scelte pubbliche 3 firenze dopo

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1 Scrivo queste note mentre il senatore a vita, Mario Monti, completa le sue consultazioni per la formazione del nuovo governo. Davanti a lui, e a tutti noi, ci sono una strada acciden- tata e molti ostacoli da superare. Ma il primo enorme scoglio il paese lo ha oltrepassato nei giorni scorsi: la caduta di un governo che da oltre un anno aveva esaurito ogni funzione e restava in sella a dispetto dei santi solo in ra- gione di un pugno di deputati accorsi al ca- pezzale del morente non certo per amor di patria. Altri, in questi giorni, hanno stilato l’elenco di abbagli e gaffes che hanno con- trassegnato la vita dell’ultimo esecutivo pre- sieduto da Berlusconi. Sono istantanee, bat- tute, volti, che resteranno scolpiti nella me- moria e anche tra parecchio tempo la mag- gioranza degli italiani se ne ricorderà come dei segni di una delle stagioni più tristi e de- clinanti del nostro spirito civico e del nostro orgoglio nazionale. Giustamente Bersani, da- vanti al popolo democratico di Piazza San Giovanni, ha detto che l’Europa della destra ha la colpa di aver mancato l’appuntamento con la storia, ma la destra italiana ha la re- sponsabilità di avere sprofondato un grande paese nel ridicolo. E anche di questo, prima o dopo, dovranno rispondere. Adesso quel ciclo si è chiuso. Speriamo per sempre. E si avvia un’altra fase nella quale conteranno di nuovo parole che il loro lessico aveva archiviato: so- brietà, responsabilità, bene comune, interesse generale, avvenire e futuro delle generazioni più giovani. Di questo il governo entrante do- vrà occuparsi. Il che non significa sottovaluta- re il peso condizionante dello spread o la col- locazione da qui ad aprile dei duecento mi- liardi di euro in titoli pubblici che giustamente il capo dello Stato ha indicato tra le urgenze del nuovo esecutivo. Ma le due dimensioni si tengono. Guai a noi se cedessimo all’idea che tutto si racchiude nell’emergenza finanziaria e dei nostri conti. La sfida vera è agganciare le misure necessarie sul fronte della finanza di Gianni Cuperlo EDITORIALE 1 Editoriale di Gianni Cuperlo 3 Scenari di crisi: la situazione dell’Italia. Intervista a Massimo D’Antoni e Annalisa Tonarelli a cura di Sara Di Maio, Andrea Vignozzi 10 Dopo le alluvioni, territori fragili. Intervista a Silvia Viviani a cura di Sara Di Maio 13 Le reti che fanno crescere l’Italia: un primo commento sul convegno di San Casciano di Michele Giardiello Firenze dopo 16 Qualche riflessione su Firenze, la sua storia recente, il suo contesto territoriale di Riccardo Conti 21 Firenze “frontiera” del nuovo Nord di Paolo Perulli 27 La Città di città di Mauro Grassi e Stefano Casini-Benvenuti 30 Dalla mobilità fisica alla mobilità sociale di Mirko Dormentoni e Valerio Vannetti 35 Pedonalizzare e costruire città di Leonardo Rignanese 37 La città del futuro tra innovazione e tecnologia di Giacomo Scarpelli e Lorenzo Zambini 40 L’ospitalità come risorsa di Giandomenico Amendola 42 Per una logistica creativa: appunti per un’ipotesi di lavoro di Paolo Sorrentino 46 Nuovi paesaggi urbani di Giuseppe De Luca 49 Considerazioni su PD, urbanistica e rendita urbana di Stefano Stanghellini 53 Lontano di Maurizio Izzo segue a pag. 2 Il nuovo ponte della tramvia

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Numero 3 Scelte Pubbliche Firenze dopo

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Scrivo queste note mentre il senatore a vita, Mario Monti, completa le sue consultazioni per la formazione del nuovo governo. Davanti a lui, e a tutti noi, ci sono una strada acciden-tata e molti ostacoli da superare. Ma il primo enorme scoglio il paese lo ha oltrepassato nei giorni scorsi: la caduta di un governo che da oltre un anno aveva esaurito ogni funzione e restava in sella a dispetto dei santi solo in ra-gione di un pugno di deputati accorsi al ca-pezzale del morente non certo per amor di patria. Altri, in questi giorni, hanno stilato l’elenco di abbagli e gaffes che hanno con-trassegnato la vita dell’ultimo esecutivo pre-sieduto da Berlusconi. Sono istantanee, bat-tute, volti, che resteranno scolpiti nella me-moria e anche tra parecchio tempo la mag-gioranza degli italiani se ne ricorderà come dei segni di una delle stagioni più tristi e de-clinanti del nostro spirito civico e del nostro orgoglio nazionale. Giustamente Bersani, da-vanti al popolo democratico di Piazza San Giovanni, ha detto che l’Europa della destra ha la colpa di aver mancato l’appuntamento con la storia, ma la destra italiana ha la re-sponsabilità di avere sprofondato un grande paese nel ridicolo. E anche di questo, prima o dopo, dovranno rispondere. Adesso quel ciclo si è chiuso. Speriamo per sempre. E si avvia un’altra fase nella quale conteranno di nuovo parole che il loro lessico aveva archiviato: so-brietà, responsabilità, bene comune, interesse generale, avvenire e futuro delle generazioni più giovani. Di questo il governo entrante do-vrà occuparsi. Il che non significa sottovaluta-re il peso condizionante dello spread o la col-locazione da qui ad aprile dei duecento mi-liardi di euro in titoli pubblici che giustamente il capo dello Stato ha indicato tra le urgenze del nuovo esecutivo. Ma le due dimensioni si tengono. Guai a noi se cedessimo all’idea che tutto si racchiude nell’emergenza finanziaria e dei nostri conti. La sfida vera è agganciare le misure necessarie sul fronte della finanza

di Gianni Cuperlo

E D I T O R I A L E

1 Editoriale di Gianni Cuperlo

3 Scenari di crisi: la situazione dell’Italia. Intervista a Massimo D’Antoni e Annalisa Tonarelli a cura di Sara Di Maio, Andrea Vignozzi

10 Dopo le alluvioni, territori fragili. Intervista a Silvia Viviani a cura di Sara Di Maio 13 Le reti che fanno crescere l’Italia: un primo commento sul convegno di San Casciano di Michele Giardiello Firenze dopo16 Qualche riflessione su Firenze, la sua storia recente, il suo contesto territoriale di Riccardo Conti 21 Firenze “frontiera” del nuovo Nord di Paolo Perulli 27 La Città di città di Mauro Grassi e Stefano Casini-Benvenuti 30 Dalla mobilità fisica alla mobilità sociale di Mirko Dormentoni e Valerio Vannetti 35 Pedonalizzare e costruire città di Leonardo Rignanese 37 La città del futuro tra innovazione e tecnologia di Giacomo Scarpelli e Lorenzo Zambini 40 L’ospitalità come risorsa di Giandomenico Amendola 42 Per una logistica creativa: appunti per un’ipotesi di lavoro di Paolo Sorrentino 46 Nuovi paesaggi urbani di Giuseppe De Luca

49 Considerazioni su PD, urbanistica e rendita urbana di Stefano Stanghellini 53 Lontano di Maurizio Izzo

segue a pag. 2

Il nuovo ponte della tramvia

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pubblica e della rassicurazione dei principali detentori del nostro debito a un rilancio della crescita e a un pacchetto di misure che restituiscano alla parte più colpita dalla crisi la percezione di una volontà di giustizia e di equità dopo gli anni delle vacche grasse solo per alcuni. Ecco, da qui bisogna ripartire. Da un primato di quella solidarietà che troppo a lungo si è ritenuto di dover cancellare. Noi, come sempre, abbiamo messo in campo le nostre proposte. Sono chiare, semplici, immediate. Aggredire i costi della politica, dimezzando il numero dei parlamentari e sfoltendo con ragionevolezza la pletora di aziende partecipate dal pubblico. Met-tere a frutto le buone soluzioni avanzate sul terreno della lotta alla pre-carietà a partire dalla sola premessa in grado di scardinare l’assetto im-pallato del mercato del lavoro, la scelta di far pagare di più un’ora di la-voro precario rispetto a un’ora di lavoro stabile. E poi un pacchetto di misure per incrementare l’occupazione femminile con l’obiettivo di pa-reggiare in pochi anni lo standard medio dell’Europa, e questo perché in tempi di crisi il primo ammortizzatore sociale è se a fine mese in casa entrano due salari anziché uno soltanto. E ancora, affrontare il capitolo delle riforme istituzionali a cominciare da quella legge elettorale per il Parlamento rimasta senza padri e che adesso tutti considerano impre-sentabile. Insomma le cose da fare non mancano. Ma con la stessa sin-cerità dobbiamo dirci che vi sono anche cose che questo governo non potrà fare, per la sua stessa natura. Anche questo abbiamo detto senza giri di parole: di fronte al rischio di un collasso finanziario e di una ban-carotta morale e democratica era giusto unirsi per fronteggiare una crisi senza eguali. Ma, una volta superata la fase dell’emergenza, sarà neces-sario ritornare davanti al popolo sovrano e restituire la parola agli elet-tori. Per almeno due ragioni. La prima è legata al bisogno di incardinare quelle riforme strutturali che solo un mandato elettorale chiaro è in gra-do di legittimare. Riforme che non avranno, per definizione, un tratto di neutralità, non saranno dettate da Bruxelles o da altri che non siano i cittadini italiani. Dunque saranno il frutto di risposte diversificate da par-te dei due schieramenti – i democratici e i conservatori, il centrosinistra e il centrodestra – come avviene in qualunque altra democrazia. La se-conda ragione ha molto a che fare con la difesa di quel tormentato bipo-larismo che abbiamo costruito nell’arco dell’ultimo ventennio. Sarebbe un errore grave far derivare da una situazione di straordinarietà come l’attuale una diversa evoluzione del sistema politico e del quadro delle alleanze future. In altre parole non convince l’idea di una torsione cen-trista del Pd costretto a rompere con le altre componenti di una sinistra responsabile e di governo. Conviene a tutti – questo mi preme dire – distinguere tra la responsabilità dell’immediato e la necessità di prose-guire nel lavoro paziente e serio che abbiamo avviato negli ultimi due anni e che ha indicato in un Nuovo Ulivo e in una solida coalizione di centrosinistra la prospettiva più giusta per il futuro del paese. D’altra parte, solo con un approccio del genere noi potremo stare compiuta-mente dentro il campo delle forze democratiche e progressiste nella scena internazionale. Non ne faccio una questione di sigle ma di temi, di

contenuti e valori. Almeno se siamo d’accordo nel dire che questa crisi globale, per la sua dimensione, mette in gioco le condizioni del lavoro e dei salari, la sicurezza alimentare e la salute, i diritti umani, l’istruzione, la ricerca, i sostegni al reddito, fino ai contenuti stessi della democrazia. Sono i temi che infiammano le capitali di mezzo mondo. E se accade è perché questa crisi – diversamente dalle altre – discute alla radice il senso di una civiltà: il modo di concepire la crescita, la distribuzione del-le risorse vitali, il destino delle persone. Non è poco. Ora, per anni ci siamo detti che una politica debole e chiusa nei recinti nazionali non aveva risorse contro un’economia sempre più globalizzata. Ma le cose non stavano proprio così. E’ vero, l’economia ha comandato. Peggio, hanno comandato i matematici. E la cosa non sembri banale. In fondo Adam Smith, il padre del liberalismo, era un filosofo morale. E nell’ope-ra fondamentale di Keynes ci sono in tutto 4 semplici equazioni su 400 pagine di teoria. Cioè l’economia – la grande economia – non è mai stata solo una scienza del calcolo. Mentre dagli anni ’80 in avanti gran parte della ricerca economica si è fondata su formule matematiche sem-pre più complesse. E non per caso, ma perché la moneta ha cambiato la funzione storica che aveva svolto per sei o sette secoli: e da strumento dello scambio di merci, beni, idee si è trasformata in fine stesso dell’ac-cumulazione. A quel punto le fluttuazioni dei titoli, gli indici delle borse, le previsioni del rischio sono diventati il tutto. Quella economia – non l’economia in generale – ha stretto un patto col diavolo, e ha sacrificato la creatività, il lavoro delle persone, la natura delle società nel nome di un profitto senza scrupoli. Senza limiti. E senza morale. Ce l’hanno ven-duta come una teoria economica: ma è stata una dottrina politica. Una solida dottrina politica. E a quel punto ciascuno ha fatto il suo mestiere. L’economia ha incassato profitti stellari. La politica ha colpito dove ser-viva: l’etica del lavoro, la rete delle protezioni, i diritti e le libertà. E le ricadute sono state drammatiche. Mi è capitato di ricordare, qualche settimana fa a l’Aquila, che nel mondo 3 miliardi di persone hanno un lavoro, ma solo 1 miliardo e 200mila ha un contratto più o meno forma-le. Ed è una percentuale che tende a calare. Aggiungiamo a questo la più clamorosa redistribuzione di redditi dal basso verso l’alto: tra i 10 e 15 punti di Pil negli ultimi 40 anni, e il quadro si completa. Esuberi e pover-tà ai gradini più bassi. Una fiscalità di vantaggio alle imprese e ai ren-tiers. I diritti umani e civili come merce di scambio. Ecco, in sintesi, le ragioni per cui è essenziale che il Pd prosegua nella sua strada e non ri-duca la sua funzione solo a una tabella di obiettivi contingenti. Perché noi siamo nati con una finalità più alta e un’ambizione maggiore che era ed è quella di restituire alla politica uno spazio a lungo negato. Tornare a fare della lettura del mondo, e di questa crisi, la leva per un altro pro-getto di crescita, di economia, di convivenza, di democrazia. Siamo in campo, quindi, da subito per assumerci una quota dei pesi e delle re-sponsabilità, ma sappiamo anche che i prossimi mesi saranno decisivi per la costruzione di quell’alternativa alla destra che l’Italia, al pari dell’Europa, merita oggi più che mai.

E D I T O R I A L Esegue da pag. 1

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a cura di SARA DI MAIO*

Scenari di crisi: la situazione dell’Italia. Intervista a Massimo D’Antoni e Annalisa Tonarelli

Tavola rotonda con:Massimo D’Antoni, docente di economia e in particolare di scienze delle finanze all’università di Siena. Si occupa di intervento pubblico nell’econo-mia nelle sue forme, quindi dalle imposte alla re-golazione dei mercati, la fornitura di beni e servizi da parte del settore pubblico. Annalisa Tonarelli, sociologa del lavoro, ricer-catrice a scienze politiche e da molti anni respon-sabile scientifica dell’osservatorio delle povertà e delle risorse delle Caritas diocesane di Firenze. Le tematiche di cui si occupa sono varie e in questo specifico ambito sono quelle riferite alla povertà, alla marginalità sociale, agli effetti economici so-ciali della crisi, all’impoverimento legato o meno alle condizioni di lavoro.

Per Scelte Pubbliche Riccardo Conti e Sara Di Maio.RC - Come legge la parola crisi un economista e come la legge una sociologa, ognuno dal proprio osservatorio e punto di vista?MDA - La crisi che stiamo vivendo come noto si é manifestata nel 2008 come crisi finanziaria con effetti che sono partiti negli Stati Uniti e che ini-zialmente hanno colpito soltanto alcuni Paesi in qualche modo periferici per l’Europa. Però, la fase particolare che stiamo vivendo, invece, sembra toccare nel cuore l’Europa tanto che il nostro con-tinente é diventato in questo momento l’epicentro della crisi. Nonostante la situazione negli Stati Uniti non sia risolta, anzi rimane pesante, la preoc-cupazione massima è, in questo momento, per la tenuta dei mercati finanziari europei. Le vicende di questa estate hanno coinvolto, come noto, i debiti pubblici e quindi ci hanno toccato direttamente. I primi Paesi ad essere stati investiti sono stati l’Irlanda, che é entrata immediatamen-te in crisi, poi la Grecia, che attualmente é quella che crea più problemi, i Paesi Iberici, Spagna e Portogallo, tanto che é stato coniato in termine di PIGS, sigla che sta a indicare le iniziali di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. A queste è stata poi ag-giunta una “i”, PIIGS, per l’Italia. Si parla, quindi, dei paesi mediterranei più l’Irlanda, mentre sembra che abbiano tenuto meglio i Paesi dell’area del marco, con la Francia in una posizione apparen-temente più solida, ma qualcuno dice anch’essa a rischio. Perché questo quadro? Partiamo proprio dal ver-sante macro. Le vicende macroeconomiche per tanti anni sono state oggetto semplicemente dell’interesse degli specialisti, ma oggi sembrano avere delle ricadute fortissime sulla nostra vita. La cosa più eloquente da questo punto di vista sono

FOTO

* Sara Di Maio, laureata in Scienze delle comunicazioni, comitato di redazione di “Scelte Pubbliche”.

Manifattura Tabacchi

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le immagini che ci arrivano dalla Grecia. Qui il piano di risanamento contempla il licenziamento del 15% o del 20% dei dipendenti pubblici, una riduzione di salari e stipendi, una delle ultime cose che é stata chiesta é l’eliminazione del salario mi-nimo e una serie di aggiustamenti che comunque si ritiene non saranno sufficienti. In sostanza i nu-meri sono tali che chiunque sa che la Grecia non sarà in grado di ripagare il debito. Si sta cercando già di affrontare il problema di cosa fare quando si dichiarerà l’insolvenza. In parte c’é già stata una ristrutturazione del debito, ma quando si arriverà a dichiarare l’insolvenza ciò potrebbe avere dei contraccolpi su molte banche francesi e tedesche e quindi ripercuotersi sull’occupazione. Nel frattempo la crisi, o comunque queste aspet-tative di crisi, hanno investito anche il nostro Paese e quest’estate abbiamo avuto una pressione molto forte sui titoli pubblici. Ciò significa che l’aspet-tativa degli investitori é che anche l’Italia possa trovarsi in una situazione di incapacità di ripaga-re il debito. Di conseguenza é difficile accedere al credito e quindi rifinanziare il debito. Si rende necessario l’intervento di un organismo esterno. Nell’emergenza e nell’assenza di strumenti più

efficaci quest’organismo è stato la Banca Centrale Europea, ma poiché la BCE coinvolge anche gli altri Paesi é stata fatta una pressione molto forte sull’Italia, perché anche qui si avvii il risanamento dei conti pubblici. Arriviamo così alle conseguenze concrete. Prima di tutto però andrebbe detto che questa cri-si non nasce dalla spesa pubblica. Ci sono alcune eccezioni. In Grecia c’é stato effettivamente un le-game di causa con la spesa pubblica, ma é l’unico vero caso in cui i conti non erano in ordine. I conti italiani erano, e sono stati, relativamente in ordine. Noi siamo stati un Paese che nell’ultimo decennio ha avuto un livello di disciplina fiscale paragona-bile a quello della Germania e della Francia. La differenza grossa é che noi ci portiamo un’eredità molto pesante in termini di debito, per cui nel mo-mento in cui si é diffusa la preoccupazione che i debiti non si potessero pagare noi siamo diventati naturalmente oggetto di attenzione. Però in sé non é tanto l’ aspetto del bilancio che ha creato la crisi. Non lo é senz’altro per Paesi che sono stati in que-sti ultimi 2 anni in situazioni peggiori della nostra come la Spagna e l’Irlanda. Per dare un’idea l’Irlan-da aveva un livello di debito pubblico di meno del

30% del PIL, il nostro é del 120% (era un po’ più basso fino a qualche tempo prima della crisi), in Spagna era del 49%, che é salito al 60% - 70% eppure é oggetto di attacco. Quindi che cosa é successo? Qual è stata la causa?Il caso dell’Irlanda è interessante, partiva con meno del 30% di debito. E’ stata una crisi della fi-nanza privata, lo Stato ha dovuto salvare le banche e questo ha portato ad un accollarsi pubblico dei debiti privati, che ha fatto schizzare il debito a circa il 130% - 150%. I conti pubblici di molti di que-sti Paesi si sono compromessi per un salvataggio rispetto alla finanza. Questa è la prima cosa che va detta chiaramente: l’origine della crisi non è da ricercare nei conti pubblici. I conti pubblici sono intervenuti per evitare guai peggiori accollandosi il debito. Questo è importante, perchè è passata l’idea che la spesa pubblica fosse in qualche modo responsabile. E’ chiaro che nel momento in cui questi Paesi si fanno carico di tali debiti pubblici dovranno poi risanare, però va chiarita la causa. Parlare di responsabilità è sempre un discorso che lascia il tempo che trova, però è utile ricordare questo aspetto. L’Italia si porta questa eredità del debito che ne fa un Paese a rischio, però anche in questo caso noi siamo andati avanti per anni con livelli del debito di poco inferiori, ad un certo punto i governi di centro sinistra lo avevano anche ridotto, è risalito, non di molto, con la crisi. Il vero problema non è la dimensione in sè del debito, ma la dimensione del debito in rapporto al fatto che l’economia ristagna, non cresce. In che senso la crisi ha investito l’Italia? Il rallentamento com-plessivo dell’econimia a livello mondiale, per via dell’interdipendenza commerciale, ha fatto si che il livello di reddito, la produzione e il livello di cre-scita dell’Italia scendessero praticamente a zero e questo rischia di creare un problema di insolvibilità del Paese. Infatti, senza crescita, un debito che al-trimenti sarebbe sostenibile diventa insostenibile. Il problema va, quindi, interpretato correttamente come un problema di crescita. E questo è un primo aspetto.Su questo si innesta un secondo aspetto, rima-nendo in tema macroeconomico, che è impor-tante sottolineare: il fatto di trovarsi nell’area euro. Questo è stato per anni un vantaggio. Il vantaggio di stare nell’area euro è stato quello di poter go-dere di accesso al credito, quindi, il potersi finan-ziare, debito pubblico e debito privato, a condizioni

Ex stazione Leopolda, interno

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molto vantaggiose rispetto a come avveniva negli anni 90. Cioè: con l’euro abbiamo ridotto i tassi di interesse a cui ci indebitavamo a livelli vicini a quei Paesi più virtuosi. Questo ci ha dato del tempo, in cui, però, avremmo potuto sfruttare un po’ meglio questa situazione. Avremmo potuto cercare di uti-lizzare questo accesso al credito per ristrutturare la nostra economia, per renderla più capace di stare sul mercato internazionale. Un’altra cosa che avre-mo potuto fare è sfruttare questo accesso al credito per ridurre il peso del debito pubblico. Diciamo che in questo decennio, che qualcuno chiama il decen-nio perduto, dal 2000 a oggi, si è fatto ben poco, si è vivacchiato. Quindi nel momento in cui c’è già una situazione di debolezza della nostra economia è arrivata anche questa crisi, il che ci porta ad oggi. L’euro è stato un vantaggio, ma anche una costru-zione incompleta, che ha unificato la gestione della moneta, ma non ha previsto nessuno stru-mento per correggere gli squilibri che ci si sarebbe potuti aspettare si creassero e che si sono creati. Perchè non lo si è fatto? Perchè in quella fase si è stati probabilmente vittime di una visione del funzionamento dell’economia che pensava che l’unico ruolo per la politica economica fosse quello di lasciar funzionare il mercato, che avrebbe risolto i problemi. Si sono privati i Paesi di quella valvo-la di sfogo che è stata per anni il controllo della propria valuta, che voleva dire anche in certi mo-menti accettare la svalutazione, perchè economie che hanno diversi tassi di inflazione, diversi tassi di crescita della produttività, hanno bisogno di riallineare la loro competitività e per anni lo si è fatto svalutando ognuno la propria valuta. Non che questa fosse una strategia di grande respiro, perchè era anche un modo per scappare, anche a buon mercato, dalla sfida internazionale, però manteneva la situazione nei limiti del controlla-bile. Nel momento in cui è stata eliminata questa valvola qual sarebbe stato il mercato che avrebbe dovuto assorbire questi squilibri? Il mercato del lavoro. Per fare un esempio pratico: nel momento in cui noi non abbiamo la possibilità di riallineare attraverso il tasso di cambio la competitività, se i tedeschi riescono a essere più produttivi e ma-gari a controllare meglio e mantenre più bassi i loro salari, che partono più alti e quindi hanno anche una maggiore capacità di assorbimento e noi invece per varie ragioni non riusciamo a farlo e ci ritroviamo nella situazione attuale. E’ come

se si fosse accumulata pressione, un po’ come se fosse un vulcano, ma tutta questa pressione chiede a quel punto un riaggiustamento che non si può fare attraverso la valuta, perchè ci siamo completamente preclusi questa strada. Allora la presssione va interamente sul mercato del lavoro. Questo si traduce in scarsa competitività dei nostri prodotti e quindi crisi economica, di conseguenza licenziamenti e una pressione verso una ridu-zione delle condizione dei nostri lavoratori. Se si prende un manuale di economia e si cerca come dovrebbe funzionare il mercato perfetto si trova una semplice soluzione: si abbasseranno i salari, abbassandosi i salari si abbasseranno i costi dei prodotti, così l’Italia ritorna competitiva e ritor-niamo all’equilibrio. Il problema è che, come mo-strò Keynes già negli anni 30, non funziona così. Infatti quella che si può innescare, al contrario, è una spirale depressiva, un effetto cumulativo in cui l’economia non si risolleva, e anzi si arriva a li-velli di disoccupazione fuori dalle notre previsioni.RC - Qui c’è una categoria dell’economia che è stata la grande bistrattata degli ultimi 20 anni: la domanda aggregata.MDA - Per anni si è ragionato come se il proble-ma fosse tutto un problema sul lato dell’offerta. Il problema sul lato dell’offerta c’è. Cosa vuol dire sul lato dell’offerta? Vuol dire funzionamento dei mercati, investimenti, competitività in vario modo intesa. Il problema è che quando, invece, si entra in un periodo di crisi l’econmia comincia a funzionare in una maniera diversa e il modo in cui l’economia funziona è meglio descritto da quel corpo di teorie ed interpretazioni che fu sviluppa-to in un contesto simile a quello attuale, con tutte le differenze, ma con qualche elemento simile, negli anni 30, dopo l’altra grande crisi, quella del ‘29. Quello che diceva Keynes, e che in questo momento ripetono molti autorevoli economisti americani, come ad esempio Paul Krugman, che si definiscono non a caso Keynesiani, è che le po-litiche che in questo momento vengono chieste ai Paesi, che sono politiche di restrizione, rispon-dono a quel meccanismo che si ricordava sopra, cioè l’idea che se si stringono i cordoni della spesa pubblica e si rende sufficientemente flessibile il mercato del lavoro, si passerà per un periodo di caduta della domanda, della produzione e dei salari, ma questa caduta dei salari sarà quello che consentirà all’economia di riprendersi. E’ quello

che ha fatto l’Irlanda, che però non si è ancora ripresa. Intanto ha fatto la caduta ed è quello che hanno fatto l’Argentina, il Messico, etc. Però, ap-punto, questo periodo di forte sofferenza secondo quest’interpretazione con una sufficiente flessibi-lità verso il basso del mercato dei salari ottenuta eliminando quanto più possibile le restrizioni del mercato del lavoro, dovrebbe consentire all’eco-nomia di tornare a essere competitiva. Quello che diceva Keynes è che invece questa caduta del salario non fa altro che abbassare le aspettative di domanda e quindi fa si che le imprese smettano di investire perchè non vedono uno sbocco per i propri prodotti. Noi dobbiamo ragionare a livello globale.Può darsi che queste ricette nel singolo Paese che entra in crisi (Argentina 2001, Messico qualche anno prima...) funzionino, perchè c’è tutta l’eco-nomia mondiale che può trainare. Nel momento in cui, invece, questa ricetta viene imposta con-temporaneamente a tutti i Paesi il rischio è dav-vero che tutta la situazione peggiori e peggiori di molto. Questo è il senso dell’obiezione che diverse voci, ormai anche nel nostro Paese, cercano di porre all’attenzione, dicendo “attenzione perchè anche a livello europeo ci si sta muovendo su una logica che rischia di essere suicida per l’eco-nomia europea stessa”. Ossia: si sta facendo un ragionamento sbagliato. La Gemania è il Paese che ha retto meglio alla crisi. Cosa ha fatto? Ha contenuto i propri salari, è diventata competitiva, ha un avanzo, esporta tantissimo. Dovremmo fare tutti come la Germania. Ma dove esportiamo? La Cina punta agli avanzi commerciali, l’India e il Brasile devono reggere, l’America non tira più, perchè lo ha fatto per anni accumulando questa enorme bolla finanziaria e ora è scoppiata, quindi non può far più la locomotiva. La Germania si è fatta trainare dai Paesi come la Spagna e l’Irlan-da. Qualcuno pensa che siano questi Paesi, come ad esempio la Germania, che dovrebbero porsi il problema, dal momento in cui chiedono un ag-giustamento all’Italia e alla Spagna, di fare un po’ da traino sul versante della domanda. Quindi quello che auspicano alcuni economisti è un cam-biamento complessivo del segno delle politiche, quello che viene detto crescita. Qualcuno dice che la crescita si ottiene flessibilizzando il mercato del lavoro, quindi abbattendo i costi e rendendo com-petitiva l’economia.

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RC - Uso una tua espressione: che l’alternativa a questo non può essere solo il partito dei Draghi.MDA - Secondo me è stato sbagliato in questa situazione personalizzare sia sull’individuo che sull’istituzione. La BCE non è stata quello che si è visto in questi giorni. Quello che si è verificato in questi giorni non è stata una polemica contro la banca. La BCE ha fatto più di quello che era la sua missione. Si è presa la responsabilità di fare quello che gli altri Paesi, l’Europa politica, con sono stati in grado di fare. Quindi non si può biasimare. Però allo stesso tempo la ricetta che è stata veicolata in quella lettera, che tutti conosciamo, è proprio quella ricetta sopra descritta. Una ricetta che alla lunga porterebbe o porterà al crollo economico. Nel momento in cui questi esiti dovessero davvero concretizzarsi, poi dovremmo spiegare alla gente che facciamo tutto questo per restare nell’euro! Non lo accetterebbero e preferirebbero ritornre alla lira. Cosa ormai non così facile. Il rischio è che si facciano i conti con queste politiche senza consi-derare la tenuta sociale e politica del Paese a cui vengono imposte queste ricette. Si dà per scontato che il Paese sia in grado di sopportare una situazio-ne del genere. Viene citata la Lituania che l’ha fatto. Cioè la Lituania c’è riuscita. RC - Nel libro “Il mondo è marcio” di Monina Michele ad un certo punto dice che nella città del Cairo ci stanno 6 Svezie. Pensiamo alla Lituania in un modello europe. Nei mercati globali poi diventa-no ben altre le dimensioni e le scale. Quello che vie-ne detto è che noi siamo abbastanza grandi perchè non ci possano salvare e altrettanto grandi perchè non si possa essere buttati alla deriva. MDA - Questo è vero. Esiste poi una dimensione di urgenza della crisi e una più strutturale, che po-trebbero essere tenute distinte. L’urgenza è tranquillizzare i mercati finanziari per la questione degli spread, la crescita degli interessi. Questa, in ogni caso, è una cosa che riusciamo a sopportare, perchè abbiamo una scadenza dei titoli lunga, cioè non dobbiamo rinnovare a quei tassi tutto il nostro debito, ma soltanto una piccola parte. Ma se questi tassi che abbiamo ora si protra-essero per anni si parlerebbe di una cifra, solo con-siderando gli interessi per la spesa pubblica, pari a tutta la manovra che abbiamo fatto quest’anno. Cioè la manovra servirebbe solo a coprire il costo dei maggiori spread. L’opinione di molti è che ci sia un eccesso di pessimismo, rispetto alla reale solvi-

bilità del Paese. Cioè è un gioco di aspettative per cui non è necessario che io creda che l’Italia non sia solvibile, è sufficiente che gli investitori credano che gli altri non credano che sia solvibile perchè poi la cosa funzioni in quella maniera. Ossia se io ritengo che l’Italia sia solvibile, ma sono convinto che gli altri non la riterranno solvibile, allora scom-metto sulla non solvibilità. Rispetto a situazioni di questo tipo normalmente i Paesi come sono in grado di fronteggiarli? Con la presenza di una ban-ca centrale che a un certo punto fissa il prezzo dei titoli e che acquista tutti i titoli a questo prezzo. In questo modo la scommessa sul ribasso dei prezzi non funziona più e viene disinnescata. Il proble-ma è che noi abbiamo una banca centrale a cui è stata esclusa la possibilità di acquistare i titoli di stato. Cioè noi ci siamo privati di una nostra banca centrale, abbiamo delegato a livello europeo la gestione della politica monetaria, però abbiamo detto che non la può fare per paura dell’inflazione e della politica monetaria attiva. Quindi noi siamo privi, qualcuno lo ha chiamato efficaciemente, del big bazooka. Del bazooka che può bloccare questo gioco di aspettative. Rispetto a questo si è innesta-to il dibattito sul fondo salvastati, che serve proprio a dare un po’ di calma ai Paesi. Comunque risolto questo il problema strutturale rimane, cioè la dif-ficoltà nel ricreare competitività e la maniera in cui lo si può fare. Quello che c’è tra i Paesi europei è uno squilibrio che non ha strumenti per essere risolto in modo strutturale, e che quindi rischia di riproporre lo stesso problema fra 1 anno o fra 3 anni. Rispetto a quello bisogna mettere in campo qualcosa di più grosso. Qualcuno parla dell’unione fiscale, qualcun altro invoca altri strumenti di correzione.RC - Ci sono anche gli eurobond alla Prodi, che ot-tengono già una finestra che è finanziamento per gli investimenti. MDA - Finanziamento per gli investimenti che potrebbero essere a quel punto mirati sui Paesi che hanno un deficit di infrastrutture, di capitale umano, cioè tutto quello che rende il Paese meno competitivo. RC - E mira alle contraddizioni del Paese, cioè sareb-bero strumenti selettivi.MDA - La politica dovrebbe essere selettiva. Questa è una cosa che noi in Italia non riusciamo mai a fare: una politica selettiva. RC - Io ho visto che l’obiettivo 2 è stato una cosa rilevante nelle politiche anche locali e regionali. Ma

non c’è selettività. Con meccanismi che sono peri-colosissimi, come le sese di compartecipazione, che alla fine hanno drogato anche le altre spese. MDA - Da economista favorevole ad un intervento attivo dell’economia devo riconoscere che c’è un punto di chi è scettico che va affrontato e cioè il fat-to che spesso quando si parla di poltiche industriali questo si traduce spesso in intervento a pioggia, che finisce semplicemente per prolungare l’agonia di certi settori e attività che, invece, forse, sarebbe meglio chiudere, perchè alla lunga non reggono. E’ un discorso un po’ difficile da fare, però la politica economica dovrebbe aiutare la riconversione verso quelli che sono i nostri punti di forza, non la so-pravvivenza dei nostri punti deboli.In effetti il mercato è molto più impietoso. E qun-di quando qualcuno dice di lasciar funzionare il mercato non ha torto, perchè ci saranno un po’ di rovine, ma alla lunga ne usciremmo meglio. Il problema è quanto alla lunga. In mezzo, poi, ci sono i costi sociali, che spesso vengono sottova-lutati. Questi sono costi sociali che non avremmo la garanzia si possano tradurre anche in spinte demagogiche e in grossi rischi. In un paese che affronta cadute del reddito come quelle che stia-

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mo vedendo in Grecia c’è da dubitare della tenuta democratica. La stessa cosa pensata sull’Italia cosa produrrebbe? Soprattutto dall’osservatori sociale.AT - E’ stato aperto uno scenario che va ben oltre i dati dei centri di ascolto della Caritas e dei nostri osservatori, però mi riallaccerei a quello che diceva prima il collega. Intanto si è parlato a lungo di questa crisi che ha radici lontane, che forse sono sono state assimilate erroneamente a esperienze del passato, quando non è detto che dal momento che gli attribuiamo lo stesso nome ossia crisi, i fenomeni siano simi-li. Comunque abbiamo parlato di questo evento come di una crisi economicamente seria, ma non socialmente grave, quindi che stentava ad avere delle ripercussioni sociali drammatiche, così come la crisi degli anni 30 aveva prodotto. Io credo che proprio per quel discorso che si faceva poco sopra, questa tendenza a scaricare successivamente, con una lentezza che è quella dei processi, gli effetti economici sul mercato del lavoro cominci a dare, invece, quel frutto che si sperava di non vedere, cioè del socialmente grave. Credo che i fatti della manifestazione degli Indignados a Roma, qua-lunque sia l’interpretazione che vogliamo dare

loro, dimostrino che ci siano intorno a noi segnali di un aggravarsi della condizione sociale quindi di questa tensione che si è scaricata sulla società, sull’uomo comune, sulle famiglie, rispetto, appun-to, a una situazione che economicamente ci è stata dipinta come grave da molto tempo. La società a questo punto si trova a pagare 2 volte rispetto a tutto il meccanismo individuato qui, perchè da un lato ha subito gli effetti della crisi finanziaria rimettendoci anche dei propri investimenti, del piccolo risparmio, e dall’altro poi con le ripercus-sioni occupazionali, ma anche con i taglio della spesa pubblica che è stato imposto che è andato a detrimento di servizi che erano servizi essenziali per una componente già fragile della popolazione e che hanno rischiato di mettere in una situazione di ulteriore difficoltà anche soggetti che fino a ora non avevano sperimentato situazioni di rischio. Siamo, secondo il mio punto di vista, alla fase in cui è anche socialmente grave. Quanto lo sarà credo che ancora non se ne abbia contezza e credo che da questo punto di vista i dati nemmeno ci aiutino. Credo che ci sia un problema di fotografia del so-ciale che è molto più sfumata e molto più impre-cisa di quanto non avvenga per i dati economici.

Faccio un esempio fra tutti. Non solo per noi è diffi-cile sapere quante sono le persone in povertà, per-chè dipende dalla soglia che si definisce di povertà assoluta e relativa, in relazione a cosa lo si misuri. Così come è difficile misurare in modo corretto quelli che sono gli effetti di tipo occupazionale. Se noi spostassimo la componente dei cassaintegrati, come legittimamente andrebbe fatto, sulla com-ponente dei redditi di disoccupazione, piuttosto che su quella dell’occupazione, vedremmo che il fenomeno della perdita del lavoro interessa una componente molto più importante dei lavoratori. Allo stesso tempo se noi consideriamo che il tasso di disoccupazine si misura sulla popolazione atti-va, nel momento in cui noi andiamo a vedere qual è la condizione dell’inattività nel nostro Paese ve-diamo che è una situazione drammatica. Non solo siamo al posto più basso d’Europa, e di gran lunga, ma lo siamo con un meccanismo che è in discesa, invece che in salita, che ha caratterizzato gli altri Paesi anche quelli a noi più vicini: la Spagna, la stessa Grecia e i Paesi mediterranei. Ritorno su un punto: la dimensione sociale della crisi si sta manifestando, lo sta facendo ancora in modo non così esplicito, almeno attraverso i dati. Credo che esistano anche altri segnali, anche molto tuonati e gridati, come quelli delle manifestazioni di piazza, che ci parlano di un disagio che trova, però, allo stesso tempo, difficili vie di espressione perchè non riesce a trovare forma e non riesce a trovare neanche canali di espressione. Tornando al discorso della crisi mi viene anche da interrogarmi se questa possa essere effettivamen-te definita una crisi. La crisi ha un punto di caduta a cui fa seguito una ripresa. Mi chiedo, quindi, se siamo di fronte a una crisi o se siamo di fronte al declino di un modello che sta mostrando chiara-mente le sue corde. Allo stesso tempo credo che se noi guardiamo alla componente sociale è anche ingeneroso e ingiusto attribuire l’emergenza di alcuni fenomeni e problematiche esclusivamente alla crisi finanziaria. Sono molto d’accordo con quello che si diceva sulla ripercussione, sul fat-to che la tensione si scarica tutta sul lavoro. Allo stesso tempo credo che la situazione del mercato del lavoro con la crisi sta mostrando delle proble-matiche, delle inefficienze, delle inadeguatezze, che comunque la caratterizzano, almeno nel caso italiano, da sempre. Facevo prima riferimento all’inattività. Quella dell’inattività è un problema

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strutturale del nostro mercato del lavoro affrontato molto debolmente e molto inefficaciemente, ma direi ancora di più tematizzato. RC - Ricordiamo gli studi degli anni 50, 60 e 70, ad esempio Paci: per loro era questo il macigno.AT - Ma cosa si è fatto per promuovere l’attività? Ovviamente si sono fatte moltissime politiche per promuovere l’attività delle donne, sicuramente è aumentata l’occupazione femminile e l’attività femminile e allo stesso tempo si è perso quella delle fasce adulte. Quindi si è aumentato da una parte e tolto dall’altra. C’è un problema gravissimo che sta emergendo che è quella dei cosiddetti MIT i giovani che sono in una situazione nè di occupa-zione, nè di studio. E’ una componente crescente e riguarda giovani per modo di dire, perchè si parla di persone che sono alla soglia dei 30 anni. Quindi la crisi c’entra, ma non c’entra solo la crisi. Sono un po’ provocatoria in questo: se la crisi, se questa situazione di crisi di tipo finanziario, avesse il van-taggio di scoprire quelli che sono gli elementi cri-tici del nostro mercato del lavoro e quindi offrisse l’opportunità di un cambiamento allora in questo caso la crisi sarebbe veramente tale. Non riesco ad essere ottmista. Forse si svela una situazione di difficoltà strutturale. Il discorso della ricetta della flessibilità, ossia il rendere più flessibile il mercato del lavoro per ammortizzare le difficoltà di un si-stema, credo che sia un’affemazione generica che

circola, che però va meglio specificata. Flessibilità vuol dire tante cose molto diverse. La flessibilità è quella della Danimarca, che è vero è molto più piccola, però ha sicuramente modelli virtuosi. Flessibilità è anche quella della Germania, più grande della Danimarca, in cui però la fessibilità è stata una filosofia attuata in modo intelligente e in modo strutturale, che appunto ha sedimentato nel tempo anche buone partiche e aggiustama-neti che consentono di poter essere flessibili sul mercato del lavoro, ma allo stesso tempo garantire l’integrazione sociale. Entrambi sono Paesi con il reddito minimo, Paesi in cui la flessibilità si paga comunque. Le imprese che usano la flessibilità sono imprese che la pagano. Il pagare di più la flessibilità consente attraverso meccanismi non opportunistici di rimettere in circolo questa ric-chezza, che serve a finanziare il reddito minimo, i sussidi di disoccupazione. Nel nostro Paese, in qualche modo, il ricorso alla flessibilità che è avvenuto in modo tardivo e ca-otico, nonostante il tentativo di normarla significa un risparmio sui costi, ma un doppio risparmio: l’impresa che usa la flessibilità paga meno il lavoro e non si accolla il rischio di tenere un lavoratore. Il peso è completamente scaricato. Senza che a questo si accompagni un’intelaiatura di presidi di tipo istituzionale e sociale, che consentano al la-voratore di essere protagonista anche di percorsi

di carriera flessibile, cosa che esiste ormai in tutti i paesi d’Europa. Non si può demonizzare la fles-sibilità. In Francia ci sono persone che hanno una carriera di lavoratori interinali virtuosa che dura per tutta la loro vita professionale. Da noi questo non esiste. Quindi anche qui la flessibilità all’italiana, sicuramente non è una misura che può servire allo stesso tempo per ammortizzare gli effetti della cri-si senza portare allo sfascio dello Stato, a un’invo-luzione della nostra società. La flessibilità giocata virtuosamente come avvene in Germania, come avviene in Danimarca, come avviene parzialmen-te anche in Francia, può essere una soluzione che non necessariamente è in netta contraddizione e/o opposizione con un modello che è anche un po’ Keynesiano e quindi non delega tutto al merca-to, alla risoluzione attraverso il mercato, quindi che compendia una strategia centrata sul lavoro con una definizione di strumenti di sostegno sociale. Questo un po’ in termini generali.Non credo che possa essere un caso che le realtà in cui la crisi si fa sentire in modo più forte e dram-matico siano proprio quei Paesi in cui il mercato del lavoro già presentava storicamente una sitazione di debolezza. Il modello del mercato del lavoro mediterraneo non a caso prevedeva debole oc-cupazione femminile, tassi di attività molto bassi, disoccupazione di ingresso e via dicendo. Dunque il fatto che siano questi Paesi ad aver reagito in

Ex Meccanotessile, ipotesi di restauro

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modo peggiore significa appunto che la crisi ha evidenziato delle situazioni pregresse di difficoltà. RC - Una cosa di congiunzione: mi pare che am-bedue da punti di vita diversi siete arrivti al punto, che è sinteticamente, quello del modello, dopo il risanamento, dopo l’emergenza dalla crisi sociale. E mi pare sia il tema su cui merita finire questa tavola rotonda, perchè è un tema di grande interesse che richiama dibattiti storici della sinistra, dibattiti stori-ci sull’Italia, dibattiti in corso. Vi metto in guardia da far saltare una distinzione tra intevento pubblico e politiche pubbliche. Le politiche pubbliche possono essere di vario genere e forse è questo lo scacchiere, chiedo all’economista, che dobbiamo interessare. Non sarei per abbandonare politiche di concorrenza per il mercato, però mi sembra che il punto cruciale sia quello del modello. MDA - Due o tre cose che si collegano anche a quello che si diceva prima, cioè l’intervento pub-blico assume varie forme e dinamiche. In decenni in cui ha prevalso una visione eccessiva-mente fiduciosa nel mercato, una sorta di neolibe-rismo, qualcuno lo chiama il pensiero unico della fiducia nel mercato, ci sono state anche delle “ac-quisizioni” sul modo in cui il pubblico deve interve-nire, l’intervento non è necessariamente la gestio-ne diretta, ma può anche limitarsi alla regolazione. Tutto questo può andar bene. Si è arrivati, invece, a riassumere una visione per cui c’era un pregiudizio negativo su qualsiasi interferenza con il natura-le funzionamento del mercato, quindi io credo e spero che uno dei lasciti, quando si risolverà, spe-riamo, questa situazione è di abbandonare un po’ questa visione, cioè di accettare che il mercato è una forza formidabile di dinamismo, di incentiva-zione, etc. ma non può essere lasciato come unico principio per governare lo sviluppo. Cioè c’è una responsabilità e ci sono cose che necessitano di un’azione collettiva, chiamiamola genericamente, che può assumere varie forme fra cui anche quel-la dell’intervento tramite lo strumento politico. Il mercato fa molto bene alcune cose, non è in grado di farne altre. Non è in grado di fornire le infrastrut-ture e quelli che tecnicamente vengono chiamati beni pubblici o beni a consumo collettivo è noto, ci sono studi sterminati che dicono che il mercato li fornirà poco e male, per cui nel momento in cui noi affidiamo al mercato la produzione dei beni ci ritroviamo con una carenza di questi beni pubblici

o beni comuni o come li vogliamo chiamare. RC - Concorrenza per il mercato è un concetto diverso.MDA - Concorrenza per il mercato è una modalità con cui io posso sfruttare la competizione per in-trodurre l’efficienza anche nella produzione di al-cuni beni pubblici, anche se poi forse anche lì non la sopravvaluterei, o comunque è una cosa che va saputa fare e va fatta bene. Chissà se la crisi avrà questo risvolto positivo? Io temo purtroppo che nell’immediato molti proble-mi strutturali dell’Italia rischino, se non si sta atten-ti, di essere aggravati, cioè, pensiamo all’esempio emblematico della partecipazione femminile. In un momento in cui la parola d’ordine diventa “sic-come siamo in crisi non possiamo più permetterci un welfare” lasciamo che di quei problemi, che non svaniscono, se ne occupino le famiglie, cioè degli anziani, delle donne. L’effetto è che nel ritirarsi del-la spesa pubblica per risanare si peggiora il proble-ma di partecipazione al mercato del lavoro e quin-di si crea un danno dal punto di vista economico, che crea un circolo vizioso. Quindi attenzione per-chè nel momento in cui si deve scegliere, ridurre probabilmente alcune spese sarà inevitabile, però non dobbiamo essere vittima di questo pregiudizio per cui l’eliminazione di qualunque spesa pubblica è un vantaggio per l’economia, perchè in molti casi è esattamente il contrario cioè molta spesa pubblica, anche molta spesa sociale, a cui di soli-to si attribuisce solo il compito di alleviare i danni e la povertà, non gli si attribuisce una funzione di incremento di produttività. Invece ce l’ha, perchè molta spesa sociale è ciò che consente una mag-giore partecipazione al lavoro quindi, un maggior livello di reddito e di produzione nell’economia. Io temo che s’inneschi questo meccanismo invece che meccanismi virtuosi.AT - Io su questo sono assolutamente d’accordo nel condividere il pessimismo. Condivido anche l’analisi, perchè quello che ci mostrano esempi di altri paesi, per quanto diversi, possono of-frirci elementi di riflessione. Investire anche in una situazione di crisi sulla spesa pubblica, che genera occupazione come quella del sociale, i servizi all’infanzia, i servizi agli anziani, consen-te di generare occupazione. Direttamente e in-direttamente. Ovviamente anche questo non è automatico, e io ritorno su quel punto: che tutto avvenga attraverso comportamenti non opportu-

nistici. Perchè se io ho bisogno di cura e chiamo la badante a nero il mio scaricare su un altro genera un piccolo passo nel lavoro per una persona che ne ha necessità. Ma se io finanzio un servizio che si occupa di anziani e tutto ciò avviene in modo gestito anche da welfare pubblico o dal privato sociale, questo genera non solo occupazione, ma genera reddito, e anche reddito sociale che va a finanziare il servizio. Quindi si può innescare quel meccanismo virtuoso che è un volano per l’oc-cupazione e che rende l’occupazione un volano di sviluppo. Sono d’accordo: si sta andando nel-la direzione completamente contraria, almeno i segnali vanno in questa direzione. Qui parlo più da sociologa che da sociologa del lavoro, la mia impressione è che anche i modelli culturali cerchi-no di prefigurarci un mondo in cui effettivamente lavorare non è più la priorità, per esempio per le donne o per i giovani. Credo che ci sia un effetto scoraggiamento anche un po’ cercato, un po’ vo-luto, dal momento in cui alle giovani generazioni viene mandato il messaggio che studiare non im-porta, che l’informazione è un optional inutile.... RC - Ho sentito fra voi toni di fiducia diversi, mi sembra si possa commentare pensando a mo-vimenti collettivi che ora vanno interpretati, che dovranno avere anche un’interlocuzione. Io sono molto d’accordo con chi ha segnalato l’interesse per milioni di giovani di tutto il mondo, anche lì sollevano questo problema, che poi è il problema del predominio del mercato in ultima istanza. Il punto è che va riclassificato il rapporto fra politica e economia. Mi pare sia il punto decisivo. Tutto il tema che voi avete affrontato in maniera implicita sulla prospetiva e sull’emergenza, in entrambi i casi c’è stato un peso del caso Italia che ha accumu-lato problemi a breve e problemi più terra terra di credibilità, quando i mercati non ci credono anche perchè c’è il fattore B. AT - Quanto conta il fattore B? MDA - L’ha fatto Boeri che ha fatto la differenza con la Spagna. Siccome in Spagna non ce l’hanno, il fattore B, in Italia si, allora può essere che con-ti... senz’altro conta. Però son portato a ragionare come se quello l’avessimo già risolto. Una volta che l’abbiam risolto il problema c’è lo stesso. AT - Questa volta l’ottimista sei te... MDA - Più di tanto non può durare.AT - Per motivi anagrafici.

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In riferimento alle alluvioni degli ultimi giorni di chi sono secondo lei le responsabilità?Le terribili vicende che hanno colpito il Nord e Centro Italia in questi giorni chiedono in primo luogo una decisa coesione istituzionale, politica, culturale e sociale, che vada oltre la ricerca delle singole responsabilità per le quali, peraltro, sono impegnati gli organi a ciò competenti.I fattori che vanno considerati sono almeno due, dai quali partire:- l’eccezionalità dell’evento (la calamità naturale),- lo stato dei territori colpiti dall’evento eccezionale.Il termine eccezionalità deve legarsi a quello del rischio, mentre lo stato dei territori chiede anche la riformulazione della categoria dell’eccezionalità.Non mancano, nel nostro Paese, leggi generali per l’urbanistica e il governo del territorio e leggi di settore a tutela dell’ambiente, alle quali, inoltre, corrispondono strumenti (piani, politiche, pro-grammi) in capo a diversi Enti competenti (Stato, Regioni, Province, Comuni). Fra queste, non man-cano apposite leggi in materia di difesa del suolo, a partire dal ceppo normativo nazionale che risale al primo Novecento, fino ai più recenti testi comuni-tari e alle disposizioni statali e regionali. A chi spetta la responsabilità della difesa del suolo?Gli anni Novanta del secolo scorso sono caratte-rizzati da un profondo rinnovamento legislativo, in base i princìpi della prevenzione dei rischi e della difesa dei valori ambientali e paesaggistici sono stati assunti come base della sostenibilità della pianificazione territoriale e urbanistica. Dal 1989, anno di emanazione della L. 183 in mate-ria di difesa del suolo, l’amministrazione pubblica, alla quale compete governare città e territorio, (lo Stato, le Regioni a statuto speciale ed ordina-rio, le Province autonome di Trento e di Bolzano, le Province, i Comuni, le Comunità montane, i Consorzi di bonifica ed irrigazione e quelli di baci-no imbrifero montano) ha l’obbligo di assicurare la

a cura di SARA DI MAIO

Dopo le alluvioni, territori fragili. Intervista a Silvia Viviani vicepresidente INU

difesa del suolo, il risanamento delle acque, a frui-zione e la gestione del patrimonio idrico per gli usi di razionale sviluppo economico e sociale, la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi (art. 1 L.183/1989), svolgendo ogni opportuna azione di carattere conoscitivo, di programmazione e pianificazione degli interventi, di loro esecuzione (ibidem). Ne conseguirono la suddivisione del ter-ritorio nazionale in bacini idrografici di rango na-zionale e di rango regionale, con relativo riparto di competenze e l’obbligo di formazione di appositi Piani di Bacino. La prevalenza dei Piani di Bacino su qualunque altro strumento della pianificazione di qualunque altro Ente che governa il territorio è una componente del nuovo approccio nel quale si af-fronta la questione del rischio nella pianificazione urbanistica e territoriale, tramite una valutazione secondo molteplici criteri integrati tra loro.

L’assunto di questi giorni è che la pianificazione territoriale, quindi l’edificazione, e la difesa del suo-lo siano completamente scollegate fra sé, quindi che si costruisca senza assolutamente tener conto dell’ambiente. Esiste un legame vero tra la pianifi-cazione territoriale e la difesa ambientale, la difesa del suolo?La difesa del suolo è stata ormai assunta quale componente della pianificazione e ciò ha signifi-cato essersi fatti carico – secondo princìpi di pre-venzione - dell’interazione tra ambiente naturale e ambiente costruito o che si intende costruire, in termini di previsione evolutiva e per stabilire con-dizioni che garantiscano di mantenere e recuperare le risorse territoriali (e in tal senso prevenire disse-sti idrogeologici). Sarebbe lungo l’elenco dei prov-vedimenti, leggi, atti e piani, nella sola Toscana, una delle due regioni duramente colpite dalle vicende di cui trattiamo, riferiti alla difesa del suo-lo e alla prevenzione del rischio idraulico nonché al governo del territorio, nei quali tali innovazioni sono contenute, e non si fa fatica a trovarne effet-

ti diretti di miglioramento degli strumenti della pianificazione territoriale regionale, provinciale e comunale, in ordine alla difesa dell’ambiente e alla prevenzione del rischio, ed effetti indiretti, che si vedranno nell’applicazione di quegli strumenti, che si sostanziano nella inedificabilità di suoli a ri-schio e nella individuazione di regole di prevenzio-ne e di opere di messa in sicurezza idraulica. Misure specifiche per la difesa del suolo e la prevenzione del rischio idraulico sono contenute in apposita deliberazione del Consiglio regionale toscano, del 1994, che integra le norme urbanistiche regionali, e saranno pilastri delle riforme urbanistiche tosca-ne della metà degli anni Novanta (LR 5/1995) e della metà degli anni Duemila (LR 1/2005), che hanno prodotto un totale rinnovamento della pianificazione, con due Piani territoriali regionali, due cicli di Piani territoriali provinciali, nuovi Piani strutturali comunali.

Quali sono le innovazioni portate dalla riforma ur-banistica verso il governo del territorio? Cosa cambia rispetto al passato?Vi sono varie innovazioni:- la interdisciplinarietà, ossia il concorso di diver-si saperi alla formazione dei piani urbanistici, fra i quali è obbligatorio, e certificato dalle professionalità che ne hanno la specifica competenza, quello rela-tivo alle condizioni morfologiche, idrogeologiche, geomorfologiche del territorio, ossia l’insieme della disciplina preordinata alla difesa dei suoli ossia alla conoscenza del rischio, alla individuazione delle re-gole di prevenzione e manutenzione, alla definizio-ne delle opere di messa in sicurezza,- la collaborazione fra Enti competenti nel governo del territorio, che ha portato a metodi di co-pianifi-cazione nella formazione dei piani;- la produzione di specifica conoscenza, integrata nella pianificazione, formata appunto tramite inter-disciplinarietà, per stabilire le condizioni delle risorse dei nostri territori: acqua, suolo, aria, paesaggio;

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- l’integrazione delle attività di valutazione am-bientale nella pianificazione, che rispondono proprio a princìpi di cautela, di responsabilità e di prevenzione;- la ridefinizione di una filiera di strumenti, che dovrebbero definire, prima della gestione urba-nistica ed edilizia, di livello comunale, le questioni ambientali che travalicano i confini amministrativi (si pensi ai bacini idrografici),- l’assoggettamento a regole di tutela dell’am-biente anche di politiche di settore che regolano le attività umane sul territorio, come quelle agricole, infrastrutturali, etc.,- il progressivo affermarsi del contenimento del consumo di suolo negli strumenti della pianifica-zione.Anche nella legge urbanistica della Regione Liguria (n. 36/1997), restando nei territori colpiti dalle vicende recenti, si trovano i dispositivi e le in-novazioni fin qui richiamati. Ma ciò vale per molti altri contesti regionali e tali contenuti si trovano nelle leggi per il governo del territorio che hanno applicato princìpi enunciati dall’INU all’inizio de-gli anni Novanta: della Lombardia (n. 12/2005), dell’Emilia Romagna (n. 20/2000), del Veneto (n. 11/2002), del Friuli Venezia Giulia (n. 5/2007), dell’Umbria (n. 27/2000, 11/2005), delle Marche (n. 34/1992), della Campania (n. 24/1995), della Basilicata (n. 23/1999), della Puglia (n. 56/1980, n. 20/2001), della Calabria (n. 19/2002), e anche nelle integrazioni a testi che attendono la sostitu-zione in un articolato organicamente rinnovato, come in Piemonte (n. 56/1977). L’elenco si allun-gherebbe ulteriormente se facessimo riferimento alle leggi regionali di settore in materia di difesa del suolo. Si aggiungano piani che assoggettano specifiche porzioni territoriali a norme speciali, come per le riserve, i parchi, le aree protette, di norma improntati a salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio.Come si stabilisce il “rischio”?

Per valutare l’interazione tra ambiente naturale e ambiente costruito o che si intende costruire ai fini della prevenzione del rischio, va stabilito cos’è e come si misura il rischio e va individuato lo sta-to dell’ambiente costruito. Su questo si fondano sostenibili previsione di trasformazione. Per am-biente che si intende costruire, infatti, bisogna far riferimento non solo all’edilizia, ma a qualunque trasformazione dei suoli, ivi comprese quelle che derivano dalle attività che comunque garantisco-no il presidio umano sul territorio (come nel caso delle attività agricole).La gradualità degli stati di rischio, in termini tecni-ci, quanto alle questioni idrauliche, cioè alla pos-sibilità di inondazione, è stata commisurata alla conoscenza dei fenomeni già avvenuti, e perciò si parla di ritorni di piena decennali, ventennali, duecentennali, altrimenti definiti ordinari o ecce-zionali.A tale misurazione si riferiscono le definizioni di regole di manutenzione ordinaria del territorio perché non si alteri l’equilibrio idrogeologico, le definizioni di opere di messa in sicurezza riferite a stati di rischio in atto o probabili, divieti di tra-

sformazione laddove queste producano effetti di alterazione di tali equilibri.

Qual è lo stato del nostro territorio?I nostri territori sono densamente popolati e co-struiti. I nostri territori sono, soprattutto, scarsa-mente manutenuti.Il sistema insediativo (l’edificato) sul quale si ab-battono gli eventi –eccezionali o meno- di inon-dazione piuttosto che quelli sismici (per i quali valgono analoghe considerazioni) si è addensato in ambiti per i quali, nel trentennio della massic-cia edificazione che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento, dei princìpi che abbiamo trattato nel precedente punto non vi era alcuna applicazione. Il territorio scarsamente non antropizzato, per se-coli dedicato all’utilizzo agricolo e alle continue opere manutentive che vi erano connesse, è stato oggetto di abbandono, in quegli stesi anni, e poi ripopolato secondo modalità abitative e produttive che solo recentemente sono tornate a farsi carico della cura tanto puntuale (opere agrarie minori, difesa dei sottoboschi, salvaguardia delle regima-

Piazza Santa Croce dopo l’alluvione del 1966

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zioni idrauliche) e complessiva (relazioni fra ambiti collinari e vallivi, fra boschi e pianure, etc).Non è solo la diffusione insediativa il fenomeno da contrastare, ma anche pratiche che trasformano i suoli con effetti sulle interazioni fra le diverse risor-se o di loro impoverimento, e soprattutto lo scarso investimento –pubblico e privato- sulla manuten-zione territoriale.E allora possiamo tornare a quanto abbiamo detto in apertura, comprendendo meglio il collegamen-to tra eccezionalità dell’evento e stato del territorio. Quindi eventi alluvionali come quelli dei giorni scorsi non dipendono solo da fattori legati al territorio?Le condizioni climatiche che sono profondamente mutate rendono, oggi, l’eccezionalità più vicina a noi, anche se non eliminabile del tutto; e a questo concorre anche lo stato dei territori, che sono den-samente costruiti. Come si possono scongiurare per il futuro eventi al-luvionali simili?Collegare urbanistica e sicurezza - come si sta oggi facendo - è molto, ma potrebbe non bastare. Occorre investire nella messa in sicurezza laddo-ve le condizioni di rischio siano tali da non poter più operare in termini di prevenzione, e occorre investire in opere manutentive, a carico dell’inte-ra società, del pubblico che governa e del privato

che utilizza i suoli. Occorre un piano di sicurezza nazionale sul quale far convergere, come priorità, le scarse risorse pubbliche che sono rimaste nel nostro Paese.Bisogna, infine, contrastare farraginosità e com-plessità dei sistemi decisionali che, nel nostro Paese, vedono un accavallarsi di compiti, compe-tenze, piani e programmi, procedure, sempre più frammentate tra soggetti plurimi, teoricamente autonomi e responsabili. Una frammentazione delle competenze che ha circoscritto le respon-sabilità, ma non ha fornito concreta possibilità per le singole componenti decisionali di svolgere adeguatamente il compito assegnato. Occorre, in-vece, una efficace azione congiunta e raccordata, coerente e coesa, che non può ovviamente essere ricavata dalla mera sommatoria dei piani.È necessario:- ragionare in termini di programmazione unica, al di là degli interventi specifici di sistemazione idraulica, idrogeologica, idraulico-forestale di norma finanziabili sugli stanziamenti L. 183/89, di fatto assimilabili a interventi urgenti per il su-peramento di criticità in atto o di eventi calamitosi;- coordinare efficacemente, anche attraverso rior-dino e semplificazione, pianificazione di settore e pianificazione territoriale e urbanistica, politiche e programmi.A ciò dovremmo pensare anche quando parlia-

mo di riordino degli assetti istituzionali nel nostro Paese. L’INU è intervenuto tempestivamente in merito, sottolineando come in Italia, crisi econo-mica e crisi urbana, pur seguendo logiche talvolta contrapposte, si manifestano quale prodotto di uno stesso e più generale declino e di un modello di sviluppo diventato sempre più insostenibile; e come fosse necessario affidare l’obiettivo di con-trastare questa dinamica recessiva ad una azione comune, per affrontare congiuntamente le criticità manifestate dal sistema economico e quelle re-lative al nostro modello insediativo. Dicemmo, e ribadiamo, che per quanto riguarda l’assetto istitu-zionale, fondamentale per restituire competitività al sistema Paese, la prospettiva è quella di una sua organica riorganizzazione, modellandolo sul-le dimensioni della metropolizzazione e dell’area vasta, sull’assetto reale, troppo spesso lontano dalle frammentazioni territoriali indotte dai confi-ni amministrativi. Tuttavia, questa consapevolezza non ci ha portato, e non ci porta, a suggerire, né a sostenere, la banalizzazione delle istituzioni e l’impoverimento dei profondi rapporti fra queste e i territori.Tuttavia, tutto quanto si può ragionevolmente e con responsabilità argomentare non toglie agli eventi che hanno colpito i territori toscani e liguri, il carattere di calamità eccezionale, componente che l’uomo non potrà mai annullare del tutto.

Alluvione del 1966: i lungarni

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“Questo teatro è simbolo di cultura e civiltà, ha 160 anni ed è testimonianza del Risorgimento italiano”. Ha aperto così Massimiliano Pescini, giovane sin-daco di San Casciano, dal palco del Teatro Niccolini la tre giorni di incontri e dibattiti organizzata nella sua città dalla Fondazione Italianieuropei insieme all’Associazione Romano Viviani. Il tema è di quelli che pesano in un sistema Paese perché, sintetizza Andrea Peruzy, le Reti ridisegnano una comunità e sono il presupposto per nuovi processi di governo. Ma le Reti (territorio,energia, infrastrutture, tele-comunicazioni) fanno crescere se partono dalle esigenze delle persone e delle comunità. E’ stato questo il filo conduttore politico-culturale che ha caratterizzato il dibattito.E’ toccato a Riccardo Conti prendere di petto la situazione: negli ultimi dieci anni il tema delle città è scomparso dall’agenda politica italiana. L’Italia, come una mela tagliata a fette, senza programmazione e con la retorica delle grandi opere che abusano del territorio e delle comunità. Riscopriamo le politiche per le città, dice Conti, ri-disegniamo il profilo istituzione, l’Intercomunalità diventi l’alternativa alle Provincie, definiamone gli obiettivi e affidiamole i piani di sviluppo urbano. Partiamo dalla dismissione del patrimonio pub-blico (caserme ecc.) per mettere in campo risorse per nuovi progetti di città che ridisegnano il fu-turo. Occorre ridefinire l’ambito della convivenza in un nuovo sistema di città; la sinistra, conclude Conti, deve riscoprire il nuovo riformismo urbano. Un’analisi, quella di Conti, condivisa dall’archi-tetto Margherita Petranzan del Politecnico di Milano, secondo la quale le città diventano ter-ritorio non più controllabile dalle comunità ma dalle esigenze economiche. Le catastrofi non sono sempre fatalità, in Liguria il 40% del terri-torio agricolo è abbandonato e le conseguenze sono drammaticamente visibili. I cittadini co-noscono le esigenze del territorio, sanno come e dove intervenire perciò è indispensabile, oltre

che giusto, dialogare con loro prima di progetta-re una strada, una ferrovia e altre infrastrutture. Non possiamo certo tornare indietro ma occorre prendere atto che scienza e tecnica non sono più mezzi ma fini. Non sempre è stato così, afferma Walter Tocci, la stagione dei sindaci è stata una bella pagina del governo del territorio. Le prio-rità e gli obiettivi erano chiari, l’investimento sul ferro (metropolitane, tramvie), ha migliorato la qualità dell’aggregazione. Si è difeso il terri-torio e si è valorizzato il patrimonio immobilia-re che ha rappresentato una grande ricchezza per le città. Oggi le città sono povere, quella ricchezza che fine ha fatto? A chi è andata? E’ andata a quelli che non hanno fatto niente per valorizzarla. Sono finite le buone pratiche degli amministratori comunali. Occorre mettere da subito in campo una nuova politica economica urbana capace di governare una nuova domanda. La prima giornata si è conclusa con una bella in-tervista di Andrea Peruzy a Luciano Violante, pre-sidente di Italiadecide, che proprio sul tema delle reti e delle infrastrutture ha elaborato uno studio molto importante. Violante ha posto molto l’ac-cento sulla questione democratica: è importante che si partecipi per impedire che gli altri decidano. La partecipazione deve diventare un rapporto pre-ventivo tra governo e territorio per la progettazione e la realizzazione delle opere, altrimenti entrano in campo quelle variabili che impediscono il fare: il policentrismo anarchico.Certo occorre un soggetto terzo che dialoga, poi ci vuole una classe dirigente che governa e decide perché è così che funziona un Paese moderno e democratico. Le reti sono indispensabili in un nuo-vo assetto istituzionale del territorio sapendo che ognuno cede qualcosa per avere tutti di più. Sono convinto, ha concluso Violante, che la più grande rete resta l’istruzione. In un momento di crisi finan-ziaria gli investitori privati si fanno avanti solo se c’è la certezza che le opere si fanno, non investo-

di MIChele GIARDIellO*

Le reti che fanno crescere l’Italia: un primo commento sul convegno di san casciano

* Michele Giardiello. Dirigente d’azienda, già Deputato del Partito Democratico della Sinistra.

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no davanti all’incertezza. Ma il Paese ha bisogno di massimizzare l’efficienza e convogliare risorse finanziarie private nel finanziamento delle infra-strutture, afferma Claudio De Vincenti dell’Univer-sità “Sapienza” di Roma. Condizione indispensabile è completare il quadro di regolazione, costituendo Autorità indipendenti per trasporti, acqua, rifiuti ecc. Si, perché in quei settori regolati da Autorità indipendenti (energia elettrica, gas ecc.) si è molto avanti, cresce la concorrenza, si investe nello svi-luppo delle tecnologie. Quel che serve è un sistema di regolazione a livello di mercato dell’U.E., perché un mercato senza re-gole porta dritto al monopolio.Le priorità per la realizzazione delle reti sono la programmazione e una nuova strategia di libe-ralizzazioni. Programmazione e priorità, insiste il prof. Boitani, perché nel nostro Paese le opere si realizzano lentamente e spesso quelle finanziate sono inutili. Del lungo elenco delle opere della Legge Obiettivo sono state realizzate solo il 21%, molti soldi sono stati spesi in studi, progetti e cantieri che non diventeranno mai infrastrutture. Ecco perché oggi la priorità è terminare le opere non ancora concluse e per questo è indispensabile

tornare immediatamente ai lotti funzionali. E la Toscana? Che predica male e razzola bene come aveva affermato uno dei relatori? La Toscana, dice il Presidente Rossi, ha uno sviluppo turistico stra-ordinario e per noi è questione essenziale ma non basta, questa terra ha bisogno di una forte ripresa produttiva. Lo dice a chiare lettere scandendo bene le parole: se viene un imprenditore che vuole in-vestire, rispetta le leggi, rispetta i vincoli tecnici e progettuali, in Toscana quell’imprenditore è il ben-venuto. Perché per affermare la green economy i governi locali devono agevolare le imprese e completare la filiera produttiva. Per questo siamo impegnati nella discussione di una nuova Legge Regionale che favorisca l’aggregazione dei Comuni fino a 30.000 abitanti. Poi Rossi risponde ad una affermazione di Boitani che aveva chiosato “la gara del Tpl su gomma a lotto unico non è concorrenza ma collusione”. Nel Tpl, dice Rossi, dobbiamo fare i conti in Toscana con trecento milioni di euro in meno per il 2010 e per questo ritiene che la gara a lotto unico è quello che serve ai cittadini, ai lavo-ratori e alle imprese. L’importante adesso è fare un bel bando, poi, vinca il migliore.L’Amministratore Delegato delle Ferrovie dello

Stato, Mauro Moretti, parlando del Tpl esterna tutta la sua preoccupazione. A differenza dell’Eu-ropa, dice Moretti, in Italia manca un campione nazionale capace di confrontarsi con i competito-ri europei. Siamo l’unica società che è riuscita ad affermarsi sul mercato europeo, oggi il Gruppo FS gestisce il Tpl su ferro in molte città della Germania. Le infrastrutture sono fondamentali per la crescita, mettono in competizione un territorio verso un altro territorio ma non tutte sono necessarie. E’ sempre più chiaro che nella sfida globale la solu-zione spesso è nell’investimento locale, altrimenti rischiamo l’isolamento mondiale. La Brennero è l’esempio che si possono fare opere evitando tem-pi lunghi e maggiori spese se c’è un ruolo positivo degli amministratori locali. Tocca al Presidente D’Alema tirare le somme di questa tre giorni di riflessioni. Il compito del ri-formismo, dice il Presidente di Italianieuropei, è offrire idee, proposte alle soluzioni dei problemi del Paese in una visione europea. Perché l’Europa oggi ha bisogno della crescita senza la quale non si affronta il tema del debito. L’Italia è un grande Paese, dice D’Alema, e deve dare il suo contributo all’Europa, noi che siamo stati nel dopoguerra, per capacità di crescita, i cinesi del vecchio continente. E, per crescere, le reti sono fondamentali. La rete infrastrutturale del nostro Paese non è messa male ma ci sono molti punti deboli. Su questo bisogna intervenire con priorità. Occorre programmare sa-pendo che la programmazione non è l’elenco delle opere ma scegliere con i territori le priorità. Saper mettere in campo tutti gli strumenti capaci di as-sicurare controllo e regolazione. Affermare la sta-bilità delle regole e le ragionevoli convenienze in un equilibrio tra liberalizzazioni e privatizzazioni. Agevolare coalizioni tra pubblico e privato, in grado di attivare investimenti. Infine, riflette D’Alema, c’è un grande tema dell’assetto democratico e istitu-zionale: non è vera l’equazione federalismo uguale semplificazione. Il tema vero è come si costruisce il consenso per le grandi opere. E’ indispensabile non solo per realizzarle, ma per la tenuta del sistema democratico.

Interno dello stabilimento Pignone, foto d’epoca

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Firenzedopo

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Qualche riflessione su Firenze, la sua storia recente, il suo contesto territoriale

Ci sono dei passaggi nella storia recente di Firenze che meritano un qualche approfondimento, se non altro

perché continuano a proiettare i loro effetti sulla realtà odierna. Ovviamente in forma tortuosa e non lineare. La domanda da cui partire la formulerei nel seguente modo: cos’è che ha rallentato, reso problematico e incompiuto un processo di “modernizzazione” della città? Destino, va detto, condiviso con altre città del nostro paese, dove le “politiche” urbane non hanno rappresentato una vera priorità della “po-litica”. Non è stato così in altri paesi europei.Non sono mancate stagioni di rinnovamento e di grande vivacità-in gran parte legate all’affermazione di giunte di sinistra e all’azione di grandi sindaci-, ma la cifra di una grande politica per le città non ha contraddistinto l’azione di governo del paese. Basti pensare a tutta la legislazione in materia urbanistica. O al dibattito infinito sulle città metropolitane. O, last but not least, alle politiche di con-trasto all’esplosione della rendita urbana. La mia tesi è che un “riformismo” urbano è vissuto in Italia soprattutto nelle autonomie e che nelle agende nazionali è stato re-legato a risultante di politiche settoriali o è coinciso con battaglie perse dai riformatori. Da Sullo a Bucalossi. E, tuttavia, non poco hanno significato le autonomie nell’ambito delle politiche di welfare e di pianificazione territoriale. Il risultato è stato quello che Paolo Leon ha de-finito un “compromesso socialdemocratico debole”, viene da dire , su un altro piano, il policentrismo come “croce e delizia” dello sviluppo italiano e, in prospettiva, come nodo e risorsa per modelli innovativi di sviluppo futuro.Questa sommaria premessa (solo una bibliografia, pur sin-tetica, sul tema esaurirebbe lo spazio concesso a questo in-tervento) si è resa necessaria per collocare queste riflessioni rispetto ad una prima questione. Mi riferisco a quelle che Marcello Verga ha definito “retoriche cittadine”, in un bel saggio “Firenze: retoriche cittadine e storie della città”,

pubblicato online sugli “Annali di storia di Firenze”. “Insomma - scrive Verga-, nessuno a Firenze ha preso mai sul serio l’amara invettiva e l’insofferente denuncia del grande archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli quando, nei primi mesi del 1945, all’indomani della Liberazione, in un confronto sulla ricostruzione del centro della città di-strutta dalle bombe naziste, ammoniva sul tragico e banale ruolo che si voleva lasciare agli italiani – e qui italiani sta anzitutto per fiorentini - «di non essere altro che custodi di un museo, i guardianidi una mummia», rivendicando invece «il diritto di vivere entro città vive, entro città che seguono l’evolversi della nostra vita, le vicende della nostra storia[ ]: perché vogliamo essere finalmente un popolo tra gli altri popoli che dalla presente miseria, dalla presente infelicità e umiliazione, riprende liberamente la strada della propria sorte europea»”. Si tratta di contrastare una certa idea “provinciale” di Firenze e delle sue magnifiche sorti, per cui ciò che riguarda la città è sempre unico e irripetibile al mondo, quasi fosse sconve-niente misurarsi con i grandi temi della contemporaneità. Nonostante quel grande prodotto della cultura europea che è il “mito” di Firenze, la città oggi è una media città, che condivide dilemmi e contraddizioni dello sviluppo urbano e che stenta, al pari di tante città italiane, ad inserirsi in un ciclo di “rinascita urbana” che studiosi di varia estrazione ed orientamento intravedono come fenomeno europeo. Questo rapporto “difficile” della città con il “mito” di Firenze sarà una costante nel dibattito politico e culturale, destinato a riemergere periodicamente e ad influenzare non poche scelte di governo. Recentemente una certa retorica provincialistica, spesso becera, talvolta colta, ha investito anche una certa idea di Toscana, di immutabilità dei grandi paesaggi toscani,ammantandosi di argomentazioni a sfondo ambien-talista, in singolari forme “NIMBY”.

di RICCARDO CONTI*

Riccardo Conti. Vicepresidente dell’Associazione Romano Viviani.

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Se interlocutore di Bianchi Bandinelli era Be-renson, con la sua grandezza, che ha lasciato a Firenze Villa I Tatti e il suo stupendo archivio sul Rinascimento, a noi, più sfortunati, sono toccati in dote tardi epigoni che alla città e alla regione non lasciano che le loro pole-miche, in un ruolo, variamente mascherato, di guardiani della rendita, inconsapevoli (?) eredi di una tradizione anti - industriale che è stato un filo rosso della cultura delle classi dirigenti post-unitarie. Dalla Destra Storica alla Firenze anni 30 di Pavolini con il suo asse di sviluppo “mercatura-cultura”.Ne ha scritto brillantemente Marco Palla nel suo fondamentale “Firenze nel regime fascista”, argomentando sulla tenacità di un blocco sociale e culturale destinato a durare nel dopoguerra, fino alla “Fi-renze e il suo contado”di Bargellini. Una naturale alternativa a questo “back-ground” socio-culturale è stato storicamente il movimento operaio, socialista, mutualistico toscano. Con il dopoguerra e lo sviluppo di quel fenomeno, originale e non abbastanza indagato, che è stato il regionalismo toscano, tali istanze “socialiste” divengono programma di governo.“Nessuno più di noi -scrive Mario Fabiani nel 1963- è in-fatti ( ) lontano dal mondo degli stanchi adoratori della To-scanina della quale discettava or è un secolo un gruppo di colti ed amabili signori che nella regione possedeva grandi estensioni di terra, che era il depositario del sapere come del potere e che ha lasciato dietro di sé tanti sospiri languorosi ora magari repressi ma non spenti;una Toscanina che signi-ficava vita tranquilla per i beati possidentes, capacità di ela-borare gruppi di validi anche se non sempre vigorosi ingegni intellettuali, povera agricoltura mezzadrile, contadini impi-griti e non diremmo egemonizzati ma addirittura succubi del buon padrone, con elegantissime ma silenziose città ed aviti castelli o rinascimentali ville dove la grande proprietà andava a braccetto con la borghesia antica e recente e con l’intellettualità delle pandette e del verso a godersi vicende-volmente i frutti del loro raffinato mondo.” Ma anche un uomo come Spadolini ha scritto polemica-mente contro un’idea di “Firenzina”a testimoniare l’ampiezza di un movimento sociale e culturale attento ad esigenze di “modernizzazione”, di industrializzazione, di sprovincializ-zazione dell’ambiente economico-sociale della regione. Si è accompagnato questo movimento ad una grande tradizione urbanistica e di attenzione al territorio e alla sua tutela. Il “modello toscano” su cui ci ha lasciato pagine mirabili Romano Viviani. Una tradizione rappresentata non solo da grandi intellettuali ma anche da una generazione stra-ordinaria di sindaci e amministratori che hanno realizzato il miracolo di conciliare l’industrializzazione e una grande stagione di sviluppo economico e civile con una mirabile tutela delle colline e del carattere policentrico del tessuto insediativo della regione. Questo scontro tra idee opposte

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Concorso per la ricostruzione delle zone distrutte nel 1945: proposta di strada pedonale sopraelevata in Por Santa Maria (L. Bartoli, I. Gamberini, M. Focacci)

dello sviluppo economico e civile ha raggiunto il suo apice nella Firenze del dopoguerra, dove l’equilibrio delle forze in campo ha finito con il produrre quel particolare fenomeno che è stato definito come “indecisionismo” fiorentino e, co-munque, ha rappresentato una remora profonda a processi di modernizzazione.Molti studiosi mettono un particolare accento sulla ina-deguatezza della struttura istituzionale come principale ostacolo alla modernizzazione delle città italiane. Così si è espresso Antonio Calafati in un suo bel libro -“Eco-nomie in cerca di città. La questione urbana in Italia.”- e più di recente in un’intervista al giornale “Metropoli” sulla realtà fiorentina. L’osservazione a me pare pertinente ma insuffi-ciente. In particolare per la nostra realtà.Voglio sottolineare con questo che le questioni istituzionali hanno fatto parte di un più generale scontro sulle caratteri-stiche dello sviluppo economico e civile e che, se ovunque il rapporto tra le città capoluogo, i processi di metropolizza-zione, lo sviluppo regionale ha assunto aspetti contraddittori, quando non conflittuali, nella realtà fiorentina e toscana contraddizioni e conflitti hanno avuto una loro significativa specificità, una loro ulteriore contraddittorietà, ben ricondu-cibili a quell’“equilibrio instabile” tra opposte visioni culturali e civiche che hanno caratterizzato la vita politica fiorentina. Calafati pone una domanda intrigante, e cioè com’è che una città che mostrava un suo dinamismo e una sua promettente vivacità come la Firenze degli anni 50 è defluita in quella media città, non priva di un suo dinamismo ma molto al di sotto delle potenzialità allora intuibili. In effetti, la Fi-renze degli anni 50 offre un’immagine di notevole vivacità culturale e di dinamismo sociale e politico. Cito in ma-niera disordinata come rappresentazione di quell’ambiente : Il nuovo corriere e Romano Bilenchi, l’esperienza di La Pira, l’Osservatorio astronomico di Arcetri, le case editrici, le grandi lotte operaie del Pignone e della Galileo, la Pro-vincia di Mario Fabiani. Ma ancora i circoli intellettuali da Pratolini a Rosai. Calafati fa risalire la genesi della “moder-nizzazione incompiuta” alla frattura tra la città e l’hin-terland industriale.

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Quest’analisi contiene del vero ma non è persuasiva. Intanto perché non considera che Firenze è anche (tuttora) una città industriale, una delle più importanti città metal-meccaniche, ma soprattutto trascura il dato della lotta po-litica e della dinamica delle forze in campo. Sarebbe riduttivo ricondurre il conflitto politico alla di-namica PCI-DC, che la figura di La Pira e il lapirismo non sono certo riducibili alla Firenzina. Resta il fatto che La Pira fu affossato da una certa DC e avversato da una certa Firenze. È altrettanto un fatto che da Fabiani in poi fino all’esperienza del piano Detti la parte migliore dell’intellet-tualità e della politica progressista si è misurata con i temi della pianificazione intercomunale, del regionalismo, della modernizzazione.Il frutto di questa dialettica ha prodotto una complessità territoriale rilevante. Se guardiamo ai processi di urbanizza-zione ciò è ancora più evidente. Se si ha in mente i canonici modelli di metropolizzazione si rischia di andare fuori strada. Lo sviluppo senza “fratture” con cui Giorgio Fuà ha descritto l’industrializzazione del Nord Est, o le tante analisi sullo sviluppo lombardo con la sua spiccata vocazione “land use” non sono riferimenti convincenti, rispetto alla realtà toscana. Quello che Cacciari ha, a proposito, definito il “territorio senza città” non sarebbe una rappresentazione attendibile dell’area metropolitana fiorentina. Il viaggio so-ciale e urbanistico dall’“altrove” temporale (le lotte e le spe-ranze di futuro nelle borgate romane), all’ “altrove” spaziale

(il riflusso nell’“anonimia” nell’attuale periferia romana) che Walter Tocci immagina in un bellissimo saggio sulle “di-suguaglianze metropolitane”, (pubblicato su TamTam de-mocratico, rivista online del PD), mal si attaglierebbe alla comprensione della vita politica e sociale dell’hinterland fiorentino. Intendiamoci, in quanto descrizioni efficaci di un fenomeno saliente dello sviluppo urbano contempo-raneo (lo sprawl urbanistico) sia il “territorio senza città” che l’“altrove”spaziale contengono spunti di analisi e im-magini culturali della contemporaneità utili alla compren-sione delle odierne città capitalistiche. Ma c’è una parti-colarità legata al policentrismo toscano che non può essere ignorata. L’espansione urbana degli anni 60 (ma anche il nuovo boom edilizio –finanziario degli anni 2000) hanno incontrato “identità” locali radicate, fornite di un ricco “ca-pitale sociale”, con una vita democratica e associativa vivace, e municipi ben governati. Con risultati non sempre felici c’è stato, comunque ed ovunque, un governo urbanistico dello “sprawl”. E laddove negli anni 60- a sudovest- l’espansione ha incontrato municipalità meno strutturate (vedi i lavori svolti da Roberto Aiazzi sullo sviluppo di Scandicci, precisi e argomentati) l’azione di governo negli anni successivi si è rivolta fortemente alla costruzione di una moderna identità, fino all’attuale piano Rogers. Annick Magnier ha suggerito di leggere in termini di formazione di “città di periferia” il processo di espansione metropolitana. Trovo persuasiva questa lettura.

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La città di Firenze, stando ai dati del 2010, raccoglie il 61% della popolazione dell’area metropolitana fiorentina. E’ interessante, però, analizzare la composizione della popolazione e, soprattutto, la variazione nel corso degli ultimi 50 anni.

Il grafico mostra come la componente straniera della popolazione sia aumentata del 12,5% dal 2004 al 2009, mentre il numero complessivo degli abitanti non ha subito variazioni di rilievo. Ciò sta a significare un cambiamento strutturale della popolazione della città di Firenze, dove gli italiani lasciano il posto a emigrati provenienti dall’estero, quindi con un mix culturale in crescita e una cittadinanza sempre più eterogenea.Ma uno dei dati più significativi risulta essere quello che riporta il numero della “popolazione presente”: a fronte

di una popolazione di 368.901 unità Firenze registra quotidianamente 504.000 presenze, quindi 142.000 persone arrivano in città ogni giorno per studio, lavoro e/o turismo. Questi sono a tutti gli effetti coloro che vengono definiti “city users”, ossia utilizzatori dei servizi cittadini, che arrivano la mattina e ripartono la sera, che affollano, quindi, le direttrici in entrata e in uscita dalla città (ferrovia, autostrada, trasporto pubblico). L’arresto, e la diminuzione, nella crescita demografica fiorentina è, in definitiva, solo apparente, disegna un immobilismo vero solo sulla carta.

Gente di Firenze

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La frattura di cui parla Calafati ha una genesi politico-cul-turale complessa ed ha prodotto risultati territoriali altret-tanto complessi. La mia esperienza politica mi porta a porre l’accento non solo su esiti legati ad azioni di riforma istitu-zionale ma più in generale a misurarsi con il governo del policentrismo- anche in questo caso croce e delizia, nodo e risorsa di un “attuale” riformismo urbano- in una dialettica fortemente cooperativa tra le “città-regione” in una “regione di città”. Accettando la sfida di proporre Firenze come città di “frontiera” dove possano incontrarsi, in chiave europea, l’Italia della - competitività e l’Italia della “coesione”. Altri autorevoli saggi approfondiranno questi temi poco più avanti.E, tuttavia, il nodo della modernizzazione “incompiuta” merita di essere approfondito ulteriormente. Vorrei attirare l’attenzione su due momenti topici dove contraddizioni e conflitti politici e culturali tra diverse visioni di Firenze e della Toscana hanno prodotto una “cattiva” mediazione po-litica o il fallimento di progetti di “modernizzazione”. Mo-menti in cui quell’equilibrio “instabile”della “governance” della città ha finito con il determinare delle vere e proprie “occasioni perdute” per un salto qualitativo dell’assetto urbano. Il primo scenario è la Firenze del dopo alluvione. Gli “angeli del fango”, i comitati di quartiere, le case del popolo insieme alle parrocchie; insomma una città vitale e una grande espli-citazione giovanile del “mito” di Firenze promisero una rina-

scita fiorentina di spessore e valore “storico-politico”.La ricostruzione fu mediata politicamente dalla DC postla-piriana. Figura emblematica il sindaco Piero Bargellini, per-sonalità popolare, esponente di spicco di un cattolicesimo conservatore, narratore impegnato di una “Firenzina” chiusa nei suoi confini, culturalmente erudita ma provinciale, so-cialmente legata a quel filone “mercatura-cultura” di pa-soliniana memoria. La sua visione dei rapporti con la re-gione era ben rappresentata dall’immagine “Firenze e il suo contado”, che era a suo modo un programma di governo. Il notevole afflusso di risorse fu mediato da questa cultura politica. E così avvenne che, mentre a Bologna il sindaco Dozza varava un grande progetto di modernizzazione in-frastrutturale e funzionale da “città-regione”, mentre a Pe-rugia si progettava un geniale sistema di mobilità, fondato sulle scale-mobili, il dopo-alluvione a Firenze fu gestito nel segno di un forte assistenzialismo, parecchio mediato dalle parrocchie, e di una restaurazione del tessuto sociale di riferimento- piccolo commercio, artigianato, grandi mo-numenti-. Insomma di rifare “Firenze com’era”. Questa im-postazione continuerà a vivere negli anni successivi, anche dopo l’avvento delle giunte di sinistra come orientamento di un’anima della DC e di una parte consistente del mondo del commercio fiorentino. Emblematica resterà ,a proposito, la campagna di manifesti “Vogliono strappare il cuore a Fi-renze” rispetto a proposte, non sempre andate a buon fine, di decentramento di importanti funzioni direzionali e cul-

La fotografia dell’andamento demografico di Firenze e dell’area metropolitana ci presenta una situazione di costante crescita della popolazione nella cintura urbana (Campi Bisenzio, Sesto Fiorentino, Scandicci, Calenzano…), con un arresto negli ultimi 10 anni e contemporaneamente la diminuzione, dagli anni 80, degli abitanti del capoluogo seguito da una sorta di stabilizzazione dal 2000 al 2010. Nel ’61 il 78% della popolazione dell’area fiorentina risiede all’interno del capoluogo, ciò a causa dei fenomeni di industrializzazione, deruralizzazione che hanno come conse-guenza la migrazione dalle campagne e dai centri minori verso la città. Ma la crescita della popolazione di Firenze, che fino al ’62 era stata costante e sostenuta, si attenua nel ’63 e si arresta nel ’64. Nel periodo che va dai primi anni

sessanta fino alla metà degli anni settanta la posizione dominante di Firenze si indebolisce, sia per la relativa stati economica, sia per lo scarso approfondimento della qualità delle sue strutture economiche (Urbanistica n. 73 del 1983 - Baldeschi). L’andamento demografico descrive le tendenze del periodo, ossia la perdita di attrattività relativa dell’area che inizia a metà degli anni ’60 e una perdita assoluta che si registra con maggiore evidenza a partire dalla metà degli anni ’70. L’indebolimento del potere di attrazione del capoluogo rispetto all’area metropolitana circo-stante è testimoniato anche dal fatto che a partire dalla fine degli anni ’60 i saldi attivi della corona urbana crescono rispetto a quelli di Firenze ed il rapporto continuerà a decrescere nel tempo fino al 2000.

La tabella evidenzia con più precisione il fenomeno sopra descritto di stallo nella crescita dei residenti in città prima e di diminuzione poi, mentre nella cintura urbana gli andamenti sono molto più contenuti, se non in controtendenza. Nell’ultimo decennio, 2000-2010, il saldo demografico di Firenze torna ad essere attivo (4,4%), mentre diminuisce nell’area metropolitana. Per chi è più attrattiva la città? Come già descritto la composizione della popolazione fio-rentina è cambiata: il 25,65% sono i residenti oltre i 65 anni, il 12,5% sono stranieri. La maggior parte dei cittadini risiede in famiglia, ma il numero medio dei componenti per famiglia è sceso a 2. Nel 1991 le famiglie erano 159.937, nel 2010 181.944; nel 1991 le famiglie unipersonali erano il 34,8%, nel 2010 sono il 45,2%. L’insieme di questi dati

ci descrive una società con bisogni, abitudini e cultura completamente diversi rispetto al passato, che necessitano, quindi, di un tessuto urbano e di servizi adatti alle loro mutate esigenze. A questi si sommano quelle 142.000 unità che arrivano a Firenze la mattina e ne escono la sera, i city users, che pesano però sulla città esattamente come abitanti a tutti gli effetti, chiedendo, in aggiunta adeguati servizi di mobilità sia in entrata che in uscita. La fotografia di Firenze al 2010 ci restituisce una città immobile, senza crescita demografica, ma con una popola-zione sempre più eterogenea. Si tratta, però, di un immobilismo apparente, che nasconde, invece, una città dinamica e in crescita, di cui va tenuto conto nel disegnarne funzioni e servizi.

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turali verso l’hinterland. Il secondo scenario è la Firenze di fine anni 80 ed è il PCI a fallire nel suo tentativo di “mo-dernizzazione” della città. Non è obbiettivo di queste note fare un bilancio complessivo della vicenda della “variante a Nordovest”; troppi i protagonisti ancora in campo, troppi i rischi di prestarsi a letture strumentali, in chiave attuale. Questo tempo verrà. Qualche considerazione può ren-dersi utile. Sul piano urbanistico l’operazione era figlia di quel periodo e viveva significativamente, nella crisi della pianificazione prescrittiva e previsionale, il riflusso verso la cosiddetta “urbanistica contrattata”. In Toscana, prima che altrove, si lavorerà per superare quegli orizzonti per tentare la strada della pianificazione strutturale e di un nuovo tipo di riformismo urbanistico. L’idea di costruire a Novoli e a Castello nuovi pezzi di città, quasi a prefigurarne un nuovo “Centro” di tipo metropolitano aveva una sua suggestione -da declinare meglio con il “policentrismo” toscano, da di-mensionare con maggiore parsimonia-, ma era appunto un’“idea di città” con una sua forza. Come tale avversata sotterraneamente ma ferocemente dalle tante espressioni della Firenzina. Un’idea di città: è proprio ciò che è venuto a mancare negli anni successivi spesi a gestire, anche in ma-niera accorta come nel caso dell’Alta Velocità, occasioni di sviluppo che erano, spesso, la banalizzazione degli interventi venuti a mancare. È così che mentre decollavano le “città di periferia” languiva Firenze. Ancora oggi un buon Piano strutturale come quello approvato di recente non pare ac-compagnato da idee-forza di trasformazione metropolitana e di modernizzazione strutturale, che tale non appare la, pur lodevole e condivisibile, intenzione di un piano a “volumi zero”. Se si trattava di “urbanistica contrattata”, si trattava di un’operazione di grande livello come testimoniavano il piano di zona redatto da Gianfranco Di Pietro e tutto l’ela-borato “convenzionale” supervisionato da un padre della Re-pubblica come Paolo Barile, ispiratore e convinto assertore della “variante”. Scrivo ciò per fare giustizia su polemiche volgari seguite alla telefonata di Occhetto e innescate dallo stesso, riprese di recente da Campos Venuti, su paternità equivoche dell’operazione a Nordovest. Al gruppo dirigente di allora del PCI fiorentino, massacrato politicamente dalla vicenda, va perlomeno riconosciuto che, rispetto ad un affare di quella portata, riuscì ad uscirne dalla sera alla mattina, come può fare solamente chi non ha scheletri nell’armadio.La conseguenza più profonda sul piano politico non sta nella vicenda del PCI fiorentino, che comunque da allora ha perso peso nazionale e, soprattutto, regionale - e con lui la rappresentanza politica della città- ma nel venire meno di un rapporto di qualità che cominciava a prefigurarsi con una borghesia cittadina, disponibile a spendersi su un progetto di modernizzazione della città, ad assumere un ruolo nella vita pubblica anche regionale come sembrava aggregarsi in-torno a Fondiaria ed a un suo gruppo dirigente vagamente “olivettiano”. Qui sta la vera occasione persa.

Alla fine ci è toccato in sorte Ligresti, la ricorrente maledi-zione urbanistica sui destini dell’area di Castello, la “cricca” e consimili, una città poco attrattiva per seri investitori. Spe-rando che tra trent’anni non ci trovino ancora intenti a di-scutere, come questione delle questioni, di qualche centinaio di metri in più per la pista dell’aeroporto di Peretola. Queste a me paiono le vere fratture di una “modernizza-zione incompiuta ”. Il fatto che non trovi convincenti interpretazioni o pro-spettive di riforma troppo affidate ad una “modellistica” istituzionale, non significa che non esistano evidenti motivi di semplificazione dell’assetto istituzionale e dell’apparato amministrativo a cui porre mano. Ma qual è la strada giusta? Paradossalmente l’esperienza toscana segnala non una scarsa attenzione alla “modellistica”, ma caso mai un eccesso di progettazione di nuovi livelli istituzionali, una sorta di mania “zonizzatrice”. Ed oggi che si riapre un dibattito su aree metropolitane, unioni di comuni, superamento delle Province consiglierei di andare a dare un ‘occhiata ai ma-teriali che un gruppo di ottimi dirigenti della Regione, co-ordinati da Alberto Brasca elaborò negli anni 70 sull’isti-tuzione dei “Comprensori”;personalmente considero quella lettura della Toscana, quell’idea di “intercomunalità” una base ancora oggi valida sul piano culturale e dell’efficacia promessa. Più recentemente la legge sul governo del terri-torio, prima, e un’apposita legge, poi, hanno messo l’accento sulla “partecipazione”, intesa come gradiente dell’azione di governo, fino a concepirla come elemento indispensabile di progettazione democratica e sociale di una politica di ri-forme. Non si supera il “localismo democratico” per decreto, ma costruendo nuova democrazia, intercomunalità efficace, un rapporto fecondo tra strategie di riforma e azioni dal basso. Magari sfuggendo dal rischio (insito in certe inter-pretazioni della legge toscana sulla partecipazione) di ri-durre tutto ad un rigorismo procedurale che finirebbe con il rovesciare l’intenzione riformatrice nel suo opposto: una forma inedita di neo-centralismo regionale e di spoliazione “burocratica” dell’azione politica.In buona sostanza non esiste riformismo “senza popolo” e questo è ancora più vero in momenti di crisi “angosciosa” come l’attuale. Penso si concordi sul fatto che è Firenze quella che vediamo dal Piazzale Michelangelo, ma anche da Monte Morello, o dal Montalbano. Scriveva Calamandrei che, venendo da Siena, passato Poggibonsi si cominciava a sentire l’ “odore” di Firenze. Versioni, magari non provinciali, del “mito” fiorentino sono Firenze nel mondo.“Firenze dopo” significa guardare alle diverse “dimensioni” di Firenze - la capitale regionale, la media città, le “città di periferia”, il “mito” della cultura europea - in maniera la più unitaria possibile, alla ricerca di idee-forza per compiere la “modernizzazione”. Proponiamo non improbabili sintesi ma scenari su cui ragionare, su quattro parole chiave: frontiera, città-regione, accessibilità, attrattività . Buona lettura. •

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Firenze è stata più volte nel passato ‘capitale’ e ‘cerniera’: nel XV secolo sede di nascita di una civiltà urbana

protocaptalistica prima di Parigi e Londra, nel XIX ca-pitale italiana prima di Roma. Tracce utili per ripensare Firenze nel XXI secolo, entro l’ambizioso orizzonte trac-ciato da Toscana 2030 grazie al lavoro dell’IRPET.Nel 2010 Firenze (e provincia) si colloca del resto al 15° posto tra le città italiane per indice sintetico di sviluppo (somma di numerosi indicatori socioeconomici elaborati da Confindustria): prima di Roma (che è 16°), prima di Torino (che è 20°) e di numerose altre città del Nord. Firenze si prende quindi una rivincita sulle altre due ca-pitali d’Italia. Già si intuisce che la vecchia immagine della Terza Italia va aggiornata a una scala nuova, proba-bilmente macroregionale.Nel passato remoto Firenze ha avuto una forte irradia-zione europea: oggi deve ritrovare una propria proiezione in un ambito più allargato.Firenze sta al Nord Italia in una relazione di frontiera mobile. Infatti questa macroregione si sta saldando in forme molto interessanti e aperte, proprio in direzione di una integrazione con i sistemi limitrofi. Forme che stiamo studiando accuratamente anche per sottrarre il discorso pubblico sul Nord alla deformante egemonia esercitata da posizioni localiste, integraliste e retrograde in netto con-trasto con la natura dinamica e con il bisogno di apertura espresso dal sistema economico del Nord. I tratti principali da cui partire riguardano l’internazio-nalizzazione dei sistemi economici connessi a un forte sviluppo dell’economia dei servizi. Le città si aprono a nuove geografie sia dell’industrializzazione che dello svi-luppo territoriale. L’incrocio tra queste due dimensioni un tempo avveniva nell’ambito urbano circoscritto, oggi si distende a scale del tutto nuove e allargate. Si tratta di “città-regioni globali”, che non sono più città e non sono più regioni. E che cosa sono? Sono delle amalgama di economia e società che non hanno una precisa rappre-sentazione. La stanno cercando, e tendenzialmente sono

“città-regioni globali” nel senso che i flussi che passano per questi territori non sono localizzati territorialmente, tanto meno confinabili in una dimensione cittadina o re-gionale. La possibilità di definire la città sembra messa fortemente in crisi nel momento in cui il mondo appare leggibile so-prattutto come un mondo di flussi, che appartengono a tipi di relazioni che sfuggono a un controllo “puntuale”. Cioè la città può essere un punto, un nodo, ma questi flussi non sono in alcun modo riconducibili ad un go-verno locale. Nell’epoca dei flussi globali la città, se presa isolatamente, rischia di perdersi come punto che ordina lo spazio. Quindi bisognerà riflettere e vedere quali mo-delli nuovi stiano emergendo dal punto di vista della città. Ho già parlato di “città-regione”, che certamente è uno dei temi su cui riflettere nella dimensione allargata oggi impressa dall’economia alle nostre città. La “città-regione globale” del Nord per esempio, ha una sua connotazione che possiamo definire una “regione di città”. Probabil-mente è questa una pista interessante: più che una “città-regione”, nel senso in cui la pensano i geografi californiani che hanno formulato questa idea, è una “regione di città” che si estende in più direzioni. Particolare tessuto poli-nucleare che si infittisce in reti sempre meno circoscritte localmente, sempre più macroregionali e globali (paesi confinanti, Germania, Est Europeo, Asia). Ma la “città-regione” del Nord è certamente interessante anche per i flussi globali di persone (2.5 milioni di residenti stranieri nel Nord), di merci, di conoscenza che stanno crescendo e che stanno mettendo alla prova la forma-città sin qui conosciuta. Per affrontare la nuova dimensione le città devono svi-luppare delle proprie ‘visioni’, diventare città per progetti: ciò significa che questa rappresentazione si definisce nell’interazione che la città realizza con insiemi più vasti, in un percorso basato sull’idea di progetto. Noi veniamo da una crisi dei modelli progettuali della razionalità mo-derna. Quando si pensava che si potesse lanciare nel

Firenze “frontiera” del nuovo Norddi PAOlO PeRUllI*

* Paolo Perulli. Professore ordinario di sociologia economica.

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futuro qualche idea, per poi da lì tornare indietro per vedere quello che va fatto oggi. Questa dimensione dei progetti è stata usurata negli ultimi decenni. Però ancora una dimensione per progetti della città si può pensare, ma di che tipo? Questo è il tema della pianificazione strategica. Si tratta delle città che sembrano in grado di reggere all’urto dell’ uniformazione, dell’omologazione che vuole banalizzare ogni forma di costruito, ogni forma di pensato. La natura distintiva della città, come Firenze, risiede nella sua assoluta unicità storica e insieme nella sua attualità. In tal modo la città riesce a diventare una struttura riflessiva e autoriflessiva. Ma come fa a diventare riflessiva una città? Negli ultimi venti anni in Europa pa-recchie città (e tra esse Firenze) hanno provato a darsi dei piani strategici. Un tentativo di democrazia deliberativa, in cui le persone che normalmente non partecipano alla decisione pubblica, oppure subiscono le decisioni della democrazia di tipo rappresentativo, possono invece essere partecipi di tentativi e di esperimenti da parte della città di darsi orizzonti che riguardano una capacità di progettare. Ma come fa una città, un’economia urbana da sola, a par-tecipare in modo efficace ai processi di diffusione, di cre-scita nella dimensione globale? Le città possono tentare di “montare” dei sistemi allargati, dei raggruppamenti non casuali ma basati sulle complementarietà e le specializ-zazioni. Il riferimento è alla letteratura che si occupa di cluster. E’ un tema che nasce dall’economia industriale, ma molto fecondo anche per chi si occupa di città. E’ l’idea che possano esserci cluster territoriali, raggruppamenti di città, che non stanno nella dimensione “a matrioska” - stato, re-gione provincia, comune - che non vogliono dire quasi più nulla sul piano spaziale anche se sono tuttora le nostre isti-tuzioni. Quindi una proposta di costruzione della società a partire dall’ idea di assemblaggi. Assemblaggi non solo di territori ma di politiche: pacchetti variabili che siano congruenti con strategie di sviluppo differenziate rispetto alle opportunità e ai vincoli locali. Credo che qui ci sia qualcosa su cui riflettere quando parliamo di città. Cioè se la città possa essere ancora un punto da cui noi ri-as-sembliamo la società, uscendo dal sistema delle istituzioni chiuse una dentro l’altra, rimontando da lì forme nuove sia di società, di interazione, che di città. Partire da lì al di là della scala, che siamo noi a definire, a costruire. La scala della città - media, piccola o grande - non vuol dire molto rispetto al sistema della mobilità e dei flussi che diventano il principale fattore esplicativo dello sviluppo territoriale. Mi pare che questo sia un programma di ricerca utile ed interessante su cui impegnare le nostre forze intellettuali. Insomma, il fatto che in società civili si possa lavorare ad un programma come questo rappresenta una forte “difesa” della città e un antidoto contro i processi di abbandono, di

consegna delle città ad un processo omologante, in molti casi al degrado socio-economico della città (urbanizza-zione diffusa, immigrazione non governata, danni am-bientali). L’altra direzione di ricerca riguarda perciò la connettività delle città e dei sistemi sociali che esse rappresentano. Ab-biamo guardato a lungo alle città come dotazione (stock) di risorse, confrontando il peso relativo di esse in termini di dotazione (endowment) di capitale economico, sociale, culturale. E’ giusto. Ma occorre ormai guardare le città anche come relazione, come nodi entro reti più ampie e tendenzialmente globali. Il mondo è qui rappresentato come una “tempesta” di transazioni, e questa rappresenta-zione dei flussi permette di superare la vecchia immagine del mosaico di sistemi locali. Il geografo Peter Taylor studia le connessioni, le global network connectivities tra le città partendo dai servizi (contabilità, pubblicità, finanza, assi-curazioni, legali, consulenza) delle imprese globali in cen-tinaia di città mondiali, tutte esposte alla globalizzazione anche se in posizioni centrali, periferiche o semi-perife-riche. Quanto ciascuna città è connessa alle altre, e a quali, è la variabile dipendente della ricerca. Emerge tra le città italiane la forte posizione di Milano (8°) mentre Roma è molte posizioni sotto nella graduatoria, e le altre città ita-liane sono in posizioni marginali. Ne deriva che Milano svolge un ruolo di attrazione per molti aspetti funzionali più importante di quello di Roma, e di questo una città come Firenze deve essere consapevole.Vedere le relazioni dinamiche tra le città ci permetterà di disegnare nuove relazioni economiche e di potere. Ad esempio tra le città del Centro-Nord in rete tra loro, e con altre macroregioni europee. Emergono cioè nodi che hanno la proprietà di essere collegati enormemente più di altri, veri e propri hubs. Queste ricerche ci condurranno a capire meglio come funzionano globalmente le città.Reti di città secondo questa prospettiva sono reti formate da nodi, che hanno ruoli e pesi diversi. Solo alcuni nodi hanno massa critica sufficiente e una dotazione di capitale territoriale (inteso come insieme di asset materiali e im-materiali) utile per tenere relazioni globali o sviluppare reti lunghe. Altri nodi sono sotto-dimensionati o in via di contrazione. Questi ultimi nodi possono fare riferimento ai primi scambiando con essi risorse su una scala più cir-coscritta, ma andando più lontano attraverso il nodo prin-cipale rappresentato dalla città-hub. Quest’ultima ha varie funzioni predisposte a questo fine: possono essere relative all’accessibilità (connessione ferroviaria e stradale, aero-portuale, portuale) alla ricettività (attrazione di studenti da parte dell’università o centri specializzati, di turisti, di visitatori da parte di fiere, mostre ed eventi) e all’apertura internazionale (vari servizi). La combinazione tra queste

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dimensioni è quella che conta: tra le città europee si si-tuano ai primi posti quelle che hanno saputo coniugare of-ferta di tipo infrastrutturale, servizi integrati alla mobilità e attività di richiamo per imprese e persone. Si possono confrontare in questo senso anche le dotazioni di attività creative e di servizi avanzati dei diversi sistemi locali del lavoro. Ma dobbiamo andar oltre studiando le relazioni tra i nodi, ovvero la mancanza di relazioni. In termini logistici le città sono”porte”, nodi di “extended gates” che includono porti, interporti, retroporti, inland terminals. Al Centro-Nord si situano i porti liguri e i loro retroporti piemontesi, emiliani, veneti, il porto di Livorno che guarda a Bologna, e i porti adriatici (v. Fig. 3). In termini cognitivi le città possono partecipare a reti in-telligenti. Si tratta di indagare le reti di e tra le imprese. Ad esempio le imprese del polo fiorentino della moda con Milano.Si possono studiare le nuove tecnologie dell’ informa-zione (IT) e della comunicazione. Le imprese IT sono per natura in rete. Milano è il principale Internet hub italiano, ma anche Torino ha un ruolo e imprese IT si stanno svi-luppando in molte città, comprese quelle toscane.

Si tratta di capire meglio la vischiosità delle città, la loro per molti versi ‘misteriosa’ capacità di attrarre imprese e persone, di creare e di aggiungere valore. Rileggere le città, i territori e le regioni in questa chiave ci permetterà di capire meglio e di riposizionare ciascuna città, e le loro reti, nel sistema globale. Il Progetto Nord ha riletto in questa chiave le città del Centro-Nord con almeno 100.000 abitanti scoprendo che la crescita di popolazione si è addensata in nuovi amalgama come le città della via Emilia e le città lungo l’asse tra Milano e il triangolo Venezia-Padova-Treviso. Mentre le città metropolitane di Milano e Torino crescono, quelle di Genova e Trieste arretrano, Bologna non cresce, mentre crescono Firenze e la città metropolitana della Toscana centrale da un lato, e l’asse urbano fino a Rimini e verso la costiera adriatica dall’altro (v. Fig. 1). La Fig. 2 indica la forte congruenza tra questi modelli di crescita urbana e i modelli di localizzazione produttiva nei settori di specializzazione più dinamici del made in Italy, come quello delle macchine utensili. La Fig. 3 indica le principali direzioni dei flussi logistici, e inquadra il ruolo della Toscana entro un sistema Nord “allargato”.

Figura 1 - Aree metropolitane del Nord Italia classificate sulla base della loro popolazione al 2008 - Residui rispetto al 1961

Fonte: Elaborazioni di P. Feltrin su dati Istat, Censimenti popolazione e abitazioni, per Progetto Nord

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Figura 2 - La distribuzione geografica delle società di capitale del settore delle macchine utensili in Italia (indici georeferenziati per comune in base al fatturato delle società di capitali del settore 29.4)

Fonte: AIDA 2010 (dati di bilancio 2008) – Elaborazioni di E. Ciciotti per Progetto Nord

Figura 3 - La logistica del Nord: valichi, porti ed interporti

Fonte: Confetra 2009; porti e interporti, 2008 – Elaborazioni di Progetto Nord, 2009.* I dati si intendono riferiti ai soli container pieni.

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Le lezioni da trarre vanno nel senso di evidenziare le oppor-tunità per Firenze e la Toscana nel nuovo scenario. Lo sviluppo urbano si è addensato lungo le direttrici in-frastrutturali, e questo “spiega” la città lineare adriatica da Rimini a Pesaro, l’area metropolitana della Toscana cen-trale, il nodo di Perugia. Queste regioni (Toscana, Marche, Umbria) sono almeno in parte caratterizzate da strutture economiche fondate su sistemi di piccola e media im-presa imparentati-anche se in settori manifatturieri più tradizionali e dimensionalmente contenuti- con quelli che fondano il sistema Nord. Sembra emergere una nuova rap-presentazione “allargata” del Nord verso le tre regioni, che oltre a fungere da cerniera-corridoio tra Nord e Centro appartengono per altri versi al sistema socio-politico e cul-turale del Centro: e in questa duplice appartenenza possono trovare un elemento propulsore anziché un elemento di debolezza. Le crescenti interdipendenze tra il sistema Nord e l’Italia di mezzo in alcuni campi riguarda le reti di città (Firenze-Prato-Pistoia) che sono fortemente attratte dal sistema urbano del Nord e in parte ne rappresentano un’estensione (lungo l’asse Bologna-Firenze). Integrazione rafforzata dalle infrastrutture dell’ Alta Velocità ferroviaria che hanno reso Milano e Firenze, le loro imprese, i mercati, le università, strutture culturali ecc. molto più prossime. Ma anche Livorno, quinto porto italiano, è integrato con l’ in-terporto di Bologna che ne è il naturale retroporto. Questi “effetti di avvicinamento” sono una possibile soluzione al problema dell’assenza di una metropoli nell’Italia di mezzo.

Essa sarà sostituita funzionalmente da un ispessimento di reti translocali e multifunzionali che disegneranno un nuovo sistema. Anche le reti di imprese (e i servizi alle im-prese basati sulla conoscenza) fanno parte del modello di media impresa a catene del valore lunghe che si è affermato al Nord. Queste reti tendono ad includere selettivamente le tre regioni indicate sopra in chiave di interdipendenza di-namica (in settori come moda, agroalimentare, meccanica). Infine i sistemi culturali del polo fiorentino, e quello della ricerca-innovazione e le spin-off companies del polo pisano hanno un retroterra naturale di utenza che è il Nord come sistema economico e della conoscenza. Perfino le public uti-lities (acqua, energia, rifiuti) un tempo gelosamente ‘locali’ sono sempre più coinvolte in un processo di concentrazione e aggregazione meta-urbana a scala Nord-Centro, con pro-blemi di economie di scala e di scopo e ricadute importanti sulla produzione di beni e servizi. Provando ora a dettagliare l’analisi riguardo a dati di ric-chezza, capitale umano e sviluppo della conoscenza, il quadro si presenta già molto più misto e convergente di quanto non dica la distinzione tra Nord e Italia di mezzo. Questo non significa che il Centro-Nord sia un blocco omogeneo: ma certamente che è meno diviso tra Prima e Terza Italia di quanto non si pensi. Le strutture sono più simili. Detto questo, altro è immaginare un processo di integrazione che deve coinvolgere le élites e le culture, le istituzioni politiche del Centro-Nord: qui i confini sono più netti. Su questo occorrerà lavorare.

Fonte:Fondazione IRSO su dati Lisbon Council, 2011

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I dati relativi al prodotto interno lordo posizionano Toscana e Marche in una situazione paragonabile a quella di Liguria e Piemonte: di poco inferiore rispetto all’at-tuale motore economico del Nord (il triangolo Lom-bardia, Veneto, Emilia-Romagna più Trento e Bolzano) e generalmente ben situata nelle medie nazionali ed eu-ropee. Le informazioni sull’education risultano confermate dalla classifica relativa alla presenza nel territorio re-gionale di lavori complessi (manageriali e imprendito-riali): la Toscana si posiziona nell’area a maggiore pre-senza di tali attività, insieme con Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna, mentre Umbria e Marche si attestano su valori inferiori ma non dissimili dalle regioni del Nord-Est. Una classifica molto importante ai fini della determina-zione del potenziale di sviluppo territoriale è quella re-lativa alla capacità innovativa (spesa in Ricerca§Sviluppo, brevetti). Per tali indicatori la prima regione del Centro-Nord è l’Emilia Romagna, seguita dalla Lombardia. La Toscana consegue un buon piazzamento in questa clas-

sifica, mentre Umbria e Marche risultano posizionate su valori medio-bassi (inferiori a quelli delle regioni setten-trionali, ma superiori a quelli delle aree alpine).Infine gli indicatori relativi alla disoccupazione (di lungo periodo e giovanile): per tale variabile le regioni Toscana, Marche, Umbria si posizionano su valori in-feriori rispetto a quelli della Lombardia e del Nord-Est ma migliori di quelli del Piemonte e della Liguria. In particolare è la Regione Toscana a mostrare valori simili a quelli delle regioni-motore (Emilia-Romagna e Lombardia) per gli indicatori relativi ai sistemi dei saperi e dell’innovazione, mentre Umbria e Marche tendono a valori più scostati rispetto a quelli medi delle regioni settentrionali.Se questo discorso di integrazione fosse esteso ad altri campi (sistema urbano, mobilità delle persone e delle merci, cultura) si potrebbe immaginare un rilancio del Centro-Nord come macrosistema delle “regioni della competitività”: una conclusione del tutto nuova e diversa del ciclo iniziato negli anni Settanta quando fu scoperta la Terza Italia.

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Nuova Stazione TAV a Belfiore (N. Foster)

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La competizione a scala globale si svolge principalmente fra sistemi di conoscenza localizzata. A prima vista

sembra che la competizione sia fra scarpe cinesi e scarpe italiane. O fra auto giapponesi e auto italiane. In realtà i pro-dotti sono l’esito finale di un processo che è per sua natura materiale e immateriale: ciò che oggi compete nel mondo sono i sistemi di conoscenza che stanno a fondamento di questi processi. In una certa misura ciò è sempre stato vero, ma oggi lo è certamente di più. Si tratta di una conoscenza localizzata o in una impresa (che può essere più o meno “sparsa” su territori diversi, anche di diverse aree mondiali, e che può avere un “cervello” più o meno accentrato) o in un sistema produttivo territoriale, un distretto, un cluster o una rete d’imprese e così via (anche questi possono essere più o meno “sparsi”e con “cervelli” più o meno accentrati). Il patrimonio conoscitivo che sta alla base dei processi pro-duttivi (sistema cognitivo) determina la natura della pro-duzione (high teck, prodotti maturi, etc) e ne definisce il livello di competitività. Questa conoscenza è localizzata nei territori (nell’ambiente sociale e cioè nelle persone, nelle organizzazioni e nelle istituzioni locali) ma anche nei mac-chinari, nei materiali, nei componenti e nei servizi, in primo luogo in quelli “avanzati”, che vengono spesso da fuori del sistema. Essere competitivi nel sistema globale significa poter disporre di un “sistema cognitivo” a supporto della produzione, avanzato e innovativo (che è una condizione necessaria) ma anche che non sia facilmente trasferibile (e quindi catturabile) verso (e da) altri sistemi concorrenti. La trasferibilità (e quindi la catturabilità) di un “sapere pro-duttivo” non dipende tanto dal livello intrinseco della cono-scenza. Anzi, si può agevolmente dire che il più alto livello del sapere, quello scientifico, è in genere trasferibile e cat-turabile da tutto il resto del mondo in maniera abbastanza agevole. Non a caso nelle scoperte scientifiche e tecnolo-giche di alto livello si lavora attraverso “brevetti” e quindi privative industriali, senza le quali in poche ore questa co-noscenza passerebbe da una parte all’altra dell’oceano senza alcuna limitazione o barriera cognitiva. Ciò che invece rende il sapere meno mobile -e quindi più difendibile da chi lo ha prodotto e continuamente lo innova- è la sua ca-

Le Città di cittàdi MAURO GRASSI* e STefANO CASINI-BeNveNUTI*

ratteristica di concretezza e di radicamento in un deter-minato territorio o impresa. È il sapere tacito, ambientale, esperienziale etc., quindi sapere molto concreto e radicato e, come tale, difficilmente trasferibile all’esterno. E questo perché non viaggia attraverso formule e procedure ripro-ducibili, ma attraverso il “saper fare” delle persone e delle organizzazioni in “carne ed ossa”.Quindi, a differenza di quanto si pensa, quanto più una produzione si affida ad un sapere “astratto” e tanto più ri-sulta debole dal punto di vista della competizione a scala mondiale. Ovviamente non includendo in questa fatti-specie le produzioni di alto livello scientifico garantite dalla protezione di brevetti ed esclusive che consentono una competitività regolata e quindi difficilmente contendibile. Ma lì ci sono soprattutto le multinazionali che presidiano tutto e che regolano la competizione globale più o meno a loro piacimento. Il problema della competitività non si pone quindi come una operazione di “spinta verso l’alto” del sapere produttivo e neppure di “inseguimento” parossistico delle più moderne scoperte scientifiche e tecnologie ap-plicate. Queste condizioni sono necessarie ad una impresa e ad un territorio per aumentare le capacità localizzate. Ma non danno di per sé un elemento distintivo dal punto di vista concorrenziale. Ciò che deve essere sviluppato è invece un sistema cognitivo che sia in grado di acquisire nei tempi e nei modi più appropriati il “sapere astratto” che aleggia nel mondo, magari attraverso scambi continui di persone, di testi, di conoscenze con i luoghi della produ-zione e della diffusione di questo tipo di conoscenza. E cioè principalmente attraverso le università e i centri di ricerca e attraverso la rete internazionale che oramai lega ogni piccolo e grande centro di produzione di conoscenza. Ma poi occorre metabolizzare questo sapere nelle orga-nizzazioni e nelle persone che lavorano nell’impresa o nel territorio locale e trasformarlo in un sapere che sia il più possibile unico, differenziale e non facilmente catturabile dall’esterno. In qualche modo che sia connaturato alla vita e al funzionamento dell’organizzazione e che sia il saper fare tipico delle persone, dei tecnici, degli operai e dei manager che lavorano nel distretto o nell’impresa localizzata.

* Mauro Grassi. Economista, Assessore del Comune di Livorno.* Stefano Casini Benvenuti. Economista, Direttore dell’IRPET.

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Questa interpretazione del modello di conoscenza chiarisce il significato della città, della città moderna, in-novativa, creativa, come snodo principale del sistema pro-duttivo del mondo e come elemento fondamentale del processo competitivo a scala globale. Mentre i passaggi di conoscenza astratta potrebbero avvenire anche attra-verso un interscambio fra due punti isolati del pianeta (il famoso “mito” che nell’era digitale si può lavorare su alti livelli anche stando a casa propria, in un casolare di montagna!!), la produzione di conoscenza localizzata ne-cessita invece dell’interscambio continuo, programmato ma anche casuale e non preordinato, fra uomini e orga-nizzazioni. E questo tipo di scambi richiede la prossimità. Lo stare nello stesso luogo, che può essere un’impresa, un distretto o, appunto, una città o una città-regione. E, questo stare “vicini”, consente ai produttori e detentori di conoscenza di condividere rapporti “face to face” che soli consentono il passaggio e l’interscambio, diremmo quasi la contaminazione, fra saperi non ancora codificati o, per loro intrinseca natura, non completamente codificabili. E allora le città o le città-regione diventano, se ispessite da uomini e organizzazioni capaci di produrre conoscenza, di attirarla da fuori, di metabolizzarla e di scambiarla in processi di rete corta, l’elemento determinante del grado di competitività di una sistema. Le nazioni sono com-petitive se hanno queste città o sistemi di città ricche di professionalità, di organizzazioni e di istituzioni capaci di innalzare il livello del sapere a supporto dei processi pro-duttivi. Ricche nel senso di annoverare le più disparate professionalità (varietà e variabilità), ma anche ricche nel senso di avere quantità elevate di determinate professio-nalità ad un livello tale da produrre comunità attive e cre-ative e quindi sistemi produttivi altamente competitivi. E’ per questo che quelle che si chiamano le città globali, le fucine dell’innovazione nel mondo, sono generalmente grandi. La grandezza in questo caso non è solo un ele-mento dimensionale ma è una proxy, un indicatore, il più immediato e semplice, della varietà, della quantità e della qualità di comunità della conoscenza che intera-giscono fra di loro in un determinato, ristretto, ambito territoriale. E su questa dimensione l’Italia arranca. Solo Milano e Roma raggiungono livelli dimensionali appena adeguati a rappresentare il livello di città globale e si si-tuano comunque a livelli bassi della graduatoria mondiale. L’Italia può cercare di competere in questo scenario solo portando una tipologia di città diversa da quella europea ed americana, e sempre di più asiatica, della grande conur-bazione accentrata e può proporre invece il modello della città-rete. Cioè di una città che non si rappresenta come un luogo centrale con intorno dei satelliti, ma piuttosto come un sistema di satelliti senza centro, o con un centro appena

emergente, che interagiscono fra di loro ad un livello re-gionale o sub regionale. Si parla in questi casi di città po-licentrica, città rete, rete di città, termini che hanno sfu-mature diverse ma che mettono in evidenza la presenza di una pluralità di luoghi che, assieme, costituiscono la città. Appare ovvio che non sono sufficienti, per definire una città rete, la vicinanza fra alcuni centri, un generico livello di interscambio fra questi e la presenza di una regione (economica, amministrativa o funzionale). Per cominciare a parlare di città rete, nel senso di un sistema città che produce e usa a livelli alti conoscenza localizzata, occorre che gli interscambi fra le persone e le organizzazioni della conoscenza siano continui e intensi e si svolgano all’interno di comunità di una certa varietà, numerosità e qualità dei soggetti. Le città della rete si devono quindi specializzare, onde portare varietà e variabilità, ma anche crescere di quantità per portare il livello dimensionale della comunità della conoscenza del sistema regionale ad un livello adeguato. Ogni volta che una città toscana, sia essa grande o piccola, realizza un pro-getto innovativo, registra un incremento occupazionale e imprenditoriale in determinate funzioni avanzate oppure realizza interscambi con il resto del mondo su aspetti di co-noscenza, ebbene in quel momento innalza il potenziale co-gnitivo del sistema. Se poi questo punto, questa esperienza o attività singola, diventa il nodo di una rete regionale di interscambio di idee, uomini ed esperienze, la singola città contribuisce a mettere in atto quel potenziale e ad innalzare così la competitività della città rete nel suo complesso. L’attenzione al tema della città è quindi aumentata man mano che i contenuti immateriali all’interno dei processi produttivi hanno accresciuto la loro importanza. Nel mo-dello distrettuale prevalevano gli aspetti materiali della produzione, quelli cioè più strettamente manifatturieri, per cui la conoscenza richiesta riguardava fasi diverse di uno stesso processo produttivo o varietà dello stesso prodotto: la varietà era limitata a questo; nel complesso prevaleva la specializzazione.Nell’epoca in cui i contenuti immateriali (capacità di com-prendere e/o indirizzare i gusti dei consumatori, capacità di adottare materiali innovativi, di introdurre tecniche inno-vative, di predisporre piani finanziari, di farseli finanziare, di raggiungere i mercati internazionali…) divengono vieppiù importanti diviene allora importante disporre di una varietà di conoscenze (tecnologiche, finanziare, psicologiche…) che debbono poter lavorare assieme per far sì che un pro-dotto sia realmente competitivo. La capacità di competere con successo nel mercato globale proviene quindi dall’in-contro di conoscenze, di esperienze diverse. La diversità è quindi una dote fondamentale. Ed è per questo che le città, intese per lungo tempo il luogo del consumo, tornano

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ad essere anche i luoghi della produzione. Nei vecchi di-stretti industriali il vantaggio derivava dal fatto di essere tutti un po’ simili, nelle città moderne il vantaggio deriva dal fatto di essere luoghi della diversità; per questo l’acco-glienza diviene un valore ancora più importante, dal mo-mento che consente di estendere ancora di più la diversità. Certo la diversità affinché possa essere fattore di sviluppo richiede, da un lato, che vi sia comunque una dimensione tale da poterla accogliere, dall’altro che vi sia incontro, inte-grazione tra le conoscenze che essa esprime. Per cui, come si diceva sopra, la città per raggiungere tali obiettivi non può essere troppo piccola. Ma in Toscana la presenza di piccole città non è solo una sua caratteristica storica difficilmente removibile, ma è stata anche un veicolo per il raggiungi-mento di elevati standard di vita: ricordiamo come tutte le analisi sul benessere condotte nel nostro paese vedano sempre la Toscana delle piccole città (e con essa le altre re-gioni con caratteri simili) ai primi posti nella graduatoria nazionale. In fondo la città più grande (Firenze) conta poco più di 350 mila abitanti, se ci limitiamo al comune centrale, ed in ogni caso poco più di mezzo milione se consideriamo i comuni immediatamente confinanti. È difficile ovviamente immaginare che singole città di questa dimensione possano garantire simultaneamente varietà ed alto livello di specializzazione e competitività nei servizi qualificanti l’economia urbana. Ma le diverse città della To-scana, alla varietà di funzioni presente in ciascuna di esse (e che verosimilmente le accomuna), possono associare anche l’offerta qualificata di alcune specifiche funzioni; diviene allora possibile immaginare la presenza di una “rete di città” che può svolgere la stessa funzione delle aree metropolitane più grandi. Naturalmente affinché ciò accada è necessario che le funzioni specifiche di ogni città siano facilmente ac-cessibili a tutte le altre città e più in generale all’intero si-stema regionale. Una rete è fatta di nodi, ma anche di rela-zioni. Occorre quindi chiederci quali siano i nodi di questa rete e quali funzioni essi siano in grado di esprimere e, una volta verificato, si tratta di comprendere se le relazioni tra tali nodi esistano già o comunque siano facilmente attivabili. Osservando dal primo punto di vista le città toscane emergono con una certa evidenza alcune caratteristiche:La forte specializzazione in ciascuna di esse delle attività rivolte ai residenti (commercio, tempo libero, attività im-mobiliari) e quelle della pubblica amministrazione;la maggiore articolazione nell’offerta di servizi alle imprese da parte dell’area fiorentina e pisana con particolare ri-guardo a quelli a più elevato contenuto di conoscenza;nelle aree urbane aretina, senese e livornese vi è invece una forte concentrazione in alcune attività di servizio (rispetti-vamente, comunicazioni, credito e trasporti);in alcune di queste aree urbane sono inoltre concentrate le

poche grandi imprese industriali esistenti in Toscana. Le caratteristiche suddette consentirebbero di identificare dei nodi della rete tali da rendere l’intera rete potenzialmente “completa”: logistica, credito, comunicazioni, ricerca e svi-luppo sono presenti nelle diverse città, le quali presentano tutte una elevata presenza anche di servizi alla persona, di pubblica amministrazione e dei servizi alle imprese più banali. Resta aperto però il secondo quesito, ovvero se i nodi della rete sono tra loro sufficientemente interconnessi e soprat-tutto se lo sono anche con il resto della regione, visto che la funzione delle aree urbane più qualificate è quella di erogare servizi all’intero territorio regionale (e oltre). In realtà non vi sono informazioni sufficienti a dare una risposta a questa domanda, anche se prendendo in esame le principali in-frastrutture che collegano i centri urbani della regione tra di loro e con il resto della regione (stradali e ferroviarie) non sempre si ha la sensazione di rapporti di collegamento agevoli. Ciò significa però che se da un lato si possono ri-levare le potenzialità della rete di città toscane, dall’altro affinché la rete si crei realmente è necessario favorire i col-legamenti interni alla regione. Questo rafforzamento è esso stesso portatore di stimoli alle aree urbane: se aumenta la scala della domanda è infatti possibile che l’offerta si quali-fichi ulteriormente, recuperando nel suo complesso quella scala in grado di ospitare quelle attività ad alto contenuto di conoscenza e di diffonderle più agevolmente nei territori vicini che dovrebbero essere la base della competitività di una regione moderna.

Mostra di Folon al Forte Belvedere

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Ragionamenti sulle politiche pubbliche per la mobilità urbana declinate in termini di accessibilità, sugli scenari

futuri per Firenze nella sua area vasta metropolitana, con le opinioni dell ’esperto Massimo Ferrini.

Diritti e doveri“Accessibile: a cui è possibile accedere, che è di facile accesso”, così recita l’enciclopedia italiana Treccani ed è questa una possibile chiave di volta per leggere la realtà e per progettare al meglio le politiche per la mobilità. Anzi-tutto rendere possibile l’accesso a tutti i luoghi della città che le persone vogliono vivere e che è utile ai cittadini (in quanto attori di una città per l’appunto “viva”) che siano frequentati per studio, per lavoro, per le attività del “tempo libero”. Contemporaneamente, o comunque non troppo succes-sivamente, permettere che questo accesso sia non solo possibile ma anche facile, che sia fattibile comodamente, senza eccessivo dispendio di energie, di risorse econo-

miche ed ambientali, tendenzialmente senza impiegare più tempo di quello che poi si impiega per vivere il luogo che si intende raggiungere.Queste semplici e banali premesse ci servono ad impo-stare un ragionamento sulle politiche pubbliche che ri-guardano il tema della mobilità, che necessariamente si lega a molti altri, come quello dell’urbanistica, delle in-frastrutture, dei diritti di cittadinanza, dello sviluppo eco-nomico, della tutela e valorizzazione dell’ambiente. Partendo quindi dal concetto di “accessibilità” si va oltre quello di “mobilità” ed occorre coniugare le politiche utili a rendere effettivi alcuni diritti e alcuni doveri, dal di-ritto di poter accedere agevolmente ai luoghi di lavoro, di studio, dei servizi e di “godimento della bellezza”, al dovere di accedervi in modo sostenibile, in modo da non creare ulteriore debito ambientale sulle spalle delle nuove generazioni, ulteriori ipoteche sul futuro.Uno degli obiettivi di fondo di queste politiche è “privi-legiare l’accesso ecologico ai centri urbani”. Centri urbani

di MIRkO DORMeNTONI* e vAleRIO vANNeTTI*

ACCESSIBILITà

Dalla mobilità fisica alla mobilità sociale

Fotomontaggio di un viadotto in prossimità del Forte Belvedere

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significa anzitutto centri storici, ma anche centri fun-zionali delle città e dei sistemi di città come è in parte quello della Toscana.E poiché in questo articolo intendiamo declinare tutto questo in relazione a Firenze, e in particolare al futuro di Firenze (considerata non certo chiusa dentro i suoi confini amministrativi), cercheremo di tratteggiare alcune caratteristiche ed alcuni obiettivi che potrebbero essere utilmente perseguiti nel disegnare scenari e nel progettare sistemi ed infrastrutture a Firenze, nella sua area metro-politana, e nella Toscana centrale.

Le tranvie, grandi opportunità di cambiamentoAbbiamo quindi approfittato della disponibilità di Massimo Ferrini, professionista esperto dei sistemi e degli strumenti di mobilità e di trasporto pubblico, per indivi-duare e sottolineare alcuni spunti per la “Firenze dopo”.“Il sistema di accessibilità è quello che ha il più forte impatto su un sistema urbano” dice Ferrini. Per questo occorre disegnare un sistema di accessibilità compatibile con la “città che vogliamo”. “Per Firenze occorre rappor-tarsi con un tessuto storico di valore mondiale che deve essere sempre più valorizzato e vissuto in tutti i suoi aspetti e in tutti i suoi luoghi. L’accessibilità deve essere funzionale anche a questo e le tranvie rappresentano una grandissima opportunità in questo senso”.Firenze è da considerarsi la città policentrica della To-scana assumendo il carattere di invariabilità, proprio di questa collocazione, in riferimento al quadro definito dal Piano di Indirizzo Territoriale della Regione. Questo as-sunto determina le condizioni sia per un diverso rapporto fra Firenze e il complesso delle città toscane in grado di determinare forti reciprocità rispetto agli assetti territo-riali, alla cultura, ai sistemi produttivi, presupponendo il determinarsi di una dotazione urbana unica in un profilo di più evidente sostenibilità di sistema. Un profilo di do-tazione urbana identificata dentro standard qualitativi (e quindi funzionali) capace di prefigurare anche nuove con-dizioni (opportunità) per sistemi di moderne governance.Nell’ambito del sistema metropolitano, i numeri ci dicono che persiste un flusso di mobilità giornaliera delle persone stimato in circa 700.000 unità, accompagnate da 100.000 auto private. Un impatto assolutamente non più

sostenibile per spazi fisici, per tassi di inquinamento, per costi pubblici e privati, per fattori di sicurezza. Anche per questo il Piano Strutturale del Comune di Firenze disegna giustamente un articolato sistema di tranvie che (nella “Firenze dopo”), opportunamente integrato con un efficiente ed ecologico servizio su gomma, potrà rendere “accessibili” in modo sostenibile i luoghi della città. Una vera e propria rete tranviaria o sistema di tranvie è anche una grande occasione per “ripensare tutto”. Cominciando dalla fin troppo evocata e poco praticata “intermodalità”, dalla necessità di integrare diversi mezzi di trasporto pubblici ed anche privati. Cominciando ad esempio dalla necessità di un programma “a tappe forzate” di realizza-zione di parcheggi scambiatori presso i principali punti di accesso alla rete tranviaria, che ancora non vedono né luce né progettazione esecutiva.

Un’urbanistica che pensi all’accessibilità“Un sistema funzionale di accessibilità parte dal disegno urbanistico, dall’individuazione dei luoghi pulsanti, delle piazze da valorizzare, dalle aree pedonali che si intendono implementare, dagli assi della ciclabilità da sviluppare” sottolinea Ferrini, e insiste: “ogni strada ha la sua capacità, la sua portata, come un fiume, la modellistica può pre-vedere quanto può passare da lì ma è la pianificazione del territorio che deve dare gli obiettivi, gli input ai modelli”. Se ad esempio si ritiene che i luoghi e le strade della città devono essere sempre più vissuti e non semplicemente percorsi, si investe molto sulla mobilità elementare, pe-donale e ciclabile. “La potenza della mobilità ciclabile è enorme e in città come Firenze si potrebbe fare molto, molto di più, vedo una Firenze bella se fra qualche anno è percorsa dal triplo, dal quadruplo delle biciclette che sono utilizzate oggi per gli spostamenti urbani anche per le cosiddette lunghe tratte, che poi nelle nostre dimen-sioni tanto lunghe non sono mai, se rese per l’appunto ‘facilmente accessibili’ da tale mezzo”. “Il trasporto pubblico ancora oggi in Italia supera di poco il 10% dei mezzi utilizzati per gli spostamenti in Toscana, nonostante tutti i positivi sforzi fatti dalla Regione e dalle amministrazioni locali. Aumentare il TPL non deve essere uno sforzo fine a se stesso ma deve servire a dare accessibilità e vivibilità a tanti luoghi (centri urbani

* Mirko Dormentoni. Consigliere Comunale PD di Firenze.

* Valerio Vannetti. Responsabile regionale dei Trasporti del PD Toscano.

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e non solo) e a caratterizzare il nostro enorme patri-monio culturale per il valore estetico e per quello eco-nomico”. Rendere accessibili i luoghi della cultura, sia per i turisti sia per i cittadini dell’area metropolitana, significa anche creare ricchezza e benessere.“La linea 1 della tranvia dimostra i successi e le utilità che può avere questo eccezionale mezzo di trasporto ed anche i potenziali cambiamenti che è fortunatamente in grado di provocare o almeno di suggerire” afferma ancora Massimo Ferrini. La tranvia è una risposta strutturale che ha effetti sulla domanda, ha modificato e modificherà i compor-tamenti dei cittadini, non è semplicemente qualcosa che va a sostituire un altro servizio pubblico, tante persone che prima non prendevano il bus ma l’auto per arrivare in centro o nei suoi dintorni (provenienti dalle direttrici sud e sud-ovest) oggi prendono il tram. È quindi proprio sul sistema tranviario che occorre puntare tutto perché la rete, la connessione tra più linee, moltiplica l’utilità della scelta di questo mezzo, perché si riduce l’impatto ambientale della mobilità, e si migliora l’accessibilità”. In altre parole, e per salire di grado sulla scala di astrazione, si coniugano al meglio i diritti e i doveri della mobilità.“L’urbanistica pensi all’accessibilità e viceversa”, le fun-zioni si possono utilmente concentrare preso i grandi nodi della mobilità e, se si pianifica e si progetta questo, il pubblico ha il coltello dalla parte del manico rispetto ai possibili e necessari investitori privati che realizzano funzioni urbane.

Necessario l’hardware, fondamentale il softwarePiù concretamente: Firenze, grazie soprattutto al nodo dell’Alta Velocità/Alta Capacità ma anche agli investi-menti sul sistema autostradale, avrà l’hardware che la col-legherà meglio all’Italia ed anche (ancora da migliorare) alle altre città toscane, alle “Toscane”. Occorre cominciare a progettare e realizzare al meglio anche il software, sul quale siamo indietro. I grandi livelli di accessibilità ci sono o ci saranno, ma bisogna forse lavorare di più alla precisazione dei sistemi che tengono insieme: funzioni qualificate (luoghi dello studio, della ricerca, dei servizi, della cultura, della produzione di alta qualità), linee tran-viarie, linee ferroviarie nazionali, regionali e metropo-litane, linee bus, sosta, aree pedonali, assi ciclabili, strade di collegamento rapido alternativo ai viali (es. passante urbano nord-est nord-ovest). Nel disegno che oggi abbiamo, a partire da quello che è riassunto dal Piano Strutturale non si registra un gap fisico di infrastrutture. Il problema vero (e l’opportunità) riguarda la gestione dei sistemi infrastrutturali. Occorre quindi progettare o affinare la programmazione e la ge-stione, puntando ad esempio moltissimo sulle nuove

tecnologie, sui sistemi di infomobilità, sugli accessi tele-matici, tanto alle zone a traffico limitato quanto agli assi viari di grande scorrimento come la Fi-Pi-Li. Puntando a “svuotare le città dalla sosta di superficie perché non sono sostenibili parcheggi per le strade per 650 auto ogni 1.000 abitanti (3 campi da calcio) quando nell’Europa più avanzata (es. Friburgo) ce ne sono 40 di auto ogni 1.000 abitanti. Oggi il parcheggio di superficie è al 60-70% lungo le strade e questo ha grossi impatti negativi. Quindi due sono le leve: diminuire nel tempo il bisogno di au-tovetture private, realizzare a breve termine la sosta in parcheggi sottoterra o sopra terra in quantità rilevanti“. Il tutto può e deve essere fatto con grande attenzione all’ambiente e al paesaggio: “è possibile realizzare sylos per parcheggi dietro facciate storiche di edifici anche nei centri urbani o nelle aree di pregio, come è avvenuto ad esempio a Barcellona con inserimenti da manuale” rac-conta Ferrini. Insomma, i parcheggi possono essere ele-menti di progettazione e riqualificazione urbana. Fanno parte di politiche per la modernizzazione dell’ambiente, per una “ospitalità nuova”. E la loro gestione è fonda-mentale per far funzionare meglio le città e la loro acces-sibilità. Una gestione che deve prevedere una fortissima e originale integrazione con il trasporto pubblico e con la mobilità ciclabile naturalmente. Nella necessità di sviluppare efficaci strumenti di pro-grammazione e di conseguente gestione rientra anche la realizzazione delle pedonalizzazioni. Occorre partire da “per cosa si fanno” e quindi “come si fanno”. Se si fanno non per creare “salotti” ma per rendere più accessibili e

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Fotomontaggio di viadotto per collegare i diversi quartieri

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vivibili, non solo dai turisti, i luoghi che costituiscono le stesse aree pedonali, occorre che da subito si progettino in dialogo e in convivenza con il trasporto pubblico, con linee di bus elettrici, con linee tranviarie (con il tram che va a passo d’uomo naturalmente) come avviene in tante città europee ed alcune italiane.

Calibrare le risorse“Il costo del trasporto privato su gomma deve crescere non per la crisi economica ma per convenienza urbani-stica e ambientale” afferma in conclusione Ferrini. “La diminuzione dei flussi di traffico tra il 2010 e il 2011, che secondo i dati ISFORT-ISTAT è stata del 5,6%, è certamente congiunturale, mentre occorre impostare in-frastrutture e gestione affinché diventi strutturale: dimi-nuzione del traffico privato ed aumento dei cittadini che si muovono su mezzi pubblici ed ecologici”. Inoltre, oc-corre la massima ottimizzazione delle risorse pubbliche. Utilizzarle, magari integrate con quelle private tramite project-financing ben fatti, per investimenti che garan-tiscono effetti certi e misurabili e che siano realizzabili con tempi certi nel medio-breve periodo. Spesso sono più utili le cosiddette piccole opere delle grandi, se fatte se-condo i suddetti criteri. Investire in strade senza monconi, in parcheggi scambiatori che entrano subito in funzione, in mezzi e infrastrutture per il trasporto pubblico e per l’infomobilità. Tutto questo è finalizzato ad avere città che attraggono non solo in virtù dei loro musei ma anche e soprattutto della loro molteplice offerta di luoghi vissuti e accessibili e di servizi di qualità.

I valori e due scenari per la “Firenze dopo”In conclusione, siamo convinti che occorra partire dal considerare città, luoghi urbani, piazze, monumenti, centri di aggregazione come “valori urbani”. Come si accede a questi valori, come si rendono fruibili da tutti e in modo sostenibile? Mettendo a sistema tanti strumenti diversi da progettare nel modo più omogeneo e unitario possibile: pedonalità, ciclabilità, bus, tram, treno, auto. Siamo altret-tanto convinti che il sistema di accessibilità possa contri-buire a regolare (e contrastare) i fenomeni della rendita urbana. In estrema sintesi: il trasporto privato su gomma disperde la mobilità e favorisce la rendita consolidata nei decenni, il trasporto pubblico (in particolare su ferro) concentra e favorisce la regolazione pubblica nel governo dei suoli, la quale deve essere finalizzata a contrastare la rendita. Quindi, ci limitiamo a tracciare due possibili scenari da qui alla fine del decennio, due “sogni” da rea-lizzare per l’accessibilità della “Firenze dopo”, nucleo di un’area metropolitana e di un sistema di città toscane che crea sviluppo sostenibile affermando diritti e doveri dei sempre più “cittadini in movimento”:1) Il Trasporto Pubblico è realizzato secondo i principi della concorrenza per il mercato, che è l’idea di mettere le imprese in concorrenza tra di loro mediante un “mecca-nismo d’asta” per acquisire il diritto di fornire il mercato, da concedere all’impresa in grado offrire le migliori con-dizioni non solo in termini di prezzo ma anche come caratteristiche tecnico-qualitative dei servizi offerti. Un mercato liberalizzato, fortemente regolato e controllato dalla Regione e dalle amministrazioni locali (dotate dei necessari strumenti e risorse per svolgere tali funzioni)), dove il Trasporto Pubblico Locale è gestito in modo sempre più efficiente ed efficace, con mezzi nuovi ed ecologici e tutte le moderne tecnologie disponibili per renderlo appetibile e comodo, in una parola “facile” per tutti (richiamandoci all’incipit di questo articolo), inte-grato con tutti gli strumenti dell’infomobilità che per-mettono ai cittadini di conoscere in tempo reale tutte le condizioni della mobilità pubblica e privata. Un TPL che, per raggiungere questi risultati, è gestito da soggetti forti, specializzati, industrialmente strutturati e quindi di di-mensioni “europee”, competitivi a livello nazionale ed in-ternazionale. [Si tratta di completare la riforma legislativa ma soprattutto quella attuativa: la normativa nazionale e regionale in questa materia sono fortunatamente andate in questa direzione già dal 1997-98, la loro effettiva attua-zione è cominciata qualche anno più tardi (superamento delle centinaia di diverse concessioni e realizzazione di gare da parte delle Province nel 2004-2005), adesso la riforma regionale in atto - soprattutto se in tempi <

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più brevi di quelli finora preventivati vedrà non solo l’aggregazione regionale delle gare per i bus ma anche un affidamento integrato del servizio su gomma con quello su ferro - ci può portare ancor più decisamente in questa direzione].2) Il sistema infrastrutturale per la mobilità è effettiva-mente caratterizzato dall’ “effetto rete”, dall’integrazione ferro-gomma e dallo scambio intermodale. Vede la terza corsia autostradale su tutta la rete toscana, un forte mi-glioramento delle grandi strade di scorrimento come la Fi-Pi-Li e la Siena-Firenze, vede il passante urbano nella parte nord di Firenze, ma privilegia il trasporto pubblico, con un grande sviluppo del “ferro” e dei “nodi”. E’ un si-stema integrato ferroviario (internazionale, nazionale AV/AC, regionale e metropolitano) e tranviario (compreso uno sviluppo del tram-treno, cioè di un tram che può uti-lizzare i binari ferroviari) dove il materiale rotabile, mo-derno, comodo, massimamente ecologico, dotato delle più recenti tecnologie, si muove a un ritmo intenso e cadenzato ed è in grado di permeare la/le città ed avvicinarsi a tutti i loro centri. Per questo sono stati realizzati numerosi nodi intermodali, che sono soprattutto le stazioni ferroviarie (almeno una quindicina solo nell’area metropolitana fio-rentina più ristretta) e le principali fermate tranviarie (che in alcuni casi coincidono con le prime) dove i mezzi pub-blici su ferro possono essere facilmente scambiati con quelli su gomma o con mezzi privati, preferibilmente biciclette (per le quali esiste un potente sistema di bike-sharing e una ramificata rete di piste ciclabili), tramite appositi par-

cheggi scambiatori multifunzionali, multivettoriali e diffusi sul territorio. Il trasporto pubblico extraurbano su gomma non arriva nel cuore del centro, alla stazione SMN, ma si ferma alle porte della città scambiandosi in modo rapido e comodo con il sistema tranviario o ecologico su gomma. L’Aeroporto di Peretola, è un sicuro, accogliente, funzionale “city airport” gestito in un quadro di forte sinergia con l’Aeroporto di Pisa nell’ambito di un efficace sistema aero-portuale toscano. Infine, lo sviluppo delle funzioni urbane tiene conto di questi nodi come punti nevralgici di concen-trazione.

A che pro? Valori ed obiettiviAlla fine si potrebbe dire che usare l’ “accessibilità” come chiave di lettura porta ad avvicinare la mobilità fisica alla mobilità sociale, perché un sistema di accessibilità pro-gettato e realizzato secondo i principi e i criteri sopra esposti, può contribuire concretamente a rendere i luoghi delle città aperti al mondo, tra loro collegati, fruibili e vi-vibili da tutti, ad abbattere gli inquinamenti, ad abbattere le rendite urbane. Anche queste sono condizioni per rendere mobili e dinamiche le società e le comunità, per diminuire le diseguaglianze, per realizzare eguaglianza delle op-portunità e possibilità di perseguire i propri interessi e le proprie aspirazioni a prescindere dal censo, dal lavoro dei genitori o dal luogo di nascita/residenza, per permettere di fare da sé ma non da soli.Della serie: c’è ancora tanto da fare, rimbocchiamoci le maniche!

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Fotomontaggio di viadotto sopra piazza Duomo

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Pedonalizzare e costruire cittàdi leONARDO RIGNANeSe*

Trent’anni fa veniva pedonalizzata piazza della Signoria, prima isola pedonale di Firenze. A questa operazione se-guirono la pedonalizzazione di altre piazze, di via Calzaioli - e il suo rifacimento - e la delimitazione della ZTL estesa fino ai viali di circonvallazione. L’anno scorso è stata pe-donalizzata l’area del Duomo e da qualche mese quella di piazza Pitti e di via Tornabuoni.Aree pedonali e zone a traffico limitato sono, nelle clas-sifiche, indicatori della qualità della vita in una città e misura delle azioni contro l’inquinamento. Effettivamente le strade liberate dalle macchine assumono un’altra dimen-sione e un’altra vivibilità, sono condizioni preliminari per vivere meglio la città.La pedonalizzazione però non vuol dire solamente togliere le macchine. La pedonalizzazione, intesa come condizione del pedone di poter usufruire con sicurezza e comodità dei luoghi urbani, dovrebbe essere un requisito garantito in tutta la città. La pedonalizzazione è una modalità dell’ac-cessibilità. Una città accessibile è una città che consente di essere raggiungibile e utilizzabile al meglio da chi proviene da fuori e da chi vi abita, da chi vi lavora e da chi viene a visitarla. Una città accessibile è una città che è facile e comoda da utilizzare e vivere per chi vive in centro e per chi vive in periferia. La pedonalizzazione è strumento indi-spensabile per dare senso all’abitare e al muoversi, che sono pratiche soggettive e collettive che permettono all’abitante di identificarsi in un luogo, in un quartiere, in una città; di ricomporre esperienze e legami sociali, di stabilire con lo spazio rapporti non puramente utilitaristici poiché rapporti sociali e qualità spaziali concorrono a strutturare l’identità degli abitanti e in qualche modo anche dei city user.Accessibile è anche una città sicura, a partire dalle condi-zioni di sicurezza fisica di fruizione dei servizi e della città nel suo complesso: percorsi, attraversamenti stradali, piste ciclabili, piazze, aree verdi, mercati, scuole ecc. Accessibile è anche una città leggibile, dove lo spazio del

movimento e dello stare, dell’incontro e della socialità – lo spazio essenzialmente dei pedoni – è facilmente percepibile e riconoscibile. Pedonalizzare è assumere il punto di vista del pedone, a partire da quello banale e spesso dato per scontato di ciò che si vede quando siamo pedoni. E tutti siamo (anche) pedoni.deve quindi essere un modo nuovo di guardare e progettare lo spazio. Lo spazio dove ci muoviamo è fatto di volumi ma anche di piani di calpestio, di livelli, di superfici, di luci e di suoni. Ci muoviamo tra edifici camminando su un piano orizzontale: il livello del terreno. E questo livello, questo spazio che tiene assieme lo spazio della città, è la base fisica dello spazio pubblico, è il suolo su cui poggia lo spazio della città. È lo spazio delle relazioni, è uno spazio urbano e allo stesso tempo uno spazio architettonico. È uno spazio senza volume, un vero volume zero. La costruzione dello spazio del pedone è la costruzione di questo spazio delle relazioni. Lo spazio del pedone è uno spazio che va “costruito” tanto per far rivivere i centri storici quanto per rigenerare e strut-turare le periferie. Pedonalizzare può essere assunto come visione e modalità di “progettare” spazio urbano, di indivi-duare e connettere in una rete lo spazio del muoversi e dello stare, dell’incontro e della conoscenza. Ritrovare il senso che i luoghi urbani per eccellenza avevano nel passato. La piazza un tempo era un luogo complesso architettonica-mente ben definito ma con una minima specializza-

* Leonardo Rignanese. Urbanista, Direttore di “Urbanistica Informazioni” INU Toscana.

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Fotomontaggio di viadotto sopra piazza Duomo

Fotomontaggi: una soluzione al traffico, usare il deltaplano….

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zione funzionale, uno spazio a disposizione degli usi che l’individuo e il gruppo nel tempo vi riconosceva: mercato, incontro, feste, cerimonie, esercizio della giustizia ecc. Così la strada era il luogo del transito, dello stare, dell’esibizione, del commercio, estensione della casa o della bottega (delle attività al piano terra).Strade e piazze erano luoghi belli e rappresentativi a di-sposizione degli usi collettivi e individuali. Oggi le nostre strade sono spesse povere nei loro arredi e semplificate nei loro usi. Pedonalizzare non vuol dire sempre e per forza dedicare uno spazio unicamente al pedone. Pedonalizza-zione è una strategia per lo spazio pubblico, è una pratica per restituire lo spazio ai pedoni, è una principio per creare percorsi dedicati alla componenti virtuose del muoversi: pedoni, bici, trasporto pubblico.La pedonalizzazione non è esclusione. La pedonalizza-zione deve essere una modalità per riconoscere uno spazio come spazio dove è protagonista è il pedone; dove il pedone non deve difendersi dalle auto. Pertanto si deve basare su un’attenta considerazione dei luoghi, delle loro dimensioni,

dei loro caratteri, della loro storia, della possibilità di far convivere e integrare diverse mobilità e diversi usi come in-segna il woonerf1 (letteralmente area condivisa) olandese.Pensare a un centro de-automobilizzato non implica au-tomaticamente chiudere una strada o una piazza e basta; vuol dire pensare a isole pedonali collegate e a strade di transito e non di sosta; vuol dire trovare le modalità per convivere – auto e pedoni – in uno stesso spazio laddove questo è possibile: allargando marciapiedi e restringendo corsie di marcia e rallentando la velocità dei veicoli (forse su via Tornabuoni, data la sezione stradale, si poteva speri-mentare questa modalità di una strada a priorità pedonale). Spesso manca una democrazia della strada in cui si possono riconoscere i diversi soggetti e le diverse utenze e le diverse mobilità. Infine, le esperienze di pedonalizzazione dovrebbero – così come accade nelle città che perseguono politiche di re-cupero dello spazio pubblico - migliorare il disegno dello spazio urbano e la qualità dell’arredo urbano (per la verità abbastanza povero negli ultimi interventi di pedonalizza-zione cittadina). Gli interventi di recupero urbano partono proprio da una forte connotazione dello spazio recuperato.Gli interventi di riqualificazione urbana a Firenze seppur apprezzabili per aver recuperato aree all’uso dei pedoni non consentono di apprezzare un disegno complessivo di costruzione di una rete pedonale urbana, non riescono a veicolare un’idea di arredo urbano significativa e di qualità: materiali poveri, immagine complessiva banale, spazi con-notati e delimitati solo dall’uso di catene, elementi di arredo urbano mediocri.La pedonalizzazione deve, per quanto detto prima, essere anche una nuova immagine dello spazio pubblico che si vuole realizzare. Per ora sembra solo di aver delimitato alcune aree dove sono escluse le auto. Non si riesce a im-maginare un disegno|progetto che sappia valorizzare questi luoghi, che sappia far convivere mobilità differenti.La pedonalizzazione potrebbe essere la vera sperimenta-zione di un’architettura a volume zero, di un progetto dello spazio pubblico, di autonomia figurativa e funzionale da conferire al progetto dello spazio aperto.

1 Il woonerf olandese (area condivisa) è una strada dove pedoni e ciclisti hanno la precedenza e dove, grazie a misure di traffic calming, gli automobilisti sono costretti ad adottare comportamenti di guida più prudenti.

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Fotomontaggi: una soluzione al traffico, usare il deltaplano….

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“Visione ampia del futuro, chiarezza di idee e di obiettivi. Ricordandosi sempre che non si lavora

per il breve termine ma per l’eternità”. Ci sembrava signi-ficativo partire da questa osservazione di Sergio Bertini, prima di addentrarci in qualsiasi tipo di discorso che ri-guardi la città del futuro. Un punto di partenza essenziale per chi ha un’impresa o per chi amministra un territorio, una questione basilare: la fondamentale necessità di avere sempre una prospettiva di lungo periodo.Un cambio di prospettiva rispetto al modello regolativo di società che ha dominato l’ultimo quarto di secolo. Un punto di vista opposto all’egemonia neoliberista, quella cultura politica specifica che ha subordinato il post fordismo, l’eco-nomia leggera, alle sole dinamiche del mercato, che ha avuto come riferimento temporale il breve periodo. In esso le diseguaglianze si sono moltiplicate fino a livelli di pola-rizzazione sociale impensabili perfino dai suoi sostenitori della prima ora. L’impazienza verso guadagni immediati ha schiacciato le scelte strategiche delle imprese sulla ricerca di profitti a breve, scoraggiando una gestione orientata a lungo termine e deprimendo gli investimenti per l’innova-zione e la competizione. Così la regolazione economica e sociale di un’epoca è stata cadenzata dai mercati finanziari fino al crollo degli ultimi anni. Come dire: il breve periodo ci ha uccisi! Oggi il mondo è percorso da mutamenti economici e tec-nologici globali con processi sempre più stretti di integra-zione e interazione. I confini delle economie si sono aperti sempre di più e l’economia di una nazione è stata maggior-mente influenzata da quella delle altre. L’implosione del sistema negli ultimi tempi ha messo in discussione i principali capisaldi sui quali si poggiava l’ideologia della “fine della storia”, la deregolamentazione dell’economia e la via bassa allo sviluppo colpevoli dell’aver caricato sulle spalle del lavoro gran parte dei costi e dei rischi economici e sociali. La vittoria incontrastata del li-

ATTRATTIVITà

La città del futuro tra innovazione e tecnologia di GIACOMO SCARPellI* e lOReNzO zAMBINI*

berismo politico ed economico, della crescita in un defi-nitivo e permanente, autostabilizzante, ordine mondiale del capitalismo non è più sostenibile. Per coniugare sviluppo economico, occupazione e benessere sarà necessario gettare le basi per un modello alternativo, senza arroccarsi nelle comode certezze del passato, l’individualismo o il colletti-vismo puro, richiamando la politica alla funzione primaria del governo della società. Pensare alla città del futuro ci può fornire uno spunto di ri-flessione. In un contesto nel quale l’interdipendenza e l’in-tegrazione delle economie a livello globale sono assodate e in cui i paesi emergenti hanno sempre più peso nello sce-nario mondiale, come continuare ad essere competitivi sui mercati internazionali? Qual è il percorso che abbia con sé la visione del futuro e che proceda senza scatti repentini, ma operi con impulsi regolari? È in un contesto di prospettiva e di miglioramenti costanti nel tempo che trovano il proprio terreno fertile in meccanismi e investimenti che puntino all’innovazione e tecnologia.Ciò è possibile se viene rovesciato lo schema che affida la crescita ad una società governata dal mercato, senza po-litica, senza organizzazioni collettive, senza istituzioni, giu-dicate d’intralcio. Lontana da questa concezione la città si può configurare come un ambiente in cui agiscono attori a livello macro e micro economico, tra loro interrelati, flussi della conoscenza e della cultura, relazioni sociali più o meno formali, capaci di superare certe debolezze e di influenzare le condizioni che favoriscono l’innovazione. Insomma la città può essere identificata come un ambiente in cui si attivano nuovi processi di accumulazione di valore all’interno di un contesto in cui la politica guida lo sviluppo e la distribuzione di ricchezza. Alla città sembra prospet-tarsi la sfida del futuro di far convivere competitività e cre-scita, con uno sviluppo urbano sostenibile. Una sfida che coinvolge l’economia come la cultura, l’ambiente come

* Giacomo Scarpelli. Laureato in Scienze Politiche, Segreteria PD di Firenze.* Lorenzo Zambini. Laureato in Teoria delle comunicazioni e tecniche dei linguaggi persuasivi.

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gli stili di vita. È in questo contesto che l’alta tecnologia, la ricerca e l’innovazione devono agire. Da questo punto di vista pensiamo che la città possa essere davvero la risposta e il luogo di risoluzione della crisi economica, finanziaria e occupazionale. Ma che tipo di città?L’Unione Europea ha dato vita il 21 giugno 2011 ad un atteso programma di iniziative a favore della diffusione nell’intero continente di un nuovo modello di città soste-nibile: le Smart Cities.Le Smart Cities sono definite città “intelligenti”, tecnolo-giche, confortevoli, sostenibili e interconnesse tra di loro. Hanno come caratteristiche basilari una popolazione urbana compresa tra i 100.000 e i 500.000 abitanti (quindi non si punta sulle grandi metropoli ma sulle città di media grandezza), un bacino di utenza inferiore a 1.500.000 abi-tanti e devono avere al loro interno almeno una università.Fateci caso: sembra la descrizione della realtà toscana fatta di piccoli e medi centri che hanno ospitato distretti indu-striali anche molto competitivi negli anni passati e oggi sono travolti dalla crisi economica. Territori con un’eredità industriale virtuosa che adesso hanno bisogno di una spinta nella direzione dell’innovazione e della competizione. Il modello delle Smart Cities ci suggerisce un approccio che vede nella costruzione delle reti un obiettivo cruciale. L’obiettivo è quello della gestione ottimizzata delle risorse energetiche e del trasporto, aree urbane il più efficienti pos-sibile, riducendo le emissioni di carbonio, i rifiuti, l’inqui-

namento e la congestione.Il cuore pulsante è quello di puntare sulle nuove tecnologie mirate al miglioramento della gestione dei processi urbani e della qualità della vita dei cittadini. Questa pare essere la linea seguita da alcune ammini-strazioni locali che stanno siglando accordi con grandi multinazionali del settore tec-nologico per ridisegnare le proprie città. Come sta accadendo a Dublino con l’Imb o a Seattle con la Microsoft, per rispar-miare energia attraverso una partnership tra giganti del settore informatico e ammi-nistrazione locale.Un modello che sembra sposarsi perfetta-mente con l’idea di città-regione della To-scana. L’elemento dimensionale per le città toscane è senza dubbio un limite se è ac-compagnato dalla logica provinciale e pas-satista dei campanili, di un municipalismo

“bottegaio”, mentre assume un alto potenziale se questo insieme di piccole e medie città viene visto nell’ottica di una rete regionale sempre meglio collegata. Innovazione e tecnologia devono essere utilizzante nelle e per le relazioni e i collegamenti tra le città toscane. Questa maggior effi-cienza porterà a un beneficio in termini di produttività e di sviluppo dei nodi, aumentando il potenziale per investire in innovazione e tecnologia, in un meccanismo di autoa-limentazione che se ben condotto può portare a quel pro-cesso regolare e costante di cui parlavamo all’inizio. In questo scenario di crisi la città può svolgere un ruolo cruciale. Venuta meno (almeno in parte) la fase di piccole zone geografiche specializzate in determinati settori come erano i distretti industriali, quella che si è aperta è una fase che premia i luoghi che portano in sé l’elemento della va-rietà e la città è certamente uno di questi luoghi. Varietà che agisce sia a livello produttivo, ma anche culturale, di competenze, di soggetti: è su questo terreno che la città di-venta il motore dello sviluppo. È lo scambio di esperienza e di saperi il nutrimento dell’innovazione.Le città toscane soffrono se restano rinchiuse nella loro di-mensione piccola e media, ma assumono un potenziale di grande valore se entrano nella prospettiva di una rete re-gionale. Purché le città non siano in competizione tra loro, ma attivino meccanismi di interazione e complementarietà nei diversi settori produttivi. Solo per citare rapidamente alcuni tratti rapidissimi vediamo che se Siena è connotata

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Leonardo, vite elicoidale

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da ricerca, biotech e settore bancario, Livorno porta con sé la logistica, Grosseto l’agricoltura, Pisa la sanità.La città è il luogo della varietà, dell’accoglienza, della re-lazione. Sulla stessa linea sembra peraltro la Regione Toscana che in questi giorni, con il contributo di grandi gruppi industriali, ha finanziato quattordici progetti indu-striali selezionati. Interessante è il meccanismo del bando del cofinanziamento: prevedeva che i progetti fossero pre-sentati da grandi in settori innovativi con il parterniariato di medie e piccole aziende, università e centri di ricerca. Perché un altro limite strutturale della Toscana che porta dei limiti all’innovazione e ricerca è la dimensione delle imprese. Una regione composta essenzialmente da piccole imprese rende molto difficoltoso un meccanismo e un in-vestimento da parte di queste aziende in ricerca. Quello che dovrebbe essere incentivato è una spinta verso la com-posizione di imprese medie e grandi che favorirebbe un investimento nell’innovazione. Producendo un indotto di alta qualità che andrebbe a beneficio anche delle piccole imprese. L’esperienza raccontata da Sergio Bertini della Sma è quella di una grande azienda fortemente legata al mondo delle università, non solo toscane, ma di tutto il mondo, con una forte vocazione alla ricerca. Questo impianto ha prodotto un effetto a catena che ha coin-volto anche le piccole aziende che lavoravano per la Sma. Tra l’altro in Toscana, come riportato da Casini Benvenuti, dal punto di vista della relazione tra università toscane e imprese i passi da fare sono ancora tanti. Le università devono essere meno teoriche, le imprese più aperte e i mec-canismi della burocrazia più rapidi e snelli per incentivare la possibilità di queste relazioni. In questo senso una buona pratica la riscontriamo nella Siena Biotech che seleziona tecnologie, competenze, persone e progetti idonei per una applicazione industriale. La Siena Biotech ha 130 ricercatori, di cui il 15% è italiano – per sottolineare come l’elemento della varietà, anche delle persone e delle provenienze, sia essenziale per la ricchezza di una azienda. Tutto questo agisce in un meccanismo di integrazione tra grandi aziende e piccole società di ricerca che ha messo in moto un circuito di scambio di know how e tecnologia di grande efficacia. Una ricerca che viene in-dustrializzata. In Toscana si sta comunque delineando un profilo che ha a che vedere con la produzione-consumo di bellezza e benessere, coinvolgendo settori che vanno dalla moda, al turismo, dai gioielli alla nautica di lusso all’enoga-stronomia. Tutti i settori della godibilità della vita di alto livello possono essere un grande punto di forza della città

Toscana. Un caso simbolo di impresa toscana è diventato il settore degli Yacht di lusso nella zona del viareggino, settore che dal 2000 è in costante crescita. I megayacht sono un esempio perfetto su come si mescolano tecniche produttive che assumono i caratteri tecnologici delle produzioni in-dustriali, l’alta tecnologia che si accompagna a competenze artigiane di altissimo livello richieste ai subfornitori, già esistenti nel sistema produttivo locale, che curano l’allesti-mento con forti capacità di design e di progetto. Un mix di alta tecnologia, forte radicamento territoriale e stra-tegia di internazionalizzazione che ha una ricaduta po-sitiva sull’intero sistema delle imprese dalla media grande azienda alle piccole imprese artigiane. Quella sin qui delineata è una concezione di città come crocevia di conoscenze, maestranze, infrastrutture, in cui la politica coordina le risorse nella rete di Smart Cities. Ca-pitale economico e capitale sociale interagiscono, all’interno di un disegno di governo, determinando quei beni collettivi materiali e immateriali indispensabili per la competitività di un territorio. I legami tra centri costituiscono il sistema rete della città-regione toscana, una piattaforma economica che si ancora al Nord Italia e all’Europa, intercetta e po-tenzia i flussi di informazioni, di infrastrutture, di cono-scenze, di prodotti. Una dimensione global dell’economia in cui la politica industriale nazionale, inesistente in questi ultimi anni, stabilisce le linee guida dello sviluppo. Il ruolo che avevano i distretti industriali viene ricoperto in forme inedite dalla città in cui uno spazio pubblico e non privato ospita interessi ed opportunità differenti.Di questi tempi imputare alla politica tutte le responsabilità della crisi che stiamo attraversando, sposare il discorso anti-casta, antipolitica, qualunquista, è una moda funesta. È in-gannevole e non serve ad indicare una soluzione. Perché omette di capire le trasformazioni che si sono determinate nel rapporto tra capitale e democrazia, tra la potenza della prima che sovrasta il potere della seconda. La politica è quindi rimasta, e rimane, una dimensione necessaria per il miglioramento sociale, ed è necessario che torni ad oc-cupare la funzione di regolazione della società. La Smart City, in Europa, rappresenta un modello in discontinuità con quello vigente in quest’ultimo quarto di secolo. Le Città Intelligenti si configurano come spazio pubblico in cui i benefici derivanti dall’innovazione e dalla competi-tività sono assicurati da un capitalismo organizzato in cui la prospettiva verso cui tendere viene decisa e indicata dalla politica. E in cui lo scettro viene restituito al sovrano: i cit-tadini.

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L’ospitalità è ovviamente una qualità necessaria – addi-rittura professionale – per una città che è tradizional-

mente turistica ed è anzi considerata da almeno tre secoli, in quanto città d’arte, la meta turistica per eccellenza. In-sieme a Roma e Venezia, Firenze è una delle tappe prin-cipali del Gran Tour che dal ‘700 in poi ha portato in giro per l’ Europa artisti ed intellettuali ed i giovani aristocratici, soprattutto tedeschi ed inglesi, in quello che veniva consi-derato il necessario viaggio di formazione – il Bildungreise – della futura classe dirigente. Di questo Gran Tour Firenze è stata ed è, per ciò che può significare oggi un viaggio di formazione, momento fondamentale. Grazie anche ai racconti ed alle immagini lasciati da questi viaggiatori, Firenze è diventata rapidamente, come scrive Mary Mc Carthy, una città mito. E’ stata, grazie anche a questa consolidata immagine, tappa obbligata per gene-razioni di letterati, scienziati, musicisti, scienziati prima ancora che il turismo di massa si abbattesse su di lei come un dorato e lucroso tsunami. Si può tranquillamente af-fermare che quasi tutta la cultura europea e nord ame-ricana dell’800 e della prima metà del ‘900 sia passata per Firenze. Fare tutti i nomi è impossibile: Goethe, Stendhal, James, Mendelsohn, Mark Twain, Tchaikowsky, Shelley, Hawthorne sono solo alcuni di quanti hanno visitato Fi-renze ed hanno deciso di soggiornarci il tempo necessario per tentare di assorbirne lo spirito. Firenze ha lasciato una traccia nelle loro opere ed alcuni di loro hanno a loro volta lasciato il segno nella città. Degli illustri visitatori alcuni hanno lasciato a Firenze tracce rilevanti e tangibili come la Villa Tatti di Bernard Berenson o la Villa San Donato dei Demidoff – entrambe ricche di straordinarie collezioni di dipinti e di libri –; di altri resta una lapide al Cimitero degli Inglesi come per la Browning o a quello del Galluzzo come per Bocklin. Dei più la traccia fisica è solo una targa di marmo sulla casa dove vissero. Tutti hanno però contri-buito a forgiare la cultura e l’identità di una città particolare come Firenze che unisce il clima umano e la vita quotidiana della media città italiana di provincia ad un’atmosfera ed una cultura cosmopolite. Questa continua esposizione alle presenza di visitatori stranieri – alcuni, tra i più numerosi,

come gli inglesi ironicamente adottati col nome di “anglo-beceri” – ha fatto di Firenze una città fondata – malgrado molti luoghi comuni – sull’ospitalità e sulla permeabilità alle influenze esterne. C’è persino chi sostiene – forse con dubbia fondatezza storica – che la stessa bistecca alla fio-rentina sia il risultato dell’incontro tra le vacche di razza chianina portate in Toscana, sembra, dal Granduca Leo-poldo e la T- Bone steak anglo americana. Ciò è dovuto alla straordinaria capacità di questa città di apprendere e metabolizzare ciò che i suoi visitatori hanno portato. Il che è, in buona misura, dovuto anche alle mo-dalità del viaggio allora ben diverse da quello attuale, sempre più “mordi e fuggi”, o dall’ultracondensato “See Florence in a Gulp” dei turisti che con un ironico eufe-mismo vengono chiamati i golden vandals. La vicenda di Firenze mostra come l’ospitalità non sia solo una virtù ma possa essere una risorsa assolutamente preziosa soprattutto oggi, in uno scenario internazionale segnato da una cre-scente competizione tra città.Oggi, si ha l’impressione che Firenze abbia smesso di imparare e la sua impermeabilità sia cresciuta. A questa chiusura ha certamente contribuito il problema costituito dai turisti che – visti i numeri oggi già oltre gli undici mi-lioni all’anno – è vissuto con una crescente tensione che sfocia spesso in aperta ostilità da parte degli have nots – da quanti cioè non beneficiano direttamente o indirettamente dei benefici economici di queste presenze e devono invece accollarsene i costi esternalizzati, a partire dall’aumento dei prezzi e dalle difficoltà del bilancio pubblico della città.La tendenza di Firenze all’autoreferenzialità non è, però, una novità in quanto era già stata avvertita da Georg Simmel all’inizio del secolo quando il grande filosofo tedesco dopo avere esaltato la bellezza assoluta di Firenze – evocando per questo il Sehensucht romantico, lo struggimento del viag-giatore davanti a questa straordinaria città talmente bella da non poterla possedere – nota come questa straordinaria bellezza possa diventare un problema. Rileva, infatti, pessi-misticamente Simmel nei suoi appunti di viaggio, come la consapevolezza di questa bellezza assoluta sia presente nei fiorentini i quali, di conseguenza, non riescono ad imma-

L’ospitalità come risorsadi GIANDOMeNICO AMeNDOlA*

* Giandomenico Amendola. Sociologo urbano.

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ginare per la propria città un futuro diverso. Firenze sembra inchiodata al proprio passato avvitandosi su se stessa e chiudendosi di fatto alle innovazioni ed agli stimoli prove-nienti dall’esterno. L’ospitalità perde, così, la sua capacità di trasferire e metabolizzare conoscenze. Eppure, c’è ancora oggi una enorme quantità di risorse di conoscenza che, attratte dalla storia e dalla qualità della città, giungono a Firenze ma qui restano, di fatto, inuti-lizzate. Pochi sanno che Firenze è la più grande città uni-versitaria d’Europa in quanto ospita le sedi distaccate di circa 35 università straniere, tra cui alcune delle più pre-stigiose da Harvard alla Sorbona. Senza contare l’Istituto Europeo che, arroccato sulla collina di Fiesole, vive distante fisicamente e culturalmente dalla città, un po’ come il sana-torio della Montagna Incantata di Thomas Mann. Queste presenze, ricche di potenzialità e di saperi, scivolano sulla corazza impermeabile della città che sembra accorgersi delle università straniere solo quando i giovani studenti americani schiamazzano qualche volta più del necessario anche per la maggiore facilità di rifornirsi di alcol in Italia. La cultura di una città e la sua forza creativa – indispen-sabile in un momento in cui l’innovazione è la chiave dello sviluppo – derivano in larga misura dall’intensa e costante interazione tra i portatori di saperi e conoscenze diversi. Le città che sono riuscite a superare la crisi determinata dalla deindustrializzazione hanno operato per attrarre, concen-trare e radicare competenze offrendo loro un environment urbano ricco di stimoli culturali e di alta qualità della vita.L’ospitalità potrebbe tornare ad essere una straordinaria risorsa se solo Firenze imboccasse la strada – oggi molto battuta – della città creativa che si fonda appunto sulla capacità di una città di imparare e di mettere a valore le competenze ed i saperi di quanti la abitano, anche tempo-raneamente.A produrre innovazioni in grado di alimentare lo sviluppo della città non bastano grandi università, laboratori di ri-cerca o imprese high-tech, è necessario secondo Richard Florida – nuovo guru del management urbano –una classe creativa ed un clima culturale in cui si saldino intelligenze individuali, tecnologia ed un clima culturale aperto e per-

missivo. Anche la forma fisica e l’organizzazione sociale della città sono stati colpiti dalla rincorsa all’innovazione. Questa, infatti, - ovunque abbia luogo: in fabbrica, in uffici o in atelier – ha bisogno per radicarsi e produrre i propri ef-fetti di un environment favorevole. Architetture, stili di vita, culture, comportamenti non possono che essere, almeno in tendenza, coerenti rispetto a questo esigenza se si vuole che l’innovazione si radichi e produca effetti processivi.L’idea della città creativa, benché abbastanza confusa, sta riscuotendo un grande successo anche perché le cosiddette politiche culturali urbane su cui si basa sono relativamente poco costose, attuabili in breve tempo e godono di una grande visibilità. Florida e la sua “ Nuova classe creativa” sono diventati una sorta di bibbia per un’intera generazione di amministratori-manager che ad essi si ispirano. Le tre T - talenti, tecnologia e tolleranza - che sono alla base di questa “città creativa “ sembrano essere a portata di mano o, quantomeno, non difficilmente realizzabili grazie alla com-binazione largamente sperimentata di politiche culturali e di incentivazione della ricerca. Esse, inoltre, hanno il van-taggio di essere per molti aspetti sinergiche rispetto alle strategie ed alle azioni tendenti a rendere bella e stimolante la città in modo che possa attrarre e trattenere i talenti ne-cessari ad alimentare i processi di creatività ed innovazione.Probabilmente, il concetto di creatività applicato alla città va rivisto e riformulato senza lasciarsi ingannare da facili correlazioni tra numero di laureati, eventi culturali e PIL. Una vera città creativa è quella che, come sostiene la statu-nitense Sharon Zukin, “ha imparato ad usare il suo capitale culturale per attrarre sia imprese innovative che membri della mobile classe creativa”. L’ospitalità, in questa pro-spettiva, si ripropone come fattore strategico di attrazione, accumulo e valorizzazione di conoscenze e competenze. La dimensione creativa, perse le virtù proprie della bacchetta magica e del passpartout strategico ritorna, valorizzata, come aspetto di quella riflessività che oggi deve contraddi-stinguere la città contemporanea impegnata a scegliere ed a costruire il proprio futuro. Le città che hanno un futuro – secondo un principio di larga circolazione in Europa - sono solo quelle che lo hanno già scelto.

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L’antefattoDa tempo ci andiamo chiedendo se è pensabile un tipo di offerta territoriale legata ad una logistica non tradi-zionale. La logistica tradizionale è una branca del tra-sporto e della gestione della mobilità delle merci, delle informazioni oltre che delle persone che non fa della To-scana un’area particolarmente forte ad oggi, anche se po-trebbe crescere e divenire, se opportunamente infrastrut-turata, più competitiva. Una dimensione concettuale che anziché rimpiangere il presunto “declassamento” rispetto ai poli forti della manifattura nel mondo, prende sul serio una nuova vocazione - lato sensu - distributiva. Si po-trebbe dire, neoterziaria: ...ricca di una “terza dimen-sione” rispetto al binomio produrreÞdistribuire: quella della distribuzione industriosa. Che, con un qualche tono evocativo, potremmo dire una logistica creativa. In Europa riceviamo e muoviamo un’enormità di merci di tutti i tipi che arrivano nell’Unione essenzialmente da Oriente. Dove con la parola Oriente noi intendiamo Cina, India, Vietnam, cioè tutti quei paesi che ormai, a fronte di un’offerta imbattibile soprattutto in manodopera, si stanno accaparrando la manifattura di tutte quelle che sono le attività intrinsecamente standardizzate, seriali. L’Oriente è disposto a produrre tutto purché in quantità “globalmente” importanti. C’è una soglia d’ingresso ine-

Per una logistica creativa: appunti per un’ipotesi di lavorodi PAOlO SORReNTINO* raccolti da MASSIMO MORISI

Quello che presentiamo è un insieme di appunti attorno a un’idea ancora di massima, ma suscettibile di una

prima articolazione strategica. In altre parole, ci sono tutte le premesse per una politica pubblica che investa in modo inno-vativo il tema della logistica come grande opzione territoriale e intersettoriale per lo sviluppo toscano.

ludibile. Ad esempio nel caso delle schede elettroniche si parla di qualche decina di migliaia di pezzi come com-messa minima. In un parola, o si tratta di quantità molto rilevanti oppure non sei per un sistema come quello cinese un interlocutore. La forza della Cina sta infatti nei grandi numeri entro standard produttivi omogenei: ecco lì sono imbattibili. Dai bulloni alle parti ad alta mano-dopera, come l’oggettistica da regalo: grandi quantità e standard univoci, sono la regola. Gli stessi grandi marchi del consumo di massa ne ricavano la possibilità di una pluralità di tipologie nell’offerta, cioè di allargare costan-temente platee e target di riferimento dei prodotti con-sumer della nostra vita quotidiana. Per altro, se è vero che nessun processo storico è definitivamente unilineare, è anche vero che prima che la Cina veda incrementi di costi di produzione che la rendano meno appetibile per i pro-duttori di mezzo mondo, occorreranno ancora decenni. E’ su questo dato di fatto che si innesta il mio ragionamento. il consolidarsi di una opportunità strategica.Lo sintetizzerei come segue:1. la prima questione. è che tutta questa enorme pro-

duzione di merci deve poter arrivare da noi. Una volta arrivate sul territorio europeo, questi prodotti sono soggetti a norme di ingresso e transito. Parlo di tutto ciò che attiene alle normazioni doganali che consentono a quegli oggetti di essere legalmente im-portati sul territorio dell’Unione. Allora, perché non essere opportunisti, visto che comunque nell’Unione arrivano prodotti da tutti quelli che sono i punti di accesso possibili - porti, aeroporti oppure via gomma? Perché non trasformare questa posizione “ricettiva” in una nuova opportunità imprenditoriale? Che è come

* Paolo Sorrentino è Presidente di GiIlbarco S.p.A., leader mondiale nella automazione elettronica di reti di distribuzione carburante. Azienda, dunque, che opera in costante interazione tra sviluppo scientif ico, evoluzione tecnologica e problematiche energetiche. La Gilbarco ha per clienti i maggiori gruppi petroliferi del mondo e opera in 120 paesi - da Firenze - non computando quelli in cui l ’azienda è presente a partire da altre sedi operative.

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dire, perché ritenersi soltanto ricettori passivi?2. La seconda questione, necessaria per rispondere

all’interrogativo che ho appena posto, concerne il fatto che in questa colossale transizione di merci dai luoghi della nuova produzione ai luoghi della distribuzione, operano logiche tipiche delle grandi “corporation” ma che possono ritenersi generalizzate. La corporation, infatti, soprattutto se si tratta di aziende che si av-valgono di una pluralità di componenti, dunque della totalità dei processi produttivi odierni che hanno sempre un qualche formato reticolare e plurinodale – usa con crescente intensità i trasporti via nave, perché il mare permette di trasportare quantità indefinite di containers. E’ cioè in assoluto il sistema più eco-nomico di trasporto proprio per la mole di merci che permette di movimentare con le economie di scala che ne derivano. Normalmente, anzi, le imprese di queste dimensioni impongono di giustificare le eccezioni al trasporto via nave.

3. Allora l’idea è: abbiamo il porto di Livorno che è un porto potenzialmente competitivo a livello con-tinentale, quindi in grado di ospitare anche navi di dimensioni elevate, favorendo questa economicità del trasporto. Sta qui l’opportunità per la quale, possiamo compensare quello che è lo svantaggio, l’unico svan-taggio del trasporto via nave che è la lentezza rispetto al trasporto via gomma e via aerea. Una compen-sazione che consiste nel fatto che le merci arrivano al porto di Livorno e da lì - mediante strutture ge-stionali altamente informatizzate, quindi strutture

che non necessariamente si trovino a Livorno ma dislocabili in qualsiasi parte della Toscana – siano sottoposte a una tracciatura informatica che dal mo-mento dell’attracco consenta un controllo costante del processo logistico e minimizzi, di conseguenza, i tempi di raggiungimento della destinazione finale. Un processo che include al suo interno la fornitura di tutti gli adempimenti burocratici per il passaggio in dogana e l’importazione legale fino alla consegna a destino. Un elemento, quest’ultimo, di grande rilievo perché, se il trasporto via nave è lento in sé, questa lentezza fisiologica può essere incrementata artifi-cialmente in ragione dei tempi di trattamento delle pratiche doganali che possono addirittura richiedere più tempo di quello necessario al trasporto fisico. Fe-nomeno ricorrente per una pluralità di cause e con-cause, a volte molto banali a volte molto tecniche e tecnico-giuridiche. In ogni caso fortemente dannose nel loro reciproco scoordinamento. Diventa essenziale un’adeguata e integrata assistenza tecnico-legale che sia in linea con gli ordinamenti locali vigenti, per cui solo chi opera a quel livello locale, può intervenire con la necessaria efficacia per prevenire i danni da compli-cazione burocratica. Tutte problematiche, insomma, che una Corporation non potrà mai trattare secondo uno standard unitario, che è quello che predilige. Sarà invece necessario avvalersi di competenze locali - giu-stelematicamente evolute - cui la stessa azienda potrà ricorrere sistematicamente purché le trovi disponibili alle porte d’ingresso dei mercati in cui vuol movi-

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Progetto per il Parco della Piana

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mentare le merci che ha importato. Nel caso toscano un porto come quello di Livorno dovrebbe mettersi in grado di offrire tutta quella pluralità di servizi che rendono certa, prevedibile e sicura la sua funzione di grande porta europea rispetto alle fonti orientali di prodotti, materie e semilavorati. In ogni caso, un porto siffatto e la rete logistica di cui può essere a capo, implica un abbattimento significativo di costi di transazione che rende il territorio che quel porto e quella rete ospita specificamente appetibile per chi muove merci a mezzo di navi, cioè avvalendosi del si-stema trasportistico più conveniente, oggi e nel medio lungo termine. Se ad esempio faccio due conti in casa mia, posso dire che un’azienda multinazionale come quella che dirigo potrebbe ricavare da un sistema di trasporto incentrato su una porta livornese integrata e coordinata nelle funzioni logistiche che la potrebbero contraddistinguere, come quelle cui mi riferisco, un abbattimento di costi trasportistici di almeno il 30%, con tutto quel che ne consegue in termini di efficienza, produttività, reddittività.

4. Se queste condizioni di attrattività venissero attivate, Livorno potrebbe convogliare su di sé e dunque qua-lificare la Toscana come piattaforma logistica inter-nazionale proprio mediante servizi integrati e fles-sibili che potrebbero intercettare una parte cospicua del flusso di merci che oggi si distribuisce lungo una grande pluralità di accessi al mercato europeo. Va in-fatti rimarcato come non si tratta di creare un nuovo mercato, ma di far confluire su una nuova offerta di servizi territorializzati una messe di merci che co-munque per altre strade ci arriva in casa. E stiamo par-lando di un mercato, appunto solidamente esistente, che ammonta a non meno di 100 miliardi di euro.

5. Il vantaggio socio-economico di una simile ipotesi è chiaramente far confluire una gamma plurale di op-portunità di lavoro e di nuove competenze sulla To-scana perché oggi qualcuno lo fa, lo fanno in tanti, in forma spezzettata, in forma non armonica, invece lo si può fare in una forma correlata in modo tale che a quel punto possa prendere corpo il cervello integrato di una vera piattaforma logistica: …che sa che c’è della merce in arrivo, quindi la traccia. Al momento in cui arriva la nave c’è una predisposizione di tutta la struttura, magari con attività preliminari già espletate in dogana così che quando arriva la nave tutto diventa molto veloce, dalla nave le merci vengono trasferite o via gomma o via aerea, questo dipende semplicemente dall’urgenza che ha il cliente: per esempio in 24 ore può essere via aerea per il Nord Europa, può essere via gomma per il Sud Europa e così via. Ci può essere

anche un’offerta flessibile perché potremmo avere una spedizione urgente in cui ci interessano tempi molto stretti e …quindi la via aerea; e l’ordinario che se ne va via gomma o sennò addirittura via treno. Anzi, se realmente Livorno volesse diventare la testa di una piattaforma anche ambientalmente evoluta, dovrebbe valorizzare con grande determinazione l’opportunità del nodo fiorentino dell’alta capacità, che potrebbe, per la piattaforma logistica toscana, rappresentare una infrastruttura essenziale. Va anzi rimarcato che proprio in chiave “livornese” e in ciò che di sistemico Livorno costituisce, l’investimento nell’alta capacità “fiorentina” rappresenta una opportunità irrinun-ciabile.

Una seconda chiave strategica per la piattaforma logistica toscanaCome il mondo della piccola e media impresa potrebbe entrare a far parte di un simile disegno?E’ vero che il cliente primario, anzi condizionante, di una simile ipotesi è e resta la Corporation. Tuttavia c’è anche dell’altro, e assai importante. Infatti, oltre alle Corpora-tions che trasferiscono in Europa i frutti di processi pro-duttivi decentrati e debbono poi movimentarli, qualunque piattaforma logistica deve anche servire i costruttori di componenti di ulteriori processi produttivi che hanno luogo a casa nostra. Cioè, da un lato è la Corporation che muove la sua merce, da un altro sono in gioco gli attori delle produzioni a rete nelle quali le diverse componenti di un prodotto sono la risultante di più processi dislocati nel mondo. Facciamo appunto un esempio a me vicino quello dei costruttori di componenti elettronici. Una stessa resistenza elettrica può avere migliaia di diverse applicazioni: nel telefonino, nel televisore, nel computer. Chi produce resistenze elettriche ha migliaia di poten-ziali clienti. Cioè di produttori di ulteriori semilavorati o di beni finali, sparsi in una pluralità di paesi che ri-chiedono che nei luoghi di smistamento, appunto le piat-taforme logistiche, trovino un servizio attivo e puntuale di “hub”: cioè magazzini intelligenti, in grado di servire all’occorrenza e in tempo reale perché telematicamente assistito, anche una enorme pluralità di domande di ac-quisti di minore volume o addirittura di dettaglio. Se ad esempio sono un piccolo produttore di caldaie di nicchia, ho bisogno di un modesto numero di resistenze assai specifiche, la piattaforma logistica mi dice dove e a quale prezzo le posso acquistare e a partire da quando le posso ottenere fisicamente. Anche se, quel produttore di quelle resistenze le ha realizzate soltanto in grandi quantità e dunque, senza quel servizio di hub, sarebbe per me stato un fornitore inaccessibile. Così grande produzione e pro-

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duzione micro trovano in quell’hub il nodo di connes-sione. Ovviamente, perché il tutto funzioni, occorre che l’intelligenza del magazzino logistico sia effettivamente tale e dunque strutturata allo scopo. Di qui la necessità di professionalità adeguate e infrastrutturazioni specifiche conseguenti. Avere l’hub permette alla piccola azienda di poter acquistare il componente di cui ha bisogno solo quando esso è necessario al processo produttivo interno, senza dover immobilizzare risorse per accantonamenti di magazzino e conseguenti oneri di credito. E’ un vantaggio enorme e quindi permette di lavorare anche ad aziende non strutturate, riduce la necessità di indebitamento che certe aziende possono avere. E’ una tecnica estremamente nuova ma che sta prendendo piede in giro per il mondo e proprio attorno alle piattaforme logistiche più compe-titive. Dal punto di vista della Toscana una piattaforma logistica con queste capacità, unite a quelle legate alla clientela corporate, permetterebbe di fare business con due modalità: da una parte, servire il grande produttore di componenti, che sarebbe guidato, cioè informato sistema-ticamente e dunque orientato rispetto alle dinamiche di ogni mercato settoriale, od opera dell’attività informativa della piattaforma, determinando con ciò la remunerazione dei servizi che essa offre; dall’altra, svolgere una funzione di distribuzione mirata a favore degli utilizzatori minori dei componenti in questione, favorendo cioè la loro ca-pacità di ingerirsi in un mercato dimensionalmente per essi precluso e garantendo la piena e meccanica soddisfa-zione delle esigenze più minute e duttili insite nella loro domanda.

La condizione di fattibilità. Ma perché proprio la Toscana e Livorno come leva es-senziale, possono cogliere una simile opportunità?Perché un investimento del genere dovrebbe avere suc-cesso? Perché disponiamo dei pilastri essenziali per incammi-narci su una simile strada. Un porto virtualmente molto competitivo a livello globale, due aeroporti, Firenze e Pisa ben integrabili nelle differenze delle offerte che li caratterizzano, una rete ferroviaria che con il sottoattra-versamento di Firenze, può armare la piattaforma logi-stica verso l’alta capacità, una struttura stradale che tutto sommato, per quanto migliorabile, potrebbe reggere l’urto.La cosa importante è che, anche nelle condizioni mate-rialmente attuali, questa ipotesi di piattaforma logistica evoluta, io direi “creativa” rispetto agli standards correnti del dibattito italiano in materia, potrebbe decollare. Poi è chiaro che il completamento di una serie di opere in-frastrutturali su cui la Regione sta lavorando non può altro che renderla più efficace. Quello che si dice in gergo “kick-off ” può avvenire oggi. Oggi abbiamo tutti i contenuti necessari, quello che manca è chiaramente il riuscire a mettere insieme questa piattaforma logistica da un punto di vista politico-istituzionale. Cioè un pro-getto di fattibilità che faccia pregiudizialmente i conti con quel pluralismo istituzionale e di volontà politiche dalla cui intelligente coesione dipende la qualità del policy making toscano e la capacità di affrontare l’in-novazione di cui ha estremo bisogno il nostro territorio.

Mostra di Moore alForte Belvedere, 1972

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La principale sfida che Firenze deve sostenere nei prossimi anni, al fine di ridefinire la sua posizione in-

ternazionale, è quella indirizzata a «riorganizzare l’intero comparto turistico e culturale, connesso ad una rivitaliz-zazione delle tradizioni manifatturiere locali». È questa la lapidaria indicazione del cambiamento necessario se-gnalato in un recente rapporto comparativo su venti città europee, scelte tra quelle considerate interessanti ed inno-vative per politiche urbane di successo1.L’indicazione è anche figlia dei risultati di Florens 2010, la Settimana Internazionale dei Beni culturali e am-bientali, tenutosi nella seconda settimana di novembre di quell’anno, e degli eventi che ne sono derivati2.La lapidaria indicazione ci invita a ragionare sulla città dei prossimi anni, in un momento in cui non solo gli studi sulle città italiane sono stati da più parti rilanciati3, quanto perché dopo un periodo altalenante di discussioni e in-decisioni – richiamate nell’editoriale e in questo numero della rivista – una nuova stagione sembra prendere piede, per effetto di un nuovo protagonismo municipale, che ha accantonato definitivamente alcune politiche pubbliche che avevano trovato più recente ospitalità nell’associa-zione Firenze Futura. Politiche che portarono alla reda-zione di un Piano strategico fiorentino4 che, pur fondando la sua impostazione su «una visione per il futuro» dell’area metropolitana (seppur ristretta ai comuni della prima cintura, quindi al solo il cuore di un’area molto più estesa), indicava quattro “assi” strategici che racchiudevano veri e propri progetti di trasformazione di parti significative del tessuto urbano e di quello infrastrutturale. Progetti per la maggior parte “concentrati” sul territorio comunale di Fi-renze o a questo riferiti in termini di benefici collaterali. Nuovo protagonismo municipale che, pur tuttavia, ha finito per concentrare ancora di più l’attenzione delle

Nuovi paesaggi urbanidi GIUSePPe De lUCA*

politiche pubbliche nell’ambito urbano della città di Firenze5, privilegiando di questa soprattutto la parte storica, che ha «una dimensione molto piccola rispetto alla fama che possiede»6. Protagonismo fissato nel medio periodo nel nuovo Piano strutturale comunale che affida «la trasformazione della città esclusivamente al riuso dei contenitori dismessi», e ad una riprogettazione di parti significative urbane con un preciso obiettivo: «creare le condizioni al contorno perché le trasformazioni possano avvenire in maniera corretta, [e] fortemente integrate nel contesto di riferimento»7. Impostazione corretta e condivisibile. Ma l’approccio è parziale, perché tenta di misurarsi solo con uno dei tre principi guida sul futuro delle città nell’economia globa-lizzata: l’accessibilità; mentre lascia molto sullo sfondo gli altri due, che sono molto più rilevanti e strategici: la partnership e il policentrismo. Temi recentemente di-battuti nella IX Biennale delle città e degli urbanisti europei, tenuta a Genova lo scorso mese di settembre8, e che qui vogliamo riprendere.

AccessibilitàIl principio dell’accessibilità non allude tanto alla dota-zione infrastrutturale o ai soli servizi puntuali o alle sole grandi funzioni presenti in una città – che certo sono ri-levanti e fondamentali nello strutturare uno spazio eco-nomico e uno spazio di vita – quanto a considerare una città come infrastruttura di per sé, come bene pubblico per eccellenza. In quanto tale più efficiente è l’accessi-bilità, tanto più competitiva è la città. Da qui l’attivismo a sfruttare eventi, occasioni, o definire progetti urbani, anche piccoli ma tra loro coerenti e interconnessi, tali da generare domande d’opere – che il sistema politico locale tende ad interpretare come un’occasione per accelerare

* Giuseppe De Luca. Urbanista.1 ACT Consultans, Good Policies and Practices to tackle Urban Challenges, (S. Fayman, K. Keresztély, P. Meyer, K. Walsh, J. Pascal, F. Borja, L. Horelli, H. Kukkonnen, eds., Paris, July 2011, p. 40. Il rapporto è scaricabile dal sito http://ec.europa.eu/regional_policy/conferences/citiesoftomorrow/index_en.cfm2 Cfr. http://www.florens2010.com/3 Per tutti rimandiamo a Consiglio italiano per le scienze sociali, Società e territori da ricomporre. Libro bianco sul governo delle città italiane, Roma, aprile 2011: http://www.consiglioscien-zesociali.org/pubblicazioni/51/societ-e-territori-da-ricomporre/4 Il piano è scaricabile a questo indirizzo http://www.firenzebusiness.it/Informazioni/Files/178/firenze2010.pdf5 http://news.comune.fi.it/100luoghi/?page_id=2866 Come sarcasticamente rileva G. Biodillo, Metropoli per principianti, Guanda, Parma 2008, pp. 114.7 Cfr. http://pianostrutturale.comune.fi.it/8 Cfr. http://www.biennaleurbanistica.eu/

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lo sviluppo urbano – ma che nella realtà tendono a ri-spondere alla richiesta di adeguare la città ai nuovi re-quisiti dell’economia globale, a specializzarne parti di essa, oppure a riposizionarla in maniera innovativa nello scac-chiere della competitività. Due sono i settori prioritaria-mente interessati a queste politiche innovative: il settore terzario-direzionale, e quello latamente riconducibile all’industria culturale; mentre gli ambiti spaziali di rife-rimento tendono ad essere quelli centrali che li ospitano. E sono proprio questi settori e questi ambiti che il Piano strutturale comunale tende a considerare prioritari. Eppure a Firenze esistono anche altri settori “marcatori” dell’economia ed esiste un ampio ambito urbano di “peri-feria” che li racchiude e li ospita. Forse è proprio qui che si nasconde una parte cospicua delle risorse9, che certo non è legata al turismo o all’industria culturale, ma a quella manifatturiera e dei servizi alla residenza e alla persona.Tuttavia connettere tutta una serie di “infrastrutture”, da quelle più marcatamente tradizionali (come quelle di tra-sporto: strade, ferrovie, tramvie, ecc.); a quelle più spe-cificatamente sociali (case, scuole, servizi, ma anche im-prese e strutture produttive); a quelle più innovative per contenuto tecnologico (da quelle della comunicazione a quelle del nuovo tempo libero), senza porsi la questione territoriale è il punto debole. Anzi l’assenza di questo punto avrà effetti negativi sulla stessa accessibilità. La città contemporanea, come noto, tende a non avere più confini. Da anni è in corso a livello globale un processo di metro-polizzazione che rende i limiti amministrativi del tutto deboli, se non alcune volte largamente inutili. E questa perdita dei confini non può essere ignorata, né sottova-lutata, ma deve essere affrontata in assenza di soluzioni istituzionali radicali che, ancorché sempre richiamate, sono tutt’altro che vicine. E poi, qualora lo fossero, bi-sognerebbe comunque fare i conti con la legislazione vi-gente che, nel campo della strategia urbanistica – che sta alla base di qualsiasi decisione pubblica di governo della città – deve rispondere a due elementi fondamentali, il costo e il tempo. Proprio per questo il secondo principio con cui misurasi è quello della partnership.

PartnershipQuesto principio richiama certo il problema irrisolto – e prima accennato – delle aree metropolitane o quello delle conurbazioni urbane che caratterizzano oramai diversi territori, tra cui quello fiorentino. È evidente che la costi-tuzione di strutture di governo metropolitano ad elezione diretta faciliterebbe la predisposizione e il monitoraggio di politiche e di progetti urbani che superino i tradizionali ambiti dei confini comunali. Ma ciò intanto non esiste e vie nuove da percorrere sono indispensabili.Come è altrettanto evidente cha all’interno del terri-torio metropolitano o della stessa conurbazione urbana lo spazio non è uguale: ma che diversi “punti” in esso presenti giocano ruoli differenti nel contesto locale e in quello globale, a seconda della rete (finanziaria, culturale, conoscitiva, commerciale, produttiva) in cui si collocano e competono. Per dirla con le parole del Libro bianco: la conseguenza di ciò «è che il governo della città da prin-cipale regolatore e gestore delle risorse locali tende a tra-sformarsi in mediatore tra gli interessi locali e quelli degli attori sovra locali, detentori delle risorse da cui dipende lo sviluppo locale. Perciò le città stanno perdendo gran parte di quella autonomia funzionale che era il presup-posto delle vecchie istituzioni comunali. In più, essendo la città reale un aggregato di più comuni – privi, come s’è detto, di un coordinamento metropolitano – questa sua frammentazione indebolisce i governi locali nei rapporti con i poteri forti esterni: dal grande capitale immobi-liare ai gestori delle reti infrastrutturali e delle utilities (autostrade, ferrovie, porti, aeroporti, telecomunicazioni, energia, acquedotti, raccolta rifiuti, …) a cui essi cedono di fatto funzioni e competenze»10.Abbandonare la visione localistica, che storicamente ci caratterizza, per acquisirne una di tutt’altra scala, e agire di conseguenza, è la vera innovazione. Oggi un Sindaco non è più solo sindaco dell’istituzione in cui è stato eletto. Certo ne rende conto ai cittadini, ma le sue indicazioni devono per forza andare all’interno di altri ambiti territo-riali e al tempo stesso deve accettare che altri ambiti ter-ritoriali entrino nei propri. Occorre porsi in un rap-

9 Cfr. Confindustria Toscana, Il sistema economico di Firenze, Giugno 2011. I dati sono scaricabili sul sito: http://www.confindustria.toscana.it/notizia/sistema-economico-firenze10 Consiglio italiano per le scienze sociali, Società e territori... cit., pp. 10-11.

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porto assolutamente di dialogo anche con il comune più prossimo, in un’ottica distributiva di benefici e di cri-ticità pensata all’interno di una prospettiva comune. Part-nership significa proprio questo.Certo chiunque abbia un po’ di esperienza sulla forma-zione di piani e di programmi d’azione in una prospettiva partenariale sa che c’è un salto logico e politico impor-tante da compiere, sia nella rete di attori che presiede all’elaborazione della strategia comune, che in quella che presiede alla formulazione delle iniziative. Molti tentativi fatti nel recente passato si sono arenati proprio su questi scogli. Ma una rinnovata maturità nella dimensione del coordinamento inter-istituzionale e della transcalarità delle azioni è più di una sfida, è una necessità organiz-zativa imposta dalla sopravvivenza. Specialmente in un territorio relativamente piccolo come quello fiorentino e in una città di medie dimensioni, come Firenze, con un corollario di comuni che raccolgono circa la metà della popolazione residente11.Siamo in presenza quindi di un sistema policentrico di piccole dimensioni, se lo proiettiamo in un contesto com-parativo internazionale. Proprio per questo il terzo prin-cipio con cui misurasi è quello del policentrismo.

Policentrismo Per usare termini europei, Firenze è una città gateway, una porta globale. In quanto tale potrebbe essere motore economico non solo per la realtà fiorentina, ma di gran parte della Toscana, e certamente di molte aree della stessa Italia. È una città che non appartiene solo alla Toscana e forse nemmeno all’Italia: è patrimonio mon-diale. Tuttavia è una città molto piccola se proiettata nello spazio europeo. Anche se alcune macrofunzioni devono essere definite a questa scala. Ma questa consapevolezza sembra non esserci, né nella gestione amministrativa della città, né al contorno. La consapevolezza non può essere raggiunta nemmeno con la nascita di un unico organo amministrativo centrale. Anzi, questo potrebbe essere nel breve, come nel medio periodo, un vero e proprio ostacolo.Come la città è fatta di parti, anche il territorio in via di metropolizzazione è una somma di parti. Rafforzare queste parti è la migliore strada per la coesione sociale,

economica e, appunto, territoriale. Chiunque legga l’area fiorentina dall’alto, o la stessa valle dell’Arno, o il pas-saggio dal Mugello alla Piana, non può non notare un sistema urbano areale fatto sia di “resistenze” storiche, chiaramente individuabili nella loro forma, certo anche con significative espansioni, e filamenti urbani, più o meno spessi, che definiscono “catene di abitati”. Tut-tavia le storiche centralità, i storici luoghi di definizione e riconoscimento delle comunità permangono e, appunto, “resistono”. Basta sfogliare un timetable dei collegamenti interurbani vigenti per scoprirlo: i capolinea dei colle-gamenti su gomma extraurbani sono ancore le storiche piazze e i tradizionali punti di arrivo/partenza di sempre (cioè dagli anni Venti in poi del Novecento). Vorrà pur dir qualcosa questo? Forse che le trasformazioni fisiche e funzionali che hanno interessato l’economia e la società dell’area fiorentina e della sua città centrale, come delle città più piccole ad essa corollario, nonostante tutto, e che hanno mantenuto le storiche centralità e le identifi-cazioni con gli spazi originari sono una risorsa da man-tenere, piuttosto che un problema da superare?La competitività territoriale, così come quella urbana, si gioca su scale e specializzazioni multiple e tra loro com-plementari. Solo le grandi agglomerazioni possono di-sporre di mix competitivi a livello globale. Molte città possiedono specializzazioni settoriali che garantiscono il posizionamento su mercati che sono comunque europei e internazionali. Firenze città, se si esclude il comparto del turismo d’arte, e dell’industria culturale a questo con-nesso, non ha la forza, né la “massa critica” sufficiente per competere su mercati sovra locali. Deve perciò ritrovare una dimensione territoriale più ampia e più coesa per sostenere politiche di sviluppo innovative. Questo può essere raggiunto solo riscoprendo il valore incrementale del policentrismo. Ma solo ad una condizione: che il forte municipalismo, innescato dal “ricco tessuto” dell’armatura urbana presente nella Piana fiorentina (e più in generale nell’area della Toscana centrale), stemperi la preminenza degli interessi e dei valori espressi dalle comunità locali, per favorire i vincoli di adesione culturale e di apparte-nenza ad un’area più ampia e strategica rispetto ai propri confini amministrativi.

11 L’area metropolitana disegnata dalla Regione Toscana a fine anni Ottanta, quella che arrivava fino a Pistoia, e che interessava solo la Piana al di sotto dei 100 metri slm, si estendeva per circa 434 Kmq, con quasi di 1,5 milioni di abitanti; quella più ristretta coincidente con la piana fiorentina che di quegli abitanti ne comprende poco più di 610.000; mentre Firenze si ferma a 360.000 abitanti circa.

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Considerazioni su PD, urbanistica e rendita urbana

Le risorse territoriali tra obiettivi di pianificazione e rischi di mercatoRisorse da salvaguardare perché beni comuniDa qualche tempo l’attenzione della cultura urbani-stica ed ambientalista, e quindi anche dell’attività di pianificazione, si rivolge con insistenza al consumo di suolo. Il suolo utilizzabile per usi plurimi connes-si ad attività primarie ed a servizi ricreativi, e nello stesso tempo utile per assicurare agli insediamenti un’elevata qualità ecologica, è un “bene pubblico” o “comune” al pari di altre categorie di beni, quali ad esempio i beni culturali, il paesaggio, le acque e tanti altri ancora.Per la conformazione del territorio nazionale e per gli sviluppi insediativi che vi sono stati realizzati, in Italia il suolo non ancora urbanizzato è risorsa scar-sa. Il consumo di questa risorsa, inteso come im-piego per usi insediativi ed infrastrutturali e quindi come sua definitiva perdita per gli usi extraurbani, riguarda soprattutto le zone pianeggianti periurba-ne, ove sono molteplici e forti gli interessi econo-mici che premono a tal fine sulle Amministrazioni comunali.Ragionando in termini di uso efficiente delle risorse territoriali, è evidente che non ha senso consumare ulteriori quantità di suolo extraurbano, allargando così i bordi del territorio urbanizzato, quando con-temporaneamente, all’interno della città, si forma-no bolle di degrado che si dilatano mano a mano che la città si espande.Eppure l’espansione degli insediamenti e il conte-stuale consumo, o comunque l’impegno per usi ur-bani, dei cosiddetti greenfields, prosegue. Ogni re-visione degli strumenti urbanistici, sia che avvenga tramite un Piano regolatore di tipo tradizionale, sia che venga operata attraverso un Piano comunale di nuova concezione - che distingue le componenti strutturali da quelle operative - apre a nuove urba-

nizzazioni: le proprietà e i loro consulenti premono sulle Autorità locali che, deboli, cedono alle pres-sioni. Solo i Piani comunali più rigorosi riescono a limitare il sacrificio dei greenfields in termini quan-titativi e qualitativi, cioè circoscrivendolo ai terreni interclusi o contigui al territorio urbanizzato.Insieme con l’espansione si forma la rendita urbana, assoluta e differenziale. Durante il lungo processo di pianificazione, che dall’elaborazione del docu-mento preliminare passa attraverso vari passaggi tecnici e politico-amministrativi fino a concludersi nella stipula della convenzione del piano attuativo, la rendita avanza e si attesta su valori crescenti man mano che si consolida la conformazione edificatoria dei suoli. Il contestuale conflitto fra chi opera a favo-re della creazione e dell’appropriazione privata della rendita e chi, sul fronte opposto, cerca di contenerla <

di STefANO STANGhellINI*

socializzandone almeno una quota (attraverso la perequazione e la compensazione urbanistica, il concorso delle proposte private, il contributo di so-stenibilità, ecc.) è durissimo, e l’esperienza dimostra che comunque, alla sua conclusione, la prima posi-zione non è mai perdente.

Risorse da mobilitare perché generatrici di opportu-nità - Mentre le città si espandono, alcune loro aree interne perdono di funzionalità, diventano obsolete, manifestano varie forme di degrado.Le aree degradate, dismesse o sottoutilizzate, grazie alla loro dimensione ed alla posizione che occupa-no nel sistema urbano, sono unanimemente con-siderate importanti risorse per il futuro delle città: attraverso la loro riqualificazione e riconversione è possibile innestare nel tessuto urbano funzioni di rilevanza strategica, promotrici di sviluppo econo-mico e sociale, attrattrici di investimenti, capaci di accrescere la competitività della città.Che nelle politiche urbane si debba dare priorità alla rigenerazione rispetto all’espansione è un fat-to assodato, tanto nel dibattito culturale, quanto in quello politico.Tuttavia la rigenerazione urbana è ostacolata da complesse situazioni proprietarie e societarie, da lunghe e contrastate procedure urbanistiche, da dispositivi autorizzativi plurimi con pronunciamenti delle autorità responsabili che non sono sem-

* Stefano Stanghellini. Urbanista. Segretario INU

Il nuovo Palagiustizia a Novoli

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pre univoci, dagli elevati costi delle bonifiche e delle demolizioni, e comunque da maggiori difficoltà nell’organizzazione dei lavori che si ri-flettono in maggiori costi rispetto all’edificazione in zone di espansione.La rigenerazione urbana, in molti casi, è consi-derata un “fallimento del mercato”, nel senso che il mercato, con le proprie forze, non è in grado di realizzarla. E’ quindi necessario che ci sia un inter-vento pubblico che crei condizioni favorevoli all’in-vestimento privato. L’esperienza dei programmi innovativi in ambito urbano di iniziativa ministeriale - dai programmi di riqualificazione urbana ai programmi di quar-tiere fino ai Pic Urban - sottintendeva proprio que-sta consapevolezza. Ma queste sperimentazioni si sono pressoché esaurite, così come i flussi finan-ziari che avevano veicolato nelle nostre città.Nell’assenza di incentivi finanziari e fiscali statali, la creazione di condizioni economiche favorevoli all’iniziativa privata è affidata alla valorizzazione fondiaria, ossia al cambio delle destinazioni d’uso e all’incremento delle superfici utili. Ai maggiori ricavi che il progetto così concepito può conseguire

è affidato il compito di coprire tutti i costi, fra cui anche quelli finanziari connessi ad iniziative ad alto rischio e con prolungato impiego del capitale.La trasformazione urbana attuata mediante pro-getti così concepiti dà luogo a volumetrie e fun-zioni molto impattanti su un sistema urbano che, in genere, è già carente di infrastrutture e servizi. La trasformazione urbana richiede quindi un ro-busto adeguamento delle infrastrutture e delle attrezzature, ossia della componente pubblica della città. Poiché tale adeguamento è molto co-stoso e le Amministrazioni non sono in grado di coprirne i costi, agli operatori privati viene richiesto di farsene carico. La disponibilità degli operatori è subordinata all’accettazione, da parte dell’Ammi-nistrazione, che i maggiori costi siano compensati da ulteriori quantità edificatorie o dalla previsione di nuove pregiate funzioni, ossia da ulteriori valo-rizzazioni fondiarie. Il finanziamento della trasformazione urbana av-viene dunque attraverso le valorizzazioni fondia-rie, e quindi attraverso la generazione di rendita urbana.Gli interrogativi - Questa prima parte del ragiona-

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Progetto per il Parco degli Scambi alla Fortezza da Basso (P. Giustiniani, V. Maschietto)

mento conduce alla seguente considerazione. Le città italiane sono interessate da un duplice conte-stuale fenomeno. Per un verso si espandono, con-sumando in modo irreversibile una risorsa scarsa, sotto la spinta dei processi di formazione ed appro-priazione privata della rendita urbana. Nello stesso tempo le politiche di riqualificazione, in assenza di adeguate incentivazioni finanziarie e fiscali, sono anch’esse alimentate dalla rendita urbana. La du-plice dinamica pone parecchi interrogativi.Un primo interrogativo attiene in modo specifico alla riqualificazione urbana. La riqualificazione delle nostre città, e quindi anche il rinnovo ed il potenziamento delle infrastrutture e delle at-trezzature, può essere affidata principalmente, o addirittura esclusivamente, ai meccanismi di for-mazione e di appropriazione della rendita urbana?E’ evidente che un’impostazione del genere pone innanzitutto un problema di equità territoriale, poiché i livelli che la rendita può raggiungere, e quindi le capacità di finanziamento di opere pub-bliche che può esprimere, sono molto differenziati in Italia fra nord e sud, fra città grandi e città me-dio-piccole, fra aree economicamente forti ed aree

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deboli. Se questa dovesse confermarsi come la principale o addirittura l’unica modalità di finan-ziamento della città pubblica, ne risulterebbero accentuati gli squilibri economico-territoriali del paese, con gravi effetti negativi anche sul piano sociale.Gli effetti sociali di questa modalità di produzione delle infrastrutture e delle attrezzature potrebbero essere infatti tali da non assicurare, sul medio e lungo periodo, il livello minimo dei servizi che l’at-tuazione della riforma federalista dello Stato deve comunque assicurare. Alla “perequazione urbani-stica” andrebbe dunque riconosciuta anche una dimensione nazionale, oltre a quella comunale.Altri interrogativi riguardano l’effettiva capaci-tà della rendita di alimentare contestualmente l’espansione e la riqualificazione urbana.Un processo di sviluppo basato per un verso sul progressivo consumo di suolo e per l’altro sull’in-cremento dei carichi urbanistici, e quindi sull’uti-lizzo spinto della leva della rendita, è sostenibile per un paese quale è l’Italia?Quando l’offerta è rigida, come di solito avviene nel caso delle aree edificabili o suscettibili di tra-sformazione, il prezzo dipende dalla domanda. Ma la domanda nelle “città al tempo della crisi” o quel-la che fra qualche anno si formerà nella “città oltre la crisi”, sarà rispondente alle aspettative di valoriz-zazione che nel frattempo si saranno formate nelle menti e nei programmi dei proprietari fondiari e dei promotori immobiliari? E di conseguenza, quali saranno le future dinamiche di trasforma-zione urbana per quanto riguarda l’espansione per un verso, con il connesso consumo di suolo, e la riqualificazione per l’altro?E’ realistico il rischio che il blocco dei valori fondiari sulle aspettative dei soggetti detentori delle aree da edificare o da riqualificare, si ripercuota nega-tivamente sui tempi di attuazione dei piani e pro-getti pensati per le nostre città, e più in generale sul soddisfacimento delle esigenze delle comunità locali?Non c’è il pericolo, infine, che la domanda ancora una volta si incanali preferenzialmente verso le co-struzioni realizzabili con più rapidità e minor costo nelle aree di espansione?

Gli strumenti regolativi per un uso efficien-te ed efficace delle risorseGli interrogativi appena posti, in gran parte retorici,

scaturiscono da osservazioni empiriche sulle dina-miche economiche che oggi accompagnano la formazione degli strumenti urbanistici. All’analisi ed alle preoccupazioni devono tuttavia seguire delle proposte in merito alle misure che potrebbe-ro essere assunte per affrontare le problematiche esposte. Le misure di seguito proposte ricadono nell’ambito degli strumenti di tipo regolativo che lo Stato, intendendo con ciò l’insieme delle Amministrazioni pubbliche, potrebbe utilizzare.

La pianificazione cooperativa - Gli operatori del settore immobiliare ravvisano nel frammentario e conflittuale sistema delle decisionalità pubbliche il nodo cruciale da sciogliere per sostenere le strate-gie di riqualificazione urbana rendendo l’investi-mento privato più attraente rispetto all’espansione.La molteplicità di competenze decisionali pubbli-che che si addensano sui complessi immobiliari da trasformare, la separatezza dei processi decisionali nel settore pubblico, la lunghezza delle procedure, la discrezionalità di talune autorità e l’esercizio di tale potere anche durante la fase di esecuzione dei lavori, determinano maggiori costi in termini di spese tecniche aggiuntive, superiori oneri finan-ziari, costi addizionali per particolari tipi di opere richieste. Questa situazione genera anche costi indiretti in termini di incertezza e quindi di mag-gior rischio, poiché qualsiasi investimento privato in condizioni di “incertezza del diritto” richiede un saggio di redditività molto elevato. Nelle deludenti operazioni di valorizzazione e dismissione dei beni immobili pubblici si possono ritrovare molte rap-presentazioni della criticità descritta.Così, quando un nuovo strumento urbanistico mette in gioco sia la possibilità di realizzare nuovi insediamenti che quella di riqualificare aree degra-date, i greenfields godono di un enorme vantaggio competitivo rispetto ai brownfields, il quale si tra-duce in una sorta di “rendita differenziale da ordi-namento” per i loro proprietari. In altri termini, una quota della rendita che si forma nei greenfields è ascrivibile alla restrizione dell’offerta connessa ai maggiori tempi, costi e rischi della riqualificazione urbana.Dunque una prima importante risorsa da mobilita-re per la “città nella crisi ed oltre la crisi” riguarda la concreta possibilità di abbattere una considerevole quota dei costi della trasformazione urbana, inci-dendo in modo strutturale sulle inefficienze e sugli <

sprechi che si verificano nei processi decisionali interni al sistema della Pubblica Amministrazione.

Un piano comunale di nuova concezione ed i “crediti edilizi verdi” - La pianificazione di nuova concezio-ne, con l’affermazione della cosiddetta “sostenibi-lità forte” nella pianificazione di tipo “strutturale” attuabile attraverso l’imposizione di vincoli e di limitazioni all’uso dei suoli, fornisce un punto di partenza essenziale per le strategie tese a conte-nere il consumo di suolo ed a privilegiare la riqua-lificazione urbana.La componente strutturale del piano comunale, attraverso l’identificazione dei valori ambientali e paesaggistici non negoziabili, la formulazione di previsioni urbanistiche prive di effetti conformativi sull’edificabilità dei suoli, la definizione di un di-mensionamento contenuto in termini assoluti, la possibilità di attribuire una quota significativa di tale dimensionamento all’incentivazione delle po-litiche di riqualificazione urbana, crea i presupposti perché la componente operativa ne concretizzi gli obiettivi strategici realizzando la cosiddetta “so-stenibilità debole”. La componente operativa del piano comunale consente infatti che le strategie basate sulle inibizioni e sulle limitazioni normative siano integrate da incentivi e disincentivi di natura economica, e quindi possano raggiungere livelli superiori di efficacia.Una proposta operativa, al riguardo, prende spunto dai “certificati verdi”, forma di incentivazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili praticata da qualche tempo in molti paesi (alcuni Stati negli Usa, Regno Unito, Svezia, Paesi Bassi) e da qualche anno anche nel nostro. Si tratta di certificati che corrispondono ad una certa quantità di emissioni di CO2: se un impianto produce ener-gia elettrica utilizzando fonti rinnovabili e quindi emettendo meno CO2 di quanto avrebbe fatto un impianto alimentato con fonti fossili, il gestore ottiene dei “certificati verdi” che può rivendere a industrie o attività che sono obbligate a produrre una quota di energia mediante fonti rinnovabi-li ma non lo fanno autonomamente. Il risultato è la creazione di un mercato di “certificati verdi” che porta ad incentivare processi di produzione dell’energia in grado di ridurre i gas-serra evitando un intervento diretto dello Stato.La stessa impostazione potrebbe essere adottata per i processi di riqualificazione urbana, da

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promuovere in opposizione alle espansioni consumatrici di greenfields. In questo caso, essa potrebbe configurarsi nel modo seguente: se i proprietari di aree dismesse o degradate riqualifi-cano le loro aree con progetti rispettosi del carico urbanistico ed ambientale sostenibile, ottengono dal Comune dei “crediti edilizi verdi” che possono rivendere ai proprietari di terreni di futura urbaniz-zazione. Perché ciò avvenga occorre che la componente operativa del piano comunale assegni ai suoli da urbanizzare un indice di edificabilità territoria-le minimo ed uno massimo: l’indice minimo è quello che viene riconosciuto al suolo per effetto della perequazione urbanistica, e quello massimo è quello progettuale da raggiungere quale condi-zione vincolante per la realizzazione della trasfor-mazione urbanistica. I “crediti edilizi verdi”, previsti dal Comune nell’ambito del dimensionamento del piano strutturale, sono riconosciuti dal piano operativo quale incentivo alle proprietà delle aree degradate che attuano progetti di riqualificazione. Pertanto concorrono a finanziare la “città pubblica” senza che sia necessario incrementare le quantità edificatorie, e quindi compensare i relativi costi con la creazione di rendita urbana. Attraverso l’at-tribuzione o la commercializzazione dei “certificati edilizi verdi” la riqualificazione delle aree urbane dismesse o degradate si legherebbe all’espansione urbana, diventandone condizione vincolante. A questa proposta reca un importante supporto la decisione del Consiglio di Stato sul Prg di Roma (cfr. decisione n. 4545 /2010), che afferma la “po-testà amministrativa di governo del territorio, alla quale è connaturata la facoltà di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà non di singoli individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili identificati in termini generali e astrat-ti”, sostenendo, in merito agli indici di fabbricabili-tà, “l’ampia discrezionalità che connota le scelte in materia di governo del territorio”. Ne consegue che ai suoli di nuova urbanizzazione potrebbe essere attribuito, attraverso la perequazione urbanistica, un indice di edificabilità molto basso, aprendo quindi all’acquisto di “crediti edilizi verdi”.

La fiscalità locale - Il sistema contributivo oggi vigente per la trasformazione urbana è sempre quello concepito alla fine degli anni ’70, quando le problematiche urbanistiche erano molto diver-se. All’epoca la pianificazione e gestione dei nuovi insediamenti restava al centro dell’attenzione del legislatore, che solo allora cominciava ad imposta-re le politiche di recupero del patrimonio edilizio.I mutamenti demografici e sociali, le evoluzioni tecnologiche, il principio della sostenibilità, richie-dono oggi infrastrutture ed attrezzature in parte diverse da quelle di allora, e quindi differenti anche nei costi da sostenere per la loro realizzazione.Il finanziamento della “città nella crisi ed oltre la crisi” necessita quindi di essere alimentato meglio grazie ad una moderna revisione del sistema con-tributivo per la costruzione della “città pubblica”.Quanto alla fiscalità locale, in ambito urbanistico si lamenta spesso come il sistema della fiscalità im-mobiliare sia definito dal legislatore privilegiando il criterio del gettito monetario e sottovalutando gli effetti indotti sulla trasformazione urbana. La critica è fondata, anche se non mancano le ecce-zioni, come ad esempio le agevolazioni fiscali per il risparmio energetico. L’imposta comunale sugli immobili (Ici) è uno strumento le cui potenziali-tà per le politiche urbane non sono state ancora sfruttate appieno. Essa evolverà nell’imposta mu-nicipale (Imu) con aliquota minima del 7,6 per mille e massima del 10,6 per mille, superiore ri-spetto all’aliquota media Ici del 6,4 per mille.Qualora l’aliquota più elevata andasse a colpire le aree in attesa di essere edificate - in analogia a ciò che la legge oggi prevede per le case man-tenute sfitte - e la base imponibile dell’imposta approssimasse il valore di mercato delle aree, un proprietario fondiario non potrebbe mantenere un’area edificabile inutilizzata per un periodo di tempo troppo prolungato.Quindi, per effetto congiunto della pressione fiscale e del libero funzionamento del mercato, il cosiddetto “residuo”, ossia le previsioni urba-nistiche della precedente pianificazione non ancora attuate, si ridurrebbe spontaneamente: ai proprietari di aree edificabili non resterebbe

< che intraprendere la trasformazione urbanistica o, nell’impossibilità, di chiedere al Comune la loro riclassificazione come aree agricole. In occasione della formazione degli strumenti urbanistici di nuova concezione e in particolare della compo-nente operativa del piano comunale, poi, solo le proprietà davvero intenzionate ad intraprendere l’intervento sarebbero interessate all’inclusione delle loro aree entro le previsioni attuative quin-quennali.Ridimensionata la quantità di aree edificabili e quindi il volume della rendita assoluta, si potreb-be rendere la riqualificazione più attraente per gli investimenti privati con la “pianificazione coope-rativa” e con l’istituzione dei “crediti edilizi verdi”. Oppure, qualora la proposta di istituire dei “crediti edilizi verdi” fosse giudicata troppo innovativa per la gestione urbanistica e si ritenesse preferibile ricorrere ad una misura più tradizionale, allora lo strumento del “contributo di sostenibilità”, già praticato da molti Comuni per recuperare alla collettività una quota delle valorizzazioni fon-diarie private generate dai piani e programmi urbanistici, consentirebbe il raggiungimento di un analogo risultato.La conversione dei greenfields ad usi urbani po-trebbe essere gravata da una significativa contri-buzione, da intendersi quale compensazione per la perpetua rinuncia, da parte della collettività, ad un bene ambientale operata a scapito della generazione presente e di quelle future. Gli introiti potrebbero essere destinati a rigene-rare i tessuti urbani degradati, soprattutto per quanto riguarda gli interventi di interesse ge-nerale (infrastrutture, attrezzature) o collettivo (disinquinamenti). In questo modo si incrementerebbero i costi pri-vati di trasformazione delle aree di espansione urbana, attenuandone l’attuale squilibrio econo-mico rispetto alla riqualificazione, e si eviterebbe di sovraccaricare gli interventi privati di riquali-ficazione con i costi di ingenti opere pubbliche, e quindi senza che l’Amministrazione debba riconoscere quantità edificatorie aggiuntive per compensarli.

Il primato della meccanica sull’elettroni-ca. Una pubblicità di una marca di stampante mostra due giovani extraterrestri che sbarcati su un pianeta terra, abbandonato e distrutto, vanno alla scoperta degli oggetti che furono della vita quotidiana. Osservano con stupore un lettore dvd senza capire cosa sia e a cosa ser-va e ammirano invece entusiasti una semplice stampa fotografica che ritrae un allegra fami-glia. Il messaggio è che non sempre ciò che è più tecnologico è destinato a durare e che a volte ciò che è più semplice e immediato ha più possibilità di resistere all’usura del tempo.Pensavo a questo episodio mentre giravo per le polverose strade dell’India a bordo di una Am-

bassador, la Rolls Royce indiana, prodotta per la prima volta 50 anni fa e che da allora continua infaticabile a solcare le polverose e sconnesse strade indiane ondeggiando con leggiadria sui potenti ammortizzatori tra una buca e l´altra. Attorno giravano come impazziti veicoli a mo-tore di ogni genere, vecchie Vespe, una specie di motocarro tipo Ape, motorini giapponesi tal-mente essenziali da dubitare della loro capacità di muoversi. Eppure non solo il tutto si muove ma si ferma anche raramente e quando proprio si ferma si ripara facilmente. E così da anni gli indiani girano le strade del loro paese, si arram-picano sulle montagne, trasportano case, cose e persone.Che differenze con le nostre auto ipertecnologi-che tanto preziose quanto fragili. Se avete sulla vostra il dispositivo ESP (quello che corregge la frenata) o il più sofisticato ABS (quello che interviene in caso di instabilità del terreno) vi sarete accorti di quanto delicati possano essere questi strumenti e quante sorprese possano dare. Se poi l’elettronica fa i capricci allora pro-verete anche la sensazione di essere completa-mente impotenti di fronte a tanta presunta per-fezione. Le macchine tecnologiche sono fatte per essere affidate solo ai possessori del sapere tecnologico, difficile da tramandare, spiegare, imitare. Nessuno si sognerebbe mai di riparare da solo un congegno elettronico, piuttosto ci si ferma e si aspetta aiuto. Ma questo non ci rende più fragili?

di MAURIzIO IzzO*

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* Maurizio Izzo. Giornalista.

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