. A differenza di tali santuari, i luoghi di culto

28 S. khalil, Note sulla moschea, in “La civiltà cattolica”, quaderno 3618, 2001, pp. 599 ss.; S. allieVi, Moschee in Europa. Conflitti e polemiche, tra «fiction» e realtà, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, 1, XVIII, 2010, p. 148 ss.; G. Necipoğlu-Kafadar, The Süleymaniye Complex in Istanbul: An Interpretation, in “Muqarnas”, vol. 3 (1985), pp. 92-117.

29 Cfr. H. salaM-lieBich, Moschea (storia e tradizione), in Enciclopedia delle religioni, vol. 8, Islam, Città Nuova-Jaca Book, 2004, pp. 458 ss.

30 Cfr. S. Henderson, Moschea (architettura), in Enciclopedia delle religioni, vol. 8, Islam cit., pp. 460 ss.

31 Del resto, si può affermare che gli spazi sacri delle altre religioni abbiano uno statuto giuridico originario che coincide con un certo edificio? Si propenderebbe per il sì ove si pensasse alla normativa canonistica di dedicatio formale e benedizione, can. 1205 ss. Ma, anche in tal caso, cfr. in senso contrario la sottile distinzione posta da M. calVi, L’edificio di culto è un “luogo sacro”? La definizione canonica di “luogo sacro”, in “Quaderni di diritto ecclesiale”, 13 (2000), pp. 228 ss., per il quale «i cristiani non hanno luoghi sacri». Più specificamente, la sacralità teologica di un luogo non si converte automaticamente nella categoria giuridica dell’edificio di culto. In una prospettiva comparativa semitica cfr. la distinzione significativa tra tempio e sinagoga nell’ebraismo, M.C. culoTTa, The Temple, the Synagogue, and Hebrew Precedent, in “Journal of the History of Ideas”, vol. 31, n. 2 (apr.-jun. 1970), pp. 273-6.

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ordinari non paiono avere uno statuto religioso particolare. Il termine masgid ricorre spesso nel Corano, in un significato tuttavia generico, quello di luogo in cui si venera Dio. Un famoso hadith precisa che esiste una moschea ovunque si preghi 32. Quando si vuole individuare specificamente un tempio musulmano si indica “quel” luogo preciso, come la masgid al-Haram a Mecca o la masgid al-Aqsa a Gerusalem-me (17,1). Peraltro, da un punto di vista architettonico le moschee non corrispondono a un modello progettuale definito. Esse non sono necessariamente costituite dal minareto, da una cupola, dalla mezza luna, dal mihrab o dal minbar. È necessario non confondere l’eccesso di significato che la monumentalità produce attraverso la reiterazione architettonica di questi elementi con l’archetipicità architettonica o giuridica. Tali elementi, infatti, hanno iniziato ad essere presenti solo alla fine del primo secolo dell’Islam, e trovano la propria ragion d’es-sere nella funzione prototipica della moschea del profeta a Medina, volta a reiterare la memoria collettiva della comunità 33. Diversamen-te, sarebbe difficile spiegare come nell’esperienza storica islamica, le moschee siano state legittimamente ospitate in una disparata va-rietà di luoghi e situazioni, dando origine a svariate interpretazioni e realizzazioni. Queste ultime partono dalle moschee tradizionali, costituite dagli elementi prima menzionati, transitano dai parcheggi o dagli angoli delle strade, entrano nei garage o negli scantinati di alcune città, fino a innestarsi su moduli architettonici occidentali che re-interpretano il vero nucleo significante dello spazio rituale, in fun-zione dell’attività che in esso si svolge, vale a dire la preghiera 34.

32 Cfr. H. salaM-lieBich, op. cit., p. 458.33 N. raBBaT, In the Beginning was the House: On the Image of the Two Noble

Sanctuaries of Islam, in “Thresholds 25”, 2002, pp. 56 ss.34 Cfr. la possibilità di concettualizzazione di una “generic mosque”, come ipo-

tizzata dall’architetto-artista Azra Aksamija: «The History of Islamic Architecture teaches us that mosques have never been explicitly defined as a particular architec-tural form. Their formal variety around the world evokes the question of whether the notion of the mosque can be understood as a specific building type at all. In regard to such questions of typology, Rafael Moneo argues that “the work of Architecture is irreducible to any classification”», http://tdd.elisava.net/coleccion/24/aksamija-en.

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Non è sorprendente, in tal senso, che la definizione più pregnante di moschea venga individuata in un «luogo di riunione aperto ai fedeli, nei quali i musulmani si incontrano per pregare con modalità regolari e in cui si gestiscono altresì gli affari pubblici» 35. A dispetto di una concezione antropologica che ravvisa la sacralità nel temenos, cioé nella separazione dallo spazio ordinario, l’area della moschea islami-ca è stata fin dal principio concepita come un’area mondana, sociale e pubblica 36. Essa rappresenta, piuttosto, uno spazio disponibile per riunire i fedeli al fine, quello sì necessario, di ribadire i principi poli-tici e religiosi della comunità: ciò avviene attraverso la reiterazione del fondamentale momento della riunione. In tal senso, è ovvio che la qualificazione del luogo come moschea deriva a un qualsiasi spazio dall’attività che in esso si svolge, non insistendo sulla dedicazione di un fabbricato ad attività sacre.

In tal senso, si può nutrire qualche perplessità verso una analo-gia senza sfumature tra moschee e chiese. Queste ultime, per essere tali, necessitano di riti idonei a consacrare gli edifici, che assumono solo successivamente un carattere funzionale e giuridico particolare.

35 Cfr. la convergenza tra la definizione riportata nel corpo del testo del giurista medievale Ibn Taymiyya (morto nel 1328), citata in H. salaM-lieBich, op. cit., p. 458, e la seguente del sociologo contemporaneo S. allieVi, Mosques in Europe: Real Problems and False Solutions, in S. allieVi (ed.), Mosques in Europe. Why a Solution has become a Problem, NEF Initiative on Religion and Democracy in Eu-rope, Alliance Publishing Trust, London, 2010, p. 15: «I shall here use an extensive definition and a commonsense criterion: all places open to the faithful, in which Muslims gather together to pray on a regular basis, will be considered to be mo-sques. I am aware that this definition contains an inevitable margin of error, but at the same time it is more meaningful and more comprehensive of the dimensions and dynamics of the phenomenon under discussion. It appeals to the principal function – prayer – and its collective and public aspect».

36 Non è un caso che nella prima opera di costruzione di una moschea di coloniz-zazione a Damasco, per un certo periodo di tempo, quello iniziale del dominio oma-yade del khalifa Walid Ibn Abd al-Malik (il fondatore dello stato), l’antico temenos (l’area sacra recintata, dal greco τέμνω, “tagliare”) del tempio abbia ospitato simulta-neamente, e senza eccessivi problemi, la chiesa cristiana e la prima musallah islami-ca. Cfr. R. Burns, Damascus. A History, Routledge, London-New York, 2005, p. 111.

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È tale carattere, una volta acquisito, che li rende idonei a ospitare legalmente le attività di culto da parte dei fedeli. Se il canone 1205 del Codex Iuris Canonici recita che «loca sacra ea sunt quae divino cultui fideliumve sepulturae deputantur dedicatione vel benedictio-ne, quam liturgici libri ad hoc praescribunt», il canone 1214 precisa che «ecclesiae nomine intellegitur aedes sacra divino cultui destina-ta, ad quam fidelibus ius est adeundi ad divinum cultum praesertim publice exercendum».

La formula normativa della prima disposizione subordina alla de-dicazione/benedizione l’assunzione della qualità sacra di un luogo. La seconda disposizione definisce la chiesa come quel luogo consa-crato, come tale idoneo a ospitare l’esercizio del culto divino da parte dei fedeli. Ma vi è di più: la natura giuridica assegnata all’edificio sembra addirittura prevalere su quella reale e funzionale: nel Codex il termine “luogo sacro” non equivale immediatamente al termine “luogo di culto”. I due vocaboli non sono sinonimi né sono tra loro intercambiabili: soltanto alcuni luoghi, e a determinate condizioni, sono identificati come luoghi sacri. E dall’attribuzione di questa qua-lifica si fanno discendere alcune precise conseguenze di carattere e valore normativi. Si può presumibilmente dedurre che il Codex usi la qualifica di sacro come una connotazione di tipo eminentemente e primariamente giuridico, piuttosto che teologico o liturgico. Certo, la norma canonica non intende prescindere, né potrebbe farlo, dalle implicazioni teologiche e liturgiche ma, pur tenendone conto le di-spone in un ordine logico giuridico molto chiaro che procede dalla dedicazione all’attività cultuale 37. Il processo che attribuisce valore al luogo di culto islamico – se c’è – appare andare in senso inverso.

Anche sulla base di un superficiale sguardo alle fonti del dirit-to islamico, la dipendenza normativa e giuridica del luogo/moschea rispetto alla pratica/preghiera è incontrovertibile: nella tradizionale sistemazione degli obblighi giuridici dell’uomo verso Dio (‘ibadat) la preghiera rituale occupa una posizione privilegiata 38. Nell’esecu-

37 Cfr. M. calVi, op. cit., p. 237.38 Cfr. T.W. JuynBoll, op. cit., p. 42.

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zione di tale obbligo è fondamentalmente il corpo umano la moschea dell’individuo, le cui membra offrono il luogo e il mezzo per pro-strarsi. La tradizione vuole che ogni essere umano ospiti sei masagid (pl. di masgid, moschea), nelle ginocchia, nei palmi e negli alluci, vale a dire nelle parti su cui poggia il credente durante la prostrazio-ne 39. Per questo motivo il ruolo della moschea nello svolgimento del culto è secondario, rispetto all’attività individuale e quotidiana della preghiera islamica. Coerentemente, la frequentazione della moschea per l’esecuzione delle cinque preghiere quotidiane non è obbligatoria.

Di contro, vi è una circostanza in cui è doveroso per i fedeli ri-unirsi con gli altri membri della comunità presso uno spazio unico di preghiera: nel giorno del venerdì a mezzodì 40. Tale prescrizione

39 K. craGG, Culto e pratiche di culto islamiche, in Enciclopedia delle religioni, vol. 8, Islam cit., p. 104.

40 Vedi A.J. wensinck, Salat, Shorter Encyclopedia of Islam, Cornell Univ. Press, Ithaca, 1953, per alcuni ahadith in materia di salat; M.H. siddiqi, Salat, in Enciclopedia delle religioni, vol. 8, Islam cit., pp. 567 ss. Si tratta di un’interpre-tazione consolidata, poiché la preghiera islamica si compone tradizionalmente di elementi ritualistici: l’invocazione del nome di Dio, la recitazione, l’inchino, la pro-sternazione, il rialzamento e l’adagiamento sui talloni. Le correnti sufi richiedono altresì che vi sia un momento di partecipazione interiore all’interno di questa cornice gestuale, che, per esempio, al-Ghazali individuava nell’invocazione del nome come momento in cui instaurare un dialogo privato con Dio. al-Ghazali, Scritti scelti, a cura di L. Veccia VaGlieri, r. ruBinacci, Utet, Torino, 1986, p. 203. Vedi altresi A. al-Maududi, mabadia’ al-islam (I fondamenti dell’Islam), Engineering House Press, Lahore, 1973, cap. 5, par. 186. Scrive l’A. a tal proposito: «si devono esegui-re le orazioni obbligatorie, possibilmente, in comune con altri credenti; in special modo l’orazione obbligatoria comunitaria del giorno del venerdì. Questo fatto crea tra i musulmani un legame di solidarietà e di comprensione reciproca. Questo fatto risveglia in loro il sentimento della loro unità e nutre il senso di appartenenza ad una comunità speciale. Il fatto di eseguire in riunione le orazioni obbligatorie inculca in loro un profondo sentimento di fratellanza, esse sono altresì il simbolo dell’ugua-glianza, perché il ricco ed il povero, il potente e l’umile, i dirigenti ed i dipendenti, i dotti e gli illetterati, i neri e i bianchi, tutti sono nel medesimo rango e si prosternano insieme davanti al loro Signore». Ma è molto vero ciò che afferma J.R. Bowen, Salat in Indonesia: The Social Meanings of an Islamic Ritual, in “Man”, New Series, vol. 24, n. 4 (dec. 1989), pp. 600-19: «the salat is not structured around an intrinsic propositional or semantic core».

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è solennemente prevista dal Corano, la cui sura intitolata al-jum’a (il venerdì) impone ai fedeli di lasciare i loro traffici nel momento in cui viene fatto l’annuncio della preghiera del venerdì (62,9) 41. La distinzione assiologica tra la preghiera e la moschea è scandita in diversi ahadith della sunnah di al-Bukhari, relativi, da un lato, alla varietà di luoghi leciti per la preghiera individuale (sui tetti delle case, sul minbar, sull’impiantito, su monticelli di terra, sopra i canali di scolo, sul tetto della moschea, sulla neve, sul terreno destinato ai cammelli, in luoghi di culto non musulmani) 42; dall’altro, alla moda-lità, necessariamente congregazionale, di esecuzione della preghiera del venerdì. In essa, infatti, assume fondamentale rilievo il momento collettivo, simbolizzato dal rito di disporsi su lunghe linee diritte, fianco a fianco allineati 43. Inoltre durante il venerdì è obbligatorio se-guire il sermone dell’imam (khutba’) 44. Quest’ultimo è una parte del rito indispensabile e si traduce in un’occasione pubblica per educare ed esortare i fedeli a comportamenti conformi ai principi religiosi. La funzione dell’imam, in quanto guida religiosa, consiste in tale frangente nel suggerire ai membri della comunità condotte adeguate ai dettami religiosi, ma anche alle circostanze di vita e del contesto politico vissuto, attuale e concreto 45.

Se, infine, i nomi sono significanti, l’etimologia delle parole e gli usi linguistici della lingua araba che fanno riferimento ai fenomeni in esame rendono chiarissima la priorità contenutistica e assiologica

41 Cfr. per la determinazione della giornata del venerdì, S.D. GoiTein, The origin and the nature of the muslim friday worship, in “The Muslim World”, vol. XLIX, 3, july 1959, pp. 183 ss, spec. p. 189 per gli usi preislamici.

42 al-Bukhari, Detti e fatti del profeta dell’Islam, Utet, Torino, 2003, p. 134.43 Si confronti l’espressione inḍamma b’aḍuhu ila b’aḍ (“stringersi gli uni con

gli altri”), volta a definire l’idea di riunirsi in moschea (tajamma’a), in I. MusTafa, a.h. az-zayi, h.a. al-qasr, M.a. an-naGar, al-mu’ajim al-wassyt (raccolta di etimologie), vol. I., al-maktabah al-islamiyyah, Istanbul, 1972, pp. 134-5. Sull’alli-neamento delle file durante la preghiera cfr. nelle fonti di diritto giurisprudenziale, Malik iBn anas, al-muwatta’. Manuale di legge islamica, Einaudi, Torino, 2011, p. 109; più in generale sulla preghiera del venerdì, nello stesso testo pp. 74-5.

44 al-Bukhari, op. cit., pp. 162-3.45 K. craGG, op. cit., p. 98.

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dell’attività di riunione al venerdì sul regime spaziale dell’edificio di culto: tutte sono composte dalla radice verbale trilittera j-m-’a, che descrive l’azione del raccogliere ciò che è sparso. In genere, la gran-de moschea in cui la comunità (jama’a) si riunisce al venerdi (ium al-jum’a) prende il nome di masgid al-jama’a o masgid al-jum’a, oppure ancora masgid al-jami’ (luogo della riunione), ma più usual-mente e comunemente viene chiamata al-jami’ah 46. Quando tale radice verbale viene coniugata con riferimento a gruppi etnici acco-munati dal dato religioso (al-qawm) esso indica una scelta collettiva, concordata e spontanea 47.

4. Nel rilevare una profonda divaricazione nelle discipline dei diritti religiosi sottostanti alla concezione canonistica e islamica del luogo di culto, ci si chiede se ciò non possa avere conseguenze sulla catego-rizzazione concettuale e quindi sulla qualificazione nel diritto statale dell’attività di culto islamico 48. Ciò anche in virtù dell’osservazione che l’ordinamento italiano ha formato le categorie di coordinamento

46 Cfr. H. salaM-lieBich, op. cit., p. 458.47 Si confronti anche l’espressione di jamma’a an-naas (la gente in assemblea):

shahidu al-jami’ah wa-qaḍu as-sallah fyha, “essi hanno testimoniato la riunione (del venerdì) e hanno terminato la preghiera al suo interno”. Cfr. I. MusTafa, a.h. az-zayi, h.a. al-qasr, M.a. an-naGar, al-mu’ajim al-wassyt cit., pp. 134-5. Si ringrazia il dott. Khaled Qatam per la preziosa ed erudita consulenza linguistico-bibliografica circa l’etimo di jami’ah.

48 Vedi L. zannoTTi, I luoghi della convivenza religiosa e del pluralismo cultura-le, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, 1, XVIII, 2010, che evidenzia l’in-terpretazione dualistica bene/male e la logica sottesa di inclusione/esclusione della disciplina canonistica in materia di luogo sacro. Per questi motivi ci si sente di dubita-re sulla dichiarata analogia senza sfumature tra chiesa, moschea e sinagoga proposta da P. caVana, Episcopati nazionali, chiese dismesse e nuove destinazioni d’uso, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, 1, 2010. A dire il vero, in una prospettiva storica la distinzione si coglie già all’interno della tradizione ebraico-cristiana, cfr. M. calVi, op. cit., p. 230. L’A. ha modo di osservare che anche nel vetero-cristianesimo non era il luogo fisico, ma l’attività svolta che consacrava la congregazione dei ce-lebranti. In progressiva differenziazione dal giudaismo vi sono molti testi neotesta-mentari che fanno pensare a un superamento della dimensione sacrale del tempio di Gerusalemme: Gv 4,21; Ap 21,22; Mt 12,6; At 7,48; 1 Cor 3,16-17 e 6,19; 2 Cor 6,16.

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tra diritto statale e diritti religiosi prevalentemente sull’esperienza storica canonistica 49. Per questo, si suggerisce una sterzata ermeneu-tica orientata sulle categorie originali della tradizione islamica, volta ad attribuire il primato contenutistico e assiologico alle attività poste in essere per le esigenze del culto, rispetto al luogo in cui esse si svol-gono. Occorre in tal senso ipotizzare quali effetti giuridici potrebbe avere sull’integrazione normativa del culto islamico un’interpreta-zione che privilegiasse la categorizzazione situazionale dell’attività di culto su quella spaziale dell’edificazione urbanistica. L’ipotesi di partenza è che un inquadramento siffatto, più vicino alle categorie ermeneutiche della religione islamica, potrebbe avere il pregio di rendere più effettivo e meno conflittuale l’esercizio della libertà di culto dei musulmani in Italia e di individuare nuove ipotesi di re-golamentazione pluralistica e strumenti di tutela giurisdizionale nei confronti di questo tipo di pratiche.

Certamente, il primo effetto che balza agli occhi del giurista sa-rebbe quello di considerare l’attività di riunione, svolta in moschea, in un garage, in un piazzale o altrove, sussunta sotto la tutela co-stituzionale dell’art. 17, oltre che 19 della Costituzione. In questo accostamento, l’art. 17 andrebbe letto e vivificato alla luce dei nuovi usi della libertà religiosa, nelle società plurireligiose e multicultura-li 50. Da parte sua, la lettura dell’articolo 19 che prevede, fra l’altro, il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in forma individuale e associata, oltre che di esercitare il culto, andrebbe a doppiare i modi di esercizio della libertà di riunione prevista dall’art. 17, nei limiti tradizionalmente riferibili a tale disposizione. L’inte-grazione tra la libertà di culto islamico e l’ulteriore ambito garantito dall’art. 17 va realizzata tenuto conto dell’interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale di quest’ultima disposizione, in convergenza con le particolarità delle pratiche rituali delle religioni di nuovo insedia-

49 Sia consentito il rinvio al mio volume G. anello, Modelli di scrittura norma-tiva e dinamica concordataria, Cedam, Padova, 2004, passim.

50 Cfr. per questo M. ricca, Art. 19, in R. Bifulco, a. celoTTo, M. oliVeTTi, Commentario alla Costituzione, vol. 1, Utet, Torino, 2006, pp. 432 ss.

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mento 51. Da questo punto di vista, la nozione base dell’attività riu-nione, utile a configurare la fattispecie costituzionale, è definita in prima battuta dalla mera vicinanza fisica dei partecipanti. In genere, si usa delimitare la riunione differenziandola da fenomeni simili che se ne distinguono per la minore o maggiore intensità del vincolo di aggregazione. Da un lato, ad esempio, si parla del mero assembra-mento caratterizzato dall’assenza di un previo concerto o di una pre-via organizzazione dei convenuti. Dall’altro, ci si riferisce dell’as-sociazione connotata, invece, dalla presenza tra i riuniti di un patto sociale, vale a dire di una accettazione formale di perseguire assieme un determinato scopo. Tale patto sociale determinerebbe la sussisten-za di un vincolo ideale tra i soci, nonostante la loro lontananza fisica. Per l’esercizio del diritto di riunione, inoltre, si ritiene che il vincolo tra l’attività e il luogo in cui essa si svolge sia meramente eventuale. L’identità del luogo è un termine che viene definito per relationem rispetto ai soggetti che pongono in essere la congregazione. Si può avere una riunione sia che i convenuti siano fermi, sia che si muova-no in corteo o in processione 52. Nondimeno, appare più frequente che la riunione di culto si svolga all’aperto o all’interno di un luogo aper-to al pubblico. Quest’ultimo viene definito generalmente come uno spazio caratterizzato dalla separazione fisica dall’ambiente esterno, con la volontà da parte del titolare di ammettere l’ingresso a tutti 53.

Ebbene, tutti questi caratteri si attagliano bene alla descrizione della preghiera del venerdì: in essa è rispettato il basilare requisito dell’aggregazione fisica; il criterio organizzativo è costituito dall’ob-bligo in coscienza di riunirsi e dalla consapevolezza sociale di una sua effettiva osservanza da parte della comunità di fedeli. Come os-

51 Vedi in dottrina, A. Pace, Art. 17, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Zanichelli-Soc. ed. del Foro Italiano, Bologna-Roma, 1977, pp. 145 ss.; R. Borrello, Riunione (diritto di), in Enc. del diritto, vol. XL, Giuffrè, Milano, 1989, pp. 1401 ss.; G. Tarli BarBieri, Art. 17, in R. Bifulco, a. celoTTo, M. oli-VeTTi, Commentario alla Costituzione, vol. 1 cit., pp. 383 ss.

52 Cfr. A. Pace, op. cit., pp. 156 e 153.53 Cfr. Cass. pen. S.U., 31 marzo del 1951, cit. in G. Tarli Barbieri, op. cit., p.

393, nota 85.

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servato, la mera eventualità di una insistenza dell’attività di riunione all’interno di un luogo corrisponde pienamente alla tradizione reli-giosa di riferimento e giustifica da un lato il fatto che la congregazio-ne possa occasionalmente avvenire nelle strade, nei parcheggi, nelle piazze; dall’altro, che essa si svolga generalmente all’interno di loca-li aperti al pubblico iure voluntatis domini (sebbene di proprietà pri-vata, come abitazioni o sedi associative). Di conseguenza, l’esercizio congregazionale del culto islamico andrebbe calibrato sulla disposi-zione costituzionale in base ai riferimenti testuali e giurisprudenziali. La libertà di riunione conosce, per esempio, ipotesi di limitazione di tipo soggettivo e oggettivo. Da un lato, la lettera della disposizione costituzionale ne riserverebbe la disciplina ai soli cittadini. Questa limitazione non pone preclusioni alla validità della tesi qui argomen-tata. La dottrina maggioritaria ritiene che, alla luce dell’art. 2 cost., le libertà costituzionali spettino anche agli stranieri almeno in quei casi (tra cui sicuramente anche la disposizione in esame) in cui la Costituzione non presupponga una disparità di trattamento 54. Inoltre, non si può escludere a priori che l’esercizio del culto islamico non interessi, nelle forme della preghiera congregazionale del venerdì, anche cittadini italiani di fede musulmana. Dall’altro, le limitazioni oggettive riguardano il fatto che tali riunioni si svolgano pacifica-mente e senza armi. Si tratta di una condizione, quest’ultima, che in questa sede viene considerata assolta per ipotesi, tranne che per alcune circostanze di cui si darà specificamente conto.

Una volta sgombrato il campo da ragionamenti preliminari, oc-corre verificare la corrispondenza tra le riunioni di culto islamico e la casistica giurisprudenziale in materia costituzionale. A tal proposito soccorre un indirizzo consolidato formatosi sulla disciplina pre-re-pubblicana sui culti ammessi. Si ravviserebbe, cioè, nell’attuale limi-tazione ad usufruire di certi locali per riunioni periodiche, in quanto privi delle caratteristiche tecniche di regolari “luoghi di culto”, una fattispecie assai simile a quella regolata dalla celebre coppia di sen-tenze n. 45 del 1957 e n. 59 del 1958. La prima ebbe modo di dichia-

54 Vedi G. Tarli BarBieri, op. cit., p. 386.

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rare l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 25 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza del 18 giugno 1931, n. 773, nella parte che implicava l’obbligo del preavviso per le funzioni, ce-rimonie o pratiche religiose in luoghi aperti al pubblico. La seconda dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto 28 feb-braio 1930, n. 289: in questa pronuncia si precisava che, avendo la Costituzione repubblicana posto una norma generale che garantisse il diritto di riunione in luogo aperto al pubblico senza limitazione di scopi, ne restassero travolte le norme incompatibili previgenti. In tal modo, le riunioni a scopo di culto avrebbero potuto tenersi anche in luoghi che fossero privi di autorizzazione. Si aggiungeva espressa-mente che in tali circostanze, di fronte alla libertà costituzionale di tenere le riunioni, il tempio dovesse considerarsi un luogo analogo a qualsiasi luogo aperto al pubblico. Lo stesso principio veniva statuito circa la possibilità che un ministro di culto privo di approvazione potesse dirigere il culto delle confessioni senza intesa.

Le fattispecie in oggetto e quelle attuali non si sovrappongono pienamente, in quanto le autorizzazioni abrogate costituzionalmente erano quelle della legislazione autoritaria della legge sui culti am-messi e non quelle derivanti da disposizioni urbanistiche. Nondime-no appare necessario contemperare, nella disciplina integrata degli articoli 17 e 19 della Costituzione ed entro i relativi limiti, interessi contrastanti inerenti lo svolgimento dell’attività di riunione all’inter-no di locali aperti al pubblico, senza preavviso nè autorizzazione, e il rispetto della disciplina in materia di edilizia di culto.

In tal senso, si ritiene che la preghiera del venerdì non possa es-sere subordinata a condizioni diverse rispetto a quelle a cui sono co-stituzionalmente assoggettate le riunioni in luogo aperto al pubbli-co. Queste possono essere limitate di fronte a esigenze di generale tutela della pubblica salute e incolumità (art. 32 cost.). In tali casi, il divieto eventualmente fatto alla riunione che debba svolgersi in luogo pericoloso (e di cui la pubblica autorità sia comunque venuta a conoscenza) sarebbe però sempre una conseguenza dell’accertato pericolo derivante all’incolumità pubblica dall’accesso a un deter-minato immobile. In tali casi, però, il divieto non dovrebbe essere

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né presuntivo né generale, ma ai sensi dell’art. 18, co. 4 T.U.L.P.S., sempre accompagnato dalle indicazioni di modalità di tempo e di luogo circa il suo mantenimento. Si sottolinea altresì che l’autorità che ha la competenza a emettere questo tipo di provvedimento è il prefetto, e non il questore 55.

Per inerenza, va dato conto anche della tesi in virtù della quale il diritto di riunione andrebbe considerato strumentale rispetto ad al-tra attività, la quale rileverebbe rispetto ad essa come finale. In tal caso, l’attività svolta nel corso della riunione non sarebbe coperta dalla tutela di tipo costituzionale ma andrebbe disciplinata dalla nor-mativa prevista per essa in via generale 56. Anche in questo caso, si tratta di una tesi che si può calibrare sull’esercizio del culto islamico. Ammettendo l’applicabilità della disciplina dell’attività finale e i re-lativi limiti sarebbe dubitabile che attraverso tale apertura possano rientrare le limitazioni di carattere finanziario o urbanistico che sono inerenti l’attività di costruzione del luogo di culto che non si pongo-no in rapporto di mezzo a fine rispetto all’attività espletata durante la riunione, nel caso in cui questa fosse quella di preghiera. Tuttavia tale teoria potrebbe aiutare a risolvere le questioni circa l’eventuale pericolosità politica delle riunioni stesse 57.

Nel caso in cui, durante la riunione del venerdì, si configurassero attività pericolose per la sicurezza pubblica, sarebbe da ritenersi del tutto opportuno applicare la normativa relativa a perseguire tali fatti;

55 Ai sensi dell’art. 2 del T.U.L.P.S. Cfr. A. saBaTo, Libertà di culto, di associa-zione e di riunione: riflessi sulle norme urbanistiche, in “Nuova rassegna di legisla-zione, dottrina e giurisprudenza”, LXXXV, n. 5, 2011, p. 523.

56 Si fa riferimento in particolare a P. GisMondi, Le riunioni a carattere religioso e la loro speciale disciplina costituzionale, in “Giur. Cost.”, 1957, p. 580, in relazio-ne all’esistenza di uno speciale criterio di assorbimento tra libertà di riunione (come libertà funzionale) e libertà religiosa, o altre libertà costituzionalmente disciplinate (vedi art. 40, diritto di sciopero). Tesi richiamata anche da A. Pace, op. cit., p. 147, e R. Borrello, op. cit., p. 1407.

57 R. Borrello, op. cit., p. 1405. La dottrina rileva però l’evidenza di come nel vigente sistema costituzionale si indichi all’interprete la necessità di attribuire al dirit-to di riunione, sul piano contenutistico, il massimo potenziale di espansione, rispetto al tipo di comportamento sociale preso in considerazione della situazione garantita.

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nè potrebbe la libertà di riunione, in alcun modo, coprire o giustifica-re tali tipologie di attività.

Un’ultima osservazione va dedicata al punto della qualificazione della fattispecie in ordine al tema di un eventuale conflitto di giuri-sdizione. Difatti, in caso di “stralcio” dell’attività di riunione del ve-nerdì dal complesso articolato normativo che invece avvolge il tema degli edifici di culto, ci si potrebbe interrogare su quale sede giudi-ziaria adire in caso di contestazione di esercizio legittimo dell’attivi-tà di riunione. Da questo punto di vista, un inquadramento dell’atti-vità del culto islamico, limitatamente alla preghiera del venerdì, al di sotto della copertura costituzionale ammetterebbe comunque i poteri di intervento dell’autorità pubblica, e di conseguenza la competenza del giudice amministrativo. Ma tali ampi poteri sarebbero comunque delimitati. In particolar modo, essi sarebbero circoscritti all’emana-zione di un eventuale provvedimento di divieto di riunione in luogo pubblico, da parte del Prefetto, previo accertamento della condizione di pericolo per la salute pubblica. Qualora, invece, la pubblica au-torità agisse sulla base di un potere diverso da quello conferito dal combinato disposto delle norme costituzionali e delle norme in ma-teria di pubblica sicurezza, competente a decidere sarebbe il giudice ordinario.

Ovviamente dinanzi a tale autorità andrebbero incardinate tutte le controversie circa abusi o violazioni commessi da un privato nei con-fronti di un altro privato in costanza di riunioni religiose, come nel caso di atti di emulazione. Corollario di questo riparto sarebbe quello di poter esperire, nell’incerto atteggiarsi del diritto di riunione a volte come diritto soggettivo a volte come interesse legittimo, una scelta circa il mezzo di tutela più efficace per contrastare un divieto di riu-nione illeggittimamente disposto. La tutela amministrativa potrebbe non garantire in maniera efficace, contro un provvedimento adottato senza potere, poiché nonostante la previsione di una pronuncia so-spensiva e fatte salve le ipotesi esperibili di tutela cautelare, i tem-pi per la proposizione di un ricorso e per la fissazione dell’udienza potrebbero rendere vana la tempestiva contestazione di un divieto a procedere a una riunione in un momento di poco o mediamente suc-

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cessivo 58. D’altro canto, non vi sarebbe un rimedio ordinario per so-spendere l’esecuzione di un provvedimeno di divieto emanato, sep-pure illeggittimamente dalla pubblica amministrazione, gravante il diritto soggettivo. Tuttavia in questo caso, si potrebbe in un momento successivo dare luogo a una iniziativa legale di carattere risarcitorio in caso di danno subito a causa del divieto illeggittimamente posto.

5. L’ipotesi di ragionamento qui svolta, circa una riconversione er-meneutica nella categorizzazione e nella qualificazione giuridica del-le pratiche di culto islamico, non può considerarsi né originaria né esaustiva. Essa, infatti, non proviene né è raccolta da alcun soggetto confessionale; inoltre, le sue premesse e le sue conseguenze andreb-bero ulteriormente calibrate sulla giurisprudenza ordinaria e ammini-strativa in via di formazione sulla questione delle moschee. Tuttavia, essa vale come contributo interpretativo indipendente, laico e inter-culturale delle norme disponibili in materia, finalizzato a promuovere l’effettività della libertà di culto delle confessioni religiose di nuovo insediamento. Attraverso la sua presentazione si propone di riflettere sul fatto che gli statuti culturali delle confessioni, rappresentati anche dai diritti religiosi, possano utilmente integrare le norme di diritto statali. Ciò avviene con l’estrazione dei significati dalle pretese di riconoscimento, mediante la loro contestualizzazione culturale, tra-mite un loro orientamento di tipo assiologico e finalistico. Ciò, come osservato, potrebbe produrre benefici riflessi sulle interpretazioni del diritto statale, garantendone maggiore effettività. La cornice plurali-stica del diritto italiano consente di elaborare simili ipotesi di rica-tegorizzazione delle pratiche religiose e culturali straniere: è possi-bile rintracciarvi itinerari di legittimazione che siano compatibili sia con l’ordine costituzionale dello stato, sia con lo svolgimento della personalità dell’uomo all’interno di formazioni confessionali. Una simile pratica di conversione funzionale che, del resto viene posta in

58 Cfr. A. TraVi, Lezioni di giustizia amministrativa, Giappichelli, Torino, 2010, pp. 284 ss., in particolare nell’ipotesi di tutela cautelare ante causam, di cui all’art. 61 cod. proc. amm. Cfr. anche A. Pace, op. cit., pp. 189-90.

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essere ogni giorno dagli operatori del diritto all’interno della corni-ce dell’ordinamento interno, qui andrebbe svolta anche con l’ausilio di tradizioni giuridiche e culturali straniere. Se collocata sulle scale di formazione dei diritti religiosi, tale politica cognitiva di “migra-zione categoriale” all’interno della sfera giuridica, oltre che incidere sull’interpretazione del caso specifico, potrebbe assolvere una fun-zione più generale, quella di contribuire a disinnescare sul nascere pratiche simboliche in grado di accedendere i conflitti identitari. La preghiera collettiva del venerdì ne è un esempio; indossare il velo ne è un altro 59.

Tale contributo può essere realizzato da chi ha la capacità di muo-versi, con conoscenze necessarie e prontezza di spirito, negli ambiti di studio in cui tali tematiche risultano allacciate, vale a dire il diritto (laico) da un lato e la tradizione normativa (religiosa) dall’altro. Ad avviso di chi scrive, tale competenza specifica rappresenta la cifra più caratterizzante lo studio giuridico delle questioni religiose. La scienza giuridica, nella misura in cui svolga tale compito, osservando la necessaria equidistanza dagli interessi statali e confessionali, mag-gioritari e di minoranza, sociali e di coscienza, individuali e colletti-vi, e di mantenere al centro l’asse di valutazione costituito dall’ordi-namento giuridico, può costituire un vero e proprio metodo laico per il governo delle società pluriculturali odierne e future.

59 Cfr. per questa impostazione e per la relativa applicazione sulla tematica del velo M. ricca, Pantheon. Agenda della laicità interculturale, Torri del vento, Paler-mo, 2012, pp. 198 ss.

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Diritto ecclesiastico e canonico tra ‘nuovo’ e ‘vecchio’ multiculturalismo

Diritto ecclesiastico e canonico tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ multiculturalismo 1

di Pasquale annicchino e GaBriele faTTori

1. Il ‘vecchio’ ed il ‘nuovo’ multiculturalismo - 2. Le domande e le (possibili) risposte del diritto ecclesiastico - 3. Le domande e le (possibili) risposte del diritto canonico - 4. Conclusioni

1. Oggi il diritto deve confrontarsi con un contesto sociale profon-damente mutato e tuttora attraversato da processi di trasformazione molto ampi e profondi. La società e la prospettiva culturale occiden-tale (europea, statunitense e anglosassone in senso lato) è rapidamen-te cambiata per vari ordini di motivi: in funzione dei flussi migratori e per la crescente pluralità di culture, di religioni e di convinzioni che attualmente la caratterizza; per la diffusione e il radicarsi di una cultura e di una sensibilità secolare favoriti dal progresso scientifico e dallo sviluppo tecnologico. Pluralismo culturale/religioso e seco-larizzazione sono i tratti caratterizzanti del nuovo contesto sociale e culturale dell’Occidente contemporaneo 2.

Non è così facile risalire alle cause di tali trasformazioni. Sia perché le cause non sono meno profonde e complesse delle trasfor-mazioni stesse, sia perché le evoluzioni sociali e culturali sono da attribuire, in realtà, ad un insieme di concause. Tuttavia, le scienze

1 Il contenuto del presente lavoro è frutto della riflessione comune dei due autori. Il paragrafo 2 è attribuibile a Pasquale Annicchino, il paragrafo 3 a Gabriele Fattori; l’introduzione e le conclusioni ad entrambi.

2 Con pluralismo culturale/religioso vogliamo intendere alcuni fenomeni distinti, ma collegati: la pluralizzazione culturale, religiosa e confessionale delle società e la centralità del fattore religioso (il c.d. “ritorno del religioso” e delle questioni religiose nella sfera pubblica). Con secolarizzazione si intende secondo la classica concezione il fenomeno che tende a marginalizzare il fattore religioso nella sfera privata.

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sociali e antropologiche hanno provato a ricostruire almeno i prin-cipali fattori del cambiamento e dello sviluppo del moderno quadro socio-culturale.

Il pluralismo sociale è riconducibile principalmente al fenomeno migratorio. Coerentemente si assiste anche al rapido mutare della geo-grafia religiosa nel mondo: in Europa (dove crescono comunità mu-sulmane), in Medio Oriente (dove sta scomparendo il Cristianesimo), negli Stati Uniti (dove cresce la popolazione cattolica), in America Latina (dove crescono i protestanti) 3.

Secondo politologi e sociologi 4 il fenomeno del ritorno del reli-gioso nella sfera pubblica si deve prevalentemente al tramonto delle grandi ideologie, alla globalizzazione dell’economia, del mercato del lavoro, della tecnologia, dei mezzi di comunicazione. Il fenomeno si può rintracciare nella rivoluzione Khomeinista in Iran (1978-1979). Si è manifestato anche con il ruolo anti-comunista della Chiesa cat-tolica in Polonia (sostegno al movimento di Solidarnósć), con la for-mazione e la crescita dei partiti religiosi in Israele, in Turchia, in

3 Introduzione al diritto comparato delle religioni. Ebraismo, islam e induismo, a cura di s. ferrari, il Mulino, Bologna, 2008, pp. 9-21.

4 Si veda ad esempio J. casanoVa, Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica, il Mulino, Bologna, 2000; G. kePel, La Revanche de Dieu: Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquête du monde, Seuil, Parigi, 2003; J.-P. willaiMe, Unification européenne et religions, in Iglesias, confesiones y comunidades religiosas en la Uniòn Europea, a cura di a. casTro JoVer, Servicio Editorial Universidad del Paìs Vasco, Bilbao, 1999, pp. 27-54, e infine anche G. VincenT, J.-P. willaiMe, Religions et transformations de l’Europe, Presses Univer-sitaires de Strasbourg, Strasbourg, 1993. Cfr. f. MarGioTTa BroGlio, Confessioni o comunità religiose o «filosofiche» nel Trattato di Lisbona, in Le confessioni religi-ose nel diritto dell’Unione Europea, a cura di l. de GreGorio, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 34-5. Quest’ultimo volume collettaneo con anche i contributi di GiorGio feliciani, laura de GreGorio, cesare MiraBelli, PioTr Mazurkiewicz, richard Puza, duarTe da cunha, Gianni lonG, aldo Giordano, MarTa carTaBia, Mauro riVella, andrea Perrone, MaTTeo corTi, Marco Miccinesi, Venerando Marano, carlo cardia, Manlio friGo.

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India 5, con la destra religiosa negli Stati Uniti 6, con le rivendicazioni giuridiche di movimenti religiosi o di fedeli atipici e comunque non accomunabili alle religioni e ai fedeli tradizionalmente intesi. Sono esemplari, a tal proposito, le pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU), sul riconoscimento giuridico della Chiesa di Scientology 7, sulla questione dell’esposizione dei simboli religio-si nello spazio pubblico e in particolare le sentenze Lautsi I e Lautsi II 8 sul crocefisso nelle aule scolastiche, la recente sentenza sul caso dei Raeliani contro la Svizzera concernente una campagna di affis-sione di manifesti proposta dal Movimento Raeliano Svizzero 9.

La secolarizzazione 10, le cui più rilevanti implicazioni pratiche sono state la tendenziale indifferenza/diffidenza/ostilità verso la reli-gione e l’incredulità per la visione religiosa dell’uomo e del mondo, è riconducibile in gran parte al progresso scientifico. Soprattutto a partire dal XIX secolo, scienza e tecnica hanno portato ad un nuo-vo patchwork mediale composto di media mainstream e non main-stream11 dettando attraverso di loro un frame scientifico-positivista

5 Cfr. l. ozzano, Fondamentalismo e democrazia. La destra religiosa alla con-quista della sfera pubblica in India, Israele, Turchia, il Mulino, Bologna, 2009.

6 Si veda su tutti s. Teles, The Rise of the Conservative Legal Movement: The Battle for the Control of the Law, Princeton University Press, Princeton, 2010. Sul re-cente movimento dei ‘Tea Parties’ cfr. T. skocPol, V. williaMson, The Tea Party and the Remaking of Republican Conservatism, Oxford University Press, Oxford, 2011.

7 Scientology c. Russia, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (ricorso n. 18147/02), sentenza del 5 aprile 2007.

8 Lautsi c. Italia, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (ricorso n. 30814/06), sentenza del 3 novembre 2009 e del 18 marzo 2011.

9 Movimento Raeliano Svizzero c. Svizzera, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (ricorso n. 16354/06), sentenza del 13 gennaio 2011. Attualmente pendente davanti alla Grande Camera.

10 G. daVie, Religion in Britain since 1945. Beliving without Belonging, Blackwell, London, 1994; id., Religion in Modern Europe. A Memory Mutates, Oxford Univer-sity Press, Oxford, 2000; d. herVieu-léGer, Les tendences du religieux en Europe, in coMMissariaT Général du Plan, Croyances religieuses, morales et éthiques dans le processus de costructions européenne, La documentation francaise, Paris, 2002.

11 Cfr. w. BenJaMin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecni-ca, Einaudi, Torino, 1966; id., Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino,

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a discapito della prospettiva dogmatica e trascendente offerta dalla religione e dalle tradizionali discipline umanistico-teologiche. Per questo, le religioni, e soprattutto le grandi religioni monoteistiche, hanno ritenuto il processo di secolarizzazione il responsabile di una metamorfosi/involuzione culturale realizzata attraverso una lunga serie di dottrine “eretiche”, tra cui il razionalismo, il positivismo, lo scientismo, il socialismo, il comunismo, il liberalismo, il relativismo, l’agnosticismo e l’indifferentismo fino alla loro più radicale espres-sione, l’ateismo 12.

Pluralizzazione socio-politico-culturale e secolarizzazione rap-presentano ormai un dato di fatto, un elemento caratterizzante e un trend progressivo dell’area euromediteranea 13 e dell’intero mondo

1995; id., I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino, 2000; n. luhMann, Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari, 1983; id., La realtà dei mass me-dia, FrancoAngeli, Milano, 2000; n. luhMann, r. de GiorGi, Teoria della società, FrancoAngeli, Milano, 2003; G. siMMel, Le metropoli e la vita dello spirito, Ar-mando, Roma, 2005; M. Mcluhan, Understanding Media: The Extensions of Man, McGraw Hill, New York, 1964; M. Mcluhan, B.r. Powers, The global village. Transformations in World life and Media in 21century, Oxford University Press, New York, 1989; f. MarTel, Mainstream. Come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media, Feltrinelli, Milano, 2010.

12 Cfr. L’ateismo contemporaneo, a cura della Facoltà filosofica della Pontificia Università salesiana, S.E.I., Torino, 1969. In prospettiva giuridica cfr. il numero 1 del 2011 dei “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica” con studi di GioVanni filoraMo, nicola fioriTa e francesco onida, Julie rinGelheiM, sTella coGlieVi-na, PieranGela floris, GioVanni ciMBalo, Marco Parisi, lucia caPPuccio e dan-iel GaMPer, Marco Greco, GaBriele faTTori, doMenico francaVilla, ValenTino PeTrucci, carlo cardia, alessandro alBiseTTi, José anTonio rodríGuez García, alessandro ferrari.

13 Sulla c.d. “primavera araba” si vedano: M. Béchir ayari, V. Geisser, Renais-sance arabe. 7 questions clés sur des révolutions en marche, Èditions de L’Atelier, Ivry-sur-Seine, 2011; T. raMadan, L’islam et le réveil arabe, Presses du Chatelet, Paris, 2012; a. Bozzo, P.-J. luizard, Le sociétes civiles dans lr monde musulmane, La Découverte, Paris, 2011; T. Masoud, The road to (and from) liberation square, in “Journal of democracy”, 2011, 22, 3, pp. 20-34; P.J. schraeder, h. redissi, Ben Ali’s Fall, in “Journal of Democracy”, 2011, 22, 3, pp. 6-19; Religion, identity and democracy. The Arab Spring: transition to Democracy at Crossroad, in The Inter-national IDEA Democracy Forum, Madrid, Spain, 28-29 november 2011, in www.

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occidentale evidenziati da tutti gli analisti 14. Il fenomeno sociale non è rimasto senza conseguenze giuridiche: in ambito giuridico esso ha determinato una rinnovata centralità del c.d. “principio plurali-sta” 15. Tale principio si ricava in via interpretativa da un insieme di principi-cardine ormai comuni ai tutti i sistemi giuridici occidentali nazionali e sovrastatali. Il principio pluralista non è, in senso pro-prio, una formula del diritto costituzionale positivo, ma l’espressione comprensiva del riconoscimento di un nucleo inviolabile di diritti umani, dell’uguaglianza formale e sostanziale di tutte le persone, del divieto di non discriminazione, della libertà di pensiero, di coscien-za, di religione.

Nel suo insieme, il principio esprime la prospettiva giuridica con la quale gli ordinamenti difendono una uguale libertà di tutte le cul-ture/religioni/credenze e di tutti i sistemi di pensiero. Giuridicamente inteso, il principio pluralista difende e tutela le diversità e le minoran-za culturali e/o religiose dall’egemonia delle culture e delle religioni dominanti/maggioritarie: sia nella giurisprudenza delle Corti europee e internazionali, sia internamente a molti sistemi giuridici dei Paesi europei, dell’area mediterranea e del mondo anglosassone 16.

idea.it. Rispetto alle ricadute giuridiche del fenomeno cfr. a. ferrari, Diritto e re-ligione nell’Islam mediterraneo. Rapporti nazionali sulla salvaguardia della libertà religiosa: un paradigma alternativo?, il Mulino, Bologna, 2012. Si ringrazia la Prof.ssa Rossella Bottoni per il prezioso consiglio bibliografico.

14 Cfr. r.f. inGleharT, Changing Values among Western Publics from 1970 to 2006, in “West European Politics”, vol. 31, 1-2, 2008, pp. 130-146.

15 Per una elaborazione del “principio pluralista” in chiave politologica si veda G. sarTori, Pluralismo, multiculturalismo ed estranei. Saggio sulla società mul-tietnica, Rizzoli, Milano, 2000. Per una ricostruzione del significato giuridico-ec-clesiasticistico del “principio pluralista” a livello europeo cfr. G. casuscelli, Con-venzione europea, giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo e sua incidenza sul diritto ecclesiastico italiano. Un’opportunità per la ripresa del plural-ismo confessionale?, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, settembre 2011, e J. Pasquali cerioli, La tutela della libertà religiosa nella Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, gennaio 2011.

16 Per quello che concerne la giurisprudenza della Corte EDU si vedano in par-ticolare a. nieuwenhuis, The Concept of Pluralism in the Case-Law of the Euro-

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Il nuovo contesto sociale e culturale interroga il diritto. La nuo-va fenomenologia sociale rappresenta e promuove essa stessa nuovi interessi. Questi ultimi ambiscono a conquistare una visibilità e una rilevanza politica. Nella dinamica fisiologica del diritto, la consisten-za sociale di un determinato interesse si traduce, nel tempo, in una più o meno corrispondente rilevanza politica. La politica è infatti chiamata a interpretare e a rappresentare nelle sedi istituzionali i bi-sogni e le istanze emergenti in ambito sociale. Nello stesso momento in cui acquisiscono una rilevanza politica, i nuovi fenomeni/interessi chiedono di essere riconosciuti come interessi meritevoli di tutela giuridica, cioè di essere recepiti e regolati dal diritto.

Se il principio pluralista rappresenta il precipitato giuridico di alcuni dei nuovi processi sociali, la teoria del multiculturalismo ha assunto nel corso degli anni grande centralità nella teoria politica. Le problematiche sociali portate dalla differenziazione etnica/culturale/religiosa hanno infatti portato ad una riflessione sulle possibilità di gestire in concreto le differenze sociali. Ovviamente è impossibile rintracciare una nozione univoca di multiculturalismo e le diverse concezioni appaiono a tratti confliggenti 17.

Michael Helfand 18 ha recentemente distinto tra un ‘vecchio’ ed un ‘nuovo’ multiculturalismo. Con il primo ci si riferisce a quell’ap-proccio teorico e pratico che, nel dedicare particolare attenzione ai temi classici del rapporto fra diritto dello stato ed istanze provenienti dai diversi gruppi religiosi minoritari, ha valorizzato il classico prin-cipio liberale di riconoscimento dell’altro posto a base dei principi di eguale libertà ed eguale dignità 19. Giuridicamente questo si è tra-dotto, come abbiamo precedentemente evidenziato, nella centralità

pean Court of Human Rights, in “European Constitutional Law Review”, 2007, 3, pp. 367-84, e z. calo, Pluralism, Secularism, and the European Court of Human Rights, in “Journal of Law and Religion”, 2001, vol. 26, pp. 261-80.

17 Cfr. M.l. lanzillo, Il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari, 2005.18 Cfr. M. helfand, Religious Arbitration and the New Multiculturalism: Nego-

tiating conflicting Legal Orders, in “New York University law Review”, vol. 86, 5, 2011, pp. 1231-305.

19 N. BoBBio, Uguaglianza e libertà, Einaudi, Torino, 1995.

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assunta dal principio pluralista. Per Helfand: «I dibattiti del vecchio multiculturalismo hanno seguito un paradigma comune concentran-dosi sull’incorporazione e quindi sul riconoscimento dei membri e dei simboli delle culture minoritarie nel contesto delle istituzioni pubbli-che» 20. Temi classici del dibattito pubblico e scientifico centrato sul paradigma del ‘vecchio’ multiculturalismo sono quindi: il ruolo della religione nella scuola pubblica, i simboli religiosi nello spazio pub-blico, il ruolo delle argomentazioni religiose nel dibattito pubblico. Nella ricostruzione di Helfand, il ‘nuovo’ multiculturalismo appare invece meno caratterizzato dalle politiche di riconoscimento 21 e di inclusione delle minoranze religiose nello spazio pubblico, ma viene ad assumere una nuova centralità assunta il principio di autonomia dei gruppi religiosi e dei loro diritti. L’identità del gruppo si definisce in questo caso meno nelle ‘lotte per il riconoscimento’, ma soprattut-to nella valorizzazione delle regole e delle pratiche dettate dai diritti religiosi concepiti quali ordinamenti giuridici diversi da quello dello stato. Rispetto al ‘vecchio’ multiculturalismo caratteristica essenziale del ‘nuovo’ multiculturalismo è quindi la valorizzazione della diffe-renziazione delle giurisdizioni religiose con particolare enfasi posta sulla loro differenziazione rispetto all’ordinamento dello stato. Il con-fronto tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ multiculturalismo può dunque essere utile ad illuminare gli scenari scientifici e didattici che una disciplina con una lunga tradizione alle spalle come quella del diritto ecclesia-stico e canonico si trova ad affrontare ai nostri giorni viste anche le recenti novità introdotte nella definizione dei settori disciplinari.

2. La centralità del principio pluralista nella gestione giuridica e so-ciale della diversità religiosa, in Italia 22 ed in Europa, ha consentito

20 M. helfand, Religious Arbitration and the New Multiculturalism: Negotiating conflicting Legal Orders cit., p. 1272 (nostra traduzione).

21 Cfr. J. haBerMas, c. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 2002, e n. fraser, h. axel, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politica, Meltemi, Roma, 2007.

22 Rispetto al contesto italiano ed alla centralità del principio pluralista si veda il volume Diritto e religione in Italia. Rapporto nazionale sulla salvaguardia della lib-

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un parziale e fecondo rinnovamento delle discipline ecclesiasticisti-che secondo una prospettiva che ha dato, tra le altre, ampio spazio alla dimensione del diritto sovranazionale e comparato. In realtà, questa prospettiva non è del tutto nuova e vanta ad oggi una importante sto-ria nel campo del diritto ecclesiastico 23. Quello che cambia è però il sistema delle fonti egemoni che, per dirla con una espressione di Oli-vier Roy, procedono alla «formattazione» del religioso 24. Innanzitutto ha assunto particolare importanza il sistema di tutela dei diritti della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo cui fa capo la Corte di Strasburgo. Come ha sottolineato Marco Ventura:

La virtù della giurisprudenza europea sta appunto nel continuo sforzo di sintesi tra individuo e gruppo, tra diritto e diritto, tra locale e universale, tra principio generale e singolo caso. In parte, è lo stesso compito delle Corti nazionali. Ma la virtù dell’istanza europea, proprio perché sopranazionale, sta nell’aver elaborato un ricco sistema di principi che non prescinde dalle esperienze nazionali e regionali, ma al contrario le elabora e le sintetizza […]. Che si tratti di Chiese, di Stato o di laicità, o di qualsiasi sistema gene-rale di relazioni tra Stato e Chiesa o di qualificazione dello Stato rispetto alla religione, spetta alla Corte di Strasburgo, se interpellata, verificare gli effetti del sistema nel caso concreto, onde accertarsi che esso non leda la libertà religiosa e più in generale i diritti protetti dalla Convenzione 25.

ertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, a cura di s. doMia-nello, il Mulino, Bologna, 2012.

23 La metodologia comparatista è già presente agli albori della disciplina basta citare il classico contributo di f. ruffini, La libertà religiosa. Storia dell’idea, Fel-trinelli, Milano, 1991. Rispetto alla dimensione sovranazionale basti il riferimento al fondamentale contributo di f. MarGioTTa BroGlio, La protezione internazionale della libertà religiosa nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Giuffrè, Mi-lano, 1967.

24 Cfr. o. roy, La santa ignoranza: Religioni senza cultura, Feltrinelli, Milano, 2009.

25 Cfr. M. VenTura, La virtù della giurisdizione europea sui conflitti religiosi in Diritto e religione in Europa. Rapporto sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di libertà religiosa, a cura di r. Mazzola, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 360-2. Si veda anche M. VenTura, Law and Religion issues in Strasbourg and Luxembourg: the virtues of European Courts, Religiowest working papers, novembre 2011, disponibile su: www.religiowest.eu.

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Il ruolo della Corte di Strasburgo è ovviamente da integrare con quello della Corte di giustizia dell’Unione europea che, dopo soprat-tutto l’inclusione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Eu-ropea nel Trattato di Lisbona, può fornire nuova linfa per una rinno-vata concezione nuova del diritto di libertà religiosa e dei rapporti fra stato e gruppi religiosi 26. L’ampliamento dei temi e delle prospettive del diritto ecclesiastico non ha riguardato solo la dimensione del-le fonti sovranazionali. A questo fenomeno ha fatto da contrappeso, anche se in dimensione non paragonabile, la valorizzazione della di-mensione regionale e delle rispettive fonti 27. Dopo i noti fatti del 2001 ugualmente importanti si sono rivelate le analisi delle interazio-ni fra libertà religiosa e prospettive legate alla sicurezza interna degli stati nazionali 28. Come ha sottolineato Valerio Tozzi: «Dal punto di vista dei contenuti scientifici e dell’identità culturale il diritto eccle-siastico è vivo e vegeto» 29.

L’allargamento e la differenziazione sostanziale dello spettro delle fonti porta con se nuove domande di ordine metodologico e sostanziale cui il diritto ecclesiastico è chiamato a rispondere. In pri-mis, per ciò che concerne la dimensione della disciplina dei tradizio-nali rapporti bilaterali pattizi fra stato italiano e confessioni religiose si aggiunge l’opera del diritto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, soprattutto sulla base dei principi di neutralità e plu-ralismo, fornisce nuovo materiale alla tradizione del diritto eccle-siastico italiano. Allo stesso modo sul piano del diritto ecclesiastico

26 L’importante dinamica di relazione fra le due Corti era già stata precedente-mente sottolineata da M. VenTura, La laicità dell’Unione europea. Diritti, mercato, religione, Giappichelli, Torino, 2001. Si vedano i contributi di Gianfranco Macrì in G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e Religione, Plectica, Salerno, 2011, pp. 47-61; 100-8.

27 Cfr. ad esempio i. BolGiani, Regioni e fattore religioso. Analisi e prospettive normative, Vita e Pensiero, Milano, 2012

28 Cfr. r. Mazzola, La convivenza delle regole. Diritto, sicurezza e organizza-zioni religiose, Giuffrè, Milano, 2005.

29 Cfr. V. Tozzi, Le attuali prospettive del diritto ecclesiastico italiano, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, gennaio 2007, p. 5.

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orizzontale 30, nonostante la grande portata innovativa dei diritti di libertà contenuti nel testo della Costituzione del 1948, si deve regi-strare anche in questo campo la portata innovativa delle fonti sovra-nazionali. Soprattutto, l’attenzione degli specialisti vede spostare il suo baricentro dall’analisi dell’attività legislativa nei rapporti bilate-rali fra stato e gruppi religiosi alla focalizzazione sul ruolo del potere giudiziario 31.

Le pronunce provenienti dalle giurisdizioni internazionali sem-brano offrire importanti spunti di riflessione e porre nuove domande agli studiosi. Certo, la centralità della Corte di Strasburgo non è un dato assoluto ma da considerare in relazione alle evoluzioni politiche del continente europeo. Come ha scritto Roberto Mazzola la pronun-cia della Grande Camera della Corte EDU nel caso Lautsi impone di «verificare, nei prossimi anni, se la Corte avrà la forza politica di imporre ai singoli Stati membri un proprio uniforme modello di politica ecclesiastica» 32.

Da un punto di vista più generale le domande che le trasformazio-ni sociali pongono al diritto ecclesiastico fanno sì che la disciplina si

30 Secondo la definizione di Consorti tale sarebbe il diritto ecclesiastico nella sua versione di «strumento per la tutela e la promozione della libertà religiosa medi-ante la tutela e la promozione della dignità personale di ciascuno. In questo senso il diritto ecclesiastico perde la sua connotazione verticale per assumerne una più oriz-zontale». Cfr. P. consorTi, Diritto e religione, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 11-2.

31 Tale fenomeno è stato ben analizzato nei lavori di Ran Hirschl. Cfr. R. hirschl, Towards Juristocracy. The Origins and Consequences of the New Constitutionalism, Harvard University Press, Cambridge, 2004. Cfr. anche id., The Secularist appeal of Constitutional Law and Courts: A Comparative account, ReligioWest Working paper, novembre 2011, disponibile su: www.religiowest.eu.

32 Cfr. R. Mazzola, La dottrina e i giudici di Strasburgo. Dialogo, comparazio-ne e comprensione, in Diritto e Religione in Europa cit., p. 22. Silvio Ferrari ha sottolineato come la sentenza della Grande Camera si ponga come problematica e rappresenti: «una fuga all’indietro, che trascura le trasformazioni in atto nella de-mografia religiosa di tutti i paesi europei caratterizzata quasi ovunque dalla crescita del pluralismo religioso e del numero delle persone che non si riconoscono in alcuna religione». Cfr. S. ferrari, La Corte di Strasburgo e l’articolo 9 della Convenzione europea. Un’analisi quantitativa della giurisprudenza, in Diritto e Religione in Eu-ropa cit., p. 53.

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sforzi anche di trovare una nuova dimensione paradigmatica e teori-ca che possa permettere un inquadramento più consono anche rispet-to al dibattito internazionale che è attualmente declinato secondo le categorie del Law and Religion e non più secondo quelle del Church and State 33. Non si tratterebbe di una novità di portata rivoluziona-ria per una disciplina abituata sin dalla sua nascita al confronto con l’interdisciplinarietà e la prospettiva storica, filosofica e teologica. Si tratterebbe solo di una nuova presa di coscienza. Tale ridenomi-nazione sarebbe pienamente ricompresa nella declaratoria dei settori concorsuali prevista dall’allegato B del decreto ministeriale 29 lu-glio 2011 (n. 336) che lascia comunque sostanzialmente intaccata la definizione della disciplina prevista dalla legislazione precedente: «il settore comprende l’attività scientifica e didattico-formativa degli studi relativi alla disciplina giuridica del fenomeno religioso, anche nella prospettiva comparatistica, sia all’interno dell’ordinamento sta-tuale, sia negli ordinamenti confessionali, con particolare riferimento a quello della Chiesa Cattolica. Gli studi attengono, altresì, alla sto-ria del diritto canonico, alla storia e sistemi dei rapporti tra Stato e Chiesa, al diritto comparato delle religioni e si estendono ai profili di rilevanza giuridica dei fenomeni di pluralismo etico e religioso» 34.

33 Giovanni Battista Varnier aveva già sottolineato la necessità di trovare una nuova denominazione della disciplina: «che meglio esprima i nuovi metodi e so-prattutto i diversi contenuti dell’insegnamento e che nel contempo, per l’indubbio allargamento dell’area scientifica ‘in coerenza con l’assetto pluralistico del nostro ordinamento’, dia conto di tutte le discipline comprese nell’area scientifica buro-craticamente indicata come Jus 11». Cfr. G.B. Varnier, Il Diritto ecclesiastico dopo le riforme, in Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano, a cura di G.B. Varnier, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, pp. 65-6. Cfr. anche M. VenTura, Diritto ec-clesiastico e Europa. Dal church and state al law and religion, in Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano cit., pp. 191-216.

34 Cfr. Decreto ministeriale 29 luglio 2011, n. 336. Determinazione dei settori concorsuali raggruppati in macrosettori concorsuali, di cui all’articolo 15 Legge 30 dicembre 2010, n. 240. Allegato B. Numerosi studi di ecclesiasticisti e canonisti contemporanei hanno adottato la nuova denominazione: s. ferrari, i.c. iBán, Di-ritto e religione in Europa occidentale, il Mulino, Bologna, 1997; M. ricca, Diritto e religione. Per una sistemica giuridica, Cedam, Padova, 2002; Diritto e religione

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La riforma dei settori disciplinari e concorsuali porta ulteriori do-mande, soprattutto sul futuro della disciplina. Il decreto ministeriale provvede alla creazione del macrosettore disciplinare 12/C Diritto costituzionale ed ecclesiastico differenziando poi per i settori con-corsuali 12/C1 e 12/C2 tra diritto costituzionale e diritto ecclesiasti-co e canonico. Pur rimanendo intatta l’autonomia disciplinare delle discipline ecclesiasticistiche, non si può non notare come l’entrata nell’orbita disciplinare del diritto costituzionale potrebbe poten-zialmente andare a svilire la natura interdisciplinare fatta di diritto positivo e diritti religiosi propria della tradizione ecclesiasticistica e canonistica italiana probabilmente con particolare svantaggio del diritto canonico spingendo sempre più il diritto ecclesiastico verso la prospettiva del “Diritto Pubblico delle religioni” 35.

3. Michael Helfand non è il solo a profetizzare l’avvento di un “nuo-vo multiculturalismo” 36. Nel 2005 Peter L. Berger affermava che «la maggior parte del mondo è religiosa, come lo è l’America: l’eccezio-

in America Latina, a cura di J.G. naVarro floria, d. Milani, il Mulino, Bologna, 2010; P. consorTi, Diritto e religione cit.; G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione cit.; l. Musselli, Diritto e religione in Italia ed in Europa. Dai concordati alla problematica islamica, Giappichelli, Torino, 2011; r. Mazzola, Diritto e reli-gione in Europa cit.; s. doMianiello, Diritto e religione in Italia cit.; a. ferrari, Diritto e religione nell’Islam mediterraneo cit.

35 L’espressione è di Nicola Colaianni. Cfr. n. colaianni, Diversità religiose e mutamenti sociali, in Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano cit., p. 160.

36 Qui è utile dare atto che, ipotizzando i possibili futuri scenari socio-religiosi dell’età tardo-moderna e dopo-moderna, le scienze socio-politologiche delle reli-gioni hanno elaborato due paradigmi ricostruttivi. Per il c.d. “paradigma della seco-larizzazione”, la modernizzazione si accompagnerebbe in modo fatale e irreversi-bile ad un processo di progressivo indifferentismo religioso/agnosticismo/ateismo. Il paradigma c.d. “della economia religiosa”, al contrario, «suggerisce l’ipotesi che la domanda religiosa resti sostanzialmente costante anche in società caratterizzate da un elevato grado di modernità», cfr. s. ferrari, Religione, società e diritto in Euro-pa Occidentale, in Fattore religioso, ordinamenti e identità nazionale nell’Italia che cambia, a cura di G.B. Varnier, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova, 2004, pp. 37-50 (la citazione è a pp. 41-2).

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ne è l’Europa» 37. Nelle previsioni del sociologo americano, la diver-sità europea era però destinata a venir meno quando l’Europa fosse stata colpita da «una crisi di lunga durata» che avrebbe riportato «in primo piano» il «ruolo pubblico» delle religioni 38. Proiettate in una fase, come l’attuale, di profonda crisi dell’area continentale, le intui-zioni di Berger ridisegnano il concetto più tradizionale di «ritorno del religioso» 39. Non meno che per Helfand quando teorizza un ‘nuovo’ multiculturalismo, si deve pensare che anche Berger alluda, con il permanere e dietro le spinte della crisi in corso, ad una trasforma-zione più profonda e sostanziale del paradigma politico europeo di gestione sociale e giuridica del fenomeno religioso. Nuovi flussi mi-gratori e nuovi equilibri demografici porterebbero oltre il pluralismo proprio della tradizione laica, spingendo l’“eccezione della laicità” europea a conformarsi alla “regola della religiosità” americana e glo-bale con la progressiva emersione di autonomie religiose a livello sociale e giuridico. Non dobbiamo attenderci, dunque, la semplice riproposizione di sperimentate politiche del riconoscimento delle di-versità religiose. Proprio qui le tesi di Berger si incontrano con quelle di Helfand e ne rappresentano il possibile completamento. Secondo i pronostici di Berger, infatti, il ‘nuovo’ multiculturalismo delle au-tonomie dei gruppi e dei diritti religiosi si formerebbe sul modello multiculturale dei Paesi di tradizione anglosassone. Come ha scritto Giovanni Battista Varnier, anche in Italia «stiamo […] passando, per quanto riguarda le garanzie per le minoranze reli-giose, dal riconoscimento del diritto dell’uguale opportunità, a quello dell’uguaglianza assoluta per arrivare al diritto garantito al riconosci-mento della propria differenza» 40.

37 P.l. BerGer, Integrazione religiosa ed europea: osservazioni dall’America, in Europa laica e puzzle religioso, a cura di K. Michalski, Marsilio, Venezia, 2005, p. 87. Cfr. anche G. daVie, Europe: The Exceptional Case. Parameters of Faith in the Modern Word, Longman & Todd, London, 2002.

38 P.l. BerGer, Integrazione religiosa cit. La citazione si trova a p. 95 ed è ripro-posta e commentata a p. 24 da f. MarGioTTa BroGlio nell’Introduzione, pp. 11-43.

39 s. ferrari, Introduzione al diritto comparato cit. La citazione è a p. 9. 40 G.B. Varnier, Libertà, sicurezza e dialogo culturale come coordinate del rap-

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Non è facile dire se il diritto alla differenza religiosa sia destinato a espandersi in autonomia religiosa e confessionale. Ma, ammetten-do che lo sia, non è difficile riconoscere che la prospettiva di un multiculturalismo delle autonomie dei gruppi e dei diritti religiosi in terra europea si accompagna a grandi incognite. Molte delle quali dovute ad un prevedibile ricomporsi degli equilibri confessionali 41.

Tanto per cominciare, un multiculturalismo delle autonomie so-cio-religiose incombe sulla possibilità di armonizzare società civile e società religiosa 42. In un contesto in cui tutte le nuove istanze giu-ridiche appaiono coerenti con un senso comune ormai quasi perfetta-mente secolarizzato, un trend di progressiva autonomia giuridica dei gruppi e dei diritti religiosi potrebbe portare, nel tempo, a radicaliz-zare l’alternativa tra appartenenza all’ordinamento civile e obbedien-za agli ordinamenti confessionali. Poiché infatti, come ha osservato Silvio Ferrari, le diversità religiose, e a maggior ragione le autono-mie, si affermano non soltanto «nei confronti delle altre religioni ed istituzioni religiose ma anche in relazione ai valori della modernità e allo Stato laico che ne è l’espressione» 43, il problema è, e resta, quello di stabilire “quanta autonomia” e dunque, sia pure dall’interno di un ‘nuovo’ multiculturalismo, di definire i confini dell’autonomia

porto tra islam e occidente, in La coesistenza religiosa: nuova sfida per lo Stato laico, a cura di G.B. Varnier, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, p. 53.

41 Cfr. Religione, cultura e diritto tra globale e locale, a cura di P. Piccozza, G. riVeTTi, Giuffrè, Milano, 2007. Qui, in particolare, il contributo di r. BoTTa, Sentimento religioso e appartenenza confessionale, pp. 51-67 e specialmente le pagine iniziali pp. 51-4 dove l’Autore sottolinea come davanti ad un processo di frammentazione culturale la «aspirazione ad operare per un “recupero di valori” non si prospetta come una ricerca di elementi capaci di includere – nel senso di esaltare l’identico –, bensì di escludere, nel senso di esaltare il diverso: il concetto di identità, muta così, in qualche misura, rispetto alla sua radice semantica, contenuto, funzione e progetto, favorendo la divaricazione più che la coesione» (p. 52).

42 Cfr. S. ferrari, Religione, società e diritto cit., p. 46.43 A noi pare che proprio questa sia una delle questioni alla base della riflessione

e della proposta di P. consorTi, Pluralismo religioso: reazione giuridica multicul-turalsita e proposta interculturale, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, maggio 2007, pp. 1-29.

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religiosa44. La seconda grande incognita chiama in causa la soprav-vivenza del pluralismo e del principio pluralista in un contesto di ‘nuovo’ multiculturalismo.

Non a caso Giovanni Sartori ha osservato che

in linea di principio è chiaro che il pluralismo è tenuto a rispettare una mol-teplicità culturale che trova. Ma non è tenuto a fabbricarla. E nella misura in cui l’odierno multiculturalismo è aggressivo, separante e intollerante, nel-la stessa misura il multiculturalismo in questione è la negazione stessa del pluralismo. Il pluralismo sostiene e alimenta una società aperta […], tutta-via l’intento primario del pluralismo è di assicurare la pace inter-culturale, non di fomentare una ostilità tra culture […]. Un riconoscimento che viene ricambiato da un radicale disconoscimento e anti-pluralistico […]. Un mul-ticulturalismo che rivendica la secessione culturale, e che si risolve in una tribalizzazione della cultura, è anti-pluralistico 45. Marco Ventura ha ragione sia quando dice che «le tensioni e i

conflitti attuali non hanno la forza di de-secolarizzare l’Europa» 46, sia quando afferma la necessità di rimanere agganciati «ai valori co-muni dell’esperienza politica e giuridica del continente: i valori della democrazia, del pluralismo e di quella originale laicità in cui devono

44 Rinaldo Bertolino ha parlato di «inflazione nel riconoscimento degli statuti particolari delle organizzazioni religiose» a fronte di una «latitanza» di un «più pi-eno soddisfacimento dei bisogni religiosi di ciascun consociato», cfr. r. BerTolino, Presentazione, in Proposta di riflessione per l’emanazione di una legge generale sulle libertà religiose, Atti del seminario di studio organizzato dalla Facoltà di Sci-enze Politiche dell’Università degli Studi di Salerno e del Dipartimento di Teoria e Storia delle Istituzioni, Napoli e Fisciano 15, 16 e 17 ottobre 2009, a cura di V. Tozzi, G. Macrì, M. Parisi, Giappichelli, Torino, 2009, pp. VII-X (la citazione è alle pp. IX-X). Il seminario afferiva al PRIN: Libertà religiosa e pluralismo giuridico nell’Europa multiculturale: paradigmi di integrazione e confronto.

45 G. sarTori, Pluralismo, multiculturalismo ed estranei cit. Nella 3a ed. (2007), la citazione è a pp. 29-31.

46 M. VenTura, The changing civil religion of secular Europe, in “The George Washington International Law Review”, 41, 4, 2010, pp. 947-61, nostra la traduzi-one. Sul tema della desecolarizzazione, cfr. anche V. Pacillo, Laicità necessaria, in P. Picozza, G. riVeTTi, op. cit., pp. 119-47, in particolare il par. Società post-secolare e “desecolarizzazione” del diritto? a pp. 138-45.

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coabitare religione, mercato e diritti» 47. Infatti, per quanto correlate, una cosa è la resistenza del secolarismo dentro la società e un’altra cosa è la tenuta della laicità nel diritto. Del resto, il processo di «se-colarizzazione della vita privata e riconfessionalizzazione della vita pubblica» 48 rispecchia la contraddizione tra la forza delle pressioni delle chiese a livello istituzionale e la debole presa sociale del mes-saggio religioso 49.

Se dobbiamo misurarci con l’eventualità di un “nuovo multicul-turalismo” delle autonomie religiose, forse è ancora troppo presto per considerare del tutto fuori pericolo 50 quella «alleanza tra stati e religioni in nome delle libertà religiose, sociali ed economiche» che definisce la civil religion europea 51. Mai come in questo momento, l’irrisolta debolezza politico-istituzionale dell’Europa può riflettersi su quella civil religion che invece in America, e nei paesi di tradizio-ne anglosassone in genere, rappresenta il naturale contrappeso alle rivendicazioni religiose (e non soltanto religiose) 52.

47 M. VenTura nelle conclusioni del volume: La laicità dell’Unione Europea. Diritti, mercato, religione, Giappichelli, Torino, 2001, p. 256.

48 L’espressione è tratta da S. ferrari, Religione, società e diritto cit., p. 37. 49 Cfr. G. Macrì, Europa, lobbying e fenomeno religioso. Il ruolo dei gruppi

religiosi nell’Europa politica, Giappichelli, Torino, 2004.50 A tal proposito, l’osservazione con cui Andrea Bettetini risale al «retaggio di

quel pensiero illuministico di cui per tanti aspetti siamo figli» che «ci porta a pensare in termini dialettici, quasi manichei, di identità-opposizione, e non in una prospet-tiva di differenza-complementarietà» cfr. a. BeTTeTini, Religione, diritto canonico e diritto politico in una società dopo-moderna, in Il nuovo volto del diritto ecclesias-tico italiano cit., p. 165.

51 M. VenTura, The changing civil religion cit., p. 961. Nostra la traduzione.52 Sul piano giuridico, tradiscono questa debolezza le oscillazioni della giurispru-

denza della Corte EDU sul “margine di apprezzamento” da riconoscere agli Stati con-venzionati in ordine alle violazioni degli artt. 9-10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, cfr. r. Mazzola, La dottrina e i giudici di Strasburgo cit., p. 22. Sia consentito rinviare a P. annicchino, Tra margine di apprezzamento e neutralità: il caso “Lautsi” e i nuovi equilibri della tutela europea della libertà religiosa, in Diritto e re-ligione in Europa cit. pp. 179-93; si veda anche G. faTTori, Il caso dei Raeliani contro la Svizzera, in “Studi urbinati”, 2010, Nuova Serie, 61, 3, pp. 367-84, in particolare le conclusioni a pp. 401-2. Il caso si trova attualmente all’esame della Grande Camera.

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Del resto Giuseppe Rivetti invita a non sottovalutare come, «nella diaspora della migrazione», l’immigrato «tutto tende (o è disposto) a modificare, sotto il profilo sociale ed economico, tranne la propria identità religiosa» 53.

Quali sono, allora, le domande e quali le (possibili) risposte del diritto canonico di fronte alle nuove prospettive multiculturali? Se il multiculturalismo che ci attende è davvero il multiculturalismo del-le autonomie religiose concepito da Helfand, il diritto canonico, e più in generale i diritti religiosi, saranno indotti, anche da dinamiche concorrenziali interreligiose, a cercare i più ampi spazi di indipen-denza 54. In altre parole, dal diritto canonico, il ‘multiculturalismo delle autonomie religiose’ avrà molte domande e poche risposte. Di fronte alla concessione di nuovi margini di autonomia, il diritto cano-nico sarà incoraggiato a chiedere, vorrà proporre e, come tutti o quasi tutti i diritti religiosi, ciascuno in proporzione alle proprie forze poli-tiche e sociali, proverà a pretendere. Si pensi, ad esempio, alle istan-ze giuridico-religiose in materia di bio-diritto 55, di diritto familiare e

53 Cfr. G. riVeTTi, Migrazione e fenomeno religioso: problemi (opportunità) e prospettive, in G.B. Varnier, La coesistenza religiosa cit., p. 109.

54 In materia matrimoniale, un esempio efficace di logica concorrenziale tra dirit-ti religiosi per la conquista di diritti alla differenza di spazi di autonomia è offerto da Alessandro Albisetti che comparando le bozze di intesa stipulate dalle Comunità islamiche in Italia mette in evidenza come «discostandosi dagli altri “nuovi” matri-moni acattolici, che appaiono di fatto corrispondenti a una sorta di matrimonio civile celebrato in forma speciale, il matrimonio musulmano vorrebbe […] apparire ben più simile al matrimonio concordatario» e come «in sede di stipulazione dell’Intesa gli ebrei avessero rivendicato una piena parità di trattamento una piena parità di trattamento con i cattolici in materia matrimoniale auspicando il riconoscimento di una vera e propria giurisdizione rabbinica», cfr. a. alBiseTTi, Osservazioni sul ma-trimonio islamico, in G.B. Varnier, La coesistenza religiosa cit., p. 71, e anche in a. alBiseTTi, Tra diritto ecclesiastico e canonico, Giuffrè, Milano, 2009, pp. 355-61. Non a caso l’Autore auspica «un unico modello di ‘matrimonio religioso’ civilmente valido», cfr. a. alBiseTTi, Il matrimonio dei culti acattolici, in G. Bonilini (a cura di), Il diritto di famiglia, I, Famiglia e matrimonio, Utet, Torino, 1997, p. 336 .

55 Cfr. Marco Ventura ha infatti sottolineato che «diritto e medicina […] affon-dano le loro radici in uno specifico panorama religioso: di religione che legittima un sovrano; di religione che legittima un’idea del binomio individuo/società, un’idea

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di diritto matrimoniale 56. Quanto alle (possibili) risposte, certamente «non si può ignorare che a porre la dignità al centro dell’ordinamen-to giuridico sia stato, prima di ogni altro, il diritto canonico, per la semplice ma forte ragione che per la concezione cristiana, come per quella giudaica, ogni persona è ‘immagine di Dio’» 57.

Non è poco, e anche questo apporto ha consentito la diffusione di una «cultura dei diritti umani» e poi l’affermarsi di una «religione dei diritti umani» 58. Ma poi non si può neppure sottovalutare che il dirit-

del binomio corpo/anima, un’idea della fisiologia/patologia del corpo, un sistema di controllo giuridico della malattia/terapia. Il paternalismo medico è specchio del pa-ternalismo del sovrano e del paternalismo della chiesa», cfr. M. VenTura, Il giurista e la medicina, in Studi in onore di Remo Martini, III, Giuffrè, Milano, 2009, p. 875. In particolare si vedano i parr. 1.1 Medicina e diritto nella religione; 1.2 Medicina e diritto separati dalla religione; 1.3 Medicina e diritto nella nuova sovranità; 2.1 Il diritto nella medicina biotecnologia; 4.4 La polarizzazione ideologica. Sul pas-saggio dall’originario paternalismo medico all’attuale «principio bioetico di auto-nomia» e per una sua fondazione giuridica positiva a partire dagli artt. 13, comma 2 e 32 Cost., cfr. G. dalla Torre, Le frontiere della vita. Etica, bioetica e diritto, Edizioni Studium, Roma, 1997, pp. 137-45. Per un approccio ‘personalista’ alle principali questioni giuridiche in materia di bioetica, cfr. ancora G. dalla Torre, Bioetica e diritto. Saggi, Giappichelli, Torino, 1993. Cfr. anche. f. freni, La laicità nel biodiritto. Le questioni bioetiche nel nuovo incedere interculturale della giuri-dicità, Giuffrè, Milano, 2012, e ivi bibliografia. Si veda infine G. fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Mondadori, Milano, 2005.

56 Per comprendere le possibili problematiche di un ‘multiculturalismo delle autonomie dei diritti religiosi’ in materia familiare/matrimoniale è utilissima la prospettiva del diritto comparato delle religioni del volume: r. aluffi Beck Pec-coz, a. ferrari, a. Mordechai raBello, Il matrimonio. Diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti, a cura di s. ferrari, Giappichelli, Torino, 2006.

57 Cfr. o. fuMaGalli carulli, A Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio. Laicità dello Stato e libertà delle Chiese, Vita&Pensiero, Milano, 2006, p. 143. Cfr. anche G.B. Varnier, Unicità dell’ordinamento giuridico della Chiesa di Roma: tradizione e rinnovamento, in V. ParlaTo, Cattolicesimo e ortodossia alla prova, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010, p. 22.

58 Espressioni tratte da c. cardia, Genesi dei diritti umani, Giappichelli, Torino, 20052, nell’Introduzione a p. V il quale, a tal proposito, si dimostra piuttosto scet-tico sulle potenzialità pacificatrici entusiasticamente attribuite ai diritti umani dalla ‘cultura dei diritti umani’.

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to della Chiesa cattolica, per sua natura antropologico ed ecumenico, è preparato a governare una pluralità, mentre la sua natura dogmatica lo rende inadatto a fronteggiare il pluralismo, e meno che mai un plu-ralismo delle ‘autonomie religiose’ 59. E soprattutto bisogna riflettere sul fatto che altri diritti religiosi appaiono ancor più impreparati del diritto canonico alle sfide di un ‘nuovo’ multiculturalismo.

Lo stesso ordine di considerazioni porta infine a essere parzial-mente scettici sulla capacità del “nuovo multiculturalismo” di dare nuovo impulso alle discipline canonistiche come invece il ‘vecchio’ multiculturalismo è riuscito a fare con le discipline ecclesiastici-stiche 60. Anzi, tanto più protettivi saranno i margini di autonomia, quanto più statico sarà il diritto canonico, demotivando, così, anche la scienza canonistica in senso stretto 61. Non c’è dubbio che l’affer-marsi di ‘autonomie religiose’ possa riportare «in prima pagina» 62 i diritti confessionali a vantaggio delle discipline canonistiche in senso lato, come infatti dimostrano gli sviluppi del Diritto comparato delle

59 Cfr. G. BarBerini, Diritto canonico e pluralismo. Mezzo secolo dopo il Vati-cano II, in “Daimon”, 2010-2011, 10, pp. 123-37. Si legga in particolare quanto l’Autore scrive a pp. 136-137: «Potrebbe essere anche suggestivo immaginare che in qualche modo il fenomeno del pluralismo possa interessare la Chiesa. Ma una com-piuta conoscenza del pluralismo […] fa escludere che l’ordinamento ecclesiastico possa essere interessato da tale fenomeno per quanto concerne la sua vita interna e che il pluralismo culturale, sociale, politico e giuridico – quale si realizza nel mod-erno Stato democratico – possa fornire criteri validi di funzionamento della Chiesa […]. Mentre il pluralismo comporta per natura sua la diversificazione degli interessi e la contrapposizione tra centri di potere, la pluralità presente nella Chiesa non può mettere a rischio l’indispensabile unità di fede e di disciplina e la centralità del gov-erno episcopale». Sul governo della pluralità interna al cattolicesimo (e al cristiane-simo) cfr. anche V. ParlaTo, Cattolicesimo e ortodossia cit., e a. faBBri, Presenza istituzionale e pastorale cattolica in Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011.

60 Cfr. P. annicchino, par. precedente.61 In merito si presti attenzione alle riflessioni sull’esclusivismo confessionale di

r. coPPola, L’esclusivismo degli ordinamenti religiosi, in “Il diritto ecclesiastico”, 1996, 1, pp. 158-65.

62 L’espressione è tratta da f. MarGioTTa BroGlio, Confessioni o comunità reli-giose o «filosofiche» cit., p. 33.

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religioni 63. Ma anche ciò, almeno così pare, a discapito della scienza canonistica tradizionalmente intesa, incapace di competere con l’ap-peal culturale e scientifico dei nuovi diritti religiosi.

4. Le sfide della pacifica convivenza religiosa in Italia ed in Europa sembrano indicare la rotta di due movimenti simultanei e confliggen-ti. Da una parte la forza centrifuga del principio pluralista ha attratto nell’orbita del diritto pubblico, nazionale o sovranazionale, la rego-lazione del fattore religioso nella sfera pubblica e privata. Questo ha fatto sì che soprattutto la Corte europea dei diritti dell’uomo si ponesse come arbitro centrale nella creazione di categorie e standard nella protezione della libertà religiosa e nella gestione dei rapporti tra Stato e gruppi religiosi.

Dall’altra parte, il movimento centripeto azionato dai gruppi re-ligiosi che, al fine di evitare una regolazione percepita come troppo omologante, reclama maggiore differenza mediante la valorizzazio-ne del principio di autonomia dei gruppi religiosi. I due movimenti producono importanti conseguenze di ordine sostanziale e metodolo-gico. Dal punto di vista sostanziale appare evidente come il bilancia-mento tra diritti fondamentali dell’uomo e diritto all’autonomia dei gruppi religiosi si ponga come il delicato baricentro di un equilibrio politico e di un nuovo assetto giuridico e di poteri che mira a dare una regolazione quanto più bilanciata possibile del fattore religioso nella sfera pubblica e privata. Dal punto di vista metodologico, anche per via delle recenti riforme ministeriali che hanno inciso sulla discipli-na, i rapporti tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ multiculturalismo interrogano profondamente anche la centenaria tradizione del diritto ecclesiasti-co e canonico.

Silvio Ferrari ha scritto che, «per quanto coperto e negato, il gene del Diritto canonico continua ad operare all’interno del Diritto ecclesiastico […] la specificità del diritto ecclesiastico – e quindi anche l’apporto che, nel bene e nel male, può dare alla scienza giu-ridica – mi pare risiedere in questa attenzione alle ragioni dell’isti-

63 Cfr. nota 34.

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tuzione che, a sua volta, è l’eco della origine canonistica di questa disciplina» 64.

Le evoluzioni di questi ultimi anni sembrano invece portare ad una progressiva marginalizzazione del diritto canonico nel contesto delle università statali. E anche nella comparazione giuridica, dove lo studio dei diritti religiosi sembra aver trovato nuovi stimoli e pro-spettive di crescita, il diritto canonico appare il più mortificato 65. Non che il diritto ecclesiastico se la passi meglio. Se si volesse rispondere alla domanda 66 che quasi dieci anni fa Salvatore Berlingò si poneva a proposito del futuro del diritto ecclesiastico e canonico verrebbe da dire che forse la tempesta sta per arrivare.

64 Cfr. s. ferrari, La nascita del diritto ecclesiastico, in La costruzione di una scienza per la nuova Italia: dal diritto canonico al diritto ecclesiastico, a cura di G.B. Varnier, EUM, Macerata, 2011, p. 84.

65 Per esempio, è un dato rilevato da Giovanni Battista Varnier nel rapporto del diritto canonico con il diritto islamico: «nel rapporto tra diritto canonico e ordina-mento islamico troviamo oggi il prevalere del secondo considerato nuovo rispetto al primo ritenuto vecchio», cfr. G.B. Varnier, Libertà, sicurezza e dialogo cit., p. 58.

66 Cfr. s. BerlinGò, “Passata è la tempesta”? Il “diritto ecclesiastico” dopo la riforma universitaria: riflessioni ex post factum, in Il nuovo volto del diritto ecclesi-astico italiano cit., pp. 71-92.

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Il business ethics nell’Enciclica Caritas in veritate

Il business ethics nell’Enciclica Caritas in veritatedi Benedetto XVI

di luiGi BarBieri

1. La teologia dell’impresa - 2. Impresa sociale e impresa socialmente re-sponsabile: dal genere alla specie - 3. Mercato e logica mercantile

1. La dottrina sociale della Chiesa prescinde – senza eluderle – dalle problematiche strettamente tecnico-giuridiche sulla definizione del concetto di imprenditore e azienda 1, per la semplice constatazione che essa dottrina, pur avendo tra i suoi destinatari anche i responsa-bili dei sistemi economici e gli operatori degli ordinamenti giuridici, travalica, di necessità, i confini di un singolo ordinamento 2.

Ad un attenta analisi sull’ultima enciclica sociale, della Caritas in veritate di Benedetto XVI, non sfuggirà come non sia possibile isola-

1 La letteratura giuridica sui concetti di impresa e lavoro è naturalmente stermi-nata e sovrasta il nostro tema. Un’impresa si definisce economica quando è preor-dinata alla copertura dei costi con i ricavi. Superfluo aggiungere che la definizio-ne giuridica è deducibile dall’art. 2082 c.c. Cfr. S. aMBrosini, e. Barcellona, G. BonfanTe, o. coGnasso, G. nicolini, s. Poli, n. rondinone, Elementi di diritto dell’impresa. Proprietà industriale. Contratti commerciali. Procedure concorsuali, Giappichelli, Torino, 2010.

2 Il messaggio contenuto nell’Enciclica si rivolge innanzitutto ai sistemi econo-mici giuridici ove il Papa può avere un’ingerenza diretta, come nell’ordinamento canonico o nell’ordinamento dello Stato Città del Vaticano. Vale la pena segnalare che da circa due anni con il Motu proprio del 30-12-2010 il papa ha emanato nuovo regole per la prevenzione e il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario. Con lo stesso documento viene promulgata dal Supremo Legislatore la Legge concernente la prevenzione e il contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo del 30-12-2010. C. cardia, Una piccola rivoluzione. Le nuove norme vaticane in materia finanziaria, in “Regno attualità”, 2011, p. 73.

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Luigi Barbieri

re una definizione giuridica dei predetti concetti. Trattasi di categorie concettuali che hanno una valenza interdisciplinare, soprattutto tra le scienze giuridiche (che riguardano il dover essere) e quelle socio-economiche (afferenti all’essere).

L’analista deve pertanto procedere individuando i percorsi per isolare, con un metodo empirico-induttivo, gli stessi concetti innanzi menzionati e ricondurli negli obbiettivi della sistematica giuridica.

È opportuno evidenziare in proposito che nella disamina dell’En-ciclica per i concetti come imprenditore, impresa e lavoro, si rinviene una conformità all’insegnamento tradizionale della dottrina sociale della Chiesa, dalla Rerum Novarum ai nostri giorni; per altro con significativi adeguamenti evolutivi 3.

Il Pontefice si intrattiene su tali argomenti nel capitolo IV dell’En-ciclica e, per quel che riguarda l’imprenditore e l’impresa, segnata-mente dal numero 40 in poi, liddove il concetto di impresa è assunto nella sua natura funzionale 4. L’insegnamento pontificio presuppone il superamento del conflitto tra etica e profitto, esemplificabile nella vulgata nordamericana: the social responsabilities of business is to increase its profits 5.

3 Più che di evoluzione in senso corrente si dovrebbe parlare di accumulazione progressiva, verificatosi in un arco temporale più che secolare e dovuto alle continue metamorfosi sociali. Per una analisi di tali concetti si veda M. GuacheT, La religione nella democrazia, Dedalo, Bari, 2009.

4 «La funzione dell’imprenditore consiste […] essenzialmente nell’individuare e realizzare nuove possibilità, con la creazione e realizzazione di nuovi prodotti, con l’introduzione di nuovi metodi di produzione, con l’apertura di nuovi mercati di sbocco, di nuove fonti di approvvigionamento», P.A. saMuelson, w.d. nordhaus, c.a. Bollino, Economia, Emme&E, Milano, 2009, p. 703.

5 Scopo degli affari è fare affari. L’espressione usata sovente da Alfred T. Slo-an, presidente della General Motors nel 1923, è tratta da M. Friedman, The social responsabilities of business is to increase its profits, in “The New York Magazine”, 13 settembre 1970, p. 33. Vale la pena riportare un passo dello stesso autore nella lectio magistralis tenuta in occasione del conferimento del Premio Nobel nel 1962: «l’idea che i manager e i dirigenti abbiano una responsabilità sociale che va oltre il servire gli interessi degli azionisti è andata guadagnando un ampio e crescente consenso. Una tale visione tradisce un fondamentale fraintendimento del carattere

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In tale paragrafo si sottolinea la imprescindibile importanza del rapporto tra impresa ed etica, intesa questa non come semplice eti-chettatura, bensì come manifestazione essenziale dell’uomo a imma-gine di Dio 6, in relazione alle norme morali-naturali. Il Papa sottoli-nea il rischio dell’abuso dell’aggettivo etico, in quanto se esso viene usato in modo generico e superficiale: «si presta a designare contenu-ti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo» (Caritas in veritate, n. 45).

Nel documento in esame si evidenzia come bisognerebbe indiriz-zarsi verso un superamento della dicotomia tra impresa finalizzata al profitto, for profit, e quelle che non traggono alcun vantaggio lucra-tivo, non profit 7, come pure la distinzione tra imprese produttive di

e della cultura di una economia libera. In una tale economia esiste una ed una sola responsabilità di impresa: usare le proprie risorse e impegnarsi in attività orientate all’aumento dei propri profitti nel rispetto delle regole del gioco, vale a dire impe-gnarsi in una concorrenza aperta e libera, senza inganno o frode». L’economia civile, che qui ci occupa, supera tale visione di un liberalismo puro. In tale superamento il profitto non deve necessariamente prevedere lo sfruttamento del dipendente e la sopraffazione del concorrente debole, sul punto cfr. Etica e società, in “Sinergie. Rivista di studi e ricerche”, sul sito http://www.ermes.it/sinergie/art2.html.

6 Secondo Novak i segni dell’imago nell’imprenditore – «una metafora della Grazia, una specie di sguardo dentro le vie divine della storia» – possono ravvisarsi in tali elementi. La creatività: «la sua creatività ha reso accessibili ai mercati quelle ricchezze della creazione a lungo tenute nascoste. La sua creatività è lo specchio di quella divina». La libertà: «l’impresa rispecchia la presenza di Dio anche nel-la sua libertà […] nella indipendenza dallo Stato». Il carattere sociale: «l’impresa è intrinsecamente nella sua essenza collettiva […]. Per molti milioni di credenti l’ambiente sociale nel quale cercare ogni giorno la propria salvezza è rappresentato dalla sfera comunitaria nel posto di lavoro». L’intuito: «il capitale di base di ogni azienda è l’intuito, l’invenzione e la capacità di trovare strade migliori. L’intuito è di vario tipo e ricopre diversi ruoli: è anche alla base dell’invenzione; costituisce il cuore dell’organizzazione; è la forza vitale in ogni strategia innovativa, produttiva e di marketing». Scelta e libertà: «un’azienda mette a repentaglio la sua libertà […] grandi errori di strategia possono rovinare anche le imprese più solide». M. noVak, Verso una teologia dell’impresa, Liberi libri, Macerata, 1996, p. XII.

7 Sul punto si veda G. feliciani, Organizzazioni “non profit” ed enti confessio-nali, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, 1, aprile 1997, pp. 13-22; M.C.

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beni e imprese produttive di servizi, con «un travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit» (Caritas in veritate, n. 41).

Tale superamento va nel segno della rivalutazione dell’economia civile 8, intesa come una nuova realtà economica «ove non c’è sepa-razione tra vita civile e vita economica» 9, un’economia che ridefi-nisce il ruolo del profitto. Tale concetto è polisenso, «plurivalente», scrive il Papa. Nelle varie sfaccettature dell’idea di profitto bisogna considerare che quel che comunemente si ritiene tornaconto econo-mico è semplicemente una parte di tale concetto.

L’equazione profitto=lucro economico è riduttiva, se non sbaglia-ta. «La gestione dell’impresa non può tener conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie dei soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa» (Caritas in veritate, n. 40).

Le attività dell’economa civile si esplicano principalmente nel terzo settore 10, ma non solo. Per tale ridefinizione il concetto di lu-cro, di guadagno è solo una singola voce dell’intera categoria del profitto 11. Vale a dire che nell’idea di profitto deve essere inglobato

folliero, Enti religiosi e non profit tra welfare state e welfare community. La transi-zione, Giappichelli, Torino, 2010; A. Guarino, Organizzazioni non lucrative di uti-lità sociale ed enti religiosi nella riforma tributaria del terzo settore, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, 1, aprile 1997, pp. 23-48. La distinzione for profit/non profit è tipica della cultura socio-economica statunitense ed è sbagliato «pensare che possa essere utilizzata come griglia universale per comprendere la responsabilità sociale dell’impresa», L. Bruni, La ferita dell’altro. Economia e relazioni umane, Il Margine, Trento, 2007, p. 263.

8 Branca dell’economia che si propone un umanesimo a più dimensioni, nel qua-le il mercato non è combattuto o controllato, ma è visto come un luogo al pari degli altri, come un momento della sfera pubblica che, se concepito e vissuto come luogo aperto ai principi di reciprocità e gratuità, può costruire la città. L. Bruni, La ferita dell’altro. Economia e relazioni umane cit., p. 268.

9 Ivi, p. 88.10 «Non si tratta solo di “un terzo settore”, ma di una nuova ampia realtà compo-

sita che coinvolge il pubblico e il privato», Caritas in veritate, n. 46.11 L’economia del presente lavoro presuppone la nozione tecnica di profitto, che

in «termini contabili rappresenta il ricavo totale meno i costi correttamente imputa-bili a beni venduti (conto profitti e perdite); mentre nella teoria economica il profitto

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anche l’interesse sociale, morale, umano 12. Deve ritenersi superata dunque un’idea riduttiva del profitto che manca di neutralità e che sta ad indicare la massimizzazione del guadagno, dell’arricchimento pecuniario.

Nell’economia del dono l’imprenditore deve sentirsi appagato non solo per la giusta mercede 13, che consegue con la sua capacità organizzativa tra beni, capitale e lavoro, bensì anche per il consegui-mento del prestigio sociale 14, suo personale e dell’impresa; ancora per la soddisfazione morale di aver realizzato un ente economica-mente valido per la società, produttore di ricchezza equa e solidale, che ha tra i suoi effetti primari quello di ridurre il tasso di disoccu-pazione; in ultima analisi per una forma concreta di solidarietà 15.Nell’insegnamento pontificio il termine profitto 16 viene inteso come

è la differenza tra il ricavo delle vendite e il costo-opportunità totale delle risor-se connesse alla produzione dei beni». Sul punto si veda A. saMuelson, w.d.d. nordhaus, c.a. Bollino, Economia cit., pp. 764 ss.

12 A. quadrio curzio, Per una riflessione sul profitto, in “Aggiornamenti socia-li”, XXXVI, 1985, pp. 675-86.

13 L’espressione è scritta a carattere corsivo perché viene usata per la prima volta nella Rerum Novarum, n. 34, promulgata dal Leone XIII nel 1891, cfr. P. saVona, Caritas in veritate: un manifesto per lo sviluppo, in “Aggiornamenti sociali”, n. 7, 2010, pp. 523 ss. La terminologia ha comunque la sua matrice nel Vangelo di Luca: «L’operaio è degno della sua mercede» (10,7).

14 A. sMiTh, The Wealth of the Nations (1776), cfr. M. friedMan, Capitalismo e libertà, IBLLibri, Torino, 2005, p. 205, in particolare nota 4.

15 Riecheggiano in queste considerazioni le pagine di L. von Mises: «La dire-zione degli affari economici in una società di mercato è compito degli imprenditori. Loro è il controllo della produzione. Essi sono al timone e guidano la barca. Un os-servatore superficiale crederebbe che siano in posizione dominante, ma non lo sono. Sono infatti tenuti a obbedire incondizionatamente agli ordini del capitano, e questi è il consumatore». L. Von Mises, L’azione umana, Il Sole 24 Ore, Milano, 2010.

16 In termini sostanzialmente conformi si era espresso anche Giovanni Paolo II: «la Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon anda-mento dell’azienda: quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati e i corrispettivi bisogni umani ade-guatamente soddisfatti» (Centesimus annus, n. 35). Sulla stessa scia l’attuale Pon-tefice: «la moderna economia di impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi»,

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uno «strumento per realizzare finalità umane e sociali […] per rag-giungere finalità di umanizzazione del mercato» (Caritas in veritate, n. 46) 17. L’uomo non deve tendere a divenire un fabbricatore di pro-fitto, bensì un artefice di produttività 18.

Da ciò l’improcrastinabile esigenza di armonizzare la legislazio-ne, soprattutto fiscale, a tale nuova categoria economica-giuridica, anche al fine di creare le condizioni per un mercato più civile e nello stesso tempo più competitivo, secondo la lezione di Amartya Sen: «il mercato è vero mercato quando non produce solo ricchezza, ma soddisfa attese e valori etici» 19.

La svolta che viene sollecitata dall’insegnamento ratzingeriano è quella di riconciliare le dimensioni della persona umana, ritrovan-do accanto alla ricerca dell’utilità anche i valori che nascono dalle relazioni con gli altri, basate sulla fraternità: amicizia e rapporti di mercato non possono restare divisi. La proposta è quella di non con-siderare il volontariato, il non profit, il terzo settore come elemen-ti complementari e separati, ma come realtà capaci di contaminare positivamente con la forza del dono tutto l’operare economico. In sostanza una economia a base etica che diventi correttiva «dei si-stemi economici-finanziari esistenti», non già «funzionale alle loro disfunzioni» (Caritas in veritate, n. 45).

Ha scritto Stefano Zamagni sul punto:

Il futuro appartiene all’economia civile, la cui idea centrale è fondare l’architettura della società su tre pilastri: pubblico (Stato ed Enti Pubblici), privato (mondo delle imprese) e civile (organizzazione della società civile,

perché sempre «vale il diritto di libertà come dovere di fare uso responsabile di essa» (Caritas in veritate, n. 32).

17 È una profonda riflessione teologica che libera l’imprenditore dal senso di colpa, per non considerare più furto il profitto, furbizia l’intelligenza, banditismo il senso del rischio, cfr. D. anTiseri, Prefazione a M. noVak, Verso una teologia dell’impresa cit., p. XIII.

18 A. fanfani, Capitalismo, socialità, partecipazione, Mursia, Milano, 1976, p. 69. Il riferimento a tale autore viene richiamato nella sua esperienza culturale e pre-politica.

19 A. sen, L’idea di giustizia, Mondadori, Milano, 2010, p. 23.

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per comodità denotate come terzo settore). I tre pilastri devono interagire tra di loro in maniera organica secondo il metodo deliberativo…l’ordine socia-le non è più basato sulla dicotomia pubblico-privato (o Stato-mercato), ma sulla tricotomia pubblico, privato, civile. È in ciò l’essenza del principio di sussidiarietà circolare. In questo modo si potranno risolvere problemi urgen-ti come la piena occupazione, che le sole forze del settore capitalistico non possono assicurare; un nuovo Welfare, fondato sull’alleanza tra pubblico e privato e civile; il family mainstreaming per attuare politiche di armoniz-zazione tra lavoro e famiglia. L’economia ha bisogno di una triplice scossa culturale, politica ed etica 20.

Scrive il Papa sul punto:

per rispondere alle esigenze e alla dignità di chi lavora, e ai bisogni della società, esistono vari tipi di imprese, ben oltre la sola distinzione tra “priva-to” e “pubblico”. Ognuna richiede ed esprime una capacità imprenditoriale specifica. Al fine di realizzare un’economia che nel prossimo futuro sappia porsi al servizio del bene comune nazionale e mondiale è opportuno tener conto di questo significato esteso di imprenditorialità 21. Questa concezione più ampia favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse tipo-logie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit e viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie avanzate a quello dei Paesi in via di svilup-po (Caritas in veritate, n. 41).

In questa luce va rivalutato il business ethic – espressamente ri-chiamato nella Caritas in veritate al n. 45 – che si fonda su un siste-ma di principi morali atti a regolare il comportamento delle imprese nel suo complesso e dei singoli individui che in essa e per essa opera-no, con il rigoroso e costante rispetto dei valori prescelti, preferibil-mente tra loro ordinati in gerarchia, secondo una scala di sistema di priorità 22. In altre parole per impresa etica deve intendersi quella che

20 In “Avvenire”, 18-10-2011.21 Cfr. M.C. folliero, Enti religiosi e non profit tra welfare state e welfare com-

munity cit., pp. 127 ss.22 Traggo tale definizione da R. de GeorGe, L’etica degli affari di fronte al futu-

ro, in Etica degli affari e delle professioni, Città Nuova, Milano, 1993, p. 4, ove si rimanda anche a V. coda, Valori imprenditoriali e successo dell’impresa, in “Finan-za, Marketing e Produzione”, 1985, f. 2, p. 29.

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ha l’oggetto, lo scopo e le modalità di gestione parametrati ai canoni eticamente condivisi dalla società in cui opera, con un sostanziale equilibrio tra gli obiettivi perseguiti come entità economica e i valori moralmente diffusi 23. In tale impostazione giocano un ruolo determi-nante l’assunzione dei codici etici 24, atti prevalentemente a garantire, come meglio si vedrà in seguito, il rispetto dei diritti umani, sia con riferimento ai lavoratori dell’azienda, che al consumatore, sia alle norme poste a salvaguardia dell’ambiente e del sistema ecologico.

In tal senso l’impresa, assunta come società intermedia – perché espressione della natura socievole dell’uomo 25 – può divenire un uti-le strumento di giustizia sociale, «un’istituzione che funge da me-diatrice tra il singolo individuo e lo Stato onnipotente» 26, in quanto «ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla crisi at-tuale il ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molto delle sue competenze. Ci sono poi delle Nazioni in cui la costruzione o la ricostruzione dello Stato continua ad essere un elemento chiave dello sviluppo» (Caritas in veritate, n. 41).

Anche perché è compito dell’ordinamento statale salvaguardare i soggetti operativi e i consumatori dal mercato nero o collaterale.

23 Il riferimento principale che si legge nell’enciclica va alle banche, al micro credito e alla micro finanza. Caritas in veritate, n. 45.

24 Che adottano parametri di divieto price-fixing (pratiche monopolistiche ille-gali), di uso di informazioni del mercato finanziario, di contributi illegali a partiti o correnti politiche; al divieto di violazione della legislazione sull’ambiente, della salute e sicurezza sul lavoro, cfr. G.C.S. Benson, Codes of Ethics, in “Journal of business ethics”, 2009, p. 8. Ad avviso di chi scrive le norme dei codici etici hanno l’efficacia delle norme di derivazione volontaristica, ovvero di una obbligazione di diritto naturale. M.R. ferrarese, Il diritto al presente, il Mulino, Bologna, 2002; P. GianiTi, Principi di deontologia forense, Cedam, Padova, 1992.

25 «L’impresa non è solo un’istituzione economica. È anche un’istituzione mo-rale e politica. Genera e allo stesso tempo ne dipende alcune virtù morali e politiche […] fornisce anche nuove fondamenta per la politica», M. noVak, Verso una teolo-gia dell’impresa cit., p. 73.

26 D. anTiseri, Prefazione a M. noVak, Verso una teologia dell’impresa cit., p. XII.

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È compito dello Stato emanare leggi per incentivi di efficacia: «Le leggi migliori sono quelle che consentono di perseguire, in maniera efficace, la realizzazione di determinati lavori creando gli incentivi opportuni negli operatori economici» 27.

2. L’impresa etica si scinde in un rapporto di genere a specie nell’im-presa sociale 28 e nell’impresa socialmente responsabile, richiamata espressamente nel documento papale al n. 41 29.

L’impresa sociale (olim: SI) si concretizza per l’assenza dello scopo di lucro, per cui la relativa attività economica produttiva deve rientrare nell’elenco tassativo previsto dall’art. 2 del decreto legisla-tivo 155/2006 30. Per tali imprese il profitto non è il primo movente

27 Ad esempio leggi sulle polveri sottili, L. BeccheTTi, Oltre l’homo oeconomi-cus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni, Città Nuova, Milano, 2010, p. 135.

28 Contemplata nel nostro ordinamento giuridico dal d. lgs. n. 155/2006. Sul pun-to A. fuccillo, Disciplina dell’impresa sociale. Commento al decreto legislativo n. 155/2006, in “N.L.C.C.”, 2007, pp. 317-36. P. consorTi, La disciplina dell’impresa sociale e il 5 per mille, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, n. 2, 2006, p. 454-74. A. BeTTeTini, Ente ecclesiastico civilmente riconosciuto e disciplina dell’impresa sociale. L’esercizio in forma economica di attività socialmente utili da parte di un ente religioso, in “Ius Ecclesiae”, n. 18, 2006, pp. 719-40. A. BeTTeTini, s. Giacchi, Gli enti ecclesiastici e la disciplina dell’impresa sociale, in “Il Diritto ecclesiastico”, n. 2, 2010, pp. 144 ss.

29 Osserva M. Yunus: «molti restano perplessi quando sentono parlare per la pri-ma volta di business sociale, e di solito lo confondono con l’imprenditorialità sociale [...] il business è un sottosistema dell’imprenditorialità sociale. Chiunque progetti o guidi un business sociale è un imprenditore socialmente orientato. Ma non è vero il contrario, non tutti gli imprenditori socialmente orientati sono impegnati in un business sociale»; naturalmente l’autore scarta l’ipotesi di immaginare un ibrido tra le due tipologie di imprese: «esiste un numero illimitato di ricerche per dar vita ad un ibrido del genere, per esempio si può pensare ad un’impresa con un 60% di mo-tivazioni sociali e un 40% di motivazioni di interesse personale. Nella realtà sarebbe molto difficile controllare un’impresa controllata da due obbiettivi in conflitto con la massimizzazione del profitto e la ricerca del miglioramento sociale», M. yunus, Un mondo senza povertà, traduzione di P. Anelli, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 47.

30 Tale normativa viene sottoposta a dura critica dalla dottrina socio economica, L. Bruni, La ferita dell’altro cit., p. 86, nota 60.

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dell’agire aziendale, anzi esso è un obiettivo meramente strumentale al perseguimento di altre priorità.

In sostanza per definire un’impresa sociale non si devono valutare tanto i beni e i servizi prodotti, quanto gli obiettivi e la modalità con cui la produzione è realizzata. La dottrina economica più accreditata così, di recente, ha definito l’impresa sociale; essa è quell’entità che

configura un soggetto giuridico privato e autonomo dalla pubblica ammini-strazione, che svolge attività produttive secondo criteri imprenditoriali (con-tinuità, sostenibilità, qualità), ma che persegue, a differenza delle imprese convenzionali, un’esplicita finalità sociale che si traduce nella produzione dei beni diretti a favore di una intera comunità o di soggetti svantaggiati. Essa esclude la ricerca del massimo profitto in capo a coloro che apportano il capitale di rischio ed è piuttosto tesa alla ricerca dell’equilibrio tra la giusta remunerazione di almeno una parte dei fattori produttivi e le possibili rica-dute a vantaggio di coloro che utilizzano i beni o i servizi prodotti 31, vale a dire – scrive il Papa – a vantaggio dei «lavoratori, [dei]

clienti, [dei] fornitori dei vari fattori di produzione [de]la comunità di riferimento» (Caritas in veritate, n. 40). L’impresa socialmente re-sponsabile 32 è caratterizzata da una diversa idea del ruolo del profitto («non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare fi-nalità umane e sociali», Caritas in veritate, n. 46). Tale tipo di impre-sa ha trovato una maggiore considerazione anche nella legislazione europea. In conformità a tali principi nel libro Verde della commis-sione Europea del 2001 33 vi si legge la definizione di diritto comuni-tario di impresa a responsabilità sociale: «L’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro

31 C. Borzaca, Impresa sociale, voce in Dizionario di economia civile, Città Nuo-va, Roma, 2009, p. 516.

32 La responsabilità sociale di impresa è un tema molto studiato nella letteratura economica contemporanea. Per tutti si veda L. Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino, 2005.

33 coMMissione della coMuniTà euroPea, Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, cfr. il sito http://europa.euint./comm/em-ployment_social/soc-dial/csr/csr_ index.htm

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operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate» 34. L’impresa socialmente responsabile intende ridimensionare il ruolo svolto dal profitto individuale del proprietario dell’azienda, per de-stinare una quota parte dei proventi alla soluzione dei problemi di natura sociale ed ecologica. Per raggiungere tali finalità l’impresa si autovincola ad una governance di multistakeholders, con il coinvol-gimento dei lavoratori e degli altri portatori di interessi (consumatori e fornitori, diversi dagli azionisti) nei processi di decisione aziendale. Anche tale tipologia di impresa adotta, in genere, un proprio codice etico. «Il fatto che queste imprese distribuiscano o meno gli utili op-pure che assumano l’una o l’altra delle configurazioni previste dalle norme giuridiche diventa secondario di fronte alla loro disponibilità a concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finali-tà di umanizzazione del mercato e della società» 35, in quanto dette imprese «fanno evolvere il sistema verso una più chiara e compiuta assunzione dei doveri da parte dei soggetti economici», giacché «è la stessa pluralità delle forme di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo» (Caritas in veritate, n. 46).

Questa diversa tipologia di impresa 36 deve concorrere ad indi-viduare nell’idea di profitto non solo un indicatore sintetico di ef-ficienza allocativa delle risorse (il più delle volte insufficienti), ma soprattutto un criterio di equità che generi sviluppo materiale e mo-rale 37. Il profitto pertanto non deve essere più visto come il fine unico

34 Commissione Europea, Green Paper, Promoting a European framework for Corporate Social Responsability, Com. 2001, n. 366 del 18 luglio, Bruxelles, con-sultabile online.

35 Corsivo aggiunto. 36 Altra teoria economica, che sprigiona un certo fascino ai profani della scienza

economica, preferisce parlare di Impresa socialmente innovatrice, si confronti in proposito M. MolTeni, Imprenditore socialmente innovatore, voce in Dizionario di economia civile cit., pp. 511 ss. Per altro non rientra nell’economia del presente lavoro catalogare, analizzare le varie teorie su tali concetti, essendo qui sufficiente dare una ricognizione sintetica sulle categorie socio-economiche-giuridiche adope-rate nel documento papale.

37 Il principale problema connesso con la responsabilità sociale d’impresa con-siste nel fatto che per «la loro natura [le imprese tradizionali] non sono attrezzate

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dell’operato dell’impresa, ma anche come un mezzo necessario alla realizzazione del benessere sociale, valutando globalmente l’operato delle imprese, non solo per la qualità dei beni e dei servizi offerti, bensì anche per l’attenzione alla riduzione dell’inquinamento atmo-sferico, alla qualità del lavoro richiesto, alle strutture organizzative e ai dividendi e a tutto ciò che una azienda proietta nel mondo sociale e istituzionale 38. M. Yunus 39 tratteggia un elenco meramente esem-

per misurarsi con i problemi sociali, e questo non perché chi le dirige sia necessaria-mente avido, egoista o malvagio. È qualcosa di connesso alla natura stessa dell’u-niverso aziendale o, volendo scendere più in profondità, al concetto di impresa, che è il cuore del sistema capitalistico», M. yunus, Un mondo senza povertà cit., p. 81.

38 Adottando politiche salariali e di assunzioni per i soggetti deboli, migliorando le condizioni ambientali per le prestazioni di lavoro dei dipendenti, promuovendo corsi di formazione professionale, finanziando iniziative culturali o benefiche fina-lizzate al miglioramento dell’ambiente sociale, ovvero evitando pratiche inquinanti nello sfruttamento delle risorse o nella lavorazione delle materie prime, cfr. P. di Toro, L’etica nella gestione di impresa, Cedam, Padova, 1993, pp. 105 ss.

39 Lo scienziato, premio Nobel per l’economia nel 2006, per la verità ha indiriz-zato la sua ricerca e la sua azione di economista (impegnato anche politicamente) prevalentemente all’obiettivo di sconfiggere la povertà nei paesi sottosviluppati, come il suo Bangladesh; «il banchiere dei poveri» ritiene che un mondo senza poveri debba essere una finalità realizzabile e non utopia. Va davvero riconosciuto grande merito a tale scienziato per la sua opera a favore della distruzione di una piaga so-ciale di dimensioni mondiali. L’autore, probabilmente di tradizione induista, viene citato di rado nella bibliografia ufficiale della dottrina sociale della Chiesa, tuttavia non viene ignorato. C’è da dire però che l’idea di Yunus non è nuova. La microfinan-za, come ricorda il Papa nella stessa enciclica trova origine nell’opera e nel pensiero della scuola francescana del tardo medioevo, che ebbe anche: «La felice intuizione dei Monti di Pietà» che elargivano «i loro prestiti caso per caso in funzione delle effettive necessità [microcredito …] primi finanziatori del credito al consumo e allo sviluppo delle piccole imprese». Magnum pietatis opus istituti di credito sorti nella metà del XV secolo per i piccoli prestiti, cercando di coniugare le esigenze economi-che con quelle etiche. I Monti di Pietà avranno definitiva legittimazione dal Concilio Lateranense V (1512-1517) e dalla bolla di Leone X del 4-5-1512. Le frasi virgo-lettate sono di O. Bazichi, Appunti sull’etica economica della scuola francescana, in “Acta Philosophica”, Rivista internazionale di filosofia, fascicolo 1, volume 21, 2012, p. 17; eiusdeM, Il paradosso francescano tra povertà e società di mercato. Dai Monti di Pietà alle nuove frontiere etico-sociali del credito, Effatà, Cantalupo, Torino, 2011. Ma sul punto cfr. A. andreani, V. PelliGra, Microfinanza, il Mulino,

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plificativo delle imprese socialmente responsabili, come quelle nel campo sanitario, nel campo scolastico e così via.

3. A margine di queste brevi considerazioni sulla teologia dell’im-presa nell’analisi dell’enciclica sembra opportuno uno sguardo di insieme a concetti più strettamente di natura tecnica, che vengono utilizzati dal Papa, in senso talvolta a-specifico.

È il caso della nozione di mercato e della logica mercantile.Il concetto di mercato, nella sua accezione più ampia, è omnicom-

prensivo e polisenso 40. Detto istituto è una categoria analitica, «un immenso meccanismo complesso e altamente sofisticato, capace di indicare degli insiemi smisuratamente grandi di sistemi di valori mo-netari – tendenzialmente coerenti tra di loro – distesi su un orizzonte temporale che può arrivare a cento anni, in ognuno dei quali è rias-sunto un elevato numero di informazioni, di aspettative, di possibili comportamenti» 41.

Dal XVII secolo in poi con tale termine si indica un insieme di ipotesi relative al funzionamento della società nella sfera economico-politica. Il punto nodale è quello di stabilire se le logiche del mercato presuppongono un funzionamento automatico, ovvero se richiedano

Bologna, 2009; M. Muzzarelli, Il denaro e la salvezza. L’invenzione del Monte di Pietà, il Mulino, Bologna, 2001. È impossibile però ignorare un docente, premio Nobel per l’economia, ma soprattutto perché nella sostanza diverge di poco con l’altro scienziato, anch’egli premio Nobel di fede cattolica, ispiratore dell’Enciclica di Benedetto XVI: Amartya Sen. Entrambi attenti a non far confondere il concetto di dono con la gratuità e – principalmente – con la filantropia.

40 La scienza economica ha approfondito lo studio del mercato da epoche re-mote. L’uso di ordinare i mercati risale all’antica Grecia, ove esistevano gli agora-nomoi; nell’epoca classica romana esistevano gli edili e i prefetti addetti ai mercati interni (dall’etimo latino mercari, commerciare); dall’editto di Teodosio (386 d.C., il noto editto Cunctos populos, dal quale significativamente si fa derivare l’origine del principio della religione di Stato) vi provvidero le gerarchie ecclesiastiche. Dal medio evo in poi la regolamentazione del mercato fu assunta direttamente dai prin-cipi, re, conti e signori, che propiziarono il primo nucleo essenziale della scienza di politica economica. F. GalGano, Lex mercatoria, il Mulino, Bologna, 2010, p. 182.

41 P. Barucci, I cattolici e il mercato cit., pp. 10 ss.

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un intervento regolatore esterno, soprattutto da parte dello Stato. È noto che il primo economista-filosofo che si è posto tale punto di do-manda risponde al nome di A. Smith, il quale con la sua opera Teoria dei sentimenti morali, propone la metafora della “mano invisibile” (vale a dire un meccanismo di adeguamento dell’offerta alla doman-da). Smith parte dall’esigenza di risolvere il quesito se la legge di mercato (lex mercatoria) imporrebbe una separazione tra etica indi-viduale e coesione sociale; di qui la necessità di richiamare un senso di giustizia sociale per evitare il crollo dell’intero edificio sociale.

Pertanto la politica deve divenire uno strumento fondamentale e insostituibile per le regolamentazioni necessarie del mercato. Dal XVIII secolo in poi la storia del pensiero economico registrerà una continua oscillazione tra il capitalismo di Stato, dirigismo, e libe-ralismo di mercato, dove troverà ingresso l’elemento capitalistico imprenditoriale 42. Da tale epoca l’economia diviene un sottosistema della società e il pensiero economico viene considerato come politica pratica, che si occupa soprattutto di scambi e di mercati, pervenendo alla definizione di una nuova disciplina: l’economia politica 43.

Dall’epoca della caduta del sistema feudale tale scienza contem-plerà e disciplinerà il moderno mercato della concorrenza: la libera concorrenza è la mano invisibile (invisble hand) che spesso (frequen-tly) trasforma gli interessi individuali in azioni morali 44.

Nell’Enciclica (Caritas in veritate n. 25), tali concetti vengono utilizzati in considerazione di una prospettiva non strettamente tec-

42 F. GalGano, op. cit., p. 190.43 G. ardanT, Politica finanziaria e struttura economica degli Stati nazionali

moderni, in La formazione degli Stati nazionali nell’Europa occidentale, a cura di C. Tilly, il Mulino, Bologna, 1999, pp. 153 ss.; il rapporto tra diritto e mercato è stato analizzato tra gli altri da M. Barcellona, Diritto, sistema e senso, Giappichelli, Torino, 1996.

44 «Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe alle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante che da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla», A. sMiTh, Theory of Moral Sentiments (1759), trad. italia-na Teoria dei sentimenti morali, Mondadori, Milano, 2009.

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Il business ethics nell’Enciclica Caritas in veritate

nica. Il n. 35 della Caritas in veritate è lapidario: «il mercato – se c’è fiducia reciproca e generalizzata – è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambia-no beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto al principio della cosiddetta giustizia commutativa 45, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici» 46.

Dal punto di vista spaziale – locale, internazionale o mondiale – il Papa prende in considerazione l’ultimo aspetto, qualificando il mer-cato più appropriatamente come globale 47.

45 Sul punto si veda A. sen, L’idea di giustizia cit.46 Di recente è stato rievocato da economisti certamente laici il valore sacrale

dell’origine della legge mercantile: «Prima che esistessero le monete si è cominciato a scambiare gli oggetti rari […] esisteva un rito dello ”scambio silenzioso”, durante il quale si posavano gli oggetti da scambiare in un luogo molto particolare, in genere una radura con qualche connotazione religiosa. Il venditore lasciava l’oggetto e se ne andava: chi lo voleva gli posava qualcos’altro in cambio; se il venditore accettava veniva a prendere l’altra cosa e se la portava via. Lo scambio era così concluso senza che le due parti si incontrassero», cfr. J. aTTali, Il senso delle cose, Cedam, Padova, 2011, p. 233. Vedremo nel cap. IV che il Mauss, sociologo di una generazione prece-dente ad Attali, spingerà all’estreme conseguenze le conclusioni delle sue ricerche, affermando che alla base dell’economia non vi era il baratto, bensì il dono.

47 Sul punto cfr. P. Barucci, I cattolici e il mercato cit., p. 7, e, per un’analisi più strettamente storico-giuridica A. Guarino, Commercium et jus commercii, Jovene, Napoli, 1973. La seconda classificazione riguarda l’oggetto: mercato dei prodot-ti, dei servizi, del lavoro, dei capitali, distinto a sua volta in mercato monetario e mercato finanziario, cfr. D. reGoli, voce Mercati finanziari in diritto comparato, in Digesto delle discipline privatistiche - Sezione Commerciale, vol. IX, Utet, Torino, 1996, pp. 407 ss.; per tale ultimo tipo di mercato allo stato gli stessi economisti di formazione cattolica lamentano un atteggiamento troppo silenzioso della dottrina sociale della Chiesa, sul punto rinvio a E. MalinVaud, voce Mercato, in Diziona-rio della dottrina sociale della Chiesa, LAS, Roma, 2005, pp. 426 ss. Dal punto di vista soggettivo distinguiamo nella categoria del mercato dei produttori e degli acquirenti, con particolare attenzione alla categoria dei consumatori. In tale ultima angolazione il mercato è generale se si riesce a favorire l’incontro della domanda e dell’offerta di tutti i beni economici prodotti o speciale se si riferisce a una determi-nata merce. P.A. saMuelson, w.d. nordhaus, c.a. Bollino, Economia cit., p. 798.

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Nell’insegnamento pontificio il mercato globale è il luogo dove «i Paesi ricchi» devono ricercare «le aree dove delocalizzare le pro-duzioni di basso costo al fine di ridurre i prezzi di molti beni» per «accrescere il potere ed accelerare il tasso di sviluppo centrato sui maggiori consumi per il proprio mercato interno». Vale a dire che il mercato deve tornare ad essere una comunità da rifornire, non una piazza da conquistare.

Il Papa ammonisce subito però sui rischi di natura etico-sociale connessi a tale definizione di mercato, che «ha stimolato forme nuo-ve di competizione tra Stati, allo scopo di attirare centri produttivi di imprese straniere» per maggiori vantaggi economici a scapito del-le reti di sicurezza sociale, caratterizzati da una imposizione fiscale blanda a favore delle imprese straniere e nella deregulation del mon-do del lavoro. Il pontefice non nega che il mercato debba essere sog-getto «ai principi della cosiddetta giustizia commutativa», tuttavia tale principio non deve essere mai scisso da quello «della giustizia distributiva e della giustizia sociale», altrimenti il mercato non rin-viene alcuna forma di coesione sociale, indispensabile per uno suo retto funzionamento.

La logica mercantile deve essere finalizzata al perseguimento del bene comune. E a tale proposito il pontefice osserva «che possono es-sere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità anche all’interno dell’attività economi-ca e non soltanto fuori di essa o dopo di essa». Il Papa osserva che l’attività economica di per sé è neutra, ma è l’uso che ne fa il soggetto economico che la rende positiva o negativa in sé.

Pertanto anche nei rapporti mercantili «il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica […] è un’esigenza della stessa ragione economica» (Caritas in veritate, n. 36), in quan-to il soggetto economico può informare il proprio agire «a principi diversi del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico» (Caritas in veritate, n. 37).

In tale ottica l’operatore giuridico dovrà limitarsi a dettare le nor-me che reprimono – e più ancora prevengono – gli eccessi e gli abusi

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Il business ethics nell’Enciclica Caritas in veritate

degli operatori finanziari. È questo il senso della normativa già in atto in molti paesi europei in relazione all’antitrust, ovvero all’istitu-zioni delle aucthorities.

L’intervento normativo occorre per disciplinare un rigoroso or-dinamento monetario, un credito conforme alle norme sulla concor-renza, l’attività dei monopoli, una legislazione tributaria neutrale rispetto alla concorrenza, la protezione dell’ambiente e la tutela del consumatore 48. In sintesi per quel che può essere definito il liberali-smo delle regole 49.

Regole che non possono essere solo il frutto di un’autoregolazione degli attori del mercato. Su questo punto, nei decenni passati si è fatta molta ideo-logia: non esiste un solo caso nella storia, di un mercato che sia nato e si sia mantenuto senza interventi regolativi da parte dei poteri esterni del mercato stesso. Il mercato oltre che ad avere alcuni fondamentali automatismi di fun-zionamento, ha anche un importante aspetto istituzionale, è un’istituzione frutto di regole e produttrice di regole […] regole per la libertà economica come aspetto della libertà umana nel suo insieme e, dunque, regole tali che rinforzino anche le libertà civili e politiche, ma ci devono essere 50.

Con tali brevi notazioni crediamo di aver delineato gli aspetti sa-lienti del business ethics in tema di dottrina sociale della Chiesa, così come tratteggiato nella enciclica Caritas in veritate, ultimo docu-mento papale in materia socio-economica.

48 F. felice, L’economia sociale di mercato. Origini, relazioni con la dottrina so-ciale della Chiesa e implicazioni attuali, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, p. 12.

49 A.M. BaGGio, Il ritorno dell’etica: una lettura ragionata della crisi, in A.M. BaGGio, l. Bruni, P. coda, La crisi economica. Appello a una nuova responsabilità, Città Nuova, Roma, 2009, p. 15.

50 A.M. BaGGio, Il ritorno dell’etica: una lettura ragionata della crisi, in A.M. BaGGio, l. Bruni, P. coda, La crisi economica. Appello a una nuova responsabilità p. 11.

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Laicità e libertà religiosa

Laicità e libertà religiosa: prospettive dell’attuale ‘diritto delle religioni’

di GerMana caroBene

Le dinamiche delle società multiculturali e pluraliste sono legate all’emergere di nuove problematiche che investono il tessuto sociale e richiedono rinnovati interventi normativi 1. Sono molteplici i settori nei quali si sollecita l’intervento del legislatore, dall’esibizione dei simboli religiosi, sia in forma privata che pubblica, all’esercizio di pratiche rituali non codificate nella nostra tradizione culturale, dal riconoscimento delle diverse forme di adozione dei minori alle pra-tiche di ‘fine-vita’, alle festività religiose, nel rispetto delle singole opzioni etiche e morali.

Questo fenomeno investe il quadro generale delle discipline giu-ridiche, ma riveste un interesse particolare per l’ecclesiasticista il cui ambito di studi è tradizionalmente sensibile all’apporto di altri settori scientifici – dalla sociologia, all’antropologia, alla filosofia, alla mo-rale 2. Ed è in tal senso che si orienta anche la più recente dottrina in materia centralizzando lo studio del diritto ecclesiastico sul trinomio diritto - politica - religione 3.

1 W. kyMlicka, Multicultural Citizenship: A Liberal Theory of Minority Rights, Clarendon Press, Oxford, 1995.

2 Cfr. S. ferliTo, Le religioni, il giurista e l’antropologo, Rubettino, Soveria Mannelli, 2005.

3 In tale direzione si sono orientati cfr. P. consorTi, Diritto e religione, Laterza, Roma-Bari, 2010; L. Musselli, Diritto e religione in Europa. Dai Concordati alla pro-blematica islamica, Giappichelli, Torino, 2011; G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto e religione, Plectica, Salerno, 2011; M. ricca, Diritto e religione. Per una pistemica giuridica, Cedam, Padova, 2002, ma anche Giustizia e religione, a cura di A. fuccillo, Giappichelli, Torino, 2011, ed i recenti volumi collettanei Diritto e religione in Italia. Rapporto nazionale sulla salvaguardia della libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, a cura di S. doMianello, e Diritto e religione in Europa.

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Lo studio di un diritto delle religioni mira, dunque, a far emergere un quadro delle possibili conflittualità in grado di fornire risposte giuridicamente adeguate. Da una visione tradizionale e classica del diritto ecclesiastico, come analisi dei rapporti Stato-Chiesa o più in generale potere politico-potere religioso, in una prospettiva vertici-stica e verticale di relazioni si è progressivamente passati ad una con-figurazione di relazioni ‘orizzontali’ per la moltiplicazione di conten-ziosi intersoggettivi a carattere religioso. Anche il termine ‘religione’ si è ampliato, secondo una linea già delineata dai documenti inter-nazionali includendo anche la libertà di pensiero e di coscienza in senso ampio e comprendendo qualsiasi scelta eticamente sensibile. Gli ambiti concreti di applicazione sono legati alla promozione e allo sviluppo dell’individuo nella società e diventano sempre più evidenti dal momento che, dopo il declino delle grandi ideologie secolari, le religioni sembrano essere rimaste le sole a saper parlare il linguaggio pubblico delle politiche di identità. Sono, infatti, le nostre strutture democratiche a sembrare fortemente minacciate da forze centripete, interne, potenzialmente implosive, che portano a ridiscutere del rap-porto tra democrazia e religione/coscienza.

All’interno delle stesse compagini sociali convivono, con esiti al-terni, due diverse concezioni che da un lato portano a sviluppare un concetto di laicità inclusiva e, all’estremo opposto, a demonizzare tutte le forme di espressività culturale ‘diverse’.

La neutralità, la libertà e l’uguaglianza si impongono come i tre grandi pilastri sui quali costruire tale scienza ‘nuova’. Ciascuno di tali principi si declina in una molteplicità di prospettive. La neutra-lità come separazione, autonomia, laicità. La libertà come libertà di credo, di culto, di propaganda, di pratica. L’eguaglianza come non discriminazione, parità. Si evidenzia in tale settore del diritto, forse più di altri ambiti dell’ordinamento, la tensione tra le norme ed i va-lori, luogo di confronto tra l’assoluto delle credenze e il pragmatismo delle norme statuali.

Rapporto sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di libertà religiosa, a cura di R. Mazzola, ambedue il Mulino, Bologna, 2012.

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Laicità e libertà religiosa

Il primo obiettivo della laicità – garantire l’autonomia del potere politico dall’influenza religiosa – è un traguardo in gran parte rag-giunto dalle moderne società occidentali 4. Il nuovo step è dunque indirizzato verso una laicità ‘attiva’, positiva, interculturale.

È noto che il fattore religioso ha storicamente rappresentato un fe-nomeno importante nel processo di trasformazione degli ordinamenti e consente di riesaminare e rimodulare il problema dell’identità, base culturale, collettore e garante della successiva integrazione politica. Il punto di partenza di una nuova cultura giuridica deve, dunque, essere rappresentato da una corretta comprensione di tali concetti affinché agli stessi si riesca a dare una struttura non solo filosofico-concettuale, ma giuridico-positiva.

Dai diritti naturali si è passati al riconoscimento ed alla garanzia dei diritti umani fondamentali riconosciuti al singolo individuo in quanto uti singuli ed uti socius. L’attuale multiculturalismo sociale impone tuttavia di volgere maggiormente l’attenzione sui diritti delle collettività, nel cui interno si esercita e si sviluppa la promozione sociale dell’individuo. Se il riferimento alla nazionalità non è più in grado di strutturare l’identità di un individuo, sarà la comunità di appartenenza a codificare un filtro tra il singolo e la società. A livello internazionale è interessante sottolineare che nel Trattato di Lisbona accanto alle organizzazioni religiose compaiono esplicitamente an-che quelle a carattere non confessionale e filosofiche 5.

La valutazione di questi fenomeni e la necessità di trovare idonee risposte giuridiche impone un ampliamento prospettico, fondato su un’attenta valutazione e bilanciamento dei diritti umani fondamenta-li. Problema giuridico di non facile soluzione si pone, quindi, riguar-do alla necessità di equilibrio tra il diritto alle differenze culturali e la volontà di difesa dei valori tradizionali, legati alla strutturazione

4 C. cardia, Stato laico, in Enciclopedia del diritto, vol. XLIII, Garzanti, Mi-lano, 1990, pp. 874.

5 F. MarGioTTa BroGlio, Confessioni e comunità religiose o «filosofiche» nel Trattato di Lisbona, in Le confessioni religiose nel diritto dell’Unione Europea, a cura di L. De Gregorio, il Mulino, Bologna, 2012 pp. 33-42.

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della propria identità. La formazione culturale è, infatti, così stretta-mente consolidata nelle percezioni individuali, che capire il modo di vivere delle altre società, e quindi le possibilità di relazionarsi alle stesse, dipende da una piena comprensione della ‘logica culturale interna’. Alla luce delle trasformazioni del tessuto sociale, non più omogeneo ma irrimediabilmente ‘fluido’ occorre ripensare – e relati-vizzare – anche le categorie dei ‘diritti umani assoluti’.

È noto che la nascita del concetto di ‘relativismo culturale’ 6 è legata alle evoluzioni dottrinarie del ‘particolarismo storico’ di F. Boas 7 e del ‘funzionalismo’ di B. Malinowski 8 che hanno scardinato la mentalità etnocentrica ed evoluzionista di stampo ottocentesco. Le suddette teorie partono da un assioma fondamentale: il riconosci-mento dell’esistenza, e della dignità, di culture diverse dalla propria. Tale riconoscimento, trasformato da strumento metodologico a vera e propria teoria, non è stata, tuttavia, recepita nel sistema filosofi-co delineato nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 che ha preferito porre, secondo una visione ancora ‘occidento-centrica’, alcuni valori come assoluti. Un documento rispettoso del-

6 M. herskoViTs, Statement on Human Rights, in “American Anthropologist”, 1947, 4, 1. L’A. introduce un tema fondamentale nell’analisi dei diritti umani, quello della relazione inscindibile tra l’individuo e la cultura di appartenenza. Ma tali pro-spettive non risulteranno recepite nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948.

7 Nel suo celebre testo I limiti del metodo comparativo in antropologia, 1896 (pubblicato anche in Antropologia culturale. Testi e documenti, a cura di L. Bonin, a, Marazzi, Hoepli, Milano, 1970) supera le prospettazioni metodologiche degli evoluzionisti che, partendo dalla premessa dell’unità psichica del genere umano, sostenevano la necessaria unicità della cultura e la necessità di una identica sequenza di sviluppo. A questa impostazione sostituisce quella del particolarismo storico, una concezione idiografica, tesa a considerare ogni singola cultura nella sua specificità. Anche l’analisi linguistica contribuirà a rafforzare l’idea della relatività culturale. Si apre la c.d. “prospettiva emica” che tende a comprendere le culture da un punto di vista interno.

8 L’A. propone la c.d. “prospettiva funzionalistica olistica” in cui la cultura è vi-sta come un organismo vivente. Ogni elemento culturale deve dunque essere analiz-zato e compreso solo tenendo conto del suo funzionamento in relazione alla totalità della società: cfr. B. Malinowki, Una teoria scientifica della cultura e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 1962.

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le differenze culturali avrebbe dovuto, invece, considerare che gli individui realizzano la loro personalità attraverso la loro cultura e, quindi, che il rispetto per le differenze individuali implica un rispetto per le differenze culturali. Il relativismo culturale è legato al contatto tra individui, che hanno subito processi di inculturazione in culture diverse, ed impone la necessità di trovare regole transculturali quan-do le dinamiche del processo di inculturazione rendono impossibile comprendere e giudicare soggetti appartenenti a differenti tradizio-ni 9. Esso tende a superare le conflittualità, attraverso le ragioni del dialogo, del confronto e della negoziazione, così da porre in evidenza che la scelta tra le diverse visioni del mondo non è una scelta arbitra-ria del singolo ma strettamente legata al processo di inculturazione.

Questa prospettiva lo avvicina al concetto di ‘pluralismo’ che im-plica l’esistenza, all’interno dello stesso tessuto sociale, di una mol-teplicità di visioni del mondo. Il problema, evidenziato dai teorici del pluralismo, è un continuo lavoro di costruzione, basato sul riconosci-mento di posizioni diverse, sulla base dei principi democratici 10. La differenza tra le due impostazioni è che, se il pluralismo combatte il principio dell’assolutezza delle norme e dei valori, il relativismo combatte l’idea che la ‘fusione’ sia un concetto pericoloso e la sosti-tuisce con quella della cultura come un prodotto, un processo storico in continua trasformazione 11. È compito del giurista la traduzione in

9 Esso si fonda, dunque, sul desiderio di comprendere le diversità ed è compito dell’antropologo la conoscenza del ‘diverso’ finalizzata alla ricerca di regole univer-sali: cfr. C. kluckhohn (Ethical relativity: Sic et non, in “The Journal of Philoso-phy”, vol. 52, 23, 1955, pp. 663-77), il quale definisce il compito dell’antropologia quello di elaborare tecniche per tenere sotto controllo le differenze di significato tra valori apparentemente simili e per trovare somiglianze quando i fenomeni appaiono sostanzialmente diversi agli occhi dell’osservatore (in particolare p. 677).

10 G. sarTori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano, 2000; G. zaGreBelsky, La virtù del dubbio. Intervista su etica e diritto, Laterza, Roma-Bari, 2007 e, dello stesso autore, Contro l’etica della verità, Laterza, Roma-Bari, 2008.

11 U. faBieTTi, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Ca-rocci, Roma, 1995; G. canclini, Culture ibride. Strategie per entrare e uscire dalla modernità, Guerini, Milano, 1998.

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linguaggio normativo e coercitivo di una serie di regole di condotta che, sulla base di queste premesse, consenta il pacifico relazionarsi degli individui all’interno di un determinato tessuto sociale e poli-tico. In tale prospettiva la piena tutela della coscienza individuale è declinabile solo in un contesto politico e giuridico correttamente impegnato alla realizzazione del valore/principio della laicità.

2. La laicità è la cittadinanza democratica e la religione è un fe-nomeno soggettivo, privatistico. Se ci si sposta sul terreno pubblico, l’adesione fideistica diventa – o dovrebbe diventare – un fenomeno irrilevante a livello collettivo, così come l’appartenenza religiosa non può caratterizzare la cittadinanza. Gli Stati moderni definiscono una serie di diritti di appartenenza indipendentemente dalle scelte religiose individuali, anche se socialmente maggioritarie. L’etero-geneità delle appartenenze religiose rappresenta il politeismo dei valori così definito da Weber 12 per il quale ‘politeismo’ significa che nessuna religione, inclusa la cristiana, può più aspirare al ruolo di fondamento ideologico collettivo, transnazionale. Se si tenta di declinare il concetto originale di laicità come eguaglianza civile e politica si evidenzia l’incompiutezza della stessa come pura forma giuridico-politica. L’apparenza democratica delle nostre moderne società occidentali tenta di nascondere le profonde diseguaglianze, ma soprattutto il carattere separatista di quella che Foucault avrebbe definito la «gouvernamité mondiale» 13.

La laicità, prima di essere una norma giuridica fonte di diritti/ob-bligazioni, è un ideale. Il carattere laico di una struttura politica non sarà mai acquisito se non quando tutti i gruppi che compongono il tessuto sociale non percepiranno questo principio come una chance, una garanzia di poter liberamente esercitare i loro diritti e il loro culto, indissolubilmente legata ai principi di libertà e di eguaglianza. Una

12 M. weBer, La scienza come professione. La politica come professione, Einau-di, Torino 2004.

13 Cfr. A. honneTh, Critica del potere. La teoria delle società in Adorno, Fou-cault e Habermas, Dedalo, Bari, 2002, in particolare pp. 217 ss.

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sua corretta interpretazione può, dunque, costituire la forza propulsiva ad una reale integrazione sociale. Occorre impostare correttamente il dibattito nella tensione tra laicità e integrazione e non confondere la religione – organizzazione temporale di una comunità – con la fede che è l’adesione volontaristica ad una specifica credenza. È, inoltre, importante sottolineare che la laicità, quale principio di organizzazione, si impone nei confronti delle istituzioni, non dei singoli individui. Essa mira, attraverso la separazione Stato-Chiesa, a distinguere il settore dell’amministrazione e dei servizi pubblici da quello della vita privata dei cittadini. Nell’attuale dibattito statunitense il problema si è ripro-posto all’attenzione dell’opinione pubblica con la famosa Obamacare, la Riforma Sanitaria il cui nome ufficiale è Patient Protection and Affordable Care Act, approvata il 23 marzo 2010 e ora in via di attua-zione, che comprendeva una norma che obbligava le organizzazioni cattoliche all’acquisto di assicurazioni per le proprie impiegate, relative a prestazioni sanitarie contrarie alla morale cattolica, e che attentano alla sacralità della vita. L’immediata reazione della dottrina cattolica – che ha richiamato il Primo Emendamento alla Costituzione federale degli Stati Uniti d’America e il Religious Freedom Restoration Act – ha spinto il governo alla ricerca di un compromesso e così nel caso delle istituzioni religiose, saranno le compagnie di assicurazione, e non più i datori di lavoro, a offrire gratuitamente alle donne l’assistenza per i contraccettivi 14.

In ambito europeo – pensando in particolar modo all’esperienza francese – la laicità costituzionalmente dichiarata si è identificata nel divieto del velo islamico e successivamente del burqa 15 come

14 La sentenza della Corte Suprema federale nel caso Hosanna-Tabor Evangeli-cal Lutheran Church and School v. E.E.O.C., datata 11 gennaio 2012, riconosce per la prima volta una «eccezione legata al ministero» nelle leggi federali che impedi-scono la discriminazione nelle assunzioni, affermando che le Chiese e altre istituzio-ni religiose statunitensi debbono essere libere di scegliere i propri capi senza subire interferenza alcuna da parte del governo.

15 La legge 2004-228 del 15 marzo 2004, che inquadra, in applicazione del prin-cipio di laicità, «le port de signes ou de tenues manifestant une appartenence reli-gieuse dans les écoles, collèges et lycée public», è pubblicata sul sito del governo

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se la difesa dell’esibizione identitaria potesse costituire tout court minaccia o involuzione dell’ideale laico. Si potrebbe parlare di una sorta di laicità difensiva. Di fronte all’influenza di forte centripete all’interno della società l’intervento politico-legislativo è volto, in nome del supremo principio di laicità, ad affermare i propri valori fondamentali intervenendo in settori che sono, e dovrebbero essere, ‘privati’. Tali forme di ‘laicità-separazione’ sembrano, infatti, aver messo in crisi il sistema repubblicano francese che non è più in grado di regolamentare le conflittualità emergenti a livello sociale. Sembra che l’attuale politica di diritto ecclesiastico sia tesa verso anacronistiche impostazioni di stampo giurisdizionalistico che, per affermare il dogma della sovranità dello Stato e della neutralità dello spazio pubblico, si orientano verso forme sempre più accentuate di intervento e di compressione della sfera privata dell’individuo. È necessario, tuttavia, comprendere anche l’impossibilità, per il cre-dente, di ridimensionare la religione ad un fenomeno privatistico dal momento che la fede – e non la religione – investe necessariamente la sfera pubblica, la morale comune e contribuisce alla strutturazione del tessuto sociale e dei suoi codici etici.

Occorre, dunque, potenziare una politica dell’identità nel rispetto delle diversità. È allora necessario reinterrogarsi sul reale concetto di laicità che, correttamente inteso, dovrebbe implicare la separa-zione della società civile da quella religiosa, prodromo di una reale neutralità dello spazio pubblico. La fase verso la quale si dovrebbero indirizzare le moderne strutture democratiche dovrebbe essere fondata su una laicità indispensabile. La nuova laicità deve, così, basarsi su una valorizzazione giuridica delle differenze, deve tendere alla cre-azione di uno spazio pubblico aperto e fruibile da tutti cittadini, non condizionato né condizionabile da nessuna forma religiosa, tale da consentire un’eguaglianza di trattamento, sia a livello individuale che collettivo, in tutti i settori della vita privata e pubblica collegati con il ‘sacro’ e con l’etica. La finalità dovrebbe essere il raggiungimento,

francese www.legifrance.gouv.fr. Cfr. P. caVana, I simboli della dicordia. Laicità e simboli religiosi in Francia, Giappichelli, Torino, 2004.

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almeno a livello tendenziale, di una posizione ‘aperta’ alla conoscenza dell’‘altro’, non giustificatoria e/o relativista, ma, in una prospettiva interculturale, fondata sul dialogo e non su processi di assimilazione forzata ai nostri paradigmi concettuali ed etici, in modo da coinvol-gere la società nel suo complesso e la responsabilità sociale di tutti gli individui 16.

Sono due i punti cardine intorno ai quali si può delineare l’idea-le della laicità: strutturazione dei confini sfera pubblica /sfera pri-vata e sovranità della volontà – fondamento delle comuni regole di convivenza sociale e della coscienza 17. L’obiettivo finale deve esse-re rappresentato da una ridefinizione delle modalità e delle formule del potere, tale da impedire alle riflessioni religiose di insediarsi nei settori collettivi. Tutto questo impone di considerare che «l’idea lai-ca racchiude in sé una concezione filosofica sull’indipendenza e la capacità della ragione umana ed una concezione politica sui diritti dello Stato e dei cittadini di fronte alle chiese» 18 e che la moderna dimensione pluralista, multiculturale dovrebbe «spostare l’indagine sul carattere di laicità dello Stato ben al di là del solo campo relati-vo all’integrazione del fenomeno religioso, ma ad un momento di sintesi di un determinato assetto dei rapporti tra Stato e cittadini, tra autorità e libertà, alla luce di un modello etico non cognitivista» 19.

16 H. Jonas (Il principio responsabilità. Un’etica per la società tecnologica, Ei-naudi, Torino, 1993) sottolinea che «nella compartecipazione al destino umano i fini dei suoi simili, sia che egli li condivida oppure si limiti a riconoscerli negli altri, e il fine in sé della loro esistenza, possono in maniera unica confluire nel suo proprio fine: archetipo di ogni responsabilità è quella dell’uomo sull’uomo» (p. 124).

17 «Liberté de conscience, égalité de droits, bien commun par-delà les diffé-rences, confiace de principe dans l’autonomie, affirmation simultanée de la souve-raineté de la conscience individuelle, et du peuple sur lui-même, principe d’éman-cipation qui fait qu’on dispose de références identitaires librement choisies, et non qu’on leur soit d’emblée aliéné: c’est tout un idéal qui retenit dans le mot laicité»: H. Pena ruiz, Qu’est-ce que la laicité ?, Gallimard, Mesnil-sur-l’Estrée, 2003, p. 27.

18 G. weill, Prefazione a Storia dell’idea laica in Francia nel secolo XI, Laterza, Bari, 1937.

19 F. riMoli, Laicità (diritto costituzionale), in Enciclopedia giuridica, vol. XVIII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1996, pp. 1-2.

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3. Il nuovo ‘diritto ecclesiastico’ si snoda attorno al concetto di laicità come costruzione di uno spazio pubblico all’interno del quale il singolo sia garantito nella sua libertà di coscienza 20 pur sottoline-ando che la tutela giuridica dei diritti di libertà non è costituita dal diritto, ma si fonda sul principio del rispetto della dignità umana.

Il principio di laicità non può costruirsi sul solo impianto co-stituzionale, ma, in quanto valore, deve costituire la base culturale di costruzione di un determinato tessuto sociale. Esso riassume, ad un elevato livello di generalità, il senso normativo comune ad una molteplicità di previsioni costituzionali distinte seppur omogenee. In particolare, tale principio coinvolge anche la libertà religiosa, ma non s’identifica con questa, né quindi in essa si risolve. Sicché la produzione legislativa deve essere rispettosa oltre che della libertà religiosa anche del principio di laicità.

Per certi versi la differenza tra i due principi, entrambi senza dub-bio di rango ‘supremo’, è legata – anche se solo parzialmente – a quella tra sfera pubblica e sfera privata: difatti mentre la laicità in-forma l’attività statale e delle strutture pubbliche in genere, la liber-tà religiosa riguarda invece la dimensione personale. Il primo è un dovere statale, la seconda un diritto individuale, seppure esercitato solitamente in forma collettiva.

Nel nostro Paese si è affermato che il principio di laicità «implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di plu-ralismo confessionale e culturale», secondo la nota definizione data dalla Corte Costituzionale nel 1989. Nei successivi interventi il prin-cipio si è arricchito di ulteriori significati, tanto che alla formula della “garanzia per la salvaguardia della libertà di religione” si è aggiunta quella della “distinzione fra ordine civile e ordine religioso”. Inoltre, si è precisato che il principio «comporta equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose» e caratterizza «in senso plu-

20 N. fioriTa, d. loPrieno, La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà religiosa nelle società multiculturali, Firenze University Press, Firenze, 2009.

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ralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse».

Interessante ricordare quanto affermato in una sentenza della Cor-te Costituzionale del 1991, in cui si sottolineava che la sfera intima della coscienza individuale deve essere considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della perso-na umana che esige una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essa riconosciuta nella scala di valori espressa dalla Costituzione 21. Tale analisi consente, dunque, di definire sinte-ticamente gli snodi della problematica: fondamento pluralista dello Stato; irrilevanza del dato numerico e sociologico; divieto di discipli-ne differenziate in base all’elemento della religione; dovere di equi-distanza ed imparzialità; regola della distinzione degli ordini; dove-rosa tutela delle minoranze religiose; legittimità, entro certi limiti, della legislazione promozionale di tutela della libertà di religione 22.

21 Nella sent. 467/1991, “Giur. Cost.”, 1991, pp. 3805 ss., in particolare pp. 3813 ss., punto 4 in diritto.

22 G. casuscelli, L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale” in materia di vilipendio della religione, in “Quaderni della Scuola di Specializzazione in Di-ritto ecclesiastico e canonico”, 7, 2002, pp. 79 segg., in particolare p. 86. Si pensi, emblematicamente, alle affermazioni secondo le quali «lo Stato italiano può essere dunque ritenuto “laico” solo in un senso attenuato rispetto a quello che il concetto di laicità aveva acquisito nella cultura liberale dell’Ottocento e nell’ordinamento giuridico francese dalla Terza Repubblica in poi. Lo Stato italiano è cioè “laico” in quanto, pur non essendo vincolato alla neutralità assoluta nei confronti delle confes-sioni religiose, ha natura non confessionale (è cioè “indipendente” e sovrano nella propria sfera) e non può ingerirsi negli affari interni delle diverse confessioni (es-sendo vincolato a regolare i rapporti con queste ultime previa intesa con i relativi rappresentanti). Ritenere che una disciplina legislativa del fenomeno religioso sia irrilevante dal punto di vista dello Stato democratico-pluralista, o anche che essa debba essere ispirata a rigorosi canoni di imparzialità e di equidistanza rispetto a tutte le confessioni religiose, non significa solo prescindere dal testo costituzionale vigente, ma anche ignorare il rilievo del fenomeno religioso nella società pluralista»: M. oliVeTTi, Incostituzionalità del vilipendio alla religione di Stato, uguaglianza senza distinzioni di religione e laicità dello Stato, in “Giur. Cost.”, 2000, pp. 3972 ss., in particolare 3977. La Corte così afferma che va tutelata «l’eguaglianza dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di cui l’eguale libertà delle con-

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Si evidenzia, così, la stretta correlazione del principio di laicità con lo specialissimo rilievo attribuito dalla Corte Costituzionale alla pie-na tutela e realizzazione della libertà di coscienza, come prioritaria libertà del singolo 23, da correlarsi con la protezione del sentimento religioso. Quest’ultimo deve in tal senso essere qualificato non quale interesse dello Stato ma quale interesse, oltre che del singolo, della collettività. Si delinea un quadro in cui tale protezione è sempre più correlata alla tutela generalizzata della libertà di religione e di co-scienza e alla laicità dello Stato.

Il modello di laicità, ricavabile dunque dalla giurisprudenza italiana, assolutamente disomogeneo e non lineare, appare fondarsi su piani che si intersecano nell’impossibile tentativo di escludere qualsiasi forma di scontro con la struttura sociale, di stampo politicamente cattolico; nella configurazione di una generalizzata ed asettica libertà di coscienza individuale ed eguale libertà delle confessioni religiose nei confronti dei pubblici poteri ma, soprattutto, di deciso privilegio nei confronti del cattolicesimo e dei suoi valori fondanti. La giurisprudenza, cioè, ha legato la laicità, in quanto principio supremo dell’ordinamento, ad un regime di ‘pluralismo confessionale e culturale’, ponendo così sullo stesso piano ogni opzione a meno che essa non si traduca in una violazione del principio di uguaglianza che ostacolerebbe la convi-venza delle diverse opzioni religiose 24, sottolineando la necessità di

fessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario»: sent. 346/2002. A. oddi (Il principio di «laicità» nella giurispruden-za costituzionale, in R. Bin, G. Brunelli, a. PuGioTTo, P. Veronesi, La laicità croci-fissa? Il nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, Giappichelli, Torino, 2004, pp. 240 ss., in particolare pp. 247-8) ritiene sacrificata dalla Corte la dimensione individuale a favore di quella istituzionale.

23 P. sPiriTo, Il giuramento assertorio davanti alla Corte costituzionale (nota alla sent. n. 149/1995), in “Giur Cost.”, 1995, pp. 1252 ss. Tale diritto è riconosciuto dalla Corte anche all’ateo, rintracciando in Costituzione «oltre al riconoscimento di una libertà nella religione, anche il riconoscimento di una libertà dalla religione» (p. 1252).

24 In tal senso anche Corte Costituzionale, sentenza 18 ott. 1955, n. 440, “Il Foro It.”, 1996, I, c. 30, ma anche S. doMianello, Sulla laicità nella Costituzione, Giuf-frè, Milano, 1979, pp. 58 ss.

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elaborare congiuntamente, e dialetticamente, le regole di un’etica e di valori condivisi.

Il principio costituzionale di laicità o non confessionalità, cor-rettamente inteso, non significa indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, ma comporta ‘equidistanza e imparzialità’ 25 della legisla-zione rispetto a tutte le confessioni religiose. Se queste sono, a grandi linee, le posizioni del supremo organo giurisprudenziale, in direzioni diverse sono orientate le sentenze più recenti, sviluppate intorno al rapporto tra simboli e laicità dello Stato. In particolare, la qualifica-zione del crocifisso come ‘non simbolo’ – e soprattutto di carattere ‘passivo’ – evidenzia una strutturazione dei concetti di laicità e li-bertà religiosa ridimensionati alla semplice «non costrizione a subire pratiche religiose» 26. In alcune pronunce sembrerebbe delinearsi una concezione del principio di laicità orientato al favor religionis, con particolare attenzione all’intreccio tra religione, contesto sociale, e patrimonio storico nazional/identitario. In tali ipotesi si richiede, nel tutelare i valori della libertà religiosa, che i cittadini non siano discri-minati per motivi di religione e che il pluralismo religioso non limiti la libertà ‘negativa’ di non professare alcuna religione o credo. Sono assolutamente criticabili i forzati tentativi di collegamento tra laicità e crocifisso come valore di tolleranza, se non addirittura di laicità. Quest’ultimo deve essere, invece, collegato con i valori elaborati nel corso dei secoli da una cultura secolare, a-religiosa il cui principio, correttamente delineato, dovrebbe svilupparsi come «condizione e

25 Sentenza della Corte Costituzionale, n. 329/1997, 40. E la più recente senten-za, sempre della Corte Costituzionale, n. 168/2005, 41, riafferma che «le esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso […] sono riconducibili, da un lato, al principio di eguaglianza davanti alla legge, senza distinzione di reli-gione sancito dall’art. 3 Cost., dall’altro al principio di laicità o non-confessionalità dello Stato […] che implica, tra l’altro, equidistanza e imparzialità verso tutte le religioni, secondo quanto disposto dall’art. 8 Cost., ove è appunto sancita l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge».

26 Con riferimento ai simboli cfr. Symbolon/Diabolon. Simboli, Religioni Diritti nell’Europa multiculturale, a cura di E. dieni, a. ferrari, V. Pacillo, il Mulino, Bo-logna, 2005; ma cfr. anche S. doMianello, Sulla laicità nella Costituzione, Giuffrè, Milano, 1999.

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limite del pluralismo, nel senso di garantire che il luogo pubblico deputato al conflitto tra i sistemi indicati sia neutrale e tale permanga nel tempo» 27.

Tutto ciò consente di costruire un quadro non di semplice irrile-vanza o indifferenza dello Stato nei confronti del fattore religioso, ma di laicità positiva o attiva. La prima decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo, nel caso Lautsi ha assunto così il ruolo di una rivoluzione copernicana nel settore della tutela dei diritti umani fon-damentali. Se nel caso Sahin contro Turchia 28, ma anche nei due casi gemelli, contro la Francia, Dogru e Kervanci 29, essa, in nome della tutela della laicità, costituzionalmente affermata dai due Paesi, aveva riconosciuto legittimo il divieto del velo, nel caso de quo, in nome della stessa laicità ha deciso di tutelare il diritto delle minoranze, omettendo qualsiasi valutazione sul tessuto sociale del nostro Paese. In tali ipotesi, infatti, si è preferito comprimere il margine di autonomia lasciato al singolo Stato in nome della difesa di un diritto fondamentale dell’in-dividuo, alla luce del dogma assoluto della ‘laicità’. Tali condivisibili affermazioni sono state, tuttavia, come è noto, assolutamente travolte dalla pronuncia della Grand Chambre.

Se è vero che la cultura politica di una società democratica è sempre contraddistinta da una molteplicità di dottrine religiose, filosofiche e morali se ne deduce che lo Stato deve tendere a consolidare l’assetto

27 Sentenza della Corte di Cass., IV sez. pen., 1 marzo 2000, n. 439.28 G. caroBene, La libertà di religione, di manifestazione del credo religioso e il

rispetto dell’ordine pubblico. Riflessioni in margine all’affaire Leyla Schin davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, in “Diritto e religioni”, 1/2, 2006, pp. 621-33. Sentenza della Grande Chambre della Corte Europea dei diritti dell’uomo, Leyla Sahin c. Turquie, 10 novembre 2005, req.n. 44774/98. Tale decisione è successiva ad una precedente pronuncia della IV Commissione della Corte del 29 giugno 2004. Ambedue i testi sono pubblicati sul sito della Corte Europea www.cohe.eu.int.

29 Dogru e Kervanci c. France, 4 dic. 2008. Nel caso di specie la restrizione della libertà di religione non era dettata esclusivamente da motivi di sicurezza e di salute, ma anche dallo scopo di preservare la neutralità e la laicità dell’ambiente scolastico pubblico. A tal proposito, la Corte ricorda che in Francia il principio di laicità è uno dei principi fondamentali e che la Corte deve lasciare un ampio margine d’apprez-zamento alle autorità statali in materia di relazioni tra Stato e confessioni religiose.

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pluralistico della società, tenendo conto che la religione può contri-buire al «progresso spirituale della società» (art. 4 Cost.) al pari di altre visioni della vita. In Italia, tuttavia, il meccanismo di bilateralità incompiuta non ha consentito l’affermazione giuridica del principio di equidistanza e di non identificazione, prodromici alla realizzazione di una piena laicità.

Se il modello democratico, così come elaborato e strutturatosi nell’Europa occidentale, può considerarsi una forma universalmente condivisa, la sua efficienza è sempre condizionata culturalmente dall’evoluzione dei modelli socio-giuridici e necessita di forme sem-pre aggiornate di eticità condivisa. Il progetto di laicità deve dunque essere teso alla realizzazione di uno spazio realmente aperto a tutti e di tutti «per esercitare, in condizioni di libertà e uguaglianza, i diritti di libertà morale (di coscienza, di pensiero, di religione e di culto, ecc.) e per costruire a partire da questi la propria esistenza: uno spazio voluto dagli uomini indipendentemente da Dio, etsi Deus non daretur» 30.

30 G. zaGreBlesky, Scambiarsi la veste. Stato e Chiesa al governo dell’uomo, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 9.

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Il diritto delle religioni nella Corte dei gentili

Il diritto delle religioni nella Corte dei gentili

di crisTina dalla Villa

Quando i valori cardine di una cultura vengono messi in dubbio an-che i criteri di giudizio e di misura funzionali fino a quel momento si perdono: si tende a disconoscere la validità dei vecchi parametri di riferimento per adottarne dei nuovi nei quali si cerca l’elemento di rottura con quelli precedenti.

Questo, probabilmente, coincide con quanto è accaduto dalla ri-voluzione francese in poi fino a tutto il ventesimo secolo.

Oggi la linea di rottura tra un sistema di valori ed un altro appare più sfumata, attraversandosi una fase di diluizione filosofica e psico-logica che si riconosce nel pensiero relativista il quale pone le basi per una relazionalità, sia essa intesa tra i singoli che tra le culture, con cui si supera il concetto stesso di dialogo: questo non è più ne-cessario, non ci si deve confrontare più vigendo, su tutto, un tacito assenso.

Il relativismo, però, non concepisce solo la dinamica dell’inclu-sione ma elimina completamente quella dell’esclusione: l’unica scel-ta etica possibile è quella dell’accettazione del tutto giacché questa, con il suo corredo di decostruttivismo e pensiero debole, appare l’ul-timo baluardo.

Nell’enfasi odierna sulla laicizzazione della società si tende a cre-dere che l’abbandono di punti di riferimento forti equivalga ad una più rapida e disinibita apertura al mondo, accettazione indolore del nuovo e del diverso.

Lo studio del diritto delle religioni, nell’ambito pubblico si rivela necessario per poter guardare con speranza al futuro delle democra-zie ed al domani dei popoli che, nelle democrazie, continuano a ve-dere lo strumento migliore per la promozione delle libertà e di tutti i diritti ormai riconosciuti dalla comunità internazionale.

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Nel vivere, storicizzando, la fase successiva alla caduta delle grandi ideologie, si ripropone la questione di scegliere i valori per l’interpretazione del “progresso” nell’era della globalizzazione: ed è in questo “territorio franco” che si deve cogliere la sfida di testare gli indici del fenomeno religioso (nella complessità dell’analisi giuridi-ca e delle predisposizioni normative) quale contesto del “senso” di una convivenza finalmente partecipata.

Le nuove generazioni vanno guidate alla realizzazione del bene comune ed all’affermazione di un ordine sociale, giusto e pacifico, dove possano essere pienamente espressi e realizzati i diritti e le li-bertà fondamentali dell’uomo: vanno quindi guidate ad uscire dalla logica dell’attuale stagione, caratterizzata dalla palese contraddizio-ne tra la logica dell’ostilità nei confronti dello “straniero”, sul piano interno, e l’impegno profuso, sia nella cooperazione allo sviluppo che nelle politiche di integrazione, sul piano sovranazionale.

Sommessamente si ritiene che tale contraddizione sia uno dei nodi da affrontare: l’identificazione di linee di sviluppo del dibattito in or-dine alle politiche di integrazione, che hanno al centro il portato reli-gioso, non potrà prescindere dalla considerazione che, le stesse, do-vranno essere perseguite innanzitutto a livello territoriale decentrato.

Le questioni relative all’immigrazione ed all’integrazione, nel quadro di un sistema di multi-level governance, implicano una pun-tuale analisi che vede necessaria la partecipazione di attori pubblici e privati, a diversi livelli, anche considerando la distinzione che la qua-lifica tra “cittadino” e “straniero” vieppiù comporta una gradazione diversa nel godimento dei diritti rilevanti nelle politiche considerate.

Ma, a questo punto, ulteriori interrogativi sollecitano l’attenzio-ne: in che misura l’integrazione può costituire un momento di irre-versibile trasformazione di una presunta identità nazionale? Fino a che punto può essere posta come un fine capace di giustificare, oltre all’esercizio di diritti civili, anche l’attribuzione di diritti politici agli immigrati? Quale dovrà essere il ruolo degli Stati, degli enti territo-riali minori, delle comunità locali?

Immediatamente e con tutta la forza che solo la Carta sa espri-mere, balza agli occhi l’onere imprescindibile che vincola “ogni cit-

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tadino”, così come dettato dall’art. 4 Cost.: concorrere al progresso materiale e “spirituale” della società.

In questo quadro si ricolloca l’attenzione ad una diversa propo-sta di inquadramento, per la ricerca e la didattica, delle discipline ecclesiastiche e canoniche (l’inquadramento nei curricula andrebbe mantenuto omogeneo, così come il riferimento al monte crediti ed alle propedeuticità richieste).

Certamente è tempo di prospettare una denominazione che riesca a sintetizzare il portato di una area scientifica che, ad oggi (rispetto alle altre), è definitivamente caratterizzata dal dato della interdisci-plinarietà. Tale dato non si rafforza solo sotto il profilo pubblicistico ma anche sotto il profilo privatistico, non si colloca solo a livello di legislazione statuale o comunitaria, ma anche a livello di legislazione decentrata: il futuro delle materie forse sarà riuscire a tessere una maglia omogenea per gli strumenti normativi delegati che dovranno, in futuro, garantire l’applicazione dei principi generali e supremi?

2. Notiamo come, sul territorio e a livello decentrato, all’Assesso-rato alle Politiche Sociali si sia affiancato, nelle Prefetture, il Consi-glio Territoriale per l’Immigrazione. Nell’aprile 2011, con un Atto di Governo di politica economica sottoscritto dall’allora Ministro Tre-monti, si è dichiarato che la nazione riconosceva di aver bisogno di duecentosessantamila immigrati per garantire parametri favorevoli del PIL. Ecco quindi che per gestire il fenomeno della migrazione è indispensabile l’applicazione di criteri di giustizia sociale che non potranno mai prescindere dal portato della tolleranza e dalla necessi-tà della condivisione.

Nel capitolo 12 della Genesi Jahvé dirà ad Abramo «vattene»: è evidente la metafora – vai verso te stesso – costruisci la tua autono-mia. Attraverso l’esodo Jahvé si rivela il liberatore dalla schiavitù: appartiene alla tradizione ebraico-cristiana la radice giuridica del principio di dignitas che rintracciamo proprio nel patto con Jahvé: «stabilirò una relazione con l’uomo».

Nel Sinodo dei Vescovi dell’ottobre del 1999 Carlo Maria Martini si era soffermato sulla necessità di predisporre i tempi per un Con-

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cilio della Chiesa cattolica, sui punti fino a quel momento affrontati dal pontificato di Wojtyla: la carenza di ministri ordinati, la posizione della donna nella communio, la partecipazione dei laici ad alcune re-sponsabilità ministeriali, la sessualità e la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, il ravvivamento della “speranza ecumenica”.

Il “talento” conciliare molte chiese lo hanno “trafficato” nel se-condo novecento: la chiesa cattolica (ricordiamo l’indizione dell’an-no della fede per l’11 ottobre 2012 a cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II), le chiese non calcedonesi (con il Concilio co-mune ad Adis Abeba del 1968) e, dopo la cattività sovietica, ricordia-mo come l’ortodossia russa abbia ripreso a celebrare concili che ne hanno plasmato il diritto ed una speciale di dottrina sociale.

Le grandi chiese della Riforma e del protestantesimo (in teoria le più restie ad usare la sinodalità) continuano a ricorrere al consenso sinodale per rimanere se stesse (si ricorda, nel 2010, il Concilio di Grand Rapids).

Proprio il filone di ricerca sotteso al nostro settore scientifico-disciplinare ci consentirebbe di riprendere, quindi, il progetto di un Concilio delle Chiese che, nel World Council of Churches ginevrino, aveva tracciato una pista di lavoro percorribile: dopo aver celebrato il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, sono infatti le nostre mate-rie l’alveo naturale per uno studio puntuale e coordinato sulla nuova configurazione religiosa, che si attaglia al territorio nazionale, ormai composta da molte e diverse presenze religiose (dai sikh ai mussul-mani, dagli ortodossi alle nuove chiese cristiane di matrice penteco-stale latino-americane, africane ed asiatiche).

Non si tratta solo di trovare delle nuove mediane nell’approccio al dialogo interreligioso ma di allargare l’interscambio progettuale ai fini di una didattica correlata, anche a livello interdisciplinare, senza tralasciarne il profilo storico, soprattutto nell’ambito comparatistico (non in ultimo in linea con i documenti magisteriali).

3. Il multiculturalismo, come strategia culturale e come insieme di politiche, ha circa quarant’anni di storia: nel suo nome minoranze etniche, razziali, linguistiche, sessuali e religiose hanno rivendicato

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diritti e riconoscimenti in varie sfere della vita pubblica, dalla gover-nance locale alla rappresentanza politica.

Mentre recentemente in Egitto, nella prima parte della primavera araba, abbiamo assistito ad una inedita difesa della libertà di culto (cristiani copti e musulmani sono scesi assieme in piazza rivendi-cando il diritto, quali credenti, alla libertà di aderire alla propria re-ligione senza imposizioni) in controtendenza, ormai da alcuni anni, assistiamo, in molti stati tradizionalmente liberal-democratici, ad una crisi progressiva che riguarda i migranti (in Europa soprattutto arabi musulmani) non toccando parimenti le minoranze sub-statali e i popoli indigeni.

Le garanzie costituzionali offrono tuttora enormi possibilità di tutela alle politiche multiculturali mentre probabilmente è iniziato il declino di quel principio che vuole lo Stato geloso custode di speciali differenze tra gli abitanti del suo territorio.

A vent’anni dal collasso dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia con la riscossa delle etnie, risultato della grande destabilizzazione del 1991, le difficoltà delle UE rischiano di rendere ancora più caotico uno scenario di irriducibile complessità.

La trama per predisporre, con l’apporto scientifico delle nostre discipline, un ordito che consenta la libertà di crescere, nell’ambito della cultura di origine, in un contesto democratico globalizzato è la sfida che responsabilmente va colta.

Tutti i cosiddetti corpi intermedi oggi hanno la grande occasio-ne di ridisegnare il profilo della “vecchia” Europa, ricostruendo una ecumene mediterranea, la stessa che ha informato l’eccellenza dell’humanitas occidentale: nell’attuale contingenza è chiaro come, l’integrazione economica, non certo potrà sostituirsi alla strategia politica giacché i mercati non saranno mai strumenti idonei a produr-re una solidarietà politicamente resistente, laddove si voglia ancora intendere per “solidarietà” il senso autentico di comunità civile.

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Cristina Dalla Villa

Per un approfondimento

Itinerari culturali del diritto canonico del novecento, a cura di c. fanTaPPié, Giap-pichelli, Torino, 2003.

f. d’aGosTino, P.a. aModio, Le libertà di religione e di culto, Giappichelli, Torino, 2003.

P. lillo, Globalizzazione del diritto e fenomeno religioso, Giappichelli, Torino, 2007.

n. fioriTa, d. loPrieno, La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà reli-giosa nelle società multiculturali, Firenze University Press, Firenze, 2009.

M. VenTura, a. TalaManca, Scritti in onore di Giovanni Barberini, Giappichelli, Torino, 2009.

P. Bellini, Metamorfosi del “cattolicesimo reale”. Sulla dinamica ideologica del movimento cristiano principale, Rubettino, Soveria Mannelli, 2010; id., Tra due Italie, Claudiana, Roma, 2010.

Tradizioni giuridiche nel mondo. La sostenibilità della differenza, a cura di s. fer-liTo, il Mulino, Bologna, 2011.

L. Mai, Per una rilettura del concetto di tolleranza, Pellegrini, Cosenza, 2011.

Diritto e religione in Italia. Rapporto nazionale sulla salvaguardia della libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, a cura di S. doMia-nello, il Mulino, Bologna, 2012.

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Associazionismo confessionale e dialogo interreligioso

Associazionismo confessionale e dialogo interreligioso

di Maria luisa lo Giacco

Dialogo interreligioso e associazioni confessionali costituiscono re-altà che sono state plasmate dal Concilio Vaticano II. Esso ha infatti modificato la dinamica delle relazioni interne alla Chiesa Cattolica, aprendo uno spazio di fiducia e collaborazione per le realtà associati-ve in generale e per le associazioni di fedeli laici in particolare. Così a partire dal Concilio nella Chiesa vi è stato un fiorire di associazio-ni, pubbliche o private, di carattere diocesano, nazionale o interna-zionale. Come è noto, il canone 215 del codice di diritto canonico ha stabilito il diritto dei fedeli «di fondare e di dirigere liberamente associazioni che si propongano un fine di carità o di pietà, oppure associazioni che si propongano l’incremento della vocazione cristia-na nel mondo». La disciplina delle associazioni è poi contenuta nei canoni 298-329; senza entrare nel merito di tale disciplina sottolineo soltanto, perché legato alla questione del dialogo interreligioso, il canone 298 §1 che individua le finalità alle quali devono tendere le associazioni di fedeli: «incremento di una vita più perfetta», «pro-mozione del culto pubblico o della dottrina cristiana», «altre opere di apostolato, quali sono iniziative di evangelizzazione, esercizio di opere di pietà o di carità, animazione dell’ordine temporale mediante lo spirito cristiano». La prima questione da porsi è allora se il dialogo interreligioso rientra o meno in una di queste finalità, ma lascerò per il momento in sospeso la domanda.

Sulle radici conciliari del dialogo interreligioso, almeno per quan-to riguarda la Chiesa Cattolica, non c’è bisogno di soffermarsi. È interessante però notare che di questa nuova visione dei rapporti con le altre religioni non c’è traccia nel codice di diritto canonico, dove anzi i fedeli delle altre religioni sono definiti come «non cattolici» o «non credenti in Cristo». Così il can. 256 §1 che riguarda la for-

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mazione dei seminaristi, raccomanda che essi vengano istruiti «nel dialogo con le persone, anche non cattoliche o non credenti», mentre al §2 che vengano sensibilizzati ai problemi missionari, ecumenici e di carattere sociale. Il canone 771 §2 ricorda invece ai vescovi e ai parroci di preoccuparsi che l’annuncio evangelico raggiunga anche «i non credenti che vivono nel territorio». Ritengo che il legislatore, quando richiama i “non credenti” tout court intenda riferirsi a chi non ha alcuna fede religiosa, mentre gli appartenenti alle altre religioni sono definiti con la formula negativa di non cattolici o non credenti in Cristo. È quanto avviene ad esempio nel canone 787 sull’attività missionaria, nel quale – e questo mi sembra l’unico esempio di dia-logo interreligioso previsto dal codice – si chiede ai missionari che «con la testimonianza della vita e della parola, istituiscano un dialo-go sincero con i non credenti in Cristo», anche se il codice individua come obiettivo del dialogo la conoscenza dell’annuncio evangelico, dunque la conversione.

Se perciò il codice ha recepito il dettato conciliare in tema di as-sociazioni, non altrettanto si può dire per il dialogo interreligioso. Eppure, proprio negli anni successivi alla promulgazione del nuovo codice il dialogo ha visto una fioritura grazie soprattutto all’impul-so creativo proveniente dal magistero pontificio e dalla visione di Giovanni Paolo II. L’incontro di Assisi dell’ottobre 1986, che era stato voluto anche per sostenere la decisione dell’ONU di dichiarare il 1986 come anno della pace, fu un evento di portata storica, per di-versi motivi, non ultimo il fatto che per la prima volta, come lo stesso Giovanni Paolo II ebbe in seguito modo di sottolineare, i rappresen-tanti e i leader di tutte le grandi religioni mondiali si ritrovavano insieme, nello stesso luogo, intorno al papa della Chiesa Cattolica che li aveva convocati1, ma anche perché modificava il ruolo e la per-

1 Messaggio di Giovanni Paolo II al Card. E.I Cassidy in occasione dell’VIII incontro “Uomini e Religioni”, Assisi 11-13 settembre 2004, in J.D. durand, Lo “Spirito di Assisi”. Discorsi e messaggi di Giovanni Paolo II alla Comunità di Sant’Egidio: un contributo alla storia della pace, Leonardo International, Milano, 2004, p. 111.

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cezione del papato tra le grandi religioni: «Sembrava che all’interno della Chiesa stesse maturando come un carisma di servizio all’unità e alla fraternità tra i popoli della terra, e questo proprio attraverso il dialogo tra le genti di differenti religioni» 2. Andrea Riccardi insi-ste sul nuovo ruolo assunto dal papa proprio grazie alle giornate di preghiera per la pace: «appoggiato da cristiani, ebrei, musulmani e religioni asiatiche, Wojtyła ribadisce il rifiuto della logica dello scon-tro. Egli grandeggiava, tra i leader religiosi, con un non codificato né proclamato, ma reale primato. È un fatto mai avvenuto nella storia del pontificato romano» 3.

Giovanni Paolo II era convinto della necessità del dialogo tra le religioni per rafforzare e difendere la pace. Lo si vide quando con-vocò nuovamente ad Assisi cristiani, ebrei e musulmani durante il conflitto nella ex-Jugoslavia, e poi nell’altro incontro interreligioso voluto, nuovamente ad Assisi, il 24 gennaio del 2002, come “rispo-sta” delle religioni agli attentati terroristici dell’11 settembre 4. Il mese prima, il 14 dicembre 2001, aveva chiesto ai cattolici di unirsi ai musulmani in una giornata di digiuno che coincideva con la fine del Ramadam. Andrea Riccardi sottolinea la novità e l’importanza del gesto: «È la prima volta che questo avviene nella storia del cat-tolicesimo. Attraverso la coincidenza di un giorno di digiuno, il papa afferma il valore del legame religioso tra cristiani e musulmani» 5.

Al discorso del primato pontificio e del ruolo particolare rivestito da Giovanni Paolo II (ma anche da Benedetto XVI) nel promuove-re il dialogo interreligioso si collega l’attivismo delle associazioni confessionali cattoliche in quest’ambito. Se si osservano infatti quali siano gli attori del dialogo interreligioso all’interno della Chiesa Cat-tolica, oltre agli organismi istituzionali di diretta emanazione della gerarchia come il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso,

2 coMuniTà di sanT’eGidio, Lo spirito di Assisi. Dalle religioni una speranza di pace, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2011, p. 28.

3 A. riccardi, Giovanni Paolo II. La biografia, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2011, p. 445.

4 Ivi, pp. 421-31.5 Ivi, p. 444.

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particolare impegno viene dimostrato da alcune associazioni e movi-menti laicali. Nel discorso conclusivo della giornata di Assisi, Gio-vanni Paolo II aveva detto, tra l’altro: «la pace attende i suoi artefici […]. La pace è un cantiere aperto a tutti e non solamente agli specia-listi, ai sapienti e agli strateghi» 6. Era un chiaro invito a continuare nel lavoro per la pace attraverso il dialogo interreligioso. Eppure G. Weigel, nella sua biografia ricorda le resistenze all’interno della Cu-ria romana, e l’ostilità incontrata dalla Comunità di Sant’Egidio che aveva deciso di continuare il dialogo iniziato ad Assisi: «Un anno dopo l’incontro di Assisi – scrive Weigel – la comunità di Sant’Egi-dio voleva continuare sulla strada intrapresa promuovendo in futuro altri incontri simili. Perfino “i cardinali più aperti” erano contrari, ma Giovanni Paolo II chiamò il cappellano della comunità, monsignor Vincenzo Paglia, e gli disse: “Don Vincenzo, oggi ho combattuto per lei… e abbiamo vinto”» 7. Questo episodio si colloca nel particolare legame esistente tra il papa e le associazioni laicali e sul ruolo delle associazioni e dei movimenti all’interno della Chiesa Cattolica, ben descritto dall’allora cardinale Ratzinger nell’intervento di apertu-ra del Convegno mondiale “I movimenti ecclesiali, speranza per la Chiesa e per gli uomini”, tenutosi in Vaticano nel maggio del 1998 8.

L’impegno profuso dai Pontefici nel dialogo interreligioso con-sente di considerarlo come uno degli aspetti della missione della Chiesa nel mondo. Quest’ultima considerazione ci autorizza a ri-spondere positivamente al quesito se esso rientri fra le finalità del-

6 Cit. in coMuniTà di sanT’eGidio, Lo spirito di Assisi. Dalle religioni una spe-ranza di pace cit., p. 59.

7 G. weiGel, Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, protagoni-sta del secolo, Mondadori, Milano, 1999, p. 652.

8 Cfr. J. raTzinGer, Intervento di apertura, 27 maggio 1998, reperibile sul sito in-ternet http://focolare.org. Il giorno successivo, a piazza San Pietro, Giovanni Paolo II aveva detto: «L’aspetto istituzionale e quello carismatico sono quasi co-essenziali alla costituzione della Chiesa e concorrono, anche se in modo diverso, alla sua vita, al suo rinnovamento ed alla santificazione del popolo di Dio» (Discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II ai movimenti ecclesiali e alle nuove comunità, 30 maggio 1998, in www.vatican.va.

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le associazioni laicali, poiché in questo modo esse collaborano alla missione del Papa e della Chiesa nel mondo.

Meno rilevante è il ruolo svolto fino ad ora da organizzazioni confessionali di altre religioni, mentre è da segnalare l’esistenza di qualche associazione interconfessionale che si interessa ai temi del dialogo, come l’“Amicizia ebraico-cristiana” o la comunità di dia-logo interreligioso “Vangelo e zen”. Fuori dai confini italiani si può citare la Tanenbaum organization, associazione ebraica con sede a New York che ha come fine statutario il dialogo interreligioso, o l’E-lijah interfaith institute, con sedi in Israele, USA, Inghilterra, Cana-da, India e Taiwan.

Pur senza condividere del tutto l’affermazione di Oliver Clément, secondo il quale «le altre religioni non si interessano molto al dia-logo, o se ne interessano per trarne qualche profitto e dispongono per questo di specialisti» 9, è innegabile che il maggiore impulso al dialogo interreligioso provenga da associazioni e gruppi di matrice cattolica. Nel sito web ufficiale del Movimento dei Focolari si legge che la fondatrice, Chiara Lubich, già nel 1977 10 iniziò un percorso di dialogo con esponenti delle grandi religioni, a ciò sollecitata anche dalla diffusione mondiale che il movimento stava avendo. In effet-ti, un’altra caratteristica delle associazioni impegnate nel dialogo è quella di essere realtà non limitate ai confini di uno Stato, ma diffuse in tanti paesi, spesso a maggioranza non cristiana, situazione che in un certo senso forza i loro membri al dialogo. Anche l’impegno del-la Comunità di Sant’Egidio nel dialogo interreligioso coincide cro-nologicamente con la sua espansione al di fuori dei confini italiani. All’interno del Movimento dei Focolari un organismo denominato “Centro per il dialogo interreligioso” si occupa di promuovere incon-tri, conferenze, simposi e collaborazione con esponenti delle diver-se religioni mondiali, con un occhio particolare all’ebraismo e alle

9 O. cléMenT, Dio è simpatia. Bussola spirituale in un tempo complicato, Leo-nardo International, Milano, 2003, p. 65.

10 In quell’anno Chiara Lubich fu insignita del Premio Templeton per il progres-so della religione.

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grandi religioni dell’estremo oriente. La Comunità di Sant’Egidio, oltre a organizzare ogni anno, attraverso l’associazione “Uomini e Religioni”, gli incontri internazionali di preghiera per la pace nel-lo spirito di Assisi, promuove frequentemente conferenze, dibattiti e azioni umanitarie nel segno del dialogo, con una particolare atten-zione verso il Medioriente e l’islam. Da ultimo, sul loro sito internet è segnalata la pubblicazione di un volume dal titolo Il vento di Tahir scritto da autori cristiani e musulmani, con contributi su temi quali la cittadinanza, l’identità religiosa, la cultura del convivere, la solida-rietà sociale. L’importanza che questi due movimenti attribuiscono al dialogo interreligioso è verificabile anche da un semplice esame dei loro siti internet, che già nella home page gli riservano una parte ben in evidenza.

Di particolare rilevanza, e degno di essere segnalato, è l’accordo di collaborazione che la Comunità di Sant’Egidio ha firmato nell’a-prile del 2012 con la più numerosa e importante associazione isla-mica indonesiana, la Muhammadiyah. L’accordo, come si legge nel sito della Comunità, prevede una collaborazione tra le due associa-zioni «nel campo della solidarietà, del dialogo interreligioso, della promozione di una cultura della tolleranza e della convivenza, nella soluzione dei conflitti e la ricerca della pace e in aiuti umanitari in caso di catastrofi naturali».

Sono da segnalare altre associazioni cattoliche che pure si inte-ressano ai temi del dialogo: tra questi il Centro francescano inter-nazionale per il dialogo, il Centro mondialità dei missionari e laici saveriani, l’associazione Piero Rossano. Si tratta però di organizza-zioni più piccole e con un impegno più locale rispetto ai focolarini o a Sant’Egidio.

Se si guarda ai contenuti del dialogo interreligioso portato avanti dalle associazioni e dai movimenti ecclesiali, si nota una grande at-tenzione ai problemi concreti della pace, della giustizia sociale, dei diritti umani. Ritornano alla mente le parole di Silvio Ferrari che, per spiegare il ruolo che i giuristi possono avere nel dialogo interreligio-so, ha scritto: «È un dialogo sulle cose prima ancora che sulle idee […]. Esistono cioè principi e valori che ogni uomo – ebreo, cristiano,

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musulmano, ateo e via dicendo – non può non riconoscere e per la cui attuazione non può non collaborare con gli altri uomini. Questo è il contributo che il diritto può dare al dialogo interreligioso» 11.

Dialogo che, a noi studiosi del diritto ecclesiastico, chiede di ri-pensare anche alcune categorie giuridiche, prima fra tutte quella del-la laicità. Il già citato Clément, francese convertito al cristianesimo ortodosso, afferma l’esigenza di una nuova idea di laicità:

Una laicità originale – scriveva – metterebbe l’accento sia sui diritti di Dio che su quelli dell’uomo, ritrovando il carattere “aperto” delle grandi epoche, che furono altamente creatrici nell’arte, nel pensiero, nella scienza. Sogno che l’Europa si apra di nuovo sul Mediterraneo e che da qui possa na-scere la contaminazione di questa laicità originale che aiuti a ritrovare le pro-prie radici religiose e spirituali nel bisogno dell’altro e non più nel sogno di vivere senza l’altro, in una pulizia etnica spirituale che è distruttiva per tutti 12.

11 S. ferrari, Introduzione al diritto comparato delle religioni. Ebraismo, islam e induismo, il Mulino, Bologna, 2008, pp. 17-8.

12 O. cléMenT, Dio è simpatia cit., pp. 48-9.

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di Grazia PeTrulli

1. Premessa - 2. Profilo storico e giuridico: significato originario del ter-mine. Secolarizzazione nel diritto canonico: can. 638 CJC del 1917 - 3. Emancipazione di un concetto e suo impiego come categoria scientifica e filosofica: scuole di società secolari - 4. Utilizzo del termine come categoria descrittiva di un processo sociologico e politico: secolarizzazione, separa-zione, laicizzazione

1. Negli ultimi decenni l’Europa è stata crocevia di mutamenti so-cio-culturali che hanno comportato una profonda trasformazione del modo di concepire la famiglia. È indubbio, tuttavia, che il modello familiare oggi vigente nell’Europa occidentale trova la sua origine nella tradizione cristiana, essendo il risultato di molteplici vicende storico-culturali, sulla quale hanno influito diversi fattori e in primo luogo il diritto canonico. Si assiste oggi, in tale ambito, a una politica sociale che si apre alla diversità culturale, volta a promuovere forme di tutela della famiglia, indipendentemente dal fatto che trovi fonda-mento nell’atto di matrimonio o siano altrimenti costituite.

Una spinta in questo senso è stata data dalla Carta dei diritti fon-damentali dell’Unione Europea 1 che riconosce come libertà fonda-mentali tutelate «il diritto di sposarsi e il diritto di fondare una fa-miglia» (art. 9), attuando una sostanziale modifica all’art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamen-tali del 1950 che, nell’interpretazione data dalla Corte europea di Strasburgo, sanciva quale modello di famiglia tutelato quello tradi-zionale, ossia fondato sul matrimonio. La comparsa di una pluralità

1 Approvata dal Parlamento europeo il 14 novembre 2000, proclamata formal-mente a Nizza.

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di modelli familiari (partnership in Danimarca, patti di solidarietà in Francia, unioni registrate in Olanda, matrimoni tra omosessuali in Spagna, Olanda e Belgio) ha fatto in modo che ci si allontanasse dal modello di famiglia cosiddetta tradizionale o legittima, ossia dalla famiglia fondata sul matrimonio e in particolare dal modello familia-re cristiano che, di fatto, ha costituito il punto di riferimento per tutta l’esperienza giuridica europea.

Quanto fin qui accennato ci ha spinto ad occuparci della secola-rizzazione per cercare di capire a che punto essa è arrivata.

In particolare la problematica che ci si propone di affrontare è se la “secolarizzazione” del matrimonio canonico, con la creazione dei diversi modelli familiari non fondati sul matrimonio, debba essere visto sic et simpliciter come momento di rigetto degli aspetti religiosi dell’istituto familiare e quindi come un’irriducibile contrapposizione rispetto al modello tradizionale. Ovvero, secondo quanto proposto da una parte della dottrina, la possibilità che la secolarizzazione, pur essendo un processo ineluttabile, rimanga tuttavia ancorata “con la morale d’ispirazione cristiana”. In tal caso si avrebbe a significare che i modelli familiari oggi proposti non fondati sul matrimonio non vanno a sostituirsi, ma si affiancano a quello tradizionale, rispon-dendo a finalità ed esigenze momentanee dell’uomo moderno non avendo le caratteristiche di stabilità e certezza.

2. Il concetto di secolarizzazione, prima di essere un fenomeno giu-ridico, è essenzialmente un fenomeno culturale. Identificarlo prima-riamente fatto culturale ci permette di capire come, nel rapporto tra struttura e sovrastruttura, un fatto concreto, che rientra nell’ambito privato e personale, riesca a riflettersi anche a livello di coscienza e di valori. Ed è in ciò che il termine “secolarizzazione” evidenzia la sua indubbia rilevanza.

La complessità linguistica legata al termine di “secolarizzazione” fa oscillare l’inquadramento ora in un’area di significanza “asettica”, ora in altra di valore per identificare una dinamica fenomenologica storico-politico verificatesi nel nostro mondo. Ciò porta, in ogni caso, ad escludere ad una prima analisi un significato ben preciso ed univo-

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co. La secolarizzazione assume, infatti, una diversa valenza a seconda del contesto storico, politico e sociologico in cui il termine viene uti-lizzato. In questo senso esso è uno dei termini più equivoci e ambigui del lessico politico. Allo stesso tempo è quello più utilizzato, finanche abusato, in quanto presupposto logico per tutti quei discorsi che met-tono in relazione, in qualunque modo, l’aspetto religioso, spirituale, divino, rientrandovi o come categoria esplicativa ovvero quale risul-tante. D’altra parte la delimitazione dell’area di significanza entro cui può definirsi un termine e/o un concetto dipende in generale dalla storia dell’uso che di quel termine e/o concetto se ne è fatto. Il fine te-oretico dello studio della storia dei concetti è quello di trovare, infatti, una soluzione di continuità tra il significato attuale e impegnativo di un concetto, la sua definizione normativa e la sua origine effettiva 2.

Il significato etimologico del termine qualifica la secolarizzazione come occupazione mondana (da saeculum; saecularizatio), dedita a faccende terrene e non esclusivamente spirituali di persone o istitu-zioni anche se ecclesiali. Il termine sorge, in ambito giuridico, nel XVI sec., ed il suo utilizzo indicava il passaggio di un religioso allo stato secolare o di proprietà e prerogative ecclesiastiche a istituzio-ni laiche, anche se, l’origine della “secolarizzazione”, quale dichia-razione di autonomia del potere civile rispetto i precetti religiosi e l’autorità ecclesiastiche, può farsi risalire già all’XI secolo, nel corso della Lotta per le Investiture (1057-1122) 3.

2 h. lüBBe, in La secolarizzazione. Storia ed analisi di un concetto, il Mulino, Bologna, 1970, p. 9, dove si rileva che solo in «pochissimi casi eccezionali il signifi-cato attuale di un concetto è frutto di una decisione arbitraria, di una libera convenzi-one o di una definizione autorevole che sia poi riuscita ad affermarsi. Generalmente il linguaggio filosofico trae il suo significato attuale e normativo dall’uso che se ne è fatto tradizionalmente».

3 Le complesse trasformazioni economiche e sociali dell’XI secolo si tradussero in istanze sociali e spirituali diversamente orientate. Da una parte l’affermarsi della borghesia, spinta ad organizzarsi sempre più in associazioni e più tardi alla costi-tuzione dei Comuni. Dall’altra parte il fiorire di un nuovo sistema economico basato principalmente sul commercio e che metteva in crisi il sistema di privilegi basato sulla nobiltà di nascita, sino ad allora esistenti. In tale contesto sociale le stesse strutture di governo (Impero e Chiesa) venivano a trovarsi nella necessità di darsi un

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L’effetto prodottosi dalla Lotta per le Investiture, che vide la sua conclusione nel 1122 con il concordato di Worms, fu quello di in-serire quale elemento nuovo nella cultura del tempo la motivazione intellettuale della separazione tra spirituale e mondano 4. Un concetto questo, elaborato dalla stessa dottrina teologica al fine di legittimare la pretesa della Chiesa all’esercizio esclusivo del potere spirituale rispetto all’impero che viene dalla stessa “de-sacralizzato” e relegato ad un ruolo esclusivamente mondano.

Ci si avvia in tal modo alla secolarizzazione della politica, o per meglio di dire al lento dissolvimento dell’unità della res pubblica cristiana, dove l’ordinamento politico riconosceva in sé, nella sua sostanza, e quale suo fondamento, la sacralità e la religiosità e dove Imperatore e Papa si trovavano entrambi in un unico governo, il cui fine era quello di realizzare il Regnum Dei sulla terra 5.

Anche se la sovrapposizione tra potere “mondano” e quello “spi-rituale” durò di fatto ancora per molti secoli, si realizza una prima fase della secolarizzazione che non implica l’immediata liberazione dal fondamento religioso in assoluto 6.

Un’altra fase fondamentale del processo di secolarizzazione si realizza con la Riforma protestante, vasto movimento religioso po-

nuovo equilibrio, più adeguato alle condizioni ed alle attese di sudditi e fedeli. Cfr. sul punto a. ProsPeri, Storia moderna e contemporanea. Dalla rivoluzione inglese alla rivoluzione francese, Einaudi, Torino, 2000.

4 Nel 1059 il papa Nicolò II nel Concilio lateranense, condannando la simonia e il concubinato, cercò di porre fine alle cause della corruzione del clero, originata dalla dipendenza dell’organizzazione della Chiesa dalla struttura imperiale. A tale fine fu redatto un decreto con il quale si sanciva la sottomissione del Papa solo a Dio e la sua elezione non più decisa dall’imperatore ma da un collegio di cardinali riuniti e ispirati da Dio. L’opera di Nicolò II fu portata avanti da Gregorio VII conferendo alla Chiesa uno strumento ideologico fondamentale nel Dictatus papae.

5 E. Bockenforde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di G. PreTerossi, trad. di M. carPiTella, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 39-41.

6 Le signorie territoriali e i regni, dopo la Lotta per le Investiture, seppur avviate ad una politica secolare, mantennero sempre come proprio fondamento la religione cristiana. Cfr. A ProsPeri, Storia moderna e contemporanea cit., p. 58.

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litico e morale, iniziata da Martin Lutero nel 1517 che porta ad una rottura dell’unità del cristianesimo ed alla affermazione di una nuova coscienza etica e religiosa. La religione riformata con le teorizzazio-ni di Lutero giunge ad una scissione del mondo tra regno terrestre e regno spirituale. È questa nuova visione dei due regni che pone i pre-supposti culturali per le teorizzazioni filosofiche della moderna poli-tica e il diffondersi di un radicale individualismo. A ciò va aggiunto un lento ma inevitabile affermarsi della concezione dello Stato mo-derno 7, ora svincolato dalla tutela delle gerarchie ecclesiastiche ed ancorato su basi territoriali nazionali. Ma la questione più rilevante che gli Stati all’indomani della Riforma dovettero affrontare fu quel-la di risolvere la convivenza tra diverse religioni all’interno di un unico ordinamento giuridico. L’effetto più importante delle guerre di religione che attraversarono il XVI secolo, infatti, viene identificata con l’affermazione delle tesi della tolleranza e della convivenza di dottrine diverse, in uno stesso Stato laico 8.

L’aggettivo saecularis era, perciò, già insito quale elemento cultu-rale e quindi in uso da molti decenni quando il legato francese Lon-gueville lo introdusse nel corso delle trattative di Westfalia 9, perché

7 E. Bockenforde, Diritto e secolarizzazione cit., p. 50.8 Un evento in questo senso è rappresentato dall’Editto di Nantes, emanato nel

1598 da Enrico IV di Navarra con cui venne garantito al cittadino del regno di go-dere di tutti i diritti civili anche senza appartenere alla vera religione. Confronta sul punto G. coTTa, La nascita dell’individualismo politico. Lutero e la politica della modernità, il Mulino, Bologna, 2002, pp. 130 ss.

9 Le prime trattative, che misero fine alla Guerra dei Trent’anni (1618-1648), sono iniziate per la prima volta nell’agosto del 1645 e solo il 24 marzo del 1648 fu raggiunto l’accordo sulle materie di religione. Venne fissata una data normativa, c.d. “annus normalis”, al 1624: tutti i culti che potevano provare di essere esistiti a quella data dovevano essere tollerati. Di contro si stabilì che tutti i beni ecclesiastici “secolarizzati” a quella data non dovevano essere più restituiti tranne quelli che erano appartenuti alla Chiesa cattolica, per i quali se ne stabiliva la restituzione. Per gli altri aspetti religiosi le decisioni della pace di Augusta, 1555, vengono riconfer-mate ed estese ai territori riformati dell’impero; abolito il principio del cuius regio et religio, si riconobbe a tutti i sudditi la libertà di professare una fede diversa da quella del rispettivo monarca, almeno formalmente. Cfr. sul punto Storia delle religioni. Il

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ritenuto il più adatto ad esprimere una situazione di apparente inno-cenza della procedura di espropriazione di territori ecclesiastici al fine di indennizzare i territori di Brandburgo per quelli concessi e ceduti alla Svezia 10. In tal senso il termine séculariser serviva perfettamente all’uso cui fu destinato, cioè ad indicare la modificazione di una situa-zione esistente senza polarizzare ulteriormente l’attenzione sul nuovo stato secolare di tali territori un tempo di potestà ecclesiastica. Il con-cetto originario del termine non contiene, in realtà, un giudizio sulla legittimità o meno dell’operazione. Non tutte le secolarizzazioni com-piute, infatti, vennero considerate un danno per la Chiesa: alcune di queste furono anche compiute su iniziativa e per volontà della stessa 11.

Il valore essenzialmente neutro del concetto di secolarizzazione è comprovato dall’uso che di esso ne viene fatto dallo stesso diritto ca-nonico. Nella seconda metà del XVI secolo il termine venne usato in ambito giuridico per qualificare «il transito di un religioso dal clero regolare al clero secolare», e dallo stesso Codex Juris Canonici del 1917, Can. 638, codificato per designare quella forma di ritorno dalla comunità monastica a quella mondana 12.

Gli avvenimenti storici sin qui sintetizzati, costituiscono i pre-supposti per quello che viene considerato come lo “spartiacque” di

Cristianesimo, La Repubblica, Roma, 2005; a. ProsPeri, Storia moderna e contem-poranea. Dalla Peste nera alla Guerra dei trent’anni, Einaudi, Torino, 2000, p. 68.

10 Le trattative di pace erano nello stadio in cui un accordo sembrava possibile solo se si fossero annessi a Brandeburgo una parte di territori ecclesiastici. Sul punto a.J. niJk, Secolarizzazione, trad. di E. Ten Kortenaar, Queriniana, Brescia, 1971. In particolare l’A. afferma che «i territori in questione erano in parte cattolici ed in parte protestanti, ma che però avevano conservato il carattere di territori ecclesias-tici. Se questi territori fossero stati aggiunti al Brandeburgo, ciò avrebbe significato la liquidazione definitiva del loro stato di principati ecclesiastici e come tale una seria infrazione dell’ordine tuttora vigente nell’Impero Germanico» (p. 34).

11 Un esempio ne è l’università di Müster, finanziata con la “secolarizzazio-ne” del convento nobile delle Benedettine di Ueberwasser e di alcune proprietà dell’ordine dei Gesuiti. H. LüBBe, op. cit., p. 22.

12 V. del Giudice, Istituzioni di Diritto Canonico, Giuffré, Milano, 19363, p. 151. l. chiaPPeTTa, Diritto Canonico, in Commento giuridico-pastorale, vol. I, Edizioni Dehoniane, Roma, 19962, p. 831.

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un’intera epoca 13: la Rivoluzione francese (1789), considerata an-che come l’ultima fase del processo di secolarizzazione, visto ancora come fatto preminentemente culturale.

Da un punto di vista storico il processo di secolarizzazione si rin-nova grazie a quelle forze rivoluzionarie di pensiero che cambiarono l’assetto politico-istituzionale dell’Europa tra il XVIII ed il XIX sec.: è con la fine dell’ancien régime ad opera dei princìpi liberali della rivoluzione francese che iniziò tale processo.

In realtà, i primi provvedimenti dell’Assemblea costituente fran-cese non mirarono ad una contrapposizione violenta con la Chiesa ma ad un adeguamento delle istituzioni ecclesiastiche alle istanze di rinnovamento della società in forza dei princìpi di uguaglianza e li-bertà. La Francia del 1789 rimase sostanzialmente un paese cattolico. Infatti, la gran parte dei contadini e degli artigiani francesi rimaneva profondamente legata alle tradizioni religiose ed alla fede dei padri. La volontà dell’Assemblea nazionale era diretta a promuovere una «razionalizzazione» di quegli intrecci tra istituzione ecclesiastica e vita civile che apparivano ormai non più adeguati alla «nuova co-scienza indotta dalla cultura illuministica» 14.

In questa logica di “razionalizzazione” delle istituzioni ecclesia-stiche s’inseriscono i provvedimenti presi dal nuovo Stato 15. Tra i

13 s. PeTrucciani, Modelli di filosofia politica, Einaudi, Torino, 2002, p. 125.14 Cfr. Storia del Cristianesimo, L’Età contemporanea, a cura di G. filoraMo, d.

Menozzi, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 133.15 Tali provvedimenti erano ritenuti necessari per la costruzione del nuovo stato:

proclamazione della libertà religiosa col limite del rispetto dell’ordine pubblico, ri-conoscimento dei diritti politici e civili ad ebrei e protestanti, soppressione delle decime ecclesiastiche e l’incameramento dei beni della Chiesa da parte dello stato che come contropartita si incaricava del sostentamento del clero. Anche la Dichiara-zione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea costituente il 12 luglio del 1790, ed in particolare l’art. 10 («Nessuno può essere molestato per le sue opinioni, anche religiose”) è da inserirsi in tale contesto. “anche quando si tratta di celebrare la realizzazione della grande opera di rinnovamento di tutte le istituzioni […] non si concepisce che la cerimonia possa iniziare in altro modo che con una messa celebrata da un vescovo deputato dell’Assemblea costituente»). Cfr. Storia del Cristianesimo. L’Età contemporanea cit., p. 57.

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più rilevanti interventi di riforma si segnala la Costitution civil du clergé (1790), con la quale lo Stato decise unilateralmente come dovesse essere organizzata la Chiesa, operando una nuova sistema-zione delle diocesi e delle parrocchie e imponendo a tutto il clero un giuramento di fedeltà alla costituzione civile. Gli effetti che tali provvedimenti ebbero sui rapporti fra religione e società sono facil-mente comprensibili.

Alla Costitution civil du clergè Pio VI rispose con la breve Quod aliquantum con cui, oltre ad una ferma condanna della costituzione civile del clero, dichiarava anche che i valori di libertà, uguaglianza, sovranità popolare, princìpi che avevano ispirato l’attività legislativa dell’Assemblea costituente, erano contrari al dettato biblico ed in-sensati sul piano naturale 16.

La seconda fase della rivoluzione francese è caratterizzata, in-vece, da una forte ostilità religiosa, tanto che si auspicano forme di “scristianizzazione” della società 17: è la c.d. “fase del Terrore”.

Vengono a tal fine introdotti i registri dello stato civile sottraendo al clero una funzione sociale che le apparteneva da sempre: non è più il battesimo che segna l’ingresso dell’uomo alla comunità, ma la registrazione della nascita presso i registri dello stato civile. Lo stes-so accade per il matrimonio, con l’instaurazione di un matrimonio civile e l’obbligo di far precedere questo a quello canonico. Viene dichiarata la nullità dei voti religiosi, ordinato lo scioglimento delle congregazioni, ed infine abolito il celibato dei preti 18, sino ad ar-rivare ad una vera lacerazione tra legge civile e diritto divino con l’introduzione del divorzio 19. È in questo contesto che si andò svilup-

16 Storia delle Religioni. Il Cristianesimo cit., p. 586.17 c. cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, il Mulino, Bologna, 1996, p. 128. 18 R. réMond, La secolarizzazione. Religione e società nell’Europa contempora-

nea, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 65.19 Le vicende storiche che hanno caratterizzato il sec. XVIII sono state le risul-

tanze di una più ampia rivoluzione culturale e di pensiero: l’illuminismo. Vedi sul punto L. GoldMann, Illuminismo e società moderna, Einaudi, Torino, 1967, p. 38; F. ruffini, Libertà religiosa e separazione tra Stato e Chiesa, in Scritti giuridici minori, Giuffré, Milano, 1936; id., Relazioni tra Stato e Chiesa, il Mulino, Bologna, 1974.

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pando l’ondata di “scristianizzazione” dove la fedeltà alla repubblica è ormai vista come incompatibile con l’appartenenza alla Chiesa 20.

Con il Concordato stipulato a Parigi nel 1801 tra la Santa Sede e Napoleone Bonaparte si chiude il ciclo delle persecuzioni, permet-tendo al cattolicesimo di ritrovare una sua posizione sociale. Il ritro-vato equilibrio si basava sulla concessione alla Chiesa di una serie di privilegi: restaurazione del culto pubblico, una dotazione economica agli enti religiosi, il ritorno al papato dell’istituzione canonica dei vescovi 21.

Gli avvenimenti che nel corso del XVIII secolo caratterizzarono la Francia rivoluzionaria non fecero altro che concludere la forma-zione di uno Stato moderno, qual’era sorto dalle guerre di religione. Alla base del nuovo Stato si pone la Dichiarazione dell’uomo e del cittadino del 1789, che sancisce la libertà di pensiero e di opinione, e qualche anno più tardi, con la Costituzione del 1791 anche la libertà di fede e di religione.

In base a quanto esposto si evidenzia un dato oggettivo molto importante. Sebbene di fatto la religione non viene completamen-te espunta dalla vita politica e civile, la secolarizzazione permise di concepire come possibile la creazione di uno Stato emancipato dalla

20 Il progetto di “scristianizzazione” fu attuato attraverso una serie di misure co-ercitive, come l’obbligo per i preti di abdicare o di sposarsi, la chiusura delle chiese e la loro utilizzazione per scopi civili, vi rientra anche il progetto di sostituire un nuovo culto a quello cristiano, da quello della Dea Ragione ai “santi martiri della Rivoluzione”. Da una parte si intendeva portare a termine il processo di secolariz-zazione dello Stato, che proclamava quale suo compito quello di garantire la libertà religiosa, dall’altro venivano sostenute le c.d. “religioni civili”.

21 Ad integrazione del Concordato del 1801 furono firmati da Pio VII e Napo-leone Bonaparte gli “Articoli organici del clero”. Essi stabilivano che le nomine dei vescovi spettavano al capo dello Stato, mentre al Papa competeva l’investitura canonica. Allo Stato il potere di legiferare in materia di ordine pubblico e al papato di rinunciare ai beni divenuti statali durante la Rivoluzione in cambio di una re-tribuzione statale per gli ecclesiastici. L’accordo stabiliva inoltre, che nessun man-dato della Chiesa di Roma poteva essere messo in esecuzione senza il consenso del governo. Cfr. H. Belloc, La rivoluzione francese, Longanesi, Milano, 1951, p. 92; C. Bonanno, L’età moderna nella storia critica, Liviana, Padova, 1991, pp. 232-40.

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religione, neutrale rispetto le istanze trascendentali dei cittadini e che mantiene inalterata la sua posizione giuridica.

3. La secolarizzazione viene in considerazione non solo nella dina-mica storica ma emerge anche come categoria concettuale che in cer-ti ambiti del pensiero aspira ad una autonoma valenza scientifica. In ciò si evidenziano gli sforzi delle Scuole etiche di società secolari che, a partire dalla metà del ’700, teorizzarono una concezione di Stato etico non più basato su precetti religiosi. In breve tempo il ter-mine secolarizzazione viene ad associarsi alle nuove concezioni illu-ministiche. Le società secolari propagarono in tutta l’Europa l’idea di lotta della cultura (che in Germania indica la corrente filosofica e politica della Kulturkampf) sino ad acquistare una valenza politica e culturale che influenzò tutti gli aspetti della società con caratteristi-che più o meno ostili alla religione.

La saecularizatio (ingl. secularization, franc. sécularisation, ted. Säkularisierung) segna, in realtà, il nascere di un nuovo modo di concepire i rapporti tra Stato e Chiesa, ed in particolare tra religione e potere, tanto che acquista, specie dopo gli avvenimenti storici della fine del secolo XVIII, un significato politico ben preciso divenendo sinonimo di usurpazione di diritti e di beni religiosi e di illegittima cura e controllo della Chiesa da parte dello Stato. Tuttavia, l’interes-se maggiore, nel tentativo di definire il termine “secolarizzazione”, si è manifestato in ambito filosofico, conoscendo il suo sviluppo con-cettuale tra il XIX e il XX secolo.

Nel secolo dei Lumi la secolarizzazione diventa in misura cre-scente la parola d’ordine degli spiriti “illuminati” che mettono in discussione il potere secolare e i possedimenti terreni della Chiesa. Si delinea, in tale contrasto, un significato più chiaro del termine, considerato ora come «passaggio di diritti di sovranità e di proprietà della chiesa allo stato od a altra istituzione secolare», passaggio la cui valenza politica oscilla tra operazione legittima ovvero come vio-lazione delle tradizioni più sacre 22. In tale accezione l’idea del trasfe-

22 a.J. niJk, Secolarizzazione cit., p. 36.

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rimento viene ben presto traslata ed utilizzata anche per riferirsi ad altri campi del pensiero, filosofico, concettuale, giuridico ed ideale.

La secolarizzazione diviene in tal modo sinonimo di un “proces-so” di emancipazione culturale della società dalla religione. Il pro-gramma ideale e politico sviluppatosi nel corso del XIX secolo può riassumersi nel pensiero di Victor Cousin il quale auspicava «un en-seignement libre, un ensignement sèculier de la philosophie, séparé de toute théologie et de toute influence ecclésiastique» e ciò come «conséquence de la sécularisation dell’état» 23.

I concetti elaborati da Victor Cousin furono posti quali prin-cipi ispiratori della Deutsche Gesellschaft für Ethische Kultur (D.G.E.K.) 24, associazione di base del positivismo tedesco, fondata nel 1892. L’obiettivo politico e culturale della D.G.E.K. è quello di diffondere una visione tecnocratica delle problematiche della nuova società, assumendo positivamente la secolarizzazione nel senso di emancipazione culturale dall’influenza della Chiesa sull’organizza-zione della vita politica e sociale e sull’istruzione in particolare.

Per i teorici della nuova società «la civiltà etica è quella contrad-distinta da una morale che regge e rende possibile un ordinamento civile indipendente da presupposti religiosi, cioè profana». Con tale presupposto la realizzazione di una civiltà etica è possibile solo con una separazione di Stato e Chiesa. Il modello di società cui si orien-tava la D.G.E.K. era fortemente ispirata, anche se non ufficialmente, ad una ideologia “irreligiosa” e addirittura atea.

L’esperienza tedesca di una “civiltà etica” non è nuova nel pano-rama del pensiero liberale 25. Anche a Londra viene fondata la Secu-lar Society nel 1846, il cui maggiore esponente fu George Holyoake, grazie al quale il concetto di secolarizzazione assunse una funzione programmatica. La morale cristiana divenne il presupposto teorico per la nuova società etica poiché, scrive Holyoake, «morality resting

23 La citazione è tratta da H. lüBBe, La secolarizzazione cit., p. 36.24 Società tedesca per una società etica (ibidem).25 Le associazioni di promozione della cultura etica furono fondate in quasi tutti

gli Stati, anche gli Stati Uniti. Ibidem.

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on theology was not universally accepted», accettando che i prin-cipi etici della Cristianità potessero ispirare la stessa società senza per questo condizionarne le scelte e la politica sociale 26. La novità dell’azione di Holyoake sta nel fatto che ha saputo esprimere tale idea come secularism, caratterizzato da una nuova prospettiva e un programma concreto per una politica di emancipazione.

I propositi di Holyoake di riuscire a presentare un programma politico in senso cristiano, tuttavia, furono sconfessati dal nuovo in-dirizzo della National Secular Society, che proponeva, invece, una liberazione radicale dell’uomo dalla religione.

L’utilizzo del concetto di secolarizzazione come concetto filoso-fico diviene nel pensiero di filosofi e teologi del XX secolo (Max Weber, Ernst Troeltsch agli inizi del ’900, Karl Löwith nel 1950) una categoria centrale per la comprensione della società industriale e dello Stato moderno 27. Ed anzi la secolarizzazione stessa, come processo storico ed emancipazione culturale, diviene sinonimo di modernità e progresso.

Nel paragrafo 11 dei Prolegomena al De iure belli ac pacis, Huig van Groot (nella forma italianizzata Ugo Grozio), riconosciuto come progenitore del razionalismo giuridico moderno, afferma, nel 1625, che determinati principi del diritto naturale conoscibili attraverso la ragione avrebbero validità «anche se Dio non esistesse» 28. Gli sforzi di Grozio sono diretti a dimostrare che esistono dei princìpi la cui universalità può essere riconosciuta perché espressioni autentiche della natura umana. Non è possibile qui soffermarsi sulle radici del razionalismo giuridico di Grozio, tuttavia il riferimento ad esso è necessario per meglio comprendere le affermazioni di chi sostiene che il processo di secolarizzazione, meglio definito come emancipa-

26 Ivi, p. 42.27 N. aBBaGnano, voce Secolarizzazione, in Dizionario di filosofia, Utet, Torino,

2007. 28 F. Todescan, Il problema della secolarizzazione nel pensiero di Ugo Grozio,

in Le radici teologiche del giusnaturalismo laico, vol. I, Giuffré, Milano, 1983, pp. 86 ss.; G.e. rusconi, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici, la democrazia, Einaudi, Torino, 2000.

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zione culturale non è una diretta conseguenza di quelle rivoluzioni politico-sociali che hanno caratterizzato il XVIII e il XIX secolo, ma si tratta di una evoluzione naturale del pensiero di una società in cui il “progresso” si sostituisce alle istanze di spiritualità e religiosità dell’uomo moderno. In questo senso gli avvenimenti che nella storia si sono succeduti negli ultimi due secoli non sono più presupposti del processo di secolarizzazione ma divengono semplici accelerato-ri. È in questo senso che «l’esperienza primaria [dell’uomo] non è più costituita ormai dall’aspettativa di salvezza a tinte religiose, ma risiede piuttosto nel successo tecnico, che integra ed innalza la rete comunicativa umana e la produttività entro intervalli temporali sem-pre più ridotti. Le antiche aspettative cristiane di salvazione posso-no ormai cristallizzarsi attorno al progresso tecnico e venir relegate così a fenomeno secondario» 29.

4. La conseguenza diretta della Rivoluzione francese, e con essa an-che delle forze riformatrici che si sono sviluppate nel resto degli Stati europei, tra cui anche l’Italia, è la visione di una società politica ba-sata sui principi di libertà e uguaglianza 30.

Frutto di una ideologia illuminista libertaria anche in materia reli-giosa è la libertè de coscience che si concretizza nel riconoscimento del pluralismo confessionale e dell’uguaglianza fra i culti riconosciu-ti. Il rinnovato e delicato rapporto tra potere civile e potere religioso viene definito tra il 1788 e il 1791 nella Costituzione americana. L’art. VI recita: «nessuna professione di fede sarà mai imposta come neces-saria per ricoprire un ufficio o una carica pubblica negli Stati Uniti» 31.

29 R. koselleck, Accelerazione e secolarizzazione, Istituto Suor Orsola Benin-casa, Napoli, 1989, p. 14; L. loMBardi Vallauri, Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, a cura di G. dilcher, Giuffré, Milano, 1981, pp. 54 ss.

30 Con lo scioglimento del Sacro Romano Impero germanico proclamato da Na-poleone Bonaparte nel 1803, e l’espansione dell’Impero francese, le idee liberali della rivoluzione influenzarono inevitabilmente anche la politica e la legislazione religiosa degli Stati sottoposti al suo dominio.

31 C. cardia, Principi di diritto ecclesiastico. Tradizione europea e legislazione italiana, Giappichelli, Torino, 2005, p. 77.

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È il “separatismo”, ovvero quel sistema di rapporti tra potere ci-vile e potere spirituale che si realizzò con diverse caratteristiche, ma tendente comunque a relegare la “questione religiosa” ad un affare privato di cui lo Stato non può e non deve occuparsene e, quindi, essa non deve lambire né la sfera pubblica dello Stato e delle sue istituzioni, né le aggregazioni sociali fondamentali 32. In tale sistema di rapporti nessuna confessione religiosa può ottenere una posizione dominante o comunque privilegiata rispetto alle altre.

La maggiore concretizzazione del nuovo assetto Stato-Chiesa si ebbe con la Loi de sèparation del 1905 in Francia. Le idee separatiste elaborate da ideologie liberali del XIX secolo propongono, tuttavia, un nuovo assetto di rapporti tra Stato e Chiese, con la diffusione di un’idea di “laicizzazione” della società 33. Si delinea in tal modo il concetto di Stato laico quale modello di contrapposizione a quello legato alla «derivazione teocratica della sovranità» 34.

È di uso comune l’utilizzo del termine secolarizzazione e/o Stato secolarizzato come sinonimo, ma anche come rappresentazione di uno Stato c.d. “laico”. Esempio ne è la circostanza che negli ordina-menti di tradizione anglosassone il concetto di laicità come attributo dello Stato è sconosciuto mentre ricorre il termine secular o secu-larity per definire il ruolo del magistrato e del funzionario civile di

32 F. ruffini, Relazioni tra Stato e Chiesa, il Mulino, Bologna, 1974, pp. 148 ss.; C. cardia, Principi di diritto ecclesiastico cit., p. 82.

33 I grandi processi di secolarizzazione delle società europee se da una parte han-no avuto conseguenze negative per la religione dall’altra parte hanno portato ad una indipendenza delle stesse istituzioni religiose, che hanno potuto godere di una certa autonomia. Il controllo da parte dello Stato sulle Chiese, infatti, che rappresenta la prima fase della secolarizzazione, si allentò gradatamente sino ad accordare, forse involontariamente, una autonomia ed indipendenza alla Chiese mai conosciuta sino ad allora. Lo stesso Concilio Vaticano II con la Costituzione conciliare Gaudium et spes §76 lett. a) e b) e c), sancisce la necessità in una società pluralistica, che si abbia «una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa…indipendenti ed autonome l’una dall’altra nel proprio campo [… ma entrambe] anche se a titolo diverso a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane».

34 P. sTefanì, La laicità nell’esperienza giuridica dello Stato, Cacucci, Bari, 2007, p. 44.

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tutelare e promuovere i beni civili e temporali. La laicità diviene, sia nel linguaggio comune che in quello specializzato, una conseguenza della secolarizzazione, considerata ora come un processo sociale più o meno spontaneo di allontanamento della religione dalla vita pubblica.

Siffatta ricostruzione del concetto di secolarizzazione è la sintesi dell’odierno dibattito sulla distinzione tra laicizzazione e secolariz-zazione, dove la prima si concretizza essenzialmente in una attivi-tà politica che espelle la religione dallo spazio pubblico; la seconda rappresenta invece il concretizzarsi di una coscienza nella società e che produce la progressiva perdita di ruolo pubblico della religione e ciò senza conflitti e contrapposizioni politiche.

Come per la secolarizzazione anche per il concetto di laicità si parla di una laicità militante (in senso negativo), intesa come separa-zione tra lo Stato e la Chiesa, quest’ultima relegata a puro fatto pri-vato, e di una laicità cd. positiva, intesa come neutralità dello Stato rispetto alle fede o alla mancanza di fede, nei cui confronti lo Stato si pone come terzo garante delle istanze religiose della comunità 35.

Anche per il concetto di laicità si riscontra una vasta letteratura filosofica e giuridica rivolta ora ad aspetti ideologici alla ricerca dei presupposti filosofici del concetto ovvero ad aspetti puramente for-mali rivolti a giustificare la laicità dello Stato come criterio di inter-pretazione dei diversi assetti istituzionali 36.

35 In tal senso si è orientata la Corte Costituzionale nella sentenza n. 203 del 1989 in cui è stato affermato che «la laicità [non definita ma delineata dalla Carta costi-tuzionale] implica non indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in un regime di pluralismo culturale e professionale».

36 C. cardia, in Enciclopedia del diritto, voce Stato laico cit., evidenzia in par-ticolare la difficoltà di delineare una nozione univoca di “Stato Laico” così come risulterebbe difficile elaborare il concetto di “laicità dello Stato”. Non meno dif-ficoltoso risulta l’assimilazione tra laicità e separatismo, perché quest’ultimo, conti-nua l’A., è un concetto non «univocamente precisabile» dato che esso si concretizza essenzialmente nella problematica delle fonti di produzione. Lo Stato laico invece presuppone delle scelte di valore. Più precisamente «lo stato separatista presuppone una precisa qualificazione di un determinato ordinamento in ordine al proprio siste-ma delle fonti, lo Stato laico presuppone scelte di valore che investono diversi profili

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La separazione dei rapporti tra Stato e Chiesa, per effetto della quale si è avuta la cd. laicizzazione del diritto, dà avvio alla separa-zione tra sfera civile e sfera religiosa anche in ambito matrimoniale. L’istituto del matrimonio/sacramento la cui disciplina era totalmen-te affidata all’autorità della Chiesa, diviene, nella legislazione degli Stati rivoluzionari, un “contratto sociale”, definizione che porta in sé da un lato la natura contrattualistica e dall’altra la funzione pubblici-stica dello stesso.

Questo diviene nell’ottica del legislatore rivoluzionario un «un contrat fondamental pour la formation de la République», sancendo con la legge del 20 settembre del 1792 «ses bases tiennet unique-ment au droit civil et naturel et il faut bien se garder de confondre le contrat et le sacrament. Le mariage n’est donc qu’un contrat civil, et, ci c’est contrat, c’est à la puissance sculièr d’en règler les formes». La riconosciuta natura contrattuale del matrimonio segna dunque l’introduzione del matrimonio civile come unica forma di connubio riconosciuto dallo Stato per tutti i cittadini e ciò indipendentemente dall’appartenenza ad una confessione religiosa.

In meno di un secolo si è consumata l’irreversibile divaricazione tra il modello familiare proposto dal diritto canonico e quello propo-sto dal diritto secolare. La depenalizzazione del reato di adulterio, operata dalla Corte Costituzionale negli anni ’60, l’introduzione del divorzio con la legge 898 del 1970, la prevalenza, in un bilancia-mento degli interessi, dei diritti personalistici dell’individuo rispetto

e momenti di quello stesso ordinamento». È anche vero, come è stato da più parti os-servato, che le diverse concezioni della laicità non sarebbero in realtà neutre rispetto al fenomeno religioso al contrario «sarebbe rilevante anche per la considerazione dei punti critici delle relative costruzioni logiche, in quanto la formula dello Stato laico come Stato “neutrale” pone il problema della adesione sostantiva dell’ordinamento alla relativa concezione dell’individuo, problema che si risolve, invece, presuppo-nendosi una visione fondata appunto sul postulato individualistico-liberale; mentre, dall’altro lato, la tesi della laicità come riconoscimento “attivo” del pluralismo reli-gioso pone in ombra il problema della inconciliabilità delle visioni del mondo che dalle diverse fedi possano discendere, problema che si risolve, invece, presupponen-dosi che il confronto non possa che condurre al riconoscimento dell’esistenza di una verità data sull’uomo, che, in quanto tale, deve valere per tutti».

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quello della unità familiare, hanno eroso lentamente quei principi di unità e indissolubilità del matrimonio volto, come finalità primaria, alla procreatio et educatio prolis che pure l’ordinamento secolare, nonostante la deconfessionalizzazione dell’istituto matrimoniale con l’introduzione del matrimonio civile, aveva elevato a princìpi ed es-senza del proprio istituto.

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Kafalah islamica e uguaglianza religiosa

Kafalah islamica e uguaglianza religiosa: laicità e società multiculturale

di Paolo sTefanì

1. Ha scritto Zygmunt Bauman in uno saggio dedicato al rapporto tra modernità e ambivalenza che possiamo «pensare alla modernità come a un tempo in cui si riflette sull’ordine […] possiamo concor-dare con Stephen L. Collins, che in un suo studio recente ha indivi-duato nell’intuizione di Hobbes il marchio di nascita della coscienza dell’ordine, ossia […] della coscienza moderna, ovvero della mo-dernità […]. Possiamo dire che l’esistenza umana è moderna nella misura in cui si biforca in ordine a caos» 1.

Si è scelto di iniziare questo contributo sul rapporto tra eguaglian-za e laicità nell’attuale contesto socio-politico, caratterizzato dalla multireligiosità e dalla sempre più accentuata multiculturalità 2, dalle parole di Bauman perché il diritto ecclesiastico come sistema di nor-me civili, secolari, che si contrappongono alle pretese di dominio dell’autorità religiosa nel governo della società umana, sono deri-vazione immediata della modernità politica e giuridica 3. In partico-lare, la laicità costituisce il frutto più maturo del pensiero politico e giuridico moderno 4: principio di ordine politico e giuridico della

1 Z. BauMan, Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, pp. 13-5.2 Sul rapporto tra multireligiosità e multiculturalismo, in rapporto ai principi di

laicità, libertà religiosa e eguaglianza religiosa, cfr. Multireligiosità e reazione giu-ridica, a cura di A. fuccillo, Giappichelli, Torino, 2008, p. 441.

3 Su questi aspetti e in particolare sul contributo della dottrina hobbesiana alla elaborazione del concetto di Stato laico come emanazione diretta della dottrina dell’ordine, sia consentito il richiamo a P. sTefanì, La laicità nell’esperienza giuri-dica dello Stato, Cacucci, Bari, 2007, p. 158.

4 Con la modernità infatti «l’ordine, in quanto valore diventa giustizia […]. Sem-bra dunque che la nozione stessa di ordine, alla quale si ricorre quasi spontaneamen-

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struttura sociale e politica della modernità, che al suo sorgere si era caratterizzata con l’avvento dell’ambivalente e caotico pluralismo religioso conseguenza immediata della Riforma Protestante e della fine dell’unità religiosa interna al cristianesimo medievale.

Ordine e caos, caos generato dall’ambivalenza consustanziale alla stessa dottrina dell’ordine, sono dunque i caratteri della modernità, ai quali non può sfuggire la scienza giuridica 5. Ogni ordine genera caos, che deve essere nuovamente ri-ordinato e questo per Bauman è il destino stesso della modernità, il suo essere perennemente e dina-micamente in crisi, intendendo per crisi una situazione di passaggio da un già a un non ancora 6.

C’è dunque qualcosa di insito nell’ordine costruito dalla moderni-tà che genera sempre crisi dello stesso ordine, precisamente ciò che accade al giorno d’oggi alle nostre società: la struttura di ordine poli-tico e giuridico, costruita intorno al paradigma dello Stato moderno e sovrano, di cui la laicità è uno dei caratteri fondanti, è entrata in crisi. Una crisi che si articola proprio a partire dalla struttura economica della società moderna, ancorata al paradigma dell’economia di mer-cato. È infatti proprio l’economia di mercato, fondata sulle esigenze

te nella ricerca di una qualificazione dello Stato, costringe a mutare integralmente la chiave del discorso politico […] a compiere il salto dalla descrizione alla prescri-zione» (A. Passerin d’enTreVes, La dottrina dello Stato. Elementi di analisi e di interpretazione, Giappichelli, Torino, 1962, p. 277).

5 «L’ordine giuridico, il quale è così indispensabile per la conservazione stessa della società umana e dei suoi valori di fondo, non può mai essere concluso e auto-legittimante, ma è destinato a convivere e a interagire con un disordine di fondo che lo percorre tutto e, in definitiva, ne apre l’orizzonte, impedendo che realizzi quel potenziale assolutismo formalistico che pure è inscritto nel suo progetto originario […] il diritto è ordine formale, ma, al tempo stesso, anche disordine sociale» (P. si-rena, Prefazione a Oltre il «positivismo giuridico». In onore di Angelo Falzea, ESI, Napoli-Roma, 2011, p. VII).

6 Sulla crisi del diritto e del diritto ecclesiastico, ma nello stesso tempo sulla capacità dei principi fondanti la disciplina di governare la crisi come fenomeno di transito verso nuovi approdi scientifici, cfr. E. dieni, Diritto & Religione vs. «Nuovi Paradigmi». Sondaggi per una teoria post classica del diritto ecclesiastico civile, Giuffré, Milano, 2008, p. 126.

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della continua e costante “crescita”, che genera la necessità di globa-lizzare i mercati e aprire le frontiere degli Stati. Unitamente alla cir-colazione delle merci e del denaro, iniziano gradatamente a circolare le persone dai vari sud del mondo. L’effetto indotto dall’apertura e dalla ricerca dei mercati è l’immigrazione e con essa il radicale mu-tamento della struttura antropologica della società, che da pluralista diviene multietnica, multireligiosa, multiculturale 7.

Globalizzazione e multiculturalità divengono dunque gli aspetti multivalenti della struttura “dell’ordine moderno” e della sua crisi. Entra in crisi il modello dello Stato nazionale 8, caratterizzato dalla laicità/sovranità.

2. La crisi dello Stato moderno e sovrano rappresenta come si è ac-cennato anche la crisi della laicità ad esso legata sul piano teorico e pratico. Quello che occorre verificare è se la crisi della laicità “mo-derna” debba o possa essere intesa come inutilità del concetto di lai-cità a governare l’attuale struttura multiculturale della società e quin-di ipotizzare con il sociologo Diotallevi una alternativa alla laicità 9.

A parere di chi scrive, la laicità rappresenta un principio politico e giuridico utile e necessario al governo della società multi religio-sa e multiculturale, oltre che pluralista. Pur avendo una diversificata attuazione sul piano dei singoli ordinamenti giuridici, tanto da far parlare di relatività del concetto di laicità sul piano giuridico10, ca-ratteristica questa della differente storia che segna alcune specificità peculiari ai diversi paesi occidentali e europei in particolare, la laicità

7 Sul rapporto tra laicità e multiculturalismo, cfr. C. cardia, La sfida della lai-cità. Etica, multiculturalismo, islam, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007, p. 195.

8 Sulle dinamiche della crisi dello Stato moderno resta insuperabile il volume di P. Barcellona, Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del proget-to moderno, Dedalo, Bari, 1998, p. 354.

9 L. dioTalleVi, Una alternativa alla laicità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010, p. 230. Cfr., inoltre, la bella recensione al volume di S. Angeletti, in “Diritto e religioni”, vol. 10 (2/2010), pp. 627 ss.

10 Cfr. R. coPPola, Laicità relativa, in Religione, cultura e diritto tra globale e locale, a cura di P. Picozza, G. riVeTTi, Giuffré, Milano, 2007, pp. 103 ss.

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possiede alcuni caratteri ideali che sono l’esito di un processo stori-co, politico, filosofico, in uno culturale dell’Occidente “cristiano” e che rappresentano il frutto più maturo del sorgere e affermarsi dello Stato moderno. Sono questi caratteri fondanti della laicità che posso-no essere utilizzati per governare il passaggio dalla società pluralista alla società multiculturale, che possono essere il viatico del rapporto tra laicità e dialogo interreligioso e interculturale.

Prima di passare all’esame del rapporto tra laicità e multicultura-lismo, pare opportuno tornare alla prospettiva offerta dal sociologo Diotallevi, sulla costruzione di un necessario paradigma alternativo alla laicità nell’attuale contesto socio politico. La tesi del sociologo romano è costruita essenzialmente intorno a due postulati, entrambi discutibili. Partendo dall’assunto, che è ormai comune alla scienza sociologica delle relazioni tra religione e società, del “ritorno del-la religione nella sfera pubblica” e del consequenziale superamento della distinzione liberale tra ambito pubblico e ambito privato nella regolazione del rapporto tra politica e religione, Diotallevi giunge ad affermare l’idea della necessità che venga superato il paradigma della neutralità religiosa dello spazio pubblico e della separazione tra ambito politico e ambito religioso, contrapponendo ad esso il para-digma del religious freedom 11. Una visione che se da un lato appare non condivisibile sul piano giuridico, poiché tenderebbe a operare un’indebita distinzione tra laicità e libertà religiosa, da un altro lato pare essere eccessivamente dipendente da due concezioni del rap-porto tra politica, diritto e religione che a parere di chi scrive sono entrambe difettive rispetto al governo della società mutilculturale, peraltro tra loro opposte: la visione cattolica e quella della laicitè della Francia repubblicana, la quale se da un lato sul piano storico rappresenta forse l’attuazione più matura dell’idea di laicità, dall’al-tro non crediamo possa essere identificata come il modello ideale di laicità dello Stato.

Ma quali sono le dimensioni ideali della laicità? Quali le caratteri-stiche universali del principio, che ha saputo essere nella storia fatto-

11 L. dioTalleVi, op. cit., pp. 125 ss.

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re di pacificazione sociale, emancipando la politica dalla conflittuali-tà insita nel pluralismo religioso, nella diversità religiosa tout court? Tracciare i contenuti e le dimensioni ideali del principio di laicità è come è facile intuire operazione che richiederebbe uno spazio supe-riore a quello consentito al presente contributo, ma sia pur avverten-do il lettore dei pericoli insiti in ogni processo di semplificazione, può ben dirsi che le dimensioni ideali della laicità sono: la separazio-ne della politica dalla religione, dimensioni distinte dell’esperienza umana, speculare peraltro alla distinzione tra ambito dell’autorità e ambito della libertà; la neutralità della politica e del diritto rispetto alla religione, tesa a evitare che si ingenerino nel cittadino-fedele conflitti di coscienza tra rispetto della legge civile e osservanza delle norme derivanti dalla propria appartenenza religiosa. Da ultimo, il ri-goroso rispetto dei principi giuridici di libertà e uguaglianza religio-sa. Questi dunque i caratteri fondanti, “ideali”, del principio giuridico di laicità dello Stato, che subiscono come vedremo una vera e propria metamorfosi con l’irrompere della multireligiosità e multiculturalità e l’avvento delle dinamiche interne al dialogo interreligioso e inter-culturale, il quale in qualche modo rappresenta un mutamento nella struttura e nella dinamicità del diritto.

3. Il diritto deve, a nostro sommesso avviso, confrontarsi con il dialo-go, con il concetto di dialogo e anzi deve farsi esso stesso in qualche modo strumento di dialogo interculturale e interreligioso, in una so-cietà caratterizzata da una diversità che investe la dimensione antro-pologica della diversità religiosa e culturale 12.

Perché dialogare attraverso il diritto? Per rispondere a questo in-terrogativo di fondo, preme innanzitutto stabilire il significato della parola dialogo e soprattutto il significato che lo stesso termine ac-quista nel linguaggio politico: «un colloquio o una serie di colloqui

12 Sull’importanza del dialogo interreligioso come fattore di possibili soluzioni ai conflitti nelle società multiculturali, cfr. G. daMMacco, Il partenariato euro mediter-raneo tra giustizia e dialogo, in Diritti umani, dialogo interculturale e interreligioso. “Dei delitti e delle pene”, a cura di S. GiusTi, Demograf, Roma, 2008, pp. 25 ss.

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tra parti politicamente distanti finalizzati alla ricerca di un accordo». L’accordo come posizione terza rispetto alle due posizioni origina-rie, caratterizzate da un distanziamento che appare incolmabile solo prima facie. L’utilità del dialogo quindi è quella di costruire una po-sizione terza, che contenga in se le due posizioni originarie ma nel-lo stesso tempo le superi, le inveri superandole, facendole apparire entrambe nuove rispetto alla situazione di apparente inconciliabilità, alla situazione di partenza. Se applicassimo al dialogo giuridico tra le diversità religiose e culturali la definizione di dialogo che abbiamo testè richiamata dovremmo muovere dalla distanza che separa sul piano normativo-culturale le due posizioni di partenza, l’istanza che proviene dal sistema normativo religioso e culturale, dal sistema nor-mativo delle diversità, e analizzare la stessa alla luce del distanzia-mento rispetto al nostro sistema giuridico, il sistema che “subisce” la diversità.

Dialogare implica così innanzitutto la conoscenza dell’altro, ma allo stesso tempo una rinnovata conoscenza di noi stessi proprio at-traverso ciò che caratterizza sul piano culturale il nostro sistema giu-ridico, le categorie giuridiche implicate nel processo dialogico. Que-sta operazione è diretta a trovare equivalenze di significati e di senso, che siano in grado di dare riconoscimento alle istanze provenienti dalla diversità religiosa e culturale. Per far ciò, è necessario che il dialogo sia condotto sul piano della traduzione, con l’obiettivo cioè di tradurre le diversità, in un processo che al termine avrà prodotto qualcosa di nuovo sul piano giuridico, nuovo rispetto alle originarie posizioni di incompatibilità 13.

13 Da queste brevi e sommarie considerazioni emerge la necessità che gli studi condotti secondo un metodo di analisi e soluzione interculturale dei conflitti sociali e giuridici interni alle dinamiche della convivenza multiculturale si arricchiscano di contributi interdisciplinari, che si articolino intorno alle relazioni tra cultura e identi-tà. Su questi temi, la cui bibliografia sarebbe sterminata, si segnalano i contributi di S. hall, Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi post-coloniali, Mel-temi, Roma, 2006, p. 327; A. Ponzio, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico, Meltemi, Roma, 2007, p. 314. Quest’ultima opera rileva soprattutto in riferimento alla categoria della traduzione semiotica e sul rapporto tra identità e

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Al termine del lavoro, attraverso l’esame delle sentenze sulla Ka-falah della Cassazione crediamo si chiarirà meglio il senso di queste nostre posizioni.

4. Prima di giungere all’analisi delle decisioni giurisprudenziali sulla Kafalah islamica, ci pare opportuno fare alcune sia pur brevi consi-derazioni sulla laicità dello Stato e il suo carattere di principio costi-tuente, intendendo per tale un principio che è stato il formante princi-pale del processo di unità politica e giuridica dello Stato moderno. È noto che la laicità è stata il frutto di un percorso filosofico, giuridico e politico compiuto primariamente dal giusnaturalismo moderno. Pro-tagonisti indiscussi di questo straordinario processo sono stati Ugo Grozio e Thomas Hobbes, l’uno sul versante propriamente giuridico e l’altro su quello politico.

Grozio, nella sua monumentale opera sul diritto della guerra e della pace 14, compie quello che è stato definito come uno dei più importanti processi di ingegneria giuridica mai compiuti nel corso della storia dell’occidente e del diritto europeo in modo particolare. È grazie all’opera di Grozio se le verità teologiche del cristianesimo furono inscritte, attraverso un processo che emancipava la ragione dalla fede (etsi Deus non daretur), nella struttura culturale e poi po-litica e giuridica dell’occidente europeo 15. Quello stesso riferimento alla ragione consentì a Hobbes di razionalizzare completamente lo Stato, costruito attorno al concetto di patto fondativo (il contratto sociale) tra gli individui, che cedevano la loro sovranità al sovrano, da quel momento unico e solo soggetto autorizzato a emanare norme giuridiche vincolanti. Auctoritas non veritas facit legem, fu questo il punto terminale del percorso che condusse alla razionalizzazione

alterità. Sulle implicazioni giuridiche della traduzione semiotica e interculturale, cfr. M. ricca, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale, Dedalo, Bari, 2008, pp. 249 ss.

14 Cfr. U. Grozio, Il diritto della guerra e della pace. Prolegomeni e Libro primo, a cura di F. Acri e F. Todescan, Cedam, Padova, 2010, p. 226.

15 Su questi aspetti, cfr. da ultimo, M. ricca, Pantheon, Torri del Vento, Palermo, 2012, pp. 15 ss. e 49 ss.

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complessiva del sistema giuridico e politico 16. La legge, quale co-mando del sovrano, era formalmente e sostanzialmente astratta e in questo modo tutti potevano essere e sentirsi cittadini a prescindere dalla propria appartenenza alle diverse confessioni religiose sorte a seguito della rottura dell’unità cristiana. Tutti erano cioè uguali di-nanzi alla legge a prescindere dalla rispettiva appartenenza di fede religiosa. L’esito ultimo di questo straordinario processo fu il ricono-scimento dei principi di uguaglianza e libertà religiosa, che divenne-ro anch’essi principi costituenti, posti a presidio della sistematizza-zione dei rapporti tra lo Stato e le Chiese, tra la politica, la religione e il diritto. Divennero principi di pacificazione sociale e risolsero la conflittualità insita nella diversità di religione. Ma fu una straordi-naria finzione, che resse per lunghi secoli e resse sostanzialmente sulla continuità culturale tra religione, cultura e sistema giuridico. Il sistema giuridico parlava una lingua continua rispetto alla cultu-ra religiosa, cultura e religione non erano elementi conflittuali, non generavano conflitti di coscienza nei consociati, i quali si riconosce-vano nei comandi normativi. Su queste basi funzionò la separazione tra politica e religione, funzionò articolandosi dentro la separazione tra dimensione pubblica e dimensione privata dell’agire umano, che rifletteva la separazione tra dimensione della religione, intesa nel suo ambito fideistico e confessionale, e dimensione della religione come fattore antropologico e di costruzione della cultura dei popoli.

Tutto ciò oggi non funzione più, è entrato in crisi, perché la diver-sità religiosa appare sotto le sembianze della diversità culturale e an-tropologica. Il soggetto non si riconosce nei comandi normativi, non riconosce in essi quella continuità con la sua cultura, che è segnata in modo indelebile dalla sua appartenenza religiosa. L’appartenenza re-ligiosa, quindi, gli provoca esclusione, il sistema giuridico lo respin-ge, frapponendo alle sue istanze il crisma dell’illiceità. Ciò lo induce a ripiegare sulla sua identità, dalla quale si sentirà in qualche modo protetto. Il sistema giuridico gli appare estraneo, se non addirittura

16 Cfr. M. Tedeschi, Potestà civile e potestà ecclesiastica nel pensiero di Thomas Hobbes, in “Il diritto ecclesiastico”, 1989, I, pp. 109 ss.

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nemico. L’estraneità sarà percepita come elemento di imposizione non soltanto di comandi normativi ma soprattutto di categorie cul-turali caratterizzate dalla matrice religiosa cristiana. Il sistema giu-ridico non gli apparirà neutrale, ma lo avvertirà come un elemento di assimilazione culturale e religiosa. L’esito di questo processo è il potenziale conflitto delle identità, generato da una sovraesposizione del fattore religioso in chiave politica. Inoltre, il “diverso” subirà la mancanza di attuazione dei principi di libertà e uguaglianza religiosa così come difettivo apparirà il sistema giuridico sul versante della neutralità in ambito religioso/culturale. La religione torna così peri-colosamente ad essere fattore di conflitto sociale e politico, un con-flitto reso ancora più pericoloso da quello che Beck ha recentemente definito il conflitto per la salvezza, articolato intorno all’alternativa tra il bene e il male 17.

Accade cioè che «posto di fronte ad una laicità percepita come cri-stiana e cristianizzante l’altro tende a reagire a quello che avverte come un tentativo di assimilazione culturale a sfondo religioso. E la reazione consiste appunto in un atteggiamento simmetrico ovvero nella prospet-tazione dei propri indici di identità culturale in termini religiosi […] il risultato è […] la sovraesposizione politica del fatto religioso. Anzi-ché mimetizzarsi all’interno di un linguaggio pubblico interculturale, neutralizzando così il proprio dogmatismo e il connesso potenziale di conflittualità, le componenti di matrice religiose dell’identità culturale verranno allo scoperto, addirittura enfatizzando la propria presenza e la capacità connotativa delle richiesta di riconoscimento» 18.

La laicità deve tornare a farsi principio costituente, così come de-vono tornare a esserlo i correlati principi di libertà e uguaglianza religiosa, intesi nella loro funzione olistica di princpi/fini del diritto costituzionale. Per far questo occorre ri-sistematizzare il rapporto tra religione e diritto, attraverso la costruzione di un sistema di bilan-

17 U. Beck, Il Dio personale. La nascita della religiosità secolare, Laterza, Ro-ma-Bari, 2009, pp. 68 ss.

18 M. ricca, Dike meticcia. Rotte di diritto interculturale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, p. 37.

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ciamento dell’uguaglianza e diversità religiosa, esito di un processo politico che «deve poter offrire una sintesi creativa e transattiva fra le differenze» 19.

Occorre, cioè, costruire le condizioni «di un lessico giuridico ef-fettivamente laico, allora, questa può essere la sfida, ciò può costi-tuire un utile argine ai fondamentalismi e contribuire effettivamente alla costruzione di un’efficace convivenza interreligiosa come conse-guente alla raggiunta pace sociale» 20. Un lessico giuridico intercultu-rale, esito di un processo di dialogo attraverso il diritto 21. Dialogare per tradurre e negoziare le diversità, costruire consonanze e continui-tà culturali e normative che possano condurre al riconoscimento del-le istanze che provengono dalla diversità religiosa e culturale, poiché la «corrispondenza tra valori giuridici e valori culturali, tra diritto e cultura garantisce la responsività e la riflessività dell’ordinamento – democratico – rispetto alla base sociale» 22. Infatti, soltanto «sulla base della negoziazione di quelle differenze e quindi della loro tran-sazione la lacità potrà gestire la discontinuità o la continuità tra sfera pubblica e sfera confessionale; tra eguaglianza e diversità; tra spinte centripete e spinte centrifughe» 23.

5. Emerge, dunque, da quanto sin qui sostenuto, l’importanza e l’u-tilità del dialogo alla costruzione di un sistema autenticamente laico, un sistema che serva all’integrazione di uguaglianza e differenza,

19 M. ricca, Pantheon cit., p. 26.20 A. fuccillo, Pace interreligiosa, alcuni spunti di riflessione a margine della

World Interfith Harmony week ed il possibile ruolo del diritto, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, in rivista telematica (www.statoechiese.it), febbraio, p. 5.

21 Su questi temi, cfr. G. anello, «Fratture culturali» e «terapie giuridiche». Un percorso giurisprudenziale tra multiculturalità e soluzioni interculturali, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica (www.statoechiese.it), novem-bre 2009; nella stessa rivista telematica, cfr. N. fioriTa, Alla ricerca di una nozione giuridica di «identità culturale»; riflessioni di un ecclesiasticista, marzo 2009, e P. consorTi, Nuovi razzismi e diritto interculturale. Dei principi generali e dei regola-menti condominiali nella società multiculturale, ottobre 2009.

22 M. ricca, Dike meticcia cit., p. 28.23 Ivi, p. 105.

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poiché «nell’integrare uguaglianza e differenza la laicità ha una fun-zione costituente […]. La mimetizzazione culturale della religione nella sfera pubblica rappresenta la mossa con la quale il potere co-stituente integra la religione nella sfera pubblica e preordina, simul-taneamente, le condizioni per dislocare la dimensione confessionale nell’area privata» 24. Il dialogo tra le culture e le religioni non può non intercettare anche la dimensione del diritto, non può non tra-sformarsi anche in un dialogo attraverso il diritto, rivalutando da un lato la centralità del diritto e dall’altro la capacità dello stesso diritto di integrare la diversità, riconoscendo che la funzione del diritto è la «costruzione di un lessico giuridico utile a strutturare il dialogo politico» 25. Torna, così, la dimensione del dialogo nel linguaggio po-litico, la capacità di creare una posizione terza rispetto alle posizioni iniziali, apparentemente irriducibili l’una all’altra.

Come si è detto, la parte finale del nostro contributo è dedicata all’analisi della giurisprudenza sul riconoscimento degli effetti giu-ridici dell’istituto della Kafalah islamica. Sulla questione si è ormai formata una copiosa giurisprudenza dei tribunali italiani sparsi su tutto il territorio nazionale 26. La nostra analisi si appunterà su due decisioni della Suprema Corte di Cassazione, le quali appaiono es-sere esempi emblematici di come si possa o non costruire sul piano metodologico percorsi di riconoscimento giuridico della diversità sul piano religioso e culturale, di integrazione in ottica interculturale dell’uguaglianza e della diversità religiosa.

La prima decisione è la numero 7472 del 20 marzo 2008. La questione sottoposta all’esame della Suprema Corte concerneva il riconoscimento della Kafalah islamica come presupposto per il ri-

24 Ivi, p. 110. Sul rapporto tra eguaglianza e diversità religiosa, cfr. N. colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale, il Mulino, Bologna, 2006, p. 243.

25 M. ricca, Oltre Babele cit., p. 23.26 Una ragionata e commentata rassegna della giurisprudenza sulla Kafalh isla-

mica si rinvine in A. fuccillo, Giustizia e religione, vol. II. Matrimonio, famiglia e minori tra identità religiosa e rilevanza civile, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 169 ss. Ivi, le dizioni oggetto della nostra analisi.

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lascio del visto ai fini del ricongiungimento familiare. Prima di pas-sare all’analisi della sentenza, occorre sia pur brevemente accennare all’istituto islamico della Kafaklh. Secondo il diritto islamico i figli concepiti fuori del matrimonio non possono essere considerati parti della famiglia, non godono di diritti successori: in uno, non vi è equi-parazione tra figli legittimi e figli naturali.

Al fine di garantire assistenza morale e materiale ai bambini che non godono delle garanzia della famiglia legittima, garantire cioè l’interesse del minore all’assistenza morale e materiale, nel diritto islamico è previsto l’istituto della Kafalah, secondo cui il minore in stato di abbandono (makful) viene affidato, in via giurisdizionale o negoziale, ad una persona (Kafil) che assume il compito di provvedere al sostentamento dello stesso sino al compimento della maggiore età.

Il quesito in diritto formulato dal Ministero della Giustizia ri-guardava la rilevanza o meno dell’istituto di diritto islamico ai fini del ricongiungimento familiare del minore al soggetto che lo ave-va assunto in custodia. Siamo quindi dentro l’universo giuridico e culturale islamico, un’istanza normativamente fondata e proveniente dall’appartenenza di un soggetto alla religione e alla cultura islamica è posta a fondamento dell’istituto del ricongiungimento familiare. L’amministrazione aveva fondato il diniego di riconoscimento del-la rilevanza della Kafalah islamica ai fini del ricongiungimento fa-miliare del minore su parametri tratti in via esclusiva su un’analisi meramente formalistica dell’istituto del ricongiungimento familiare: il carattere eccezionale dell’istituto rispetto alle politiche del conte-nimento dell’immigrazione e la non riconducibilità dell’istituto della Kafalah ad alcuno degli istituti tassativamente previsti dalla legge a garanzia dell’eccezionalità dell’istituto stesso.

In realtà, il non detto di tipo formale al quale si era fermata l’ana-lisi del giudice di I grado poggiava anche su una dimensione tacita dell’esperienza giuridica, sulle parti mute sottese alle dinamiche di attuazione del diritto 27: il concetto di famiglia che nell’ordinamen-

27 Su questi aspetti, cfr. La dimensione tacita del diritto, a cura di R. caTerina, ESI, Napoli, 2009, p. 157; dello stesso autore, cfr. inoltre, I fondamenti cognitivi del

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to italiana è caratterizzato in modo pregnante dalla cultura cristia-na. Contro questa dimensione tacita dell’esperienza giuridica si era scontrata quindi, in un conflitto che andava assumendo le sembianze del conflitto culturale, religioso e di civiltà, la questione del ricono-scimento dell’istituto di diritto islamico della Kafalah.

Ciò che rileva, in chiave interculturale, di costruzione e articola-zione della fattispecie in ottica di attuazione della laicità interculturale e di possibile legame tra laicità e dialogo interreligioso e interculturale è la soluzione data dalla Corte al quesito giuridico. Partendo dal dato costituzionale, dai valori costituzionale, la Corte individua nella tutela del minore un valore di tendenziale prevalenza rispetto a quello della tutela del territorio e di contenimento dell’immigrazione. Su questa base perviene ad una considerazione di rilevante importanza, secondi cui «una pregiudiziale esclusione […] del requisito per il ricongiungi-mento familiare per i minori affidati in Kafalah penalizzerebbe [anche con vulnus al principio di eguaglianza] tutti i minori, di paesi arabi, illegittimi, orfani o comunque in stato di abbandono, per i quali la Ka-falah è […] l’unico istituto di protezione previsto dagli ordinamenti islamici». Dopo aver posto a fondamento della decisione i principi/fini costituzionali, la Suprema Corte opera un “viaggio” all’interno dell’universo culturale e giuridico islamico, per cercare di cogliere dal di dentro dello stesso sistema normativo religioso un valore di riferi-mento, che potesse essere utilizzato per costruire consonanze e con-formità rispetto al valore di fondo posto a fondamento dell’istituto del ricongiungimento familiare. Lo rinviene nella necessità di garantire al minore abbandonato la fratellanza e la solidarietà, elementi posti a base dell’interesse del minore anche nel sistema normativo islamico. Su queste basi afferma che «non si vede […] come possa quindi pre-giudizialmente escludersi, agli effetti del ricongiungimento familiare, l’equiparabilità della Kafalah islamica all’affidamento […]. Atteso […] che […] tra la Kafalah islamica e il modello dell’affidamento nazionale prevalgono sulle differenze i punti in comune».

diritto. Percezioni, rappresentazioni, comportamenti, Bruno Mondadori, Milano, 2008, p. 250.

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Partendo da una base di assoluta inconciliabilità e passando attra-verso i valori costituzionali e il diritto islamico, anch’esso riletto alla luce di categorie valoriali di fondo, emergono consonanze a prima vista non rilevate, sugli elementi di divergenza prevalgono quelli di convergenza. La diversità religiosa e culturale appare meno radicale, è stata tradotta in modo tale che essa possa trovare cittadinanza nel sistema giuridico. Ma a trovare cittadinanza sono i soggetti che ap-partengono alla cultura e alla religione islamica, inizialmente respinti in ragione della loro diversità. In tal modo sia loro appariranno sotto nuova luce sia il nostro sistema giuridico apparirà loro meno estra-neo. Le differenze sono entrate in un percorso di negoziazione che ha reso possibile non isolare le persone in ragione della loro diver-sità religiosa e culturale. Come è stato detto in modo assolutamente condivisibile, «nel dipanarsi della motivazione può cogliersi la ri-sonanza contestuale e interculturale che innesca il processo di auto trasformazione del diritto positivo […] a subire una metamorfosi sono lo spazio tanto dei principi in materia di tutela del minore enun-ciati dalla Costituzione […] quanto la cornice assiologia e sociologi-ca della Kafalah coranica […] il dichiarato viatico della traduzione interculturale, consistente nel principio della prevalenza di quanto comune sulle differenze, dissimula invano un atto creativo» 28. La lai-cità diviene interculturale, poiché riesce a farsi nuovamente principio costituente, a sistematizzare sotto la rinnovata luce della neutralità attiva, attiva perché dinamicamente indotta a mimetizzare i valori religiosi dentro la sfera pubblica del diritto e della politica, a gover-nare la nuova complessità del rapporto tra il diritto e la religione. I soggetti possono transitare dalla dimensione dell’identità culturale e religiosa a quella più laica dell’identità personale, frutto di dialogo, traduzione, transazione e negoziazione delle loro diversità.

A ben diverso risultato giunge la sentenza 1 marzo 2010, n. 4868, della stessa Corte di Cassazione, che, muovendo dal criterio della cittadinanza e obliterando totalmente e oseremmo dire grossolana-

28 M. ricca, L’ombra del diritto. Le ‘parti mute’ dell’agire sociale e la traduzio-ne interculturale, in “E/C, Rivista italiana di studi semiotici”, 2011, pp. 32 ss.

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mente la rilevanza dell’appartenenza confessionale dei soggetti 29, nega la rilevanza della Kafalah islamica ai fini del ricongiungimento familiare, determinando così un corto circuito giurisprudenziale e giuridico interculturale, per cui «il possesso della cittadinanza italia-na […] neutralizzerebbe sia le conseguenze giuridiche della religione professata dal kafil, e quindi della sua libertà e della sua appartenenza religiosa, sia il diritto della minore (makful) all’assistenza genitoria-le» 30. L’esito ulteriore della vicenda è una palese discriminazione tra il minore “affidato” a cittadini stranieri e il minore “affidato” a cittadini italiani,

6. I fondamenti culturali delle relazioni tra diritto e religione, tra si-stemi giuridici secolari e sistemi giuridici religiosi, posti nell’ottica della migliore tradizione del diritto ecclesiastico, vengono in rilie-vo e quando sono obliterati le soluzioni approntate mostrano tutta la loro ingiustizia e difettività sul piano dell’attuazione dei principi/valori costituzionali di libertà e uguaglianza dei soggetti.

Il diritto ecclesiastico ha rappresentato da sempre il baluardo più importante allo strapotere del formalismo normativista della scienza giuridica ancorata al formalismo giuridico. Un baluardo eretto al fine di consentire, nel solco dell’attuazione della laicità della politica e del diritto, la garanzia e la rilevanza dei principi dell’appartenenza religiosa dei soggetti, nel rispetto ulteriore della libertà e uguaglianza in materia religiosa.

29 Cfr. A. fuccillo, Giustizia e religione cit., p. 220.30 M. ricca, L’ombra del diritto art. cit., p. 35.

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Gli Autori

Autori

Giancarlo Anello

Università degli Studi di Parma

Pasquale Annicchino

European University Institute

LuiGi BarBieri

Università degli Studi di Teramo

Maria GaBriella BelGiorno De STefano

Università degli Studi di Perugia

Rinaldo BerTolino

Università degli Studi di Torino

GerMana CaroBene

Università degli Studi di Napoli “Federico II”

PierluiGi ConsorTi

Università degli Studi di Pisa

CrisTina Dalla Villa

Università degli Studi di Teramo

FaBiano Di PriMa

Università degli Studi di Palermo

AlBerTo FaBBri

Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”

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Gli Autori

GaBriele FaTTori

Università degli Studi di Siena

Mario FerranTe

Università degli Studi di Palermo

GiusePPe Gullo

Università degli Studi di Palermo

Chiara LaPi

Università degli Studi di Pisa

Maria Luisa Lo Giacco

Università degli Studi di Bari

Gianfranco Macrì

Università degli Studi di Salerno

Francesco MarGioTTa BroGlio

Università degli Studi di Firenze

Manlio Miele

Università degli Studi di Padova

Luciano Musselli

Università degli Studi di Pavia

Marco Parisi

Università degli Studi del Molise

Grazia PeTrulli

Università degli Studi di Palermo

Paolo Picozza

Università degli Studi di Macerata

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Gli Autori

Mario Ricca

Università degli Studi di Parma

GiusePPe RiVeTTi

Università degli Studi di Macerata

Paolo STefanì

Università degli Studi di Bari

MarTa TiGano

Università degli Studi di Messina

Valerio Tozzi

Università degli Studi di Salerno

GioVanni B. Varnier

Università degli Studi di Genova

Enrico ViTali

Università degli Studi di Milano

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