scelte pubbliche - n. 2 giugno 2011

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Organo dell’ Associazione Romano Viviani - periodico quadrimestrale n. 2 - giugno 2011 Speciale Toscana TESTI DI NICOLA BELLINI, STEFANO CASINI BENVENUTI, RICCARDO CONTI, ANDREA GIORGIO, CRISTIANO PARDOSSI

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La Rivista edita dall'Associazione Romano Viviani - "Scelte Pubbliche" N. 2 - Giugno 2011 "Toscana 2030"

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Organo dell’Associazione Romano Viviani - periodico quadrimestrale

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Speciale ToscanaTESTI DI nIcolA bEllInI,

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Organo dell’Associazione Romano Viviani, periodico quadrimestrale.

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5671 del 13 agosto 2008.

Associazione Romano Vivianivia Cavour, 38 - 50129 Firenze www.associazioneviviani.org

Direttore editoriale: Riccardo Conti

Direttore responsabile: Pier Francesco Listri

Tipografia: Nuova Grafica Fiorentina, Firenze

Le illustrazioni di questo numero sono tratte dal volume Firenze espone la grande avventura fiorentina del 1861 con uno

sguardo sul ventesimo secolo di Pier Francesco Listri. Le Monnier, Firenze 1992.

Grafica, editing, impaginazione:Edizioni SICREA via Maragliano, 31A - 50144 Firenze

tel. 055 321841 - fax 055 3215216 www.sicrea.eu

Numero DUE - giUgNO 2011

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Quorum, ovvero “dei quali”, ovvero il numero legale di cittadini che chiede una fase nuova per l’Italia.Questo numero di “Scelte Pubbliche” va in stam-pa mentre si finiscono di contare le schede dei re-ferendum del 12 e 13 giugno 2011, svolti appena poche settimane dopo un voto amministrativo che ha reso evidente la fine dell’era berlusco-niana. Dalle parti nostre, di quelli che stanno col centrosinistra, s’aggira anche un po’ lo spettro dell’euforia; ed è una bella sensazione. Soprat-tutto si percepisce la richiesta di classi dirigenti serie e preparate e la crescente diffidenza verso incantatori di serpenti. È un fatto estremamente positivo, data la stagnante e preoccupante situa-zione della cosa pubblica e dei suoi conti e dato l’arrancare dell’impresa privata in Italia, perché qui c’è bisogno di Politica senza che quel so-stantivo sia preceduto o seguito da un aggettivo qualunque, tipo “nuova”, tipo “seria”, tipo quel

che può venire in mente. Politica contiene già in sé la novità, la serietà, in quanto, ci insegnano di-rigenti e pensatori importanti, Gramsci per tutti, essa è storia in atto.Noi proporremo su questa rivista, tra qualche numero, una riflessione sui nuovi linguaggi; l’abbiamo messa in cantiere, quindi mi fermo qui con l’euforia per le attese possibili della politica italiana dato che l’analisi della situazione la farà per noi anche questa volta l’amico e compagno Gianni Cuperlo già nelle pagine seguenti.In questo numero si parla di economia, si conti-nua la riflessione sull’urbanistica. Soprattutto sa-lutiamo l’arrivo di un nuovo direttore, Pier Fran-cesco Listri, un professionista stimato che entra in corsa per dare maggiore ordine all’organizzazio-ne dei testi e delle tematiche che affrontiamo. Lo ringraziamo e siamo fieri: vorrà dire che qualcosa di buono s’era seminato.In questi mesi non ci siamo fermati nemmeno un istante. L’Associazione Romano Viviani si è resa protagonista di iniziative rilevanti nel panorama fiorentino e toscano, con qualche significativa

attenzione nazionale che ci ha onorato. Del la-voro fatto renderà conto Marta Romanelli, che è diventata la nostra colonna anche in redazione, insieme al prezioso e qualificato lavoro di cui è stato protagonista il giovanissimo Andrea Vi-gnozzi, il nostro webmaster, se così si può dire. Questa rivista e i due quaderni che abbiamo recentemente pubblicato e presentato, uno sul-la giustizia (curato da Silvia Della Monica e da Massimiliano Annetta), uno sulle nuove sfide dell’economia urbana (curato da Sara Di Maio e Chiara Agnoletti), grazie a lui si possono consul-tare on-line sul nostro sito, si trovano sui social network in versioni così eleganti che tutto questo non sembra solo il frutto di un preziosissimo vo-lontariato politico-culturale.Siamo contenti. In questa fase storica ci sentiamo di poter dare un piccolo ma prezioso contributo alla qualità della politica di questo Paese. Siamo a disposizione, come si suol dire, per partecipare ad un dibattito che finalizzi proposte concrete di trasformazione e di miglioramento della vita di tutti noi. Siamo riformisti, siamo qui.

di ADAMO AZZARELLO

E D I T O R I A L E

2 Ilpuntodivistadi Gianni Cuperlo

4 PrimoPianodi Pier Francesco Listri

6 IlPdel’urbanisticadi Luciano Piazza

8 SpecialeToscana

9 LaToscanainqualeItalia? di Nicola Bellini e Riccardo Conti

14 IlPil,epoi?di Andrea Giorgio

15 C’èunpo’disuddappertutto di Stefano Casini Benvenuti

19 Leviedell’integrazione di Cristian Pardossi

22 Perun’agendariformistasullarenditaurbana di Walter Tocci

26 Dizionariodi Pier Francesco Listri

27 Lontano di Maurizio Izzo

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di GIANNI CUPERLO

Il punto di vista

Torino Milano Trieste Bologna NapoliCagliari…la sequenza è piuttosto impressio-nante. Diciamo in sintesi che stavolta abbiamo vinto noi e hanno perso loro. Perso molto e ma-lamente. Per cui è giusto partire da qui, dal dato di fondo che è semplice: la svolta c’è stata. Lo ha scritto bene un commentatore attento come Stefano Folli, “in 15 giorni il volto dell’Italia è cambiato”. E non soltanto per il risultato in sé ma per il sentimento di fondo. Perché è vero che hanno perso la Moratti e gli altri candidati del centrodestra, ma il vero sconfitto è Berlusconi. Lui aveva chiesto un referendum sulla sua per-sona. Quel referendum c’è stato e ha travolto la destra anche in alcune postazioni storiche.In questo senso Milano è davvero lo spartiacque. Quella è la città simbolo di un sistema di pote-re consolidato nell’arco di vent’anni. Parliamo di una realtà che è crocevia dei grandi interessi economico e finanziari che da lì si proiettano sul Paese e sull’Europa. E parliamo della città dove la parabola, prima imprenditoriale e poi politica, del capo del go-verno ha vissuto tutti i suoi passaggi più signi-ficativi. Quindi sconfiggere Berlusconi in casa sua è la conferma di un declino dell’uomo e del leader. Penso abbia ragione chi ha individuato una chiave della sconfitta di Berlusconi nella sua “dismisura”. Nel senso che lui non ha solo abusato del potere enorme che detiene tuttora ma ha abusato del Paese: della sua capacità di sopportazione, della sua dignità. A me pare un aspetto rilevante perché in questo c’è, allo stes-so tempo, la forza e la fragilità degli italiani. Il loro affidarsi periodicamente a un “Salvatore”, un “Liberatore”, creando intorno a quella figura un cordone di impunità, di perdonismo… sal-vo poi, a un certo punto, rompere quel legame spesso patologico, e trasformare un credito all’apparenza infinito in un discredito che non perdona. Con tutti i distinguo del caso è stato cosi col fascismo, con Craxi. E secondo me questa è un po’ oggi la condizio-

ne di Berlusconi. Si è accesa una scintilla che potrebbe alimentare l’incendio.Detto ciò mai come questa volta il voto è stato univoco. Nelle realtà sopra i 15mila abitanti, noi vinciamo in 85 Comuni su 133. Erano 76 cinque anni fa. Loro vincono in 40 Comuni contro i 55 della volta precedente. Cinque amministrazioni vanno al Terzo Polo e 2 a liste civiche. Il dato più significativo è quello del Nord, anche per le nostre difficoltà in quella parte del Paese. Alle regionali di un anno fa loro avevano sei punti di vantaggio sul centrosinistra. Adesso i rappor-ti di forza si sono rovesciati con noi avanti di 8 punti. Sempre nel Nord, se consideriamo solo i 23 Comuni capoluogo, il centrosinistra ottiene circa il 50% dei voti contro il 37,4 della destra. Tredici punti di scarto nell’area più dinamica del paese non sono pochi. In concreto oggi noi sia-mo maggioritari al Nord e al Centro, mentre il centrodestra resta davanti nel Sud, anche se con una situazione molto diversificata da regione a regione.Sempre al Nord, da tempo eravamo abituati a uno schema di gioco che si riassumeva più o meno così. Quando Berlusconi è in difficoltà e perde consenso subentra la Lega che funziona come una rete di protezione dei voti in uscita dal PdL. Edmondo Berselli parlava addirittura di un bacino elettorale comune che aveva sopran-nominato “forzaleghismo”. Bossi ha sempre giocato questa carta pensando di aumentare così il proprio potere contrattuale dentro la maggioranza. Queste elezioni hanno smentito quello schema. La Lega perde consenso anche nelle zone dove più forte è il suo radicamento, e per la prima volta viene sconfitta in roccafor-ti come Novara o Gallarate. Insieme alla Lega viene sconfitto pure il mito del “Nord padano”. Anche qui contano i dati: se escludiamo Trenti-no Alto Adige e Valle d’Aosta, tutti i capoluoghi regionali del Nord sono amministrati oggi dal centrosinistra. E tu non governi un’area vasta come quella se non controlli le capitali di un

territorio tanto vasto.Dobbiamo sapere, però, che questa rivoluzione nel consenso è anche figlia di una profonda tra-sformazione che ha inciso sulle fondamenta sia del vecchio sistema finanziario che dell’impresa. Lo scrivo così: ci sono molte aree del Nord, e in parte del Centro, che sembravano finora immu-ni dalla crisi e che invece cominciano a soffrire le conseguenze di un calo drammatico dell’oc-cupazione, dei redditi familiari, dei consumi. Questa parte più debole della società (diciamo il ceto medio impoverito) non è più disposta a dar credito alle promesse del governo ma non ha ancora firmato un atto di fiducia nei nostri confronti. E noi dobbiamo riuscire a conquistare il consenso di questi lavoratori (spesso precari), piccoli imprenditori, pensionati.E adesso veniamo al Pd. I Democratici escono dal voto rafforzati. Ed esce rafforzato Bersani che ha scelto il tono e i contenuti giusti. Non era facile e non era scontato. Anche perché venivamo, in particolare in alcune realtà, da primarie che non avevano premiato i nostri candidati o comples-sivamente il Pd. Penso a Milano e a Cagliari, e naturalmente penso all’enorme pasticcio delle primarie napoletane. Ora, l’argomento usato da alcuni e cioè “non avete vinto voi perché molti sindaci sono espressione della sinistra radicale” è un argomento completamente sballato. E non solo perché i numeri dicono l’opposto, ma perché il voto spazza via l’idea che per vincere, al Nord come al Sud, sia necessaria una svolta moderata. La verità è che noi abbiamo vinto mobilitando l’intero popolo del centrosinistra, dalle sue componenti più moderate a quell’uni-verso della sinistra diffusa che è decisivo per vincere la sfida del governo del Paese. Per altro se guardiamo al profilo dei nuovi sindaci dicia-mo che dentro c’è di tutto. Da un leader storico della sinistra come Fassino a un giovane brillan-te come Zedda; da un bravissimo funzionario del Pci-Pds-Ds-Pd come Cosolini (per inciso: è il candidato che ha avuto lo scarto maggiore di

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consensi tra candidato e coalizione), a un am-ministratore sperimentato come Merola; e poi un professionista che ha sempre rivendicato la sua storia politica come Pisapia fino a un ex ma-gistrato che è approdato alla politica poco più di un anno fa come De Magistris. Penso che questa pluralità di biografie sia una ricchezza per il cen-trosinistra, ma sia anche la smentita di un modo troppo sbrigativo di affrontare il tema del rin-novamento del nostro campo e della sua classe dirigente. La realtà è che se vogliamo vincere noi abbiamo bisogno di tutti: e quindi prima la smetteremo di espellerci a vicenda meglio sarà per il bene della ditta e del Paese.Ancora su di noi. Penso che abbia premiato la scelta di essere, con lealtà e anche con umiltà, al servizio della coalizione. Né prima né dopo il voto, abbiamo avuto l’ansia di mettere il cap-pello sopra i nuovi sindaci. E questo profilo ha contribuito al nostro successo. La realtà è che noi sempre di più siamo il perno dell’alterna-tiva. Non siamo autosufficienti, come il voto di-mostra. Ma senza di noi, senza la nostra forza e i nostri contenuti, il centro sinistra non ce la fa. E allora il voto ci consegna due messaggi. Il primo è la fine di ogni “sconfittismo”. Tradotto, Berlu-sconi si può battere e noi, con altri, lo abbiamo appena dimostrato. Il secondo messaggio è che noi non abbiamo già vinto la sfida decisiva che sarà quella per il governo. Ma come questa

volta ci serve moderazione, lucidità, consapevo-lezza che un pezzo fondamentale della strada è stato fatto ma c’è un altro pezzo che abbiamo davanti.Questa responsabilità ci viene anche da alcuni dati quantitativi che non possiamo sottova-lutare. Il primo riguarda l’astensionismo. Alle ultime elezioni politiche, nel 2008, l’astensione aveva toccato il picco più alto dell’intera storia repubblicana (il 19,5%). Alle Europee del 2009 quella percentuale è salita al 33% con un incre-mento di sei punti rispetto alle precedenti. Alle Regionali dell’anno scorso l’astensione è stata del 36% che diventava il 40 sommando sche-de bianche e nulle. Questa volta poco meno di quattro elettori su 10 sono rimasti a casa. Percentuale che, nel caso delle Provinciali, è sa-lita a un elettore su due. Dobbiamo sapere che le elezioni politiche vedranno un incremento si-gnificativo dei votanti rispetto al turno ammini-strativo. Per capirci in questa tornata ha votato per le liste di partito circa il 60% degli aventi diritto. Alle politiche del 2008 fu l’80%. Tradot-to, sono circa 10 milioni di elettori in più. Questo significa che non esiste alcun automatismo tra il risultato di adesso e la competizione che dovre-mo affrontare tra pochi mesi o forse tra un anno. E allora prepararsi bene e per tempo prima che una convenienza è un dovere. Questo significa due cose. Prendere atto che le primarie per la

scelta del candidato premier e dei parlamentari è una strada obbligata oltre che vantaggiosa. E lavorare da subito a quel programma per l’Italia che non potrà essere solo un elenco dettagliato di obiettivi ma avrà bisogno di una sintesi e di una immagine chiara del Paese che immaginiamo. Lo dico perché la spinta civica, la passione e l’entusiasmo che hanno accompa-gnato la campagna di Pisapia a Milano ci dicono molto dell’equilibrio che dobbiamo costruire, anche sul piano nazionale, tra le proposte pro-grammatiche e uno sguardo più ambizioso sui valori e i principi che sono in grado di motivare un popolo intero nella battaglia per il governo del Paese e contro una destra pericolosa ed eversiva.In conclusione, per una volta dobbiamo essere sereni e anche un pochino orgogliosi del lavoro che stiamo facendo. C’è un partito forte, unito e capace di guardare con fiducia ai mesi che ab-biamo davanti. Diciamo che non c’è tempo per riposare. Adesso avremo la stagione delle feste e l’avvio della discussione sulla conferenza sul partito. Ma questo Pd c’è. E’ vivo. Non abbia-mo risolto tutti i nostri problemi e però neppure siamo più un’ipotesi o una incognita. Siamo una grande realtà dell’Italia che vuole voltare pagina. Riuscirci adesso dipende da noi. Ma in fondo siamo nati per questo e per questo ver-remo giudicati.

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di Pier Francesco Listri

Primo Piano

L’esposizione nazionale del 1861.L’italia unita si presentava sulla scena inter-nazionale. Torna, imprevista, la stagione del-le Esposizioni dopo che la globalizzazione e l’informazione planetaria ne aveva di molto ridotte l’utilità e anche la suggestione. Il 2015 segnerà il traguardo della grande Esposizione di Milano, i cui preparativi, da tempo iniziati, appaiono per altro, a tutt’oggi, piuttosto trava-gliati. Sarà questa un’Esposizione all’insegna del gran tema dell’innovazione, motivo assai di moda e del resto l’unico in grado di stupire le folle che, si prevede, converranno a Milano.Intanto, si sta in questo 2011, fra infinite ini-ziative e qualche inopportuna polemica, cele-brando il secolo e mezzo dell’Unità d’Italia.E proprio centocinquant’anni fa, nel 1861, ebbe lungo in Firenze non ancora capitale, la prima, grande Esposizione Nazionale che vo-leva celebrare il nuovo Regno da pochi mesi unito.L’Esposizione, che ebbe luogo nella stazione di Porta a Prato, vide 2.500 prodotti in mostra, oltre 135.000 visitatori, fu inaugurata da Re Vittorio Emanuele II ( per la prima volta ospite di Firenze) e durò dal 15 settembre al 15 no-vembre di quell’anno.Di quell’eccezionale evento è utile rammentare alcuni significati e qualche curiosità, non pri-ma però di qualche riflessione sull’epoca glo-riosa delle Esposizioni.Esse erano nate, forse sull’esempio dei celebri Salons parigini, addirittura già nel Settecento, ma fu l’Ottocento il loro grande secolo. La bor-ghesia rampante, la nuova epoca industriale, la stagione dell’utilitarismo, i grandi traffici e scambi fra nazioni, incoraggiavano questi stra-ordinari circhi del progresso a mettere in piazza novità e prodotti ma soprattutto a mostrare al mondo i muscoli delle grandi potenze europee e americane.

Quasi ogni città o capitale ebbe la sua. Il 1756 celebrò la prima a Londra, cui seguirono negli scorci di quel secolo, Ginevra, Amburgo, Praga e Parigi. Già nel primo decennio dell’Ottocen-to prima Torino e poi Milano ebbero le loro Esposizioni locali. Ma il mondo ricorda nel 1851 la prima grande Esposizione Universale di Londra, seguita due anni dopo da quel-le di Dublino e di New York. Appena quattro anni dopo, nel 1855, fece scalpore la prima Esposizione Universale di Parigi con i suoi 25.000 espositori e con ben cinque milioni di visitatori. Fra cento altre, si rammenta soprat-tutto l’Esposizione Universale, ancora a Parigi, del 1889 quando per celebrare la nuova sta-gione edilizia del ferro si costruì quella Torre Eiffel che doveva esserne il simbolo e che poi non fu più smontata.Ogni Esposizione, oltre che celebrare il pote-re economico e industriale del paese, cercava anche di accompagnarsi a qualche evento spe-ciale. Così l’Esposizione di New York del 1853 volle affermare l’efficiente nord industriale a confronto col sud agricolo americano; Milano con la sua esposizione del 1906 celebrò il tra-foro del Sempione, mentre, nella stessa città, quella del 1911 coronava il primo cinquanten-nio dell’Unità italiana.Le Esposizioni furono dunque i primi grandi spettacoli di massa dell’epoca del progresso, delle nuove scienze, della luce elettrica e del telefono, e anche degli imperialismi e nazio-nalismi montanti. Ma contribuirono anche alla reciproca conoscenza fra popoli e nazioni e a travasare oltre confini mode e andazzi culturali dei paesi più lontani ed esotici.Il primo lontano paese rappresentato fu l’In-dia, sia in quella di Londra che in quella di Parigi del 1878 (raccontata agli italiani dal De Amicis con le sue corrispondenze e poi dal giovanissimo Rudyard Kipling), mentre

nella Esposizione di Chicago del 1893 la se-zione dell’India contò oltre duemila espositori. Altrettanta fortuna toccò al Giappone rivelata all’Europa dall’Esposizione parigina del 1867 che presentò oltre mille cinquecento prodotti di quel paese, subito venduti. Non meno fortu-nata la lontanissima Cina che impose da metà Ottocento agli europei sete, libri, dipinti, og-getti e perfino la ricostruzione di un padiglione del tè del Palazzo d’Estate di Pechino.Folgorante fu per l’Europa la scoperta dell’Egitto, della sua cultura e archeologia da parte delle esposizioni, sull’onda delle non lontane campagne napoleoniche e poi grazie

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all’apertura del Canale di Suez. Fu allora che lo Stato sabaudo acquistò la celebre e imponente Collezione Drovetti, grazie all’opera del grande archeologo Jean Francois Champollion, allora a Torino. Ricchezza industriale, espressione di potenza, lusinga di nuove mode esotiche, de-siderio di reciproca conoscenza: questi i motori della grande stagione delle Esposizioni.Poco di tutto questo toccava però l’Esposi-zione Nazionale di Firenze del 1861, la prima del nuovo Regno d’Italia. La quale vale qui ricordare, non solo perché ne cadono, in coin-cidenza con l’Unità, i centocinquant’anni, ma anche per misurare, all’ingrosso, il cammino

fatto dall’Italia in questo secolo e mezzo e l’esi-guità di risorse da cui era partita. Un grande e oggi rarissimo Catalogo del tempo (redatto dal giornalista Yorick, e dal quale sono tratte le illustrazioni di quest’articolo) ce ne dà l’oc-casione.S’è detto dove si svolse, quanto durò e quanti visitatori ebbe. Quei visitatori scoprirono un panorama assai vario dei prodotti naziona-li che andavano dalla gastronomia all’arte. Tuttavia l’effetto complessivo non era esaltante e il paese, quasi totalmente agricolo non pote-va che puntare su questo settore: erano esposti centinaia di tipi di vanghe di zappe e di aratri

(fra quest’ultimi una novità fu il ‘coltro’, nuovo aratro inventato da Cosimo Ridolfi, capace di penetrare più profondamente nella terra per rivoltarla). Questo a scomodo confronto con alcune macchine agricole inglesi a vapore di gran lunga più avanzate. Un altro padiglione italiano era addirittura dedicato a svariati tipi di candele tanto che si accese un dibattito se fossero da preferire quelle steariche o quelle di sego. Fra gli alimentari facevano parte da le-one i vini (ma curiosamente a vincere alcuni premi finali non furono i vini toscani, fra cui quelli di Bettino Ricasoli, bensì quelli siciliani).Tuttavia l’Esposizione mostrava anche alcune novità significative. Per la prima volta compa-riva in pubblico il motore a scoppio di Barsanti e Matteucci, cioè l’anticipatore dell’automo-bile. Il senese abate Caselli presentava una sua invenzione, il ‘pantelegrafo’ che era una geniale anticipazione dell’odierno fax. Mentre i tedeschi avevano inviato i giganteschi can-noni della Krupp, l’Italia metteva in mostra il ‘cannone Cavalli’, ideato dal generale omonimo che presentava la novità di essere ricaricabile dalla culatta.Moltissimi i prodotti del cosiddetto artigianato artistico in legno ferro bronzo, distinti da ele-ganti ornati. Nel settore delle arti figurative compariva poi questa sì, una novità straordina-ria – ma ahimè trascurata dal frettoloso pub-blico - : esponevano per la prima volta alcuni pittori Macchiaioli fra cui il giovane Fattori, cioè la più importante nuova scuola pittorica italiana che inaugurava la pittura moderna. Così andò in quel fatale 1861, a coronamento dell’Unità Nazionale raggiunta pochi mesi pri-ma. Rileggere oggi quel catalogo – mentre si celebra un secolo e mezzo di Unità Nazionale, e mentre si aspetta la prossima Esposizione di Milano – dice più cose di tante pagine scritte sulla faticosa storia italiana.

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di LUCIANO PIAZZA

Il PD e l’urbanistica

Nella convinzione di molti, dopo la caduta del muro di Berlino il mondo avrebbe dovuto essere più unito. La globalizzazione ha invece attiva-to la competizione internazionale, prodotto la frantumazione delle società e messo in discus-sione gli stati nazionali. Si sta affermando una nuova divisione internazionale del lavoro e l’as-se del mondo si sta spostando dall’Atlantico al Pacifico. Ha vinto il mercato senza regole, frutto

di un capitalismo senza freni. Il nostro futuro è incerto e l’Unione Europea è divisa. Il pensiero fatica sia a cogliere del tutto la crescente com-plessità sia a spiegarla.Ne hanno sofferto il welfare e i diritti, così come l’economia e la coesione sociale. Inevitabile, quindi, che ne soffrisse anche la politica: in-certa nel proporre un progetto lungimirante di società, risucchiata nel conflitto contingente

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tica e tecnica, in sostanza, non ci devono essere dubbi di leadership. La politica, però, deve re-cuperare la sua mission e riuscire a distinguere (cosa che la tecnica non potrebbe fare) ciò che giusto e ciò che è buono da ciò che è solo utile e vantaggioso.Bisogno di politica, dunque, soprattutto nel go-verno del territorio. Dove troppo spesso manca un progetto condiviso capace di ispirare le azio-ni locali. Chi dovrebbe elaborare questo proget-to se non la politica? Quando si afferma che la Toscana deve attrarre investimenti dall’estero, basandosi sulla quali-tà del territorio senza svenderlo, si afferma un obiettivo politico che deve essere tradotto in un progetto declinato ai diversi livelli istitu-zionali e perseguito attraverso la filiera interi-stituzionale. Per garantire coerenza al progetto, però, è necessaria una regia e l’unica possibile o è politica o è istituzionale. Dopo la variante Fiat-Fondiaria la politica non ha più espresso un progetto organico per l’area a nord-ovest di Firenze. Né le istituzioni sono riuscite a colmare questo vuoto. Così, il cuore della regione è stato oggetto di scelte separate, che oggi richiedono, a posteriori, la collocazione in un progetto uni-tario. Le difficoltà di ricomporre questo proget-to, in presenza di alternative strategiche, sono note. Chi può riuscire in questo compito arduo se non la politica?Il PD può dunque occupare questo spazio at-traverso la capacità del riformismo di andare al cuore dei problemi: rifiutando il pregiudizio, in-dicando, attraverso il territorio, una prospettiva per i luoghi di vita e di lavoro della società, con-cependo il piano territoriale come strumento propositivo di questo indirizzo, oltre che chiara manifestazione di interesse per investimenti economici coerenti. Si tratta, dunque, di considerare il piano come prospettiva di vita e occasione di impresa. Esso deve, quindi, essere capace di esprimere un progetto politico che travalichi i confini ammi-nistrativi e che guidi le azioni locali verso obiet-tivi di ampio respiro comune, un modo per dare senso all’impegno di tutti noi, per aiutarci a superare l’autoreferenzialità, facendoci sentire meno soli in un mondo troppo frastagliato ed eccessivamente complesso.

sottrae risorse alla città pubblica. Nel territorio, così, come nell’economia, la rendita è dunque un fenomeno patologico, i cui effetti negativi vanno combattuti con decisione. In mancanza di un forte progetto politico di società e di ter-ritorio, tuttavia, la rendita non si combatte. Tale tema, infatti, tranne rare eccezioni, è assente dall’agenda politica italiana. Tutto ciò avviene in uno scenario internazionale che vede cre-scere la competitività e che ci chiede di liberare risorse e di attrarre investimenti. Occorrerà, per raggiungere questo obiettivo, tenere insie-me sviluppo e progresso, mettere sul piatto la qualità attrattiva della nostra terra, sostenere il lavoro e l’impresa. Sarà necessario, però, anche frenare il consumo di suolo, quindi, la corsa al mattone e superare le chiusure del NIMBY, sen-za dimenticare le preoccupazioni dei cittadini. In altri termini, pur evitando la certezza delle utopie, diviene fondamentale trovare in esse gli stimoli per alzare lo sguardo e stare in campo come protagonisti del nostro futuro, attivando azioni trasversali, lungimiranti, integrate e fina-lizzate: il governo del territorio insomma.Chi può fare tutto questo se non una politica, che, anziché gestire interessi particolari, spesso contraddittori, ritrovi il rapporto con i bisogni umani e con il bene comune? Che provi a in-terpretare e a correggere i processi globali, oggi nelle mani di oligarchie spesso irresponsabili? Che porti a sintesi una riflessione sulla società e sul territorio capace di senso e di prospettiva comune? I partiti, in Italia, sembrano poco interessati alla politica. Ammesso che la politica abbia ancora la capacità, nell’epoca dell’economia globale, di tenere la barra del potere decisionale è questo, però, che ci si aspetta dal riformismo democra-tico e in primo luogo dal PD.Il resto viene di conseguenza, anche se certo non in modo automatico. Così, ad esempio, gli strumenti di governo, di cui oggi, spesso, si di-scute (leggi, piani, progetti), servono ad attuare le politiche; non valgono di per sé, ma riman-gono contraddittori e difficilmente utilizzabili se le politiche sono incerte. Allo stesso modo, il ruolo dei tecnici non può sostituire quello dei politici, ma coadiuvarli poggiando, però, sulla autorevolezza delle discipline tecniche. Tra poli-

dalla miriade di interessi che reclamano rispo-ste immediate.Può esistere un progetto di territorio senza un progetto di società? Se deve essere l’uomo il riferimento costante delle politiche riformiste, a quale uomo pensiamo oggi? In quale società e, dunque, in quale territorio? Accettare il mer-cato non significa subirlo, ma volgerlo al bene comune. Anche se è difficile, in un’epoca che sembra negare le regole e che vede l’economia basarsi più sulla rendita, sulla finanza e sullo sfruttamento delle risorse piuttosto che sulla produzione. Da sempre, nel nostro Paese, la rendita costi-tuisce un cancro nelle politiche territoriali: le condiziona in funzione di interessi privati e

SpecialeToscana

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La Toscana in quale Italia? Terza Italia, Italia di mezzo, Centro-Nord: prospettive a confronto

In quale Italia sta la Toscana? Anche di recente, interventi di varia natura, da quelli giornalistici a quelli politico-

istituzionali, hanno riproposto l’ipotesi di una colloca-zione “geo-politica” della Toscana in un’Italia terza, l’“Italia di mezzo”. Per collocazione “geo-politica”, senza volerci troppo addentrare in questioni di metodo e di teoria, va intesa una condizione di appartenenza a un’area più ampia di quella regionale, che sia geograficamente identificabile e al tempo stesso possieda fattori di integrazione (sia per analogia che per complementarietà) sul piano politico, eco-nomico e sociale tali da farne emergere rappresentazioni identitarie di una certa consistenza. Alcuni elementi di quest’ultima tornata di enunciazioni sembrano andare in questa direzione, anche se ciò che filtra nei media è soprat-tutto un tono prevalentemente rivendicativo nei confronti

di un dualismo in cui un Nord sviluppato e “arrogante” e un Sud in perdurante ritardo e “assistito” schiaccerebbero un’Italia terza e “diversa”. La questione, invece, mantiene una rilevanza ben maggiore, che è sostanziale, strategica e - in ultima analisi - politica e su cui vogliamo qui proporre alcune riflessioni e qualche ipotesi per una fase nuova di discussione e di ricerca1.Per alcuni aspetti la ricerca di una collocazione diversa, che sia insieme non-Nord e non-Sud, richiama l’antica discussione sulla Terza Italia. In questo dibattito l’analisi delle dinamiche e dei modelli di sviluppo economico si è spesso sovrapposta a visioni politiche più generali sui de-stini dell’Italia contemporanea. Così è avvenuto, in parti-colare negli anni sessanta, quando scelte anche di politica economica, specie di carattere infrastrutturale, sono

1. Gli autori riconoscono il loro debito nei confronti dei partecipanti ad un seminario tenutosi nel marzo scorso presso la sede dell’Associazione Viviani.

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di NICOLA BELLINI e RICCARDO CONTI

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state ispirate dall’esigenza da parte della DC di esor-cizzare e confinare il regionalismo toscano e l’avvento delle “regioni rosse”. Negli anni ottanta un’idea diversa di Terza Italia trovava nella Toscana del “modello” distrettuale e di piccola impresa, narrato da Becattini, non solo il paradigma delle valenze economiche del territorio, ma anche un rife-rimento politico importante. Ad esso il Pci aderiva, seppur con atteggiamenti dubbiosi e critici in cui traspariva (non diversamente da quanto accadeva in Emilia) il perdurare delle tradizionali interpretazioni della piccola impresa come risultato del decentramento produttivo, se non, ad-dirittura, come espressione di una patologica arretratezza dell’apparato industriale del Paese. Comunque, ne scaturì un dibattito di grande livello, contrassegnato da lavori im-portanti: dalla critica alla cultura antindustriale delle classi dirigenti toscane di Cantelli e Paggi, alla rivisitazione di stampo “sraffiano” del modello distrettuale di Sebastiano Brusco, fino all’insieme di ricerche e pubblicazioni di Ba-gnasco e Trigilia, sulle filiere territoriali e politico/culturali alla base dello sviluppo dei sistemi di piccola impresa. È soprattutto dagli anni novanta che le riflessioni dell’Irpet sul declino della Toscana hanno messo in crisi contenuti e implicazioni del modello e la relazione virtuosa tra sviluppo toscano e paradigmi della Terza Italia. Lo stesso Giuliano Bianchi, in un celebre saggio dei primi anni novanta2, sug-geriva un Requiem per la Terza Italia, concetto che gli pareva aver perso “validità epistemologica, interpretativa o anche solo descrittiva”, specie a fronte della divaricazione tra la capacità di trasformazione dell’Emilia Romagna e del Veneto e l’eclissi industriale della Toscana.La rivelazione di un processo di deindustrializzazione precoce e insieme di una Toscana felix, il cui conclamato benessere era però fondato sulla rendita immobiliare, aprono il campo a dibattiti, che, se da un lato ridanno voce a mai sopiti scetticismi sul modello distrettuale (si riveda ancora nella seconda metà degli anni novanta il confronto tra Becattini e Varaldo), dall’altro si fanno carico di togliere le ultime illusioni su una possibile sopravvivenza del mo-dello toscano ereditato dal passato. Sarà proprio l’Irpet a “chiudere la partita”, sul piano intellettuale e politico, con uno studio di prospettiva (“Toscana 2030”) che dimostrava l’insostenibilità economica, finanziaria, ma anche sociale e politica di uno scenario “inerziale” in cui gli attori del sistema economico toscano (imprese, istituzioni, famiglie) venivano ipotizzati immobili in un contesto di trasforma-zioni. La provocazione dello scenario inerziale stava nel fatto che, pur ammettendone la funzione didattica e di simulazione (quindi non previsionale), esso non era uno scenario del tutto “irrealistico”. Era, anzi, lecito temere che

il “modello toscano” esprimesse ormai un tale groviglio di interessi, rapporti di rappresentanza e sub-culture da non poter sperare in un dinamismo autonomo, se non come risultato di choc economici esogeni e/o di discontinuità politiche.In vari ambiti istituzionali e tematici (dalla struttura eco-nomica all’urbanistica e alla gestione del territorio) si è posto insomma il problema di una non rinviabile moder-nizzazione e a tal fine è apparso necessario proprio un di-stacco dal concetto/mito della Terza Italia, o meglio da ciò

che ne era rimasto dopo la frattura con l’Emilia Romagna ed il Veneto: un’idea che tendeva ad esaurirsi in un mix di stereotipi post-industriali e culture anti-industriali delle classi dirigenti toscane e a esprimere una diversità ripro-posta in chiavi di vincolo allo sviluppo come unica opzione

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2 Giuliano Bianchi, “Requiem per la terza italia? Sistemi territoriali di piccola impresa e transizione postindustriale”, in Garofoli G. e Mazzoni R. (a cura di), Sistemi produttivi locali: struttura e trasformazione, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 59-90

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per la tutela del territorio (e unica, in particolare, in una presunta prospettiva “progressista”).Rimane la questione geo-politica. Esiste un’Italia mediana in cui collocare la Toscana? L’area geografica di riferimento comprenderebbe, in una prima accezione più ristretta, le regioni della fascia che va dal Tirreno all’Adriatico, con un’estensione, verso sud, a Lazio e Abruzzo (che però ne annacqua le omogeneità) ed un’importante a nord, verso l’Emilia Romagna che, sul piano economico e politico, è oggi quella più problematica, dato che appare indiscutibile

ormai la sua integrazione nell’Italia settentrionale (anche in termini di perdita di una diversità politica).In questi ambiti non sono mancati passaggi politico-isti-tuzionali importanti e lungimiranti. Un’occasione rilevante avrebbe potuto essere la costituzione della sede unica per le rappresentanze regionali a Bruxelles da parte di Abruzzo, Lazio, Marche, Toscana e Umbria, avvenuta nel 1999. Il

significato della costruzione della “casa comune” è stato più nella proiezione esterna delle regioni coinvolte (che si ri-teneva danneggiata dalla dominante lettura dualistica del Paese) che non in un effetto di coordinamento delle poli-tiche e di costruzione di identità.Piena di ottime intenzioni è stata poi la nascita nel gennaio 2010 di un coordinamento delle istituzioni del Centro, promosso dai presidenti delle province di Firenze e Roma. Qui più netta era la motivazione politica: offrire un mo-dello di aggregazione e di coesione nell’Italia incamminata verso il federalismo, ma chiara era anche la consapevolezza di un percorso tutto da compiere per far emergere i con-tenuti (e i bisogni) di un modello comune di sviluppo eco-nomico sostenibile.Neppure vanno scordate certe iniziative apparentemente minori (pensiamo in particolare all’Agenzia per la valo-rizzazione integrale e coordinata del Bacino del Tevere - Consorzio Tiberina) che hanno dalla loro la concretezza del bottom-up e partono appunto dalla identificazione di interessi comuni e aggreganti. Proprio questo sembra essere, invece, il punto fragile delle iniziative più ambi-ziose: una sovrastruttura di volontà politiche, progettualità generose, a cui non corrisponde una realtà effettuale di rapporti socio-economici.Almeno sino ad oggi, mancano infatti le prove dell’emergere di un corrispondente sistema di relazioni economiche. Proprio in ragione di relazioni economiche, finanziarie, commerciali e infrastrutturali la Toscana e le altre regioni del Centro appaiono, inoltre, proiettate verso il Nord e verso l’Europa (talora “saltando” il settentrione, come nel caso degli aeroporti). Se si guarda ai fatti e ai numeri delle relazioni economiche ed infrastrutturali, l’ipotesi di una rinnovata importanza delle connessioni con il Nord emerge con grande rilevanza. Per la Toscana il dato più clamoroso è quello legato alle infrastrutture ferroviarie ad alta velocità, con l’ingresso di Firenze nel circuito dei centri urbani per i quali lo spostamento giornaliero da e per Milano è diventato una realtà praticabile. Anche un dato spesso trascurato, ossia quello delle relazioni commerciali interregionali, ci restituisce l’immagine di una Toscana il cui export interregionale è fortemente specializzato verso le aree del Nord-Ovest e del Nord-Est. A tutto ciò, con minore entusiasmo, aggiungeremmo la quota delle pro-prietà immobiliari, specie ad uso di vacanza, posseduta da soggetti settentrionali.È allora - ci chiediamo - percorribile un’ipotesi alternativa a quella dell’Italia di mezzo, ossia una collocazione della Toscana (ma probabilmente anche delle altre regioni cen-trali e almeno di Umbria e Marche) in un “Centro Nord”? In questa ipotesi molti sono gli indizi che richiedono ap-profondimenti, discussione e verifiche e dai quali di- >

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pende la sua validità e utilità. Il principale riguarda il fatto che non esista, in realtà, una frattura tra Nord e Centro, in un’Italia in cui invece si approfondisce (per ri-prendere la terminologia europea) quella tra regioni della “convergenza” e regioni della “competitività”. In effetti una prima analisi3 non vede alcun distacco della Toscana dalle regioni settentrionali sugli indicatori dei potenziali cognitivi (determinanti in un’economia fondata sulla cono-scenza) e neppure - in prospettiva europea - si può parlare di vero e proprio gap, ma di condivisione di un posiziona-mento medio-alto per quanto riguarda il prodotto interno lordo e le dinamiche occupazionali.La questione va vista anche dalla prospettiva del Nord. La fondamentale ricerca avviata dalla Fondazione IRSO con Progetto Nord4 ha evidenziato le forti interdipen-denze esistenti tra i sistemi produttivi locali e regionali del Nord Italia: nei flussi logistici, nella condivisione di filiere e reti produttive, nella distribuzione delle funzioni supe-riori nei centri urbani, nell’organizzazione degli insedia-menti nel territorio, nelle utilities, nei sistemi della cono-scenza e dell’innovazione. Resta, tuttavia, da approfondire almeno una questione di rilevante importanza strategica per delineare gli scenari e le prospettive di sviluppo della city-region del Nord e delle sue reti di imprese: fin dove si estende il Nord? A fianco di un nucleo centrale di ter-ritori e regioni che sono immediatamente riconoscibili come appartenenti al modello, vi sono aree di confine che certamente condividono assetti produttivi, modelli orga-nizzativi, reti e flussi, anche se non sono totalmente ricon-ducibili al sistema-nord.La Toscana, dunque, potrebbe essere considerata come parte integrante (anche se “di frontiera”) del Centro-Nord? Una possibile obiezione è quella che questo percorso di in-tegrazione, a maggior ragione se rafforzato da consapevoli scelte politiche, crei una situazione di minorità e di pe-ricolosa dipendenza della Toscana. L’obiezione funziona sul piano retorico, ma per essere convincente su quello sostanziale richiederebbe di esplicitare in cosa consista la dipendenza, ossia quali concrete opportunità di sviluppo siano rese possibili dall’Italia di mezzo e rese impossibili e condizionate da una maggiore integrazione verso Nord. Ammesso (e non concesso) che tali dipendenze esistano, varrebbe la pena di analizzare anche le nuove opportunità legate alla combinazione tra accorciamento dei tempi di percorrenza e attrazione della Toscana, ad esempio, nello spostare fuori dall’area milanese centri decisionali e strutture terziarie qualificate.Accettare questa ipotesi non significa poi dare del Centro-Nord una lettura inequivocabilmente omogenea e positiva.

La citata ricerca IRSO ha opportunamente proposto una distinzione e un passaggio che non sono solo di tipo no-minalistico. Si suggerisce, cioè, di passare da un’analisi della “questione settentrionale” ad un’analisi della “que-stione del Nord”. La prima è una questione italiana, che riguarda il rapporto tra due parti d’Italia, il Nord nei con-fronti del Sud; è il ribaltamento polemico della questione meridionale, che ha dominato la storia del nostro Paese dall’Unità. La seconda è invece ciò che la ricerca suggerisce di affrontare – riguarda il posizionamento del Nord non tanto in Italia, quanto in Europa e nell’economia globale. Quindi, si pone la domanda se e in che misura il Nord dia o non dia un contributo significativo e sufficiente allo sviluppo del Paese, con il sospetto che il Nord sia il vero protagonista della crisi dell’Italia e del suo declino, anche perché, pur essendo traino e motore del Paese, nei con-fronti dell’economia globale è troppo spesso una periferia. Inoltre, se è vero che il Nord è di molto avanzato nell’in-tegrazione sistematica delle relazioni economiche, molto inferiore è stata la sua capacità di integrarsi sotto il profilo istituzionale, se si eccettuano le fusioni bancarie, le aggre-gazioni camerali e quelle nelle utilities, e assai poco sul piano delle visioni politiche, nonostante la teorica omoge-neizzazione indotta dal successo leghista.Lo stereotipo, secondo cui il Nord rappresenta un’Italia virtuosa nei confronti di un’Italia del Sud, non virtuosa, illegale, amorale e arretrata, appare oggi improponibile di fronte ad un quadro del Nord, come quello rappresentato dall’IRSO, caratterizzato da un’anomia, che produce la prevalenza di interessi piccoli e piccolissimi. Il Nord è oggi il palcoscenico di una modernità incompiuta, tutt’altro che immune all’illegalità, alla criminalità, alla mafia, alla corru-zione. Anche il triste spettacolo di questi anni di declino del berlusconismo si rappresenta sul palcoscenico del Nord “operoso e virtuoso”. Milano, Torino e altre città del Nord oggi si distinguono per la evidente incapacità di gestire il problema dell’im-migrazione, testimoniata dalla creazione dei veri e propri ghetti urbani. Con modalità tanto inedite quanto serie, la coesione territoriale e sociale vi è messa in crisi. Dualismi e squilibri sono indotti dalle dinamiche di sviluppo, portando a convivere, fianco a fianco nei medesimi contesti, gruppi sociali le cui condizioni e prospettive sono divaricate.Il Nord non è nemmeno (altro stereotipo) il luogo della concretezza, dello spirito imprenditoriale e della proget-tualità. “Malpensa 2000” è storia emblematica, anche per il clamoroso risultato di avere una grande area di 20 milioni di abitanti priva di un aeroporto intercontinentale degno di questo nome. Ancora, si potrebbe ricordare almeno

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3 Qui siamo debitori di alcune riflessioni e dati propostici da Paolo Perulli.4 Paolo Perulli, Angelo Pichierri (a cura di), La crisi italiana nel mondo globale. Economia e società del Nord, Torino, Einaudi, 2010

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la vicenda della linea ferroviaria Torino - Lione che de-linea una rinuncia possibile e gravissima ad ospitare uno dei grandi corridoi infrastrutturali all’interno dell’Europa. Dovremmo poi raccontare le storie dei tanti localismi che si accapigliano su aeroporti, interporti, caselli autostradali, quartieri fieristici. Le omogeneità “macro” coesistono con numerose differenziazioni e gravi fratture su scala micro-territoriale.Appare quindi evidente che collocare la Toscana nella pro-spettiva del Centro-Nord significa posizionarla in una pro-spettiva fatta di opportunità, ma anche di sfide. Rispetto all’ipotesi di un’Italia mediana, la prospettiva è quella non tanto di scommettere sull’autarchia delle diversità, quanto sulla capacità di contribuire a progetti di valenza nazionale, che sappiano mettere in campo anche le risorse del Nord in modo innovativo. Se allora parlare di Centro-Nord ha un senso, questo va ritrovato appunto non solo nell’evi-denza delle statistiche o nella forza aggregante delle infra-strutture, ma anche in grandi progetti che contribuiscano a costruire un’identità e una motivazione, fattori coesivi comuni per un contesto più vasto di quello definito dalle tradizionali rivalità regionali. I titoli sono facilmente im-maginabili: la costruzione del nuovo welfare, una strategia per il Mediterraneo, la crescita di nuovi soggetti economici trans regionali. Su tutto questo crediamo che valga la pena fare una riflessione seria.Resta aperta la questione di come dare una (per ora inesi-stente) rappresentazione politica ed istituzionale, in termini appunto non rivendicativi ma progettuali, a questo Centro-Nord o – al suo interno – ad aggregazioni funzionali e/o ge-ografiche “a geometria variabile”. Non si tratta né di aprire una discussione su improbabili nuovi livelli di governo né di avventurarsi su sentieri di ingegneria istituzionale, ma di mettere in campo capacità progettuali autentiche e una mobilitazione di energie sociali e culturali, vogliose di con-tribuire ad un disegno di modernizzazione di impianto ri-formista e disponibili ad uscire da rassicuranti tradizionali modelli. Il modello toscano, come quello emiliano erano

legati, gloriosamente, ad una fase storico/politica della repubblica ed erano anche la rappresentazione sociale, simbolica, retorica di un non professabile riformismo “co-munista”. Lo schema odierno è del tutto diverso, l’inerzia dei modelli tradizionali ( di nuovo “Toscana 2030”) apre la strada a traiettorie di declino sociale e economico e, sul piano politico, a riflessi difensivi inefficaci; secondo tale prospettiva, i confini delle regioni “rosse”apparirebbero come confini di territori assediati. L’idea della Toscana come regione di frontiera dell’Italia della competitività ci apre ad un efficace e inedito ruolo nazionale ed europeo. Ciò è ancora più vero nel momento in cui al Nord emerge la possibilità di un enorme cambiamento e comincia la partita del post-berlusconismo, perché, in epoca di federa-lismo, le autonomie non assumano connotati autarchici e neppure siano presupposto di riflussi identitari. Ai grandi progetti/paese di cui parla Bersani è bene si intrecci una forte e integrata capacità di progettazione territoriale. Non a caso lo stesso Bersani propone, opportunamente, l’istitu-zione di un nuovo ministero dell’economia e del territorio, come interfaccia – diciamo noi – di diffuse autonomie capaci di progettare riforme, sostenibilità e modernizza-zione, anche a scale territoriali inedite.Guardiamo – da questi punti di vista – alla realizzazione dell’Alta Velocità, in fondo l’unica nuova grande infra-struttura di cui il paese è riuscito a dotarsi. Guardiamo alla progettazione di Alta Capacità (AC) che dovrebbe accom-pagnarla, in termini di integrazione tra le città, di nuove inedite forme di accessibilità, di progettazione di nuovi bacini e di nuove piattaforme logistiche, fino a nuovi cor-ridoi di integrazione con il Mediterraneo. Chi scrive pensa alla centralità che l’AC possa restituire alla portualità li-vornese, alla progettazione di un grande corridoio logistico e neo-industriale tra Valle dell’Arno e via Emilia e di un polo di servizi e di cultura integrato fiorentino-bolognese, oltre che al necessario raccordo con l’area perugina. Ecco cosa può essere la potenzialità della “città toscana” come frontiera dell’Italia della competitività. •

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“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perse-

guimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito na-zionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL). Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana... Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro mo-menti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi... Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.In questo celebre discorso pronunciato all’Università del Kansas il 18 marzo del 1968, Robert Kennedy rese pubbliche le crescenti diffidenze rispetto all’utilizzo del PIL come indicatore del benessere delle nazioni, facendo proprie le critiche che già si erano diffuse nell’opinione pubblica americana. Il PIL, strumento elaborato da Kuznets nel 1934, all’indomani della grande crisi, è stato fino ad oggi l’indicatore che tutti hanno usato per definire il livello di attività economica, ma la sua inadeguatezza a descrivere il benessere fu sottolineata dal suo inventore già alla presentazione dell’indice. Il fatto che spesso ci sia stata una correlazione positiva tra l’aumento del PIL e quello di alcuni degli elementi del benessere sociale, ha reso il suo aumento un obiettivo primario di ogni governo ed ha portato a perdere il senso delle parole di Kuznets.Oltre a non essere tecnicamente valido per misurare il flusso di ricchezza di una nazione, il PIL non tiene poi conto di una serie innumerevole di fattori quali il tempo libero, la produzione domestica, la qualità dell’ambiente e della vita, la povertà e le disuguaglianze. Dà insomma solo una valutazione semplicistica ed approssimativa di un flusso, non può quindi essere la stella polare dei gover-

nanti; né il suo aumento, l’obiettivo ultimo di una società.La “Commission on the measurement of economic per-formance and social progress”, coordinata da Stiglitz, Amartya Sen e Fitoussi e composta da sociologi, politici ed economisti di fama mondiale, ha provato, stimolata dal presidente francese Nicolas Sarkozy, a lavorare su un tema controverso come questo, conseguendo un risultato non banale: aver portato nell’arena politica una discus-sione del genere nel momento in cui si cercano nuovi modelli di sviluppo alternativi a quelli stroncati dalla crisi finanziaria ed economica, e screditati dalla devastazione dell’ambiente e della biodiversità.Abbiamo insomma bisogno più che mai di un nuovo faro per le politiche pubbliche, ma per la sua costruzione è fondamentale sciogliere un nodo prioritario: cosa è be-nessere? La qualità della vita è un concetto più ampio rispetto alla produzione economica e al tenore di vita, comprende infatti un’intera gamma di fattori. Solo con l’attenzione alla multidimensionalità della misura del be-nessere, che tocca le condizioni economiche ma anche l’educazione, la salute, la qualità della democrazia, le reti sociali, l’ambiente, la vivibilità delle nostre città, la ca-pacità di spostarsi, la dimensione del lavoro ed il suo rap-porto coi tempi di vita, la sicurezza, le disuguaglianze, il rapporto con lo straniero, potremo dare risposte al futuro. Questi devono essere elementi centrali con cui pro-muovere un’idea di sviluppo forte e innovativa.Per ripartire, tanto in Toscana quanto in Italia, diventa imprescindibile un ragionamento sulla sostenibilità del modello di sviluppo, tanto ambientale, quanto eco-nomica, politica quanto sociale. La nostra regione ed il nostro Paese hanno bisogno di cambiare il sistema eco-nomico e produttivo, provando a rompere l’ossimoro tra sviluppo e sostenibilità. Senza limitare la dimensione di quest’ultima al solo aspetto ambientale. In questa ottica una crescita del PIL fine a se stessa non sarà in grado di offrire ai cittadini un maggior benessere: per una Sinistra che intenda reinventare un paradigma di sviluppo, la con-siderazione per cui il PIL deve essere uno strumento di governo, e non un suo fine, deve essere centrale.

Il PIL, e poi? di ANDREA GIORGIO

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Il modello di piccola impresa è al capolinea?A seguito della recente crisi che ha colpito così pe-

santemente anche l’economia italiana la riflessione sullo sviluppo locale è tornata ad assumere toni spesso critici, come del resto è sempre accaduto negli ultimi decenni ogni volta che si presentava una crisi più acuta.Del resto, anche prima del biennio 2008-2009 si era a lungo parlato di presunto declino della nostra economia, attribuendo la principale responsabilità proprio ad alcune caratteristiche strutturali del nostro sistema eco-nomico: la prevalenza di piccole e piccolissime imprese, la specializzazione in settori tradizionali, più esposti alla concorrenza dei paesi emergenti.La Toscana si identifica perfettamente con tale modello: è terra di piccole e piccolissime imprese specializzate nella produzione di beni di consumo durevole e semidu-revole; quindi il presunto declino dell’economia italiana trova nella Toscana uno dei suoi esempi più rappresen-tativi.Ed in effetti a partire dalla seconda metà degli anni no-vanta anche l’economia toscana rallenta la propria cre-scita, così come accade però alla maggior parte delle regioni del paese: pertanto, se per l’Italia si tratta di de-clino, anche la Toscana non si può sottrarre a questa de-finizione. I sistemi di piccola impresa, così dinamici nei decenni precedenti – ma in Toscana già gli anni ottanta segnano un significativo differenziale negativo rispetto alle altre regioni – sarebbero oggi incapaci di reggere la concorrenza mondiale perché, a seguito dell’ingresso nel palcoscenico internazionale di nuovi paesi, non hanno saputo adeguare la propria struttura produttiva inve-stendo, come sarebbe stato necessario, in ricerca, innova-zione ed internazionalizzazione. Del resto sono proprio questi i limiti della piccola impresa che, se da un lato è, più della grande, in grado di garantire flessibilità, dall’altro non ha risorse sufficienti da investire in modo strutturale in tali attività.

Sviluppo locale e sistemi di PMI: quale legameAnche se sviluppo locale e sistemi basati sulla piccola

impresa non sono la stessa cosa, la presunta debolezza del modello della piccola impresa porta con sé anche una messa in discussione dello concetto stesso di sviluppo locale.Nell’economia globalizzata in cui le distanze si affievo-liscono è ancora possibile immaginare uno sviluppo che basa le sue radici sulla conoscenza contestuale, in cui la prossimità tra gli attori gioca un ruolo centrale? Il ter-ritorio può essere ancora considerato protagonista dello sviluppo? È giusto continuare a pensare che è proprio nel territorio che sono radicate e tramandate le conoscenze e che da lì non fuggiranno altrove?Questa discussione parte da lontano; in essa proprio l’Italia centrale ha avuto un ruolo particolare, soprattutto perché qui, più che altrove, si è affermato un modello particolare in cui la piccola impresa non nasce da processi di decentramento guidati dalla grande, ma si sviluppa in modo autonomo; nasce, cioè, dal basso, sfruttando abilità imprenditoriali presenti nel mondo agricolo (la mezzadria) e conoscenze produttive presenti nello stesso mondo contadino e in quello artigianale. L’enfasi posta sullo sviluppo locale nasce prevalentemente da questa esperienza; è proprio in Toscana che l’Irpet di Giacomo Becattini “scopre” il modello di piccola impresa, av-viando quel dibattito sullo sviluppo locale che ha avuto in seguito così tanti seguaci.

Due, tre tante ItalieIl filone di studi sullo sviluppo locale che si è affermato da quei primi studi rifugge dalle spiegazioni dello svi-luppo italiano allora in voga, non solo quelle più tra-dizionali, basate sul dualismo nord-sud, in cui un nord industrializzato attira forza lavoro da un sud depresso e quasi esclusivamente agricolo; ma anche quelle che puntano a testimoniare la presenza anche di una terza Italia, corrispondente sostanzialmente alle regioni cen-trali, e un po’ frettolosamente dimenticata dalle versioni dualistiche.Il filone di studi sullo sviluppo locale a queste rappre-sentazioni a due o tre Italie, contrappone quella di

C’è un po’ di sud dappertuttodi STEFANO CASINI BENvENUTI

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uno sviluppo “a pelle di leopardo” fatto di tanti si-stemi locali ciascuno con le sue caratteristiche, con le sue specializzazioni. Molti di questi sistemi locali sono caratterizzati dalla diffusa presenza di piccole imprese tra loro strettamente interconnesse o perché si distribu-iscono le diverse fasi del processo produttivo, o perché realizzano varianti dello stesso prodotto. Sono questi i si-stemi più rappresentativi del concetto di sviluppo locale, ma non mancano sistemi diversi in cui, invece, a guidare lo sviluppo sono alcune grandi imprese attorno alle quali ruotano piccole imprese legate alle prime da rapporti di subfornitura.In ogni caso, il territorio gioca un ruolo fondamentale dal momento che sempre le imprese che vi si localizzano – e, soprattutto, mantengono lì la loro localizzazione – lo fanno perché in quell’ambito trovano quelle economie esterne all’impresa in grado di rendere le loro produ-zioni più competitive. I fattori che generano tale mag-giore competitività possono essere i più diversi, ma sono in larga misura riconducibili alle conoscenze presenti in quell’ambito territoriale. Fino a che questo legame col territorio resiste il sistema locale si mantiene compatto ed interconnesso e in grado di produrre e, soprattutto, ripro-durre nel tempo sviluppo economico e, più in generale, benessere alle popolazioni che vi sono insediate. Per questi motivi quel sistema può essere riconosciuto come un “luogo” con le sue specificità distinto da altri “luoghi” con specificità diverse, ma anche dai “non luoghi”, ambiti territoriali in cui non vi è invece la capacità di produrre e riprodurre un proprio modello di sviluppo.

Si può tornare a parlare di nord-centro-sud?Come dicevamo, questa visione allenta di fatto il ruolo delle categorie di nord-centro-sud, riconoscendo i “luoghi”, ovunque essi siano situati, come i veri prota-gonisti dello sviluppo. Certo la diffusione di tali luoghi è diversa nelle diverse parti del paese, recuperando in parte il significato delle macroaree geografiche tradizionali.In realtà, nell’immaginario collettivo, ciò che si associa alle tre aree geografiche è un certo modo di fare sviluppo: nel nord esso sarebbe trainato dalla grande impresa, nel sud sarebbe determinato da diffuse forme di assistenzia-lismo in grado di sostenere la domanda locale, nel centro si sarebbe affermato un modello di sviluppo dal basso basato su sistemi locali di piccole imprese.Se accettiamo questa rappresentazione stilizzata dell’eco-nomia del Paese, è però facile scoprire che in realtà c’è un nord, un centro e un sud dappertutto: è solo il dosaggio dei tre ingredienti che è diverso.Cos’è un sistema localePer comprendere bene cosa intendiamo dire, dobbiamo

partire dall’idea che un sistema economico locale per considerarsi tale deve avere alcuni caratteri. Dovrà avere un sistema di imprese, una pubblica amministrazione in grado di fornire ai cittadini i beni e servizi di cui hanno bisogno, ma siccome nessun sistema è autosufficiente ciò richiederà di importare i beni e servizi che le im-prese locali non sono in grado di produrre da sole. Questi beni e servizi – fondamentali per garantire il livello di benessere ai residenti – dovranno essere pagati e questo può avvenire in due modi diversi: o esportando almeno altrettanti beni e servizi o ricevendo redditi dall’esterno.Stilizzando all’estremo questa rappresentazione possiamo dire che ogni sistema sarà fatto di due pezzi: uno rivolto a soddisfare i bisogni dei residenti, l’altro volto a recu-perare le risorse per garantirsi l’acquisto dei beni e servizi necessari per soddisfare i bisogni. Si comprende bene come i due subsistemi siano tra loro legati, ma si com-prende altrettanto bene che, mentre il primo accomuna un po’ tutti i sistemi locali rendendoli molto simili tra di loro, il secondo si basa sulle abilità produttive esistenti in ogni area e quindi caratterizza ogni sistema differen-ziandolo da tutti gli altri.Ad esempio, quando si parla del distretto tessile si pensa ad un sistema locale in cui il secondo subsistema è specializzato nel produrre tessile, differenziandosi per questo da quelli delle calzature, della pelletteria, e così via. Puntando sulle differenze si trascura, però, il fatto che all’interno di ognuno di questi sistemi esiste anche un complesso di attività più o meno presenti ovunque (imprese commerciali, cinema, scuole, asili nido, tra-sporti, eccetera).Insomma il dibattito sullo sviluppo locale enfatizzando le specializzazioni di ogni luogo ha dimenticato le co-munanze.

Fronte e retroviaIn “Toscana2030” l’Irpet ha cercato di richiamare l’at-tenzione proprio sulle comunanze utilizzando una felice definizione di Grillo M. (Dentro un’economia che non gira, Il Mulino, Bologna, 2004) che suddivide le imprese in imprese che stanno sul fronte e imprese di retrovia. Questa rappresentazione è estremamente efficace per rappresentare i due subsistemi sopra descritti. Nel primo subsistema – quello volto a soddisfare i bisogni locali – stanno le imprese “di retrovia” le quali operano spesso in un regime protetto e possono permettersi di sopravvivere senza grandi sforzi; nel secondo subsistema stanno so-prattutto le imprese “sul fronte” costrette ad essere effi-cienti e competitive se vogliono sopravvivere nella com-petizione mondiale.La domanda che allora è legittimo porsi è se la difficoltà

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del sistema produttivo toscano (ma anche nazionale) sia attribuibile solo al secondo subsistema fatto soprat-tutto di Pmi aperte alla concorrenza internazionale, o sia invece determinato anche dalle inefficienze del primo, rimasto per lungo tempo protetto da tutta una serie di limiti posti allo sviluppo della concorrenza.In questo senso diciamo che vi è un po’ di sud dapper-tutto, perché in effetti molte aree del mezzogiorno hanno potuto mantenere una forte presenza di attività di re-trovia, la cui inefficienza ha spesso garantito la creazione di un buon numero di posti di lavoro. In parte però questo meccanismo si è diffuso anche nei sistemi produttivi del centro e del nord del paese e rappresenta oggi forse uno dei problemi principali per la crescita della nostra eco-nomia.Quando in questi anni si è parlato di rendita come freno dello sviluppo si faceva in realtà riferimento a molte delle attività che stanno in questa parte dei singoli sistemi locali, la cui consistenza è divenuta crescente costituendo una vera e propria zavorra per la parte restante del si-stema produttivo.Questo non deve servire a scagionare il sistema che sta “sul fronte”, in quanto evidentemente anche esso è stato a lungo protetto dalla concorrenza internazionale dalla costante svalutazione della lira avvenuta fino alla metà degli anni novanta. Effettivamente le piccole imprese dei nostri sistemi locali trovatesi di fronte alla concor-renza internazionale, senza avere più la protezione della moneta, hanno manifestato tutte le loro debolezza; ma

tra queste occorre considerare anche il basso livello dei servizi fornito dalle imprese di retrovia, tra cui anche quello della pubblica amministrazione. Recuperare com-petitività non significa solo far sì che le imprese sul fronte siano in grado di investire in innovazione, ma significa che anche la restante parte del sistema, dalle banche alle imprese di trasporto, dagli asili persino al panettiere, siano sottoposti alle stesse tensioni costringendoli ad in-novare e ad essere efficienti. Anche le loro inefficienze si scaricano su quelle delle im-prese aperte ai mercati internazionali. Tutto questo ragionamento naturalmente può essere in-terpretato esso stesso come una critica al concetto di svi-luppo locale: in effetti se le comunanze prevalgono sulle differenze non vi è più una specificità locale. In effetti un po’ ne siamo convinti; siamo convinti cioè che paradossalmente proprio nel paese in cui più si è af-fermato il dibattito sullo sviluppo locale la scarsa atten-zione a ciò che accadeva nel settore di retrovia (peraltro quantitativamente più rilevante) ha finito con l’attenuare le specificità dei luoghi accomunandoli un po’ tutti in un percorso di bassa crescita.Questo non significa che l’attenzione al territorio debba essere abbandonata; al contrario significa richiamare al fatto che tutti i soggetti presenti nei luoghi, dall’impresa esportatrice, al ristorante, dall’asilo nido al panettiere, concorrono a formare la competitività di quel luogo e che senza il concorso di tutti quel luogo è destinato a scomparire. •

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Santa Croce sull’Arno e Campi Bisenzio:due realtà di-verse sotto molti aspetti eppure simili per il modo con cui stanno affrontando l’importante e delicato tema del governo dell’integrazione delle proprie comunità. Eccel-lenze di un panorama – quello toscano – che si caratte-rizza sempre di più come terra di integrazione tra popoli, culture, religioni: sarà per le origini incerte dei suoi abi-tanti originari - gli Etruschi - che qualcuno vuole pro-venienti dall’Illiria (l’attuale Albania) o dai paesi asiatici.Citazioni storiche a parte, il sistema di città della To-scana – di cui Santa Croce e Campi Bisenzio sono le punte avanzate che non hanno però la presunzione di assurgere a idealtipo – si candida ad essere un vero e proprio laboratorio nazionale dove elaborare politiche che affrontino il tema dell’immigrazione, dell’integra-zione e dell’interazione tra generazioni e genti in modo alternativo a quello della destra che oggi ci governa.

Quello dell’inte(g)razione è uno dei banchi di prova per la classe dirigente che è chiamata a dare vita ad un nuovo progetto politico per l’area progressista.Occorre partire da un assunto: l’immigrazione non è più un fenomeno eccezionale, ma un dato strutturale che continuerà a caratterizzare il nostro pianeta, almeno fino a che esisteranno i profondi squilibri che lo caratte-rizzano oggi.L’arrivo di persone con storia, cultura, abitudini profon-damente diverse da noi rappresenta un elemento di po-tenziale difficoltà da governare e la fonte del possibile insorgere di conflitti sociali. Si tratta di un fenomeno che per il nostro Paese è piuttosto recente: per molto tempo siamo stati terra di emigrazione, basti pensare che nel XX secolo dall’Italia se ne sono andati 20 milioni di nostri connazionali. Sfide simili a quella che stiamo vivendo in questo periodo storico si fa fatica a trovarle nella storia del nostro Paese: qualcuno fa riferimento al fenomeno di migrazione interna che negli anni del boom economico portò migliaia di nostri connazionali dal me-ridione verso le regioni del centro-nord. Ma è una storia diversa, perchè al di là della diversità dei dialetti e delle usanze, c’era comunque un insieme di elementi – seppur

debole - che permetteva la tenuta sociale delle nostre co-munità: la lingua, la storia recente del nostro Paese, con la guerra di liberazione, la Repubblica, la Costituzione, i diritti civili e politici riconosciuti a tutti; e – dato non secondario – un’offerta di lavoro abbondante. Oggi il quadro complessivo è profondamente mutato. Non solo per effetto della crisi economica intervenuta negli ultimi anni, ma per le differenze che esistono sia tra italiani e immigrati che tra immigrati di diversa provenienza.

E allora come favorire le vie dell’integrazione? Penso occorra ripartire dalla città come progetto politico che prende corpo nello spazio, in un contesto però profon-damente mutato e caratterizzato dalla disponibilità li-mitata di risorse economiche, dalla debole strutturazione delle compagini partitiche, dall’evidente affaticamento delle tradizionali forme di rappresentanza.Non basta più (solo) il lavoro, primo obiettivo di chi ap-proda nel nostro Paese con la speranza di poter affrontare con maggiore dignità la propria esistenza: certamente esso è un fattore di integrazione molto forte, ma oggi la crisi ne mina il potere aggregante e lo trasforma – nella visione distorta della legge Bossi-Fini – in un ricatto.Non basta la scuola dove si pianta il seme della convi-venza e del rispetto in classi multietniche in cui la per-centuale di bambini con genitori stranieri supera abbon-dantemente il 50% (segno del contributo non solo eco-nomico ma anche demografico che i migranti danno ad una regione come la nostra che altrimenti avrebbe tassi di invecchiamento piuttosto alti e una ricchezza di di-versi punti inferiore).Non bastano le politiche sociali di assistenza e supporto ai soggetti più svantaggiati economicamente.Oggi la sfida investe ed interroga altri settori: dalle po-litiche per la casa, a quelle urbanistiche, fino a quelle at-tinenti la cittadinanza politica. Torna davvero al centro della riflessione la città come progetto politico e come insieme di soggetti capaci di esprimere a pieno la propria dimensione di cittadini. Serve un progetto politico che partendo dalle città sappia promuover nuove forme di interazione e cittadinanza.

Le vie dell’integrazionedi CRISTIAN PARDOSSI

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Da dove partire? La sfida è epocale per i temi che coin-volge. Una questione spinosa da cui partire, facendo chiarezza, è quella dell’identità. Quando ci riferiamo ai tratti identitari di una comunità non possiamo imma-ginarli come un insieme statico di elementi e caratte-ristiche. L’identità infatti – alla stregua del concetto di paesaggio – è intimamente legata a fenomeni antropici e sociali, che ne fanno mutare le caratteristiche nel lungo variare della vicenda umana: ci sono aspetti che oggi consideriamo irrinunciabili e che solo un secolo fa non facevano parte del nostro bagaglio identitario.Significa che per promuovere l’integrazione dobbiamo annullare la nostra identità? Assolutamente no: questa è stata una convinzione sciocca in cui è caduta anche una parte della sinistra nei decenni passati. Ma come è giusto non rinunciare alla nostra identità, al tempo stesso dobbiamo esser coscienti che anche chi arriva nel nostro Paese non è più disposto a rinunciarvi in cambio di inte-grazione e tolleranza. Ecco uno dei compiti di un nuovo progetto politico: costruire la nuova identità degli ita-liani, che attorno ad una nuova (forse la prima) religione civile sappia rilanciare spirito unitario e coesione sociale.Il cuore del problema sono le politiche di cittadinanza. Siamo un Paese in cui chi nasce sul nostro territorio, se ha genitori di altra nazionalità, non può essere cittadino italiano fino al compimento del diciottesimo anno di età. Una ferita inferta a chi nasce, cresce e sviluppa la propria rete di relazioni nel nostro stesso territorio: un vulnus che provoca in chi lo subisce un sentimento di estrania-mento, di integrazione incompiuta. Per questo il nuovo progetto politico che abbiamo l’ambizione di elaborare non può che partire da una legge nuova sul diritto di cittadinanza basata sul principio dello ius soli.I Comuni della nostra regione hanno portato avanti molte lodevoli iniziative per coinvolgere anche dal punto di vista civile e politico i migranti presenti sul territorio: dalle consulte, ai consigli per stranieri, sino al caso cam-pigiano in cui in giunta siede un assessore di origini cinesi. Oggi però, a fianco di questi strumenti serve una iniziativa politica nuova. La Toscana, terra di Comuni e municipalità, di case del popolo, ma anche di strutture

e associazioni espressione del cattolicesimo sociale più aperto e maturo, può trovare su questo tema il terreno su cui costruire un nuovo laboratorio di politica e cit-tadinanza, capace di interagire anche con le realtà che possono scaturire dal mutato quadro amministrativo di città come Milano, dove fino ad ora alla sordità del livello amministrativo faceva – per fortuna – da contraltare un forte impegno del mondo cattolico sociale e del volonta-riato di matrice socialista.La recente vicenda dell’accoglienza dei tunisini e del modo con cui la Toscana ha governato il loro arrivo, af-fermando un modello ragionevole e alternativo a quello del governo delle destre è un ulteriore esempio che di-mostra le potenzialità di questo progetto.La Toscana delle città è a sua volta una media città eu-ropea: un concetto ribadito nel PIT e caro al nostro presidente della Regione: è giunto il momento di co-struire un nuovo progetto politico per la “città Toscana”, che tragga dall’interazione tra i soggetti che la animano la forza per eliminare alcune sue tare storiche, guada-gnando in competitività, coesione sociale, dinamismo, e al tempo stesso sapendo aggregare attorno a questo pro-getto politico un nuovo blocco sociale (e geografico) in grado di rendere sempre più concreta la contendibilità del governo nazionale •

L’attività dell’Associazione “Romano Viviani” ha registrato negli ultimi mesi un’intensità crescente nella promozione di seminari, convegni, iniziative editoriali e siamo contenti dei tanti riconoscimenti che ci sono stati rivolti. Siamo soprattutto soddisfatti di aver trovato e in qualche caso ritrovato l’impegno attivo, fatto di partecipazione e di proposte, di tante persone a vario tipo qualificate.

Ricordare quanto fatto in pochi mesi, da febbraio a giugno 2011, non può essere considerato amarcord: abbiamo presentato il precedente numero di questa rivista, il primo nella nuova veste grafica, parlando di urbanistica, paesaggio, editoria, informazione” insieme al nostro caro amico Gianni Cuperlo; abbiamo presentato un quaderno sulle sfide dell’economia urbana, curato da Sara Di Maio e Chiara Agnoletti, con gli autorevoli autori e con la partecipazione di Guglielmo Epifani; abbiamo presentato e discusso un qua-derno sulla giustizia, curato da Silvia Della Monica, Massimiliano Annetta, Roberta Rossi e Stefano Pagliai interloquendo con i massimi esponenti del Foro fiorentino. Un grande impegno che ha attirato l’attenzione di tante persone.Sono in corso le Giornate di studio in preparazione del Piano Strutturale Territoriale di Coordinamento del-la Provincia di Firenze articolate in tre incontri seminariali di ottimo livello che sviluppano un ragionamento su frasi suggestive e significative di personalità della cultura politica e urbanistica italiana: “La città è un progetto politico organizzato nelle spazio”, “Non esiste l’urbanistica buona, esistono i buoni amministrato-ri”, “La città: il bello e il pittoresco”.

Il cammino intrapreso è ambizioso e impegnativo per un’associazione nata da soli tre anni che vuol essere un centro di cultura politica militante che realizza i propri obiettivi attraverso l’autofinanziamento, in modo da poter essere autonoma, ma con la volontà di coinvolgere altri soggetti che hanno la stessa ambizione, con l’idea di fornire un contributo alla cultura politica del centrosinistra. In questo senso sono per noi dav-vero sempre più decisive le collaborazioni con la Fondazione Italianieuropei e con il Centro studi del PD., con cui stiamo progettando iniziative future. Ci pare che il momento storico richieda uno sforzo in più in termini di contributi per l’elaborazione programmatica di un nuovo governo per l’Italia.

Sappiamo che l’autofinanziamento è faticoso (per questo vi invitiamo a facilitarlo compilando numerosi le schede di adesione qui a fianco), ma sappiamo e vogliamo ricordare a chi legge che è lo strumento prin-cipale e fondamentale per mantenere un’autonomia di iniziativa e una presenza. E noi vogliamo insistere nella fidelizzazione da cui nasce il volontariato che ci consente di andare avanti ogni giorno, con fatica ma con passione ed entusiasmo.

Proseguendo la nostra campagna di tesseramento 2011, vogliamo porgere un ringraziamento sincero e forte a tutti i vecchi e nuovi soci e un grazie a tutti i vecchi e nuovi volontari!

Marta RomanelliSegretaria di Redazione di Scelte Pubbliche

ASSOCIAZIONE ROMANO VIVIANI Via Cavour 38, 50129 Firenze (FI) tel. 055.283219 - e-mail: [email protected] - www.associazioneviviani.org

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Il sottoscritto Chiede con la presente di aderire

all’Associazione Romano Viviani, in qualità di Socio Studente Socio Effettivo Socio Sostenitore. A tal fine si impegna, entro 30 gg. dalla sottoscrizione della presente scheda di adesione, all’adempimento del pagamento della quota associativa prevista, pari a:

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Per regolarizzare l’iscrizione all’Associazione è necessario versare la quota associativa tramite:

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Il Socio dichiara altresì di aver letto e approvato il contenuto dello statuto dell’Associazione.

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Autorizzo l’Associazione Romano Viviani a rendere disponibili ai soli associati i campi con asterisco riportati nei Dati Socio della presente scheda.

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di WALTER TOCCIPer un’agenda riformista sulla rendita urbana

Oggi si parla molto poco di rendita urbana, proprio mentre il fenomeno è diventato fattore cruciale nell’allocazione delle risorse e nella regolazione dei processi. La sua potenza è aumentata in seguito all’intreccio con la rendita finanziaria. Il mattone ormai si comporta come un derivato, ci ricorda Giulio Sapelli. La rendita urbana è una prosecuzione della finanza con altri mezzi, per dirla con von Clausewitz.Paradossalmente l’attenzione è stata maggiore quando il fenomeno era meno rilevante nel ciclo economico. Certo la speculazione edilizia degli anni cinquanta e sessanta ha avuto un impatto disastroso nel territorio italiano, ma tutto sommato era espressione di settori arretrati rispetto alla trasformazione capitalistica.In un’intervista dei primi anni 70 Agnelli proponeva di combattere la rendita urbana perché provocava l’aumento degli affitti, la diminuzione dei redditi disponibili per i lavoratori e di conseguenza una maggiore conflittualità in fabbrica. Era l’argomento principale su cui poggiava l’offerta al movimento sindacale di un patto tra produttori. Venti anni dopo la Fiat e tutti gli altri grandi gruppi industriali danno vita ai fondi immobiliari per utilizzare le rendite come margini per le rispettive ristrutturazioni aziendali e come via di fuga dalla competizione internazionale.Da Sullo a Bucalossi il tema è stato centrale nell’agenda politica e nel dibattito pubblico. Perfino l’arte ha contribuito a denunciare il problema, ad esempio con il film Mani sulla città di Rosi e il romanzo La speculazione edilizia di Calvino. Per l’urbanista, infine, la rendita costituiva non solo un decisivo argomento disciplinare, ma perfino una tappa della formazione etico-professionale.Su tutto ciò è calato un lungo silenzio da quando la rendita è diventata la forza indisturbata dello sviluppo territoriale e parte integrante della finanziarizzazione dell’economia. Sono cominciati grandi

dibattiti sugli strumenti di pianificazione, sulla governance, sull’architettura istituzionale e ultimamente anche sul ritorno a strumenti emergenziali. Tutto ciò rivela non solo una difficoltà a governare i processi, ma anche una grave rimozione della causa strutturale di tale difficoltà. Tornare a occuparsi di rendita è quanto mai necessario se si intende governare davvero gli esiti della trasformazione.E su questo la Toscana può fare molto, perciò ho accolto con molto interesse l’invito del mio amico Riccardo a discuterne. Qui c’è un potere pubblico che pur giocando sulla difensiva lo ha fatto meglio di altre regioni italiane. E da qui può partire la controffensiva. D’altronde, le riforme sul territorio partono se c’è un territorio che fa da battistrada, come avvenne per i centri storici, forse l’esperienza migliore del riformismo italiano in urbanistica che prese avvio proprio dalle esperienze delle regioni rosse. Oggi, voi riformisti toscani avete la responsabilità di contribuire a riaprire su basi nuove il discorso nazionale sulla riforma urbanistica.Se non va dimenticata, la rendita non va neppure demonizzata. È pur sempre una produzione di valore. Ma la questione riguarda chi la produce e chi se ne appropria.A produrla sono gli attori collettivi. Non soltanto l’operatore pubblico con le infrastrutture, con le regolazioni d’uso dello spazio e in generale anche col buongoverno. Perfino la buona immagine di una città in tempi di marketing urbano è un forte fattore di crescita della valorizzazione immobiliare. Hanno ovviamente un peso rilevante anche i comportamenti collettivi privati per la cura degli immobili, per le attività che aumentano il prestigio e il glamour della città e in generale per la crescita economica. Lo squilibrio nasce dall’appropriazione da parte di pochi di questo valore che nasce dall’impegno di molti. E anzi si può verificare il paradosso che ad appropriarsene sia anche il proprietario che

non ha contribuito alla valorizzazione. Se in una strada vengono restaurate le facciate dei palazzi l’aumento di valore sarà acquisito anche dal proprietario che non lo ha fatto.Questa appropriazione non solo è ingiusta ma è anche inefficiente. Se infatti la rendita non cadesse nelle mani di pochi speculatori, ma rientrasse nel circuito di valorizzazione in termini di investimenti pubblici farebbe crescere la stessa valorizzazione. Una città che sa governare l’immobiliare aumenta sia la ricchezza pubblica sia quella privata. Al contrario, l’appropriazione privatistica avvantaggia solo alcuni e di solito produce bolle immobiliari che a lungo andare esplodono e determinano un impoverimento generale, come si è visto anche nell’ultima crisi.Quindi è necessaria una nuova agenda del riformismo urbanistico e deve comprendere almeno tre problemi.

Investimenti – Sulla base di parametri calcolati dal Cresme per l’anno 2006 si può stimare la rendita totale italiana, intesa come la differenza tra prezzi di vendita e costi di realizzazione comprendendo un alto utile di impresa del 25%, in un ordine di grandezza

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di 15-20 miliardi di euro. Se questo plusvalore fosse acquisito dal pubblico si potrebbe finanziare ogni anno un poderoso programma di infrastrutture. Invece, i proprietari, non contenti di impadronirsi della quasi totalità di tale valore, pretendono altri diritti edificatori per realizzare le infrastrutture, secondo la moda ormai diffusa del project financing. Le costruzioni aggiuntive richiedono evidentemente ulteriori infrastrutture non compensate dai miseri interventi a carico del proprietario, il quale incamera in questo modo una quota aggiuntiva di rendita e scarica sulla collettività ulteriore deficit in termini di servizi pubblici. Tutto questo avviene sulla base del falso alibi della mancanza di risorse pubbliche. È vero esattamente il contrario, i comuni non hanno soldi perché lasciano la ricchezza al proprietario e questo fingendo di risolvere la penuria pubblica in realtà la aggrava e se ne avvantaggia. Che tutto ciò avvenga senza alcuna consapevolezza dell’opinione pubblica è sintomatico di come il partito della rendita sia riuscito i questi anni a imporre il suo primato.Bisognerebbe prima di tutto restituire trasparenza a queste transazioni che mettono in gioco valori di gran lunga superiore ad ogni

altra politica comunale. Esiste un’evidente asimmetria informativa che andrebbe colmata con un obbligo normativo a produrre una sorta di Certificato delle rendite e dei costi almeno per le operazioni urbanistiche più importanti per dare la possibilità di verificare la tutela dell’interesse pubblico.Ma soprattutto andrebbe completamente rivista la materia degli oneri urbanistici e concessori, oggi gestita scandalosamente a favore della proprietà, con adeguamenti in grave ritardo rispetto alle dinamiche di mercato e senza alcun riferimento agli effettivi costi scaricati sulle casse comunali dai piani urbanistici realizzati. Si tratta di riportare a un minimo di decenza questo strumento di controllo economico della trasformazione, facendo in modo che tutti i costi pubblici siano coperti dalla formazione della rendita. E i costi vanno calcolati non solo all’interno dei piani urbanistici, come si fa oggi, ma comprendendo quelli delle infrastrutture di collegamento con il sistema urbano. Questo ampliamento di scala, tra l’altro, renderebbe molto più costosi per i proprietari gli insediamenti più esterni ai centri abitati e avrebbe l’effetto di contenere il consumo di

suolo e di favorire il recupero urbano.Tutto ciò si riferisce solo alla rendita che si genera nella trasformazione urbanistica, ma ormai, con la finanziarizzazione, molto più importante è la rendita che emerge nelle compravendite dello stock edilizio esistente. Qui si può intervenire per via fiscale, ripristinando quel principio di tassazione dei plusvalori comunemente accettato quando la rendita era un fenomeno agricolo e si parlava di contributi di miglioria. Oggi nelle compravendite la tassazione è inferiore alle parcelle dei notai e si aggira intorno al 5% dei valori immobiliari, senza tenere conto della valorizzazione accumulata nel tempo poiché non dipende dal periodo di possesso. In un’intervista (“Corriere della Sera” del 26-1-2011) Pellegrino Capaldo, che non è certo un estremista, si è spinto a immaginare una tassazione più alta fino a coprire la metà del debito pubblico italiano. La sua proposta è stata demonizzata da tutti i difensori dello status quo, a cominciare dal presidente del Consiglio intervenuto appositamente per bloccare quella che era solo un’ipotesi giornalistica. Nessuno dei solerti critici è riuscito comunque a proporre una soluzione alternativa per ridurre il debito almeno nella

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quota che ormai impongono le regole europee, se non una serie di manovre economiche da 50 miliardi l’anno che impedirebbero qualsiasi investimento pubblico e metterebbero in ginocchio la nostra economia. Comunque tra l’ipotesi “rivoluzionaria” di Pellegrino Capaldo e il non far niente ci sono tante possibili strade intermedie che consentirebbero un forte rilancio degli investimenti pubblici sul territorio italiano.

Concorrenza – Si trascura spesso l’importanza per il soggetto pubblico di poter confrontare proposte progettuali diverse prima di decidere l’attuazione di un piano urbanistico. Se questo potesse essere messo in gara, sulla base di chiare prescrizioni comunali, si avrebbe un confronto competitivo sulla qualità, sulle funzioni, sui costi e sul vantaggio pubblico della valorizzazione. Oggi tutte questi aspetti sono condizionati fortemente dal monopolio della proprietà, la quale costituisce anche un collo di bottiglia nella scelta delle funzioni da insediare. Il mercato della proprietà è infatti molto più piccolo di quello della domanda di localizzazione. Per questo di solito si procede a ondate successive, spingendo una determinata funzione fino alla saturazione prima di individuare un altro tipo di attività. Il territorio italiano porta i segni di queste vere e proprie mareggiate, dal residenziale, al terziario e ai grandi centri commerciali. Le funzioni innovative rimangono così negli auspici della retorica dei sindaci e di improbabili agenzie di sviluppo territoriale che non hanno alcun potere verso i decisori della rendita.Anche nel caso di suoli pubblici si tende a ripristinare la condizione di monopolio procedendo alla sdemanializzazione prima di approvare il piano urbanistico. Oggi, invece, proprio in questo campo si potrebbe giocare una carta molto importante per introdurre qualità urbana e affrontare alcune priorità come l’offerta di alloggi in affitto. Se nelle sdemanializzazioni in corso si procedesse, dopo un’attenta pianificazione urbanistica, mediante strumenti competitivi si otterrebbero diversi risultati positivi:

massimizzazione dei vantaggi pubblici, certificazione competitiva dei costi e delle rendite delle trasformazioni, diversificazione e innovazione delle funzioni, promozione di un’imprenditoria qualificata per la capacità realizzativa e non per il gioco sulle aree. Tutto ciò definirebbe uno standard favorevole al pubblico che diventerebbe poi ineludibile anche per i per i piani gestiti dai privati.

Indifferenza – È un vecchio sogno dell’urbanistica riformista quello di liberare

la matita del progettista dai condizionamenti della proprietà. Per tale obiettivo sono stati pensati due strumenti: nel primo trentennio repubblicano si è puntato all’esproprio preventivo delle aree, mentre nel secondo trentennio è prevalsa l’idea della compensazione dei diritti edificatori. Si potrebbe fare una storia degli errori e dei fraintendimenti che si sono accumulati nell’esperienza pratica e nel dibattito teorico. Ma una cosa è certa, nessuno dei due approcci è riuscito a realizzare l’auspicata indifferenza, a parte alcuni casi

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meritori. In particolare, il secondo strumento, l’unico legittimato oggi nella pratica e nella teoria del mainstream urbanistico, dovrebbe essere sottoposto ad un’analisi sincera dei risultati ottenuti. Si può facilmente concludere che si è rivelato una barriera piuttosto fragile di fronte alla potenza della nuova rendita alleata con la finanza. Sono evidenti i suoi fallimenti rispetto a tutti e tre i problemi qui indicati. Il riparto di rendita a favore degli investimenti pubblici è stato piuttosto scarso nella quantità e poco trasparente nella modalità

attuativa. La concorrenza è stata negata poiché la perequazione rafforza il monopolio dei proprietari trasformando in molti casi i diritti edificatori in beni senza limiti temporali che si possono trasferire a piacimento nel territorio, come se il comune fosse una zecca immobiliare. E specificatamente non si è realizzata certo l’indifferenza progettuale, come si può vedere dal dilagare dello sprawl nell’area vasta. Mai come negli ultimi tempi la proprietà immobiliare è stata padrona assoluta delle scelte localizzative, come mostrano quasi

tutte le vicende urbanistiche delle città italiane.È il momento di immaginare nuove politiche urbane. Il problema dell’indifferenza rispetto al proprietario non è una questione insormontabile. Anzi, su di esso la teoria economica si è impegnata molto negli ultimi tempi ma soltanto per il caso della liberalizzazione delle reti dei servizi pubblici. Sono state proposte soluzioni sofisticate per impedire all’incumbent di condizionare l’accesso dei concorrenti, dalla separazione proprietaria, all’Authority che detta le regole di gestione, ai contratti pubblici di accesso alla rete e così via. In teoria il problema di limitare i diritti proprietari per favorire la concorrenza è analogo a quello che si presenta nella regolazione urbanistica. Anzi, in questo caso è più facile perché la limitazione si rende necessaria solo nel momento della trasformazione, mentre nelle reti si protrae nel tempo. Eppure nessuna attenzione è stata riservata da questa impegnativa elaborazione teorica verso la regolazione della rendita urbana. A conferma che la teoria economica ortodossa va sempre dove la porta il cuore. Però, gli economisti dovrebbero aver capito che la belva immobiliare tanto trascurata dai loro studi è cresciuta ed è diventata tanto forte da demolire il castello di concorrenza perfetta costruito nei modelli econometrici, come si è visto con la recente crisi globale, originata non a caso dai subprime dei mutui immobiliari.Ci sarebbe bisogno di nuovi approcci da parte della cultura economica per riscoprire il territorio come fattore di ricchezza collettiva. Lo scoprì proprio in Toscana negli anni settanta il filone di ricerca allora eretico che iniziò a studiare i distretti. Oggi, qualcosa di analogo servirebbe per comprendere la forza delle città nell’economia della conoscenza. Ma questa prospettiva di crescita e di innovazione si può aprire solo se si riduce il potere della rendita nelle decisioni strategiche della città. A tale scopo sarebbe necessaria l’elaborazione di nuovi strumenti di regolazione integrando le competenze di economisti, urbanisti, giuristi e politici. Con la consapevolezza che non è solo una questione tecnica. La chiamiamo indifferenza, ma è la sovranità della democrazia nella città.

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di PIER FRANCESCO NISTRI

DIzionario

La parola bellezza. Al contrario della pa-rola ‘bruttezza’ che oggi ha molte declinazioni (la bruttezza delle periferie, la bruttezza della politica etc.), la parola bellezza è caduta in disuso, la si pronuncia poco quasi per pudore. Nelle arti – che sono il suo regno – si parla di emozione, sperimentalismo, innovazione, ma un galateo diffuso impedirebbe di dire che il Davide e la Gioconda sono ‘belli’. Nella sua Sto-ria della bellezza Umberto Eco dice giustamen-te che il nostro secolo ne ha perduto i canoni precisi sicché gli artisti giocano più sull’emo-zione che sull’estetica. Mi diceva un eminente critico inglese che quando ha chiesto a qual-cuno un esempio di bellezza quasi tutti hanno risposto descrivendo un paesaggio. La bellezza dunque, sarebbe finita proprio laddove le insi-die del degrado sono più forti.Da sempre la bellezza è stato un attributo co-

niugabile con la donna. Ma oggi perfino la cosmetica preferisce parlare di snellezza, linea, benessere, forma, gioventù anziché di dichia-rare il traguardo più ambito, cioè appunto la bellezza. Perfino delle automobili si decanta la velocità, la comodità, la sicurezza, piuttosto che la bellezza della forma.La parola bellezza sembra rifugiarsi in alcune, velatamente triviali, espressioni domestiche: ‘una bella giornata’, ‘una bella mangiata’ etc.Forse tutto ciò deriva dall’aver perduto da tem-po, quello che gli antichi chiamavano il concet-to del sublime. E poi la bellezza è un dono e noi oggi viviamo nel mondo utilitaristico.Eppure nelle masse un desiderio e quasi un bisogno di bellezza esiste, basti pensare al grande successo del turismo nelle città d’arte. La bellezza è ormai piuttosto un antidoto che una speranza.

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La tigre senza rete. In Vietnam Facebook non funziona. Come in altri regimi anche qui il governo comunista teme evidentemente che proprio sulla rete possano coagularsi forme di dissenso organizzate, soprattutto tra i giovani. Una limitazione che stride particolarmente in un Paese ad alto tasso di sviluppo tecnologico e soprattutto straordinariamente giovane.A parte che sui social network, navigare in rete a Saigon è più facile che a Firenze, quasi tutti gli esercizi commerciali, dai ristoranti agli alberghi, dai bar ai centro commerciali hanno una propria rete wi-fi che deve essere aperta e accessibile a tutti. Ne viene fuori così in prati-ca una gigantesca rete di connessione libera e gratuita che permette appunto di navigare su internet in quasi tutta la città. Certo Saigon è il centro economico del Paese ma qualcosa del genere si trova anche ad Hanoi e nelle principa-

li città della costa, quelle più turistiche.Quello vietnamita è un popolo giovane e in continua crescita. Il Vietnam ha raddoppiato la popolazione negli ultimi cinquanta anni e pro-mette di fare altrettanto nei prossimi venti. La maggior parte dei vietnamiti ha meno di qua-ranta anni e si vede. I giovani sono ovunque, soprattutto nelle città e si danno un gran da fare, le donne ancora di più. Sorprende per noi “paese di vecchi” vedere tanti ragazzi all’opera. Negli alberghi non si vede mai al lavoro una persona di più di venti anni, i ristoranti sono in mano a bande di ragazzini, giovani donne portano le barche sul Fiume Rosso e si inventa-no imprenditrici turistiche, i tassisti sembrano appena usciti da scuola, nelle banche e negli uffici turistici si fa fatica a credere che chi ti sta davanti sia lì a lavorare tanto è giovane. Quel 60% di popolazione sotto i 30 anni è uno dei

vantaggi competitivi di questo Paese che è di-venuto progressivamente una delle economie più veloci al mondo (con una crescita media annua dell’8% tra il 1990 e il 1997, del 6,5% tra 1998 al 2001, del 7,7% tra 2002 e 2006 e del 6% tra 2007 e 2009). Una ricchezza che in parte è stata redistribuita, almeno nelle città, visto che il salario pro capite medio annuo è passato dai 200 dollari del ’93, a quasi 500 nel 2003, fino ai 1.000 del 2009. Giovani e sempre più ricchi tanto che per comprare una casa da 200.000 dollari bisogna partecipare a una lot-teria tanta è la richiesta, per avere un motorino da 1.000 euro in su c’è la fila e sulla terrazza del Hyatt Hotel si serve brandy francese da 4.000 dollari a bottiglia.Solo nei mercati si vedono donne anziane offri-re le proprie verdure, anche qui l’agricoltura “è roba per vecchi e disgraziati”.

di MAURIZIO IZZO

LONTANO

Il trasporto pubblico, Il nostro mestiere

I numeri contano. Comprare 1000 litri di acqua in bottiglia all’anno costa 250 euro.

Nello stesso periodo si pagano 240 euro per 110.000 litri di acqua del rubinetto, per la fognatura e la depurazione.

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1 centesimoSuona bene.

Organo dell’Associazione Romano Viviani, periodico quadrimestrale.

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5671 del 13 agosto 2008.

Associazione Romano Vivianivia Cavour, 38 - 50129 Firenze www.associazioneviviani.org

Direttore editoriale: Riccardo Conti

Direttore responsabile: Pier Francesco Listri

Tipografia: Nuova Grafica Fiorentina, Firenze

Le illustrazioni di questo numero sono tratte dal volume Firenze espone la grande avventura fiorentina del 1861 con uno

sguardo sul ventesimo secolo di Pier Francesco Listri. Le Monnier, Firenze 1992.

Grafica, editing, impaginazione:Edizioni SICREA via Maragliano, 31A - 50144 Firenze

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Numero DUE - giUgNO 2011

Organo dell’Associazione Romano Viviani - periodico quadrimestrale

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